Giuseppe Butera
La landau azzurra ed altri racconti
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Beppe Trasuegi첫
La landau azzurra ed altri racconti
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Io sono un saraceno di Sicilia da secoli scontento un antico ramingo che ha pace solo se va Mario Gori
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Indice La landau azzurra .......... 9 Giovanna e ................. 117 Cronache estemporanee 147 Pensieri e parole .......... 209
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La landau azzurra Eleuteria ......................................................................... 11 Blanca ................................................................................ 19 Soraia .................................................................................. 33 Amalia ............................................................................... 43 Pamina .............................................................................. 55 Perla ...................................................................................... 65 Rorò ....................................................................................... 89 Mafalda ...................................................................... 105
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Eleuteria
Mi piacque fin dal primo momento in cui la vidi. Un vero colpo di fulmine. — È eccezionale. È bella davvero. Ti farà felice. — João sapeva dire le cose. Come riusciva a convincere le persone con poche parole! Per questo gli affari gli andavano a gonfie vele. Del resto non c’era poi tanto bisogno di parole. Era da mozzare il fiato. Grande, azzurra, rifiniture cromate, aria condizionata, rivestimento interno lussuosissimo. È vero che l’ultimo proprietario doveva averla trascurata alquanto. Il sedile un po’ sdrucito, cosa peraltro quasi impercettibile, e con alcuni buchini lasciati da cicche maldestre... — Se vuoi, puoi fare come me, io compero solo questi modelli fuori moda, li metto perfettamente in regola, pago l’assicurazione più cara che ci sia, li mando a ripulire per benino, ci passo addirittura la cera da me, insomma, li rimetto su nuovi fiammanti, poi li porto a Corumbà e li vendo ai boliviani a metà prezzo. Me ne torno in treno e sporgo denuncia per furto. Sapessi quanti ce n’è di furfanti che si fanno i soldi a palate...
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— No, no, per me va benissimo così. E poi penso di farne un regalo. Sai, una bella donna si merita qualcosa di principesco come questo. — Beato te. Da parte mia penso proprio che, dopo tutto, devo accontentarmi di quel che ci ricavo. Non si può aver tutto dalla vita... Beh, alcuni dei generosi consigli di João li ho ascoltati. La landau se lo meritava, era la regina delle Ford. Il fatto che non producessero più quel modello era un ottimo motivo per tenersela cara e conservarla bene. La cappotta nera, sotto l’amoroso massaggio al silicone, venne fuori austera e brillante come doveva essere, nuova di zecca, appena uscita dai capannoni di Santo André. L’azzurro della scultorea carrozzeria sbocciava vivido e scintillante al sole compiacente del dicembre ormai inoltrato. La cera morbida e trasparente ne aveva accarezzato a lungo le curve generose e gli spigoli già smussati apposta fin dalla catena di montaggio per conformarsi all’insistente andirivieni della flanella. Ne ribalti il cofano gigantesco e ti trovi davanti il monumentale motore da otto cilindri che ti fissa con la prosopopea d’un lord inglese. Le ruote si pavoneggiano con le gomme tronfie, a stento contenute dai cerchioni lucidati a specchio... L’ammirai a lungo mentre i manovali l’alloggiavano sul treno, con le trepidanti occhiate delle nonne che cedono il neonato all’infermiera per il primo bagnetto. O con gli sguardi gelosi dell’innamorato che permette a malincuore che la sua ragazza balli con altri, facendo buon viso a cattivo gioco. Sguardi lubrici, forse, ma lunghi e impotenti perché non riescono a controllare i
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movimenti delle mani altrui e la forza del pensiero, d’altronde, non potrebbe giammai sostituire la sicurezza del contatto diretto. Salii sullo stesso treno. La cabina non ricordava neanche lontanamente un Orient Express, ma era sufficientemente comoda. Lo scartamento ridotto della ferrovia installata dagli inglesi sessant’anni prima, però, rendeva un vero incubo le dieci ore di furibondo sballottamento che tagliava alla cieca il buio pesto della notte brasiliana. La luna era infatti eccezionalmente assente dal suo posto consueto d’impietoso chiarore. Dietro una spessa coltre di nubi dormiva forse anch’essa, come del resto tutti a quell’ora, o forse insonne scommetteva sul momento in cui sarebbe scoppiata l’inevitabile tempesta. Ma l’aria greve reggeva. E così per tutta la notte. Anche se confinati nel lettino frullatore, i pensieri, tra i brevi e ingarbugliati sogni, facevano la spola tra Eleuteria, obiettivo e meta di quella folle impresa, ed il grande gioiello che portavo dietro quieto e silenzioso, incatenato nell’ultimo vagone. Le piacerà? Sicuramente. E come potrebbe non piacerle? E che succederà dopo? Mille domande. Mille fantasticherie... La discesa dalla rampa fu solenne e trepidante come quella d’una miss con tanto di manto e corona, lungo la scalinata imperiale montata ai piedi del recente trono. Sbrigai immediatamente le pratiche del riscatto e mi infiltrai pazientemente in un nugolo di piccoli venditori di chiclet, pamogna , choclo, pollo arrosto, sopa
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paraguaya, archi e frecce, cocar d’indiani... che prendevano di assalto i passeggeri in arrivo o in partenza ed i loro parenti, i ferrovieri, i facchini e persino le guardie che si accingevano a timbrare i passaporti di chi sperava di varcare la frontiera. L’aria condizionata leniva i nervi tesi da quella lentezza forzata e dall’ansietà prodotta dal pericolo di graffi o ammaccature sull’immacolata carrozzeria. La tempesta mi colse sulla strada di Puerto Suarez. Ero arrivato alla frontiera come un importante diplomatico, o che sia pure, come uno dei suoi autisti. I documenti in perfetta regola. Avanti, adagio. Il torrente Concepción e siamo i n Bolivia. — Buenas tardes, Señor. Documenti? — Il soldatino sparisce nell’ufficio-capanna di legno. Che staranno confabulando là dentro? Di sicuro cercano una maniera di spillarmi dei soldi. — Los documentos rimangono con noi. Circolare. — Lo stesso sguardo di pietra, fisso e sperduto insieme. — E come faccio a circolare? Devo ancora imbarcare la macchina sul treno per Cochabamba e correre all’aeroporto per il volo delle diciassette. — Arregla? — Arreglo. — Non c’è niente che una buona mancia non possa “arreglar”. Ancora un bel po’ di strada polverosa e piena di buche e poi, finalmente, l’asfalto. Ma anche il diluvio. Senza preavviso, senza vento, senza tuoni né lampi. Una
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cascata per alcuni chilometri quadrati che lascia presto ai margini della carretera molti di quei pezzi da museo che varcano ogni giorno il confine fra i due paesi. Il mio bel colosso, invece, procede imperterrito con i fari a fendere il buio improvviso e la cortina d’acqua che gli precipita ininter-rottamente attorno indisturbata. All’entrata di Puerto Suarez, però, il mio splendido mezzo anfibio si blocca all’improvviso. Con tanti cavalli, il motore silenzioso e contenuto, non si imbizzarrisce e non scalpita. Semplicemente tace del tutto e si ferma. Lo scroscio prosegue senza cambiare tono. Dovrei girare a sinistra per la stazioncina di Paradero, lassù, a poche decine di metri. Sarò costretto invece a scendere verso destra per imbroccare il lungo rettifilo che da anni viene preparato per l’asfaltatura. Mi sobbarco dunque all’ingrata incombenza di uscire dal confortevole rifugio, per cercare di spingere il colosso. Giro la chiave e niente: il gigante non si smuove neppure di un dito. Sotto il diluvio, trovo ancora un volenteroso Noè disposto ad aiutarmi a varare la mia “arca”, naturalmente dietro lo sgancio d’una manciata di pesos (inzuppati anch’essi). Invogliato dalla discesa, il motore si sveglia, come se niente fosse successo. Mi fermo però, a mio malgrado, sull’orlo del ponte — crollato pochi minuti prima — sul Desaguadero, affluente boliviano del torrente Concepción , che adesso si somiglia fin troppo alle rapide del fiume Niagara, prima di sfociare nelle famose cascate. Faccio l’impossibile per non far morire il motore bilanciando magistralmente tra freno e frizione che boccheggiano in tanta acqua come mai in vita loro. Ma,
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naturalmente, non è tanto la vita della macchina che m’importa, quanto quella dell’autista. Marcia indietro e su, verso la carretera d’asfalto. Inutile andare alla stazione, devo trovare una maniera di entrare in città per passarvi la notte. L’aereo pernotterà anch’esso nell’aeroporto là vicino. Trovo, più avanti, un viottolo ricavato tra la vegetazione che invade fitta tutto il bacino del fiume Paraguay. Mi accodo ad una jeep che mi fa strada su d’una poltiglia di erbe, di radici e di fango, raggirando il torrente fino all’entrata nord della cittadina. Mi accomodo alla meno peggio in un alberghetto della mala morte, senza tirare troppo per il sottile quanto al colore delle lenzuola e del bagno. Mi accontento del ventilatore che rimane a girare tutta la notte nell’ingenuo quanto inutile tentativo di spaventare le zanzare del posto, micidiali e beffarde, sprezzanti di quante barriere mi accanissi a frapporre: lenzuola, calzini, vestiti, berretti. Mi addormento, a dispetto dello stillicidio del loro ronzio, sommato a quello del ventilatore — più rumore che vento —, del sudore profuso dai panni e dall’ambiente umido e surriscaldato, nonché dell’incertezza dell’immedia-to futuro. Mi sveglio madido di sudore e assillato dall’impegno principale della giornata. Il sole dominava la baia e la vegetazione lussureggiante sfoggiava quel verde aggressivo, ora ripulito per benino dall’acquazzone. Nessuno si sarebbe neanche più ricordato della tempesta recente, non fossero rimaste macerie e detriti da tutte le parti. La ferrovia aveva sofferto gravi danni in
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vari punti degli innumerevoli chilometri di percorso ed era assolutamente impraticabile. Dovetti perciò rassegnarmi a lasciare la macchina presso un conoscente, dove sarebbe rimasta fino al momento di poterla rimettere sul treno. Così presi l’aereo e un’ora dopo ero da Eleuteria. Lei mi accolse con una felicità contagiante. Ci amammo come pazzi furiosi e, nell’acme degli spasimi orgasmici, riuscii a raccontarle, a spizzichi, l’avventura che avevo dovuto affrontare per portarle il regalo rimasto appresso. — Che regalo? — Una landau. — Una landau? E che me ne faccio di una portaerei. Ne avrei preferito una piccola ed economica. Me ne tornai via senza proteste né lacrime. L’amore per Eleuteria finì di colpo. Il ritorno fu più avventuroso e pieno di imprevisti dell’andata e meriterebbe un altro racconto, ma lasciamolo per un’altra volta e solo se ci tenete davvero. Fatto sta che adesso mi è passata da tempo la rabbia e lo scorno. Pensandoci bene, anzi, non è poi stato un gran disastro. Infatti, la mia landau è sempre con me, azzurra e luminosa come non mai. Ho rimodernato i sedili, ho cambiato i freni e la frizione, ho rettificato i cilindri e la testata, ho fatto smerigliare le valvole e le candele, ho cambiato persino il girabacchino, con bielle e pistoni
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quasi nuovi. L’aria condizionata è ancora in forma: basta cambiarle ogni tanto il gas. E così posso portarmi a spasso tutte le ragazze che voglio (e che lo vogliano). E il motore non s’inceppa più. Ammenocché qualche bel pezzo di figliola non ne giustifichi un’improvvisa panne, apparentemente casuale, da provocare in un posto tranquillo e sicuro. Un ménage-à-trois, insomma: lei, me e la landau.
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Blanca Lo stesso FairChild dell’andata mi accolse ancora parcheggiato, questa volta, sulla spianata d’asfalto dell’aeroporto Jorge Wilsterman di Cochabamba. Le turboeliche in brillante lega d’alluminio, ritte sulle lunghe ali, conferivano un tocco di giovialità al muso lungo e sornione del vecchio velivolo che se ne stava ad aspettare con quell’aria sommessa e insieme comprensiva, dell’ancor arzillo condor, da tanti anni avvezzo a guardare il mondo e gli uomini dall’alto in basso mentre spazia su catene andine e su lande amazzoniche. “Lo sapevo che saresti tornato, scornato per giunta” sembrava ridacchiare. “Ah, le donne, le donne!...” sospirava, forse. Ma non stavo reclamando un bel nulla. Sapevo anch’io che la stizza sarebbe passata presto. D’altronde il suo ronzio mi concesse un benefico, e forse intenzionale, sonno profondo e innocente, a dispetto dell’esiguità della poltrona e dell’andirivieni di hostess frettolose e di passeggeri incontinenti.
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L’aeroporto di Puerto Suarez, a quei tempi, era ancora di terra battuta e l’estensione ridotta della pista era compensata da una considerevole inclinazione che i piccoli aerei prendevano di petto per ridurre drasticamente la velocità dell’atterraggio. Impassibile ai sobbalzi sui sassi sotto il carrello, attutiti anzi che no da tappetini d’erba che insistevano da tempo immemore nel volersi trasformare in un grande prato, mi apprestavo, ancora insonnolito e con le gambe intorpidite, ad affrontare la via del ritorno a casa insieme alla mia Landau. Non immaginavo neppure che mi aspettasse un ulteriore intoppo all’Inmigración. Il gendarme tarchiato e panciuto dalla divisa sbrindellata che controllava il passaggio della dogana, infatti, volle dare un’occhiata al passaporto, solo al mio, nonostante si trattasse d’un volo nazionale. Ma il peggio fu che volle trattenerselo e, alle mie timide rimostranze, mi condusse in silenzio verso lo sgabuzzino del fondo dove c’era un vecchio in maniche di camicia seduto dietro una fila di timbri e di scartoffie, come se quella stamberga e il suo stracco titolare appartenessero davvero a un dipartimento ministeriale. — És él! — Fece il batuffolo, puntando il dito verso di me. Che vuol dire che sono io? Chi sarei, secondo lui? Cosa stanno cercando di combinarmi adesso? — Pero, Don Justiniano, — la mia presenza di spirito mi salvò. Il nome l’avevo imparato a memoria a furia di vederlo scritto sul mio documento, ogni volta che andavo a trovare la mia bella — No se acuerda de mí? Sono l’amico del Tila, il fratello del suo collega Ambrosio, della Aduana.
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Non si ricordava, ma fece finta di sì. D’altronde il giovane e intraprendente Ambrosio lo conosceva benissimo. Grane garantite... Non c’era bisogno di motivi. E sapevo cosa sarebbero stati capaci di farmi se mi avessero sbattuto in una di quelle leggendarie celle da cui, a quei tempi, s’usciva soltanto per farsi un bel viaggetto in elicottero verso il tuffo finale su qualche dicco dell’Illimani, chissà. O esser “suicidato” a suon di botte in uno di quegli scantinati modello Inquisizione spagnola. — Arreglo? — No, no se necesita — risposero in coro i due figuri. Stavolta no, è chiaro. Avevano il carbone bagnato. Me ne andai difilato a casa del Tila dove trasalii immediatamente dalla gioia al vedere tra i cespugli del giardino la mia bella Landau. Eleuteria oramai non era più altro che un ricordo fastidioso. Devo dire però che il cuore mi si rimpicciolì alquanto, al considerare lo stato pietoso in cui pochi giorni di lontananza dall’occhio del padrone avevano ridotto quello splendido oggetto del desiderio. Sotto gli effetti delle piogge e del sole spettacolare di quel periodo dell’anno, infatti, tutta una rigogliosa e aggressiva vegetazione tropicale aveva reso quel ridente angolo di paradiso un vero e proprio “orto di Renzo” di proporzioni colossali, come se fosse un pezzo di giungla con i relitti d’un aereo precipitatovi in mezzo. Ed il gelso maestoso, alla cui ombra El Tila aveva spinto la macchina, s’era incaricato di cospargervi una pioggia
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continua di succulenti e morbidi frutti che si erano spappolati sopra, facendo della sua tersa e azzurra superficie un’enigmatica opera degna dei migliori “macchiaioli”. Gli ingordi uccelli della ricchissima fauna “pantaniera” avevano completato il capolavoro con i resti delle squisite e variopinte ghiottonerie. Il tutto consolidato dall’impalpabile polverone sollevato dai veicoli e dai passanti delle stradine intorno che aveva creato, insieme agli altri ingredienti generosamente offerti dalla natura, una crosta assolutamente infrangibile, autentica porcellana di consistenza corallina che manteneva imprigionata la mia perla come un’ostrica dei mari del Giappone. Era scesa la sera e volevo passare la notte a Corumbá, nel versante brasiliano, dove avrei trovato un albergo un po’ meno sgangherato di quello dell’andata. Ringraziai perciò il Tila e m’insediai subito al posto di comando della mia magica nave, checché ne suggerisse l’aspetto esteriore. Niente. Il motorino d’avviamento si rischiarava la voce, tossiva un po’ e... niente. Il Tila dovette sobbarcarsi anche l’onere di darmi una spinta. Riuscii così a venir fuori dal cancello, prendere la rincorsa sullo scivolo e immettermi nella via. Altri tossicchii, altri singulti, altre fermate, a dispetto della ripida discesa verso il fiume. L’ultima fu proprio sul bagnasciuga, dove minuscole onde nere, luccicanti, vennero a lambire le ruote dell’auto sospirando il loro
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sciabordio con il palpitante abbandono di un’amante appagata. La fatica e la delusione svanirono d’incanto nel vedermi attorniato da una nuvola di scintille che si materializzavano dal nulla e subito dopo si spegnevano nell’aria tiepida e palpabile. Erano lucciole che mi davano, a migliaia, un insperato e fantasmagorico benvenuto, indifferenti ai miei crucci. Ma chi riuscì a distogliermi definitivamente da quello stato di grave prostrazione, fu ancora il Tila che sgusciò fuori dalle tenebre in compagnia del giovane comandante d’una guarnigione vicina. Dietro di loro apparve un intero battaglione di soldati, tutti in alta tenuta, impettiti e impeccabili come se fossero pronti per una parata, nonostante fosse già notte fonda. Mi ricordai allora che all’indomani il presidente della repubblica sarebbe venuto in visita solenne alla città e dovevano essere rimasti a prepararne l’accoglienza. Ad un ordine del capitano, mi misi interdetto al volante, e con il motore in folle mi sentii subito levitare: decine di braccia, in un battibaleno, mi portavano come in trionfo, a marcia indietro, su su, fino in piazza, mentre tante voci virili cantavano l’inno nazionale: Bolivianos, el hado propicio coronó nuestros gratos anhelos Es ya libre, ya libre este suelo, ya cesó su servil condición...1 1
Boliviani, il fato propizio / ha coronato i nostri voti ed aneli / È ormai libero, è libero questo suolo, / è ormai finita la sua condizione servile...
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Cantai anch’io a squarciagola dall’alto della mia estemporanea lettiga, non senza prima ricordare a me stesso che, alla fin fine, l’autore ottocentesco del pezzo musicale era stato Benedetto Vincenti, anche lui un italiano vero. Dopo l’atterraggio del mio bolide, il piccolo esercito dovette ancora eseguire delle strane evoluzioni davanti al monumento al centro della piazza, raffigurante Abaroa, l’eroe della guerra del Pacifico, che moriva in un atteggiamento molto simile a quello del nostro Toti. Con la sola differenza che al posto della stampella lanciava contro il nemico la carabina ormai scarica e gridava, insieme a tutti gli attuali difensori di quell’angolo sperduto del Paese, la storica frase imparata fin dalle elementari: “Que se rinda su abuela, carajo!” 2. Ancora trasognato ringraziai il Tila, il capitano e, uno per uno, quei gloriosi soldati della patria. Il motore ormai, sotto l’impatto canoro della truppa, s’era sorprendente-mente risvegliato ed io lo mantenni acceso, a scanso d’equivoci. Rimasi ancora alcuni istanti nella piazza ormai deserta, ad assaporare l’indicibile ed inimmaginabile evento di cui la mia landau ed io eravamo stati gli indiscussi protagonisti, quando vidi avvicinarsi una giovane ben vestita e dai modi cerimoniosi che mi fece: — Cuánto vale? — Cosa? — La bagnarola. A quanto me la vendi? — Non è in vendita —. Beh, riconosco che la tentazio-ne di scaricare su qualcheduno, quella bomba a 2
Letteralmente (e semanticamente): “Fa’ arrendere a tua nonna. Cazzo!”
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scoppio ritardato, ce l’ho avuta. — Mi è molto cara e non la vendo. — Te ne do due. — Due, cosa? — Due pacchetti. — Di che? — Di pichikata. — Cos’è? — Blanca, farina, polverina... Non capisci, neh? Asino d’uno straniero! — Questo me lo disse in quéchua, sperando che non capissi niente davvero, mentre vari denti d’oro occhieggiavano fra quelli veri, immersi in un sorriso sfacciatamente falso. Il quéchua non lo capivo proprio, ma ne avevo imparate tutte le parolacce e ne acchiappavo gli insulti al volo. — Ah, certo, pichikata, scecca, strafalaria, arrusa... — Adesso la stavo insultando io, con una sfilza d’improperi in siciliano, di cui ero sicuro che quella lestofante mai e poi mai avrebbe potuto risalire al significato. — Due pacchetti sono un chilo in tutto. Li porti a Rio de Janeiro e li trasformi facilmente in cinquemila dollari. Il mio sorriso si fece ancora più luminoso, anche senza gli ori della mia interlocutrice. E, stavolta in perfetto spagnolo, prima d’imbroccare la marcia e partire a tutto gas: — Al Rio ci vai tu — le dissi fra i denti (questi, tutti veri) —, e la pichikata te la infili...
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A Corumbà, ero già pronto per prendere la strada del ritorno, ma dovetti ancora rispondere a due signori che avevano passato la notte nello stesso albergo mio e mi avevano osservato mentre tiravo fuori la Landau dal garage. Erano due figure indimenticabili. Il grasso era una riproduzione a tutto tondo del sergente Garcia e lo spilungone dall’occhio offeso, più che uno Zorro, ricordava da lontano un don Chisciotte abbastanza abbronzato dal sole della Mancha. Non so come mi lasciai persuadere a dar loro un passaggio fino a Campo Grande. Erano dei perfetti sconosciuti ed il loro aspetto era tutt’altro che rassicurante. Ma la chiacchiera era decisamente seduttrice. Erano il gatto e la volpe. Ed io un Pinocchio offuscato da un’irriducibile percezione d’invulnerabilità, dopo quanto mi era successo il giorno prima. E inoltre avrebbero pagato la metà della benzina e mi avrebbero potuto sostituire alla guida nella rischiosa traversata del Pantanal. Erano gente onesta che aveva appena venduto delle auto in Bolivia e se ne tornava al Rio con il ricavato. Conoscevano da tempo le guardie del dazio e godevano di buona reputazione presso le autorità locali. Non erano come questi cabriteiros3 che rubano le macchine nelle grandi città brasiliane e le vanno a svendere in Bolivia... Perdemmo un sacco di tempo per mettere in sesto la Landau che intanto ne aveva combinata nuovamente qualcuna delle sue. E cerca un meccanico. E soffia nel beccuccio della pompa Della benzina. E cambia il carter. E prova la batteria.... Ed era già quasi il tramonto. 3
Letteralmente (non semanticamente): “caprettieri”.
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Finalmente ci si mette in marcia. All’uscita della città si fa un salutino d’obbligo all’amico poliziotto che si vanta sempre di giocare al tiro a segno con i cabriteiros: ne aveva fatti fuori tre la scorsa settimana, ma ne aveva recuperato le automobili senza neanche frantumare un vetro o bucare una gomma. Le pallottole uscivano dalla sua Taurus 38 per andare a conficcarsi direttamente nel cranio di furbacchioni che avevano avuto la sventura di passargli davanti. La fiducia nella mia buona stella traballava un po’, ma ormai ero nelle mani di quegli esseri straordinari e poi avevo fiducia nel disimpegno della mia Landau sulla strada. Quattrocentotrenta chilometri di terra battuta, centinaia di piccoli ponti di legno sulle anse che innumerevoli i piccoli affluenti del Rio Paraguay creano in una zona meravigliosa da vedersi alla luce del sole, ma terrificante persino a pensarci, soprattutto quando la si attraversa in una notte scura come quella che ci aspettava: ciò che una volta fu mare, il mitico Mar di Xaraé. Senza nessuna segnaletica. Non una pompa di benzina. Non un telefono. Non una macchina della polizia. La croce del sud che si esibiva tra tutte le costellazioni dell’emisfero, sempre sulla nostra destra e noi via, sempre dritto, lungo un rettilineo interminabile in cui persino le rare curve sembravano raddrizzarsi per lasciarci volar via tra il nulla. Cento chilometri dopo, arrivammo al “Porto da Manga”. In realtà non era un vero e proprio porto, ma
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solo un punto d’attracco per piccole chiatte che portavano avanti e indietro un veicolo alla volta, da una sponda all’altra dell’altrimenti insormontabile Paraguay. Non so neppure come ce l’abbiamo fatta ad arrivarci, perché, quasi alla fine di quel primo tratto, uno dei grossi sassi divelti con la massima facilità, ad ogni piovuta, dalla strada non più lastricata da anni, venne a conficcare uno dei suoi spigoli nella pancia del serbatoio della benzina. Ne scaturì un finissimo rigagnolo che ci lasciammo dietro, visibile soltanto quando le ultime gocce divennero una pozza in quei pochi minuti di attesa per la chiatta. Era già tutto buio e l’intraprendente don Chisciotte mise a dura prova l’unico occhio valido per tamponare il buchino con quel che riuscì a racimolare fra i commercianti del villaggetto che a quei tempi andava sorgendo attorno al “porto”. Una lampada ad acetilene, dopo aver accuratamente asciugato ogni traccia di benzina, un po’ di sapone, un secchio d’acqua, uno straccio da stendere a terra... C’era persino una trattoria che serviva però un’unica pietanza: pesce fritto passato nella farina di manioca, pescato sul posto. Non c’era male. I prezzi però, più salati che a Rio. Dovemmo comprare anche del repellente perché le zanzare avevano già cominciato a far festa. E speravamo di trovare anche qualche gallone di benzina per rifornire il serbatoio ormai riparato alla bene meglio. — Questo potrete trovarlo in nero. — Dove?
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— Laggiù — il merciaio-restaurateur indicò un punto imprecisato verso i cespugli che circondavano lo spiazzo del “molo”. Ci addentrammo verso l’ignoto e sentimmo, dopo qualche passo, esseri invisibili che biascicavano qualcosa, e subito scorgemmo delle fioche luci intermittenti far capolino tra i cespugli. Erano dei giovani borsaneristi, accoccolati qua e là, con una pila tascabile in mano, ognuno accanto ad un bidone di benzina. C’era poco da discutere prezzo o qualità del combustibile. Era prendere o lasciare. E la cosa più sorprendente: i due pagarono davvero l’intero rifornimento. Avevano fretta e quello era l’unico modo d’uscire dalla trappola. La strada adesso era tutta in pianura, ma il suolo dissestato e gl’innumerevoli ponti di assi ci facevano ballare un samba bizzarro. L’unico a non muoversi era il piede sull’acceleratore di quel Gambadilegno, il più pesante che avessi mai visto in vita mia, e il suo sedere, incollato al posto di guida finché glielo permise la vescica. Fu obbligato a rallentare un po’ soltanto da gruppi di capivaras4 che rimanevano sulla pista a fissare ottusamente i fari, mentre la macchina ne sfiorava i musi nella sua fuga forsennata. Io mi ero sistemato sul sedile posteriore e riuscii persino ad appisolarmi, nonostante la raganella del perticone non la smettesse di raccontare grandi imprese del passato e pronosticare brillanti piani per il futuro. 4
Grandi roditori simili ai tapiri, caratteristici del Pantanal del Mato Grosso.
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Mi svegliai molte volte sotto l’effetto di certi sobbalzi che mi facevano sbattere la testa contro il tetto della macchina e, a volte, gli occhi spalancati vedevano soltanto tenebre. Gli scossoni infatti avevano ormai messo KO tutto l’impianto elettrico e ad un tratto ogni luce spariva, per riaccendersi trecento metri più avanti. Ancor oggi mi viene la pelle d’oca al ricordo di quella mezza tonnellata che non mollava il pedale, neanche nel black-out più completo, sfondando a cento all’ora una notte più nera della pece. Poi i fari si riaccendevano e la pista riappariva come un palco polveroso tra quinte di cespugli sudici, mentre il volo di qualche uccellaccio notturno destato dal chiarore improvviso ne animava la scena. Finalmente Stanlio non ce la fece più e obbligò Onlio a fermarsi in un punto qualsiasi di quel mondo senza meridiani né paralleli. Non so perché i due scelsero esattamente la ringhiera d’un ponte per liberarsi, mentre io me ne rimanevo rincantucciato al mio posto, indolenzito, e indolente. Ma presto si dovettero rendere conto che quella non era stata una buona idea. Infatti, l’interminabile monologo del magro fu interrotto da uno schianto proveniente dalle basse acque che scorrevano — o stagnavano? — sotto il ponte e che spinse il gordo a lanciare un grido omerico mentre si gettava all’indietro per sfuggire alle mascelle d’un invisibile coccodrillo, lasciandovi per fortuna soltanto la suola della scarpa destra. Zoppo e sconcertato, accettò la spalla dell’amico il quale, come lui, non s’era neanche reso conto d’essersela fatta addosso.
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Con il don Chisciotte questa volta al volante e il Sancho Panza accanto a lui, facemmo il resto della corsa tutta d’un fiato. Fossero i fari accesi o spenti, la visione monoculare dell’autista era più che altro un pretesto per la sua intuizione ed il suo savoir faire, che l’avevano sorretto fino allora in quella vita d’equilibrista, e non il vero artefice del successo che ci permise d’arrivare ad avvistare le luci della città. La macchina si fermò da sola, definitivamente, proprio davanti all’entrata della Base Aerea, sotto lo sguardo del piccolo monomotore da combattimento che aveva sparato sugl’Italiani nell’ultima guerra e adesso sembrava un giocattolo, più che un monumento, al centro della rotonda. Si era seduta in avanti sul cerchione destro, con la gomma completamente sfracellata. Andai perciò immediatamente a chiedere alla sentinella di poter telefonare a qualcuno che ci potesse aiutare. Quando tornai, però, i due se n’erano andati. Li vidi allontanarsi a piedi, diretti verso la stazione degli autobus, con i vestiti a brandelli come due reduci dell’armata Brancaleone, il grasso zoppo, con la borsa dei soldi a tracolla, appoggiato alla spalla del magro che continuava a parlare e a gesticolare vivacemente. Ci tengo a dire che tanti particolari mi son tornati in mente solo l’altro ieri, quando ho visto una grande foto sulla prima pagina del giornale di maggior tiratura del Brasile.
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Due signori elegantemente vestiti erano ritratti in primo piano e stentai, dopo tanti anni, a riconoscere in loro i miei due compagni occasionali di viaggio attraverso il Pantanal. Com’erano cambiati! Ne avevano fatta di strada. A parte i capelli brizzolati, il grasso non era più tanto grasso ed il magro non era più tanto magro. Don Chisciotte era adesso un onorevole dello stato di Rio de Janeiro, e Sancho Panza — non più grasso — era il suo portavoce. Ma il titolo a caratteri cubitali fece immediatamente scemare la mia ammirazione: “Arrestati capimafia tangenti nettezza urbana”. E la conferma mi venne quando mi resi conto che avevano le manette ai polsi. Un’altra faccia richiamò ancora la mia attenzione, in secondo piano, tra la folla di curiosi che si stavano godendo la scena. Un individuo s’era quasi appiccicato alla spalla del personaggio principale: come si dice in Brasile, un “pappagallo del pirata”. Era lui, proprio lui, João, l’amico che mi aveva venduto la landau. Anche lui ne aveva fatta di strada!
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Soraia — Quest’anno ci son tutte davvero. Sembrava che si stesse rivolgendo proprio a me. Doveva avere poco più di vent’anni e neanche i baffetti spioventi sotto il naso regolare riuscivano a conferirgliene di più. — Ci avrei giurato che ti saresti fatto trovare qui. Ero davvero sorpreso e fissavo con particolare attenzione quel giovane sconosciuto che se ne stava lì sorridendo, braccia conserte, appoggiato allo steccato dell’immenso stand della Chevrolet. Eppure quel volto non pareva essermi del tutto estraneo. — Sono Soraia —, mi venne in aiuto. Ma io avvertii un pugno nello stomaco. Come, Soraia? Che cosa strana: un uomo con un nome da donna. Senz’altro di buona apparenza. Sono un uomo, ma so riconoscere chi è bello e chi bello non lo è. Media statura, tipo snello ma atletico, capelli biondicci tagliati a spazzola, occhi chiari, baffi non così folti, certo, ma baffi veri, insomma... Chi sarà questo buontempone che vuol prendersi gioco di me?
