Benito Ciarlo
Novello Inferno E.book di teleCiarlo
Nota dell’autore Ho scritto questi otto canti del Novello Inferno nel Duemila, mentre ero ricoverato nell’Ospedale Civile di Alessandria per un intervento chirurgico e durante la lunga convalescenza che ne seguì. Si tratta, quindi, di un’opera senza alcuna pretesa letteraria, di un puro e semplice passatempo. Tutto sommato è stato divertente, però, appena le condizioni fisiche mi hanno permesso di lasciare il letto e uscire, ho smesso di scrivere, nè mai ho avuto più la tentazione di riprendere questo testo. Mi sono divertito a scriverlo, dicevo, e quindi lo metto qui, sperando che chi per avventura si imbattesse in queste pagine, possa provare, leggendole, quel minimo di allegria che ho provato io a scriverle. Buona lettura Benito Ciarlo
_____________________________ E.book di teleCiarlo
Canto Primo
Compivo, nel Duemila, cinquant’anni E quel traguardo mi sembrava un ponte Tra ‘l filo teso, cui legato ho i panni Di gioventù fuggita, e l’alto monte Di mia vecchiezza prossima, incombente. Desideroso di posar la mente, chinai la fronte. Il sonno i sogni crea seduta stante Sì che il riposo assai difficilmente Soccorre chi l’invoca. Apparve Dante! Sognar di Dante può spronar la mente
A scervellarsi e ricercar consensi Sì che quel sogno resti permanente. Mi scossi dal giaciglio e tutti i sensi All’erta si mostrorno a quella vista Per cui: “Maestro”, dissi “che ne pensi? Perché marciamo sulla stessa pista?” Ei non rispose e la mia brama spensi. Solo per poco. Riprovai d’artista. Il Fiorentin dal prominente naso Guardommi con sussiego e ‘n po’ di stizza, E poi rispose: “Sono qui per caso!” E come il Bergamasco che la pizza La prima volta assaggia e non degusta L’insieme dei sapori e ‘ fuoco attizza Per meglio biscottar la molle pasta, Così deluso mi mostrai allo Mastro, Finchè per la pietà mi disse: “Basta!” Già che son qui ti condurrò nel castro Che mena all’Oltretomba. Sei contento?” ”Certo!” , rispuosi, ed afferrai ‘l vincastro.
Scalammo l’erta e raggiungemmo il monte Ov’il maniero s’erge quasi sfatto E ‘l Fiorentin bussò: “ S’abbassi il ponte!” S’aprì il porton ed i’ scivolai ratto Nell’angusto cortil d’erbacce cinto, seguendo l’Alighier che, di soppiatto, al grande pozzo, fin, s’era sospinto. “Maestro”, il dissi, “ perché ci nascondiamo? “ Ed Elli a me, mostrandosi convinto: “ Conviene che tu ed io ci ricordiamo Che in Ciel non v’è chi vuole questa gita; perciò all’Inferno clandestini andiamo. “ E come il falegname il perno avvita Per render saldo il mobile costrutto Nella mia mente provocò ferita Di Dante il dir, e mi sentii distrutto. “ Come farem, o di Fiorenza figlio, A continuar lo giro in luogo brutto Sanza ch’in Ciel alcun con fier cipiglio Ai demoni comandi di lasciarci Per l’aere bruno e su infernal naviglio
Liberi di vagar fin a trovarci Ove Papè Satàn risiede e regna?” Ed Elli a me: “ Ebben, basta provarci! Rispetta senza tema la consegna: V’è un solo mezzo per andar là sotto Ch’il demone portier giammai disdegna. I’ sto parlando non com’uomo dotto Ma come chi vuol ire veramente, Non ti maravigliar s’il mezzo addotto Si chiama com’in terra la “tangente”. Perciò guàrdati in tasca e dimmi quanto Disposto a pagar sei per il frangente! “ I’ sbalordii: “l’Inferno è giunto a tanto? L’italica prebenda è qui attecchita?” “Via, poche ciance e dimmi dunque quanto! “ Guardaime in tasca e persi la partita. “Maestro“ lacrimai, “ Siccome parli Di soldi o d’oro penso sia finita. “ “Tu stai sognando o no? Sogna d’averli! “ Disse l’Autore de La Vita Nova. E a lui risposi “ Se basta sognarli
Peggio di chioccia che pulcini cova Ne faccio uscire tanti da comprare L’inferno intero e di Selèn l’alcova! “Selèn? Chi è? “ Si mise a domandare Colui che per Selèn la Luna ha certa “Meglio di Taide e Cleo “ per mi spiegare… Or cominciammo la discesa incerta Lungo la scala nera entro quel pozzo Che di fanghiglia e grasso era coperta, Tanto che guanti di tessuto rozzo Usammo entrambi per serrar la presa, A corda ci legammo, a nodi a strozzo. Giunti che fummo in fine dell’impresa Noi ci trovammo in un’enorme piazza E l’eco acuta ci colse di sorpresa. Il Sommo Dante che nel fango sguazza Chiama a gran voce il demone che guarda L’entrata di servizio: “ Oh brutta razza Di portiere infernal perché ritarda Ad aprir lo porton che il fuoco serra? Tu vuo’ che la mia ira sia gagliarda?
