Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo 2011

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Seconda edizione

Associazione 46째 Parallelo

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ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO


ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO SECONDA EDIZIONE Direttore Responsabile Raffaele Crocco Capo Redattore Federica Ramacci

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In redazione Barbara Bastianelli Francesco Cavalli Angelo d’Andrea Angela De Rubeis Beatrice Taddei Saltini Daniele Bellesi Hanno collaborato Andrea Baranes Giulia Bondi Pietro Cavallaro Stefano Fantino Angelo Ferrari Franco Fracassi Flavio Lotti Francesca Manfroni Carlo Maria Miele Ettore Mo Michele Nardelli Enzo Nucci Ilaria Pedrali Alessandro Piccioli Amedeo Ricucci Ornella Sangiovanni Luciano Scalettari Roberto Zichittella Progetto grafico ed impaginazione Daniele Bellesi Progetto grafico della copertina Daniele Bellesi Foto di copertina Francesco Cavalli

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Redazione Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it

Testata registrata presso il Tribunale di Trento n° 1389RS del 10 luglio 2009 Tutti i diritti di copyright sono riservati Finito di stampare nel novembre 2010 Grafiche Garattoni - Rimini


Algeria Ciad Costa d’Avorio Etiopia/Eritrea Guinea Bissau Liberia Nigeria Repubblica Centrafricana Repubblica Democratica del Congo Sahara Occidentale Somalia Sudan Uganda

Colombia Haiti

Afghanistan Cina/Tibet Filippine India Iraq Kashmir Kirghizistan Pakistan Thailandia Timor Est Turchia Yemen

Israele/Palestina Libano Siria/Israele Cecenia Cipro Georgia Kosovo Paesi Baschi

Editoriale Raffaele Crocco Saluti Amministratori Saluti Amministratori Introduzione Flavio Lotti Introduzione Barbara Bastianelli Istruzioni per l’uso Raffaele Crocco La situazione Raffaele Crocco Combattere senza armi/1 Amedeo Ricucci Combattere senza armi/2 Amedeo Ricucci Banche e guerra Andrea Baranes Vittime della guerra/1 Enzo Nucci Vittime della guerra/2 Giulia Bondi Africa Un continente in cerca di futuro Enzo Nucci

Inoltre Etiopia - Madagascar America Latina Un continente che cresce con la Cina e Bolivar Raffaele Crocco Inoltre Ecuador Asia Piccole e grandi guerre per gestire le risorse Franco Fracassi

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Indice

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Inoltre Birmania - Cina/Xinjiang - Coree - Iran - Sri Lanka Medio Oriente Non più complici ma costruttori di pace Flavio Lotti

Europa Un strano continente menico di se stesso Amedeo Ricucci

Nazioni Unite - I Caschi Blu Raffaele Crocco Le missioni Onu Il controllo delle risorse/1 Stefano Fantino Il controllo delle risorse/2 ASAL Vittime della guerra/3 Ilaria Pedrali I nuovi migranti ASAL La biblioteca di Sarajevo Michele Nardelli Gruppo di lavoro Fonti Ringraziamenti


Idea e progetto Associazione 46째 Parallelo Via Piazze 34 - Trento

Edizione Editrice AAM Terra Nuova S.r.l. Via Ponte di Mezzo, 1 50127 - Firenze Tel. +39 055 3215729 Fax +39 055 3215793 info@aamterranuova.it www.aamterranuova.it

