ATLANTE
DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
Sesta edizione
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO Sesta edizione Dedicata a tutti coloro che sono morti per raccontarci come vanno le cose
Associazione 46째 Parallelo
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO SESTA EDIZIONE Direttore Responsabile Raffaele Crocco Capo Redattore Federica Ramacci
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In redazione Beatrice Taddei Saltini Daniele Bellesi Hanno collaborato Paolo Affatato Mario Boccia Manu Brabo Fabio Bucciarelli Nicole Corritore Cecilia Dalla Negra Angelo d’Andrea Davide Demichelis Danilo Elia Marina Forti Federico Fossi Emanuele Giordana Ruggero Giuliani Flora Graiff Diego Ibarra Sánchez Rosella Idéo Adel Jabbar Flavio Lotti Enzo Mangini Federica Miglio Razi Mohebi Sohelia Mohebi Enzo Nucci Ilaria Pedrali Alessandro Piccioli Emanuele Profumi Alessandro Rocca Ornella Sangiovanni Pino Scaccia Luciano Scalettari Alessandro Turci Guillem Valle Alessandro Vanoli Roberto Zichittella
Un ringraziamento speciale a: Gabriele Eminente, Direttore Generale Medici Senza Frontiere Italia
Redazione Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it
Carlotta Sami, Portavoce Unhcr Italia Riccardo Noury, Portavoce di Amnesty International Marica Di Pierri, Presidente Cdca Estela Carlotto, Presidente Abuelas de Plaza de Mayo Giovanni Scotto, Presidente del corso di laurea Sviluppo economico, cooperazione internazionale, socio-sanitaria e gestione dei conflitti (SECI) Il progetto, Tentativi di Pace, è stato realizzato con la collaborazione di studenti del SECI e del corso di laurea in Scienze Politiche: Nicola Delle Foglie Pietro Fantechi Andrea Francioni Zoe Guerrini Renata Yusupova
Progetto grafico ed impaginazione Daniele Bellesi Progetto grafico della copertina Daniele Bellesi
Foto di copertina "Un guardiano Dinka controlla la sua mandria al campo di Yirol" il 13/02/2014 ©Fabio Bucciarelli www.fabiobucciarelli.com
Testata registrata presso il Tribunale di Trento n° 1389RS del 10 luglio 2009 Tutti i diritti di copyright sono riservati ISSN: 2037-3279 ISBN-13: 978-8866810759 Finito di stampare nel febbraio 2015 Grafiche Garattoni - Rimini
Algeria Ciad Costa d’Avorio Liberia Libia Mali Nigeria Repubblica Centrafricana Repubblica Democratica del Congo Sahara Occidentale Somalia Sudan Sud Sudan
Colombia Haiti
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Editoriale Raffaele Crocco Saluti Amministratori Introduzione Riccardo Noury Introduzione Gabriele Eminente Introduzione Marica Di Pierri Introduzione Francesca Chiavacci Istruzioni per l’uso La Redazione La situazione Raffaele Crocco In cerca della pace/1 Giovanni Scotto In cerca della pace/2 Flavio Lotti Informazione e guerra Pino Scaccia Vittime di guerra/1 Razi e Sohelia Mohebi Vittime di guerra/2 Ruggero Giuliani Vittime di guerra/3 Enzo Nucci Geografia della guerra Rosella Idéo Non solo guerra Enzo Nucci SPECIALE CoNFLITTI AMBIENTALI Conflitti ambientali/1 Cdca Conflitti ambientali/2 Cdca Conflitti ambientali/3 Cdca Conflitti ambientali/4 Cdca Conflitti ambientali/5 Cdca Africa Diritti umani difficili Amnesty International Un laboratorio per la pace Giovanni Scotto SCHEDE AFRICA Inoltre Burkina Faso - Etiopia - Guinea Bissau - Uganda America Violenza e pena di morte Amnesty International Una terra sempre in bilico Giovanni Scotto SCHEDE AMERICA Inoltre Messico Asia Democrazia e Diritti Amnesty International Troppo facile distribuire le colpe Giovanni Scotto SCHEDE ASIA Inoltre Birmania/Myanmar - Cina/Xinjiang - Corea del Nord/Sud Iran - Kirghizistan Medio Oriente Lo scontro Israele-Palestina Amnesty International Sembra finito l’ordine post-coloniale Giovanni Scotto SCHEDE MEDIO ORIENTE Europa Respingimenti Amnesty International La fragilità dell'Europa Giovanni Scotto SCHEDE EUROPA Inoltre Irlanda del Nord - Nagorno Karabakh - Paesi Baschi SPECIALE SVOLTA ISLAM La vecchia Grande Guerra Adel Jabbar Svolta Islam: tutto come prima Ilaria Pedrali Svolta Islam: una prospettiva storica Alessandro Vanoli Svolta Islam: il glossario Alessandro Vanoli Le missioni Onu Nazioni Unite - I Caschi Blu Raffaele Crocco Vittime di guerra/4 Federico Fossi SPECIALE DONNE E GUERRA Donne e Guerra/1 Carlotta Sami Donne e Guerra/2 Estela Carlotto Donne e Guerra/3 Nicole Corritore Donne e Guerra/4 Mario Boccia La pirateria Alessandro Rocca Le vignette di Kako Flora Graiff Non solo Atlante 46° Parallelo Gruppo di lavoro Fonti Glossario Ringraziamenti