E come il tuono o ‘l temporale ‘n terra Aprissi lo porton con gran stridore, Lo stesso che percosse Gibilterra Quando l’Oceano ch’era gran signore Del mondo oltre le ultime colonne Al Mare Nostro adduss’acque ed onore. Sortì dall’uscio il demone Caronne Lanose gote ed occhi assai piccini E fianchi poderosi come donne. “A ben guardar mi sembra Poggiolini,” Diss’io alla Guida che mi precedeva. “Non è Caron Dimonio e, d’inquilini Di questa parte io non supponeva, Egli in effetti è nuovo io no ‘l conosco, Però vedrai che tanta voce leva “ Così mi sussurrò quel grande tosco. Li strepiti che fece quel dannato Riempiro l’aere d’eco com’un bosco Ove cento cornacchie danno fiato! Ei c’arringò: “ O coppia scombinata E senz’ appigli! E’ strano il vostro stato:
Varcar desiate questa trist’entrata Eppur non siete fra color che voglio, Mi dite che vuol dir questa sparata? E ‘l Duce a me: “ Dài scuci ‘l portafoglio E tira fuor di tasca un bel miliardo Per far star zitto questo brutt’imbroglio“ Intasca i soldi il sosia di quel bardo E le terga ci mostra onde possiamo Liberi andar in su quel suol bastardo . A questo punto verso giù puntiamo Seguendo un romorio d’acqua che scorre E le rive d’un fiume raggiungiamo. Sulle pareti della mezza torre Che men’in basso di quel pozzo stretto, Un editto infernale ci rincorre Sì ch’a marciare a piedi i’ fui costretto: “Ai fornitor di questo luogo tetro L’uso dell’ascensor resta interdetto!” Rise quel Grande, chiaro com’il vetro, Ed io aspettai che il passo riprendesse, Finché si mosse, e io li tenni retro.
Canto Secondo
A questo punto de lo mio narrare Dovrei invocar le Muse e ‘l Divo Apollo Per farmi sostenere ed aiutare. Ma tosto ci rinuncio e senza fallo Confesso al duca quel che non vo’ fare. Elli s’adira e come francobollo M’appiccica sul muro e poi scompare. Solingo e pien d’affanno ora protesto Perché, padron del sogno, so che fare.
Affermo: “ Ciò che scrivo è sol pretesto Per la mia mente flaccida allenare Avulso egli è d’ogni divin contesto! Perciò, Maestro più non ti crucciare, Vuolsi così colà dove si puote Ciò che si sogna, e più non t’adirare! – E come il sagrestan le corde scuote Per far sonar campane alla mattina I’ m’aggirai per quelle calli vuote Finché della figura fiorentina Trovai le peste lungo lo stradone Ed il raggiunsi ad ora mattutina. Calmai la furia di quel sapientone. Placato ‘l cor ed ammansito il Duce Poss’or tornare a quella narrazione Che s’interruppe un poco avanti luce Per la disgressione sul Parnaso Che tanto urtò colui che mi conduce: Se di Pandora noi rompiamo il vaso Meno veleno all’aria s’appalesa Di quanto ne vedemmo lì per caso.
Dir quanti sono m’è soverchia impresa Ché tanti in su la riva se ne stanno In mesta fila ed in paziente attesa. E come in procession le suore fanno Così su quel sentier che men’al rio Quell’anime dannate in coro vanno Ad invocar mercè dal loro dio. Adorano ‘l danaro, beninteso, E non l’Eterno che lor disse addio! Il fium’è nuovo e sommamente esteso E Dante no ‘l conosce e si rammarca “Fors’è l’Olona? “ Azzardo, non compreso. Ed ecco verso noi venir per barca Un nano remigante pien di zelo Pronto a rifare ancor la nave carca. Il cranio ha tozzo e pien di nero pelo, La bocca grande e chiusa a denti stretti Grandi le mani e adunche. Ond’io con gelo Ravviso in lui la faccia di Chiambretti. Parola mia, l’orribile mastino N’era la copia! E come li capretti
Ignari vanno verso il lor destino Che li fa cibo a Pasqua degli umani, Così li peccatori in quel catino! “Salta! “, mi spronò Dante, “ O rendi vani Tutti gli sforzi che qui ci portorno, Saliam sul legno, affèrrat’a mie mani!” In quella bolgia un po’ provai lo scorno D’esser vicino a fior di mascalzoni, M’appena giunti mi levai di torno. “O tu che sei cocciuto e non perdoni A quest’avida gente lo peccato, Perché da vivo qui tu t’abbandoni? Dove credi d’andar senza ch’il fato Per te decida seguitar la gita? Non puoi passar, se pria non hai pagato!” E Dante a me: “ E che, non l’hai capita Che a ogni tappa appar l’istesso scoglio? Paga, perdinci, facciamola finita!” E tosto misi mano al portafoglio E tanti ne contai, con tanti zeri Che, come vedi, ancor provo cordoglio!