Associazione 46째 Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it

Con il contributo di

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Partner

www.ilariaalpi.it

Con il patrocinio di

COMUNE DI EMPOLI

In collaborazione con


Editoriale

E adesso c’è una nuova guerra Una ragione in più per “salvare” l’Onu

Il Direttore Raffaele Crocco

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e schede dei conflitti, quest’anno, sono 35 in questo Atlante della Guerra e dei Conflitti del Mondo. L’anno scorso ne avevamo una in meno. La fine delle guerre resta una idea astratta, come astratto sembra più il ruolo delle Nazioni Unite, strette fra contraddizioni e mancanze che non danno risposte. Pensateci un attimo: dei quasi 200 Paesi che formano l’Assemblea, un altissimo numero ha governi non democratici a guidarli. Significa che chi siede al Palazzo di Vetro per conto di questi stati, è nominato da chi con diritti umani, democrazia, libertà, rispetto delle leggi e delle norme internazionali ha poco a che fare. Una contraddizione stridente per un organismo che dovrebbe garantire giustizia. Altro pensiero: anche chi siede per conto di governi democraticamente eletti, non viene nominato per volontà popolare, insomma, attraverso un voto. No, va a rappresentare interessi, legittimi ovvio, ma non sempre condivisi. Tutto questo fa capire quanto poca democrazia vi sia nei meccanismi dell’Onu e quanto difficile sia - pur con tutta la buona volontà che spesso c’è - trovare strumenti e logiche di intervento. E questo si traduce in una tragedia per le popolazioni che proprio dai Caschi Blu, dai soldati dell’Onu, dovrebbero essere protette. Troppo spesso, dalla Bosnia, alla Somalia, alle recenti operazioni in Africa, abbiamo saputo che i Caschi Blu dell’Onu sono rimasti fermi, inerti, davanti a massacri e violenze. Le regole d’ingaggio, cioè gli ordini che avevano ricevuto, gli impedivano di intervenire “per evitare di prendere posizione a favore di qualcuno”. Una assurdità dettata dalle convenienze, ogni volta diverse di ogni volta diversi Paesi, che non volevano disturbare alleati, amici, conniventi. Contraddizioni stridenti, lo ripetiamo, eppure è all’Onu che si giocano buona parte dei destini dei cittadini del mondo. Sono le Nazioni Unite che dobbiamo salvaguardare, rilanciare, tenere saldo, per continuare ad avere delle speranze. Perché alla base, a tenerlo vivo, c’è la carta indispensabile per la vita giusta dei popoli: la Dichiarazione dei Diritti Umani. La guerra prospera dove mancano i diritti elementari. Trova nutrimento, fan, istigatori. Trova ragioni per esistere. Tentare di salvaguardare la Dichiarazione e l’Onu significa rendere meno facile la vita a chi pensa alla guerra come uno strumento utile per governare, fare soldi, passare alla storia. Per questo, anche quest’anno, parliamo a lungo dei conflitti che vedono l’Onu impegnata in qualche modo, con tutti i limiti, ad arginare i massacri, a fermare il sangue. Raccontiamo le missioni, pesandole, misurandole in termini di costi e di sacrifici e anche di inutilità. Perché dobbiamo capire e conoscere quello che accade per rifondarlo. Perché dobbiamo credere che sia possibile che gli Stati del Mondo si mettano assieme per fermare la guerra.


Istruzioni per l’uso Raffaele Crocco

Queste poche righe sono il “libretto di istruzioni” per la lettura di questo Atlante. Le avevamo scritte nella precedente edizione, qui le ripetiamo, aggiungendo dove serve qualcosa, dato che tutto cambia e questa pubblicazione non è da meno. In un libro che parla di guerra, infatti, le parole possono avere più significati, possono essere interpretate, piegate, rielaborate per giustificare, spiegare, convincere. Anche le scelte grafiche, la collocazione di pezzi e articoli possono lasciar spazio a dubbi, domande, possono indicare propensioni politiche o di parte. Per evitare tutto questo, queste righe sono essenziali. Cominciamo. L’elemento principale, in questo libro, è proprio la forma grafica, la scelta di essere Atlante. Come vedrete, ogni guerra ha esattamente lo stesso spazio, il medesimo numero di pagine. Questo per evitare di dare ad una maggiore importanza rispetto alle altre. È una scelta “politica”, che vuole mettere tutte le guerre allo stesso livello. Così, le schede conflitto sono tutte di 4 pagine, divise rigorosamente per continente, come in un Atlante, appunto. Quest’anno, al termine di ogni continente è inserita la scheda Inoltre: lì troverete le situazioni “limite”, quelle che magari non sono ancora sfociate in guerra aperta o che sono in sonno, ma vanno monitorate, controllate costantemente. L’obiettivo è dare una informazione quanto più completa e cercare di limitare eventuali danni che derivano dall’aver scelto di quali guerre o conflitti parlare. Arriviamo, allora, al cuore del problema, cioè quello che intendiamo parlando di Guerre o Conflitti,

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Piccola guida alla lettura di questo Atlante