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Mi viene in mente la varietà infinita dei nomi brasiliani e il loro uso stravagante. Molti, attribuiti indifferentemente a maschi e a femmine: Darcí, Lenir, Dercy, Devaní, Ivanir... Sì, ma “Soraia” mi richiama soltanto la leggendaria bellezza della triste principessa ripudiata dallo xá di Persia, oltre, è chiaro, i milioni di donne che ne hanno ereditato il nome in tutto mondo. Ah, ecco... personalmente, anzi, intimamente... sì, è vero, una l’avevo conosciuta... — Sì, sono proprio io — Il fusto aveva seguito il corso dei miei pensieri sulle rughe del mio viso, fino al punto in cui il dubbio sfociava nella certezza più assoluta. Ma come poteva proprio “lui” essere “lei”? Attorno a noi un brusio festoso andava crescendo, man mano che s’infoltiva la massa di espositori e di visitatori venuti al raduno annuale delle auto d’epoca a San Paolo. Ma quel viavai di curiosi domenicali non interferiva minimamente com la folla di ricordi che s’accalcavano nei recessi di una memoria neppure troppo remota, e davano la stura a un intenso flusso di sguardi, grati e impacciati insieme, tra i miei occhi e quelli del giovanotto, intenti a riconoscersi e a riabbracciarsi, a rientrare e a fondersi in un inarrestabile crescendo di particolari di tanti e appassionati momenti vissuti insieme.
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Ma la Soraia che io avevo conosciuto era una ragazza! In tutto e per tutto. E inoltre il tipo giusto da portare a spasso con la mia landau. — Me l’immaginavo che saresti rimasto sorpreso. Non è così semplice spiegarti una tale trasformazione. Ma sono la stessa persona. Anche se non più donna. Come donna, appunto, l’avevo conosciuta due anni prima. S’era fatta notare tra il gruppo delle compagne dell’Università per la grazia e la serenità dello sguardo, chiunque fosse il suo interlocutore, e anche per la preparazione intellettuale che dimostrava ad ogni pie’ sospinto. Proveniva dal lato paraguaiano di Bella Vista, la cittadina divisa a metà da una frontiera invisibile tra Brasile e Paraguay appunto. Parlava perfettamente lo spagnolo e il portoghese, oltre al guaranì, naturalmente, la vera lingua madre dei paraguaiani e al tedesco imparato dal padre austriaco. Ero libero, mi piacque e l’invitai per un giretto in macchina con me. A quei tempi ero una furia scatenata. Appena posavo l’occhio su una pollastrella, volevo subito spennarla. La prima passeggiata no, ma la seconda (e irrevocabilmente ultima) era fatale. Ma lei era diversa. Era un incanto rimanere ad ascoltarla. Per questo feci uno strappo alla regola e moltiplicai il numero delle nostre uscite. Soddisfaceva in pieno ogni mia curiosità e presto lei si sentì a tal punto a suo agio da svelarmi la sua sorprendente biografia . La sua famiglia era benestante. Il padre era venuto in Paraguay da giovane scapolo e aveva sposato una
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ragazza del posto. Aveva fatto fortuna con l’agricoltura e l’allevamento del bestiame. Ma l’attaccamento ai principi e alla tradizione dei suoi avi l’avevano convinto, fin dalla nascita, che la figlia femmina avrebbe dovuto farsi monaca. — Monaca?! In Paraguay?! — Carmelitana Scalza... Sai, di quelle di Santa Teresa d’Avila. Di clausura. A tredici anni ero già in convento ad Asunción. Non avevo neanche l’età minima per poter fare il noviziato. E così sono rimasta “postulante” per due anni. Monaca di clausura. Carmelitana Scalza. Ed io che un momento prima, non solo le avrei tolto le scarpe, ma l’avrei addirittura spogliata tutta, e adesso me ne stavo a bere ogni sua parola con quel sacro terrore che bruscamente s’impossessava di me: io, ateo e libertino, dinanzi a quella creatura angelica che illuminava l’interno della mia macchina come un piccolo sole dentro una stanza di cristallo! — Mi chiamavo Helga. Soraia me lo sono scelto io per il giorno in cui avrei potuto professare. Come qualunque adolescente, anch’io avevo inventato varie alternative al nome di battesimo. La madre badessa ne fu felice. “Soraia” le ricordava una monachina venuta dall’Italia per passare un po’ di tempo nella nostra comunità, che preferiva farsi chiamare “Suor Anna”, in italiano, invece di Hermana Ana, che le suonava particolarmente cacofonico. Sor Ana, Sor Aia. Ed ecco fatto. Quella semplicità m’accattivava. Una paraguaiana bionda non l’avevo mai avuta e questa era la sintesi di tutta la gamma dei desideri consci e inconsci che
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affannavano la mia giovinezza. Dalla profondità delle esperienze più carnali alle altezze più elevate della spiritualità. — A volte mi vengono degl’impulsi così incontenibili, con un annichilimento davanti a Dio che non riesco a sopportare. É come se la vita svanisse e mi facesse gridare e chiamare Dio con una furia inarrestabile. Ed è l’ansia che ho di non vivere e sembrar viva, e non esiste nessuna soluzione, pués el remedio para ver a Diós es la muerte. Non sono parole mie ma di Santa Teresa. Anch’io però l’ho provato questo fervore che m’ha fatto immergere nella vita mistica, contemporaneamente al progredire nelle conoscenze letterarie più svariate. Così m’hanno messo presto a tradurre in guaranì numerose opere tedesche, francesi, spagnole, italiane e anche latine, greche, e persino sanscrite. Non so come sia riuscito a contenermi tanto tempo senza saltarle addosso e coprirla di baci e carezze. E lasciarmi travolgere a mia volta da ondate di tenerezza e di passione. C’erano momenti in cui lei si esaltava in modo particolare e l’impeto veniva a me, di toccarla e baciarla come si bacia... una santa. O una bimba. Beh... lasciamo pure da parte l’ipocrisia... come si bacia una donna. In fin dei conti era ormai donna fatta. Alla quindicesima passeggiata non ci fu più verso. Infatuata dalla bellezza e dal mistero di quella natura dalla luminosità e dai colori incredibili, volle scendere dalla landau nel bel mezzo d’una radura e distendersi sull’erba soffice e fresca. Incominciò allora a gridare al cielo la sua felicità, in un turbinio glossolalico
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impressionante, che mescolava Ronsard e Alberti, Shakespeare e Rilke, José Anchieta e Qoelet... — Ángel de luz, ardiendo, ¡oh, ven!, e con la tua spada incendia gli abissi dove giace il mio sommerso angelo del buio. Lächelnder Engel, fühlende Figur, bocca da cento bocche: mai l’affanno t’affligge ancor per solo un momento dell’ore che fugaci se ne vanno... Il culmine della follia lo raggiunsi anch’io quando incominciò a citare Eco che cita il Cantico dei Cantici, mettendovi insieme Catullo, Tibullo, Lorca, Prévert e tutto uno stuolo di poeti morti e viventi, a me peraltro totalmente sconosciuti, che cantavano nella sua gola un inno dionisiaco all’amore e alla vita. — Io sono un fiore di campo, un anemone delle valli... Come un melo fra piante selvatiche, così il mio diletto fra i giovani: alla sua ombra bramo sedere e il suo frutto sia dolce al mio palato. Introducetemi nella cella del vino e mettete ben in vista le fronde d’amore... Stat rosa pristina nomine. Nomina nuda tenemus... — Nuda. Sì, nuda, nuda —, capivo e gridavo io, senza sapere più quel che stavo facendo. Era l’estasi. Santa Teresa del Bernini ed io il putto con il dardo in mano. — Come sei bello, mio diletto, come sei soave! Nostro letto è l’erba, pareti della nostra casa i cedri, soffitto per noi i cipressi. Oh, Deliciae meae... Le tue guance sono belle. I tuoi profumi hanno un’ottima fragranza... Mi baciasse con i baci della sua bocca!... Da mihi basia mille, deinde centum, dein mille altera, dein secunda centum... Davvero il tuo amore è inebriante più del vino! Dein, cum milia multa fecerimus, Conturbabimus illa, ne sciamus aut nequis malus
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invidere possit... Dans le ciel amoureux, dans le ciel de Séville, dans le ciel de Belleville et même de n’import où... Tupã sy-eté, abá-pe ‘ara pora o-îkó nde Iiabé?... Le mie mani annaspavano in un mare di sensualità e non saprei dire esattamente quel che avvenne in seguito. — Demandez au vent, à la vague, à l’étoile, à l’oiseau, à l’horloge, à tout ce qui fuit, à tout ce qui gémit, à tout ce qui roule, à tout ce qui chante, à tout ce qui parle... Al raduno ci venivo ormai da molti anni, puntualmente, insieme alla mia Landau ed era sempre un week-end indimenticabile, in cui s’aveva l’occasione di far dei nuovi amici o di ritrovarne di antichi. Era tutta una festa. Una spianata immensa piena zeppa di macchine di tutti i tipi e modelli, di tutte le epoche e di tutti i colori, marche e cilindrate, soprattutto delle fabbriche nazionali della Fiat, Chevrolet, Ford e Volkswagen, ma c’erano anche innumerevoli Playmouth, Dodge, Mercury, Buick, Marquette, Le Sabre, Skylark, Riviera, Cadillac, Eldorado, De Ville, Seville Elegantz, Camaro Rally Sport, Chrysler Windsor, New Yorker, Essex, Mercedes, Meteor, Mustang, Jaguar, Packard, Pontiac, Porsche, Studebaker, Volvo, Lincoln... Le passammo tutte in rivista per ore, mentre ci aggiornavamo a vicenda. — E perché te ne sei uscita? — Per via del testicolo. — Che c’entra, scusa?
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— Il testosterone. Alla nascita ero un perfetto ermafrodito, con un’ovaia ed un testicolo intero, anche se criptorchide. L’estrogeno ha prevalso per qualche tempo. Del resto, lo sai, le differenze tra i caratteri sessuali dei bambini sono ben poco visibili fino all’arrivo della pubertà. — Ma questo non sarebbe stato un buon pretesto per gettare la tonaca alle ortiche. — Sì, ma ad un certo punto mi sono accorto che la madre badessa mi s’era affezionata un po’ troppo: forse stava cominciando a vedermi come una sostituta della monachina italiana, e giusto nel periodo in cui i miei androgeni prendevano il sopravvento e producevano certe setole, che difficilmente avrei potuto dissimulare sotto il naso come facevo con quelle delle gambe e delle braccia. — E allora? — È stato allora che è accaduta la tragedia: i miei genitori sono morti in un incidente stradale insieme al mio fratellino e sono rimasta sola al mondo. Potevo restarmene tranquilla in convento, ma mi rendevo conto che sarebbe stato un po’ difficile ormai continuare a tenere a bada le mie mani per molto tempo ancora, tra tante consorelle giovani e pure, e decisi d’andarmene via. Era l’epoca in cui t’ho conosciuto. Non immagini la fatica per nascondere la confusione che mi si veniva strutturando in testa, mentre, come donna o come uomo, non lo so, m’innamoravo perdutamente di te. — E per questo te la sei data a gambe — aggiunsi in un tono di soave rimprovero. — E ora come te la cavi?
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— Mi sono messo in proprio con parte dell’eredità dei miei e sfrutto le abilità linguistiche acquisite in convento, nel mio ufficio di traduttore ufficiale. — Ma questo non dà da mangiare a nessuno, neanche in Europa. — È vero. Ma ho vinto un concorso presso il Ministero della Cultura e m’hanno inserito in un grande progetto di ricupero del Tupì antico, la lingua parlata dagl’indigeni all’epoca dell’arrivo dei Portoghesi, oggi una lingua morta. Con l’avvicinarsi del quinto centenario della scoperta del Brasile, si sta risvegliando un interesse sempre più entusiastico per le sue origini storiche e culturali. Anzi, si sta verificando addirittura un forte movimento di impronta nazionalista che sogna di farlo diventare lingua ufficiale, insegnandolo in tutte le scuole, in sostituzione al Portoghese. A scanso d’equivoci mi sono presentato come Innocêncio, che te ne pare? Suggestivo, no? — Continuava a sorridere in quel modo innocente e sbarazzino, che tanto mi aveva acceso nel passato. Rimanevo annichilito davanti a quella personalità titanica, così capace di amministrare una moltitudine di personaggi, di nomi, di lingue, di letterature, di sentimenti, di culture e... di sessi, con la serenità e la chiaroveggenza d’un vecchio profeta. — Ti ricordi ancora della landau? — Un senso di perdita e di scoperta allo stesso tempo m’inondava di gioia e di rimpianto.
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— Certo che mi ricordo e la rivedo con piacere. Anzi è stata la pista che ho seguito, sicuro di ritrovarti. Volevo farti una sorpresa. — Altre sorprese? Quasi m’accoppi con tante novità in una sola volta... — Ho avuto un figlio —. Altro pugno nello stomaco. Cercai subito di riprendermi. — Ah, ti sei anche sposato? — m’accorsi però della papera. — Sì, volevo dire, chi è la madre fortunata? — balbettai, confuso. — Io. Sono ragazza-madre. O ragazzo-padre, se vuoi. — Continuavo ad inghiottire asciutto. — Subito dopo il parto mi sono fatto togliere l’ovaia, la salpinge e l’utero. Una cura a base di androgeni mi ha rinforzato i caratteri maschili ed eccoci qua. Una baby-sitter, nel frattempo, ci aveva raggiunti, spingendo un passeggino su cui si trastullava un bel bimbo, con l’olimpica imperturbabilità di chi sa d’aver compiuto appieno il proprio dovere. — Chi è il padre? — E guardalo!... Guardai il pupetto e vidi me stesso in miniatura, intento a leccare beatamente un bellissimo modellino azzurro di Ford Galaxie-Landau 1982, con l’unica lingua a disposizio-ne sul momento. Fu allora che incominciai a credere in Dio.
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Amalia La conobbi durante il Carnevale. Era Giovedì Grasso ed ero appena arrivato a Rio in landau. Mi ero voluto passare lo sfizio di conoscere la città e il suo famoso Carnevale, stufo di tanto lavorare, senza ferie e senza svaghi. A quell’epoca il trittico kantiano dell’albero, del libro e del figlio era ancora un ideale da matusa, da semifreddo, ad anni luce dalle mie pur minime aspettative di futuro. Certo, bene o male avevo ormai conquistato le tre “emme” che avrebbero dovuto soddisfare le principali aspirazioni dei giovani exsessantottini, tutti ormai dei veri alienati come me: avevo un mestiere, avevo la macchina (e che macchina!), e anche se non avevo una moglie (e non me ne fregava poi un bel niente), avevo un... mucchio di “meninas” con cui festeggiare il grande evento di ritrovarci ogni giorno giovani, belli e, soprattutto, liberi. Avevo percorso l’entroterra lungo l’autostrada San Paolo-Rio insieme a un amico che aveva ottenuto in prestito un appartamento alla Gávea e sperava di riuscire addirittura a entrare di straforo nella “Enrico C”, che in
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quei giorni di festa sarebbe rimasta attraccata al molo principale del grande porto. In compenso, ci eravamo dovuti portare appresso anche la zia attempatella e, in sovrappiù, una sua coetanea per tenerle compagnia. Dopo tutto erano loro che avevano recentemente realizzato una crociera a Ushuaia, estremo sud del continente, durante la quale avevano stretto amicizia con il batterista dell’orchestrina di bordo, la breccia per poterci intrufolare nella favolosa nave. Alle quattro del pomeriggio eravamo già seduti a un tavolo del Bar “Pigalle” di Copacabana, riparandoci alla meno peggio sotto le sue tende, dall’acquazzone che ci aveva accolti appena scesi dalla “Serra do Mar”. La landau rimase parcheggiata proprio là davanti. Il samba imperversava ormai in tutti gli angoli della città con i vari complessini improvvisati che si accavallavano con i loro bumbos, cuícas e pandeiros, impegnati in ondate incalzanti del ritmo che ogni anno domina i movimenti e le attività (e persino i pensieri) della gente, in tutto il Brasile. Anche il Pigalle aveva il suo, formato alla spicciolata da un gruppo di dilettanti che invogliavano gli avventori a ballare con il loro inarrestabile accompagnamento, noncuranti della pioggia che continuava a cadere fitta e verticale. La notai subito tra i giovani che sfoggiavano la loro abilità di ballerini con la naturalezza dei veri professionisti. A poco a poco gli sguardi di tutti gli astanti si concentrarono su di lei e persino alcuni degli entusiastici “sambisti” improvvisati si fermarono ad osservarla compiaciuti.
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Anch’io rimasi a lungo immobile a guardarla, e le mie pupille abbacinate dovevano star dondolando sullo stesso ritmo in cui ondeggiavano i suoi fianchi. Ero uno zotico provinciale e qualsiasi manifestazione di rigogliosa vitalità come quella mi mandava facilmente in visibilio. E poi, era veramente carina. Pelle schiarita da un susseguirsi secolare di incroci di razze e in seguito imbrunita da prolungate esposizioni al sole sperticato delle spiagge cariocas. Occhi grigi ereditati da chissà quali nordici invasori, incastonati in un viso ovale dai lineamenti regolari e sereni. Capelli corvini, ondulati e voluminosi, disciolti fino alla vita. Corpo scultoreo, senza spigoli né salienze stravaganti, oltre quelle di cui natura suole generosamente dotare le figlie dei tropici. Perfetta, insomma. E sembrava instancabile. Eppure si concedeva ogni tanto qualche breve pausa fra una canzone e l’altra, per scambiare quattro chiacchiere con i suoi amici e bere un sorso di birra dal “tulipano” che qualcuno si incaricava di rifornire in continuazione. Durante uno di quegli intervalli, mentre i miei amici erano entrati nel bar per sfuggire agli spruzzi persistenti della pioggia, la vidi alzarsi all’improvviso e dirigersi verso me come se fossi una vecchia conoscenza e volesse venire a salutarmi. Con fare sereno e disinvolto mi chiese: — Dimmi, hai mai fatto “troca-troca”? — Come sarebbe a dire? — Cadevo dalle nuvole. — Stavamo parlando del più e del meno e il mio amico insiste che tutti i ragazzi hanno fatto almeno qualche volta “troca-troca” fra loro —. Continuavo a guardarla interdetto. — Non mi dire che non sai cosa
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sia... Sì, proprio così, uno se la lascia mettere e poi la mette a sua volta in... all’altro... Rimasi senza parola. Certo. Avevo capito. Ma che le saltava in mente a questa? E poi, chi l’aveva mai vista? E venire così, tra capo e collo, a trattare di argomenti così... intimi, come dire, sì, appunto, delicati... e così fuori tema, in un momento come questo... e con estranei... — No, non mi è mai capitato... — Hai visto che avevo ragione? — gridò in tono trion-fale, rivolgendosi all’amico che era rimasto tranquillamente seduto al tavolo laggiù — Qui ce n’è uno che non l’ha mai fatto. Mi prese per mano ed io la seguii ipnotizzato. Mi presentò ai suoi amici, mentre i miei rimanevano ad osservarmi incuriositi dietro le finestre del bar. — Sei straniero. L’accento ti tradisce. Sei argentino? — No, agrigentino. — Questa fu lei a non capirla e servì per scuotermi un po’ da quella malia. — Come ti chiami? — Presi l’iniziativa io, sfuggendo a ulteriori e noiose spiegazioni. — Amalia. Io sono nata in questi paraggi. Sua zia abitava nell’Avenida Nossa Senhora de Copacabana, a un isolato dal punto dell’Avenida Atlantica, dove eravamo noi in quel momento, lungo la spiaggia più famosa del mondo. — Questo è il mio locale preferito. Qui, tra una birra alla spina e l’altra, mi piace ballare, ballare, ballare... È il mio principale divertimento: sambar. Mi abbandono volentieri al ritmo frenetico del samba, non importa dove, tra (o anche su) i tavoli, sul marciapiede, sull’asfalto e persino sul bagnasciuga. Quando ballo, un
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senso di libertà mi pervade e dimentico tutto... Beh, la birra aiuta un bel po’.... La pioggia aveva smesso di cadere come per incanto e in pochi minuti molte persone lasciavano i momentanei rifugi, verso l’immensa distesa di sabbia e il suo classico marciapiede, istoriato con cubi chiari e scuri di basalto che riproducono l’infinito rincorrersi delle onde del mare. Ad un tratto, uno schiamazzo proveniente dall’avenida attrasse l’attenzione di tutti. Erano grida, risate, clacson che suonavano all’impazzata... Numerose macchine sfilavano lentamente, occupate da uno stuolo di travestiti dagli abiti e dalle posizioni più spettacolari. Una fuoribordo si fermò proprio dietro la mia landau e ne scesero quattro “allegre ragazze”, portando ulteriori rinforzi al nostro ambiente, già abbastanza “caldo”. Una andò a sedersi al tavolino occupato da una coppia che si beava ad osservare il grande affanno con cui tanta gente andava alla ricerca di un momento di felicità. — Ma che cazzo vuole da me questa qua? — Pensò ad alta voce l’uomo, mentre cercava di scansarsi dalle moine che la drag-queen gli faceva sotto il naso della compagna divertita. — Bedda matri santissima! — Esclamava comicamente a più riprese. — Comu fazzu a scutularimilla di ‘n coddu?5
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“Come faccio a togliermela di dosso?”
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Era un paturnisi6, che esibiva il Siciliano più stretto di cui fosse capace, per avere la certezza che nessuno lo avrebbe compreso. Quelle sfoggiarono ancora un po’ i loro lazzi e le loro smorfie, senza lasciarsi sfuggire nessuno, ma dopo la fulminea invasione, si dileguarono in mezzo allo stesso fragore della loro entrata in scena. Mi sentii nell’obbligo di presentarmi al connazionale e scoprii uno dei tipi più simpatici che avessi mai incontrato da quelle parti. Abitava a San Paolo. — Che sei venuto a fare a Rio? — Chiavare!.. Oh... oh... Chiavare!.. Oh, oh, oh, oh... — canterellò sornionamente sul motivo di Modugno. L’accompagnante sorrideva senza capire. — E che fai a San Paolo? — Chiavare! Chiavare!... Scherzo. Lavoro in una ditta di trattori. Questa è la mia segretaria e ci stiamo prendendo qualche giorno di vacanza per vedere anche noi il Carnevale. Ma passiamo più tempo in una camera di albergo che sulla strada. Questa è la prima passeggiata a piedi che ci concediamo. Ma è la prima e l’ultima volta che vengo al Carnevale di Rio. Che schifo! È la festa dei puppi, degli invertiti, dei viados... Amalia rimase con me tutti quei Sapevamo che era solo un “amore di avevamo deciso che sarebbe stato durasse”7 , come nel famoso verso 6 7
Di Paternò, provincia di Catania. “Eterno, enquanto dure”.
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giorni di festa. Carnevale”, ma “eterno finché di Vinícius de
Moraes. Passammo ore ed ore avvinghiati come due viticci. Avanti e indietro con la nostra landau. Di giorno e di notte, sobri od ebbri, sempre affamati e sempre sazi, in silenzio o in gara per vedere chi cicalasse di più. E lei 8 mi insegnava la gíria carioca , piena di “erre” gutturali e di “esse”... sssscivolanti. Ed io le insegnavo gli scioglilingua e i giochi di parole che avevo imparato da bambino o quelli che inventavo lì per lì: «trentatré tigri contro trentatré tigrotti»... «mamma mi ammalo, la malia di Amalia mi ammalia... ». Gli amici, per i fatti loro, e noi due nel nostro eden intriso di sogni senza futuro e di interminabili godimenti immediati. Il tempo giusto per una doccia, uno spuntino, un bicchiere di birra, un cambio d’abito, uno spruzzo di profumo... e via in landau, su e giù, su e giù... lungo la Avenida Atlantica, la fortezza di Copacabana e tutto il lungomare di Ipanema, poi, di ritorno, Leme, il Pan di Zucchero, Botafogo, Aterro do Flamengo... e Santa Tereza, il Corcovado, ... E, finalmente, Piazza Mauá spalancata sul porto. Era divenuto il luogo principale di ritrovo dei miei amici, che si mimetizzavano con la più grande disinvoltura fra i legittimi passeggeri della lussuosa nave italiana. Noi due invece eravamo rimasti persistentemente alla larga, cercando i posti meno affollati per vivere la nostra “love story” in pace. Avevamo pensato, è vero, di andare a vederci la sfilata delle “Scuole di Samba” della domenica di Carnevale nell’Avenida Marquês de Sapucaí, ma il consueto 8
Il gergo di Rio de Janeiro.
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andirivieni lungo la splendida topografia della metropoli e il nostro piacere incommensurabile di stare insieme da soli quasi ci fecero perdere lo spettacolo. Ma non tutti i mali vengono per nuocere e il ritardo ci permise di accodarci all’ultima (e più famosa) “Scuola”, la Mangueira, immergendoci nel suono esaltante della “batteria” e lasciandoci trascinare da quella immensa scia verde-rosa, comparse privilegiate di un’apoteosi che portava al delirio le migliaia di spettatori sulle gradinate dei due lati del corso. Amalia ballò senza sosta fino alla fine, mentre io cercavo di accompagnarla come potevo, caracollando come un allocco. L’irrinunciabile invito a farla da “portoghesi” anche noi, per occasione del ballo di gala del lunedì, non ce lo lasciammo invece scappare. Arrivati, indugiammo alquanto a goderci la visione di quella città galleggiante, prima di deciderci a lasciare il nostro accogliente rifugio. L’Enrico C, a sua volta, tutto impavesato, doveva star guardando la macchina da lontano con aria di superiorità ma, allo stesso tempo, di invidia. Sicuramente sospettava che in quell’abitacolo, infinitamente più piccolo dei tanti suoi spaziosi ambienti, ma sufficientemente confortevole per una coppia in amore, stesse avendo luogo appunto la celebrazione di un incontro, in netto contrasto con la decadente baldoria dei suoi saloni affollati. Ero andato a prenderla sul portone del palazzo della zia, già pronto con lo smoking delle grandi occasioni. Lei indossava un lungo di satin bianco dalla scollatura mozzafiato, destinata più a mettere in evidenza le parti
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nascoste anziché quelle rimaste scoperte. L’acconciatura cercava di ridurre la presenza invadente dei capelli, accentuandone invece la sensualità, grazie alla loro sinuosa morbidezza. Il suo sguardo però, chissà perché, non aveva più quel fulgore di sana spensieratezza che le era proprio e gettava un’ombra di mestizia anche sullo splendore dell’ambiente, l’arredamento, gli abiti, l’orchestra, il buffet, l’illuminazio-ne sontuosa... No, non era per la stanchezza. Era proprio triste, quasi in lacrime. Fu per questo, forse, che preferimmo abbandonare i pacchiani tanghi e boleri del salone principale, per rincantucciarci nella penombra discreta, benché più rumorosa ancora, del night. — Che hai? — Niente... Non so come dirtelo... — Ma che... C’è di mezzo un altro? Sai che non me ne faccio... Era sposata. Si era sposata a sedici anni. Il marito ne aveva venti all’epoca. Se ne era perdutamente innamorata. Ma la famiglia antiquata di lui l’aveva obbligata a sottomettersi all’esame di... verginità. Che vergogna. Che umiliazione. Che rabbia... Il seme della vendetta germogliò rapidamente in lei. Sedusse il medico che l’aveva esaminata. Ma si sposò subito dopo e nessuno seppe mai che il vero padre di suo figlio non era il marito. Sì, era molto giovane e insicura. Ma non avrebbe provato il minimo rimorso, se non si fosse resa conto che continuava ad amarlo davvero. Alla fin fine, gli esseri umani sono poligami per natura e i
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maschi non rinunceranno mai al loro machismo, eccetera eccetera... Due mesi prima il marito l’aveva portata dal ginecologo per farla sterilizzare. Così, come se fosse la cosa più naturale del mondo... Si portarono appresso anche il bambino, che aveva ormai cinque anni. — Dottore, vorrei che legasse le tube a mia moglie. — E perché dovrei farlo? È ancora molto giovane e avete avuto solo un figlio finora. — Sì, ma io non potrò averne più. — Sei diventato sterile? — No, ma presto morirò. I medici mi hanno già amputato una gamba, ma non hanno saputo fermare questo maledetto cancro all’osso. — E perché dovrei sterilizzare tua moglie?. — Non voglio che abbia dei figli con nessun altro uomo quando sarò morto io. Non era naturale anche sentire rabbia, rivolta, voglia di vendicarsi, piacere di sedurre, ingannare...? Cos’è l’amore? Sesso? Stima? Fedeltà? Che senso avevano parole come queste?... Adesso lui era in agonia e lei lì con me, in mezzo alla baldoria... Volle che la riportassi da lui. Da anni voleva dirgli la verità. Aveva aspettato un momento come questo. La cosa più difficile era sempre stata trovarne l’occasione. Non esiste mai il momento opportuno. Prima perché si tratta di una situazione nuova, poi perché le conseguenze sono imprevedibili. E inoltre parlare è sempre più deleterio di tacere. — Ma perché vuoi essere così crudele?
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— Non è crudeltà la mia. Crudele è la malattia che lo attanaglia. Neanche la morfina ce la fa più a lenire i suoi dolori. — Sarebbe pietà, allora? — Affatto. Spero soltanto che il fiele dello scorno prevalga sul dolore del cancro. O che almeno riesca ad abbreviargli le pene aiutandolo ad arrendersi alla morte. È solo una maniera, l’ultima forse, di dimostrargli il mio amore. Il Carnevale continuava a imperversare intorno. Dopo averla lasciata davanti a casa sua, rimasi solo a pensare lungamente a lei e al suo giovane marito morente. I vetri chiusi e l’aria condizionata attutivano il rimbombo incalzante dei tamburi, mantenendolo a distanza, con quel fruscio rispettoso, dall’ambiente ovattato della mia landau. Pensai anche a tutti quelli che sarebbero morti durante quella notte di “folia” e a quelli che invece sarebbero nati.
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Pamina Quando si sveglia, Bira non vede il cielo. Vede soltanto la volta di cemento che forma l’arcata del ponte sotto cui ha stabilito la sua dimora, bigia e intrisa di residui olivastri, maleodoranti condensati del traffico di Salvador. A parte questo, tutto è sommamente pratico: niente pareti e quindi niente finestre né tendine, il letto è una stuoia di cartone da stendere la sera e da attorcigliare all’alba, la fontanella per l’igiene personale è a pochi metri e i bagni pubblici sono un po’ più in là, nel parco. Quella mattina dormiva ancora quando Melissa ed io abbiamo lasciato l’albergo, sulla via di ritorno a casa, ma non lo abbiamo neanche notato, rannicchiato com’era sotto la coperta bucherellata, uno straccio in più tra casse d’imballaggio ed altri rifiuti dei negozi circostanti. E che gli ha salvato la vita. Il carnevale era finito e non avevamo più voglia di andare a zonzo tra le meraviglie che “la baia di tutti i santi” offre al turista: la rampa del mercato, la laguna dell’Abaeté, la diga del Tororó, il terreiro di Jesus, il Campo Grande, il faro della Barra...
