IL VECCHIO CHE RACCONTAVA FAVOLE E ALTRE STORIE

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TeleCiarlo e book 2012





IL VECCHIO CHE SCRIVEVA FAVOLE C’era una volta un vecchio che scriveva favole. Si era così abituato a convivere con i personaggi delle sue storie che quasi non era più in grado di distinguerli dalle persone reali. Era giudicato uno stravagante, a causa del suo modo di fare un po’ eccentrico, dovuto, in gran parte, alla sua enorme distrazione. Immerso com’era nel mondo della fantasia, trascurava la realtà al punto che, spesso, non aveva cognizione neppure degli abiti che indossava. Abitava in uno di quei casermoni-dormitorio nella periferia di una grande città. Sua vicina di casa era una donna che, come lui, aveva superato da tempo i settant’anni, con la quale scambiava il saluto al mattino. Lei di ritorno dalla spesa, lui dalla passeggiata nella nebbia che gli suggeriva la favola che avrebbe scritto quel giorno. Nel suo immaginario, la signora Clara - tale era il nome della vicina - aveva un ruolo fisso: rappresentava la fata della saggezza che risolveva la situazione critica dei protagonisti delle sue favole, per lo più giovani ed inesperti. S’era fatto questa idea sbirciando i libri e le riviste che, periodicamente, facevano capolino sotto le sue braccia al rientro mattutino. Letture inconsuete e forse inadatte per una vecchia signora, a meno che i suoi interessi culturali non fossero notevoli davvero. Queste erano, però,


fantasticherie che, al solito, accompagnavano i suoi embrioni di ragionamento. Nella realtà, di chi fosse veramente la signora Clara, non gliene importava granché. Era una figura funzionale per le sue favole e basta. La sua situazione aveva un che di curioso: scriveva, da quando gli era morta la moglie, una favola al giorno, con grande impegno e curando all’inverosimile la semplicità dei suoi racconti affinché la storia e la morale fossero comprensibili per i bambini cui erano destinate, ma non aveva mai dato da leggere quelle favole a nessuno. Era solo, come la sua vicina e, come lei - come tutti gli anziani abitanti del casermone - non aveva nipotini che venissero mai a trovarlo. Soltanto gente ormai avanti negli anni, taciturna e poco disposta a socializzare. Li sfiorava senza accorgersi di loro, salvo focalizzare la sua attenzione ora su questo ora su quel volto fino a contarne le rughe, per poterlo poi descrivere come quello di un personaggio buono o cattivo che fosse. Tutto qui. Quel mattino decise di restare fuori più a lungo. Amava crogiolare i suoi pensieri sull’idea nascente e, questa volta, la cosa prometteva bene. Gli si stava formando nel cervello una storia nella quale, per la prima volta da quando scriveva favole, i protagonisti non erano persone ma oggetti: un fiammifero spento con la sua paura di finire nel sacco della pattumiera, un barattolo di colla, un libro e un vasetto di vetro. L’idea verteva sul recupero del fiammifero spento ad opera delle mani di un bambino per trasformarlo, insieme a tutti i suoi fratelli recu-


perati, in qualcosa di diverso, una casetta del presepio, ad esempio. Sarebbe stato facile, utilizzare la metafora del fiammifero, le comprensibilissime paure di quest’ultimo per una poco esaltante fine imminente, allo scopo di chiudere il racconto con una morale del tipo "non tutto il male viene per nuocere". Le favole hanno la funzione di educare i bambini. Altrimenti perché scriverle? Rifletteva camminando, come suo solito, senza badare più di tanto al percorso. All’improvviso, nonostante il pastrano pesante e il berretto di lana, avvertì un freddo intenso. Decise, quindi, di tornare sui suoi passi per rientrare a casa. Si rese conto, però, che non aveva più idea di dove si trovasse in quel momento. Il viale alberato e le foglie sotto i piedi erano gli stessi di sempre, ma, tutt’intorno, le case avevano assunto un aspetto diverso dal quartiere ove pensava ancora di essere. Ricordava il suo viale per quanto era lungo, ma non credeva possibile, almeno così gli parve osservando il paesaggio, che potesse sfociare in un viale gemello ed altrettanto esteso. Diede la colpa alla nebbia particolarmente densa ed al freddo pungente che forse aveva definitivamente compromesso il suo già scarso senso dell’orientamento. Per quanto tentasse d’orientarsi, infatti, non riusciva a ritrovare la via di casa. Vide, offuscata, l’insegna d’un bar. Pensò che sarebbe stato salutare entrare in un luogo caldo e poi, (che diamine!), avrebbe chiamato un tassì e si sarebbe fatto portare a casa di volata.