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in questo volume. Intendiamo, per dare una definizione quasi da dizionario: “situazioni di scontro armato fra stati o popoli, ovvero a confronti armati fra fazioni rivali all’interno di un medesimo Paese. Includiamo in questo elenco i Paesi o i luoghi in cui esiste un latente conflitto, bloccato da una tregua garantita da forze di interposizione internazionali”. Questo è il criterio che abbiamo adottato per stabilire l’elenco alle guerre e dei conflitti in atto. Come sempre, in questi casi, c’è chi lo potrà trovare discutibile, ma un anno di riflessione collettiva ci ha portati ad individuare questo modo di procedere e a questo ci siamo rigorosamente attenuti. Nel volume abbiamo cercato come sempre di utilizzare in modo uniforme e preciso alcune parole di difficile o ambiguo uso. Abbiamo definito Terroristi coloro che usano armi o mettono in atto attentati contro popolazioni inermi, colpendo obiettivi civili deliberatamente. In questo libro, questa è la definizione di terrorista, a prescindere dalle ragioni che lo muovono. Definiamo, invece, Resistenti gruppi o singoli che si oppongono, armati o disarmati, all’occupazione del proprio territorio da parte di forze straniere, colpendo nella loro azione obiettivi prevalentemente militari. Anche in questo caso diamo questa definizione senza entrare nel merito delle ragioni. Ne deriva che in questo volume viene definito Attentato Terroristico ogni attacco compiuto con fini distruttivi o di morte nei confronti di una popolazione inerme e civile al puro scopo di seminare terrore, paura o per esercitare pressioni politiche. Ovvero ogni attacco compiuto contro obiettivi militari, ma che consapevolmente coinvolge anche popolazioni inermi e civili. Gli attacchi di gruppi di resistenti a forze armate regolari in questo libro vengono definite Operazioni di Resistenza o Militari. Da tutto questo nascono alcune altre considerazioni. In questo Atlante, definiamo Forze di Occupazione ogni Forza Armata straniera che occupa, al di là della ragione per cui avviene, un altro Paese per un qualsiasi lasso di tempo. Le Forze di Interposizione Internazionali sono invece Forze Armate, create su mandato dell’Onu o di altre organizzazioni multinazionali e rappresentative, che in presenza di precise regole di ingaggio e combattimento che ne limitano l’uso, si collocano lungo la linea di combattimento per impedire il confronto armato fra due o più contendenti. Questi i punti fondamentali, i criteri per poter affrontare la lettura sapendo le ragioni delle scelte. Altre istruzioni: le foto che trovate in questo Atlante sono in massima parte tratte da video di reporter sparsi in tutto il mondo. Sono quelli che tecnicamente si chiamano “frame”, cioè fermi immagine di un filmato. Per questo, a volte, possono sembrare di qualità strana, magari mosse o sgranate. Le abbiamo volute e scelte per la loro efficacia, per la capacità di raccontare tutto in una sola immagine. Dovrebbe essere tutto. Buona lettura.


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Africa

Enzo Nucci

Un continente in cerca di futuro Il cammino del Sudafrica, definita la locomotiva economica, politica e sociale del continente africano, è stato illuminato per pochi mesi dai preparativi dei campionati mondiali di calcio. Ma già il 4 luglio ovvero una settimana prima che l’arbitro fischiasse il fine partita tra Spagna e Olanda, le strade polverose e malridotte delle township sono tornate ad infiammarsi, proprio come nel maggio del 2008. Nella Regione a vocazione turistica del Western Cape sono ripresi gli attacchi xenofobi contro gli stranieri. Neri contro neri, poveri contro poveri. Nel mirino ci sono gli immigrati provenienti da Somalia, Zimbabwe, Malawi, Mozambico, Nigeria, Paesi da cui scappano per cercare pane e libertà in quella che è denominata la “nazione arcobaleno” per il crogiuolo di culture ed etnie che faticosamente convivono. I disperati abitanti delle periferie (privi di case decenti, scuole, servizi sociali ed assistenza medica) sono delusi dalla lentezza dei cambiamenti promessi e stanchi della corruzione, “un’epidemia che infetta i centri decisionali locali e nazionali, ai livelli alti e bassi “ secon-