Poscia che fummo giunti all’altra sponda Scendemmo lesti da lo triste legno E l’Alighier che affanna e sudor gronda Di mantenermi calmo mi fè segno: “Questo giron no’ l vidi quando venni, Perciò non ti so dir per quale sdegno Quest’anime a penar son fatte cenni Non conosco la pena né ‘l peccato Ma penso come te che già l’accenni Che lo stridor dei denti è provocato Da quel yuppismo per lo qual son nati: La voglia d’arrivar, ecco ch’è stato! Il Saggio tacque ripensando ai Vati: Scosse Chiambretti da la triste conta E domandò del Limbo e dei suo’ Frati. Il mastino abbaiò con voce tonta: “Più non esiste Limbo in questa landa, Non più all’Inferno chi non seppe sconta!“ E ‘l Fiorentin per l’allegrezza sbanda! “Dopo ‘l soverchio tempo de l’oblio In Paradiso son saliti in banda
Per la misericordia di quel Dio Che perdonò dei Giusti l’ignoranza.” Dante affermò, così compresi anch’io. Simile è pena a comica mattanza Di palloncini, ch’alla mano sfuggiti Si sgonfian tutti dopo oscena danza. E quei dannati che sembrommi arditi Mentre la barca attraversava lenta Or paiono tremanti e rimbambiti: Un diavolaccio dalla voce spenta Tutt’il raduna presso un compressore E con tubo di gomma il lor cul tenta Fino a gonfiarli tanto che il rossore Denunci una pressione così forte Che il compressore arresti il suo motore! Quei volti enormi con le gambe corte Volano in sù, ver l’orrido soffitto Fin quando da ‘n pertugio l’aria sorte; Allora, come l’acqua nel soffritto Strepiti immani e movimenti ratti Zigzàgano cadendo a capofitto!
Uno di questi con li membri sfatti Sbattè per terra giust’a me vicino E cercando una tregua implorò patti: “O tu che vivo e sgonfio sul cammino Di noi malnati muovi svelto ‘l passo, Piàcciati d’ascoltar lo raccontino Di chi borioso un dì trovava spasso Di fronte al mondo timido o fellone Mostrando fiero il suo parlare grasso! Io riconobbi subito ‘l briccone E lo guardai mostrandomi sgarbato, Pensando a quando per televisione Un numero di gente avea insultato. E pur se tregua concedea nel farlo Io gli parlai: “ Eh sì, pallon gonfiato Fosti davvero, ed or ti rode il tarlo Di questo perder l’aria ad ogn’istante E di cadute al suolo! Io sono Ciarlo, Non mi conosci ma conosci Dante: In nome Suo ti chiedo, già che ho fretta, Di dirmi il nome di ciascun birbante.
“Io son Vittorio Sgarbi “ quei balbetta Pensando allo martirio ritardato, “Altri son là in cerchia non ristretta. Vedi quel gran pallon ch’è s’è ancorato Quasi scoppiando su quell’ermo corno? Mai sulla terra fu disarcionato! Egli per quarant’anni fu d’attorno Ad ogni trasmission facendo sbagli… Sì che hai capito! Egli è Mike Buongiorno! Mill’altri là son pronti, senti i ragli? Vedi Costanzo, Fede e Buonaccorti? “ “E’ inutile che al Ciel lo sguardo scagli, Pensando che non sono ancora morti! E’ un sogno, non ricordi? Allor è destro: Non son dei falsi quei ch’abbiamo scorti!” I dubbi miei prevenne il gran Maestro Dicendomi così. Allor trovai l’ardire D’intrar per lo cammin alto e silvestro.
Canto Terzo
“ PER ME SI VA NELL’INFERNO NOVELLO TANTO DIVERSO DA QUELLO DE’ PRIMORDI PER ME SI SCENDE GIU’ DA FARFARELLO; E LASCIA O TU CHE V’ENTRI LI RICORDI CHE LI POETI ESPRESSERO CON RIMA POICHE’ CONVIEN DAVVER CHE TE LI SCORDI CHE IN QUESTO LOCO NULLA E’ COME PRIMA. RIFATTI I PONTI E MESSI GLI ASCENSORI LE MILLE SCALE LUCIDATE A LIMA, ANCORA IN CORSO SONO LI LAVORI: LA DIREZION SI SCUSA CON LA GENTE SE DAI DISAGI ANCOR NON SEMO FORI.”
Quel cartellon ci fulminò la mente. Dante notò ch’al sommo de la porta Del vecchio motto non si vedea niente, E poscia a me come persona accorta: “Vorrei poterti dir che troveremo Ma troppi cambiamenti in questa sporta Mi lascian presagir che falliremo Basando tutto sulla mia esperienza, Perciò che c’è di nuovo scopriremo Movendo assiem la mente. La speranza È che prontezza lesta ci soccorra. Lasciamo al caso di condur la danza! “ Giocano a carte, giocano alla morra Graffiacàn, Draghinazzo e i lor fratelli E benché l’ira come un fiume scorra Un ché d’allegro sprona i capannelli. S’è sparsa voce, infatti, che ben presto Lo porton s’aprirà per quei più felli.
Ecco avanzar ‘l plotone disonesto Di gente in vita adusa alla menzogna Che con li piè calpesta il suolo pesto. Dante s’adira e duro mi rampogna Poiché nel mentre m’ero un po’ distratto Perciò mi dice: “ Meriti la gogna! Adopra li quattrin com’io t’ho detto O nulla tu vedrai dell’Acheronte. “Volsi lo sguardo trist’al suo cospetto, Giacché non v’era traccia di Caronte. Con tanti sold’in man sembravo scemo, Per cui lo Mastro disse: “ Or mi son conte Le novità di questo loco estremo: Prosciugossi Acheronte e lo nocchiero Al chiodo appese il suo vetusto remo. Or qui comanda un demone più fiero Baffuto assai e di ben bassa mente: Di nome fa D’Alema il condottiero E par che non sia uso alla tangente. Ma tu non strepitar, dammi la grana Che faccio un salto e torno immantinente.