I pochi avventori erano taciturni e pensierosi, davanti alle loro tazze di cioccolata. L’uomo sedette ad un tavolino di fronte ed evitò d’incrociare i loro sguardi. Il cameriere gli chiese qualcosa ma lui non capì una parola. Deve essere un profugo, si disse, che non parla l’italiano. Lo guardò in viso e, a conferma del suo pensiero precedente, notò i tratti somatici esotici e s’avvide che il colore della pelle raggrinzita era olivastro. Indicò le tazze col cioccolato fumante sul tavolo vicino per fargli capire cosa gradiva. Subito dopo lo assalì l’angoscia. Un grosso manifesto era affisso al bancone. Vi erano raffigurati dei bambini che giocavano a girotondo. Lo angustiò il fatto di non essere in grado di leggere e capire le scritte del manifesto, nemmeno i caratteri cubitali, troppo simili a quelle che, un tempo, i ragazzi muniti di bomboletta spray tracciavano sui muri o sulle pareti dei treni. Ma non era nemmeno così: quel manifesto era scritto in modo incomprensibile. Non una delle lettere sembrava ricordargli, nemmeno lontanamente, quelle dell’alfabeto occidentale. Per quanti sforzi facesse non riusciva a trovare una similitudine nemmeno con gli ideogrammi delle lingue orientali. L’angoscia svanì quando il cameriere gli portò la cioccolata. Squisita e calda, pensò ritemprandosi. Uno degli avventori parlò col cameriere ad alta voce. Perbacco, questo non sembrava un profugo, le sue fattezze erano normali, ma, anche lui s’esprimeva in quello strano linguaggio. Il suo disagio aumentò quando la donna, la compagna del primo, accese una sigaretta e gli rivolse la parola. Dio solo sa cos’avesse detto.


Pensò che, forse gli stesse chiedendo se lo infastidiva il fumo della sigaretta, per cui rispose con un cenno che voleva significare "fai pure, non mi dai fastidio", abbozzando un sorriso. Evidentemente, però, fraintese o fu frainteso perché l’altro s’alzò e venne ad urlargli sul muso una mare di parole che, in qualsiasi lingua fossero, non potevano che essere parolacce. Il cameriere, quasi in coro gli ripeté le stesse urla e, senza nemmeno aspettare che pagasse il conto, lo ributtò fuori, nella nebbia. Spintonato, l’uomo che scriveva una favola al giorno, quasi cadde dal marciapiede. Non ebbe il tempo di indignarsi, perché alzando gli occhi vide che l’insegna di quel bar era scritta allo stesso modo del manifesto. Così gli annunci pubblicitari e le confezioni di dolciumi ch’erano nella vetrina. Rinunciò a capire e s’avviò, sconsolato nella direzione che lo avrebbe, così presumeva, riportato a casa. Camminò quasi sul ciglio del marciapiede, voltandosi, di tanto in tanto, nella vana speranza di veder sopraggiungere un tassì. Il freddo gli indusse brividi nella schiena. Anche le gambe gli tremavano un po’. Sedette su una panchina sotto un platano serrando alla gola il bavero del pastrano, per riprendere fiato. Ormai dovevano essere passate le dieci. Un cagnolino dal pelo fulvo gli si avvicinò annusandogli le scarpe. Subito seguito da un bambino che arrivò di corsa per recuperarlo prendendolo in braccio. Il ragazzetto indossava la tuta e le scarpe da ginnastica. Il suo abbigliamento era senz’altro inadeguato al freddo e alla nebbia che pungevano come aghi il corpo del vecchio.