do l’analista e docente universitaria Raenette Taljaard. Il Sudafrica, infatti, da solo produce un quarto del reddito dell’intero continente nero eppure la disoccupazione supera il 26% mentre 20milioni di persone (su 48milioni di abitanti) vivono al di sotto della soglia di povertà. Gli immigrati (in maggioranza clandestini) sono tra i due ed i tre milioni: non se ne conosce il numero esatto. Sono tutti disposti a svolgere i lavori più umili e duri (braccianti, minatori) con salari inferiori a quelli previsti dalla legge e senza diritti sindacali. Nasce così la guerra tra poveri con le accuse agli immigrati di “rubare il lavoro”. Eppure una gran parte del miracolo economico sudafricano poggia proprio sulle spalle e la fatica di questa forza lavoro a basso costo e spesso altamente qualificata. Ma basta poco per accendere le township e far scattare la caccia gli stranieri, indifesi capri espiatori della violenza dei delusi. Nadine Gordimer, premio Nobel per la letteratura nel 1991 ed attivista contro l’apartheid, ha spiegato in un’intervista concessami per la Rai che “la presenza degli immigrati in Sudafrica crea un conflitto di interessi con coloro che si ritengono gli unici proprietari dei mezzi di produzione. Mandela ha restituito la libertà anche agli oppressori bianchi liberandoli dai loro sensi di colpa. Ma penso che in realtà il razzismo non sia mai stato sconfitto completamente. Bianchi, neri e meticci non sono in realtà parte di un processo unitario di sviluppo. E negli ultimi anni c’è stata una nuova frattura con l’avanzata della crisi economica”. Parole quanto mai veritiere perché la fragile tregua sociale sottoscritta in vista dei mondiali di calcio è stata spazzata via dal ciclone dello sciopero dei lavoratori dei servizi pubblici in lotta per gli aumenti salariali che nei primi 20 giorni di settembre 2010 ha paralizzato il Paese. Gli enormi investimenti pubblici per la World Cup se hanno contribuito a contenere la recessione economica creando anche 129mila posti di lavoro stagionali ora rischiano di diventare un boomerang per il Governo presieduto da Jacob Zuma, eletto nel 2009 con l’appoggio dei sindacati e dei settori più estremisti dell’African National Congress. Zuma ha fatto grandi promesse all’elettorato più radicale che oggi passa all’incasso. Perché tanta attenzione al Sudafrica? Innanzitutto perché per un cittadino europeo è difficile comprendere la natura di questi rigurgiti xenofobi che rischiano di diventare un’endemica emergenza in un Paese che conta il 90% della popolazione di colore. Poi perché la “nazione arcobaleno” resta il laboratorio politico più in-


moderato delle Corti islamiche al potere per sei mesi nel 2006 prima di essere spazzate via dall’intervento militare degli etiopi, eterodiretto proprio dagli Usa. Alcuni analisti politici statunitensi sottolineano l’errore di fondo di considerare il processo di costruzione dello stato (con l’appoggio al poco rappresentativo Governo di Transizione) come l’unico strumento non militare per contenere l’espansione dei gruppi radicali armati. I nodi stanno venendo drammaticamente al pettine e l’instabilità della Somalia minaccia sia il difficile equilibrio del Corno d’Africa (dove la guerra non dichiarata tra Etiopia ed Eritrea rischia di riesplodere) sia di accendere in Kenya la disputa mai sopita tra la maggioranza cristiana ed una consistente minoranza islamica. Del resto la capacità militare delle milizie Shabaab è dimostrata dall’attentato che l’11 luglio 2010 ha provocato 74 vittime a Kampala, capitale dell’Uganda, tra i frequentatori di un bar intenti ad assistere alla finale dei mondiali di calcio. La Somalia non può più attendere.