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— Não leva embora, sinhô —. Si era liberato guardingo di quel bozzolo di spazzatura e mi aveva raggiunto alle spalle, bussando al finestrino della Landau. — Cosa non devo portar via? — La macchina, signò. Era un mulatto di mezza età, slanciato e dal portamento atletico, direi elegante, in netto contrasto con la miseria degli indumenti. Un singolare molleggio dava un flessuosità quasi teatrale a tutti i suoi movimenti. Bira aveva fretta. Era evidente che non voleva essere visto insieme a noi. Ma non capivo cosa realmente volesse dirci. Sarebbe bastato ruotare la chiave e mettere in moto la macchina lasciando lo straccione a parlare da solo. — Hanno ammazzato tutti i miei amici, signò. Non avete sentito gli spari? Ma cosa stava dicendo? E che mi metto adesso a discutere con un barbone fuori di testa? Ci eravamo oramai avviati, quando ci gridò ancora dietro: — La macchina lo sa, signò. Chissà che gli saltava in mente al mattacchione. L’uscita per San Paolo era dalla parte opposta, ma neanche Melissa se ne era resa conto. Quell’intervento a sorpresa aveva evidentemente disorientato anche lei. Un’ora dopo eravamo sperduti nelle viuzze del Pelourinho, il centro storico in cui, fino all’ottocento, gli schiavi ribelli venivano frustati a sangue. La realtà attuale non era gran che migliore. Il regime climatico più
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gradevole del mondo conviveva con uno dei più spietati “regimi” militari. Ci eravamo invischiati in quel labirinto barocco di caseggiati fatiscenti, quando ci dovemmo fermare all’imbocco della piazza in cui si assembrava una folla silenziosa. Ci venne incontro una giovane modestamente vestita, ma pulitissima, con in mano una autoadesivo dove si leggeva: “Io amo Salvador”. — No, non lo voglio —, protestai più volte, aiutandomi con la mimica facciale e con i gesti della mano. Lei insisteva e ci faceva segno di abbassare i vetri per poterci dire qualcosa. Si comportava come se già ci conoscesse, ma sembrava che facesse di tutto per non sfiorare la macchina. Melissa finì per cedere e quella si presentò con garbo: — Mi chiamo Pamina ed il mio amico... sì, Tamino, quello che avete conosciuto poco fa vicino al parco... Emanava un gradevole profumo di lavanda, che inondò immediatamente tutto l’abitacolo. La guardavamo senza sapere cosa dire. — E con ciò? — tentai di tagliare corto io. — Lui veramente si chiama Bira, diminutivo di Ubiratã, ma da quando mi ha conosciuta preferisce farsi chiamare Tamino. È un ballerino e il mio nome gli ha richiamato subito il personaggio del Flauto Magico... Sì, l’opera di Mozart... i due giovani innamorati: Tamino e Pamina... La cosa andava per le lunghe e io me la sarei svignata volentieri se non ce lo avesse impedito la folla davanti a noi che andava diventando sempre più folta. Ma che
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m’interessava tutta quella tiritera? La donna invece continuava imperterrita: — Sa, lui non si può esporre troppo e perciò mi ha pregato di darvi questo adesivo per coprire le impronte. — Ma di che cosa stai parlando?. — Per piacere, parcheggi l’auto un po’ più in là. Bisogna evitare che gli indizi vengano manomessi. Non avevo scampo. Parcheggiai la Landau e Pamina, o come diavolo si chiamasse, scelse i punti più imprevedibili ed asimmetrici possibili della limpida carrozzeria e vi incollò sopra una, due, tre... di quegli adesivi che faceva spuntare da una tasca insospettata, come Mary Poppins avrebbe fatto dalla sua mitica borsa. Il risultato estetico era un vero pugno nell’occhio, ma la lasciai fare, arreso ormai. Con Melissa mi avviai verso la muraglia di curiosi che adesso rompevano il silenzio con commenti sommessi all’inizio e via via in un crescendo sempre più stentorei. Riuscimmo a infilarci tra i gomiti dei tanti che, come noi, volevano soltanto stare a vedere lo sconcertante spettacolo offerto da un cassonetto. Dalla sua enorme apertura, infatti, pendevano le gambe di alcuni adolescenti, sudice di polvere e di sangue. Al margine della legge e di ogni senso di umanità, squadracce di adulti al soldo di gente “perbene” continuavano a falcidiare dei ragazzini con stupida ferocia. Arrivò la macchina della polizia e la piazza cominciò a essere sgomberata. Pamina ci veniva ancora dietro. — Li hanno portati qui per evitare il flagrante e li hanno messi ben in evidenza perché venissero facilmente individuati, annullando piste che potessero
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compromettere gli autori del misfatto —, mi sussurrò all’orecchio. Il suo volto da madonna siciliana si illuminava progressivamente, man mano che aggiungeva una nuova tessera al complicato mosaico di informazioni che voleva passarci. Un velo di preoccupazione seguitava tuttavia a ombreggiare il suo sguardo pur fermo e sicuro, proprio come le pieghe del manto sugli occhi della famosa madonna di Antonello da Messina. — Stavo facendo l’amore con il mio principe quando sono arrivati quattro armigeri su due motociclette, con la visiera del casco abbassata. Per “armigeri” sicuramente doveva voler intendere guardie o gendarmi... Mi veniva difficile comunque distinguere quanto di ciò che diceva fosse vero e quanto invece fosse il frutto del delirare di una mente sconvolta. Sicuramente i fatti per lei dovevano svolgersi come in un teatro, inseguendo le fantasie dell’amante, ma, dietro lo scenario fantasioso, si delineava un quadro rigorosamente logico. Quando aveva deciso di andare a vivere per strada, Bira credeva di essere il principe Charles, perdutamente innamorato della principessa Diana, allora ventenne. Aveva percorso una brillante carriera di ballerino e aveva ottenuto anche qualche parte di spicco presso il Teatro Municipale. Aveva fatto persino uno stage a Broadway, dopo un provino che Chorus Line, in cerca di nuovi talenti, aveva realizzato nelle principali città brasiliane. Ma il tempo era passato ed il successo non gli aveva arriso. Fu quando incominciò con quelle idee deliranti e decise di abbandonare i suoi vecchi per andarsene a
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vivere sulla strada. Una volta conosciuta Pamina, aveva soltanto sostituito il contenuto della proiezione personale, senza cambiarne lo status, di principe appunto. — Perché stai raccontando proprio a noi tutte queste cose? — Perché la Landau è la nostra unica testimone. Sulla sua lamiera ci sono infatti le impronte delle mani di due di quegli energumeni che vi si sono appoggiati mentre aspettavano l’arrivo del loro capo. Adesso sì che ero proprio nei pasticci. Se me ne fossi andato, mi sarei sentito un verme; se fossi rimasto, mi sarei trovato in un ginepraio che poteva portarmi alla rovina. — I nostri amici dormivano placidamente sul marciapiedi dell’altro lato della via. Il terrore ci immobilizzò all’istante, mentre i blusons noirs spegnevano i motori a debita distanza e si disponevano in punti strategici per controllare eventuali ficcanaso. Abbiamo visto tutto attraverso i buchi della coperta e abbiamo dovuto persino trattenere il fiato, nella speranza di non essere scoperti. E siamo stati fortunati. I nostri amici invece non hanno avuto la stessa sorte. — E adesso, che vuoi che faccia? Porto la macchina in commissariato e dico: “Signor Delegado, per favore, l’interroghi”? — No, ma potremmo consegnare gli adesivi a mio cugino Jorge, investigatore della polizia —, suggerì Melissa. Era soteropolitana anche lei, ma la famiglia si era trasferita a San Paolo quando era ancora piccola. A Salvador, che in greco (pensate!) si dice “sotèr”, erano rimasti tutti gli altri parenti “soteropolitani”.
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L’idea mi parve magnifica. Avrei potuto prendere il carbone con lo zampino del gatto. C’era molta gente interessata a far piazza pulita degli ostacoli che si frapponevano ai grandi piani di sviluppo condotti a qualunque costo dai potentati, anche in modo machiavellico. L’Unesco aveva recentemente dichiarato il Pelourinho patrimonio dell’umanità e la presenza di quei piccoli delinquenti senza dubbio infastidiva i piani di restauro del meraviglioso complesso architettonico di Salvador antica e la conseguente promozione turistica. Tornammo in albergo per preparare, in buste con talco, gli adesivi che avevamo staccato con cura dalla macchina. Ne facemmo un plico da spedire alla casella postale di Jorge quando fossimo stati ormai fuori pericolo. Quando lasciammo l’albergo, sperando che fosse davvero per l’ultima volta, trovammo in strada una piccola folla che si beava dinnanzi al raro spettacolo dei due accattoni-ballerini in piena esibizione delle loro doti artistiche. Stavano eseguendo, in tedesco, il duetto di Pamina e Tamino dell’opera Das Zauberflöte di Mozart, a diecimila chilometri da Vienna. La sapevano tutta. Non c’era l’orchestra, né la Regina della Notte, né Sarastro, né Monostato, né gli Armigeri, né Papageno, ma la coppia si arrischiava a cantare anche le parti del coro con un’energia e una grazia che rendevano piacevoli persino le frequenti stecche.
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L’improvvisata coreografia davanti alla Landau poi, era ineffabile. Correvano all’incontro l’uno dell’altra come due libellule in amore, si libravano come su cuscini di vento trascinati da una forza invisibile, in arditi volteggi, o improvvisamente fermi in pause estatiche sull’alito senza tempo della passione esplicita. «Tamino mein! O welch ein Glück!». «Pamina mia! Oh, qual piacer!»... Sapevano che, grazie a noi, i loro giovani amici sarebbero stati vendicati e si sarebbe riaccesa la speranza di un freno all’impunità, nei confronti di tante altre persone, possibili vittime della prepotenza dei grandi. Ci allontanammo mentre Pamina cantava amorosa al suo Tamino: «Ovunque tu andrai, / compagna m’avrai fida ognor. / Io guiderò il mio ben: me guiderà l’amor. / Di fiori e rose amore almen / le vie spinose abbellirà. / Ma degli incanti è teco il suon? / Perigli e pianti ei vincerà». Da tempo mi ero rimesso al lavoro e non mi ero neanche più visto con Melissa, nonostante fossimo rimasti buoni amici, quando lei mi telefonò, lasciandomi di stucco con poche parole: — Scompari subito. I sospettati appartengono tutti alla polizia. E Jorge é uno di loro. Ecco perché me la sono data a gambe e sono andato a finire in Paraguay. Con la mia Landau, naturalmente. Nonostante tutto sono sempre abbastanza tranquillo e spero che quegli energumeni non siano poi così stupidi
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da pensare che io non abbia provveduto a fare una copia di tutte le evidenze rilevate sulla Landau. Come? Direte voi. La mia bella Zeiss. Non mi è servita soltanto per riprendere gli incantevoli paesaggi baiani: la Lapinha, il largo della Sé, la Barroquinha, le Sette Porte, Rio Vermelho, Porto da Lenha, Monte Serrat, Solar do Unhão, Largo de Santana... Mentre Melissa preparava le buste in albergo, io fotografavo da tutti gli angoli la Landau, che sembrava una vittima di incidente stradale piena di bende e di cerotti, con tutti quegli adesivi ancora appiccicati sopra. Poi, una ad una, ho fatto il primo piano alle impronte... incipriate . Ho preparato una copia di tutto per il segretario generale delle Nazioni Unite, una per il Presidente della Repubblica, un’altra per il Presidente del Supremo Tribunale di Giustizia... Quei lestofanti oramai sono incastrati. Qualunque cosa mi capiti, Pamina sa già cosa fare. È il piano “L” (da “Landau”).
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Perla Ad Assunzione mi sentii subito a casa mia. Un giovane imprenditore italiano gestiva con disinvoltura l'albergo di sua proprietà, oltre a svolgere un mucchio di altre attività parallele. Non so come vi riusciva, ma doveva sicuramente godere dei migliori rapporti possibili con ogni tipo di ceto sociale e con i diversi ranghi del pubblico potere. Mi accolse con cordialità spontanea e calorosa, un po’ perché dal passaporto riconobbe subito la comune nazionalità e un po’ perché era spontaneo e amichevole con chiunque. Rimasi però estremamente sorpreso quando, dopo pochi giorni dal mio arrivo, aprì il cassetto della scrivania e ne tirò fuori un fascio di formulari proponendomi di richiedere anch'io la cittadinanza paraguaiana. — Sono tutti amici miei — mi spiegò con un ammiccare complice la sua intimità con gli uomini dell'Inmigración —. Anzi, uno di questi giorni ti presenterò al presidente. — Che presidente? — Della repubblica. Guido era sposato con una ragazza del luogo, che l'aiutava negli affari come avrebbe fatto un autentico manager dalla sapiente e silenziosa operosità, facendo però di tutto per lasciare sempre in primo piano il marito.
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Si capiva subito, aveva un rapporto di incondizionata idolatria. Perla era una perla davvero. La sintesi di visibilità e discrezione, di vivacità e calma, di fermezza e soavità. Era piena estate e le vie alberate della capitale riuscivano a malapena ad attenuare la canicola. Di notte poi, l’afa toglieva il respiro, nonostante il ventilatore instancabile si desse un gran da fare per macinare la poltiglia di aria rovente riversata sul letto dalle finestre inutilmente spalancate. L’albergo non aveva aria condizionata e tutti erano abituati a quel caldo infernale. I nuovi arrivati come me, invece, se la vedevano brutta. Vero è che un certo refrigerio lo trovavo nella mia Landau, ma non potevo sicuramente restarmene rintanato il giorno intero in macchina a bruciare benzina. Uno di quei primi pomeriggi, non ce la feci più e mi decisi a trovare un cinema che l'aria condizionata ce l’avesse, non importava cosa stessero proiettando. Per fortuna il film era “I girasoli”, purtroppo con didascalie in spagnolo e doppiato in un inglese semplicemente stomachevole. Presto mi appisolai, risvegliandomi al momento in cui Mastroianni, il redivivo della campagna di Russia, voleva sapere come si chiamava il figlio che la Loren, ormai risposata, aveva avuto. «Antonio», gli rivelava la vedova bianca. «Come me?». «No, come Sant’Antonio». E poi sbottava in un pianto inconsolabile, non appena l’ex-marito, ex-soldato, ex-italiano, spariva dietro la porta, tornandosene come un cane bastonato nei suoi lontani campi di girasole. Fine. Così dovetti uscire di nuovo all’aria libera (e irrespirabile) con addosso, in sovrappiù, una cintura di cimici volentieri emigrate dal freddo e oscuro anonimato
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del cinema al tepore personalizzato delle pieghe dei miei abiti e della mia pelle forestiera. No, non erano pulci, presto lo avrei imparato. Sul momento avrei anche potuto prendere un abbaglio, perché non avevo ancora le nozioni che in seguito avrei acquisite, nel convivio con il mondo scientifico paraguaiano. Certo, viene da ridere, ma quando vi avrò raccontato il resto della storia, sono sicuro che non riderete più tanto. — Preparati, andiamo dal presidente — mi disse Perla, un giorno. — Come, così, su due piedi? — No, sulla tua Landau —. Spiritosa, oltretutto. — Ma che ci vado a fare io? Sono un illustre sconosciuto e non so in cosa gli potrei essere utile. — Tu non ti preoccupare. Basta dire sempre: “Sì, mi general (mio generale)”. Non lo chiamare mai per nome e non gli dare del tu, anche se vedrai quanto sia affabile. Accettai solo perché me lo aveva chiesto lei. Del resto, non aveva bisogno di molte parole. Gli occhi dicevano tutto. Bruna e longilinea, era stata scolpita e rifinita da un artista ignoto in un materiale vibratile che si adattava via via all'alone di aria trasparente e luminosa in cui le piaceva incedere rapida e sicura. I capelli fino ai fianchi, neri e brillanti, godevano di vita propria, sempre in pieno accordo con la flessuosità del corpo. Peccato che fosse sposata, ma devo riconoscere che era “un pezzo di mal cammino”, come si dice in Brasile. Trovammo il generale nei giardini dell'immensa tenuta presidenziale con i prati all'inglese e piante ornamentali, cespugli di rose e un’infinità di orchidee dalle forme e dai colori più fantasiosi. Era intento a sforbiciare steli di tulipani con una delicatezza
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inimmaginabile in mani tozze come quelle del grasso giardiniere che ci vedemmo davanti. — Questo è l'amico siciliano di cui le ha parlato Guido, mi general. — Ah, sì, certo. Il siciliano. E padrone di una bella Landau. Aveva un'amabilità ridanciana che mi sbalordiva e allo stesso tempo mi infastidiva più di quanto non avrebbe fatto la truculenza di un sinistro tiranno. Non sembrava fare nessuno sforzo per apparire sereno e scevro di preoccupazioni, ma chi entrava in contatto diretto con lui si rendeva immediatamente conto che era informatissimo su tutto quel che gli succedeva intorno e che sapeva trar profitto anche dei dati più minuziosi che potessero essergli utili. — È una cattleya — disse con apparente noncuranza, indicando un’orchidea che aveva attratto la mia attenzione. — Mimosa. Cattleya mimosa, originaria del nord brasiliano. Ne esistono un paio di centinaia di specie e questa è una delle più vistose e pregiate. — Sì, mi general. — Avrei avuto voglia di chiedere un mucchio di cose, ma avevo già imparato che l'importante era non fiatare. — Un condottiero è sempre un collezionista — continuò, leggendomi in fronte. — E gli oggetti più interessanti sono sicuramente gli esseri animati: piante, animali, uomini... — Sì, mi general. Ne seguì una lunga disquisizione filosofica, alla buona per la verità, sui doveri di un uomo, soprattutto quando si hanno delle responsabilità su un intera nazione. Perla lo seguiva nel discorso e nel laborioso sfarfallio delle dita
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paffute, con gli occhi affascinati e allo stesso tempo seducenti di un’ammiratrice senza mezzi termini. — Quel che importa davvero è la figura, la gestalt tanto cara ai miei compaesani teutonici, la species, come diceva Aristotele. La species impressa e la species expressa: il resto è secondario. — (L’essere è secondario? È forse solo apparenza?) — mi chiesi in silenzio. I miei occhi nei suoi. — Certo — rispose con un ghigno, il comandante supremo. — L’essere di un fiore è troppo effimero. La sua bellezza è invece eterna. E quel che poi conta davvero è che si perpetua in ogni esemplare della propria specie. La parola stessa, specie, lo dice: “specus”, la spelonca, la caverna platonica dove Bacon pone i nostri stereotipi, gli “idola”, la parvenza delle cose, e allo stesso tempo è lo “speculum”, lo specchio in fondo a cui scopriamo e ammiriamo, o detestiamo, l’immagine di noi medesimi. — (Questa è grossa) — pensai, ma stavolta, con lo sguardo a terra. — (E allora perché ci tieni tanto a perpetuare lo scettro in mano alla brutta bestia che sei? O forse hai ormai dimenticato di guardarti allo specchio ogni mattina?). — Vuoi vedere la mia scuderia? — Mi sorprese ad un tratto, riponendo con cura gli arnesi e il monumentale grembiule di cuoio. Ci fece salire su un golf cart, Perla al suo fianco ed io dietro come un baule. Adesso il presidente era un autista con la stessa parlantina del giardiniere appena dimesso. “È la gloriosa umiltà dei grandi uomini”, avrebbe detto il mio professore di filosofia al liceo, riferendosi però a
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Socrate. — Socrate era un grande uomo —. Tutto inutile. Non potevo neanche pensare, che lui mi leggeva in mente. La meta era l’immenso capannone in fondo a un campo di zafferano. Oramai eravamo arrivati e l’attendente fece scorrere il monumentale cancello in un fruscio di sete. La scena che ci trovammo davanti sembrava pronta per la ripresa di un colossal. Decine di Landau nere, luccicanti, posteggiate in due file a lisca di pesce e dentro ciascuna, un autista in livrea. Seduto dietro, un signore biondiccio e paffuto, con la fascia presidenciale a bandoliera. Entrambi impettiti e impassibili. Li passammo in rivista e, da piccoli movimenti della faccia o dall’improvviso fremito delle palpebre, constatai che non si trattava di manichini, come avevo pensato in un primo momento, ma di esseri viventi. Lo erano poi davvero? Perla si era dileguata insieme ad un gruppo di assistenti del generale ed io rimasi solo ad ascoltarlo. Sempre allegro e comunicativo, il presidente si mise a narrare storie persino del secolo anteriore, quando governava il Paraguay un dittatore civile, il Supremo Dittatore o semplicemente El Supremo, come si faceva chiamare il Doctor José Gaspar Rodríguez de Francia. Era un avvocatuccio di cause perse, di misteriosa stirpe brasiliana, che aveva saputo approfittare dell’incerto scenario politico dell’era napoleonica, per ottenere carta bianca dalle parti avverse e governare il Paese come un vero Cincinnato, dal pugno di ferro però.
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— E un Cincinnato anche nell’austerità personale più pignola, — rincarava la dose il generale — al punto di creare certe frasi indimenticabili come quella: “In quanto a me, per il bene generale della nazione, non ho né parenti, né figliastri, né amici”. Ma che importava a me tutto ciò? — “I liberali mi rinfacciano che sono più rigoroso con i miei parenti e con i miei vecchi amici, — proseguiva imperterrito il generale, come se reinventasse le citazioni del degno predecessore — E non si sbagliano. Investito del Potere Assoluto, il Supremo Dittatore non ha vecchi amici. Ma soltanto nuovi nemici”. Doveva essere un ammiratore e non soltanto un semplice successore né uno storico imparziale, quel cicerone improvvisato che, mentre passavamo in rassegna tutte quante le Landau, mi tesseva un excursus particolareggiato della storia dell’inizio ottocento vista dagli occhi dei paraguaiani. — Napoleone aveva appena sofferto la disfatta di Waterloo, quando l’ambasciatore dell’impero brasiliano, Correa da Câmara, venne in Paraguay con la chiara intenzione di mestare nel torbido della politica interna a dura pena mantenuta sotto controllo dal Supremo e cercare alleati tra i suoi oppositori in vista di un futuro nuovo riassetto del cono sud d’America. Per me diveniva sempre più inquietante quello spettacolo di decine di sosia impalati sotto la gragnuola verbale della guida improvvisata. Una disinvolta colonna sonora da pellicola di suspense (o di terrore?). — Il Supremo Dittatore aveva lasciato in quarantena l’ambasciatore dell’Impero Brasiliano, presso una palazzina in periferia, per concedersi il tempo di sondare
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le vere ragioni dell’attuale politica dell’ingombrante vicino. Alle sue calcagna aveva però messo Cantero, un furbo intermediario incaricato di mantenere costantemente informato il Señor Delegado José León Ramirez, a sua volta uomo di fiducia del Supremo. Si era forse convinto che io avessi qualcosa in comune con il governo brasiliano? — Un giorno l’ambasciatore venne a porgere le rimostranze più veementi contro il trattamento crudele riservatogli dal viscido Cantero, il quale spingeva alle calende greche l’agognato incontro con il Presidente della Repubblica, mentre il Supremo faceva orecchio da mercante e continuava a mantenerlo a bagnomaria. O forse era solo una maniera di compensare il senso d’inferiorità che da un secolo opprimeva quella nazione, umiliata da varie sconfitte e perdite di vasti territori per via delle omeriche guerre ottocentesche contro la Triplice Alleanza delle nazioni limitrofe? — La casa assegnata all’emissario dell’impero era circondata da casupole di indios inurbati che vivevano in condizioni igieniche davvero precarie. Persino l’erogazione dell’acqua potabile lasciava a desiderare in tutto il quartiere. Ma l’ambasciatore reclamava soprattutto a causa di una vera e propria invasione di pulci. Ecco dove c’entrano le pulci in questa storia. — Cantero, per tutta risposta, fece installare un gran canestro sulla chioma di un immenso albero che sovrastava la casa dell’ambasciatore, con la scusa che il Signor Delegato voleva farne un centro di osservazione delle abitudini delle pulci, onde scoprire una maniera di poterle sterminare.
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Il marpione aveva trovato un modo brillante di accontentare allo stesso tempo il Supremo, il Delegado e il popolino miserabile, il quale si divertiva alle spalle del malcapitato ambasciatore, intuendo i subdoli obiettivi di quel canestro-salito-al-cielo. — Finalmente, un Ramirez trionfante venne a spiegare al Supremo, nei minimi particolari e in scala millimetrica, le importanti scoperte fatte in quell’estemporaneo laboratorio. Principalmente la relazione esistente tra il salto della pulce e la lunghezza delle sue gambe, come pure il gran divario tra la pulce maschio e la pulce femmina, sia prima che dopo aver succhiato il sangue delle vittime. “E, con venia di Sua Eccellenza, anche prima e dopo la copula”, illustrando con originalissimi schizzi tutte le posizioni di un procace kamasutra da pulciaio. Perché mai il generale mi raccontava quelle cose? E con che gusto poi si sbellicava dalle risa per il suo stesso gran senso di umore. — Nella coffa su cui era salito, a credere alla relazione confidenziale di don José León Ramirez, Cantero non provvedeva soltanto all’acqua e alle vivande, ma anche ad introdurre una delle giovani serve del plenipotenziario brasiliano. Forse per pavoneggiarsi davanti ad uno straniero per l’astuzia dei paraguaiani, tanto decantata nei libri di storia e nelle canzoni popolari, conosciutissime in tutte le Americhe quanto l’arpa e la polca paraguaiane. — Appollaiato sulla cima degli alberi, il Signor Delegado si comportava così discretamente che nessuno vedeva o sospettava che gli inquilini della coffa stessero a fare la “bestia-a-doppie-spalle” al di sopra dei tetti
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dell’ambasciata. Mi veniva persino lo schifo al sentire quelle storie da caserma di tempi antichi rivissute da un personaggio così importante e così pericoloso, in pieno esercizio delle sue doti istrioniche. — La bella schiava mulatta sprizzava invece felicità da quando se ne stava rintanata con il Señor Delegado. Era lei che sottraeva la corrispondenza diplomatica del padrone straniero e la portava dal Delegado incanestrato, per farla rapidamente copiare, inviandone le preziose informazioni al Supremo Dittatore. — (Perché non mi spieghi il senso di quel che mi stai facendo vedere ed ascoltare?) — gli buttai dritto in faccia con un semplice sguardo ambiguo. — Raccontavano gli antichi greci che il tiranno Dionisio, sì, proprio quello di Siracusa, avesse obbligato uno dei suoi critici più feroci, chiamato Damocle, ad occupare il suo posto durante un festino, per fargli provare un po’ le delizie del sovrano. Ma presto quel poveraccio dovette accorgersi che non era poi così piacevole essere un re. Vide infatti pendere sulla testa una grande spada sguainata, appesa al tetto con un unico crine di cavallo. Lo guardai sgomento. Si vedeva chiaramente che nel suo ruolo di sovrano ci sguazzava. Ma cosa voleva mai dire con quella storia? — Se c’è uno che avrei un gran piacere di far passare attraverso di un’esperienza di queste è lo scalzacani di Roa Bastos. — (Chi sarà mai questo tale?) — mi domandavo cupo. — È un intellettualoide che si diverte a parodiarmi.