"Non hai freddo?" gli chiese. Il bimbo parve non capire e gli si parò innanzi con aria interrogativa. "Fa freddo", ribadì l’uomo delle favole. "Tu che fai?" gli chiese il bambino. "Mio Dio", pensò l’uomo, "parla la mia lingua, credevo d’essermi infilato in un incubo". "Aspetto un tassì per tornare a casa", rispose. "Dove abiti?" gli domandò ancora il bambino, mentre il suo cane, dopo aver dato segni d’impazienza, gli sfuggì di mano, correndo avanti e indietro sul marciapiede. La domanda scombussolò il vecchio che, soltanto in quel momento si rese conto di non ricordare l’indirizzo di casa sua. "Laggiù" rispose, indicando vagamente il fondo del viale. Si era perso, dunque. "Com’è casa tua?" "E’ grande...", fu l’unica cosa che seppe rispondergli. Ora, con il terrore che gli fece del tutto dimenticare il freddo, stava rendendosi conto di non ricordare, non solo l’indirizzo, ma di non avere più la più vaga idea di come fosse fatta casa sua. "Che fai?"


"... Aspetto un tassì... te l’ho già detto" - che mi porti dove? aggiunse mentalmente l’uomo angosciato. "Me l’hai già detto. Io volevo sapere che fai di lavoro" "Non lavoro. Non lavoro più, sono in pensione. Non mi vedi? Sono vecchio." "Mmm... cos’è la pensione?" "E’ quando ti pagano anche se non lavori più. Dopo avere lavorato per tanti anni, smetti e ti riposi. Questa è la pensione." "Allora non fai più niente?" "Quante domande... sì, non faccio più niente. A dire la verità scrivo le favole". La curiosità del ragazzino si scatenò del tutto. No, lui non sapeva cosa fossero le favole e chiese al vecchio di raccontargliene una e poi un’altra e poi ancora. Il bimbo ed il cane restarono seduti su quella panchina vicino a lui per diverse ore. Il bimbo, affascinato dalle storie del vecchio, non era mai sazio e chiedeva ch’egli continuasse a descrivere quel mondo fantastico che, ora, sembrava materializzarsi sotto i loro occhi. Incuranti del passare delle ore e della nebbia che ormai aveva assunto la consistenza d’un lenzuolo, proseguirono nel loro gioco ancora per molto. Era diventato un gioco per merito del bambino, il quale ad ogni racconto faceva seguire delle variazioni sul tema. Il vecchio abboccava e la favola assumeva nuovi contorni e significati diversi dall’originale.


Il buio li colse improvvisamente. Il ragazzino salutò il vecchio con un "ciao" e prendendosi il cagnolino sotto il braccio sparì. L’uomo s’alzò, avviandosi verso un indirizzo ignoto. *** La signora Clara, scorgendo il vicino lungo disteso nell’androne, ebbe paura che il pover’uomo fosse morto. Gli si avvicinò e s’accorse che il vecchio respirava ancora. "Stia su, la prego" gli disse mentre, faticosamente, gli faceva passare un braccio sotto la testa. "La

fata saggia!...", farfugliò il vecchio, mentre una strana luce gli attraversava lo sguardo. Poi lo vinse l’affanno, un’asma che lo faceva sibilare come un mantice. Lo misero sulla lettiga. La signora Clara gli si avvicinò mentre i portantini stavano per caricarlo sull’ambulanza. L’uomo voleva dirle qualcosa. Accosto’ l’orecchio per afferrarne il rantoloso sussurro: "Una volta c’erano le favole... ricordalo ai bambini, fata saggia!" Clara seguì le luci dell’ambulanza fino a che scmparvero, poi, tornando nel suo appartamento, capì che non era facile per nessuno vivere in questo strano mondo dove i bambini erano diventati, purtroppo, solo il ricordo di un passato assai lontano. Come le favole, del resto.



