PURA VIDA...

Page 1

Andrea Bizzocchi

E

alTr i onTi raccaMin r Ghi

Appunti di viaggio, riflessioni ed esperienze tra la cultura, i personaggi e la natura selvaggia della Costa Rica


฀ ฀

฀ ฀


Nel 1993 feci il mio primo viaggio fuori dall’Europa. Ero solo e andai in Kenia. Lì constatai che i kenioti erano più felici di noi, che avevano più gioia di vivere, e che, a onta di condizioni di vita molto più difficili, erano anche altrettanto più sereni. La rivelazione fu totalmente inaspettata ed io non sapevo coglierne il perché. Ma la realtà che avevo vissuto era talmente evidente che negarla avrebbe significato mentire a me stesso, e così, poco a poco, le certezze che avevano accompagnato i miei primi venti anni di vita, iniziarono a vacillare. Da allora cominciai a domandarmi se il nostro mondo occidentale, sviluppato, progredito, ricco, fosse davvero il migliore dei mondi in cui possiamo sperare di vivere. Intendo dire il migliore da una prospettiva ampia, che abbracci tutte le sfere dell’esistenza umana e non unicamente quella materiale. Merito o colpa che sia, fu per via del Kenia che nel corso degli anni successivi viaggiai sempre più aprendo mente e cuore, gettandomi con entusiasmo nella comprensione dell’Altro.1 A un qualche livello più profondo del mio essere, ho sempre “sentito” che se qualcosa di diverso esiste – culture, civiltà, modi di vivere, di pensare, di concepire e affrontare la vita diversamente – deve esserci un motivo, una ragione, una qualche logica. Sono andato così alla 1.฀Ho sempre avuto questo istinto di apertura verso l’Altro e soprattutto gli ho sempre dato valore in quanto tale. Non mi hanno mai fatto orrore né quei popoli primitivi che pratica(va)no il cannibalismo, né gli aborigeni che mangia(va)no formiche e scorpioni, né i thailandesi e gli indonesiani che mangiano cani. Il mio primo ricordo in tal senso risale alla terza elementare quando un mio compagno di classe raccontò che aveva visto alla Tv che in Cina facevano torte di lombrichi (erano ancora i tempi di Mao. Oggi c’è “McDonald’s”), e tutti, maestra inclusa, rimasero inorriditi. Io per niente. Me ne sarei mangiata una fetta seduta stante.


1VSB 7JEB

ricerca di possibili perché, viaggio dopo viaggio, esperienza dopo esperienza, soprattutto persona conosciuta dopo persona conosciuta. Poco a poco le nebbie di quella primigenia rivelazione iniziarono a dissolversi. Pura Vida chiude questa mia ricerca e contiene le risposte a quella domanda che mi posi per la prima volta tanti anni fa. Il libro è un resoconto scritto in presa diretta di due lunghi periodi trascorsi in Costa Rica (con sconfinamenti in Nicaragua e Panama), una sorta di diario di viaggio composto di storie brevi esposte in ordine cronologico e legate tra loro a comporre un unico racconto lungo. Perché il titolo Pura Vida? Pura vida in questo Paese è il saluto nazionale. Ci si saluta dicendosi pura vida come noi diciamo “buongiorno”, si risponde pura vida se qualcuno domanda “come va?” e ancora si usa pura vida come noi usiamo “arrivederci”. Il significato di pura vida è molto vicino all’hakuna matata (“non c’è problema”) keniota o al mai ping rai (“nessun problema, si vive lo stesso”) thailandese o ancora al chi choen (“qual è il problema?”) ladako. Queste due parole riassumono un’intera filosofia di vita, e sono testimonianza linguistica della calma e della gentilezza che appartengono a questo popolo, della semplicità e della modestia che li caratterizza, del loro saper prendere la vita senza ansie e senza fretta, senza arrabbiarsi né strepitare. In aggiunta ai due diari di viaggio ho inserito dei racconti e qualche aneddoto, riflessione e frase colta qua e là, che hanno lasciato un qualche segno su di me. I racconti narrano storie di persone da me incontrate sulle strade del mondo e coprono un arco di tempo di oltre un decennio. Sono racconti semplici, nel tentativo di andare all’anima del loro significato per cogliere senza inutili fronzoli quel calore che io stesso ho provato vivendoli in prima persona. L’elemento che li accomuna è l’umanità dei protagonisti. Per questo motivo affermo con forza la mia convinzione che il caleidoscopio di sentimenti che queste storie hanno suscitato in me, sono direttamente riconducibili a quella humanitas a cui è inevitabilmente ed indissolubilmente legata la nostra condizione di uomini. Se e quando questa viene a mancare, noi abdichiamo alla nostra essenza di esseri umani. Nei miei viaggi mi sono ovviamente imbattuto nella furia devastatrice della globalizzazione economica (la cui riuscita passa inevitabilmente per una globalizzazione culturale), che appiattendo ed omologando sogni e