27

novativo dell’Africa che dal 1994 (ovvero dalla fine della segregazione razziale) ha fatto passi da gigante senza ricorrere a soluzioni violente e liberticide che potevano apparire come una comoda scorciatoia. Il Sudafrica è il Paese meno africano del continente perché è proiettato verso modelli europei e statunitensi ma dove è forte il rischio che l’eredità politica di Mandela vada in fumo. Così come nel 2010 si sono celebrati “per convenzione” i 50 anni dell’indipendenza africana, gli analisti dell’ “Economist Intelligence Unit” (una autorevole pubblicazione consorella del settimanale inglese “The Economist”) hanno designato la Somalia come il peggior Paese al mondo, un triste primato toccato - tra gli altriall’Afghanistan ed al Turkmenistan negli anni scorsi. Gli asettici dati offrono solo una pallida idea della tragedia in corso. Più del 40% della popolazione (secondo la Fao) necessita di aiuti alimentari per sopravvivere. Un bambino su cinque è malnutrito mentre i combattimenti hanno già costretto oltre un milione e mezzo di persone a migrazioni interne. Oltre 500mila di queste vivono in campi profughi di fortuna in condizioni spaventose mentre le organizzazioni internazionali sono in grado di rifornirle solo della metà dell’acqua di quotidianamente necessitano. Si sono rivelati tutti fallimentari i 15 tentativi di mettere in piedi governi in grado di fronteggiare la crisi apertasi nel 1991 con la caduta del regime di Siad Barre. Il fragilissimo Governo Federale di Transizione (appoggiato dalla comunità internazionale) è dilaniato da furibonde lotte intestine ed incapace di fronteggiare l’avanzata degli Shabaab, i radicali islamici, che controllano l’80% del Paese e gran parte della capitale. Gli Stati Uniti sono troppo concentrati nell’accantonare i sanguinosi capitoli rappresentati da Iraq ed Afghanistan ed il massimo dell’impegno è stato quello di aiutare politicamente e militarmente il Governo guidato proprio da un loro ex nemico: il presidente Sharif Ahmed, esponente


28


La resa

Fine maggio 2010, Touati Othman, esponente di spicco del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc) affiliato ad al-Qaeda si arrende all’esercito. Othman, alias Athman Abou El Abbas, era membro del consiglio dei saggi, il più importante organo nella gerarchia del Gspc. La maggior parte delle cellule del Gspcsul territorio algerino sono state smantellate. L’8 settembre 2010 i fondatori del Gspc hanno lanciato un appello “ai combattenti ancora attivi invitandoli a deporre le armi”. Una parte della stampa algerina, tuttavia, mette in dubbio l’autenticità di tali appelli in quanto firmati, tra gli altri, da un capo, Hassan Hattab, arresosi nel 2007, condannato senza mai essere comparso in tribunale ma di cui non si sa nulla, neanche in quale prigione possa essere detenuto.

25 luglio 2010, un kamikaze si fa esplodere a bordo di un’autobomba lanciata contro una gendarmeria in un villaggio vicino a Tizi Ouzou, Cabilia: un morto e otto feriti. È solo un episodio, uno dei tanti che per tutto il 2010 hanno scandito la vita quotidiana degli algerini. Nell’agosto 2009, il Presidente della Repubblica, Abdelaziz Bouteflika, aveva dichiarato pubblicamente di aver “teso la mano” agli integralisti islamici attivi nel suo Paese, soprattutto nella regione della Cabilia. Il simbolico gesto presidenziale può aver portato a qualche buon risultato ma non ad una duratura pace se, proprio ai primi di settembre 2010, la stampa algerina diffondeva la notizia che “almeno 88 membri di al-Qaeda sono stati uccisi dall’inizio dell’anno in diverse operazioni dell’esercito”. Il 2 febbraio quattro militari rimangono feriti in una zona a 150 km ad Ovest di Algeri a seguito dell’esplosione di un ordigno artigianale, mentre, la stampa quello stesso giorno dà notizia dell’uccisione di sette membri di gruppi armati integralisti a Charef, 250 km a Sud della capitale. All’inizio di febbraio 2010, la stampa diffonde già un primo “bilancio”: sono almeno quindici i membri dei gruppi armati uccisi nel solo mese di gennaio. Il 20 febbraio, un militare muore e cinque civili rimangono feriti nell’esplosione di due ordigni avvenuta a 50 km ad Est di Algeri. Questo attentato arriva come una vendetta a 48 ore dall’uccisione da parte dell’esercito di due affiliati di “al-Qaeda per il Maghreb Islamico”. Il 24 febbraio il quotidiano francofono El Watan dà notizia dell’uccisione di tre membri della cellula quaedista “El Farouk” durante un’imboscata dell’esercito vicino a Dra Essebt, nella zona di Bouira, 80 km ad Est della capitale. La reazione è presto organizzata: 2 marzo 2010, un gruppo armato attacca coi lanciarazzi una caserma della polizia a Tigzirt. Subito, parte un’operazione di rastrellamento dell’Esercito nella zona. La vendetta arriva il 7 marzo quando la stampa scrive di cinque “terroristi” uccisi dall’esercito in un’imboscata a 70 km ad Est di Algeri. Il 3 aprile sette agenti di sicurezza e un militare vengono