SPATOLA Daniele era stato soprannominato "Spatola" da suo fratello maggiore, Stefano, a causa della sua passione di spalmar nutella sul pane. Non era goloso esageratamente Daniele, amava, però, passare dei bei minuti a spalmare il cioccolato sulle fette di pane abbrustolito, sul pane fresco, sulle fette di colomba (a Pasqua) e su quelli di panettone (a Natale). Spalmava nutella sui taralli, sulle paste dolci, e persino, talvolta, sulla carta da musica, il fragilissimo e candido pane sardo che suo padre portava di tanto in tanto in casa. Per far questo, usava una piccola spatola, appunto, con la parte prossimale dentellata, e il suo divertimento era quello di creare disegni nel marrone, spalmando copiose porzioni di cioccolato. Quando cominciò a frequentare la scuola elementare, finirono per chiamarlo Spatola anche i suoi compagni di scuola e pure le maestre. A Daniele non dispiaceva affatto essere chiamato Spatola, perché le bambine e i compagni erano sempre attorno a lui per ammirare i ghirigori e sbafarsi fino all'ultima briciola ogni suo capolavoro. Insomma, Spatola godeva d'una certa popolarità. Lo stesso accadde quando cominciò a frequentare, qualche tempo dopo, l'oratorio. Lì, suor Guendalina la catechista, però, gli diede molto da pensare e lo rese triste. La suora parlò d'un brutto peccato che spiaceva a Nostro Signore Gesù : la Gola! Spatola, sulle prime non capì e chiese:


- Scusi, suor Guendalina, ma come può la gola essere un peccato? Ce l'abbiamo tutti, mica possiamo tagliarcela! - Sei il solito impertinente. Sai bene che non parlo della gola che hai sotto il mento! - E di cosa parla allora? - Del peccato d'essere troppo golosi! - Ah! Vuol dire che se mi piace troppo il cibo faccio peccato? Allora perché la mamma mi dice sempre "mangia"? - Voglio dire che bisogna moderarsi e pensare che al mondo ci sono molti bambini della tua età che vorrebbero mangiare a sufficienza e non possono perché non hanno cibo. Non bisogna pensare di soddisfare i propri desideri fino in fondo: un piccolo fioretto fa bene al corpo e all'anima. Tu Spatola ne avresti proprio bisogno, perché sei grasso, non te ne accorgi? - Sì, ma che posso farci? Sto bene. Non mangio tanto. Mangiavo contento quello che potevo, però ora lei mi dice che è peccato, perciò mangerò di meno e con un po' di tristezza. - Non è necessario essere tristi. Bisogna mangiar con gioia e ringraziare il Signore per il cibo che ci dà. Daniele uscì frastornato dalla lezione di catechismo. Pensava "se io devo ringraziare Dio per il cibo che mi dà, se il cibo lo procura Dio, perché agli altri bambini, a quelli affamati, non ne dà tanto quanto ne dà a me?"


Giunto a casa fece una piccola merenda, pane e nutella naturalmente. *** - Signora questo bambino ha dei denti che sono uno strazio. Bisogna che ci stia molto attenta ora che li cambia. - Dottore, se li lava quattro volte al giorno, eppure ha la carie. - Bisogna star attenti al cibo. Troppi dolci, signora, rovinano i denti, lo sappiamo, no? Spatola fu affrontato dal babbo col cipiglio d'una cosa seria: - Daniele, è ora che cominci a pensare alla salute dei tuoi denti: devi mangiare meno dolci e lavarteli ben bene ogni volta che hai terminato di mangiare. - Certo, papà, lo faccio già. Me li lavo spesso e anche tutte le sere prima di andare a letto. - Allora devi rinunciare ai dolci, sennò il tartaro te li divora. - Il tartaro? E chi è? *** - Non muovere la testa ora, è questione di un attimo. Sta buono! -


Spatola credeva di morire. Il dentista, per quanto simpatico e dai modi gentili, aveva in mano una siringa con un lungo ago col quale cercava di bucargli una gengiva. Poi zac! L'ago penetrò e il bambino si sentì formicolare tutta la faccia. Il medico estrasse il molare cariato e glielo mostrò: - Vedi cosa ti combina il tartaro? Basta cioccolata, sennò tutti i tuoi denti faranno questa fine! Aprì con un piede la pattumiera e vi fece precipitare dentro il molare mentre Spatola si sciacquava la bocca. A furia di buoni propositi il piccolo Spatola non solo rinunciò ai dolci ma mangiò con moderazione e, ripensando allo strazio di separarsi dai suoi dentini curò fanaticamente l'igiene della bocca. Quell'estate, vicino al fiume, lui e Stefano trovarono una vena d'argilla. Spatola cominciò a modellare la creta e invariabilmente otteneva sagome di fette di pane che, asciugandosi al sole, sembravano vere. Poi prendeva dell'argilla umida e ve la spalmava sopra mugolando di piacere come se si trattasse di nutella. - A casa le colorerò! - disse a suo fratello - Almeno queste non ti fanno cadere i denti! Sì, prova a morderne una e poi vedrai, ehe ehe ehe eh !!! *** Quella notte non riusciva ad addormentarsi.