Ed io smarrito alla domanda strana Gli chiesi dov’andasse coi quattrini Ed Elli a me: “ Sei peggio d’una rana Che stenta a separarsi dai girini! Vado lassù alle Botteghe Oscure Per ungere le mani ai galoppini: Vedrai che appariranno meno dure Le beghe che quaggiù ci hanno condotto. “E sì dicendo abbandonò le cure. Nascosto dietro a un tratto d’oleodotto Che mena nafta alla caldaia centrale Restai in attesa del salvacondotto. E, mentre che aspettavo io vidi un tale Attaccar briga senz’anima che trema: “O tu! Vile fattore d’ogni male! “Ei disse rivolgendosi al D’Alema, “Ero nel giusto quando t’accusavo D’esser di Satàn la razio estrema! – “Certo! “ rispose il demone, “ Ma bravo! L’avevi indovinata… Ebben, che importa? Or siamo qui, io demone e tu schiavo
De’ tuoi stessi peccati. E quella porta Per te or s’aprirà! Vedrai che spasso, con gli altri peccator mangiar la torta de la legge crudel del contrappasso!” Allor capii che quelle allocuzioni, Ch’avrebbero ad ogn’ uom l’animo scasso, Eran rivolte a Silvio Berlusconi. Il volto di costui tutto tremante Vid’io inoltrarsi in mezzo alli demòni Che a suon di calci in cul seduta stante Lo spinsero ben oltre quell’androne. In quel frangente fè ritorno Dante. “Possiamo entrar, compiuta ho la missione: Ho qui i biglietti di seconda classe autenticati dal signor Veltrone!” Nessun verrebbe qui se immaginasse Qual sia la pena per gente come quella Tanto è crudele e che, se non bastasse È accompagnata da una ciaramella Ch’a furia di sonar l’anima increspa, E il cuor ti buca come una ciambella:
Oltre il portone assiso è Bruno Vespa Che appena vide l’uom di Melegnano Con voce triturante come raspa Lo fè salir s’un palco e con la mano Cacciollo in terra e lì lasciollo afflitto. “ Mi conshenta… “ principia in modo strano Colui che pur la Standa diè in affitto. E Vespa, quel dimonio pustoloso, La forfora si scrolla e grida: “ Zitto! Tu non potrai parlar, pur se bavoso Dovessi il Ciel pregar per poter farlo. Troppo hai parlato, maledetto coso!” “ Son sempre stato onesto! “ “ E basta dirlo? “ interloquì un diavolo accattone Ch’aveva vomitato al sol sentirlo. Silvio gridò: “ Esigo parità di condizione!” Ah! Vendetta del Ciel quanto sei pronta! Chiede la ‘par condicio’ l’imbroglione! E mentre del silenzio il duolo sconta Vien seppellito sotto l’immondezza Da due becchini di ben nota impronta:
Essi somigliano con grande chiarezza L’uno a Pannella e l’altro a Umberto Bossi. Solo la testa resta a prender brezza Del peccator che fece guerra ai rossi. Vespa gli ha tolto il ben della parola E senza suoni i labbri invan son scossi. Da quella bocca aperta e quella sola Sortì la propaganda in pompa magna Ed or gli spot gli son cacciati in gola. Finito questo, un altro s’accompagna Sul palco del supplizio permanente E Dante a me: “ Ma non viveva in Spagna? Quella non è la donna che la gente Col fatto di Carramba sempre imbroglia?” La finta bionda dalle tette spente Fu tosto accesa di fiamma vermiglia La qual mi vinse ciascun sentimento E caddi come l’uom che sonno piglia.
Canto Quarto
Fui desto, infin, ma quando voltai M’accorsi d’esser solo un’altra volta. “O Dante”!”, dissi, “Cosa ancor sbagliai? Possibil che la mente abbia sì stolta?” Nessuno mi rispose e la paura, D’aver sventura e solitudo molta, Fecemi lagrimar nella radura. In quella, la sua voce alfin mi scosse: “Questo t’accade ché hai cervice dura!...
“Il dire fu interrotto dalla tosse Ma poi riprese sempre più indignato “A te di profanar, la mente mosse, L’Inferno mio, perciò sono arrabbiato. Lo stai facendo in modo che rattrista Chiunque l’abbia appena un po’ sbirciato! “Allor capii che in quella landa trista, Di molto scura, senza il colto Faro, Sarei rimasto, se lo sommo artista M’avesse abbandonato. “Un madonnaro! Ecco che sono! Un artigian del gesso Che sul selciato pinge ciò che fàro Li veri artisti. Ma dimmi, quanto spesso Il falso al ver rinnova l’interesse? Ti prego e pensa e restami d’appresso! “Mi s’appressò ridendo, e, come tesse Il ragno il suo tappeto, il Fiorentino M’avviluppo’ nelle sue frasi spesse: “Tu”, disse “ Non rispetti il calepino! Ti muovi com’un grullo o come un bimbo Ch’al corso del narrar non da’ destino!