ALGERIA

Generalità Nome completo:

Repubblica democratica popolare di Algeria

Bandiera

29

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo, francese, tamazight (berbero)

Capitale:

Algeri

Popolazione:

Circa 35 milioni

Area:

2.381.740 Kmq

Religioni:

Musulmana sunnita (99%), cristiana ed ebraica (1%)

Moneta:

Dinaro algerino

Principali esportazioni:

Risorse naturali: petrolio, gas naturale, ferro, fosfati, uranio, piombo, zinco Risorse agricole: grano, orzo, avena, uva, olive, cedri, frutta, pecore, bestiame

PIL pro capite:

Us 7.000

colpiti a morte con due bombe. Le armi non cessano il fuoco verso obiettivi di carattere militare, ma il 25 giugno vengono colpiti da estremisti islamici anche gli invitati ad una festa nuziale ad Est di Algeri. Muoiono cinque persone, una di loro è un bambino di dieci anni.


I militanti del gruppo al-Qaeda per il Maghreb islamico mirano ad unire le forze jihadiste della regione nordafricana per combattere contro l’Europa e la presenza occidentale nei Paesi del Ma-

ghreb. L’obiettivo sembra in gran parte fallito per mancanza di fondi, di uomini e anche per l’azione repressiva condotta dall’esercito algerino.

Per cosa si combatte

Libertà di culto

30

Chi pratica una religione diversa dall’Islam è obbligato a costituire un’associazione, non può fare proselitismo e deve celebrare solo in luoghi autorizzati (chiese). Ma i cristiani d’Algeria vivono in diverse zone prive di una chiesa. “È necessario non limitare l’esercizio del culto a luoghi prefissati”, dichiara l’arcivescovo d’Algeria, mons. Ghaleb Bader (febbraio 2010). Il ministro della religione, Bouabdallah Ghlamallah, dichiara: “Non diamo la caccia ai cristiani ma non vogliamo che ci siano delle minoranze religiose che diventino un pretesto per le potenze straniere per entrare negli affari interni del Paese” (febbraio 2010).

L’Algeria ha vissuto un 2010 relativamente tranquillo. I gruppi terroristi armati che si ricollegano ad al-Qaeda (al-Qaeda per il Maghreb islamico) hanno compiuto azioni meno sanguinose rispetto agli anni precedenti e la loro attività si è concentrata soprattutto nella zona meridionale del Paese. Resta instabile, in parte, anche la situazione della Cabilia, la regione montuosa che si estende da Algeri vero l’Est lungo la costa mediterranea. Il terrorismo che minaccia oggi l’Algeria non ha la forza, i numeri e la pericolosità di quello che ha sconvolto il Paese nel corso degli anni Novanta. La data chiave è il 1991, quando il movimento politico Fis (Fronte islamico di Salvezza) vince il primo turno delle elezioni politiche generali. Di fronte alla minaccia islamista a gennaio i militari

interrompono il processo elettorale, il Fis viene dichiarato fuori legge e comincia uno scontro sempre più sanguinoso tra i gruppi terroristi di ispirazione islamica radicale e l’esercito algerino. L’organizzazione terroristica dominante è il Gia (Gruppo Islamico Armato), in seguito affiancato dal Gspc (Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento). In Algeria il terrorismo islamico raramente ha preso di mira gli stranieri. Le vittime sono state soprattutto cittadini algerini. Nel decennio di sangue sono stati colpiti intellettuali, scrittori, giornalisti, esponenti della vivace società civile che caratterizza l’ex colonia francese. Numerosi anche gli attacchi contro poliziotti e militari. A migliaia i caduti fra la popolazione civile, sia nei centri urbani che nei villaggi. Tra gli stranieri sono stati colpiti esponenti della chiesa cattolica, da sempre minoritaria ma costantemente a fianco della popolazione musulmana nei momenti difficili del Paese. Vanno ricordate le uccisioni del vescovo di Orano Pierre Claverie e dei sette monaci trappisti del monastero di Tibherine. Si calcola che in totale le vittime del terrorismo in un decennio siano state circa 100mila. Una via di uscita dal tunnel del terrorismo è stata cercata a partire dal 1999, quando è stato eletto alla presidenza della Repubblica Abdelaziz Bouteflika. Bouteflika ha voluto impegnarsi per la riconciliazione e ha offerto una amnistia ai combattenti islamici in cambio del loro disarmo. Questo processo di riconciliazione è andato avanti con difficoltà e anche ambiguità. Alcuni gruppi hanno continuato le loro attività terroristiche,