/PUB JOUSPEVUUJWB

speranze, illusioni e delusioni, gioie e sofferenze, entusiasmi, emozioni e amore spontaneo, è la prima responsabile di questa mancanza di umanità oramai sempre più estesa. Espandendosi a macchia d’olio in ogni angolo del pianeta, la globalizzazione porta con sé il suo vero elemento caratterizzante: la folle idea di rendere i mille mondi che esistono un solo mondo, le differenti civiltà e culture una sola civiltà e una sola cultura (va da sé, la nostra). Per questo motivo, la pretesa di esportare i nostri modi, le nostre istituzioni, i nostri valori, i nostri criteri (il tutto se possibile con le buone, altrimenti con le cattive), è l’idea più violenta, razzista, antropologicamente totalitaria e in definitiva deficiente, mai apparsa nel corso della pur lunga storia umana. Perché quando il mondo sarà uno ed esisteranno non più culture diverse, ma una sola, quella del “grande consumatore”, che significato avrà la vita? Così come un ecosistema ha bisogno della biodiversità per esistere, così l’uomo ha bisogno della diversità culturale per vivere. E in questo senso – un senso antico, naturale – noi siamo già un pezzo avanti lungo questa strada folle, perché l’uomo moderno non vive più di vita propria ma in reazione inconscia e costante a stimoli che lo bombardano senza sosta. È curioso osservare come tutti credano di essere liberi e di vivere in una società libera, senza capire che i nostri comportamenti, le nostre azioni, le nostre emozioni, sono in tutto e per tutto guidate, telecomandate, eterodirette. Noi siamo come la pallina di un flipper che sbatte a destra e a sinistra, che rimbalza avanti e indietro, su e giù. Ogni tanto vinciamo qualche bonus, ma alla fine rimaniamo una pallina che rimbalza dentro il suo misero spazio limitato. Al di fuori del nostro mondo ce ne sono mille altri e il solo saperlo e provare ad annusarli, ad aprirci a loro ed eventualmente farli parte di sé, ci arricchirebbe la vita enormemente. Ma non siamo più capaci di vederlo. E nemmeno siamo più capaci di vedere che ci sono altre strade, oltre a quella di un consumismo idiota figlio di bisogni indotti creati a ritmi sempre più vertiginosi, lungo le quali provare a percorrere le nostre esistenze. Niente da fare, continuiamo imperterriti a sfrecciare a duecento all’ora sull’autostrada della vita rifiutandoci risolutamente di prendere una qualche uscita (quando si va a duecento all’ora l’uscita non la si vede neppure) che sì, forse ci costringerebbe per un sentiero di campagna o anche una mulattiera di montagna piena di buche e insomma a un viaggio irto di difficoltà, ma che avrebbe anche il gran pregio di farci ammirare il panorama, di viaggiare lentamente, di (ri)scoprire emozioni e sorprese delle quali la vita è straordinariamente ricca. Non è affatto difficile cogliere tale realtà, ma la