Ora mi spiego: ragioniam del Limbo. Perché tu ne parlasti nel secondo Sapendo che nel quarto, e non di sghembo, Dovevi farlo? Davver non è profondo Il tuo voler rifar quel ch’i’ ho già fatto, Dammi ragioni o resti quaggiù in fondo!” “Se la mettiam così “, gli urlai di scatto “Mi sveglio e smetto di sfornar terzine, Giacchè nessun appare soddisfatto! “E come il Leoncavallo che alla fine Rompe gl’indugi e contro l’Alto lotta E brucia gomme e spacca le vetrine, Così trattai quella patata scotta: Agli altri, che le pene e il personaggio Trovano sciapi, dico: “ Tener la giusta rotta Non è soltanto un test del mio coraggio, Svolgono un ruolo molto rilevante Lo spazio, il tempo ed il restare saggio; E cito a testimonio ancora Dante: Anch’Egli nell’Inferno che scimmiotto D’ogni dannato tratteggiò, graffiante,
Un sol peccato. Sì quello col botto! Maggior dettagli lascio ai vignettisti, Che tutti i giorni schizzano al di sotto D’arcinote testate, ai giornalisti Stigmatizzar l’azione quotidiana. Io deggio, invece, dir de li più tristi. “E’ giusto”, disse quella buona lana Di fiorentin che prima s’era offeso, “E poi che vale di cercar la tana Del topo che la trappol’ha già preso? “D’accordo allor? Orsù datemi campo Ed agli errori miei non date peso: Vedrete che nel volgere d’un lampo Tutti i peccati e tutti i mascalzoni Da quest’inferno non avranno scampo! Per la miseria quante disgressioni! Or mi conviene dir di questo posto Ch’è senza tracce di turpi demòni E di dannati che se n’ vann’arrosto. Disorientato chiedo al mio Maestro. Ed Elli a me, mostrandosi composto:
“Vedi? non è cambiato il rio canestro, C’è calma qui, siccome c’era allora E non si scorge pena oppur capestro. Il Limbo mi ricorda e, com’allora Oscura è l’aria, fonda e nebulosa. S’è vero quel ch’udimmo là di fora Stento a spigarmi bene questa cosa.” Sentii vicino a me, tutto ad un tratto Altra presenza di persona estrosa Per cui mi volsi a lei di molto ratto, E nella nebbia che tutt’avvolgeva, Ne vidi l’ombra e ne conobbi il tratto. E nella nebbia quella già correva, Quando Dante mi disse: “ Ebbene, ascolta: In questo sito, che un tempo radunava Uomini grandi e giusti e gente colta Nata precocemente, avanti Cristo, Or stan color che l’anima hanno stolta, Color che pur il Vero avendo visto Non han capito, o che, coscientemente Hanno voluto far a men del basto.
La pena li fa ciechi e nella mente Un’idea dominante li costringe A correr sempre più velocemente Sicché, sbattendo fra di lor, chi spinge Con maggior forza può restare eretto Ma cade a terra, invece, chi respinge. Tu puoi veder, però, che quant’ho detto Adduce pena pure al più violento Che tosto inciampa e al suol cade costretto! “Vidi Romiti correr come il vento Ed inciampare infin su quella buccia Dal volto triste e dallo sguardo spento A tutti nota come Enrico Cuccia. E vidi con dolor che dir non so Un gran Poeta far come bertuccia Strepiti grandi quando Dario Fo Correndo l’investì con grande spinta: “Quel maledetto il Nobel mi fregò!” Gridò piangendo. E Fo, con quella grinta Ch’è propria del giullare replicò: “Suvvia, Poeta dalla faccia stinta!
Anch’io son qui dannato anzicchennò Per la stessa ragione. Da quel giorno La foto tua mi tenni sul comò Declamando i tuoi versi con lo scorno Di chi voleva l’Oscar per davvero Ed ebbe il Nobel a guisa di un bel corno!” “Poeti questi? “ Domandò l’Austero Conoscitor del metro e de la rima, “Poeti “ dissi, “ pur se non par vero! “ Dante sbuffò e se ne venne in cima A picciol promontorio per mirare Con me le pene che descrisse prima. Per tanto strazio io non sapea che fare Perciò, secondo l’uso di chi trema Feci due conti per non più affannare E alla mia coscienza senza tema Imposi di dormire giusto il tempo D’attraversar quell’orrida pustema.
Canto Quinto
Allor io giunsi nel cerchio secondo Utilizzando un piano elevatore Del quale fu dotato questo mondo; Dante non era aduso all’ascensore Perciò con me discese nel budello Maledicendo macchina e inventore. Scendemmo, dunque, a’ pie’ di quell’ostello Ove lo Duca mio molto si scosse Quando vi giunse viaggiator novello:
“Attento amico mio stavvi Minosse In questo luogo di miserie pregno Che con la coda, come niente fosse Decide qual sia pena per l’indegno! Dante nel dirmi ciò parv’affannato Pervaso di paura e pien di sdegno. “Maestro, non temer, tutto è cambiato, Un nuovo mostro, un giudice moderno Stavvi or per certo a giudicar, togato.”, Diss’io pensando che’il Novell’Inferno Avesse novità fin qui mostrato. In scranno, infatti, assiso e pien di scherno Sta Carneval, che Satana ha mandato A far le veci di Minosse stanco Fidando di sue gesta nel passato. Anime stanno, e molte, avant’al banco Ed egli col martel più volte batte Per indicar lo pian all’uomo in bianco Che le trascina all’ascensor disfatte. “O tu che vieni al doloroso ospizio”, Quando mi vide Carneval mi disse,
“Mi potresti spiegar per quale sfizio Ti sei messo a viaggiar con il tuo Faro In mezzo a tanto duol? Dammi un indizio!“ Io non risposi ma mostrai ‘l danaro. Egli guardollo e soppesò ‘l contante Facendolo sparir siccome un baro. “Evvài! Così si fa!”, sussurrò Dante Cingendomi le spalle con le braccia In guisa di pastor che stancamente Liber’il ciuco d’una gran bisaccia: “Liberi siamo ormai di proseguire Perciò dal volto quell’angoscia scaccia!” Allor mi parve proprio di sentire Dolenti note giungere e lamenti Sì numerosi, come, all’imbrunire I moscerini a svolazzare intenti. Ed ecco grande torma di dannati Venir verso di noi fra pianti e stenti. Come l’Elvezia in mezzo a tanti Stati E come l’ombelico nella pancia Donne disfatte stan fra quei pirati.