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Indice
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Idea e progetto Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento
Edizione Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it In collaborazione con Editrice AAM Terra Nuova S.r.l. Via Ponte di Mezzo, 1 50127 - Firenze Tel. +39 055 3215729 info@aamterranuova.it www.aamterranuova.it
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Editoriale
Giorni pieni d’odio e di ingiustizia La disuguaglianza alimenta la guerra
UNHCR/S. Schulman
Il Direttore Raffaele Crocco
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’incertezza è se parlare della tragedia di Ebola, gonfiata dall’incapacità internazionale di capire la portata del problema o se affrontare temi più diretti, per quanto riguarda la guerra. Ad esempio, uno Stato Islamico imposto con il terrore; una guerra in Europa, in Ucraina, dagli odori antichi; un massacro che continua nei Territori Palestinesi. Il Pianeta continua ad avere la febbre e le ragioni che portano a conflitti armati, guerre, scontri, si moltiplicano, esattamente come crescono ingiustizie, differenze sociali, disuguaglianze. Il 2014 si è chiuso con pochi risultati positivi. In estate abbiamo, ad esempio scoperto, che sono 63 i Paesi in via di sviluppo che hanno raggiunto l'obiettivo di debellare la fame cronica e altri sei sono sulla buona strada. Il numero di persone al mondo che rischiano la pelle per mancanza di cibo è quindi sceso a 100milioni di individui. Cifra spaventosa, ma in calo netto e costante. Insomma, una buona cosa, che fa il paio con il rallentare di Ebola nei Paesi africani. Per il resto, c’è poco da stare allegri, meglio dirselo subito. Gli economisti, ad esempio, hanno confermato che il divario fra popolazione ricca e povera continua a crescere, in modo esponenziale. Una cosa, questa, che certamente non fa bene ai rapporti fra esseri umani. Così, dal punto di vista della guerra, il 2014 è degno figlio di quel ’14 che cent’anni prima ha dato la stura al massacro che continua anche oggi. Pensate il caso: nella Prima Guerra Mondiale furono 46 i Paesi coinvolti. Oggi abbiamo 33 Paesi in guerra e una decina sono in pericolo. Contate: le cifre tornano. Per capire come non ci sia respiro, basta fare la cronaca di una giornata qualsiasi. A me è capitato di farlo un po’ prima del 15 agosto 2014. Ve la riporto. “Il consiglio dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea, a Bruxelles, ha accolto con “favore" la decisione di alcuni stati membri di armare i curdi iraqueni che combattono i miliziani dell’Isis, il neo creato califfato musulmano. Intanto, in Iraq, continuano i combattimenti, durissimi, fra i peshmerga curdi e i miliziani islamici. Sul monte Sinjar, la minoranza Yazida resta sotto assedio, trecento i morti accertati. In Ucraina, il Governo di Kiev ha confermato l’incursione di una colonna militare russa sul proprio territorio. L’artiglieria dell'esercito avrebbe distrutto gran parte della colonna di automezzi blindati per il trasporto delle truppe. In Libia gli scontri per il controllo della capitale - Tripoli - continuano da giugno, con le delegazioni straniere in fuga. Intanto, a Gaza tiene a fatica la tregua. Le fazioni radicali israeliane e palestinesi non gradiscono i tentativi di pace in corso, protestano. In Nigeria i miliziani integralisti islamici di Boko Haram - gli stessi che hanno rapito e mai rilasciato centinaia di studentesse due mesi fa - hanno sequestrato "decine di persone" fra le comunità di pescatori nel Nord-Est”. Tutto questo, ve lo garantisco, in un solo, assolato e pigro, giorno d’agosto. È davvero difficile parlar bene dell’anno che è passato.