La lingua s'ostinava a toccare un microscopico buco apertosi nell'ultimo dente da latte che ancora non era caduto. La carie, pensò, potrebbe rovinarmi i denti nuovi. Forse è meglio che me lo faccia estrarre. Ma l'idea di un'altra iniezione in bocca lo terrorizzò al punto che, presto, si sforzò di pensare ad altro. Michele il suo compagno di banco, aveva i denti bianchissimi e senza nemmeno una carie e sbafava tanta nutella da far schifo. Lui la nutella erano mesi che non la mangiava più, e nemmeno le caramelle e i biscotti farciti. Solo il gelato di tanto in tanto, e pure quello, quando batteva sul dente bucato gli faceva vedere paesaggi tipo guerre stellari dal dolore! Pensò alla maestra. Anche lei aveva denti molto belli. Il suo sorriso era formidabile, lo metteva di buonumore e gli dava sicurezza. Voleva bene alla sua maestra come alla mamma. Anche lei gli diceva spesso: attento ai denti, Spatola! Uff! Era una congiura, anche i pensieri a parlar di denti ora! S'addormentò e sognò una focaccia enorme appena sfornata e un barattolo di nutella. Nel sogno riuscì a spalmare più strati di cioccolato senza far sbavare nemmeno una goccia sul tavolo. Poi costruì con la nutella al centro della focaccia, sull'altra nutella, un arzigogolato minareto. Sembrava una torta che aveva visto nella pasticceria di Genoveffa. Miracolosamente si moltiplicarono i barattoli di cioccolato: allora come in preda alla furia creatrice cominciò a spalmare di nutella il mondo. Si vide in Africa, ove spalmò di nutella il corno d'un rinoceronte e la criniera d'una zebra, al polo sud, ove lasciò nutella in abbondanza ai pinguini, tanto loro i denti mica ce li avevano! Poi vide i volti di molti ragazzi affamati, d'ogni età e d'ogni colore e la sua scorta di nutella si rivelò insufficiente e poco


gradita. Si svegliò sudato e piangente. La mamma gli andò vicino per ascoltarlo e lui le raccontò dello strano sogno. Stefano nel lettino accanto, rideva come un matto. Spatola s'irritò: - Perché ridi? - Ma ti sei visto? Hai una guancia che sembra una mongolfiera, sei molto ridicolo. - Cos'è una mongolfiera? - Un pallone che vola in cielo, molto grande! -Ah! La mamma sorrise a sua volta e preparò una medicina per Spatola. Daniele sapeva che il dentista lo stava aspettando: quel gonfiore era segno che il dente doveva essere tolto. Si riaddormentò. Spalmò di cioccolato il palazzo comunale, la chiesa grande, la chiesa piccola, la piazza del mercato, il viceparroco, il vigile urbano, il ponte, la stazione ferroviaria, il postino, l'erbivendolo, Stefano, Michele, suor Guendalina, persino il tendone del circo e, finalmente, si leccò la spatola assaporando con gusto la cioccolata fondente. Che faticaccia! *** - Spatola, cosa farai da grande? - Il dentista, naturalmente! -