Donna non vidi mai così malconcia Come colei ch’adesso mi parlava Celando sotto un vel la bocca sconcia. Ella mi disse ch’ancora ricordava Quando splendente com’il sole a maggio Su tutti i teleschermi spopolava: Ma di quel sole s’era spento il raggio Appen si seppe che col silicone Il seno rassodo’ e un lungo viaggio Compì per farsi far liposuzione Ond’asportare i cuscinetti e ‘l grasso Che cosce e cul rendevano palloni. E terminò piangendo a tono basso: “Oggi come tu vedi, di posticcio Non ho più nulla e per il contrappasso Io son costretta a questo raccapriccio Di guardarmi allo specchio ogni minuto, Questa la pena mia, questo il pasticcio!” Io per la verità non ho saputo Capir chi fosse mai quella megera E quando vidi un diavolo cornuto
Toglierle il velo e pure la dentiera Rimasi tanto scosso dall’orrore Che dubitai perfin che fosse vera! Ed anche il Mastro mio n’ebbe stupore Giacché di donne sì malcombinate Giammai n’avea vedute, bionde o more. “Chi è costei? “ allor mi chiese il Vate “Non lo so dir”, risposi, “ non son certo, Ma quell’insieme di membra disgraziate Mi fan pensare e non senza sconcerto Che potrebbe trattarsi di quell’Alba Ch’al macellar donossi pel lacerto O di Valeria nient’affatto scialba O, labbra enormi e ‘l resto a profusione, della divina Lilly o di Rosalba.” “Quello che più mi garba o mio campione “ Mi disse Dante sorridendo un poco “È questa tua perfetta imprecisione!” “Ma cosa vuoi che importi in questo gioco Di quella donna di preciso il nome Se tutte le rifatte stan nel fuoco?”
A questo punto, non so dirvi come Una voce maligna ci percosse Tanto che fin le fiamme fece dome: “S’avvertono i turisti che le mosse degli amanti stroncati da Gianciotto Abbiam perduto e s’anche ver non fosse Andate via di qui che avete rotto! “ “Ecco” pensai, al colmo della rabbia, Niente colombi! E adesso chi scimmiotto?” Dante mi fece uscir fuor dalla gabbia Spingendomi veloce verso il basso: I piedi s’affondaron ne la sabbia Ed il mio sforzo di tenere il passo Su quel terren sabbioso fu sì vano Che caddi proprio come cade un sasso.
Canto Sesto
Al tornar della mente ch’andò in tilt Per la rabbia solenne che mi prese Quando megafonìa di Scalfarilt Entrambi ci mandò a quel paese, Nuovi tormenti e nuovi tormentati Mi vedo intorno e ne faccio le spese: Son essi in terzo cerchio confinati Ed in gran parte son spiriti grassi Sicché fra lor, che qui furo mandati
Son io che peso più d’un tritasassi! E mi confonde il diavolo con loro E col forcon mi spinge passi a passi Nel luogo dove un tempo, con decoro, Cerbero il Triplocollo se ne stava Ad abbaiare a li mortacci in coro. Adesso un altro mostro ringhia e scava Con l’unghie la fanghiglia e la rimesta Egli ha tre bocche ed a ciascun la bava. E’ tripartito il collo ed ogni testa Ha un volto strafottente e birbaccione Ed ogni nuca conformata è a cresta. S’un còl Raspelli s’erge pacioccone: Quello la cui rubrica culinaria Ingigantì la gola alla nazione. Il còl di mezzo mostra là, a mezz’aria, Il faccione funesto di Mengacci Ch’oltre ai ragù persino in brodo svaria. Il terzo collo par che mosche scacci Tanto si muove in ogni direzione, Sorregge il volto scaltro e pien di stracci
Di quella Suor Germana ch’a lezione Ebbe i golosi più voraci e ingordi E tanto li tentò ch’ora, in prigione, Col suo latrar li rende tutti sordi. Scorgendomi grassoccio e titubante Fu tutto un latra! Spingi! Pungi e mordi! Perciò furioso mi rivolsi a Dante: -Rifiuta i soldi, non sente ragione! Aiutami a scappare o, sacripante, Il mostro scasserà lo mio groppone!Benigno il Duca estrasse dal mantello Un panino piccante al provolone E lo lanciò creando un gran bordello. Mengacci lo contese a suor Germana E mentre l’addentava, il rio Raspello Glielo cavò di bocca. Impresa vana Ché con sue zanne di forchette a moda Quel pan ricatturò la suora strana. Fu come il cane che cerca la coda Per addentarla e al vano far si stanca: Così già pria che tutt’il corpo esploda
Il mostro stramazzò. La feci franca. Placato questi, con maggior ragione Il demone che pria mi pungea l’anca Fu facile ammansire, e mi costava Ben più di tre miliardi. A cento a cento Quell’animal i soldi miei contava. Dante cercò di Ciacco il colto accento Senza trovarlo, e quindi mi condusse A veder se fra quei tanti che m’invento Alcun ben noto a piangere là fusse. E vidi Wilma che tra gli schiamazzi A tutti quei dannati il pianto indusse. Ma passai oltre per cercar Galeazzi, In terra noto come Bisteccone, E lo trovai nel pien degl’imbarazzi Dei vuoti d’aria nello stomacone. -Ecco, Maestro, il nuovo Pantargruele, Ecco colui che piange con ragione, Che adesso è qui a ricordarsi il miele! Ma qui non c’è nè miel né cioccolato Perciò s’adatta a consumarsi il fiele! -