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Ma io lo lascio fare, tanto chi lo legge quel demente? E in Paraguay non si sogna neanche di metterci più piede. Lui può divertirsi quanto vuole a Buenos Aires o a Parigi, che con le sue storie sui miei predecessori, serve solo a far propaganda dell’intelligenza e della capacità dei paraguaiani. Ma è bene che rimanga lontano, perché appena torna in patria, qualcuno gli farà sicuramente la festa. In quel momento vidi il soffitto letteralmente spalancato su di noi. Era fatto di giganteschi pannelli che scorrevano su dei binari silenziosi e lasciavano spazio a delle immense spade sospese da fili di nylon di vari metri, una su ogni Landau della scuderia. Erano sicuramente delle semplici metafore nate dalla storiella di Dionisio. L’avvertenza che ne proveniva però, era molto più terrificante. I miei occhi tornarono a ficcarsi a un metro sotto il pavimento. (Che matto), pensai. — E allora, che te n’è parso? Non è un simpaticone il nostro presidente? — Perla era tornata e dopo poche parole affettuose, quasi filiali, di commiato dal generale, si dispose a riportarmi a casa. Il golf cart così passò a guidarlo lei, ma un indicibile smarrimento mi colse quando, fuori del cancello di quella piantagione di zafferano, vidi la mia Landau ad aspettarmi, con un autista dentro. Identico a quelli appena lasciati nel capannone. — Prima di tornartene in albergo, voglio portarti a
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conoscere una persona. — Ma in Paraguay non si mangia? — Trovai ancora il coraggio di dire in tono di scherzo. — Non ti preoccupare, presto ti farò gustare i piatti più prelibati che abbia mai provato. La strada non era più asfaltata, ma la terra battuta era compatta e quasi non lasciava polvere dietro la macchina. Ci fermammo in uno spiazzo, davanti ad una villa immersa in un bosco di piante native, in riva ad un fiume. Ci venne incontro un signore anziano dal sorriso bonario, in cui si imponeva immediatamente lo spazio tra gli incisivi superiori. Mi rammentò un volto conosciuto. Chi? Ah, sì, Omar Sharif in “Lawrence d’Arabia” nel ruolo dello Sherif Ali ibn el-Kharish, che spiegava il difettuccio come il segno del Profeta. O chissà? No, non mi veniva proprio a chi si somigliasse quel tipo là. L’incedere era tipicamente militare, ma l’atteggiamento accogliente ci fece sentire subito a nostro agio. L’autista-robot rimase impassibile al suo posto di guida. — Qué tal, don José? — salutò Perla. — Prego, accomodatevi. Ecco, uno squarcio nella mia memoria. Ecco a chi si rassomigliava il vecchio: Gregory Peck nel film “I ragazzi venuti dal Brasile”. Senza lo spacco tra i denti. — Don José, le presento il mio amico italiano. — Mucho gusto —, mi strinse la mano con la scostante deferenza e l’inconfondibile accento dei tedeschi. L’enorme stanza era qualcosa di mezzo tra una cucina,
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una biblioteca e un laboratorio di chimica. Un gruppo di addetti che potevano essere degli aiuti cuoco, dei bibliotecari o dei laboratoristi qualsiasi, gironzolavano qua e là con camici bianchi abbottonati fino al collo, maschere e cuffie rigorosamente candide anch’esse. — L’onore è tutto mio —, risposi in spagnolo, con l’accento più gutturalmente siciliano di cui ero capace, imitandolo però nella decisa maniera di distanziare il più possibile la testa, allo stesso tempo in cui, con uguale vigore e convinzione, gli stritolavo la mano. — Adesso proverai finalmente quei deliziosi piatti della cucina paraguaiana che ti avevo promesso — esclamò festosa Perla. Il pranzo era pronto. Ci eravamo appena seduti, quando due attendenti sfornarono una serie di portate fumanti ed innumerevoli intingoli, verdure, frutta, dolci, che trasformarono la mensa spartana nel centro dello stanzone in un vero e proprio stand di culinaria guaranì. — Le insalate sono servite come antipasto. Questa contiene la palta insieme alla lattuga, frammenti di baccalà, uva passa, locoto dolce e uova dure. Quest’altra è la ensalata de zapallos, fatta con pezzetti di zucchine, cipolle cotte, pomodoro, peperoncini... Perla si sbizzarriva a descrivere ogni particolare di tutto quel ben di dio ad un commensale sommerso ormai da una vera e propria onda di acquolina in bocca, quando avvenne l'entrata trionfale del vassoio più grande che avessi mai visto in vita mia. Ci vollero due uomini nerboruti per sollevare quell' immenso pezzo di carne appena ritirato dal forno e deporlo nel centro della mensa. Carote, verdure cotte e crude, spicchi di arance e di limoni, ramoscelli di rosmarino e di alloro adornavano
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graziosamente la massa informe. Perla si premurò ad applaudire alla grandiosità dell'opera. — È il risultato più brillante della scienza paraguaiana. — Magari dell'arte culinaria, vorrai dire — la corressi bonariamente, incoraggiato dall'ambiente festante creatosi per merito del vino decoroso e dell’appetito stuzzicato. — No, è proprio il frutto di anni di ricerca scientifica, a seguito di una fortuita scoperta paleontologica della maggiore importanza. Ancora il progetto guidato dal dottor Merengue è segreto, ma presto verrà a costituire il fulcro dello sviluppo della nazione. Come mai un segreto così importante e tante informazioni non richieste si stavano così generosamente impartendo ad un completo sconosciuto come me? — E chi sarebbe il dottor Merengue? — chiesi innocentemente. — È don José, lo scienziato che hai appena conosciuto. Il cibo era veramente delizioso. Sapori inediti mi inondavano il cervello, eccitati dalle bevande ignote e dal piccante universale. Ma la sorpresa progressiva non riusciva a tacitare il dubbio persistente: perché io? Perché tanta importanza attribuita ad un insignificante straniero? — Questo è un menù preistorico. Lo sai che anche nei climi temperati e tropicali è esistito il mammuth. Da noi visse la specie “columbi” detto anche mammuth americano. — Non mi dirai che stiamo mangiando carne di mammuth — scherzai fissando in volto la splendida
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brunella dagli occhi ridenti. — In certo senso, sì. — Come sarebbe a dire? — Perla si fece seria di botto. In modo persuasivo, come stesse tenendo una lezione, si mise a parlare dei mammuth. Quello colombino si era ambientato da quelle parti, sparendo inspiegabilmente undicimila anni prima. Era una specie di mammuth senza il gran pelo proprio dei suoi parenti delle zone fredde. Era un erbivoro che pesava dieci tonnellate e raggiungeva più di quattro metri di altezza, e poteva vivere fino ad ottant’anni. Era un parente degli attuali elefanti, ma non ne era un ancestrale e deve essere stato cacciato dall’uomo delle caverne, nel pleistocene. — Ma che c’entra con quel che stiamo mangiando? — La interruppi io, ancora sbigottito, con il boccone in bocca e le posate a mezz’aria. — Don José! — Il dottor Merengue si premurò a raggiungerci, dopo aver dato le ultime istruzioni agli inservienti. — Avrebbe la gentilezza di spiegare al nostro ospite le ricerche della sua équipe di scienziati sui mammuth? — Con placerrr, doña Perrrlita — sorrise il tedesco, con quel suo modo di moltiplicare all’infinito le erre spruzzate tra lo spacco dei denti. Dietro richiesta personale del Presidente, aveva reclutato tra i giovani ricercatori paraguaiani un gruppo di prim’ordine per sviluppare la massa muscolare degli armenti nazionali attraverso la manipolazione della loro struttura cellulare. Aveva inviato molti giovani ingegni a studiare negli Stati Uniti presso i centri più rinomati di ricerca scientifica ed alcuni di loro vi si erano stabiliti
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permanentemente, mantenendosi però in stretto e segreto contatto con i loro compatrioti. — Ma che c’entrano i mammuth? — Sapevo che non potevo cercare scorciatoie, ma la curiosità mi divorava. — Esiste già un know-how nostrano, sviluppato fin dai tempi del Supremo Dictador, inizialmente svolto sulle pulci, ma oggigiorno preferiamo le cimici, insetti molto più resistenti e forniti di una struttura motrice ancora più agile. Mi venne quasi da vomitare il boccone appena ingoiato e tutte le pietanze già in laboriosa digestione. (Ma che modi. Parlare di certe cose a tavola!). — Il momento culminante è stata la scoperta di un mammuth colombino in una grotta vicino alle cascate dell’Iguassù — intervenne Perla. — Dev’essere rimasto intrappolato in un suolo alluvionale arenoso, prosciugato in seguito dal clima progressivamente più asciutto, che permise di conservarlo mummificato dopo migliaia e migliaia di anni. — Attraverso una serie di modificazioni all’interno delle cellule di innumerevoli cimici, siamo riusciti a trasportare la nuova tecnologia genetica su cellule di mammuth e ne abbiamo ricavato un prodotto che moltiplica considerevolmente le cellule muscolari bovine — esultava don José. — Dopo la siesta ti porterò a vedere il sito archeologico dove si trova intatto lo straordinario reperto, ancora con le due zanne intatte e un abbondante materiale biologico a disposizione per future ricerche — aggiunse Perla. Per me, avrei declinato volentieri ulteriori scoperte e informazioni. Oramai ne avevo di troppo. Mi chiedevo
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piuttosto dove terminasse il delirio e incominciasse l'allucinazione. In realtà avrei preferito riprendermi la mia Landau e andarmene via da quel paradiso di angeli esaltati. Ciononostante non rinunciai a chiedere: — Ma con tanti buoi che avete, che ne farete poi di tanta carne? — Invaderemo il mercato americano — venne al sodo lo scienziato. — Agli americani abbiamo fatto un gran favore mettendo in ordine il continente intero con i nostri governi contrari alla marea rossa incentivata da Mosca. Lo sai che abbiamo un patto tra tutti i governi militari del Sud-America. Il piano Condor non è soltanto un accordo politico, ma un vero e proprio mercato comune. Il nostro potere militare sarà restaurato mediante il potere economico che la carne ci permetterà di ottenere. — Cos’è il piano Condor? — Ammettevo la mia candida ignoranza. — Le polizie politiche dei vari stati sono collegate da un sistema unico di informazioni, che permette di fermare qualunque sospettato praticamente in tutta l’America Latina — spiegò Perla. — Il prossimo passo del Paraguay sarà quello di riconquistare il potere che aveva prima della guerra contro i vicini, nel secolo scorso. Cominciavo a capirne qualcosa delle vicende e delle intenzioni covate nel corso di secoli da un popolo obbligato da un’umiliante disfatta militare a vivere in un entroterra ancora paradisiaco ma troppo ristretto geograficamente rispetto al territorio originale e ridotto ad un perpetuo ritardo nello sviluppo economico e culturale. Dopo la siesta saremmo dunque andati a vedere il
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mammuth. Stentai ad addormentarmi, nonostante o forse proprio per causa della digestione difficile. Ma neanche mi accorsi quando finii per appisolarmi sulla amaca messa a mia disposizione, accanto a quella in cui si era adagiata Perla. Un venticello propizio temperava la calura pomeridiana alleata all’ombra rasserenante di una palma da cocco verde. Presto mi vidi immerso in un mare di girasoli e di orchidee e Perla si era alzata per venirmi a cantare una nenia e confortarmi con il calore del suo fiato. — Non ti preoccupare, il presidente sa il fatto suo — cercava di tranquillizzarmi. — Tutte le repubbliche sotto regime militare sono con noi e molti dittatori espulsi dai rispettivi governi sono nostri ospiti. Una strada perfettamente asfaltata si apriva tra i fiori e mille Landau nere vi scivolavano su in parata silenziosa, con i rispettivi autisti immobili ed impettiti come li avevo visti nel capannone. — Guarda, quello è il terribile dittatore di Nicaragua, Anastasio Somoza in persona e dietro di lui viene un sosia di suo padre, ugualmente Anastasio Somoza, assassinato più di vent’anni fa. Poi c’è Jean-Claude Duvalier, il Baby Doc haitiano, anche lui con un sosia del padre Papa Doc appresso. E poi Torres il dittatore boliviano Jota-Jota, spodestato dal discreto ed educatissimo Banzer. Questo non si farà aspettare molto, come pure l’attuale narcodittatore che lo ha succeduto, García Meza, insieme alla sua longa manus, il truce Arce Gómez. Anche i dittatori militari argentini hanno il loro posto riservato in una landau, quando saranno costretti a rifugiarsi nel nostro ospitale paese. El señor Presidente li accoglierà benevolmente, insieme ai vari aguzzini di loro
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fiducia, fino a quando non riuscirà a dare a ciascuno quel che si merita. Il potere economico paraguaiano affronterà persino la tracotanza americana ed imporrà il nuovo riassetto geopolitico del cono sud. Dietro alla processione di Landau veniva una fila interminabile di ombre. Erano desaparecidos sorretti da un vero e proprio esercito di torturadores armati fino ai denti. Il Requiem di Verdi era la colonna sonora di quella sequenza surreale che trasformava in un vento gelido lo zefiro che mi aveva conciliato la pennichella. — Svegliati, svegliati — mi ripeteva adesso con uno scossone Perla —. Dobbiamo andar via. — Dove? Dove sono? — Mi ero svegliato per davvero. Ed era proprio Perla che mi scuoteva le gambe. — Dove andiamo? — Si va via. Lasciamo il Paraguay. La sorpresa maggiore fu quella di vedermi davanti suo marito che mi trascinava insieme a lei verso la mia Landau. — Adesso conduci tu — mi impose Guido che sembrava proprio aver preso in mano una situazione di emergenza. — Portiamo il Presidente in Brasile. Aprì la portiera del conduttore e mi spinse al volante. Finalmente ero padrone della mia macchina. Ma con un carico alquanto scomodo. Seduto dietro c’era infatti il General. Sereno, con un sorriso distratto, ancora in tenuta da giardiniere. Perla gli si sedette accanto con quell’affabilità filiale di sempre. Guido mi venne accanto e subito avviai il motore verso la frontiera. Sempre verso l’est. E non ci fermammo più finché non arrivammo in Brasile. San Lorenzo, Capiatá, Itauguá, Ypacaraí. Il
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meraviglioso lago ci accompagnò per pochi minuti a nord della nostra rotta. — Ho passato la giovinezza con il terrore della morte. Ora so che non morirò più giovane. Ma non gradisco troppo ormai l'idea di dover morire vecchio — Il vecchio presidente continuava a sfoderare a vanvera i suoi aforismi. — Sì, mi general — rispondevamo all’unisono. — Come vedi, è ormai fuori di testa — Guido mi sussurrava all’orecchio. — Per questo lo portiamo in salvo presso gli amici del governo brasiliano. Ed io, con il piede sull’acceleratore. Caacupé, Eusebio Ayala... — L'uomo è l'unico animale che soffre davvero, perché fin dalla nascita si sente condannato a cercare la felicità. — Sì, mi general. — Abbiamo convinto suo genero a capitanare un falso colpo di stato, per poter prendere le redini del governo senza colpo ferire. Così sarà assicurato il timone nelle mani del gruppo familiare e del nostro partito colorado. San José, Coronel Oviedo. Eravamo a metá strada. — Le vere rivoluzioni invece sono fatte dalle destre guidate da dittatori illuminati. — Sì, mi general — ripeteva il coro. Faceva quasi pena il vecchio, in cui a stento si sarebbe oramai riconosciuto il tiranno sanguinario di sempre. — La tua Landau è arrivata al momento giusto. È perfetta per depistare curiosi e ribelli. Alla dogana nessuno baderà alla famigliola di uno straniero che torna al suo Paese in una macchina privata — mi spiegava
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ancora Guido. — Le riforme le fanno quelli di sinistra, quando si accorgono che é impossibile la rivoluzione voluta da loro — continuava a declamare per conto suo il generale, sperduto nel suo labirinto. — Sì, mi general —. Perla cercava con garbo di sedare la sua logorrea, anche per concedermi di capire le istruzioni di Guido. — I liberali sono dei candidati alla dittatura. Ma pochi sono i dittatori, perché altrimenti non esisterebbero neanche loro. — Sì, mi general Alla frontiera ci avrebbero aspettati i rappresentanti del servizio segreto brasiliano per portare l’illustre amico a Brasilia. Allora sarei rimasto finalmente libero di andarmene per conto mio. Caaguazú, Juan O’leary, Doctor Mallorquín e finalmente l’attuale Ciudad del Este, allora un villaggetto da niente, con il nome del General-Presidente. Addio, Paraguay. Appena attraversato il Ponte dell’Amicizia sul Rio Paranà, fummo attorniati da uno squadrone di agenti in borghese. Senza una parola, scortarono i tre passeggeri verso un rumoroso elicottero parcheggiato a qualche decina di metri, che prese immediatamente volo in un vortice d’aria. Finalmente soli. La Landau ed io. Liberi. Per davvero? “La libertà individuale non è un fattore di autodeterminazione, come pensavano i filosofi medievali — avrebbe potuto dire a ragione il General — ma di dispersione e di confusione. Chi riunisce un popolo è un uomo forte che decide da solo, non un’orda di democrati
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che stanno a sbranarsi in un’accozzaglia di idee conflittuali”. Non sapevo infatti se dovevo andare o restare, se avviarmi a nord o ancora ad est. In realtà avrei preferito non decidere, godermi questo stato di beatitudine inconsapevole che permette di non opinare, di non fare, di non giudicare, di non pensare persino. Avevo avuto ancora una volta una fortuna sfacciata dal mio lato, uscendo indenne da un’imponderabile situazione di pericolo, e chissà quante altre ne avrei dovuto affrontare, senza nessuna certezza di poterle sfuggire. Chi era Perla? La giovane sposa, dolce e fedele, che mostrava di essere? O la perfida musa di un piano diabolico? Era la figlia innocente di un pur sanguinario tiranno? O una sua amante e complice? E Guido? Quale il suo vero ruolo nella scacchiera del potere? Dov’era il mammuth del Presidente? Esisteva davvero o era solo una metafora della megalomania di un autocrate? Quel che avevo appena visto e sentito, le persone che avevo conosciuto, i luoghi che ero stato costretto a conoscere, mi riportavano sui miei propri passi, ma non rispondevano a tutte le mie domande. E Don José? José Merengue... Un brivido mi colse, quando in un lampo mi venne in mente la foto del ricercato, vista sui giornali anni addietro, del sorridente giovanotto di una volta dallo spacco tra gli incisivi. Su di lui pendeva la taglia più alta della storia, offerta dal cacciatore di nazisti, Simon Wiesenthal: Josef Mengele, il dottor Todesengel, l’Angelo della Morte. Avviai il motore della mia Landau, non fosse altro che per starmene ad ascoltarne il ronzio in folle. La macchina sembrò muoversi spontaneamente ed invece di portarmi
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dritto verso l’ovvio ritorno ad est, mi fece decidere per il sud, verso l’altra frontiera, che divide il Brasile dall’Argentina, dove le acque dell’Iguassù si riversano nel baratro delle gigantesche cascate. Dovetti lasciare a malincuore la mia Landau nel parcheggio obbligatorio e scendere le apposite scalinate e camminamenti di legno, insieme a pochi sperduti turisti. Un ronzio, soffocato dall’aria irrespirabile dell’estate sudamericana, a poco a poco si trasformava in un boato che rimbombava sempre più forte ad ogni passo verso il fondo dell’immensa gola. Finché, solo laggiù, finalmente le vidi. Mille canne di un organo tellurico proclamavano al cielo il potere delle acque, che si frantumavano in un pulviscolo di cristalli variopinti, creando archi iridescenti tra i veli da sposa di centinaia di rivoli ed immergendomi nella brezza vellutata di spruzzi residuali. La “gola del diavolo” chiudeva un lato di quella bolgia dantesca, moltiplicando l’eco della ridda di innumerevoli scrosci. Volli sentire quella sinfonia in punta alla passerella che portava al centro della sussultante cavità. Lo confesso. Mi misi a cantare, o piuttosto ad urlare senza ritegno, sicuro che nessuno avrebbe badato a me e forse neanche ascoltato le mie stonature. Una gioia prorompente mi sgorgava dal cuore come le acque che si dipanavano dalle crepe della roccia. Ero solo davanti a quel mondo primordiale, senza scopi né sogni. Ritornai rifatto alla mia Landau. Ero un altro uomo. Incominciava il resto della mia vita.
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Rorò Quando presi la decisione di essere famoso, l’unica cosa capace di attenuare l’esaltazione di quello straordinario momento fu il sospetto che non avrei più potuto continuare ad essere felice. A quei tempi lo ero ancora. E chi mi infondeva la speranza di poter prolungare all’infinito quello stato d’indicibile beatitudine era Rorò, la giovane kawatari venutami appresso il giorno in cui dovetti darmela a gambe per sfuggire alle ire del vecchio cacico, che voleva a tutti i costi darmi in moglie quell’unica figlia che aveva. In cambio della mia Landau. Non so cosa ci avrebbe poi fatto con una meraviglia dell’alta tecnologia come quella, in uno sperduto villaggio preistorico della foresta amazzonica. Da parte mia, sapevo benissimo che farne di Rorò. Per questo, non è che lo considerassi propriamente un cattivo affare: la ragazza era bellissima e valeva il baratto. E neanche mi sarebbe dispiaciuto troppo di rimanere a... fare l’indiano il resto dei miei giorni in quel punto imprecisato del deserto verde. Quel che mi spinse al gran rifiuto fu senz’altro l’innato rigetto verso qualunque idea di
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matrimonio che potesse minimamente sfiorare la mia mente. — Ekiminni fazzudi stucitruluni? — aveva protestato la giovane, come per dire: “Ma è un tipo molto differente da quelli della nostra tribù”. Nonostante il senso negativo della frase però, tutti sapevano che le ero piaciuto e che mi avrebbe preferito senz’altro a quegli stronzetti dei suoi coetanei. — Tutaffari laffaritò, muccarusè... — la redarguì suo padre, cioè: “le mie decisioni sono insindacabili e sarebbe meglio chiudere il becco, mocciosetta...”, ma tutti sapevano che la frase rituale serviva soltanto per mantenere il rispetto alla sua autorità di padre e di capo. Ero arrivato a quel villaggio in occasione di una fermata fortuita lungo l’interminabile strada Transamazzonica. Da tempo mi ero proposto di superare il record della traversata più lunga della storia attraverso una foresta tropicale. Anzi, penso che non ci sia mai stato nessun fuori di testa al mondo che abbia avuto la stravagante idea di farla in una Landau. Il mistero della giungla eccitava i miei sensi e spingeva al massimo il turbinio della mia immaginazione. Avevo letto di tutto su lingue, letteratura, antropologia, etnografia, geografia economica e politica, zoologia e botanica dell’immensa regione que avrei dovuto attraversare, anche per premunirmi contro gli innumerevoli pericoli a cui sicuramente sarei dovuto andare incontro. Al percorrere la Transamazzonica, il mio unico contatto con la civiltà sarebbe stata infatti la Landau: tosta e solenne, era un balenottero che navigava in
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quell’immenso acquario verde formato dall’umido sottobosco della foresta più grande del mondo. Il fatto che avrebbe radicalmente stravolto i miei piani di viaggio e persino tutti i miei progetti di vita avvenne però presso Caracaraì, dove incomincia la “perimetrale nord”, che lascia la strada proveniente da Boavista per scendere lentamente verso la linea dell’equatore, quattro gradi di longitudine più ad ovest, lungo un migliaio di chilometri che vanno dritti a San Gabriele della Cachoeira. Avevo messo la Landau in condizioni ideali per potermi permettere il lusso di percorrere le interminabili tappe che pure avevo calcolato con meticolosa precisione, cercando di prevedere ogni possibile problema di rifornimento, anche con l’uso costante del condizionatore, o eventuali guasti meccanici, in modo da riuscire a mantenere il cronogramma ed il confort allo stesso tempo. La Transamazzonica è stata il più grande sogno di un governo militare che, con progetti faraonici come quello, cercava di giustificare davanti alla comunità internazionale la museruola imposta per anni ai cittadini, ansiosi di ripristinare la loro tradizionale e congeniale libertà di espressione e di autodeterminazione democratica. La foresta tuttavia non riconosce regimi politici e non rispetta neanche i progetti di un’autocrazia megalomane. Il regime che vi predomina è quello pluviometrico, che fa prosperare flora e fauna e le permette di tornare a cancellare inesorabilmente qualsiasi tipo di artefatto umano.
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Avevo percorso soltanto un centinaio di lunghissimi chilometri di terra battuta, raramente asciutta, molto spesso acquitrinosa, senza vedere anima viva. Questo senza contare i vari animali selvatici che attraversavano la pista di corsa o strisciando, ognuno secondo i dettami della propria natura. Ma ormai da un pezzo non badavo neanche più al ruolino di bordo. La foresta non inghiotte soltanto i legami con il mondo organizzato, ma anche le nostre nozioni di tempo e di spazio. E persino il sole, che sulla linea dell’equatore dovrebbe piombare a picco sulle nostre teste, ci avviluppa piuttosto, torrido senz’altro, ma smorzato nel suo fulgore come da un intruglio verdastro e spesso che rende l’aria quasi malleabile. Respirarla poi è tutt’altra faccenda. Ad un tratto m’imbattei in un’insolito assembramento ad ostruirmi il passaggio. Erano tre motociclisti circondati da un nugolo di indiani nudi e vocianti, che minacciavano con le loro frecce i malcapitati. Mi richiamarono all’istante immagini di quei mediocri film di farwest che avevano contribuito a popolare di tenui terrori i miei sogni di ragazzo. Al mio arrivo, i minacciosi guerrieri, molto più minuscoli invero dei muscolosi pellirosse degli schermi e che sembravano dei nanerottoli anche in confronto a quei tre cowboy senza cavallo, cambiarono immediatamente il loro atteggiamento e vennero incontro alla mia macchina come dei veggenti attratti dall’apparizione di una divinità. Quando i tre motociclisti si tolsero il casco, mi accorsi inoltre che solo uno di loro era propriamente un
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“centauro”. Due erano invece delle scultoree “amazzoni”, una bruna e l’altra biondissima. Osservavo perplesso e ammetto un po’ impaurito, quella scena surreale e stentavo as accettare l’evidenza dei fatti: per quella gente primitiva, Dio ero io. O forse la mia macchina... Gli indiani avevano abbassato i loro archi e frecce e venivano con fare rispettoso e sommesso, dipinti dalla testa ai piedi con il rosso da guerra, senza più sprigionare tuttavia l’odio e la rabbia di un istante prima. — Macumu ficifari avvenirimi ammettiri nnistiguai — ruppe l’incantesimo di quel momento magico il centauro, che da buon siciliano, anzi proprio agrigentino come me (l’avrei scoperto immediatamente dopo) aveva intuito in un lampo di genio ciò su cui un genio come Chomsky avrebbe invece avuto bisogno di decine di volumi per scriverci su. E cioè che l’importante della comunicazione non è il segno né il contenuto, ma la predisposizione del comunicatore a farsi capire e quella dell’ascoltatore a captare il messaggio. — Akitipari kati cridika... — rispose sulle rime il più accanito di quegli indigeni, ormai con animo disarmato. Seppi dopo che era lui il cacico. Era sicuramente una tribù molto primitiva, perché non faceva uso di nessun adorno né di speciali insegne di potere e non doveva aver mai avuto nessun contatto con civilizzazioni un po’ più avanzate della sua. Nino, il centauro agrigentino, dall’alto della sua potente kawazaki che, nonostante il fango che la copriva quasi completamente, s’intravedeva azzurra come la mia Landau, si esprimeva più con i gesti che con lo strettissimo dialetto, in quei frangenti evidentemente
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inutile tanto quanto qualunque altro linguaggio alieno. Ma l’indigeno aveva sorprendentemente capito. O rispose come se realmente il siciliano dell’altro gli fosse familiare. Difatti la frase di Nino vuol dire: “Ma chi me l’ha fatto fare a venirmi a mettere in questi guai?”, ma dai suoi gesti di mesta autocommiserazione e dalle mani prima lentamente elevate e subito abbassate, l’indiano capì che si trattava di tre angeli che venivano ad annunciare l’arrivo della benefica divinità della caccia. E, in kawatari, rispose: “Sia lodato il dio della caccia”. Nino capì a sua volta che il cacico, dal volto serio e compunto, sapeva il siciliano, perché la frase suonò alle sue orecchie qualcosa come: “Perché, cosa ti credevi che fosse?”... Ciò spiega perché tanto Chomsky da un lato, che scrive un mucchio di cose vere e profonde in un linguaggio completamente incomprensibile, o Eco che scrive addirittura romanzi interi infarciti di latino, greco ed ebraico, quanto, dall’altro, Paulo Coelho che scrive chiarissimo sulla quintessenza della banalità esoterica, vendono tantissimi libri. Non discuto neanche le tonnellate di carta imbrattata da tanti e così prolifici scrittori, in flagrante attentato alla sopravvivenza delle foreste, ma quell’incontro sorprenden-te e per fortuna incruento mi ha insegnato alcune cose importanti, come il fatto che le Valchirie di Coelho esistono realmente perché ne ho visto almeno due di presenza e che le relazioni fra i gruppi umani obbediscono alle stesse regole dei demenziali monodialoghi di Ionesco. Le due amazzoni erano donne in carne ed ossa. Quella dall’Honda gialla era rimasta, davanti agli omini
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sbraitanti, impalata come una fotomodello in un calendario da elettrauto, solo che nel caso, nudi erano gli spettatori: pasticciato di rosso anch’esso, il miserevole uccello era mantenuto in piedi da uno spago legato ai fianchi, simile a un uccello appunto, appena abbattuto ed infilzato con una picca. L’altra, la bionda coscialunga dalla Guzzi rossa, si mosse per prima, con ritmo da rallentatore, quando gli indiani ebbero perduto ogni interesse per gli intrusi. — Sono danese — si anticipò, non appena gliene fu offerta l’occasione, senza che nessuno glielo avesse peraltro domandato. Si chiamava Edwirges, Edva per gli amici. La barbie bruna dall’Honda gialla invece se ne stette impalata ancora per un pezzo, come se aspettasse che qualcuno le desse l’autorizzazione per muoversi. — Vieni, Barbie — dovette dirle Nino, l’agrigentino: manco a farlo apposta, si chiamava proprio Barbara ed era maltese. Era bruna ma slanciata almeno quanto la nordica, insieme alla quale formava una vera e propria scorta di alabardieri, quando entrambi si mettevano ai lati dell’abbronzatissimo Nino, tipico mezzataglia dalla faccia maschia e volitiva, come si conviene a un autentico siciliano. I guerrieri mi avevano ormai completamente circondato e qualcuno si era avventurato a toccare i vetri e la carrozzeria, per vedere di che cosa realmente fosse fatta quella navicella spaziale. Ad un tratto uno di loro emise un grido che scatenò nella tribù qualcosa di simile a un canto, una preghiera, un’ovazione e un pianto allo stesso tempo. In un istante si adunarono attorno al gruppo di guerrieri-adoratori un’infinità di donne,
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bambini e vecchi sbucati fuori dalla giungla. Era tutto un popolo chiamato a raccolta dal potente loro dio venuto a soddisfare le aspettative coltivate dagli ancestrali fin dagli albori dei tempi. Era in certo modo la riproduzione, dopo quasi mezzo millennio, dell’incontro degli intraprendenti portoghesi con gli indiani delle coste brasiliane. Sospettosi gli uni degli altri, incantati e sorpresi, realizzavamo una nuova fusione della storia con la preistoria. Una nuova scoperta del Brasile. Fu in quel momento che avvenne il fatto che ci avrebbe catapultati tutti sulle prime pagine dei giornali del mondo intero e che per gli illetterati indigeni fino allora più sconosciuti e più ignoranti del pianeta si trasformò nell’argomento definitivo a favore della loro ormai consolidata persuasione e indistruttibile credenza: la scienza divinatoria dei loro avi era la più avanzata possibile tra le possibili forme del sapere umano. Una profezia di non so quante centinaia di lune prima prevedeva per quel giorno esatto la venuta di Dio sulla terra. Per questo si erano mossi, diretti verso il punto che gli antichi indovini avevano trasmesso lungo i vari anelli della loro tradizione orale. Un rumore assordante proveniente dall’etere fece eco in quell’istante al coro unisono d’invocazioni di tanti credenti e divenne sempre più forte, mentre l’ombra di un gigantesco boeing rabbuiò per qualche istante la luminosa atmosfera verde in cui ci trovavamo immersi. L’effetto doppler aveva rapidamente attuttito ormai
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quello straordinario rombo di reattori, terminando in un tonfo sordo a molti chilometri più in là. Aspettammo invano una grande fiammata seguita da una spettacolare esplosione ed un fungo di fumo sorgere dal cuore della selva. Niente. Solo il coro dei versi selvaggi di migliaia di specie di animali riempì l’aria, mentre i primitivi e gli alieni motorizzati si prostravano nella polvere rossa della Transamazzonica, ognuno per evidenti e comprensibi-li motivi personali. Io rimasi seduto al volante della Landau, impietrito più per la coscienza della mia condizione di povero mortale, lo confesso, che per il nuovo ruolo di imperturbabile divinità assegnatomi dai fati. Il cacico, dopo un lungo silenzio, si fece coraggio ed alla fine si alzò di scatto con un grido sovrumano: — Iemuni arricogliri lupassuluni — che, in kawatari, vuol dire: “andiamo a prenderci il regalo inviato dagli dei”. E ci avviammo tutti in fila... indiana, naturalmente, verso il luogo dell’incidente aereo, per ultimi noi quattro visi pallidi, che non conoscevamo la strada. Tra alberi secolari, cespugli vizzosi, rampicanti prepotenti, liane pendule, scimmiette curiose, squittire di araras, gorgheggi di bem-te-vi... arrivammo finalmente ad una stretta radura inondata da un sole sfacciato che nessuna pianta riusciva più a velare. Eravamo stanchi morti e con gli abiti a brandelli, praticamente nudi anche noi. Anche noi esterrefatti dinnanzi allo spettacolo che ci offriva la fusoliera del grande aereo atterrato nel cuore della foresta, con le ali lasciate indietro, deposte una ad ogni lato insieme ai reattori, dopo aver raso al suolo tutta
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quella spessa vegetazione, trasformata in un batter d’occhio in un’im-provvisata pista d’atterraggio. I passeggeri erano già usciti dall’aereo, ancora imbambolati dall’incredibile scontro con la madre terra, tutti inspiegabilmente illesi, compreso il comandante, che si stava ancora chiedendo come aveva potuto prendere una tale cantonata. In cabina stavano seguendo alla radio l’amichevole di calcio Brasile-Svezia, al momento in cui il comandante doveva digitare il numero di codice della rotta che il pilota automatico si sarebbe poi incaricato di portare a termine. Quando si rese conto di essere andato per il verso storto, l’aereo era ormai agli sgoccioli di carburante. Nelle mani di quell’orda di selvaggi, il capitano ebbe la certezza che era la fine. Lo avevano sollevato in aria come un fuscello e lo portavano verso di me come se fosse un trofeo. O un’offerta sacrificale. Erano visibilmente euforici e soddisfatti: mi portavano in trionfo il guidatore della nave madre, ancora con tutte le insegne del comando, per ringraziarmi del grande dono che avevo loro fatto. E il comandante Francisco Lopes scoprì che, fra tante disgrazie, poteva ritenersi fortunato e meritarsi persino questa anonima, e probabilmente effimera, onorificenza. Se aveva fatto un grande sbaglio a causa di una piccola sciocchezza, aveva però realizzato una grande impresa con quell’atterraggio memorabile, degno dell’albo d’oro dell’aviazione moderna. Gl’indiani si diedero da fare per nutrire e curare tutta quella gente, sfoggiando le loro abilità di cacciatori e di cuochi e l’arte secolare dell’uso di piante medicinali, nell’attesa di possibili soccorritori.
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Ma il momento per me più critico fu quando il cacico se ne venne con la proposta di sposarmi con sua figlia. Non sapevo come dire di no a quel fanatico più cocciuto di un mulo. Tutti gli argomenti più disarmanti della mia evoluta logica aristotelica erano considerati affatto irrazionali all’interno del suo arcaico sistema di pensiero. Sapevo tuttavia che non potevo accettare. Dove le avrei messo le mie abitudini urbane, il mio caffellatte, le mie penne alla puttanesca, i miei cannoli alla ricotta... E che ne avrei fatto poi di tutte quelle nozioni, di ingegneria meccanica, di calcolo infinitesimale e di fisica quantistica, faticosamente accumulati in tanti anni di fervida attività intellettuale? Per piombare poi in un mondo in cui il compito più importante e più stimolante per il mio sprizzante cervello sarebbe stato quello di imparare un dialetto un po’ più gutturale e nasale del mio?... Feci allora io la proposta più scandalosa che avesse mai potuto far capolino nella mia pur fervida immaginazione creativa: il baratto tra la kawasaki e la... kawatari: Nino poteva rimanere con le sue valchirie e fare contemporaneamente uno sposalizio in pompa magna con la figlia del cacico. La legge della tribù non poneva troppe remore alla poligamia e, in fin dei conti, al capo interessava soltanto di poter mantenere sangue di divina stirpe nelle vene del suo ceppo dinastico. Fecero entrambi, è vero, qualche smorfia di perplessità, ma alla fine fiutarono ciascuno il proprio tornaconto e il cacico decretò il matrimonio per la seguente notte di plenilunio.
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Dovette intervenire il comandante dell’aereo per dar valore legale a quell’improbabile matrimonio misto presiedendo il rito accanto al cacico, il quale dal canto suo avrebbe assicurato il successo del cerimoniale kawatari. L’intera popolazione di pellirosse e di visipallidi si adunò al centro dello spiazzo e presto si iniziarono le danze propiziatorie e i canti e gli scongiuri e i gridi spontanei di gioia che ritmavano le ondate di genuina felicità, muovendo tanti cuori e tante menti. Tutti nudi come madre natura ci aveva fatti. Il comandante accennò qualche rimostranza, soprattutto quando dovette affidarsi allo stregone per mettere in sesto il pudico membro alla cui cordicella gli amici burloni avevamo attaccato con cura un’iridescente farfalla amaz-zonica a mo’ di... papillon. Ma finì addirittura per dimenticare di nascondere il sesso dietro il registro dei matrimoni, quando si avvide che nessuno intorno gli faceva minimamente caso. E poi un certo senso di sicurezza glielo conferiva il berretto da comandante, in perfetta simmetria con il copricapo del cacico. Dovetti... svestirmi a rigore in qualità di testimone, sfoggiando anch’io, per un doveroso senso di solidarietà verso lo sposo e lo sfortunato comandante, un “papillon” al posto giusto. E le due amazzoni, da sollecite damigelle, misero peraltro molto volentieri in mostra anche le loro forme monumentali, rivestite soltanto di pelle in vario grado sbiadita dal lungo tempo passato al ricovero delle tute. Rorò venne finalmente fuori dalla capanna montata in fretta e furia per l’occasione dai suoi familiari, con il
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volto finemente istoriato dai colori rituali, e difficilmente avresti saputo scegliere tra la sua naturale bellezza e quella creata dall’arte pittorica del suo popolo. Gli sposini furono quindi condotti con intenso giubilo verso la capanna, mentre il resto degli invitati continuavamo a soffocare con la nostra gioia rumorosa i loro legittimi sussurri e grida nuziali. Tre giorni dopo arrivarono gli elicotteri dell’esercito per il soccorso ai superstiti. Ci trovarono tutti ben pasciuti e rubicondi e in un batter d’occhio si portarono via i passeggeri e l’equipaggio del boeing. Il comandante Lopes però, unico responsabile dell’infelice incidente, dovette andar via a testa bassa e con le manette ai polsi, malgrado la sua indiscutibile dimostrazione di abilità e di eroismo. Ormai eravamo tornati sulla Transamazzonica ed io mi disponevo a partire, lasciando al mio posto Nino con Rorò e con le Amazzoni: quattro cuori e un mucchio di capanne... in piena luna di miele. Erano venuti a salutarmi, ma durante tutto il sentiero di ritorno Nino, da buon avvocato, si era sforzato di spiegare al cacico le leggi dei bianchi. Quando questi si rese conto che il matrimonio di sua figlia con il centauro non valeva proprio più niente per i visi pallidi, perché il loro ufficiale civile era già stato, all’insaputa di tutti, destituito ancor prima della cerimonia, annullò seduta stante anche il matrimonio kawatari, permise al centauro che si riprendesse la
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kawasaki, e tornò irrevocabilmente sull’idea fissa di sposare la figlia direttamente con Dio, cioè con me. Ma siccome già mi trovavo al volante della Landau, avviai il motore e detti una sgommata che mi proiettò in avanti come una saetta, lontano da quel mondo, al quale pure mi ero ormai affezionato. Quando mi sentii fuori pericolo, rallentai un po’, anche perché le balestre della macchina dovevano essersi risentite alquanto del furibondo sballottio che la pista aveva loro imposto. Presto pero’ mi vidi raggiungere dalle tre moto. Il centauro si portava sul sellino l’ormai ex-moglie aggrappata alle sue spalle, seguito dalle due fedeli amanti amazzoni. Dopo avermi sorpassato, si fermarono un po’ più avanti, giusto il tempo di scaricare la kawatari, che gli aveva stonato la testa durante tutto il viaggio, perché voleva venirsene con me. — Nni videmu a Giurgenti (Ci vediamo ad Agrigento) — mi gridò Nino, mentre riprendeva la corsa. — Tu pò scurdari (Ma neanche per sogno) — gli gridai. Nonostante una certa simpatia per quell’eccentrico compaesano, mi causava non poco disagio il fatto che mi avesse preceduto nella conquista di un premio come quello. E con la mia spinta per giunta. Fu così che feci il resto della Transamazzonica insieme a Rorò. Passammo un mucchio di altre peripezie durante il tragitto, ma superai ogni avversità grazie alla presenza confortevole di quella piccola forza della natura. Sempre pronta... all’uso, mi aveva fatto persino
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dimenticare a che cosa servissero gli indumenti che seguitavano ammonticchiati nel portabagagli. Non staccavo un istante gli occhi dalla strada né lei il suo corpo dal mio. Un’innata sapienza amatoria la portava a mantenermi senza sosta eccitato e lucido. Con dolcezza o con veemenza, con incomprensibili filastrocche bisbigliate o urlate, con languide nenie o forsennati canti. E poi le mani. Ah, quelle mani. Sembrava che conoscessero da sempre la topografia della mia pelle quanto quella della sua fetta di foresta, o forse proprio perché la ignoravano, trovavano un folle piacere ad esplorarla. Quasi senza accorgercene, arrivammo ai piedi delle Ande, dopo alcune migliaia di chilometri e decine di riformimenti di fortuna. Fummo costretti a vestirci: anche dopo avere spento l’aria condizionata eravamo ancora nudi, ma adesso avevamo davvero freddo. A Quito ci accolse un battaglione di giornalisti, fotografi, agenti pubblicitari, agenti letterari, editori, attori, registi, produttori di cinema e approfittatori vari, avvisati da Nino e motoamanti, che avevano fatto da staffette. Mi vidi stranamente nella sequenza di un altro mediocre western, nel ruolo del picciotto legato al palo insieme alla picciotta, Rorò per l’occasione. Ma i selvaggi erano loro, quei rumorosi visi pallidi armati fino ai denti con macchine fotografiche, cineprese, flash, spot, taccuini, registratori, microfoni... e ci ballavano attorno un’assordante sarabanda di lampi, urla, risate, domande, esclamazioni, richieste di autografi in una ridda infernale di lingue incomprensibili.