1VSB 7JEB

velocità con cui nascondiamo la testa sotto la sabbia quando qualcuno prova ad aprirci gli occhi è prodigiosa; facciamo concorrenza agli struzzi. La nostra è una società che vive con la sindrome del diniego incorporata. Per concludere, è evidente che dovremmo cambiare, ma cambiare è un processo lungo, silenzioso e anche doloroso, e tutto ciò è l’esatto opposto della direzione che ha preso questa società che vuole tutto subito (e così regna sovrana la fretta, la vera tiranna dei tempi moderni), che si stordisce di suoni e rumori e di costante e perlopiù inutile chiacchiericcio, che ha bandito ogni forma di dolore dalla propria esistenza come se il dolore, fisico e spirituale, fosse di per sé un male, e non avesse anche la sua utilissima funzione di campanello d’allarme che qualcosa non va. Nonostante tutto, non che sia poco, si potrebbe soprassedere. Ma l’errore più grande, il granchio preso dall’Occidente e da quel “progresso” che assieme alla “democrazia” è il lasciapassare sbandierato per andare alla conquista di ogni angolo del pianeta, è un poco più sottile, di meno immediata comprensione. Il grande errore giace nella scontata convinzione che eliminando il rischio, la fatica e l’imprevisto, che adottando la logica e la razionalità come esclusivo modo di agire, che elevando la scienza e la tecnica/tecnologia a Dio unico e supremo, l’uomo stia meglio. Così facendo in realtà noi non facciamo altro che eliminare anche tutte quelle emozioni a essi legate. Rendere le cose più facili e “migliori”, è razionale, logico, sensato e soprattutto confortevole. Ma bisognerebbe avere l’umiltà di capire che la razionalità non può essere l’unico parametro con cui vivere la nostra esistenza. Una bellissima storia d’amore non nasce dalla razionalità, bensì dalle emozioni, da un turbinio inebriante di tutti i sensi. È per questo che le cose razionali e teoricamente migliori sono anche più banali, non ci danno vera soddisfazione, non ci danno il sapore della conquista, non ci fanno battere il cuore. In una parola non ci danno emozioni, che sono l’unico ma indispensabile ingrediente di una vita che non si esplichi unicamente in una sorta di stato vegetativo prolungato in attesa della morte. Nella nostra tensione spasmodica verso un non meglio precisato “bene”, ci siamo messi in testa di eliminare tutto ciò che è “male”, ฀ ฀ ฀ ฀ ฀ ฀ ฀ ฀ ฀ che tutto è Uno e ogni cosa bella ha un suo opposto che è esattamente ciò che la rende bella. L’una non esiste senza l’altra. Vivono assieme completandosi. Noi invece ci ostiniamo con questo dualismo tra bene e male, bello e brutto, facile e difficile, piacevole e non piacevole che in realtà sono esattamente le due facce della stessa medaglia.


/PUB JOUSPEVUUJWB

Questa dicotomia è un artificio culturale; esiste solo nella nostra testa, non in Natura. Le due facce della stessa medaglia appartengono alla vita stessa e volerne eliminare una significa rifiutare di vivere. Nella sua inesausta, ostinata e cieca ricerca del “meglio”, il “progresso” ha compiuto un errore imperdonabile: ha ucciso le emozioni e con esse il senso più profondo del nostro essere uomini. Per questo il messaggio del libro vuole essere quello di resa incondizionata alla diversità, che nonostante il tentativo di appiattimento culturale portato avanti tra rulli di tamburo, squilli di trombe e ottusità senza limiti da re, cortigiani e anche dalla plebe credulona come sempre, rappresenta la vita su questo bellissimo pianeta Terra che abbiamo l’insigne privilegio di abitare. Viviamo in un sistema autoreferenziale che si compiace di se stesso e che guarda al proprio ombelico come fosse il centro di tutto. Ma il mondo e la vita non sono quella piatta realtà unidimensionale che noi crediamo essere la realtà, perché oramai abituati a vederla solo attraverso i nostri occhi e a sentirla solamente attraverso le nostre orecchie. Il mondo e la vita non sono la realtà delle nostre certezze e convinzioni e convenzioni, bensì un meraviglioso ed inestricabile magma di diversità che in qualche maniera, grazie a qualche strano ed inafferrabile equilibrio, riescono a convivere tra loro. Senza questo, la vita non è più vita. Il libro, in buona sostanza, vuole ricordarci e mostrarci che percorrere altre strade è possibile. Dipende da noi. Che ognuno si cerchi il proprio cammino, segua la propria Via. Buon Viaggio.