E proprio in quel momento, inaspettato Di fettuccine ai funghi intenso odore Si sparse ghiotto in tutto il vicinato. Giunse pur anco del caffè l’odore, Di frittomisto-mare e past’al forno, Sicché Giampiero ci rimise il core E fango masticò con grande scorno! Sorrisi divertito a veder tanto Ma il riso nella bocca fè ritorno Allor che il Pier a me se n’ venne accanto Gridando col residuo del vocione: -Che ridi?- domandò seccato alquanto, -Guarda piuttosto quel tuo gran pancione! E addosso rovesciommi il suo rancore Confezionando un tragico sermone Che propinommi come un grande attore: -Oltre il quintale giusto a cinquant’anni arrivano gl’ingordi. I patimenti, l’acuto dolore che qui io provo saran futuri danni anche per te che malaccorto viene e non t’accorgi come gola inganni!-
Udito ciò promisi che le pene Che vidi praticar nel terzo cerchio Avrei scansato, riflettendo bene. Né l’ingordigia, né il mangiar soverchio M’avrebbero più vinto, che ‘l tormento Vedevo su di me come un coperchio. Ma da coperchio a pentola è un momento: La pasta e ceci pronta già scodello E me la pappo con cucchiar d’argento! Galeazzi m’osservò, com’un monello, Rubommi il cibo e senz’alcuna bega Lo ingurgitò con stile garganello. M’apostrofò dicendomi: “Collega, Di questo passo presto mi raggiungi! Smetti di far lo scemo, oppure prega, Sennò per sempre qui ti ricongiungi! Davvero spaventato, a questo punto Di sognar smetto e vo’ a sognar più lungi. Dante raggiunsi e colsi allor lo spunto Per raccontargli la mia gran paura Facendo del colloquio un bel riassunto.
-Okay- mi disse, - Pur quest’avventura Può diventar maestra e se ti ingegni Puoi trasformare in bene ogni jattura. -Magari fosse ver quel che m’insegni! Insomma, a questo vizio pernicioso Davver conviene ch’io non mi consegni, Perciò dovrò osservar molto curioso Quel che succede all’anime neglette Che la gola tradì, quel mal morboso!E come in mezzo al prato le caprette Vidi Sardella masticar trifoglio, Iva Zanicchi mandar giù confetti Composti d’acetone, muffe ed aglio E appresso io vidi il “grande” Pavarotti Far fuor dei rospi disossati al meglio. Io vidi infine il grasso Gerry Scotti Mangiarsi un uovo di Gadano intero E con un rutto stender Jovanotti. Quest’ultimo cantando a cuor sincero Un rap sociale andava proclamando: “Libero tutti in questo buco nero:
Appena tutto ciò che vo cantando I demoni udiranno, son sicuro! Vedrete scapperanno lamentando Ch’è meglio che gli cada addos’un muro!” Appena soli resteremo, gente, Potremo uscir da questo luogo scuro!”. Dante di fronte al pazzo intelligente Mi confidò che mai nemmeno in sogno Simile idea gli sorse nella mente. M’appena udito il rap sentì ‘l bisogno Di ritornar per poco in superfice A ritemprarsi ed io sospesi il sogno.
Canto Settimo
“Ambarabà, Cicì Cocò!”, Nel mio cervello Forte risuonò al chiudersi gli occhi: Linguaggio tristo di quel rio stornello Che cantano i demòn facendo schiocchi Con fruste nere che percuoton tanto Color che pur sapienti visser sciocchi. Dante mi domandò: “ Lo senti il pianto Di Francesco Cossiga e di Spaventa? Guarda che piaghe sotto il loro manto!”
Io rimirai quei due che frusta addenta Ed in un certo senso mi commosssi Però pensando con la mente attenta Capii ch’era giustizia; allor mi mossi Nell’interiora del quarto girone. Altri ne vidi dalla frusta scossi: Casini, Buttiglione e quel Leone Che “ Antelope” per via degli apparecchi Volle nomarsi. E vidi pur quell’orrido beone Che per far soldi li rubò a’ più vecchi. Vidi Martelli, Signorile e Amato Scansar la frusta utilizzando specchi Giacchè pur all’inferno hanno trovato Il modo di fregar chi li punisce, Con espediente molto complicato. Infatti come quei che non capisce Il frustator colpiva sopra e sotto Le immagini riflesse. E si stupisce Di tanta intraprendenza il Sommo Dotto: “Meglio de li pisani del Trecento sanno ingegnarsi a non pagar lo scotto!”
In quell’istante, come nel momento Ch’il sol nascendo ci sottrae la notte, Nuovo dimonio, e men divertimento, S’avanza minaccioso e mena botte Ai peccator colpendoli di dietro. Rompe gli specchi a calci e tutti sfotte Gridando lor: “ Son meglio di Di Pietro! “ Ed in effetti, con la stessa grinta A calci manda in pezzi anime e vetro. Nessun tra loro resse a quella spinta Sicchè pei colpi caddero a decina Gli uni sugli altri con la mente vinta. E ‘l diavolaccio pronto, alla fascina D’anime scaltre affastellate in basso, Accese un fuoco d’alcole e benzina. Quel fumo fece alzar perfino il tasso Di nebbia in val Padana, ed a Valenza Fu visto un un cacciator perdere il passo E un pescatore non lanciar la lenza. Intanto oltre la pira ormai combusta Scappava il dittatore di Cosenza:
“Fermati o capo della filibusta ch’alla mia Terra hai dato tanti guai! Abbi il coraggio di pensare giusta La pena che ti meriti!”, gli urlai. Ed elli a me: “ Che gridi scimunito? ‘A pena è chista, nun mi fiermu mai! “ Al pensier che così fosse punito Colui che stolto saccheggiò sul Crati Restai di sasso e molto risentito. Dante guardollo nei suoi occhi ingrati E pien di repulsione ora esordisce: “I corridori, qui, son quei dannati costretti a far la spola come bisce tra i cerchi quarto e quinto dell’inferno e nel calarsi giù son fatti a strisce!” Capii vedendo i segni sullo sterno Che i destri ed i mancini eran serviti Di pane e companatico in eterno. Colui che sempre all’ombra dei partiti Tagliò a fettine i sogni del tamarro Oggi è ridotto a carne per bolliti!