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Confesso che sul momento mi entusiasmò tutto quell’interesse del mondo concentrato su di noi, ma presto mi resi conto che non ero fatto per un tipo di vita come quella, dipendente dagli umori della fama. Mi accorsi che Rorò invece si era adattata in fretta all’ambiente febbrile del jet set: in un mese aveva fatto il salto epocale. Vi si trovava a suo agio come se fosse stata da sempre una star del cinema o della tv. L’affidai così a un gruppo di agenti che l’avrebbero avviata a una luminosa e folgorante carriera artistica. Io invece mi eclissai al più presto insieme alla mia Landau. E sono ancora con questo grandioso sostrato e simbolo del piccolo ritaglio di felicità che sono riuscito a guadagnarmi e che mi sforzo ancora disperatamente di difendere.
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Mafalda Non sento una particolare nostalgia del passato né mi lascio affascinare troppo dall’indefinita nebulosità del futuro. Il presente mi basta. Sono un po’ come quell’enorme gatto descritto da Borges nel racconto “El Sur”, che si faceva accarezzare “come una divinità sdegnosa” dal protagonista Dahlmann, il quale, nel frattempo, se ne stava a pensare “che quel contatto era illusorio e che era come se i due fossero separati da un cristallo, perché l’uomo vive nel tempo, nella successione, e il magico animale nell’attualità, nell’eternità dell’istante”. E il mio presente è questo: una lettera e un pacchetto appena arrivati. Il contenuto è davvero strano: dei cocci di vetro e due righe di mia zia. Sembrano dei versi in rima: «Caro Tupã, ti mando la burnia che hai dimenticato a casa mia. Statti bene. Zia Maria». Mi convinco sempre più che la privatizzazione non è proprio giovata un gran che alla qualità dei servizi postali. Mia zia infatti è morta cinque anni fa e il plico deve averne fatti di giri prima di arrivare a destinazione. Ciò spiega lo stato pietoso in cui si è ridotta la burnia, una di quelle grandi bocce di vetro destinate a contenere
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caramelle o briosce. D’altra parte, di burnie non ricordo di averne mai avute. Che significa tutto questo? Ah, dimenticavo di dirvi che il mio nome è Tupã, Tupã Buê Sergipe. Non ne so il come né il perché, ma ne sono sicuro: tutti i miei documenti dicono la stessa cosa. Tupã, lo sapete, é il sole, la divinità principale degli indigeni Tupì e Guaranì, che popolavano il Brasile e il Paraguay ai tempi delle grandi scoperte. Sergipe è il nome di uno stato del nord-est brasiliano. E Buê... boh? Una volta glielo avevo persino chiesto a Soraia, ma neanche lei me lo aveva saputo spiegare. Non mi resta che buttare il tutto nella pattumiera e dimenticare anche questo. Ma come per incanto sorge improvvisa un’immagine meravigliosa nella mia mente. È un ricordo, o una visione, non so. Una bolla luminosa, di cristallo, di luce raggiante, come il sole appunto, visto da una considerevole altura, mentre sorge dietro un’immensa montagna, lasciando ancora per qualche minuto la vallata sottostante immersa nel buio. Ecco, proprio così. È un ricordo. Siamo a quattromila metri di altitudine, sul ciglio del grande abisso in fondo al quale si stende La Paz. Le luci della città formano un firmamento all’inverso, che fa il contrappunto alle innumerevoli stelle della notte andina. Davanti a noi il massiccio innevato dell’Illimani lascia sfuggire tra le cime un sole chiaro e rotondo, ma l’immensa gola nera, da El Alto a Calacoto, dorme ancora laggiù, spalancata verso il cielo. — L’Illimani sembra una persona tranquillamente seduta, con lo sguardo rivolto davanti a sé, non già assorta nei suoi pensieri e quindi isolata da tutti, ma libera e indifferente, come se fosse sola e inosservata; e
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tuttavia s’avvedesse di essere osservata, ma questo non turbasse minimamente la sua calma; infatti, sarà forse causa o effetto, i nostri sguardi non possono fermarsi e scivolano via —. La voce di Pedro irrompe nel silenzio estatico in cui ci troviamo irretiti. È la nostra guida e caricatore nella spedizione lungo “el camino del Inca”. — Pedro sta traducendo Kafka —, spiega Gerhardt, il compagno tedesco che riconosce la descrizione di K. dinnanzi a Das Schloss, il Castello. — Non so come fa a conoscere tanti autori. È completamente analfabeta ma dice che, in sogno, legge un po’ di tutto o qualcuno gli recita i testi in una lingua perfettamente comprensibile. — Kafka era Incaico —, aggiunge con convinzione Pedro. — Non in questa generazione, naturalmente —. Ancora più incredibile è come riesca a reggere un carico così pesante e voluminoso: una semplice striscia di tessuto di canapa sulla fronte mantiene quasi da sola tutto il peso, in equilibro su quelle spalle esigue e ossute. — Il Castello è l’immagine dell’Illimani e dello spirito degli Incaici: frei und unbekümmert, libero e indifferente. Sotto quella speciale illuminazione, il miserabile facchino ne è una prova viva e concreta: le guance rigonfie per via del bolo di foglie di coca perennemente succhiato, vesti a brandelli, sandali fatti con strisce di gomme d’auto, ma postura e incedere da principe. L’altipiano è davvero sconfinato. Il sentiero tracciato dagli “Incas” due millenni or sono si conserva ancora in buone condizioni per il nostro trekking, ma ci vuole un
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giorno intero di marcia per arrivare ai piedi delle montagne. Il sibilo continuo del vento fa da sfondo sonoro al ritmo del cuore e dei nostri passi che accompagnano cadenzati quelli di Pedro. Quando ci fermiamo, se tace il vento, proviamo cosa sia realmente il silenzio assoluto. Ma la voce di Pedro attenua l’aria di cristallo gelido, con i toni suadenti del suo linguaggio semplice e erudito insieme: — Oh, Wilkamayu dai fili sonori, quando rompi i tuoi diritti boati in bianca spuma, come lesa neve, quando il tuo turbine precipitante canta e castiga risvegliando il cielo. Cita Neruda a braccio e dice che, tempo addietro, aveva condotto anche lui verso il Macchu Picchu appena scoperto e a volte torna ancora a chiacchierare con lui in sogno. — Vieni, minuscola vita, tra le ali della terra, mentre / cristallo e freddo, aria percossa / distaccando smeraldi combattuti, tu, acqua selvaggia, dalla neve scoli... Ed ecco che si libera finalmente del peso dei nostri bagagli e allora avviene il prodigio. Accovacciato e compenetrato in profonda meditazione, lentamente si stacca dal suolo e levita a lungo a un palmo da terra. Dopo riprende con naturalezza gli atteggiamenti usuali e la guida della comitiva. Lo riconosco in questo istante. Pedro è uno dei layqa, quegli stregoni che, due anni prima, guidavano i fedeli durante le feste di Urk’upiña, a Quillacollo. Ciò spiega anche il fatto che la sua lingua sia il quéchua, della regione di Cochabamba, e non l’aymara, proprio degli abitanti di La Paz.
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Ci ero andato anch’io. Anch’io avevo dovuto dare dei colpi di piccone su di un grande masso per estrarne delle schegge da portare a casa. Sarebbero state il pegno che la Vergine mi avrebbe propiziato il successo nelle mie iniziative dell’anno successivo. La gente ci crede piamente. Io l’ho fatto più che altro per deferenza verso l’amico Sabino che sarebbe altrimenti rimasto mortificato davanti alla moglie e ai tanti conoscenti. Per me era soltanto una buffonata. Avevo dovuto lasciare la Landau ai piedi della collina e mi ero inerpicato come tutti sulla scoscesa scarpata alle spalle del santuario, che faceva venire subito il fiatone anche a chi avesse i polmoni ben più allenati dei miei. Lo stregone accettò la birra e la chicha, ne versò un po’ insieme a noi, in libagione alla Pachamama, la madre terra; gettò dei grani di incenso nel braciere deposto al suolo e si mise a recitare, in quéchua, una litania di benedizioni o di formule magiche, chi lo sa? La moltitudine stipava i sentieri e i terreni delimitati con cura dai vari capifamiglia eletti annualmente per organiz-zare la festa, con enormi pietre che nessuno si sarebbe arrischiato a smuovere. Il fumo dei vari incensieri formava una nuvola che, frammista al polverone sollevato dal viavai della gente, doveva sembrare, dal basso, una grande fumata vulcanica o lo scorrazzare di una mandria di bisonti o almeno un immenso churrasco. Non so come sia andata quell’anno a Sabino, lassù in Bolivia. A proposito, dovetti anche dargli una mano a scendere dal colle con in spalla la pietra che aveva ricavato dalla sua picconata e che sarebbe stato un vero sacrilegio rifiutare o frammentare ulteriormente: aveva
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praticamente spaccato in due il masso indicato dallo stregone. Prese il pezzo meno pesante, pagò l’obolo e andò via barcollando con il gran trofeo, seguito dal corteo della famiglia e da me, tutto arioso, invece, con il mio sacchetto floscio di poche pietruzze soltanto. Le cose, in Brasile, posso dirlo, a me andarono davvero a gonfie vele e già mi preparavo per tornare al santuario della Virgen de Urk’upiña per portarle un exvoto in segno di gratitudine, quando la bellissima casa che avevo costruito in pochi mesi si incendiò con il cane dentro, persi l’impiego ed alle elezioni a consigliere comunale ottenni soltanto diciannove voti: tutto quello che avevo desiderato e per cui avevo fatto tante promesse alla Virgencita era andato in fumo quello stesso anno. Mi era rimasta la Landau, per fortuna. Siamo già acclimatati, ma il fiatone viene lo stesso, mentre seguiamo in fila indiana l’andatura ritmata di Pedro verso il passo di Mururata, a quota 4800 metri. È già notte nella Cordigliera Reale e piantiamo le tende per riposare alcune ore e ripartire all’alba per Los Yungas. Ne approfittiamo per scambiare due chiacchiere davanti al bivacco. Lo prendo in disparte. Il mio innato scetticismo si è rafforzato ulteriormente con l’episodio di Urk’upiña, ma la curiosità per fatti così clamorosi è ancora più forte. — Vorrei che mi insegnassi il trucco. — Non c’è nessun trucco. È solo una questione di tecnica, molto facile, oltretutto.
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Io scettico, lui cinico? O sarà davvero convinto di quel che dice? — Basta far vibrare dieci volte il diaframma per scaricare tutti i pesi provenienti dal mondo esteriore e inalare soltanto il vento, aura delle forme naturali. — È facile a dirsi... — Ciononostante è possibile impararlo. Ecco, proprio così. Dovrai ripetere dieci volte, ad occhi chiusi: Chaywampis yachakaita atikun, Ciononostante è possibile impararlo. Lo tento... È vero!... Non capisco perché dieci volte... Ma... Sì... Ci riesco. Guarda... Sto levitando anch’io!... — Posso insegnarti altre tecniche ancora, riservate però a chi vuol proseguire lungo il vero cammino. Ma sappi che potrai metterti nei guai, se non seguissi le regole a perfezione. — Insegnamele pure. Il resto del viaggio servì per imbevermi della sua sapienza millenaria, arricchita dall’espressione raffinata d’una vasta cultura. — I miracoli e la verità sono necessari, perché bisogna persuadere l’uomo intero, corpo e anima, dice Pascal.... E Quasimodo: Nessuna cosa muore che in me non viva. Tu mi vedi: così lieve son fatto, così dentro alle cose che cammino coi cieli... E come il vecchio mendicante di Cumberland, di Wordsworth, spero di poter morire anch’io in the eye of Nature, come davanti agli occhi della Natura sono sempre vissuto…
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Ormai sono un levitatore provetto. Mi barcameno con disinvoltura tra attività propedeutiche e meditazioni trascendentali. Sento tuttavia la mancanza della platea. È un po’ difficile conciliare le esigenze dell’ascesi con quelle dell’ascendente personale. Ma ci provo. Il momento buono arriva con Mafalda. L’atmosfera magica dell’incontro interpersonale mi esalta e mi libera. Lei mi sta a contemplare con lo sguardo concupiscente del neofita davanti all’apparizione del suo dio. Aspiro l’alito delle forme e levito. Lei si entusiasma e mugola di piacere. Io mi entusiasmo e le volteggio attorno. Poi, d’improvviso, m’impenno e volo. Lo scontro con la materia inerte del soffitto mi restituisce alla forza bruta della gravità terrestre. Ancor oggi poche persone si rendono conto dei periodi di amnesia dovuti al trauma cranico, che punteggiano di beata incoscienza il flusso inarrestabile della mia vita, mentre tutti quelli che mi vedono non possono fare a meno di notare l’andatura leggermente claudicante che mi rimane dopo tante operazioni alla gamba destra. Ma non mi arrendo. Attrezzo la mia Landau con un tettuccio apribile e un meccanismo eiettivo simile a quello dei piloti da caccia, caso mai dovessi essere catapultato da una incontrollabile voglia di strafare. E mi avventuro con Mafalda lungo le allucinanti carreteras delle Ande. L’ora dell’amore è il tempo privilegiato dell’estasi. Le cinture sono state rinforzate onde minimizzare gli effetti di eventuali collisioni, sia orizzontali, sia verticali.
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Ma l’élan vital aumenta sempre più e si trasferisce alla vil forza meccanica della Landau, ormai decappottabile, messa scrupolosamente a punto. Fino a che le potenti cinture che ci trattengono al veicolo finiscono invece per trascinarlo con noi in un fantastico volo lungo rotte tracciate dall’imponderabile leggerezza della memoria. O del sogno? Vediamo così i paradisiaci Yungas dall’alto. Campesinas dagli abiti iridescenti pascolano branchi di llamas su fondali da Rugendas o sono intente a sbrigare le faccende domestiche sull’aia o sui campi, alcune con l’aguayo sul dorso, ricolmo di frutti della terra o con un bimbo addormentato dentro. Sorvoliamo la miniera Chojlla, che sarebbe stata la meta finale dell’escursione con Pedro. E poi il Titikaka che “giace azzurro terso orizzontale, fra le braccia di colline lunghe calve pigre stanche di essere ancora le stesse”: di chi saranno mai questi bei versi? Nitido invece rimbomba alle mie orecchie Garcia Lorca, nella voce di Pedro: — Pietre giovanili consunte di sogno cadono sulle acque dei miei pensieri —, mentre vaghiamo celeri verso la costa atlantica: Piedras juveniles roídas de ensueño caen sobre las aguas de mis pensamientos... Poi, tutto ad un tratto, cambia il paesaggio. Non sono più Tupã ma Serge, Serge Beautupi. Dev’essere perché sono a Parigi e vengo dall’Amerindia. Sono più giovane e senza la compagnia di Mafalda.
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La Senna è sempre là, sempre la stessa: senza preoccupazioni, se la spassa bellamente giorno e notte, come cantarolava Pedro su parole di Prévert: ...La Seine a de la chance. Elle n’a pas de soucis. Elle se la coule douce le jour comme la nuit.... Entro nel piccolo cinema dei Champs-Elysées dove si proietta “Emmanuelle” da otto anni consecutivi. A mezzanotte si attenua il fulgore dell’Arc de Triomphe, non più illuminato a giorno e vado via. Vedo una nave che percorre la Manica così lontana da sembrare uno scarafaggio in abito da sposa. E Londra, che conosco in una serata, Westminster a piedi, una sessione ai Commons, l’underground, Trafalgar Square, mezzanotte e la gente che sbuca dai pubs e prende d’assalto i taxi. Bruxelles, Brema, Colonia. E sono Egbert, Egbert Eupapius. E a tanta distanza dalle Ande, finalmente gli Appennini. E ancora più a sud, le Madonie, l’Etna e Catania adagiata ai suoi piedi. Al viale Mario Rapisardi soddisfo il desiderio antico di sfilare con la mia Landau, come anni prima avevo visto fare agli emigrati di ritorno dalla Venezuela che sfoggiavano le loro superbe automobili piene di luci in coda, fantasmagoriche come grandi alberi di Natale, passando con boria davanti alla Villa Bellini, poi lungo il Viale Vittorio Emanuele, giù giù fino a Piazza Europa. E infine arrivo ad Agrigento, che fu mia, che fu Girgenti a Pirandello, Kerkent ai mansueti Arabi ancestrali, Agrigentum ai Romani campagnoli, Akragas ai romantici Greci. Chiedo una brioscia di granita al barman del Gambrinus ed il giovane sbadato fa cadere la “burnia” davanti ai miei occhi.
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Rido perché è incredibile ritrovarsi nello stesso bar che si è visto inaugurare tanti anni fa e vedere frantumata proprio in questo istante l’unica burnia superstite. E mi volgo fanciullo. La boccia di vetro assurge a simbolo. O feticcio? Una bolla di cristallo piena dei miei sogni e dei miei desideri e degli odori e sapori e amori di una vita intera. La scarpetta o il cocchio-zucca di Cenerentola. O la parete di cristallo che Borges pone tra il fluire del tempo e l’immobilità dell’istante. Cedo la mia Landau in cambio di quel pugno di vetri rotti: la voce e le carezze di mia madre, la gazzarra della classe alle Medie; il volto di ogni donna che ho conosciuto. Li dimentico però da zia Maria. Direte che ho raccontato un mucchio di fandonie. Ma come mi spiegate il plico? Sarà anch’esso un’illusione della mia fantasia? Qualche certezza rimane oltre ogni dubbio: i nomi non sono altro che pseudonimi e il pensiero, contrariando il filosofo, non giustifica l’esistenza, ma è l’esistenza stessa, mentre concordo con il poeta che “la vida es sueño”. E allora, che mi resta da fare? Ho ancora una casetta, una donna che invecchia con me e una prosaica Tempra, ormai vecchia anch’essa. Butto i cocci di vetro nella pattumiera e continuo a vivere nel presente come il gattone di Dahlmann.
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Giovanna e...
Giovanna e Pirandello ............................ 119 Giovanna e gli swing ................................ 125 Giovanna e la Ferrari ............................... 135
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Giovanna e Pirandello — Hai conosciuto Pirandello? — Gna certo. È il teatro qua dietro dove ci vediamo il cinema. — No, mamma, che c’entra? Sto parlando di Luigi Pirandello, il nostro concittadino, scrittore di fama mondiale. È morto nel ‘36 e aveva vinto il premio Nobel quando tu avevi già avuto a Vanniddru e Munniddru. — Ah sì, l’ho sentito nominare, ma non l’ho mai visto. Ne ha fatto cinema? Giovanna della Fonseca, vedova Impallomeni, aveva fatto fino alla terza e si era presa la quinta alla scuola serale. A quarant’anni. Chiederle aiuto in certe situazioni poteva essere magari pericoloso. Come quando Ninniddru faceva ancora la prima e lei ebbe la spiacevole sorpresa di vedergli scrivere “la capra”, in un compito a casa. — Ma comu, figliu mè, non ti impararono che si dice “la crapa”? E il figlio piccolo a prenderla con le buone per cercare di convincerla che, in italiano, “crapa” era sbagliato. — Mmah — concludeva invariabilmente. — Certe cose che inventano...
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A parte queste piccolezze però, Giovanna della Fonseca sfruttava al massimo il lato buono del suo estremo scetticismo che, se da una parte la faceva diffidare perfino delle regole grammaticali, dall’altra la proteggeva da certe trappole che i furbi di turno sogliono tendere alla gente semplice. — Senta la tessitura, la composizione dei colori, le sfumature, il risalto del ricamo... — si infervorava il giovane rappresentante gentilmente ammesso nell’entratina, mentre sfoderava tutto il suo scilinguagnolo sui capi di biancheria che si sforzava di sospingere sul conto della donna di casa, nonostante lo sapesse ovviamente modesto. — E che c’è bisogno di cantarmela tutta la messa cantata? Mi deve dire il prezzo e quanto tempo mi toccherà di gettare sangue per pagare il corredo. — È tutto molto relativo. Non c’è bisogno di pagarmi niente. Io le lascio la mercanzia e lei se la gode... — Ccé! E allora non ci siamo capiti. Vossia mi deve dire, che so, “uno, nessuno... centomila”. Era diventata ormai una expert su Pirandello. La sera, aspettava che tutti si fossero messi a letto e andava a sbirciare l’antologia del piccolo, dove c’erano tutti i titoli delle opere del maestro. — Ti piacì, Cuncittì? — La figlia ancora impubere sorrideva impacciata senza sapere cosa dire. Gli occhi del venditore facevano invece la spola tra gli articoli da vendere e la ragazza che era già qualcosa da... vedere. Erano poveri e dal futuro incerto. Ma il corredo della futura sposa era da farsi. — Non voglio che mia figlia sia “l’esclusa” — citava la neofita pirandelliana, ribadendo, senza eccessiva
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fedeltà all’argomento: — Bisogna pur “vestire gli ignudi”. — E allora firmiamole queste quattro cambialucce... — Ma manco “quando ero matto” — esclamò la matriarca, al maschile stesso, per rispetto al titolo della novella. — Va bene, mi dica cosa vuole fare. — Allora, quanto costa “la giara”? — si riferiva al corredo e pensava a Zi’ Dima Licausi. — Centomila. — È questo — fu sarcastica Giovanna. — È questo che mi fa più piacere: “il piacere dell’onestà”. Perciò, può scegliere tra “l’uomo, la bestia e la virtù” e mi sceglie la bestia? — Allora facciamo novanta... — Bumma, spavento! Gna “come prima, meglio di prima” è. Pare che “questa sera si recita a soggetto”. “Non si sa come”, “ma non è una cosa seria”... — sguainò quasi tutto il suo repertorio letterario, mentre il povero commesso s’impappinava sempre più, diminuendo progressivamente il valore del debito (e, per conseguenza diretta, quello della sua magra commissione). — Settanta... Sessanta... Quando arrivò dove voleva lei, “la trappola” era stata disfatta. O aveva stretto ne “la morsa” lo stesso cacciatore che l’aveva tesa. Certo, la testolina de “la mosca” abbozzò l’ultimo sussulto, ma il ragno in gonnella le assestò il colpo di grazia. — Paga in contanti? — Che contanti? — Tre rate?...
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— ??? — Sei? — E che sono i “sei personaggi in cerca d’autore”? E allora non si capacitò? Queste, come minimo, “novelle per un anno” sono. — E la ragazza? — Che ragazza? Cu, Cuncittina? — Sì, insomma, vorrei avere qualche speranza... — Che speranza... Picciliddra è... Ma guarda un po’ che razza di proposte che mi viene a fare... proprio a me... Dall’alto dei suoi centosessanta centimetri, la già alquanto robusta Giovanna si trasformava in uno de “i giganti della montagna”. Anzi, pareva proprio uno di quei telamoni del tempio di Giove. — Ma perché, non é forse lei la capo-famiglia? — il giovane si appigliava ancora alle ultime risorse di coraggio. — “Sogno (ma forse no)”. Che c’entra? Direte voi. Il fatto è che, in siciliano, “sugnu” (italianizzato ad hoc da Giovanna) vuol dire “sono” e a lei piaceva giocare con le parole, soprattutto quando una reminiscenza pirandelliana le veniva così sulla punta della lingua. — Beh, diciamo, “così è (se vi pare)”.
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A Giovanna piaceva moltissimo questa contrapposizione, questo dubbio introdotto come per caso (e che le parentesi finivano per risaltare), questa sospensione di giudizio che le permetteva, come a Pirandello, di prendere le distanze tra il reale e l’immaginario, tra il possibile e il probabile, tra la necessità e la contingenza... E alla fine si tenne il corredo e la figlia e pagò puntualmente le cambiali de “la giara”.
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Giovanna e gli swing Giovanna non era a casa quel giorno in cui morì Totò Strazzera, il marito di Fofa, la sua migliore amica e vicina. Al ritorno da un fine settimana nelle campagne di Montaperto, Giovanna aveva trovato molto strano il silenzio che incombeva sul vicolo, in pieno pomeriggio, quando invece era solito impazzare il grammofono di Fofa. Totò e Fofa erano giovani e poveri come tutti nel vicolo, ma i disagi non erano mai bastati a guastare l’aria di eterna festa con cui affrontavano la vita di stenti. — Di questo passo, avrete presto più figli di me — osservava Giovanna, giocosamente sovrappensiero, — a rallegrare tutto il quartiere. O a rompergli l’anima? — E vabbé, donna Giovà, a domani pensa Dio — le rispondeva l’amica in una risata esuberante come il corpo glorioso che si ritrovava ai suoi beati venti anni. E subito il grammofono di Fofa cominciava uno di quegli swing che sapeva facevano andare in sollucchero la vedovella, solo una decina di anni meno giovane di lei. Non fosse per la voglia di far piacere all’amica, il vecchio macinino a corda avrebbe seguitato a stonare la testa di tutto il vicinato con le canzoni antiche di cui Fofa era innamorata e che cantava lei stessa a squarciagola:
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“Quel mazzolin di Fiori”, “O campagnola bella”, “Funiculì, funiculà”... Ma quando metteva a girare “Te lo lavo quel fazzolettino” fino a far fiaccare il disco, Giovanna (come i vicini tutti) sapeva che Salvatore Strazzera stava lavorando presso la ferrovia là vicino e che era riuscito a fare una scappatina all’ora del rancio, raggiungendo casa sua lungo il vicolo deserto, per intrufolarsi sotto le lenzuola e godersi brevi istanti di piacere insieme alla mogliettina. Allora Fofa non cantava più e al grammofono era affidata l’incombenza di coprire con il massimo dei volumi i sussuri e le grida che certo avrebbero disturbato infinitamente di più la siesta di quella brava gente. Solo a piano Lena, davanti all’elegante facciata barocca del palazzo Badalamenti, c’era un gruppetto di ragazzi che giocavano ai nìchili. — Ma lassaccillo lavare ‘sto fazzolettino... — gli scappava a don Peppino il calzolaio in tono di canzonatoria tolleranza, quando non ce la faceva proprio più a sorbirsi l’interminabile esecuzione. — Fofò, il disco incantò... — avvisava ad alta voce donna Zina dall’altra punta del vicolo, in un rassegnato quanto inutile tentativo di farle cambiare musica. Chi invece riusciva nell’intento era sempre Giovanna, che con Fofa si intendeva facilmente attraverso il lucernaio della cucina prospiciente sul camerino degli Strazzera, senza bisogno di uscire in strada. Avevano adottato un codice proprio, una specie di alfabeto Morse, sulla base dei numeri romani, che Ninniddru aveva trasferito direttamente dai banchi di scuola all’agile intelligenza della mamma.
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L’inglese dei titoli poi, lei lo pronunciava a modo suo, sulla scorta della pronunzia già abbastanza approssimativa di Zi’ Peppe, il cognato tornato dall’America, anche lui insegnante a tempo perso, che le ammanniva tutto quanto di inglese aveva imparato a Bruccolino. Così, quando Giovanna voleva che Fofa suonasse “Inti murdi” (In the mood), numero uno del loro catalogo esclusivo, Giovanna batteva un solo colpo sul vetro del lucernaio. Se voleva “Aivi gotti mi lavi”’ (I’ve got my love to keep me warm), che era il numero cinque, Giovanna faceva strisciare con forza il bastone sui vetri rugosi. Due striciate perciò era il dieci, “Danti bi datti guai” (Don’t be that way); “Zinghiventi testrìnghisi” invece, il più complicato di tutti da pronunziarsi (Zing went the strings of my heart), valeva una strisciata e due battute, cioè sette. E così via. Totò Strazzera morì nel lettone, mentre il grammofono prometteva per l’ennesima volta di lavare quel famigerato fazzolettino, ma nessuno se ne accorse. Finché Alfonsa Scicolone, ormai vedova Strazzera, non ebbe avvertito il padrino, don Luvici Badalamenti, che abitava nello stesso palazzo nobiliare di cui gli Strazzera e gli Impallomeni occupavano i miserabili scantinati del retro. Don Luvici provvide subito alle esequie, con le premure con cui aveva provveduto a trovare il posto di manovale allo sfortunato Totò.
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— Totò — diceva sempre don Luvici, — è come uno della mia famiglia. Fece affiggere i manifesti in tutte le contrade, ordinò il miglior servizio di pompe funebri della città, la veglia al defunto composto nel tabuto di noce, con diritto alle grida rimunerate delle prefiche a dar rinforzo a quelle altrettanto strazianti, ma gratuite, della novella vedova, i rinfreschi per gli intervenuti, la messa cantata, il corteo con la carrozza a quattro cavalli, la dolorosa banda dietro e finalmente la sepoltura in una discreta tomba di pietra bianca, nel cimitero di Bonamorone. Al ritorno di Giovanna, Totò era ormai morto e seppellito, ma nel vicolo rimaneva un’atmosfera di lutto e di rispetto, ingigantito dall’insolito silenzio del grammofono di Fofa. — Non può essere — mormorava Giovanna ad ogni particolare del tragico evento, raccontato da Fofa in persona, venuta apposta per metterla subito alla pari dei fatti e farsi consolare un po’ da lei. — Era meglio che mai — singhiozzava Fofa. — Più forte di un leone era. Più bello di un angelo... — Non può essere — ripeteva Giovanna, avvilita e incredula anch’essa, con gli occhi fissi sul viso stravolto dell’amica. — Voleva che ci mettessi il numero quattro... — Ma che dici, Fofò? Il “Singhi singhi”? Quello di Luvici Prima? Il mio preferito? — Giovanna capiva il turbamento della giovane amica, ma c’erano troppe cose che non quadravano. — Sì, però ci ho messo quello di sempre... E nel più bello mi si è accasciato sopra come un sacco di patate. E non ci fu verso di farlo tornare in sé...
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Fofa si impappinava, andava avanti e indietro nei fatti, si correggeva, confondeva persone e cose... — Non può essere... Nei giorni sucessivi, Giovanna ricevette la visita del maresciallo Giammusso, dei vigili urbani, ma sempre maresciallo, con la scusa delle domande per le case popolari. — Marescià, vossia lo sa benissimo che io non ho fatto nessuna domanda. La casa ce l’ho. Può non essere un gran che, ma la buon’anima di mio marito qualcosa me l’ha lasciata. — E allora vuol dire che qualcuno la domanda l’ha fatta per lei —. E faceva già per andarsene. — Marescià, me lo dica subito. Che vuole sapere da me? — Niente, stanno cercando una pecorella smarrita che non è tornata all’ovile. — E la viene a cercare proprio qui? E che le pare che abitiamo in una mànnara? — No, si tratta di un picciotto continentale che lavora alla ferrovie e da una quindicina di giorni non si è più fatto vivo. — E si vede che sarà tornato in continente — suggerì Giovanna, ma tra sé e sé pensò: lo dicevo che i conti non tornano... — Macché, poverino. È uno sfollato istriano che perdette tutti i parenti nei bombardamenti su Fiume e che aveva ottenuto un lavoro alla ferrovia come manovale.