IL CORISTA

Per un momento si illuse di poter evitare la caduta. S’accorse della vicinanza d’un ramo al quale aggrapparsi, ma il vento improvviso allontanò la pianta. Gli parve che il vento stesse ridendo di lui. Mancò la presa e precipitò. L’inizio del volo verso il fondo lontanissimo fu di una dolcezza inimmaginabile, quasi un galleggiare nell’aria tiepida, ma la luce del tramonto fu inghiottita dalla voragine così che, all’effimero crepuscolo, si sostituirono rapide e fittissime, le tenebre. I contorni del precipizio sparirono dalla sua vista, così come il residuo chiarore del cielo, lassù. Percepì i sussurri dell’aria mentre, finalmente, realizzò che stava cadendo nel vuoto. Sensazione vecchia per lui, già provata milioni di volte. Provò impazienza, stanchezza ed il solito latente rancore. ”Amo la musica di Beethoven, mi piacciono l’allegria e l’armonia di quella musica, adoro la sua maestosità.” ”Ami la musica… ergo ami Beethoven!” ”Perché l’ouveture del Fidelio viene eseguita solo in occasioni tragiche? Perché risuona ora nel mio cranio come preannunciasse la fine imminente di un sogno?. Canta mamma, canta, ti prego. Cantami una ninna nanna. Vorrei ascoltare la canzone di Fiordiligi che mi cantavi quand’ero piccolo.” ”No, ma che ti viene in mente? Non posso, c’è tanto da fare qui, non vedi?” ”Ti prego, mamma, cantami una canzone allegra. Magari quella che cantasti ieri.” ”Non era una canzone quella, bambino mio.”


Percepì, nettissima, l’accelerazione. Capì l’incongruenza dello scagliarsi contro un bersaglio remoto, irraggiungibile. Ebbe paura del buio e istintivamente cercò d’assumere una posizione fetale. Poi, incontenibile, provò il desiderio d’urlare. Urlò, finalmente, ma non udì la sua voce frantumarsi contro le pareti del burrone. ”Per la miseria, mamma! Cosa si può cantare se non una canzone?” ”Una filastrocca, un’aria, un lied, una romanza e tant’atre cose.” ”Un accidente! Sempre canzoni sono!. O no?” ”Sì. hai ragione caro: sempre canzoni sono.” Respirare divenne via via più difficile. Come riflesso in uno specchio concavo si vide bianco e calvo. Gli occhi grandi e bitorzoluti come quelli d’una mosca. La bocca una ferita oscena nel volto scarno, gli zigomi enormi ed esangui. immaginò il suo corpo scomposto come le tessere d’un puzzle. Scacciò la fastidiosa immagine dalla mente e si concentrò sulla respirazione. Era come voler controllare i movimenti peristaltici del suo intestino, impossibile. Fitte terribili gli artigliarono la gola. Provò tanta arsura. Quindi, inaspettato, un mondo di suoni s’infiltrò nel suo cervello: musica, tantissima musica. ”Ecco il regalo del babbo per il tuo compleanno.” ”Grazie. Lui dov’è?” ”E’ dovuto ripartire ieri, lo sai. ma ti ha lasciato davvero un bel regalo, vedrai.” ”Già. è dovuto ripartire. Al solito. Cosa c’è nel cofanetto?”


”Aprilo su. è un dono che ti piacerà di sicuro.” ”Les Simphonies de M. Louis de Beethoven. Louis??? Luigi???. mamma, ma Ludwig non significa Lodovico?” ”Come no? Ma Lodovico e Luigi hanno lo stesso significato, quindi per la proprietà…” ”….Transitiva?… Mah!” La musica si fece dolcissima. Le note della Cantata 147 di Bach aleggiavano nell’aria sospinte da mille flauti e da un coro di bimbi. ”Giovanni Sebastiano Bach.”: ne farfugliò il nome, felice per averlo riconosciuto in quella confusione. cominciò a sua volta a cantare sussurrando tra e lacrime ”Jesus Bleibet meine Freude.” ”Bach” pensò ancora e sorrise. Immaginò il compositore imparruccato che su una bici da corsa praticava il faticoso esercizio d’inseguire. l’anno liturgico. Una corsa a tappe costellata di vittorie. Ora il brano s’era trasformato nel coro poderoso dell’Aida. I tenori e i bassi urlavano dell’immensità di Ftah. Tentò di accodarsi ma udì la sua voce frantumarsi come una lastra di ghiaccio sottile rotta da un sasso scagliato con forza. Provò ancora, cocciuto come al solito, senza badare alle smorfie di disgusto e all’aria accigliata del Maestro. Doveva farcela. Eccola la sua voce, diventare poderosa finalmente. La sua gola era libera d’esaltarsi in una cattedrale vuota e colma d’echi: ”Confutatis maledictis!” Grandiosa esecuzione, avrebbero scritto i giornali all’indomani. Gli aghi che decisero di perforargli l’ugola non gli impedirono di percepire la moltitudine di voci che s’univano alla sua, mentre la musica mutava ancora. Il vento batteva il tempo come mille anni prima. ”Freude Schoner Gotterfunken.”: era il suo amatissimo