1BSUF *

Santa Elena è la risposta tica a Monteverde, una piccola comunità sviluppatasi con la crescita del suo più famoso vicino. Nel breve volgere di pochi anni la strada principale di Santa Elena si è trasformata dalla via sterrata e polverosa che era, in una specie di bazar a cielo aperto con la sua pletora di ristoranti, coffeebar, negozi di t-shirts e di artesanía, come qualunque altro posto turistico al mondo. A Santa Elena passavo le giornate facendo camminate nella Reserva Biológica Bosque Nuboso Monteverde, e le serate chiacchierando con il figlio sedicenne della proprietaria del posto dove alloggiavo, Diego, fanatico del calcio in generale (come del resto tutti i ticos) e del Real Madrid in particolare. Una mattina, mentre stavo parlando con l’impiegato della “Oficina de Turismo de Monteverde”, un dépliant colpisce la mia attenzione: una famiglia offre il tour della propria finca e inoltre promuove progetti di riforestazione. La cosa non è di per sé nulla di particolare ma tanto mi basta per decidere seduta stante che voglio saperne di più. Esco con il pieghevole in mano e mi dirigo alla più vicina cabina telefonica per chiamare il numero indicato. Francisco Mendéz Espinoza mi invita a raggiungerlo subito e nel giro di trenta minuti sono da lui. Mi viene incontro indossando una t-shirt bucata, pantaloni da lavoro bucati, calze con buchi e ciabatte da mare di plastica, queste senza buchi. Mi fa sedere su un tronco di legno pieno di formiche piccolissime ma dal morso velenoso e dolorosissimo. Inizia a raccontarmi la sua storia: “Sono figlio di una ragazza-madre figlia di ragazza-madre. Quando avevo appena un anno di età, mia mamma si trasferì a Puntarenas presso uno zio per studiare e così venni cresciuto da mia nonna, Delsa Espinoza Miranda, che allora aveva solo ventisette anni. Trascorsi un’infanzia serena giocando e aiutando nei lavori della fattoria. All’età di diciotto anni mi iscrissi all’Università Nazionale di Heredia per diventare agronomo. Dopo vicissitudini di vario genere (tra cui due mogli e tre figli) tornai a Monteverde nel ’98. Ho alternato il lavoro alla mia finca con quello di amministratore della Reserva Biológica di Santa Elena. Poi ho lavorato come agronomo per la ‘Cooperativa Santa Elena’ (cooperativa che riunisce più di cento produttori di caffè equo e solidale). È qui che ebbi l’idea di sviluppare un tour della piantagione: dalla piantina nel campo al caffè in tazza”. Francisco mi porta a fare un giro della sua finca. Mi mostra le vacche da latte che ne producono mediamente venti litri al giorno cadauna. Ne ha di


1VSB 7JEB

tre razze differenti: Holstein, Holstein rossa e Jersey. La prima è quella che produce più latte. La seconda ha un latte più ricco rispetto alla prima. La terza ha un latte ancora più ricco, seppur a fronte di una minor produzione. Francisco mette un bicchiere sotto la mammella della mucca e poi me lo porge. Questo è latte! Quello che beviamo noi è acqua sporcata di bianco. Bisogna capirlo. Il latte che beviamo noi è acqua sporcata di bianco.14 Continuiamo il giro della finca e Francisco mi porta a vedere i fiori, le piante da frutto e quelle medicinali. Una in particolare è interessantissima. Si chiama ajenjo ed è utile per tante cose: aiuta la digestione, abbassa la febbre, è antibatterica ed inoltre... attenua l’ansia e l’irrequietezza. È un calmante naturale e per questo motivo è usata da alcolisti, tossicomani, fumatori che cercano di smettere e che sono, nei momenti di astinenza forzata, sopraffatti dall’ansia. La conoscenza delle proprietà dell’ajenjo è patrimonio culturale comune in Costa Rica, così come le nostre nonne e bisnonne conoscevano erbe e piante per far abbassare la febbre, per far passare il mal di stomaco o le sbornie ecc... Questo sapere importantissimo è andato perduto. Oggi noi siamo abituati a correre in farmacia e ingurgitare qualche pillola che per forza deve avere qualche effetto collaterale negativo anche se si affannano ad assicurarci il contrario. L’ajenjo si utilizza tagliuzzandone le foglie, facendole bollire e raffreddare a temperatura ambiente, per poi ingerirle con un bicchiere d’acqua. Il tutto tre volte al giorno. Francisco mi giura che i risultati sono eccezionali e io non vedo perché non dovrei credergli; in fondo non sta cercando di vendermi nulla. Gli chiedo se a Monteverde è attivo un servizio di riciclo e lui mi dice di sì, ma aggiunge che la strada da percorrere non è quella. Sostiene con ragione che il riciclo è “un mostro che divora energia” e che “invece di riciclare per metterci la coscienza a posto, bisogna imparare a riutilizzare, bisogna non sprecare, bisogna usare meno e vivere con meno”. Il concetto di riciclo presuppone generare spazzatura a monte ed è questa l’assurdità: “il rifiuto non esiste in Natura”. Dice che più intelligente del riciclo è il riutilizzo. “Possiamo riutilizzare e riadattare per mettere a buon fine tutto ciò che è già disponibile. Ad esempio, guarda queste fioriere che 14. Ancora Terzani: “Vai al supermercato per comprare una bottiglia di latte, e ci sono decine di latti. Ma dov’è quello bono, quello della mucca dov’è? Quello è pastorizzato, quell’altro riciclato, quello è bono per sei mesi, quello per sei giorni, ma il latte della mucca dov’èèèè?”.