Quadro generale


Ferhat Mehenni (Illoula, 5 marzo 1951)

18 anni di emergenza

Human Rights Watch (Hrw) ha definito “molto grave” la situazione dei diritti umani in Algeria, dove da 18 anni è in vigore lo stato d’emergenza e dove permangono pesanti restrizioni imposte alla società civile e alla stampa. “In Algeria”, ha dichiarato a Rabat, Sarah Leah Whitson, direttrice di Hrw per Medio Oriente e Africa del Nord, “sono diminuite le violenze politiche rispetto al 1999, quando il presidente Bouteflika ha preso il potere. Se gli algerini, oggi godono di una maggiore sicurezza fisica, sono invece meno liberi di criticare e contestare le politiche del Governo”. “Le autorità vietano manifestazioni e anche seminari organizzati dai difensori dei diritti umani”, si legge nel Rapporto 2010 dell’associazione pubblicato sul suo sito internet. 31

Ferhat Mehenni, è un cantante e politico originario della Cabilia. È stato uno dei protagonisti della Primavera Berbera (Tafsut) del 1980. Nel 1985 fonda la Lega Algerina dei diritti dell’Uomo. Viene arrestato e condannato per attentato alla sicurezza dello Stato. Torturato nella terribile prigione di Lambèse, scriverà una canzone toccante “Tazuit Lambèse” per raccontare il suo patimento. Nel 1988 Mehenni aiuta a fondare un partito, il Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia. Il 17 gennaio 1994, Mehenni a nome del Movimento Culturale Berbero proclama il berbero “lingua nazionale e ufficiale” (tuttora lo Stato considera il berbero solo una “seconda lingua nazionale”). Nel 2001, dopo la Primavera Nera, fonda il Movimento per l’Autonomia della Cabilia. Ritiene che solo l’attribuzione di un’autonomia regionale alla Cabilia possa risolvere lo stato di tensione col Governo e far terra bruciata attorno ai terroristi. Il 19 giugno 2004 viene assassinato suo figlio, Ameziane, accoltellato in strada a Parigi. Nessun colpevole per la polizia. Durante le esequie funebri, Mehenni canta in cabilo la canzone della Resistenza Italiana “Bella Ciao”.

ma lentamente la vita degli algerini è tornata a essere più tranquilla, soprattutto nei principali centri urbani. Anche se negli ultimi anni c’è stata una ripresa delle azioni terroristiche anche ad Algeri, per opera dei militanti di al-Qaeda per il Maghreb islamico attentati del dicembre 2007 e dell’agosto 2008. L’Algeria non ha quindi raggiunto una condizione di completa stabilità e sicurezza. A questa condizione si aggiunge un quadro politico assolutamente immobile. Arrivato alla presidenza nel 1999 Bouteflika, rieletto nell’aprile del 2009 (è il terzo mandato consecutivo), ora conta di restare al potere fino al 2014. Quando divenne presidente, Bouteflika alimentò molte speranze. Promise di ristabilire la pace, la riforma della pubblica amministrazione, della scuola e della giustizia. Assicurò di voler garantire il prestigio della nazione. Ma i progressi sperati non ci sono stati. O sono stati molto timidi, ben al di sotto delle attese. Come ha scritto il quotidiano indipenden-

I PROTAGONISTI

te El Watan, Boueflika non ha cose nuove da dire e presenta da un decennio lo stesso programma. Restano perciò irrisolti molti problemi come la corruzione, l’inflazione, la disoccupazione e la crisi degli alloggi, che colpisce soprattutto i giovani. Sulla scena politica non si affacciano uomini nuovi e resta dominante una casta di politici, militari e burocrati che gli algerini definiscono genericamente Le Pouvoir (Il potere). Di fronte a questa immobilità l’Algeria non collassa solo perché galleggia su un mare di petrolio. Grazie alle riserve di idrocarburi l’Algeria negli ultimi anni ha potuto arricchire le sue riserve valutarie (145miliardi di dollari) sfruttando gli aumenti del prezzo del greggio (ma con un calo sensibile nel corso del 2009). Tuttavia questa ricchezza non si è riversata sulla popolazione e la forte dipendenza dalle risorse petrolifere non ha favorito una diversificazione dell’economia. Gli introiti incassati dall’export di gas e petrolio vengono in gran parte utilizzati per l’importazione di alimentari, medicinali e materiali per l’edilizia.