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Donna Giovanna della Fonseca vedova Impallomeni era fatta così. Sospettosa, sempre un passo indietro e due avanti, riusciva a sapere sempre più di quanto gli altri ci tenessero a scoprire da lei. Ma non si poteva fare persuasa: il “Singhi singhi” di Luvici Prima ci ha messo. Non può essere... Passarono alcuni mesi e la pancia di Fofa cominciava a farsi notare. Costretta a sopravvivere con la miserabile pensione di seicentoventi lire che le passava la ferrovia, il lutto e la miseria sarebbero anche stati sopportabili, se avesse potuto almeno mettere in azione il suo grammofono. Ma tutti avrebbero gridato allo scandalo e perciò se ne stava il giorno intero in silenzio ad attaccare bottoni alle camicie che le portavano da una sartoria e persino la sera, al lume di candele, per sbarcare il lunario e preparare il corredino al nascituro. Ma un bel giorno venne a salutare Giovanna perché andava in America. — In America? E che ci vai a fare in America, ancor più con la pancia che cresce? — Don Luvici mi ha procurato un posto sul prossimo bastimento che parte da Messina e spero di andare a fare fortuna anch’io. Chi esce riesce, donna Giovà... — Sì, attaccando bottoni alle camicie degli americani invece dei siciliani?... — Vorrei che si tenesse il mio grammofono, che quando torno ne porto uno molto più grande e più bello da Bruccolino e una cassa di dischi di quelli che ci piacciono di più.
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— Sì, aspetta e spera, Fofò... Il maresciallo Giammusso fece un’altra apparizione qualche tempo dopo che Alfonsa se ne fu andata. — E allora, signora Giovanna, la vuole o non la vuole la casa popolare? — Gliela dia a chi ce ne ha di bisogno, marescià. Mi dica piutosto quali sono le novità? — Niente, è che hanno rintracciato la pecorella smarrita. — (Non può essere, pensò Giovanna). Ah, e dove? — indagò con apparente noncuranza. — Era nella lista dei passeggeri dell’ultimo bastimento che è partito dal porto di Messina, carico di emigranti per l’America. — (Lo dicevo io, gridò dentro Giovanna, senza battere ciglio). Cinque anni dopo, Giovanna era impegnata a rassettare la casa, come faceva tutti i giorni, quando senti battere in modo concitato alla porta. Lo spavento la colse quando aprì e si trovò davanti Alfonsa, che venne subito ad abbracciarla in preda a una gioia prorompente. Giovanna rimase davvero trasecolata. — Lasciati guardare, Fofò — disse, non appena riuscì a ricuperare il fiato. Sul riquadro della porta, offuscato dal sole spettacolare di un primo pomeriggio estivo, la figura
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dell’amica si stagliava come quella di una star hollywoodiana. Il vestito dal taglio e dal tessuto di finissima fattura le cadeva a pennello sul corpo opulento che la maternità aveva reso ancora più sinuoso e appariscente. Il trucco, il taglio dei capelli, il cappellino di paglia con il fiore finto ed il nastro delicato... tutto contribuiva per fare di lei qualcosa realmente da vedersi. — Le ho portato il grammofono che le ho promesso. E una cassa di dischi. Guardi, ci sono tutti gli swing che esistono: quelli di Razaf e Garland, di Noble, di Louis Prima, di Irving Berlin, di Goodman, di Parish, di Sampson, di Oliver Garris, di James Hanley, di Billy Strayhorn, di Gray Chappell... — E a me basta averti rivisto, Fofò. Che per una vedova un grammofono nuovo è inutile tanto quanto uno vecchio. Non lo potrò mai mettere a suonare a casa mia e la tua ormai l’hai venduta per andartene a Bruccolino... — Certo, siamo ospiti dell’albergo Gellia... — E chi ti portò fin qua? — Mio marito, con la macchina affittata... — Ah, non sei più vedova?... — No, mi sono sposata con un riccone. E sennò come facevo fortuna? Adesso non sono più Alfonsa Strazzera, ma Alphonsine Stronnberg... — Fofò, ti voglio molto bene ma te lo devo proprio dire: sei una grandissima troia. — Ma che dice, donna Giovà... — No, non è per il fatto che l’hai data a tutti i maschi che hai trovato per strada nel vecchio e nel nuovo mondo. Questi sono affari solo tuoi. Ma perché me l’hai voluto dare a bere a me, la tua migliore amica. E ancora insisti nel prendermi per il culo.
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— Ma come, donna Giovà?... — Ma ti pare che non lo sapevo cosa avete combinato, tu e Totò? E don Luvici, che ci doveva bagnare il pane anche lui? E che voleva farmi sfrattare dalla mia casa di proprietà per togliermi di mezzo mandandomi a stare a Bonamorone, in una casa popolare?... — Ma che dice, donna Giovà?... — Chiamalo a tuo marito che glielo dico in faccia anche a lui. Alphonsine/Fofa si affacciò al finestrone che dava sul lato di via Teatro e chiamò: — Vieni, Yuri. — Ah, si è cambiato anche il nome? E Bravo. Certo, è bastata una lettera, Yuri, invece di Turi, Turiddru, Salvatore... Totò, vieni pure che non ti mangio. Dal finestrone, si vedeva benissimo il giovane autista dai capelli, basette e baffetti rossicci, che cercava di proteggersi dal sole cocente e dagli sguardi dei curiosi con il panamà fiammante. Elegantissimo, nel suo vestito di lino impeccabilmente stirato, portava in braccio un bambino di pochi mesi d’età, mentre sul sedile di dietro della millecento sedevano tre altri bimbetti, cheti e indifferenti a quanto succedeva loro intorno. Vennero tutti in fila indiana, adagio adagio, con il loro papà dietro. Si accomodarono sul piccolo sofà di vimini e Giovanna potè osservare i lineamenti di ognuno. Il piccolo in braccio aveva la faccia di un cinesino. Degli altri tre, solo il più grandetto si somigliava al padre, o forse era il padre che aveva cambiato i connotati per assomigliarsi al figlio. Il secondo aveva la faccia bruna di
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un siciliano, ma il terzo aveva tutte le fattezze di un negretto. — Totò, non l’ho detto mai a nessuno, ma a te lo posso dire: sei un gran cornuto. Che hai fatto in faccia per trasformarti in un continentale? E a chi vuoi turlupinare con i tuoi capelli ossigenati? Te lo dovevi immaginare che io l’avrei capito subito che il morto non eri tu. — Donna Giovà, mi deve scusare, ma che vuole che facessi in quel momento? Che morissi anch’io o che accettassi la vita intera la fama di cornuto? O che uccidessi mia moglie per salvare l’onore? Ho fatto di necessità virtù. — E perciò hai mandato Fofa a consigliarsi con don Luvici, che ha montato la farsa. Hai scambiato i documenti con il povero sfortunato e ti sei nascosto mentre ti facevano i funerali, fino a quando ti sei potuto imbarcare nel bastimento insieme alla tua falsa vedova. — Eh, l’America, donna Giovà, mi ha insegnato almeno questo, che è meglio essere ricco, anche se ruffiano, che povero e cornuto per giunta — ponderò Totò. — Ma le posso assicurare che Yuri è morto felice... — aggiunse Fofa. — Ah, su questo non ho il minimo dubbio. E anche voi siete rimasti tutti felici e contenti... Ma ora basta. Ormai è acqua passata. E facciamo anche questo strappo alla regola. Fofò mettimi uno dei tuoi nuovi swing. Ma non dimenticarti poi di metterci anche il mio “Singhi, singhi, singhi”.
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Giovanna e la Ferrari Giovanna tornò a casa e non vi trovò nessuno. Concettina, vabbé, era in collegio, Vanniddru e Munniddru, per i fatti loro, ciascuno con i propri amici ammaccabàsole, ma Ninniddru, come mai non era come al solito a fare i compiti? Il sangue le salì alla testa e la scena mai dimenticata della scomparsa del figlio piccolo quando era proprio piccolo, le invase il cervello come un lampo. A quei tempi, Giovanna, vedova da qualche mese, aveva un’anziana serva, il cui unico compito era quello di badare al bambinello e, quando a questi non erano neanche spuntati ancora i denti di latte, era lei a masticargli il pane con i pochi denti che le rimanevano. E in un attimo di distrazione della vecchia balia asciutta, il piccolo era scomparso. Incredibile, ma vero. In preda alla disperazione, Giovanna si appigliò a tutte le ipotesi e congetture che le elargivano a piene mani la sorella Enzuccia, la vicina Fofa, la comare Filomena, il putiaro don Ciccio, tutti. Alla fine, con uno sforzo immenso per cercare di frenare il batticuore, Giovanna prese la decisione più giusta, approfittando del
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pomeriggio ancora luminoso di piena estate: ricorrere all’abbanniatore. L’abbanniatore era un omone dalla pancia rispettabile. Dotato di una voce stentorea, si guadagnava il pane gridando il giorno intero ai quattro venti gli annunci che gli affidavano ricchi e poveri, dietro congruo compenso. Senza bisogno di megafono o di altoparlanti, l’inserzione pubblicitaria era fatta letteralmente a viva voce. — A chi ha trovato un picciliddru ... Dal vicolo degli Impallomeni, con i fratellini del bimbo scomparso dietro, sbucava sul piano Lena già con un corteo considerevole di ragazzi e sfaccendati vari, proseguendo la scalata dell’erta via Bacbac, sulle bàsole di basalto su cui le ruote dei carretti producevano quel rumore che aveva conferito l’onomatopeico nome alla salita, su su verso il ventoso quartiere di Bibirria, l’araba “porta dei venti”, appunto. — Che? Non sia mai dio. Un picciliddru s’è perso? E come mai? E di chi è figlio? Poveretta sua madre —. Le voci della gente, come in una festa di paese, si rincorrevano, si accavallavano, si scontravano con quella da trombone dell’abbanniatore, che sembrava il pifferaio magico della favola dei fratelli Grimm, con quello stuolo di ragazzi dietro, pur senza musica e senza canti. Munniddru, con le mani dietro, incedeva tutto impettito, compenetrato nell’alta funzione di fratello maggiore, come un dignitario di corte preceduto dall’araldo. Appresso a lui veniva Vanniddru, che trascinava per mano Concettina con la sua bambola di pezza.
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All’imbocco di via San Michele, una donna venne fuori dall’umile tugurio dove abitava e si fece strada tra la calca appena formata dai curiosi del quartiere. — Avvossìa, l’ho trovato io il bambino e l’ho messo a dormire nel mio letto —. Fatto. Il mistero era risolto. — Era stanco poverino, a tratti si faceva la salita carponi, che a stento ha imparato a camminare. Gli ho preparato un biberon e si è subito addormentato. — Ti dovessero ammazzare li cani! — Così Giovanna accolse il figlio appena ritrovato, come qualunque madre siciliana avrebbe fatto. Frasi terribili, maledizioni sproporzionate anche al cospetto di un figlio con più dell’anno e mezzo di vita che Ninniddru aveva allora. — Botta di sangue! Ti dovesse venire un colpo! — Per poi affogarlo di baci con gli epiteti più spasimanti — Fiato mio! Sangue del mio cuore! Cosa dolce! Pupetto di zucchero! In ogni modo, pensava con tristezza, quel piccolo che la aiutava a dura pena a colmare un po’ del vuoto lasciato dal giovane marito, con quel piede lungo che già si ritrovava, ne avrebbe sicuramente fatta di strada. E ora, a otto anni, era scomparso di nuovo. Purtroppo, ormai nessuno più faceva l’abbanniatore, che la radio era divenuta un elettrodomestico presente anche nelle case più povere e notizie come la scomparsa di un bambino finivano per raggiungere le orecchie di tutti gli abitanti dell’isola. Giovanna si mise immediatamente a ragionare con le supposizioni più attendibili, ma si ricusò fin dall’inizio di
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stare a sentire la sorella Enzuccia, le comari, le vicine, il putiaro e il calzolaio. Stavolta preferì andare difilato dalla polizia. Ed era già buio. Per fortuna davanti al portone del tribunale di via Bacbac c’era il maresciallo Giammusso dei vigili urbani, ancora e sempre maresciallo. — Marescià, forse lei mi può aiutare. Hanno rapito mio figlio. — Ma che dice, donna Giovà? E come fu? Quel posto esagitava oltremodo l’immaginazione di Giovanna con il ricordo delle facce patibolari dei detenuti, intraviste per un istante tra le teste dei carabinieri alla discesa dalla cellulare, mentre si avviavano, oppressi dal peso delle manette e dall’obbrobrio della folla di curiosi, verso il giudizio e la condanna. Accanto al tribunale c’era poi un macellaio, presso cui ogni venerdì scaricavano i quarti di bue, marchiati in blu dall’ispezione veterinaria, che sembravano squallide deposizioni dalla croce, di esangui cadaveri martoriati. Tutto parlava di violenza e di crimini, proprio davanti alla scuola comunale che riempiva di grida infantili la strada intera, ogni qualvolta suonava la sua festante campanella della fine delle lezioni. E i gruppi di ragazzi che giocavano ai nìchili o al soffio delle fatidiche figurine o si azzardavano nei carrettini con i cuscinetti a sfere sul piano inclinato del marciapiede cementato. Tutto parlava altrettanto di gioia e di vita. Da godere e da preservare. Giovanna non versava una lacrima, ma l’affanno aveva fatto impallidire quel volto roseo, paffuto e volitivo.
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— Questi zingari che circolano ogni tanto dalle nostre parti. O certi malintenzionati come quello che ha le stesse generalità di mio figlio Munniddru e che ci ha fatto stirare il collo per poter fargli ripulire la fedina penale. O malandrini come quel nostro conoscente che mandava lettere minatorie ad amici e parenti, per servire da murobasso ai capi mafia del paese. — Ma suo figlio adesso è cresciutello e mi pare abbastanza sveglio. — È vero, ma sempre picciliddru è. E ancora molto innocente. — Lei se ne torni a casa. Ci penso io a mobilitare la polizia, qualora tardasse a farsi vivo. Purtroppo domani sarò ancora in servizio per via della corsa. Ah, se almeno potessi prevedere chi vincerà — soppesò triste il maresciallo Giammusso. — Che corsa? Ah, è questo, la corsa! Ma che smemorata che sono. Come mi era potuto sfuggire. È per domani mattina… — Non lo sapevate? — Certo che lo sapevo. Ma mi è svanito dalla mente. Quei discolacci il pesce d’aprile mi hanno fatto. Ma questa me la pagano —. E Giovanna se ne scappava via come un razzo, imprecando ai figli maschi che si stavano portando sulla mala strada anche il piccolo e alla memoria che le stava cominciando a giocare dei brutti scherzi e a questa vita disgraziata che l’avrebbe portata alla rovina —. E potete giocarvi la scommessa, marescià, che la corsa la vince la Ferrari. — E come lo sa? — L’anno scorso non hanno forse vinto i fratelli Bornigia con l’Alfa Romeo?
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— Sì. — Nuvolari non si è dovuto ritirare per un guasto nella sua Cisitalia-Abarth 204? — Sì, ma che c’entra con la corsa di quest’anno? — La Ferrari di Bernabei e Pacini non è arrivata seconda e quella di La Motta e Alterio terza? — Sì, è vero. E, a proposito, come fa a sapere tutte queste cose? — si sbalordiva il maresciallo. — È come uno e due che fanno tre. Lo so e basta! Era successo venti giorni prima. Ninniddru voleva vedere la corsa e Vanniddru, in un raro accesso di generosità, era disposto a portarselo dietro. — Ma ancora è troppo piccolo — obiettava invariabilmente sua madre, tutte le volte che le uscite dei figli più grandi coinvolgevano il cacanido. — Mamà, è la Targa Florio, la corsa di automobili più antica del mondo, che quest’anno passa di nuovo dalla nostra città. Vanniddru sapeva che convincere sua madre sarebbe stato difficile, ma non si aspettava che lo fosse tanto. — E dove me lo vuoi portare? — A Porta di Ponte, a casa del mio amico Gerlando. Così ci svegliamo presto e in un salto arriviamo a Piazza Stazione. I primi bolidi sarebbero infatti passati all’alba dalla Passeggiata, il maestoso viale che prolunga lo spiazzo antistante la stazione centrale. Da casa loro fino a Porta di Ponte bastavano in realtà dieci minuti appena, percorrendo a piedi l’intera via Atenea, il decadente salotto della cittadina. Ma i giovincelli ci tenevano a
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passare la notte svegli, a giocare a carte e a riscaldare i motori del tifo per l’indomani. Ninniddru se ne stava in un angolo ad ascoltare in silenzio i due che mercanteggiavano la sua prima notte fuori casa. — Mamà, è un’occasione unica per vedere la Ferrari. — E che premura c’è? Quando cresce la vede. Non c’era verso. Vanniddru finì per desistere. Chi invece riuscì a piegare l’intransigenza di Giovanna, anche se lei non l’ammise mai esplicitamente, fu proprio Ninniddru, che si dispose a elucidarle per chi e per come tutta la gloriosa storia della Ferrari. Era lui infatti il fortunato e geloso possessore di un intero scatolone pieno di figurine, ritagli di giornale, opuscoli illustrativi e persino un poster del gran debutto di Ascari nel campionato del mondo di Formula 1, in occasione del Gran Premio di Monaco dell’anno prima, su di una fiammante Ferrari 125 F1. A tutti gli effetti, però, per il piccolo l’interdizione continuava. — Mamà, ma lo sai almeno chi è Enzo Ferrari? — Chi sarebbe costui? — Allora, lei lo ignorava proprio. Ma avrebbe scoperto un giorno, sempre dall’informatissimo Ninniddru già più avanti negli studi, che un certo scrittore aveva reso celebre da tempo quella stessa risposta/domanda, in bocca a un oscuro curato di campagna, a riguardo di un altrettanto oscuro personaggio del passato: “Carneade... Chi era costui?”. — Devi sapere che Enzo Ferrari da piccolo faceva il maniscalco, ma a vent’anni ha vinto la sua prima grande corsa ad Acerbo, battendo le Mercedes che arrivavano proprio dal successo alla Targa Florio. — E qui ad Agrigento, correrà pure lui?
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— No, mamà, oramai è troppo vecchio per correre. Adesso è il padrone della scuderia Ferrari. E lì a spiegarle che Enzo Ferrari non era tornato in una scuderia a fare il maniscalco, ma che ora faceva l’industriale e che il probabile campione della corsa di quella Targa Florio sarebbe stato il suo pilota principale, Alberto Ascari, appunto, come nel passato lo era già stato Tazio Nuvolari. — E che si sono messi d’accordo? Ferrari, Ascari, Nuvolari... A poco a poco la mamma si andava interessando all’argomento, immedesimandosi sempre più in ogni particolare che il piccolo le illustrava. Scoprì inoltre lo scatolone sotto il letto del ragazzo e si rese, in poco tempo e all’insaputa di tutti, una ferratissima ferrarista. Era oramai rapita dall’incantesimo di quelle storie fantastiche e si rese conto che, alla fine, avrebbe ceduto. Ma quel giorno, impegnata com’era a sgobbare nelle cucine del Collegio Zirafa, dove aveva accettato l’impiego di aiuto cuoca, si era completamente dimenticata della faccenda, e i ragazzi, dal canto loro, sicuri che non avrebbero mai ottenuto il permesso, decisero di arrischiare ugualmente il loro progetto, senza l’autorizzazione materna. Alle nove di quella sera, Ninniddru aveva già gli occhi a pampinella, che era l’ora in cui era abituato a dormire. E quanto più si sforzava di tenerli aperti e più crollava dal sonno.
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I giovanotti accomodarono alla meglio il bambino su un divano e neanche la baraonda che si susseguì, tra risate, grida di vittoria di chi vinceva e di disappunto di chi perdeva, nuvole di fumo e fumi alcoolici dei più, riuscì a distoglierlo dai suoi sogni d’oro. E quando, ancor prima dell’alba, i giovani tifosi dovettero proprio andare, per assicurarsi i migliori posti dietro le transenne a San Calò, non ebbero il coraggio di svegliare Ninniddru, che continuava a dormire beatamente. Tanto c’era il portinaio dirimpetto, che, vigile e ben disposto, sarebbe potuto accorrere a qualsiasi evenienza. L’aurora dorava già piazza Stazione rigurgitante di gente quando cominciò ad arrivare dalla valle dei templi il ringhio dei bolidi che risalivano la passeggiata archeologica. In quel momento, una voce di donna sovrastò il ronzio distante dei motori e il crescente clamore della folla. — Vannì, Munnì, vi dovessero... — Mamà — risposero all’unisono Vanniddru e Munniddru colti dallo spavento, mentre vedevano la loro madre ingigantirsi come una valanga nera in loro direzione. Giovanna, con il volto infuocato e gli occhi fuori dalle orbite, veniva portandosi in braccio Ninniddru, i cui piedi quasi strisciavano sul selciato da quanto era cresciuto e, ormai svegliato dalle grida, si divincolava come poteva dagli eccessi della protezione materna. — Così vi siete presi cura del nicarello, figli di...? In quanto non si avvistavano le prime macchine, il centro delle attenzioni era divenuto quel singolare e rumoroso nucleo familiare. E sicuramente dalla testa di
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non pochi scommettitori inveterati deve essere passata l’idea, una volta che c’erano, di giocarsi qualcosa su chi dei due si sarebbe per primo guadagnato una sberla o chi avrebbe inventato la scusa più fantasiosa per sfuggire alle ire della madre. Per fortuna gli astanti furono subito richiamati al motivo principale di quell’assembramento. La prima macchina da corsa spuntava difatti da dietro la caserma Crispi e in un batter di ciglia arrivava in piazza per fare l’inversione di marcia ed entrare trionfalmente nel viale delle Vittorie, sotto le acclamazioni della folla. — È una Ferrari, mamà — gridò giulivo Ninniddru, il cicerone personale di Giovanna. — Ma non mi avevi detto che le Ferrari sono rosse? Quella, da come è dipinta, sembra un carretto siciliano. — Mamà, è un modello nuovo fatto a piacere del pilota riccone che se l’è comprata e ha contrattato un pittore siciliano per adornarla con i motivi folcloristici dei carretti, in omaggio al giro di Sicilia appunto. — E Ascari, dov’è, che non l’ho visto? — Mamà, quello si sta preparando per il campionato mondiale e non è venuto in Sicilia. Dopo un po’, altri bolidi passarono sfrecciando fulminei, sotto le ondate assordanti dell’effetto doppler. Altre Ferrari, Stanguellini, Alfa Romeo, Lancia, Maserati, Mercedes-Benz... Pochi istanti di spettacolo avrebbero fornito innumerevoli spunti di conversazione a tutto un popolo, per molto e molto tempo ancora. Riconciliata sotto l’egida della Ferrari, la famiglia Impallomeni se ne tornava a casa definitivamente unita e
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appagata dalla gioia comune e sottomessa come non mai all’incontestabile matriarcato di Giovanna. Quel primo aprile 1951, la Ferrari con la nuova vettura 2560/212 Export del conte Vittorio Marzotto, il “carretto siciliano”, vinse l’undicesimo Giro di Sicilia, percorrendone i mille e ottanta chilometri, alla straordinaria media di cento chilometri all’ora. Secondo fu Taruffi con una macchina identica. In un incidente nei pressi di Priolo, avevano perso la vita il barone Stefano La Motta e Franco Faraco. Ascari quell’anno arrivò secondo in formula uno, dietro Fangio, ma l’anno dopo fu primo e, nel cinquantatre, si mise in tasca lo stesso Fangio, il quale finì per diventare a sua volta pilota della Ferrari, e vincere la gara, nel cinquantasei. Il maresciallo Giammusso divenne anche lui uno sfegatato ferrarista. Per sempre.
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Cronache estemporanee Il natale più tetro ....................... 149 Compleanno in Italia ................... 153 Le Alpi ...................................... 155 Firenze ...................................... 157 Arrivo in Sicília .......................... 159 Monsignor Boccamazza ............... 161 Il tempio di Demetra .................... 165 I cenerentoloni ............................ 167 Ho scoperto l’Italia ..................... 171 Il fischio .................................... 177 Un tocco di classe ........................ 181 Il moralista ................................. 189 La professoressa ......................... 191 Millennium ................................ 201 La terza etá ............................... 205 L’eretico .................................... 207
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Il natale più tetro Non sempre il Natale è stato per me così felice come quello che mi si profila quest’anno. E potrebbe sembrare un controsenso voler ricordare momenti tristi quando si è felici, mentre dovrebbe essere esattamente l’opposto. Fatto sta che tutti gli altri non mi ricordano niente di particolare: tutti religiosamente programmati, puntualmen-te realizzati, gioiosamente vissuti, volentieri deposti nel dimenticatoio il giorno dopo. Quella prima (e ultima) notte di Natale passata a San Paolo non potrò invece dimenticarla mai. Solo come un cane, strisciavo in mezzo alla folla incomunicabile della megalopoli particolarmente estranea per me, muto, abbattuto e impotente. Le persone che più amavo erano immensamente lontane, ma sapevo che stavano festeggiando il loro Natale in pace e insieme. La persona che amavo al di sopra di tutte le altre, invece, non sapevo neanche se era ancora viva. E non c’era modo di saperlo, perchè era lei che lo impediva.
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Le luci e gli addobbi festivi dell’avenida monumentale (per somma ironia chiamata della Consolazione), mi si tramutavano dentro in punte di aghi che mantenevano cinicamente sveglia l’angoscia a rodermi l’anima. Le macchine, le persone cariche di regali comprati all’ultima ora, i negozi ancora aperti, scintillanti di luci e di lusso, erano per me soltanto un fondale bigio e scialbo. Nel colmo della disdetta, mi convinsi persino a fare una cosa che non facevo da moltissimo tempo e che invece sarebbe stata la cosa più naturale in una notte di Natale: entrai nella chiesa, della Consolazione appunto, che dà il nome all’importante arteria di San Paolo. Esalai tutti i miasmi del mio scorno e del mio dolore come volute d’incenso che mi pareva di vedere materializzarsi mentre ascendevano verso le volte neogotiche della navata. Feci voti e promesse. Che non morisse almeno. Che sopravvivesse anzi e fosse felice. Non sono sicuro se ne uscii consolato, ma, più che l’aspettativa della grazia, un certo conforto non nego che me lo dava l’impegno assunto con me stesso. Continuai così la mia amara passeggiata, senza una rotta definita e con l’unico scopo di smaltire il tempo e attenuare chissà la disfatta. Sul ponte Dona Paulina il viavai era come in qualsiasi punto della città, ma dovetti deviare come tutti, davanti a un uomo disteso presso la ringhiera, in fin di vita, che riusciva ancora a indicare con il dito la tasca dei pantaloni, per lui irraggiungibile. Mi venne spontaneo di fermarmi e di prendergli la boccettina con le pillole che i pochi curiosi che avevano
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resistito alla fretta festiva non avevano avuto ancora l’intuizione di fornirgli. Ma lo stato deplorevole in cui si trovava il pover’uomo mi spinse a fare qualcosa in più. Mi ricordai allora che i miei guai non riguardavano soltanto i miei sentimenti, ma anche i quattrini: oltre tutto ero al verde. Ciononostante rovistai questa volta le mie tasche e trovai letteralmente l’ultimo cruzeiro. Valeva un panino imbottito. Fui al bar più vicino e portai all’accattone sconosciuto il sacchetto fumante. Sono sicuro che aveva proprio bisogno di quel cenone, più di qualsiasi medicina. Poi mi sedetti accanto a lui a osservarlo mentre addentava con avidità il panino. E aspettai sereno l’alba del Natale più tetro della mia vita.
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Compleanno in Italia Mezzanotte tra il 25 e il 26 ottobre 1999 (in Brasile sono ancora le 19). Tutti, a bordo del boeing dell’Alitalia che solca i cieli dell’Atlantico Sud, sonnecchiano cercando di immedesimarsi il più precocemente possibile con il fuso di Roma. Tutti tranne me, naturalmente, e un commissario di bordo che resiste quasi sveglio sullo strapuntino della, chiamiamola così, cucina, di bordo anch’essa. Vado a distoglierlo dalle sue solitarie fantasticherie per comunicargli: — Mia figlia oggi compie vent’anni. — E a me che me ne frega? — pensa il commissario di bordo, ma dice: — Non posso che farle i miei migliori complimenti. — Non ci sarebbe uno spumantino, così, tanto per commemorare? — aggiungo timidamente. — Beh, veramente... Ecco, sì, ne sono rimaste due bottiglie... Me le fa vedere: sono più che altro dei flaconcini da ipodermoclisi, ma la marca è buona.
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— Anzi, aspetti un momento... — Il mio mortificato ringraziamento finisce per svegliarlo completamente. Si alza e corre verso la cabina del comandante. Torna trionfante con due piattini di torta. Sveglio Claudia, le canto sottovoce “parabens pra você”, poi “tanti auguri a te”, che è lo stesso, batto le manine senza far rumore (non facciamo che si sveglino tutti i passeggeri e vogliano anche loro una fetta della, oltretutto, deliziosissima torta). Foto ricordo, si mangia, si brinda e poi a nanna, cullati dal ronzio imperterrito del boeing.
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Le Alpi Al telefono, la grande sorpresa. La voce. Da due anni ci si parla, quasi ogni giorno, ma senza la voce. Poi, all’improvviso: — Giemme? — Sì, sono io. È la voce sicura, ma soave, di un ragazzo. Mi aspettavo, chissà perché, quella rombante di un’autorità, autorevole, autoritaria forse. Rido di cuore. Dall’altro lato della linea, il ragazzo Giemme ride anche lui della mia voce. — Guarda che vengo davvero. — Ma certo. Domani? — Domani, posso? Il finestrino del treno, direzione nord, mi regala una carrellata completa, luminosa e nitida, di “quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno” (penso sia proprio quello) dai margini retti e nitidi, con qualche casina bianca sull’altra sponda, un verde sommesso e una cornice di monti e di nubi e di cielo che difficilmente
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qualcuno riuscirà a cancellare dalla mia ancorché decadente memoria. Sondrio. Tento il telefono. Rimango quasi solo alla stazione. Finalmente ci riesco. Giemme viene. Lo indovino per esclusione: è tutt’altra la figura che mi ero creata in mente. È decisamente un ragazzo del sessantotto che si sia fatto sbiancare apposta qualche pelo della folta barba e la capigliatura sciolta a spalla, per favorire il trompe-l’oeil di chi ci tiene a credere che son passati trent’anni da allora. Mi sfama e mi prende a tracolla. Conosco la moglie, la casa, il computer, i suoi poemi, i libri... e la Valtellina. Dall’alto. Verso l’alto, fin dove l’asfalto arriva. Poi, percorriamo a piedi un sentiero abbastanza pianeggiante tra case coloniche e ville estive ed il verde che si prepara all’inverno, con il naso all’in su verso le vette del monte Disgrazia e degli altri i cui nomi, forse perchè meno drammatici, dimentico subito. Mai più, invece, la loro imponenza né l’estasi che coglie anche un alpinista così poco qualificato come me.
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Firenze A Firenze sono a casa. Ci abita mio fratello. E anche Dante e Beatrice: ne visito le rispettive case e chiese. Mia figlia arriva dopo di me: ha voluto visitare Verona e Venezia da sola, mentre io andavo a Sondrio. Se l’e’ sbrigata brillantemente con l’Italiano che si è appena inventato. Si è fatta la foto da sé davanti alla casa di Giulietta. Senza Romeo. Piazza San Marco continua ad essere il salotto più elegante del mondo e lei la protagonista di un bel copione nella luminosa scenografia veneziana. Firenze, stavolta ce la godiamo dalla strada (la Galleria degli Uffizi vive ancora in squarci di puro gaudio dall’esperienza esaltante degli ultimi cinque anni), ad accarezzare con gli occhi le opere eterne di Giotto architetto, del Brunelleschi, e le pareti illuminate a giorno di via de Calzaioli, a sorbirci il gelato a Santa Maria Novella, a spulciare un mercatino delle pulci (cerco ancora Nini Rosso e Nino Impallomeni per il mio amico brasiliano patito dei due strumentisti), i negozi aperti fino a tardi nelle serate renitentemente estive, e poi
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la Feltrinelli con tutti i libri che vorrei portarmi in Brasile: mi accontento di una panoramica veloce, tanto per mugugnare a lungo di piacere e di cupidigia. Le notti a leggere Camilleri e riconoscergli anch’io la meritata fama. E sfamare l’anima dopo la lunga assenza dalla mia zolla. Mia cognata mi regala doppioni de “Il cane di terracotta” e de “Il Gattopardo” (il film seguito a non trovarlo: vorrei rivederlo in Italiano, come pure “Profumo di donna” con Vittorio Gasman. Pazienza). Poi, sempre in treno, saltando a pie’ pari l’intero stivale, andiamo in Sicilia.