1BSUF *

ho ricavato da vecchi copertoni di camion”. È vero. Si è inventato bellissime fioriere da grosse gomme di camion che poi ha riverniciato. “Tutto ha una seconda e anche una terza vita. Il problema è che quando la gente ha bisogno di qualcosa, mette il sedere sulla macchina e si infila nel primo negozio che trova. Non è più abituata a usare il cervello, ad aguzzare l’ingegno, a stimolare la fantasia”. Ecco un altro bell’esempio di economia che cresce e contestuale nostro impoverimento. Il tour continua e Francisco mi mostra un pilón in pietra e un mano, utilizzati per macinare il caffè (una specie di mortaio e pestello) ed una vecchissima piedra de moler (che mi dice provenire dall’antica cultura maya) che serve per macinare il grano. Ma la cosa a cui Francisco tiene davvero è la riforestazione. Piantare alberi. Ora sta riforestando la sua finca di sedici ettari con cipressi e tubu. Il cipresso è l’albero migliore per attenuare la forza del vento (che a Monteverde è fortissimo), mentre il tubu ha un frutto leggero i cui semi vengono mangiati dagli uccelli, “fertilizzati” nel loro processo digestivo, e una volta scaricati sul terreno fanno nascere altri alberi. In questo processo seme-pianta-frutto-uccello e di nuovo seme c’è tutta la straordinaria meraviglia del ciclo della vita. Il lavoro di riforestazione di Francisco è reso però difficile dalla mancanza di acqua di cui Monteverde soffre nei lunghi mesi estivi, e così molti degli alberi che pianta muoiono entro il primo anno di vita. “Non sprecare mai acqua. L’acqua è la prima fonte di vita. Non sprecare mai acqua, ricordatelo”. Il suo è un appello accorato e pieno di buon senso. Dalla sua terra c’è una vista splendida sul Golfo di Nicoya distante più di sessanta chilometri e Francisco l’anno scorso ha rifiutato un’offerta di settecentomila dollari (quasi il triplo del valore di mercato) da parte di un grande gruppo alberghiero spagnolo. Me lo ha spiegato così: “Quei soldi finiranno prima o poi, e allora cosa faranno i miei figli e i miei nipoti? È molto meglio che la terra rimanga nostra, che i miei figli la lavorino, che abbiano un bel posto dove vivere e che continuino a piantare alberi”. Mi sembra il discorso di una persona che guarda al futuro; per farlo durare, per far sì che ci sia un futuro. E io, imparo più ad ascoltare lui o un telegiornale?


Andrea Bizzocchi

Appunti di viaggio, riflessioni ed esperienze tra la cultura, i personaggi e la natura selvaggia della Costa Rica

Andrea Bizzocchi (bizzo14@libero.it), nato a Fano nel 1969, risiede per lunghi periodi dell’anno in Costa Rica, terra che ha dato i natali alle due figlie. Persona eclettica e dagli innumerevoli interessi, ha pubblicato nel 2004 il saggio Piccole riflessioni di un criceto in gabbia e nel 2009 il saggio Ritorno al passato. La fine dell’era del petrolio e il futuro che ci attende.

www.terranuovaedizioni.it Racconti di viaggio in Centro America, la terra dove Pura Vida, saluto nazionale della Costa Rica, è un’arte di vivere coltivata da tutti e da sempre. Le pagine del libro scorrono a volte leggere, a volte infuocate, dense di critica alla crescita economica forzata o piene di umanitĂ per i numerosi personaggi straordinari incontrati lungo il cammino. Il tutto sullo sfondo di una natura spettacolare e tra le piĂš integre del Pianeta. Profondo conoscitore del Centro America, e della Costa Rica in particolare, l’autore condivide con il lettore il suo vagabondare alla ricerca di un’utopia possibile, di un nuovo modello di vita. Ma Pura Vida è soprattutto la cronaca appassionata di un uomo alla ricerca di se stesso, perchĂŠ, come sempre, il viaggio piĂš emozionante è quello che percorriamo dentro di noi. Pura Vida è dunque non solo un libro di viaggi, di riflessioni e di avventure, ma anche un invito sincero a prendere la vita nelle proprie mani per intraprendere una strada diversa da quella della crescita economica senza limiti e, come suggerisce Gandhi, essere noi stessi il cambiamento che vorremmo ci fosse nel mondo. ISBN 88-88819-48-8

â‚Ź 11,00


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.