Quando un picciotto che commette sgarro Offende del padrino il sacro onore, Viene disciolto, trasformato in farro E dato in pasto al gregge: stess’orrore È quello di veder quel corpo in corsa Smembrarsi sulle lame. Ed è terrore Veder quei brani tosto in una morsa Riunirsi e ricomporre la figura E all’infinito rinnovar la farsa. Tanti ne vidi e non provai paura Né provai pena ché dai lor sembianti Di loro colpe seppi la natura: V’erano quasi tutti i lestofanti Che per fuggir la pena comminata Si dissero pentiti e che, più avanti, Liberi come l’aria, e guadagnata D’onesti cittadini la patente, Vissero ancora vita sciagurata. Con impeto seguivan la corrente Alcuni magistrati maneggioni Che dei pentiti furono la mente.
Quando lasciammo lo quarto girone E c’inoltrammo verso il quinto cerchio Alla mia guida chiesi la ragione Del puzzo atroce e del rumor soverchio. “Provo a spiegarti lo fetor e ‘l suono”, Rispose corrucciato il grande vecchio, “Quel ch’ascoltiamo è certamente un tuono Mentre l’odor che impera qui molesto È di pece che ribolle nel frastuono.” Ma si sbagliava, lo scoprimmo presto: Il fragore era il pianto dei dannati Sottoposti al castigo degli arresti. Da dèmoni inquirenti eran fermati I quali senza tanti complimenti Li mostravan al vulgo ammanettati, Tremanti e, per la fifa, incontinenti (Quest’è del puzzo la ragion spiegata). Dopo lo show cadevano piangenti Nel mare d’escrementi a far frittata. Esattamente come accadde ai tanti Da loro presi sulla terra ingrata
Quando, per far notizia e averne vanti, Prima di far la debita irruzione In casa dei presunti lestofanti, Davan l’allarm e alla televisione In modo da riprendere in diretta Quelli arrestati a torto od a ragione. Dante mi scosse ed incitommi in fretta A passar oltre a la fetente piaggia, E la mia spalla sempre tenne stretta Per tutto il tempo quella mente saggia. E quel che vidi giunto all’altra riva Fu cosÏ atroce che nel cor mi viaggia Ancor la rabbia che mantengo viva. Invece allor per lo stupore svenni Come topo asfissiato nella stiva.
Canto Ottavo
Rinvenni, infine, da lo mio torpore E, nuovamente, nel veder tal scempio L’animo mio fu colto dal terrore Sicché, come ‘l devoto volto al Tempio, Al mar di tutto ‘l senno m’aggrappai Per non veder qual fosse, per quell’empio L’inenarrabil pena, e lacrimai. Dante mi scosse e m’ordinò d’agire Così che all’uomo in fiamme domandai: “Dimmi chi sei, dannato, quale ardire Paghi tu qui bruciando alacremente?” “Tu che mi parli, cosa vuoi capire?”
Gridommi quella pira scoppiettante, Mente ‘l fetor d’arrosto si spandeva, “Io fui tra i ricchi il principe regnante, Nessuno più di me lassù spendeva Nessuno più di me lassù contava Nessuno più di me ne produceva Oro e quattrini “ mi disse, con la bava Che dalla bocca fuoriusciva oscena. E continuò, quell’uom che ricordava: “… E se lo vuoi saper, la vera pena Non è tanto il bruciar com’ora faccio Quanto l’atroce beffa nata appena Di Santo Pietro mi trovai nel laccio! … Mostrommi li tre regni d’oltretomba in un PC… ma basta! Adesso taccio! “ “Continua, Bill “, gli dissi, “ Torna a bomba! Raccontami perché, da deficiente Tu non scegliesti il luogo ove Colomba In cielo svetta, Santa eternamente? “Perché “, rispose Gates, “ Con un “Demo” San Pietro m’ingannò sonoramente:
L’inferno mi mostrò del tutto pieno Di donne belle pronte a soddisfarmi, Nulla mostrommi del penar che temo; E tra li canti che non san piacermi D’angioli e putti sulle nuvolette E le pulzelle pronte a compiacermi Scelsi l’inferno… Siano maledette Tutte le false dimostrazioni Che portano a consimili disdette!” Allora ripensando a mie afflizioni Quando “Finestre” usai la prima volta I’ me n’andai scordando le attenzioni Che Flegias serba a quella mente stolta. “E’ d’uopo” disse Dante a faccia scura “ Che tosto raggiungiam la grande volta Che mena a Dite ed a sue alte mura, Giacché conosco quali e quante lotte Necessarie saran per l’entratura: Temo che presto termini la notte Senza che il sogno tuo lassù ci cacci: sbrigati allor, sennò l’alba ci fotte!”