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Arrivo in Sicilia Arriviamo il giorno dei morti. Non vedo ragazzini che giocano con armi da giocattolo né sento spari. D’accordo, il disarmamento deve cominciare da piccoli. Soprattutto nella terra della mafia. Ma non vedo neppure le femminucce a giocare per strada con le bambole nuove o i maschietti a sfoggiare i nuovi modellini di camion, trattori, macchinette... Niente. Ci sono, è vero, i dolci di marturana e persino le “ossa di morti”, ma quelli li ho visti anche a Milano (i dolc d mort). Si è perduta irrimediabilmente la tradizione siciliana della festa dei bambini nel giorno dei cari defunti? I nonni non vengono più a portare i loro regali ai nipotini anche se continua l’afflusso caotico dei vivi, in un rituale sempre più vuoto, in un cimitero sempre più pieno. Il sole, però, è proprio quello stampato da sempre nella mia memoria.
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L’estate si è quasi unita a quella di San Martino per far boccheggiare l’isola nell’arsura e nel caldo da deserto di Atacama con il suo fenomeno di “El niño”. E il mare e la valle dei Templi e l’odore della polvere nell’aria... è sempre quella. Basta non guardarmi allo specchio per sentirmi fanciullo.
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Monsignor Boccamazza I Stavolta non sono stato a visitare il Kaos con il pino e la casa di Pirandello. Mi dicono che la stanno restaurando, prima che cada a pezzi. Del resto conosco tutti i cimeli, le foto, il vaso greco con le ceneri e persino i voti in pagella al secondo ginnasio. Quando ero in seconda media (1955: ho una foto della classe per chi ci tiene ai cimeli e per chi non ci crede che sono stato bambino anch’io), il prof. Piscopo, giovane e innovatore, ci diede da fare una ricerca di Italiano sull’illustre concittadino. Mi buttai nei meandri del museo civico, allora in piazza municipio, proprio davanti al teatro oggi Luigi Pirandello. Ne presi lo spunto per imbevermi dell’arte e della cultura greca i cui reperti ormai arricchiti e in bella
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sistemazione sono stati trasferiti nel Museo Nazionale della Valle dei Templi. Ma quello che mi colpì di più, insieme al macabro mucchietto di ceneri dentro il vaso greco scelto in testamento, è stata senz’altro la pagella (oggi al Kaos, come detto), del coetaneo Luigino, futuro premio Nobel di Letteratura 1934: 5 (dico cinque) in Italiano per l’appunto. Niente biasimi al grande maestro, ma un sospiro di sollievo: al premio potevo ancora sperarci anch’io. Allora.
II Al Kaos, pazienza. Ma a una ennesima passeggiata ai Templi sarebbe impossibile rinunciare. Tanto più che il cielo terso di un confortevole autunno non fa che aguzzare la voglia di quell’aria respirata dagli antenati dorici nei loro momenti più felici. Per la prima volta entro nella Villa Aurea: ci ero passato davanti milioni di volte, ma neanche sapevo che era aperta al pubblico. Anche questa fu la residenza di un grande nome della cultura agrigentina, anche se inglese di nascita: è l’archeologo che ha scoperto il misterioso tempio sotterraneo di Demetra e che si è voluto far seppellire nel cimitero di Agrigento, lasciando tutta la sua eredità all’archeologia locale.
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III A proposito di lasciti, ho fatto conoscere a mia figlia anche la rinomata biblioteca del Mons. Boccamazza del fu Mattia Pascal. Oggi bibliotecario non è più Mattia Pascal, ma una nostra parente. Pirandello descrive i minimi dettagli, che ancor oggi possono essere facilmente identificati, nonostante la spettacolare restaurazione recentemente effettuata dalla Regione, dopo innumerevoli restauri e lunghi periodi di completo abbandono, nel corso dei più di 200 anni dalla donazione al popolo agrigentino, della “Biblioteca Lucchesiana” da parte del conte-vescovo Lucchesi-Palli (il vero “Mons. Boccamazza”, la cui statua deve aver impressionato Pirandello per via della bocca, alquanto sproporzionata invero, perennemente aperta a un accattivante sorriso che ricorda certe statue di Egina: a chi la vuole posso anche mandarne la foto).
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Il tempio di Demetra Il tempio di Demetra era il posto ideale per giocare a guardie e ladri. È situato proprio all’estremo limite della Rupe Atenea, su di una specie di piazzuola scavata nella roccia della montagna, alla base dello strapiombo orientale della Valle dei Templi di Agrigento. Era forse un posto di osservazione a guardia della vicina porta, o un posto di segnalazione? Nel lato sud, in basso, le tracce di una strada antica riconoscibile dai due solchi paralleli scavati dalle ruote dei carri. Conosco ogni angolo, ogni pietra, ogni odore. Mi viene voglia di acquattarmi e trascinarmi ancora in silenzio sui fazzoletti di erba, passare ancora sotto i fili spinati, in attesa di avvistare uno della squadra opposta per farlo arrendere o sparargli addosso un’innocua salva di pallottole immaginarie. O lasciarmi attrarre dal profumo coinvolgente degli asparacetti selvatici o dei mirtilli che si lasciavano scoprire ancor prima degli avversari. Oggi del tempio non si vede quasi più niente, ma quando era intero, il muro di fondo celava l’imbocco di
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due grotte che comunicavano tra di loro attraverso un tunnel trasversale. Quali misteriosi riti si svolgevano nel santuario? Erano forse i Misteri Eleusini in onore di Demetra, di Persefone e di Diòniso? O si trattava di un misterioso culto delle acque? Per noi era solo il mistero del futuro e di una vita da scoprire. Era il rito dell’inocenza che cercava di sopraffare il tanfo di piscia e la paura del buio. Peggio ancora era arrivarci, per il sentiero che ad una curva scortinava la visione del cimitero a sud, con le croci allineate sul declive di Bonamorone e su cui mille volte avevo sentito raccontare storie di fuochi fatui che i morti emanavano di notte per fare spavento ai bambini disobbedienti o agli adulti malvagi. Non cedo alla voglia di mettermi carponi e mi coglie anzi una gran disillusione, perché scopro all’improvviso che non sento l’odore degli asparacetti o dei mirtilli e non provo più quel brivido di un tempo davanti allo scenario del cimitero che mi appare invece pacato e invitativo. È scomparso del tutto quel terrore infantile dell’ignoto e soprattutto della morte. Penso che mi piacerebbe anzi riunirmi con i miei vecchi e trovare un posticino anche per me qui nella mia terra, invece di andarmene di nuovo a finire così lontano. Mi immagino quieto nel mio loculo e chissà che non riesca persino a sorprendere un giorno qualche monello intraprendente e fargli sentire una gran paura con una bella fiammata venuta fuori al momento giusto dai miei propri occhi.
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I cenerentoloni Caro Pino, non potevo “assolutissimamente” tardare, quella sera! Scoccava la mezzanotte... Il peggio è che mi sono dovuto sorbire lo stesso la ramanzina: il terribile Joe ci aspettava sulla porta dell’eden, con la spada fiammeggiante dell’arcangelo. — Ma è mezzanotte in punto... — Sì, ma era da tornare prima di mezzanotte. — Non aveva forse detto: non oltre mezzanotte?... Basta, è riuscito comunque a farmi andare a nanna con un peso in più sulla coscienza per l’inutile corsa a cui avevo sottomesso voi due e per lo strazio che mia moglie aveva dovuto sobbarcare, già morta di sonno (io di rabbia). Ma felice grazie a voi, a dispetto di Joe. L’indomani, la vendetta. Mi sono portato appresso, oltre mia moglie (morta di stanchezza, oltre che di sonno), anche Jeff ed Emme, la coppietta di sposini (lui il webmaster dell’incontro) venuti a tracolla fin dal Brasile e lungo tutta la scorribanda dei primi giorni per lo Stivale. Complice Amadeus, il giovane polacco, dottore in teologia che funge da autista.
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Ci sbarca alla Magliana, metro fino a Piazza B. e sul fianco delle Poste, la splendida cenetta con gli amici di SF e di Francy & Al. Ma questo è un altro capitolo. Il ritorno è che sono obbligato a raccontare. Amadeus ci aveva insegnato il trucco per dribblare Joe, vecchio dottore in filosofia che funge da portinaio. — Prima di muovervi, telefonatemi che vi vengo a prendere comunque alla stazione della Magliana. Insieme a me, non ci saranno storie. Al però decide di portarci in macchina fino a quell’angolo lunare della campagna romana dove siamo graditi (??) ospiti. Avvisiamo Amadeus che forse avremmo dovuto varcare le fatidiche ore zero, ma che si poteva risparmiare la levataccia. — Ma come facciamo per evitare lo scoglio Joe? — Entrate dalla porta di dietro che resta sempre aperta. E così facemmo, i quattro cenerentoloni. La macchina intrufolandosi silenziosa sul brecciolino del cortile posteriore, muti addii, scale e corridoi in punta di piedi... Finalmente tutti a salvo dalle grinfie di Joe. Finalmente nudi, il telefono. Era Joe. — Da dove siete entrati? Ma come vi siete permessi? Questa è una casa rispettabile... I ladri entrano dal retrobottega... Chi vi ha detto che potevate entrare così... E dopo la mezzanotte... — Mi scusi.... — Niente scuse, questo non si fa... — Non lo facciamo più, glielo giuro...
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Ero un bambino annichilito dal rimprovero, ma in realtà tripudiavo dentro per avergliela fatta ancora una volta... L’indomani Amadeus mi confessò che Joe aveva svegliato anche lui per chiedergli conto e ragione (Ma perché lo viene a raccontare proprio a me? Stavo dormendo). Per motivi opposti, mi dispiace per entrambi. Una volta in Sicilia, alla rimpatriata con Pi ed Enne, mia moglie non è voluta venire.
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Ho scoperto l’Italia I Tutti sanno chi ha scoperto l’America: Colombo. Ma l’Italia, chi l’ha scoperta? Io. L’Italia migliore. Oltre quella fatta di condottieri, navigatori, poeti, artisti, santi, scienziati, medici, politici, ciarlatani, violenti, strafottenti... Anzi ho scoperto Roma. O meglio, i romani. I migliori. Ne esistono? Certo. Io li ho scoperti. Ho conosciuto Car, italiana e romana per sbaglio. Indovinatissimo peraltro. Non l’ho vista, ma ho chiacchie-rato un bel po’ a telefono con lei. Ho scoperto inoltre che le telefonate dalla mia stanza mi sono costate dieci volte più del normale, ma so che ne è valsa la pena. Ne ho sentito la voce, ergo sum (est, ovest...). Chi ne poneva in dubbio (metodico? sistematico?) l’esistenza? Un bagno di empatia, simpatia, telepatia. Se ascoltassi quella voce fra dieci anni, la riconoscei infallibilmente. Inconfondibilissimamente. Car.
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Ho conosciuto Pino, italiano perché romano ormai, anche se originario del regno delle due sicilie, luminare della scienza e della poesia, sorriso luminoso, sovresposto dall’alone di luce che l’accompagna ovunque, emanato dalla bellissima consorte. L’immagine che ci facevamo di lui per via del dagherrotipo che corre in web e che non so dove mai sia riuscito a rabberciare (forse nel baule di qualche lontano progenitore vissuto al tempo del regno delle due sicilie appunto) vi assicuro che non corrisponde minimamente al ragazzone di due metri che mi sono visto davanti, reduce casual di una giornata di spiaggia carioca (in realtà veniva da una giornataccia al Gemelli). Si va al centro. Non c’è posto per le macchine in piazza di Spagna. Si va a piedi fra la gente, che sembra pieno giorno, ma sono le dieci di sera. Roma è tutta luce e la gente sembra dimenticare che il mondo è pieno di rabbia e di rancore. È uno stuolo di amici che si rincontra. Alla rinfusa, come molecole di un liquido a fuoco basso. È questo il momento che vale la pena di vivere. Roma è una città di santi. Genova rugge nell’attesa del G8. Ma Trinità dei monti è la scalinata che porta al cielo. Si cena nella pizzeria alla moda. Very delicious. Ma è tardi. A mezzanotte la festa continua, ma non per noi due. Si tenta al cellulare di addolcire il cuore di Joe, il portinaio.
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No! A mezzanotte, improcrastinabilissimamente, preci-pitevolissimevolmente. Ma ho conosciuto Pino & Elle. La sera prima eravamo stati da Francy & Al: la cenetta promessa al lume delle candele, nel cuore di Roma, con recita di poesie e autografi. Telefonate da vari punti dello stivale: GiGi, Gioss... Scopro un lettore eccellente, senza volto appena un’ora prima, che sa a memoria cosucce scritte da me. Offusco Pirandello. Sono celebre. Roma è il paradiso. In testa rimangono le immagini degli angelicali anfitrioni e di tanti amici scoperti. Indimenticabilissimamente.
II Ma questi e tanti altri amici mi devono scusare: sono costretto a parlarvi del romano che mi ha definitivamente convinto che i romani sono un popolo meraviglioso o, come si dice in Brasile, gente che “non esiste”. Ed è successo proprio il primo giorno passato a Roma. È toccato a me l’ingrato compito di restituire la macchina affittata a Malpensa e con cui avevamo percorso in quattro tutta l’Italia nord-centro. — L’Avis è a via Sardegna. — E dov’è via Sardegna? — È al centro. Vai per la via Aurelia, fai il lungotevere, arrivi a piazza del popolo e poi chiedi, che tutti lo sanno.
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— Non ce l’avrebbe una cartina? — No, purtroppo. Ormai debbo proprio andare. E vado. Arrivo sul grande raccordo anulare e chiedo allo stesso benzinaio che mi aveva orientato la notte precedente, quando tornavamo sperduti dall'autostrada. — La vedi quella fila sulla pista dell'altro lato? Prendi l'inversione di marcia e ti metti in coda. Ti porterà sull'Aurelia. Poi chiedi. E vado. Un'ora per superare l'ingorgo per lavori in corso. E vado. L'Aurelia, lungotevere, piazza del popolo. Chiedo. — Via Sardegna? — È un po' complicato, un po' lontano. Vai un po' avanti e chiedi. Non so come, ma finisco a piazza Minerva. Il centro lo conoscevo già, l'avevo fatto a piedi una decina di volte, ma sempre da turista. L'ho rivisto tutto in macchina, io, Gregory Peck in “Vacanze romane”, ma senza la vespa (né la Audrey Hepburn) e con il patema d'animo. Non posso scalfire la macchina, non posso beccarmi una multa, non posso investire un passante. Passanti? Una mandria di turisti di tutti i colori e di tutte le forme d'occhi. Vedevo gli occhi, credetemi, a mandorla, grandi, piccoli, neri, celesti, grigi... Loro non vedevano me.
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Distratti, come se anche la mia macchina fosse un pedone in più. Vedo il panteon, piazza colonna, montecitorio... giro, giro, giro, sempre nel massimo rispetto dei sensi unici, destreggiandomi con pieno successo nell'incredibile impresa di scansare le auto parcheggiate nelle piazzette stipate di auto e di passanti. Finalmente mi ritrovo a piazza Minerva. Trovo un buco davanti al giornalaio e stavolta mi fermo e chiedo. Il giornalaio non lo sa, ma il suo amico che va in giro in moto deve saperlo. — Ce l'avrebbe una cartina? — Ma certo. L'amico rimane per me senza nome, ma un giorno gli innalzerò un monumento. A piazza Minerva. Con una matita (no, non accetta la mia penna, no, non roviniamo la cartina) incomincia a tracciarmi pazientemente l'itinerario, lo corregge, lo perfeziona, lo semplifica, lo inverte... Poi decide. Si copre il capo con l'elmo, scusate, il casco e s'impertica sulla moto come un antico condottiero sul suo destriero. — Mi segua. Lo seguo in pieno raptus mistico, come un ebreo appresso a Mosè o un unno appresso ad Attila. Piazza del Gesù, via Aracoeli, il Campidoglio (Marco Aurelio scende dal piedistallo, ma non dal cavallo. È davanti a me che mi fa da scorta. Se avanzo seguitemi. E lo seguo, ancora, sempre).
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L'ara della Patria, piazza Venezia, via Cesare Battisti, via IV novembre, largo Magnanapoli, via XXIV maggio, il Quirinale (il Quirinale? Sì, piazza del Quirinale, via del Quirinale, via XX settembre...). A piazza San Bernardo si ferma. — Adesso è facile. Vai di qua, poi di là... E fila via con l'orgoglio della missione compiuta. Sembra facile, ma mi impappino ancora. Sono a piazza della Repubblica. Devo chiedere ancora e ancora. Finalmente sbuco in via Sardegna. Senso unico. Non vedo l'Avis. Devo tornare indietro. Facile? Fallo tu. C'è il muro torto da attraversare, il Corso d'Italia, la segnaletica che mi porta troppo più avanti, torno da un'altra porticciola del muro torto. Via Sardegna. Le frecce mi fanno girare su me stesso varie volte. C'è un vigile all'angolo che mi intimorisce. Finalmente, al terzo giro, un gentiluomo mi informa che, nonostante l'indicazione, l'Avis è dietro di me e non c'è il senso unico. Entro nell'ufficio allo scadere dell'orario di chiusura, tre ore dopo aver intrapreso quell'odissea romana. Le ragazze quasi mi baciano di gratitudine perché sono a corto di vetture da affittare, data la gran richiesta. Non ho neanche bisogno di effettuare pagamenti. Il conto è già stato scaricato da Malpensa. — Vuole che le chiami un taxi? — No grazie. Voglio farmela a piedi. Adagio adagio. Mi regalano una cartina del centro di Roma.
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Via Toscana, via Lucullo, e gi첫, gi첫, fino a piazza della Repubblica un'altra volta e sono alla stazione Termini. Qui mi ritrovo. Adesso conosco Roma davvero. E in pi첫 ho scoperto i romani, quelli veri. Che non esistono.
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Il fischio Avevo dovuto parcheggiare l’auto e farmi alcune decine di metri a piedi in centro. La faccia feriale e i vestiti smessi di sempre, mi accingevo ad attraversare un incrocio affollato di pedoni. In quel momento, un lungo fischio — di quelli che percorrono due intere scale musicali in salita e poi le scendono al rallentatore fino a perdersi nell’apnea dell’ammirazione sorpresa e sconfitta di un irriducibile corteggiatore —, venne dritto dritto a trafiggermi i timpani. Non ne ascoltavo da tempo e neanch’io, assiduo autore di certe fischiate antologiche d’altri tempi, ne producevo più da secoli. Non resistetti alla spontanea curiosità e cercai con gli occhi il bellimbusto, autore di una così estemporanea opera d’arte. Proveniva proprio da sotto il semaforo dall’altro angolo della strada. C’erano lì tre belle ragazze, ferme a guardare fissamente verso di me. Al verde, mi mossi, mentre mi giravo con cautela per scoprire dietro me l’oggetto di tanto entusiasmo. Ma i quattro brutti ceffi che stavano a coprirmi le spalle non potevano certo giustificare l’insolita manifestazione di incondizionato plauso.
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E allora? Sì, vi perdonerò se non ci crederete. Le tre bellocce continuavano a seguire con lo sguardo proprio me. Riconosco che un fatto come questo mi avrebbe scombussolato in qualunque momento della vita e se qualcuno me lo avesse raccontato, l’avrei ritenuto una balla. Proprio perché non sono più un ragazzino da potermi permettere il lusso di raccontare delle fandonie, né di essere il protagonista di un fatto del genere. Cosa non può uno sguardo? Uccidere forse no, ma turba, scuote, confonde, stravolge. Ed è sorprendente il numero di pensieri che assalgono la mente in un semplice istante di quelli. Per uno sguardo basta infatti un istante, ma è come se durasse un’eternità. Lo riportano tutti quelli che hanno provato l’esperienza irrepetibile dell’eternità: è come un istante, in cui possono coesistere innumerevoli fatti, persone e cose. Quanti angeli possono poggiare allo stesso tempo sulla punta di uno spillo? Si domandavano, pieni di bizantinismi, gli antichi controversisti di Bisanzio. Risposta: infiniti. E cos’è poi l’infinito? Infinito è la distanza tra lo zero e l’uno. È il tempo che ci mette Achille per raggiungere la pur non troppo celere tartaruga di Zenone. Nell’intercapedine di un istante possiamo infilarci di tutto: l’essere e il niente, lo slancio vitale, il dasein, das Sein und die Zeit, i quanti, i tantra, i probabili, i possibili e gli opinabili. Fatto sta che quei pochi passi furono molto più lenti di quelli di Neil Armstrong nella sua brevissima quanto inedita passeggiata lunare. E con lo svantaggio da parte mia, di non avere avuto neanche il tempo di preparare
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come lui una qualsiasi frase d’effetto da lasciare ai posteri. Che so io, “una larga falcata in un bagno di folla”, che oggi parrebbe a cose fatte, di scarsa originalità. Oppure, “in mezzo a tanta umanità, non ho incontrato nessun dio”, pur plagiata sulla scorta dell’eroe della sponda opposta, il rosso Yuri Gagarin. O chissà, “chi rende donna una donna è un uomo, ma la donna rende l’uomo un dio”. Bella questa. E senz’altro originale. Un po’ laboriosa però, e non certo facile da creare lì per lì in simili frangenti, ma dotata della principale qualità delle frasi intramontabili, quella di accarezzare l’inconcepibile per poi mordere l’incomprensibile. In ogni modo riuscii ad attraversare la via, come un naufrago un braccio di mare e finalmente approdare indenne all’altra riva o marciapiede che dir si voglia. Le tre ragazze aprirono il varco ad un navigante trasognato, immerso ancora in quel mare di sguardi ridenti. Non saprò mai se furono di sincera ammirazione o di un incontenibile scatto di libidine. E ammettiamo pure l’ipotesi di un perverso sfottò. In tutti i casi, confesso che prevalse in me l’onda travolgente dell’esaltazione. Per un momento mi sentii l’ombelico del mondo. Mi vidi appena sporto dalle viscere di mia madre al nascere, appeso ancora al suo cordone ombelicale e poi dare i primi goffi passi della “mia” umanità, ignaro del futuro tanto quanto il savio astronauta al toccare il suolo lunare. Ed affrontare l’adolescenza pavida ed audace insieme, le sfide del sapere e dell’amore, le sconfitte e i trionfi, le effimere e trepidanti paci della virilità matura.
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Attraversato quel mar Rosso di occhi, il varco mi si richiuse dietro, diretto non so dove e senza piÚ neanche la memoria di quel che mi aspettava. Gravato dai dubbi di sempre, chi sono, che devo fare, che devo dire e soprattutto, perchÊ? Mi avviai lo stesso verso l’ignoto, MosÊ e Ulisse e Dante riuniti in un sol uomo, che insieme a me sbottavano in una biblicomericadantesca risata.
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Un tocco di classe Avevo un disperato bisogno di trovare delle cravatte decenti. Mia moglie si era semplicemente dimenticata di mettere in valigia le mie migliori e, al momento di presentarmi al convegno, mi ero sentito come fossi rimasto tutto ad un tratto nudo. Mi aveva soccorso Mario, factotum e improvvisatore ufficiale del convegno. La cravatta apparteneva al concierge dell’albergo, il quale me la consegnò con l’esitante riservatezza di un dignitario di corte, disposto a fare una eccezionale concessione. Non perché fosse la cravatta di un concierge, ma, francamente, non era proprio un gran che. Volevo una cravatta da vero conferenziere. Il tono adatto, il colore appropriato, il giusto peso del nodo, stretto a regola d’arte. Tutto su una camicia dal bianco immacolato, i gemelli d’oro ad occhieggiare da sotto le maniche di un doppio petto d’alta classe, in equilibrato gioco con il fazzoletto del taschino e con il fermaglio d’argento andino che, questo sì, mi ero infallibilmente portato dietro. Così, non appena ne ebbi l’occasione, il primo pensiero che mi spinse a fare un giro delle bancarelle di
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Piazza della Repubblica fu proprio questo, comperarmi delle cravatte. Ce n’erano di tutti i tipi e colori, sommerse da una miriade di chincaglierie, stendardi, statuette, quadretti, piattini, ciondoli e magliette dei più noti calciatori dell’epoca, soprattutto quella con il nove di Ronaldo in entrambi le versioni, interista e brasiliana. Ma non sarei stato sicuramente proprio io a lasciarmi inforcare da uno di quei luccicanti pendagli di finta seta, offerti a piene mani. Buoni magari per turisti frettolosi disposti a sborsare una manciata di dollari o ien per portarsi a casa una qualsiasi cosa con scritto sopra made in Italy. Decisi allora di cercarne qualcuna nell’immenso androne di Stazione Termini, dove sicuramente avrei potuto sodisfare le mie ricercate esigenze, pur sapendo che le tasche avrebbero sofferto un considerevole salasso. E andavo dritto e deciso, senza neanche aver notato il gruppetto di giovani giapponesi, ognuno con l’emblematica Yashica al collo, piazzati a sfoderare un unico abbacinante sorriso davanti ad una di loro, che li fotografava con alle spalle la facciata della stazione. Quando però, intento com’ero a badare a dove mettevo i piedi in quel saliscendi di marciapiedi e isole pedonali che seguono il serpeggio delle innumerevoli strettoie riservate alle manovre dei bus, avvenne l’irreparabile. La fotografa d’occasione fece un passo indietro per ampliare l’inquadratura, proprio nel momento in cui, con la testa in aria, scendevo un gradino nella stessa direzione e la mia mano penzoloni venne giù a sfiorare, come una delicata ghigliottina, il suo, chiamiamolo tergo. Non l’avessi mai fatto.
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— Mi deve scusare — furono le poche parole che mi venne di sussurrare lì per lì e forse erano le uniche che avrei potuto dire in tali frangenti. Ma gli occhi a mandorla che mi vedevo per la prima volta davanti mi convinsero che forse forse avrei fatto meglio a starmene zitto. Fluttuavano alla deriva su quel fiato mozzo che interdiceva qualsiasi presa di posizione, mentre le dentature del gruppo orientale continuavano ad abbarbagliare la scena come un flash all’inverso, ignare del senso e dei motivi dell’imprevista dilazione. — Ma cosa pensi che stai facendo? — Mi tradussero in buon e educato italiano le ciglia aggrottate, che trasformavano a un tratto quel visino di bambola di cera in una truce maschera del teatro di Muromasci. — Vaglielo a toccare a tua mamma! — mi scaraventarono però in faccia subito dopo, da quel che capii, cancellando definitivamente da quell’espressione di perplessità qualsiasi traccia di buonismo. In compenso, quando l’occhiataccia cominciò a dispiegarsi in un irrefrenabile sproloquio in stretto giapponese, il mio senso di colpa si dileguò all’istante, come se quel torrente verbale, invece di travolgermi verso l’abisso del rimorso, fosse servito appena a sciacquarmi l’anima. Ripresi così rinfrancato il mio cammino verso le cravatte, consapevole dell’innocenza che l’esagerata reazione al mio atto inconsulto, intesa a gravarla dello stigma del boia, confermava invece ineccepibile, come si conviene a quella di un’autentica vittima. Ne trovai due, di cravatte, di fine fattura, che mi impressionarono per la compostezza. Ne ponderai il taglio, la caduta, la tessitura, i riflessi dei tubi
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fluorescenti sui trini di piccole losanghe di filo dorato a sfilettare i toni cangianti del blu scuro dello sfondo. La prima. La seconda, sul bordò, era abbastanza più allegra, con i suoi ovoidi argentati che sfumavano in un degradé di toni sempre più spenti, fino a perdersi nella pur dignitosa indefinizione del colore predominante. Le comprai, senza tuttavia essere riuscito a deviare un solo istante il pensiero dal recente incontro/scontro con la giapponese. Il fiotto adrenalinico infatti faceva roteare ancora, in un vortice incontenibile, la linea dei miei pensieri, quando, allo spingere la gran porta di vetro, mi vidi all’improvviso davanti ad un’immensa macchia blu. Pensai subito che si trattasse di un plotone, ma era invece un unico poliziotto. Piazzato sulla banchina con le mani sui fianchi a sbarrarmi il passaggio, quasi occultava per intero il gruppo degli ossuti giapponesini di poco prima, asserragliati dietro la sua straordinaria mole. In prima fila intravedevo, alla sua destra, la fotografa con ancora quell’insofismabile maschera, tenera e truce insieme. Alla sua sinistra, una sconosciuta che si era aggiunta al gruppo. Non è vero infatti che i giapponesi abbiano tutti la stessa faccia. Lo sapevo da tempo. Abito in una città piena di nissei, e molti sono cari amici miei. Questa rimaneva in punta di piedi, quasi appiccicata al grande orecchio dell’ufficiale, che non era poi tanto alto, a biascicare chissà che cosa di così importante e interminabile, con fare di chi sapeva il fatto suo. — È vero quel che mi sta raccontando questa signora? — Quella signora tacque un istante. Si interrompeva soltanto per ascoltare il poliziotto o la connazionale a destra, che a sua volta sparava sottovoce qualche parola in giapponese di tanto in tanto.
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Mi veniva da ridere, ma mi contenni. La pappagorgia del poliziotto ondulava sul nodo della cravatta di ordinanza con la prevedibile fedeltà di note musicali su di un pentagramma. — Mi scusi, ma che le sta raccontando? Non riesco a sentirla — mi azzardai a dire. La ciarliera alzò appena un po’ la voce, quel tanto che fosse sufficiente per farsi sentire da me. Parlava un italiano quasi monosillabico, ma si faceva capire, e sembrava anzi specializzata nel ricucire belle frasi fatte. Doveva essere l’interprete della comitiva, convocata d’urgenza a seguito di quel grave incidente internazionale. — Lei ha toccato con mano lá dove non batte il sole a una figlia del sol levante — disse in tono monocorde. Mi sbudellavo dentro dalle risa, ma rimasi impassibile fuori. — La signora dice che lei si è permesso di invadere la sua privacy, palpeggiandole il mappamondo —. Accidenti, è decisamente tramontato il tempo in cui sorgevano come i funghi le barzellette sulla formazione letteraria di carabinieri e poliziotti. Dicono che adesso, per passare nei concorsi, ci vogliono almeno due lauree. — L’ho capito, signor maresciallo — risposi con l’unica faccia tosta che mi ritrovavo —. Ma non lo sapevo che le figlie del sol levante avessero cul... — A professò, e che dice pure le parolacci? — Dicevo della cul...tura delle forme corporee — deviai la rotta del ragionamento sulla scorta della linea erudita nel primo momento intrapresa da quel sosia di un Aldo Fabrizi trentenne —.Veda, maresciallo Fabrizio...
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— Sono solo appuntato. Appuntato Aldi — (appunto, pensai, appuntato Aldi Fabrizio. Non avrei certo potuto esigere che il nome fosse esattamente uguale). — Appunto, signor appuntato, non avrei mai supposto che sugli antipodi dell’orbe terraqueo si attribuisse la stessa importanza nostra alle protuberanze dei bassifondi. Il titolo di sosia di Aldo Fabrizi, alias sergente Bottoni di Guardie e ladri, più che al fatto di essere grasso, credo che fosse da ascriverglielo per merito di quella serietà distaccata, quella bonarietà compassata, quel tono comprensivo e paterno che contornava la difesa incondizionata delle regole con un’enorme passione per le immancabili eccezioni. — La natura umana, a dispetto dei meridiani e dei paralleli, è sempre la stessa — filosofò, passando di seguito a considerazioni altrettanto sensate, anche se molto meno idealistiche. — E poi, dobbiamo tenerceli cari questi rampolli delle tigri asiatiche. Che senza i loro ien, fra qualche anno si rimane a bocca asciutta. — Lei dice che non si sarebbe mai aspettata di sentirsi toccare il gluteo massimo proprio nella città eterna, detentrice del Circo Massimo — intervenne a sproposito la interprete. Si vedeva che era proprio una guida turistica. Così, di eufemismo in eufemismo, la diatriba si dipanava su una rete di vincoli logici che avrebbe fatto impallidire qualsiasi gioco di linguaggio del secondo Wittgenstein. — Ma è proprio questo il clou della questione... — Badi a quel che dice — si intromise ancora, ma senza troppa convinzione ormai, l’appuntatone.
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— Ho detto clou, clou... Non è un anagramma. E quanti ghirigori poi: il sedere, il fondoschiena, il di dietro, le natiche, il paniere, i fondelli, tutto per non dover dire quella che è l’unica parola giusta: culo. Ed è proprio questo che è mancato per configurare il reato. Anche se avessi avuto l’intenzione di ledere la turista, che danno le potevo arrecare infatti? Ma se neanche ce l’ha il deretano! Che errore ho fatto? Di cosa dovrei sentirmi colpevole, se non ne ho ricavato nessun vantaggio? Perché dovrei soffrire le conseguenze di un male che non ho fatto? Semplicemente perché non è successo proprio niente. “Sine cul...” — l’ulteriore inarcamento di ciglia del superpoliziotto non fu sufficiente a interrompere la mia travolgente arringa. — “Sine culpa, nulla pœna”, come scrissero gli antichi legislatori romani sulle tavole di bronzo: “Sine damno, nullus error; sine errore, nulla culpa; sine culpa, nulla pœna” — scaraventai lì per lì. E ancor oggi sono rimasto convinto di averla inventata io quella frase. Fu la stoccata finale che riuscì a sciogliere quell’apparentemente indissolubile nodo gordiano. L’orgo-glio patriottico del genuino romano de Roma, a dispetto dello scarso latino imparato alle medie, prevalse su tutti gli innumerevoli altri interessi della grande anima di quel grandioso corpo che, in un agilissimo quanto insospettabile dietro front, emanò il suo inappellabile verdetto, rivolto al piccolo, ma rispettabilissimo pubblico. — A regà, avete sentito? Niente chiappe, niente da fare. Tutti a casa. Sgomberare.