Lodovico dell’Orto delle Rape! ♦♦♦ ”Sta morendo.” ”Misericordia. era cominciato tutto come un banale mal di gola.” Un lampo vermiglio attraversò la fuliggine di quell’interminabile budello. Timpani lontani ed incalzanti. Borodin. Borodin? Straniero tra gli angeli. Che furto! ♦♦♦ D’improvviso si fece silenzio assoluto. Gli spartiti del Te Deum di Berlioz furono aperti sul Judex Crederis. Il cipiglio del Maestro era solenne. L’enorme doppio coro e l’orchestra aspettavano l’attacco. Era la prima lettura di un’opera difficoltosa ma bellissima. ”Gesù. io sto morendo. e tu mi parli di Berlioz?” ♦♦♦ Vortici gorgoglianti avvilupparono il suo corpo. Ebbe la visione d’un pandemonium tragicomico. Ascoltò e riconobbe tutte le armoniche dell’impatto. Vide il suo cuore fuoriuscirgli, ancora palpitante, dal torace e i suoi occhi gonfiarsi a dismisura tanto che le orbite non li contenevano più. Di nuovo percepì il lampo vermiglio. Ite missa est. basta, per favore.


La natura è pietosa e meticolosa. Nessuno immagina quanta musica vi sia nel dolore. Anche il proiettile fischia la sconosciuta armonia prima di massacrarti le carni. Il vento, per l’ultima volta s’impadronì delle sue orecchie, sussurrandogli delicatissime variazioni sul tema del ”Girotondo”. ”Oh Ludwig, la senti anche tu?” ♦♦♦ Pensò con orrore che l’avrebbe ritrovato un cane. L’idea lo terrorizzava. ”Perché ho tanta paura degli animali, mamma?” ”E’ un’innocua fobia. Crescendo ti abituerai all’idea che gli animali non sono cattivi.” ”Neanche i lupi?” ”Neanche loro. poverini.” ”Ma io non voglio che mi ritrovi un cane!” ”No, non sarà come pensi. ti copriranno le foglie. E’ l’Autunno, ricordi?” ”Io voglio che siate voi a venirmi a cercare, papà. Mi ritroverete facilmente questa volta. Non posso più scappare.” ”Certo, verrò a cercarti. Porterò con me i tuoi amici del coro.” ”Grazie. E tu, mamma, verrai?” ”C’è tanto da fare qui. però vedrò di esserci.” ”Lascia perdere.”


Sarebbe venuta comunque, ne era persuaso. Fu la sua ultima consapevolezza. ♦♦♦ Mille ombre lo attorniarono. Scorse il movimento d’un archetto. Udì accordare gli strumenti d’una orchestra che intuì grandiosa, sul LA dell’oboe. ”The trumpet shall sound!” Cantò finché un sipario di sangue calò nella sua gola. In quel momento, il Coro, diretto da Giorgio Federico Haendel in persona, esplose nell’ultimo HalleluJah.



L'INCIDENTE Il cartello elettronico lampeggiava mettendo sull'avviso gli automobilisti: attenzione coda di 3 km! Il sole, quel pomeriggio, aveva deciso di fare gli straordinari. Disponendosi in asse con il tratto d'autostrada che stavo percorrendo a passo d'uomo, aveva trovato il modo di infastidire la carovana di cui facevo parte, ora dardeggiando, ora abbagliando. S'era messo sull'orizzonte come uno specchio ustore ottenendo il temporaneo accecamento dei guidatori in colonna. Le fila si serrarono e fummo irrimediabilmente fermi. Invocai un'improbabile eclissi o un'altrettanto improbabile nuvola. L'andirivieni d'ambulanze e camionette dei vigili del fuoco, concitato su entrambe le corsie di marcia, il baluginio delle rotolampade, il salmodiare delle sirene, ottennero l'effetto di propagare, moltiplicandola, l'impazienza che si era impadronita dell'intera carovana in sosta. Presto alcuni sportelli delle vetture e dei camion furono aperti e, sull'asfalto, i curiosi sollevavano inutilmente il capo al fine di individuare la causa del blocco. Puntuali, giunsero alle mie orecchie le prime bestemmie. L'asfalto semiliquefatto sprofondava sotto le suole emanando il caratteristico odore di carne lessa in un brodo d'ammine aromatiche. L'olandese, pesante e sudato, con un salto, scese dal lato opposto al posto di guida, dal suo mastodonte, finendo su un piede di una signora vestita di nero che sostava nei pressi di una vecchia Mercedes sventagliandosi. L'impatto provocò le urla delle donna per un dolore che lei stessa definÏ insopportabile. Il marito della donna corse repentinamente verso i due, non per soccorrere la moglie, ma per aggredire quel bestione