I nuovi migranti ASAL

Arrivano da tutto il mondo i nuovi cittadini europei

201

INTRO La gran parte dei migranti presenti in Italia (53,6%) è di origine Est-europea, seguono gli africani (22,4%), gli asiatici (15,8%) e gli americani (8,1%). Negli ultimi anni risulta fortemente attenuato il policentrismo delle provenienze, da sempre caratteristica dell’immigrazione italiana. Nonostante la crisi economica ed occupazionale che ha investito l’Italia, il numero di immigrati continua a crescere: l’aumento annuo nel 2008 è stato di 458644 residenti, il 13,5% in più rispetto all’anno precedente. Tra cittadini stranieri residenti e presenze regolari non ancora registrate


202

all’anagrafe, si calcolano circa 4,5milioni di persone, ovvero il 7,2% dell’intera popolazione. Nella fascia d’età tra gli 0 e i 39 anni il tasso raggiunge il 10%. A livello territoriale il Nord ospita il 62,1% dei residenti stranieri, il Centro 25,1% e il Meridione solo il 12,8%.

PRINCIPALI PAESI PRESENZE DI PROVENIENZA

%

Romania

796.477

20,5

PAESI DI PROVENIENZA Complessivamente si può affermare che in Italia esiste da sempre una presenza straniera molto varia dal punto di vista delle nazionalità d’origine, ma se fino al 2000 la comunità più grande era quella marocchina, già nel 2005 le comunità rumena, albanese e ucraina si sono triplicate fino a rappresentare più di un terzo degli immigrati. Il dinamismo e la varietà della popolazione straniera è da ricondurre principalmente alla sua evoluzione demografica da una parte e alla domanda di occupazione del Paese dall’altra. Gli sbarchi, invece, influiscono in misura veramente minima sul totale di immigrati, rappresentano infatti meno dell’1% della presenza regolare. Il contrasto dei flussi irregolari ha però monopolizzato l’attenzione dei media e le decisioni politiche tanto che si registra una crescente confusione tra immigrati “clandestini”, irregolari, richiedenti asilo e persone aventi diritto alla protezione umanitaria.

Albania

441.396

11,3

Marocco

403.592

10,4

Cina

170.265

4,4

Ucraina

153.998

4,0

Filippine

113.686

2,9

Tunisia

100.112

2,6

Polonia

99.389

2,6

India

91.855

2,4

Moldavia

89.424

2,3

IL PANORAMA DELL’IMMIGRAZIONE NELL’UNIONE EUROPEA Il 2008 è stato il primo anno in cui l’Italia, per incidenza degli stranieri residenti sul totale della popolazione, si è collocata al di sopra della media europea e, seppure ancora lontana dalla Germania e specialmente dalla Spagna (con incidenze rispettivamente dell’8,2% e dell’11,7%), ha superato la Gran Bretagna (6,3%). Tra i 200milioni di migranti nel mondo, il continente europeo si conferma dunque come l’area di maggiore presenza ospitandone circa un terzo del totale. Solo nell’Ue gli immigrati sono 38,1milioni, con un’incidenza del 6,2% sui residenti: più di un terzo proviene da altri Stati membri (36,7%), ma ormai si rischia di considerare “stranieri” anche i comunitari, dei quali gli italiani costituiscono in diversi paesi una parte cospicua. L’immigrazione continua a essere uno dei temi caldi e gli organismi dell’Unione Europea si sono occupati in prevalenza del controllo dei flussi e dei rimpatri, mentre è rimasto in sordina l’obiettivo della convivenza nella diversità.

Macedonia

89.066

2,3

Ecuador

80.070

2,1

Perù

77.629

2,0

Egitto

74.599

1,9

Sri Lanka

68.738

1,8

Senegal

67.510

1,7

Bangladesh

65.529

1,7

Serbia

57.826

1,5

Pakistan

55.371

1,4

Nigeria

44.544

1,1

TOTALE

3.141.076

80,9


€ 20,00


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