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Il moralista Entrò nella mia stanza come una raffica di vento. Vari fogli dalla scrivania vennero giù a terra svolazzando, con la leggerezza di gazze spaventate. “Stavolta ti dimostro che sei un moralista ipocrita anche tu. Stai sempre a criticare la condotta altrui, ma non sei per nulla meglio di loro. Ho dovuto restituire il finanziamento dell’asilo-nido, perché quell’incompetente di Enrico non há saputo mandare in tempo la tangente ai tali del Rio, che controllano le fonti. E tu mi vieni a dire adesso che é immorale investire in borsa i soldi destinati agli asili-nido? Come credi che mi barcameno a moltiplicare i posti di lavoro con cui tanti padri di famiglia riescono a sfamare i loro figli? Enrico è già sul lastrico. Perché è una schiappa e perché voglio che tu crepi, insieme a tutte le puttane di lusso che lui t’arrangiava e che ormai sono finite. Punto e basta. Dovrai strisciare ai piedi delle mignotte del Giardino Paulista, quando vorrai soddisfare le tue voglie immonde. E c’è di più. Telefonerò a quello sciocco del tuo deputato e gli racconterò come stai cercando di montare la tua immagine di persona onesta a sue spese. Mentre tu ti gonfi il petto e vai creando dicerie su di lui,
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come che s’è messo in tasca il venti per cento della costruzione del ponte, chi deve sopportarlo a letto sono io, se no, come faccio a continuare a ripassarti il cinque per cento? Sono stufa... Quando la Portoghese ebbe finito, chi era rimasto senza fiato ero io. Me ne rimase però abbastanza per poter espirare: - È vero. Ma non sono neanche arrossito.
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La professoressa Nat era il fortunato possessore di quella formidabile Ford Corcel 1973 rosso fuoco. Ma non sapeva ancora guidare. O non poteva, perché non si era ancora presa la patente. Guadagnava abbastanza, ma farsi ogni giorno quegli immensi tragitti in taxi per vendere pacchetti turistici a centinaia di paulistani gli pesava non poco. Perciò aveva comprato la macchina e stava facendo la scuola guida. Io, appena arrivato a San Paolo, ultimo epigono dell’aretino Pietro, ero invece un autista provetto. Così l’affare fu presto fatto. Sarei stato il suo motorista e lo avrei portato avanti e indietro lungo la ragnatela di strade della megalopoli. In compenso lui mi garantiva un tetto ed un materassino da stendere ogni sera a terra, nella minuscola entratina del microappartamento di via Pindamonhangaba. Fran era l’altro compagno d’abitazione ed in realtà ero andato a finirci anch’io proprio perché era lui l’amico siciliano che conoscevo da anni ed a cui mi ero rivolto per tentare la vita all’estero. Ma Fran lavorava per conto suo il giorno intero e veniva soltanto la sera per dormire.
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Inoltre aveva la fidanzata, con cui passava i fine settimana e quindi la maggior parte del tempo eravamo solo in due. Nat ed io. Il primo giorno a San Paolo lo avevo passato a sbrigare le pratiche per farmi autorizzare la patente italiana, così avrei potuto circolare da turista, senza il pericolo di beccarmi una multa. Il giorno dopo ero pronto per far visita al primo cliente della mia nuova carriera. Era un italiano che da anni non si faceva vedere dai suoi e sicuramente gli avrebbe fatto gola il pacchetto turistico a prezzi stracciati che Nat vendeva. L’ufficio era in un palazzo vicino e non sarebbe valsa la pena di far ritirare la bella Corcel dal garage sotto il ristorante dirimpetto, per andarlo a parcheggiare qualche centinaio di metri più in là. Così ci andammo a piedi e ci accomodammo in sala d’attesa. Ero in maniche di camicia e portavo in mano il portafogli con soldi, passaporto, tessera di identità, patente italiana, licenza brasiliana, tutto quello che avevo di mio. Nat aveva incominciato a tener bordone alla già loquace segretaria, dando la stura alla chiacchiera di cui il cielo lo aveva ammannito e che fece apparire brevissimo il tempo lunghissimo di attesa. Ad un tratto lei si interruppe per invitarci ad entrare nell’ufficio del capo ed io balzai su all’istante dal soffice divano, su cui vagavo sull’onda dei miei pensieri, per precipitarmi dietro Nat, già scattato come un segugio verso la sicura preda. Il compatriota ci accolse con blanda cortesia e subito incominciò a lamentarsi dei suoi fratelli, lassù in Italia, con cui aveva praticamente rotto i ponti e adesso che i genitori erano morti, non trovava più la spinta per
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andarci a passare le vacanze. I ragionamenti e le argomentazioni di Nat poco valsero a dirigere l’affare verso l’ambito traguardo e persino la sua fiumana verbale finì per prosciugarsi in tiepidi convenevoli. Arrivati a mezza scala, un lampo sinistro mi attraversò la mente: — Acidenti, ho dimenticato il portafoglio sul divano. Volammo di ritorno alla saletta d’attesa. Niente. Tutto quel che avevo era scomparso sotto gli occhi dell’ignara segretaria, del cliente attonito e dei miserabili quadri appesi alle pareti circostanti. Benvenuto a San Paolo. Così il resto della mattinata trascorse dietro le pratiche per recuperare le fotocopie, per fortuna esatte dalla motorizzazione civile, denunciare alla polizia la scomparsa degli originali, per poter finalmente risalire all’emissione di nuovi documenti. Fu così che dovetti arrangiarmi con quel che avevo a portata di mano. Fran aveva un piccolo laboratorio fotografico installato nel cucinotto, con cui si dilettava a sviluppare rullini e foto in bianco e nero. Anch’io avevo imparato l’arte-hobby e mi disposi subito all’insolito fai-da-te. Presi quindi d’assalto l’armadio di Fran, come sempre assente, sicuro che lui non si sarebbe offeso minimamente se avesse saputo che avevo usato qualcuno dei suoi indumenti. Di spalle alla bianca parete del corridoietto, mi piazzai davanti alla macchina fotografica con l’autoscatto innescato e... ciac. Poco tempo dopo mi ammiravo sulle nitide foto-tessera appena sfornate nell’estemporanea cucina-camera-oscura. Quel giorno stesso le avrei consegnate al Consolato Generale di via
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Hygienópolis, per avviare il rinnovamento del passaporto. Dalla foto mi guardava, serio e impettito, un giovane capellone occhialuto, insaccato in una vistosissima giacca a scacchi ed una cravatta di fine fattura. Nessuno mai avrebbe potuto immaginare che quel bellimbusto imbambolato potesse essere stato ritratto in mutande.
Quella sera però non eravamo diretti a casa di nessun cliente. Nat aveva un’amica professoressa di Infermieristica da poco ritornata da una crociera ad Ushuaia e che ci invitava ad una cenetta nel suo appartamentino in centro. Tanto per ritrovarsi e regalarci il tradizionale souvenir del pinguino-portachiavi. Era single, reduce però da una tempestosa separazione dal marito, italiano come noi, accanito giocatore di poker, dal cui vizio era riuscita a strappare appena quell’appartamento e niente più. Ad Ushuaia ci era andata a passare il veglione di capodanno insieme ad una sua collega zitella. Imbarcatesi nel porto di Santos, avevano fatto una settimana di bella vita sull’Enrico C, con scala in vari punti della costa brasiliana e argentina, fino ad approdare nel gelido porto della Patagonia cilena. Puntualissimi, sulla Corcel di brace, io ormai con uno dei due attillatissimi vestiti — quello violetta a righe — acquistati nella svendita dei Magazzini Mappin, il cancello del garage ci si spalancò immediatamente ed il portiere ci invitò a salire. Davvero eravamo attesi. Adesso eravamo lì a salutare le due gentilissime ospiti sulla porta di casa, con un buon vino italiano in mano. Ma, sorpresa, non erano sole.
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— Vieni Flordelìs, i nostri amici sono arrivati —, chiamarono in coro le due gongolanti professoresse di Infermieristica. Che sventola, ragazzi. Il tetto mi cadde giù in un nugolo di imponderabile polvere, una valanga di calcinacci invisibili, uno strepito di sonagli primordiali, esploso ad un tratto nei meandri delle mie attonite cervella. Dietro quegli accoglienti sorrisi familiari, sorgeva ignoto un sole bruno. Veniva in pace, in un alone molle dondolante, trascinandosi dietro un turbine di silenzio. Un fiordaliso turgido di occhi neri, di bocca rossa composta e quieta, di pelle chiara e morbida, incessantemente addetta a dirimere tenui turbamenti. — Anche lei è professoressa di Infermieristica? — Nat, francamente, non era per nulla interessato alla bionda padrona di casa e neanche si era accorto della segreta attrazione che la belloccia attempatella da tempo nutriva per lui. In realtà non gli interessavano le femmine. Ma neanche i maschi, a ben del vero. Anzi, credo che in materia di sesso fosse di una innocenza impubere. Donne, zero. Sesso, zero. Era appena uscito dal seminario per ragioni tutte sue, ma preservava un rigore tridentino che non gli avrebbe permesso neanche per sogno un qualsiasi approccio premaritale con chicchessia. E gli andava bene così. D’altro canto, allegro, affidabile e convincente com’era, conquistava con la massima facilità clienti e colleghi con la sua simpatia e generosità. Io invece ero perpetuamente in balia dei fatti, dei sentimenti e degli incontri. Per questo il nuovo lavoro mi
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calzava come un guanto. Situazioni sempre nuove e una carrellata giornaliera di paesaggi, di gente e di avvenimenti, mi scarrozzavano tra mille dubbi sistematici e certezze contingenti, tra piani irrealizzabili ma ossessivamente perseguiti e facili offerte improvvise dell’imprevedibile quotidiano. — Sì, inizio di carriera, capisci? — La bionda Marilù era già ai fornelli per mettere a punto le pietanze e stava a cicalare con Nat, con tante storie da raccontare, mentre la compagna, Maria de Fatima, aveva provveduto a rompere l’incantesimo con un disco di boleros. Così rimasi solo, là, impalato, intento ad assorbire gli effetti della botta, con quella folgore ad abbacinarmi gli occhi, paralizzato, più che impacciato, senza sapere che contegno darmi né almeno dove posare quel mio sguardo da ebete. — Che dici, balliamo? — Prese l’iniziativa Flordelís. — E balliamo. (E adesso, che faccio? Dove metto le mani? Come me la sbrigo a guidare questa divinità vibratile, con le mie braccia ad un tratto lignee, con le gambe petree, con il cardiopalmo in controcanto al mellifluo bolero?). Furono le esili braccia della silfide tropicale a dirigere con estremo garbo le mie mani verso l’improbabile approdo a tremuli promontori ed accoglienti baie. — Ti piace la musica? — Sì. — Quale? — Tutta. — Il rock? — Da matti. — La classica?
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— Pure. — Chi? — Chopin, naturalmente, Mozart, Bach, Haydn, Ponchielli... — Ponchielli?! — Sì, Ponchielli, Vivaldi, grandi sinfonie, e Mascagni, Rossini, Donizetti, Puccini, grandi opere... Persino Palestrina. Le sue polifonie mi incantano. — Ah... Ad ogni risposta mia, la fragile fanciulla pareva farsi sempre più robusta, sin perder la ternura9. Le mie braccia ormai rilassate stentavano invece a tenere a bada la progressiva esaltazione che la invadeva e la ingigantiva. — E dei brasiliani, conosci qualcosa? — Certo, Chico Buarque, Caetano Veloso, Vinícius de Moraes, Toquinho... — Vinícius de Moraes? — Sì, “uma mulher tem que ter qualquer coisa além da beleza, qualquer coisa de triste, qualquer coisa que chora, qualquer coisa que sente saudade...” 10 — La conosco, è di Vinícius? — Sì, il samba della benedizione. Quello è un gran poeta, oltre ad essere un gran compositore. E, dalla musica, ad abbordare la letteratura, io pavoneggiandomi con le mie misere conoscenze di quella brasiliana e lei sorprendendosi con la propria immensa 9
Senza perdere la tenerezza (parte della frase attribuita a Che Guevara). 10 Uma donna deve avere qualcosa oltre la bellezza, qualcosa di triste, qualcosa che piange, qualcosa che sente nostalgia... (Dal samba “Canto della benedizione” di Vinícius de Moraes).
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ignoranza di quella mondiale. Pirandello a farla da cavallo di battaglia (Mai sentito!), ma, Shakespeare almeno (Naturalmente!), i suoi sonetti, le tragedie, le commedie (Boh?!), Alexandre Dumas (Anche lui inglese?), Gabriel Garcia Marques (Ah, questo sì, Cem anos de solidão!)... E poi tutta la storia della filosofia. Persino i presocratici vennero letteralmente in ballo. Ma di Socrate, Aristotele, Platone ne aveva almeno sentito parlare. Il flatus vocis di Roger Bacon, invece (Cosa?!), e la restauratio ab imis fundamentis dell’altro Bacon, sir Francis (Chi?!), finirono per ammutolirla del tutto, lungo il resto dell’esecuzione musicale. E venne ancora il susseguirsi delle mie entusiastiche relazioni sugli Eroici Furori di Giordano Bruno e sulle sfortunate intuizioni monisticopanteistiche di Spinosa, con l’irrinunciabile riferimento ad altri straordinari genii sconfitti, Abelardo con il gusto per la medievale diatriba immortalata nel suo Sic et non, il suo tragico amore per Eloisa reso impossibile dalla doppia castrazione, del pensiero e del sesso (un languido Aah...). Certo, gli scolastici, ma di quelli ne avrebbe potuto aver sentito parlare in chiesa (Sicuramente!). Meno, di Duns Scoto, che pure insegnò a tutta la scuola anglosassone, Hobbes, Hume, Locke, la strada verso l’evoluzione empiristica del pensiero occidentale. Ed infine i “contemporanei”. Tanto per cominciare, Kant, padrone della verità inconoscibile, del noumeno incomprensibile, dell’io categorico autodeterminativo (Non mi dire!). Ed i suoi seguaci della destra e della sinistra storica, i giganti Hegel e Marx con le loro schiere di accoliti. Eppoi i positivisti tutti, tra cui Benjamin
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Constant che lei avrebbe dovuto conoscere, perché fu uno dei piú attivi repubblicani e realizzatore dell’utopia di Comte e Durkheim in Brasile (Ah, sì, è chiaro!). E Bergson, l’intuizionista, gli esistenzialisti, Sartre in primo luogo ed il suo L’être et le Néant (Come?) ed il divino Heidegger, sulla scia dialettica delle posizioni Nietzcheane e Shopenhaueriane... Quando arrivai a Wittgenstein, lei era perdutamente mia. Si vedeva da lontano che non ci azzeccava un gran che di tutto quell’excursus, ma il semplice sospetto del mio bagaglio culturale le dava la certezza che io ero tutto ciò che lei avrebbe potuto desiderare in un uomo. Gli occhi dell’infermiera docente intrapresero allora a spogliarmi con delicata sapienza professionale, le sue morbide mani a lenirmi placidamente con il balsamo dell’ammirazione e dell’affidamento. Sul mio squallido presente si stendeva la tenue coperta di un luminoso futuro, come promessa e come pegno, ma concreto e vibrante. Le piaghe, frutto del mio interminabile pellegrinare, mi si risanavano come per un miracolo ed io mi aprivo alla speranza come un Lazzaro senza Cristo. Ad un tratto, però, s’interruppe: — E che lavoro fai? — L’autista di Nat. L’idolo d’oro franò di botto sulle gambe di insospettata terracotta che si sfarinavano nel lieve impatto di un unico istante. Le braccia morbide scivolarono silenziosamente sulle mie, come maniche di un cappotto logoro, fredde ormai e raggrinzite nel brivido devastante dell’improvvisa rivelazione. Rimasi solo nell’angustia del mio vestito attillato, con le mie certezze ormai disperse tra mille dubbi, come su
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di un dondolo abbandonato, spinto ancora soltanto dalla forza d’inerzia del canto mavioso di Gardel. Non ricordo nemmeno se riuscii ad ingoiare le leccornie di Marilù, ma sicuramente non udii una sola parola dei dialoghi intessuti per il resto della notte dalle tre donne, e dei verborragici assolo di Nat. Non rividi mai più la professorina. E sinceramente, dal momento in cui mi insediai nella trionfale Corcel sangue vivo, di ritorno a casa, non riesco a far rientrare il ricordo di lei in nessuno dei miei indefinibili pensamenti sulla vita. La cosa più toccante di quell’incontro, che tuttavia persiste ancora ed esclusivamente in me, è quell’inimitabile disco di boleros.
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Millennium (Questa me la voglio fare) È un concorso senza premi, ma questa volta non mi lascio scappare l’occasione epocale di vincerne uno almeno. E poi si tratta di un acrostico sul nuovo millennio. Per questo lo mando tre giorni prima a scanso di eventuali cavilli di fuso orario. E magari fosse tutto vero... FELICE 2000 a tutti!
Questa é l’ora della grande sfida. Il bisturi del realismo taglia le sensibilità e si unisce all’ascetismo positivista per operare
Una
fermentazione verso l’ideale, fondato su azioni reali. Come gli anestesisti ricorrono a sostanze stupefacenti, gli
Esteti
ricorrono al misticismo cristiano o pagàno, alla teologia moralizzante o agli esoterismi orientali. L’angustia di Kierkegaard
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Si
associa all’ontologia heideggeriana per disputare preferenze con il vitalismo bergsoniano o con il volontarismo di Nietzsche,
Trasformato poi dal nazismo in pretesto per le proprie dementi iniziative o quello di Schopenhauer, ridotto invece a un nihilismo
Autolesionista,
mentre entra di moda la psicologia di James, Freud e Jung. Nella rottura dell’equilibrio borghese, la società
Mistifica la rivoluzione come garanzia dei diritti umani e la Russia vende il positivismo sotto vesti di materialismo storico
E/o dialettico. Cosi’ comincia il secolo che conclude il millennio. Come finisce invece? Un mucchio di coppie fanno a gara per
Lasciare i figli fuori dalla storia di un secolo, anzi, di un millennio che essi hanno collaborato a costruire (e a menomare),
Abdicando all’impegno di riconoscere il proprio mondo, che i letterati descrivono con i colori della rivolta, della paura, della
Vergogna,
dell’humour caustico, dell’ironia e dell’indigna-zione. L’artista della transizione si compiace in pronostici apocalittici
O si ribella contro la spada fiammeggiante del cherubino che gli impedisce di tornare all’Eden. E cio’ vale per tutto il secolo.
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Gli ultimi cinquantanni almeno me li ricordo benissimo. Anche noi siamo stati dei piccoli Prometeo o Lucifero, con
La coscienza che la vita non si caratterizza neanche per la mancanza di senso, perché in genere si fondamenta sul disastro.
Io da parte mia, sono ormai fuori da ogni tipo di lite e non gioco neppure all’Enalotto per non dover correre il rischio di perdere
O di farmi del male. Anche questa storia di voler fare il primo figlio del millennio, mi sembra una sciocchezza più inutile o
Futile ancora di questa gara di scrivere un racconto di venti righe sul duemila. Tanto che con mia moglie abbiamo deciso di
Avere
il figlio a Carnevale. Così posso farmi tranquillamente il turno al Pronto Soccorso, mentre i chirurghi e gli anestesisti
Rimangono
su, nel conto alla rovescia per le cesaree previste a mezzanotte. Cinque... quattro... Si spalanca la porta della
Emergenza...
Ah sei tu?... E’ mia moglie in fase espulsiva... tre... due... Estraggo da me il settimino... Benvenuto figlio!... Campo Grande - MS, Brasile, ore 00:00 del 01.01.2000. (Uffa, ce l’ho fatta!?).
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La terza (ma non ultima) età. (potresti persino desiderarla?) “L’età ci copre come la brina, interminabile ed arido è il tempo, una piuma di sale tocca il tuo viso una gronda ha corroso le mie vesti:...” Invecchiare è brutto, se le rughe del tuo volto si riflettono nello sguardo perplesso di tuo figlio e se l’amore è inaridito da tempo nei serbatoi del quotidiano. Invecchiare è bello, se la pelle flaccida riveste un raccolto di bei ricordi e di progetti, beneficiari di ancora molti lunghi anni, destinati a non confondersi con sogni incompiuti. Pablo Neruda è morto da vecchio, dopo aver disegnato con parole il tracciato oscillante dei sentimenti di un uomo trascinato da un’onda interminabile, ancorché effimera, del tempo e delle circostanze. In fondo ognuno di noi avrebbe il desiderio di percorrere tutta questa lunga strada, nonostante sappia che la nebbia
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degli eventi ci riserva soltanto un saldo di scarse sodisfazioni, una volta realizzati. E meno male che: “Il tempo non fa distinzione tra la mia mano e un volo di arance nelle tue:” Anche se ammetti che: “Ferisce con neve o con zappa la vita: la vita tua che è la mia.” È la pienezza dell’amore che dà volume e consistenza al trascorrere del tempo, peraltro assurdo, e all’appassire delle cellule, peraltro deludente. Infatti: “Ritorneranno le uve alla terra. ancora laggiù il tempo continua ad esistere, ad aspettare, a piovere sulla polvere, Avido di cancellare persino l’assenza.” (Cento sonetti di amore. Sonetto XCI). Il tuo sogno potrebbe essere quello di vivere integralmente la tua vita, fino a morirne. Se ti balenasse almeno una volta nella mente il fatto che i vecchi attorno a te vanno guardati com simpatia e pazienza, e il tuo stesso invecchiamento come un’espressione in più del sentirti vivo.
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L’eretico 1. L’eretico è un eroe errabondo che non erra mai. 2. L’eretico corregge gli errori degli altri, convinto che non sono propriamente errori, ma opinioni personali. E un’opinione vale l’altra. 3. Tutto il problema consiste nel sapere la differenza tra alètheia (verità) e doxa (opinione). 4. La verità è unica ma nessuno al mondo saprà mai qual’è. 5. Di doxa ce ne sono almeno due: quella ortodossa e quella eterodossa. 6. Ma Giordano Bruno ha spiegato che, siccome ognuno pensa di essere ortodosso, è presto fatta: avviene la coincidentia oppositorum e l’unità della doxa si rapporta a quella della verità occulta. 7. La tragedia finisce con gli eroici furori dell’innocuo eroe erratico scambiato per eretico e che arranca in quarta in preda a deliri mistici, va incontro al fuoco dell’idea catartica che gli ortodossi della parte avversaria concretizzano in una pira al centro della piazza. 8. La verità è pace. 9. L’opinione è guerra. 10. Mi sono spiegato? Ma certo: la verità mi appartiene.
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Pensieri e parole Antichi proverbi ..................... 209 Minienigmi ............................ 210 Nanostorie ............................ 220 Cose da sindaci ...................... 221 Aforismi ................................ 222
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Antichi proverbi (appena inventati) 1 Se lavorare con il sudore della propria fronte fosse sempre benefico, non esisterebbero le sopracciglia.
2 Se gli occhi sono le finestre dell’anima, è meglio a volte avere la cataratta.
3 Certo, la moglie di Cesare oltre ad essere onesta deve far vedere che lo è, ma non è detto che debba sentirsi obbligata a tenersi i capelli bianchi, quando invecchia.
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208 In un fiat.
SOLUZIONE: a) Può essersi eccitata al pensiero che qualcuno (se anche non fosse stato capace di amarla) abbia trovato la felicità nel pensare che lei lo amasse; b) può aver accumulato tanta rabbia, che la scoperta la portasse a far pazzie: come castrarlo, ammazzarlo o, peggio, semplicemente ignorarlo; c) l’assenza di amore (solo sospettato da un lato) e di odio (assente ma sentito, dall’altro) difficilmente può portare a raddrizzare vuote convenzioni sentimentali...
SOLUZIONI:
Minienigmi Psicologico
Credeva che lei lo amasse e ne era felice. Lei credeva che lui la odiasse ed era infelice. Quando entrambi scoprirono la verità, lui si sentì tradito. E lei? ...
Industriale
Se Agnelli fosse Dio, come si sarebbe fatto?
Berlusconi 1
Da solo.
SOLUZIONE:
E Berlusconi?
Berlusconi 2
Perché non potrà mai esserlo degli Stati Uniti.
SOLUZIONE:
Perché Berlusconi ci tiene ad essere presidente d’Italia?
Scientifico
L’uovvio di Coulomb.
SOLUZIONE:
Cosa ha scoperto Coulomb?
209
Legge della relatività
Il passato.
SOLUZIONE:
Qual’è l’unico luogo in cui sei assolutamente sicuro di non poter morire più?
Noir
L’avrà uccisa di notte?
RISPOSTA:
La amava. Lei lo tradì. Lui lavorava tutto il giorno. Come potrebbe essere stato lui ad ucciderla?
Giallo (Il falsario)
210
Era una bottiglia di Morandi.
SOLUZIONE:
Aveva messo un messaggio in una bottiglia. Perché lo avranno arrestato?
Scatologia
Il rompiscatole (se rompe solo le scatole agli altri).
SOLUZIONE:
Qual’è il migliore amico della scatola?
Camilleri — Commissario, che gli dico a Mimì Augello che lo vuole urgentemente al telefono? — E non ci dire nente a quel crasticello, Catarella. Anzi, ci dici che sto cacando, Catarella.
— Pronto? Mimì, il commissario dice che in questo momento è mont’al bagno....
SOLUZIONE:
Che dirà mai Catarella a Mimì Augello?
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Ricerca di punta
Sarà forse l’instancabile attività di un temperamatite.?
SOLUZIONE:
Cos’è la ricerca di punta?
Genesi
Sia fatta la Fiat.
SOLUZIONE:
Cosa disse Dio l’ottavo giorno?
Psicoanatomia
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Con l’ingambo?
SOLUZIONE:
Con cosa l’inconscio ha alcun tipo di rapporto?
Ecumenismo
Il progenitore dell’euromenismo?
SOLUZIONE:
Cos’è l’ecumenismo?
Psichiatria
Un cannone?
SOLUZIONE:
Come dovrebbe essere lo psichiatra che vuole curare una casamatta?
213
Bioingegneria 1
Un otorincocerontologo?
SOLUZIONE:
Cosa può venire fuori dall’incrocio di una ornitorinco con un rinoceronte?
Bioingegneria 2
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Caccerebbero bitopi?
SOLUZIONE:
Cosa farebbero i bigatti se fossero dei felini?
Pesca
Avere una biglenza.
SOLUZIONE:
Qual’è il più grande desiderio di un bigamo?
Politica È l’arte dei conciliaboli, nel perenne tentativo di conciliare l’inconciliabile.
SOLUZIONE:
Cos’è la politica?
Amleto
Ho dei seri dubbi.
SOLUZIONE:
Un letto a una piazza e mezza è forse più grande di una piazza con un letto in mezzo?
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Neologia
Passa la spugna su tutto e ricomincia daccapo.
SOLUZIONE:
Il teologo vuol sapere cosa c’era quando non c’era ancora niente. L’archeologo risale a quando le cose cominciarono ad esserci. Il paleontologo studia cose vecchie per risalire a quando erano nuove. E il neologo, che fa?
L’unica zecca utile
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Le altre sono solo più furbe (che si prendono le carezze del tuo cane).
Quella dello stato (e forse è anche la sua unica cosa utile).
SOLUZIONE:
Qual’è l’unica zecca utile?
I papalini
Tutti (eccetto il papa).
SOLUZIONE:
Chi può essere papalino?
Senza risposta: Il rosso Perché il rosso sta sopra?
Il verde Che c’entra il verde con i dollari (soprattutto se sei al verde)?
Il giallo Quando il giallo è una trappola?
Um impiego miserabile È meglio l’impiego di tre miserabili o un miserabile con tre impieghi? ...
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Nanostorie Ménage-à-deux Io ti amo. Tu mi ami. E il nostro amore sarebbe sicuramente eterno se esistessimo solo io e te.
Memoria storica “La fine dell’Unione Sovietica comincerà quando diventerà impossibile imparare a memoria la Nomenklatura”. (Non ricordo l’autore della frase).
Biblico (Tempi d’Internet) — Ave Maria, ti annunzio che sarai madre. — Grazie, lo sapevo già. Ho l’email.
Consuntivo Le cose migliori di tutta la mia vita le ho realizzate nell’assenza più assoluta di buon senso. Anche le peggiori, debbo ammetterlo.
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Cose da sindaci Avvisi da cimitero (uno è mio) 1. Qui giacciono i morti che vivono in questo paese. 2. Proibite pompe funebri con fasti futili di fuochi fatui.
Epitaffi (uno è mio) 1. Qui giace Gaudenzio Cocchieri, volato al cielo per un calcio di mulo. 2. Qui giace Pacifico Partenti, ancora in lista d’attesa.
Esagerazioni (una è mia) 1. Il mio sindaco ha la pancia fuori del comune. 2. Il mio paese allora è più piccolo del tuo. Io sono il sindaco e mia moglie il consiglio comunale.
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Aforismi Morire giovane Da giovani se ne ha un vero terrore. Da vecchi ci si terrebbe proprio a morire giovani.
Triste animale L’uomo è l’unico animale che soffre davvero, perché fin da quando nasce si sente condannato a cercare la felicità.
Tra il dire e il fare È particolarmente difficile comportarsi d’accordo con quello a cui si crede, soprattutto quando non ci si crede più.
Paese che vai Ovunque vadano, gli americani si aspettano che tutti sappiano l’inglese. I parigini si aspettano da chi arriva che sappia perfettamente il francese. Gli italiani invece, sicuri che all’estero nessuno li capisce, preferiscono esprimersi in dialetto. Tanto...
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Il pessimista L’economista è colui che cerca di amministrare la penuria. L’ecologista è colui che cerca di preservare l’abbondanza. Il pessimista considera entrambi dei falliti.
L’ottimista L’unico vanto dell’ottimista è quello di essere l’esatto opposto del pessimista.
Diatriba diabolica Diatriba diabolica può anche essere l’aspro confronto dialettico sul risultato del diabatico e diaforetico gioco con quel rocchetto che si lancia in aria con una cordicella tesa tra due stecche, e che si cerca di ricevere sulla cordicella stessa al suo ricadere.
La finanziaria Finanziaria, nonostante le apparenze, non e’ qualcosa campata in aria, come pure pecuniaria, pecuaria e... culinaria.
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L’autodidatta L’autodidatta dev’essere un buon maestro, altrimenti non imparerà mai niente.
Chi sa di più Nessuno conosce le cose meglio di colui che neanche sa che le conosce benissimo.
L’improbabile Non c’è da aver paura dell’assurdo né dell’impossibile ma dell’improbabile. È infatti imprevedibile ma sempre possibile, anche quando sia indesiderabile.
La volpe e l’uva L’umiltà può essere un’invenzione del vanitoso sconfitto o l’arma segreta del vittorioso. O infine l’aria di indifferenza di chi se ne sta poi fregando di tutto.
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L’amore, la gloria e il disastro L’amore é una strada a senso unico. Se l’altro viene incontro è la gloria. (O il disastro).
La uxoricida La uxoricida è la consorte con la peggiore sorte del mondo. Impossibile da coniugare anche se è (o era) coniugata, è obbligata ad andare contro il senso comune, uccidendo il marito invece della moglie: altrimenti sarebbe “suicida”.
Da piromane a pompiere La vita è un continuum tra la sedizione e la sedazione.
La suocera La suocera non è una nemica (ma non necessariamente un’amica).
I figli Figli? Ah... i figli! ...
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La durata dell’amore Tanto più duraturo sarà il nostro amore, quanto più tardi cominceremo a rinfacciarci i nostri errori.
L’arrivista L’arrivista non arriva mai a nessun posto (altrimenti già sarebbe un “arrivato”). E fa di tutto per non farci arrivare nessuno. ...
L’affarista L’affarista fa sempre dei brutti affari. Altrimenti sarebbe un “negoziatore”.
La donna intelligente Una donna rimane intelligente anche di mattina appena sveglia. Senza trucco. (Lo stesso dicasi dell’uomo, soprattutto se non usa il trucco).
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Lapalisse 1 Ogni qualvolta si fa l’amore per la prima volta, é sempre la prima volta.
Lapalisse 2 Il miglior mezzo di trasporto, quando non sai dove vuoi andare, è um vagone fermo.
Lapalisse 3 La perfezione è una cosa meravigliosa. Peccato che non esista.
Lapalisse 4 Uno spettacolo teatrale non è necessariamente um teatro spettacolare ma neppure inesorabilmente un teatrucolo spettrale.
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