biondo alto mezzo metro più di lui. Nel parapiglia che ne seguì, la Mercedes fu ridotta ai minimi termini, l'ometto aggressivo si ritrovo' con due denti in meno e la bocca sanguinante mentre l'olandese incredulo si guardava il pancione da cui sporgeva il manico scheggiato di un cacciavite. Si riaccapigliarono e, ancora una volta, nessuno dei numerosi automobilisti presenti ebbe la voglia o la forza di cercare di separarli. I due se le stavano dando di santa ragione, ma l'olandese perdeva colpi, affannava, arrancava mulinando le braccia. Allertai con il mio cellulare il 118: presto l'olandese sarebbe stramazzato al suolo, poiché la sua maglietta bianca, ora, cominciava ad evidenziare una macchia cremisi e untuosa che si dipartiva da sotto quel manico che fuoriusciva dal suo ventre in modo quasi osceno. Con terrore mi accorsi che un altro TIR si era spostato sulla corsia d'emergenza alle mie spalle bloccandola completamente. Ero ancora in linea con l'operatore del 118 quindi lo informai anche di questo particolare. Un minuto dopo, come previsto, il grasso olandese cadde riverso tra il suo camion e la macchina che lo precedeva. L'ometto si lisciò a fatica i baffetti sudati e si terse il sangue dalla bocca, guardandosi intorno, tronfio come un trapezista alla fine della sua evoluzione senza rete. Ma l'aria di trionfo lasciò il posto prestissimo al deliquio, sicché cadde anche lui come un macigno, urtando il capo contro il piede sano della moglie che su di esso si puntellava malferma e ancora urlante. Un ultimo, spasmodico e, per certi versi comico, urlo le uscì dalla gola, dopodiché anche lei cadde riversa. In quella, un signore occhialuto che brandiva una borsa da chirurgo esibendola a mo' di lasciapassare, si fece largo tra la folla di curiosi, sbraitando d'essere un medico.


Mentre il medico portava soccorso alle persone giacenti sull'asfalto, m'accorsi che due poliziotti sopraggiunti in motocicletta stavano facendo muovere il TIR che alle nostre spalle aveva parcheggiato nella corsia d'emergenza. Per un attimo vi fu un silenzio innaturale, tanto denso che potemmo distinguere il canto delle cicale che, nei campi che fiancheggiavano l'autostrada, inneggiavano all'estate. Arrivò netta alle mie orecchie l'imprecazione del medico che, agitando le braccia verso il cielo diceva che - Cristo! - non poteva crederci, ma i due uomini erano proprio morti. Dopo mezz'ora un'ambulanza caricò la donna e s'allontanò a passo d'uomo verso un ospedale, mentre la lunghissima coda, di cui io rappresentavo la propaggine estrema, riprendeva a muoversi incitata da nervosi gesti di sei o sette poliziotti. L'atra, formatasi dietro la Mercedes e il TIR avrebbe penato ancora qualche tempo. Chissà perché mi trovai a fantasticare. Mi chiedevo se quei due ultimi morti e quella povera donna dai piedi due volte frantumati, avrebbero fatto parte delle statistiche delle vittime del traffico di questo week-end d'agosto. Aumentai l'andatura, ansioso di nascondermi da quella luce che diventava insopportabile. Egoisticamente stavo pensando che m'era andata bene, con due morti avrei potuto essere trattenuto come testimone. Riflettevo sull'assurdità dell'episodio al quale avevo assistito. Credo che anche il sole, nello stesso momento, avesse i miei stessi pensieri e provasse lo stesso disgusto: lo dimostra il fatto che decise di tramontare seduta stante.



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