Introduzione
Da Srebrenica a Kobane
La vita difficile dei Diritti Umani
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Nel 2015 ricorre il ventesimo anniversario del genocidio di Srebrenica, il peggior crimine commesso in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Migliaia e migliaia di musulmani bosniaci, tutti maschi in età da combattimento, vennero trucidati in un tempo brevissimo, con metodo e sistema, da parte dell’armata dei serbi di Bosnia. I caschi blu olandesi, abbandonati a sé stessi, lasciarono fare. La sorte di Srebrenica era stata decisa il 24 maggio 1995, in una riunione riservata alle Nazioni Unite coi rappresentanti degli stati membri del Consiglio di sicurezza e dei Paesi che avevano truppe nei Balcani. Quel giorno, il generale Bernard Janvier, comandante delle forze Onu in Bosnia e Croazia, chiese ai diplomatici presenti di lasciare alla loro sorte le “zone protette”. Srebrenica era sotto assedio da due anni. Circondata, fiaccata, venduta, sconfitta. Perché penso a Srebrenica e mi viene in mente Kobane? Kobane sta a Srebrenica perché l’una e l’altra sono il risultato di un fallimento estremo, politico e morale, della comunità internazionale degli stati. Srebrenica poteva e doveva essere salvata due anni prima del genocidio, mentre a Kobane lo Stato islamico neanche avrebbe dovuto arrivarci. Nell’aprile 2012 Amnesty International pubblicò l’ennesimo rapporto sulla Siria, una ricerca sull’irruzione sulla scena del conflitto dei gruppi armati islamisti nella zona di Raqqa. Il rapporto conteneva inquietanti testimonianze sulle conseguenze dell’introduzione della sharia, sulle corti islamiche, sulle sanzioni corporali inflitte ai responsabili di “comportamenti anti-islamici”, sull’asservimento delle donne. Oggi, a oltre due anni di distanza, le rassegne stampa sono piene, per l’ennesima volta, di espressioni come “Sin dal 2012, Amnesty International aveva denunciato…”. Quelle frasi dovrebbero essere completate dall’autocritica: “… ma a noi, nel 2012, tutto questo non interessò”. Già, perché all’epoca il nemico era Bashar al-Assad e per sconfiggerlo era necessario finanziare e rafforzare militarmente i suoi oppositori. Il machiavellico Presidente siriano ha lasciato fare. Il suo obiettivo era indirettamente coincidente: lasciar crescere quello che, agli occhi di chi lo considerava un nemico, si sarebbe rivelato un nemico più grande. Ecco come l’allora Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) si è impiantato in Siria per poi farsi metastasi nell’estate 2014 nel Nord dell’Iraq, passando come una ruspa sopra ogni espressione umana che non fosse arabo sunnita. Per poi puntare indietro, verso Kobane, mentre in Iraq le milizie sciite e le forze armate di Baghdad facevano contro-pulizia etnica nei confronti dei civili sunniti. Quando andrà in stampa questo volume, cui anche quest’anno Amnesty International Italia è orgogliosa di collaborare, la sorte di Kobane sarà stata in parte diversa da quella di Srebrenica. Lo prevedo e, nei momenti in cui non lo prevedo, continuo a sperarlo. Riccardo Noury Portavoce Amnesty International
Introduzione
Azione umanitaria e denuncia
MSF e la testimonianza nelle zone di guerra
Gabriele Eminente Direttore Generale Medici Senza Frontiere Italia
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elle zone di guerra Medici Senza Frontiere (MSF) non si schiera con nessuna delle parti in conflitto ma offre cure mediche solo sulla base dei bisogni della popolazione. Mantenere la nostra neutralità è essenziale per riuscire a raggiungere le persone che hanno più bisogno di soccorso e sono più esposte al rischio di attacchi. I conflitti, siano internazionali o interni, hanno conseguenze drammatiche: la paura della violenza o della persecuzione mette in fuga intere comunità, e chi resta spesso non ha accesso alle cure mediche; inoltre i conflitti, oltre a comportare un aumento delle lesioni da trauma, creano grandi problemi anche a chi ha bisogno di cure mediche di routine, come nel caso di complicazioni nelle gravidanze o malattie croniche come il diabete. È il caso dei pazienti, rifugiati siriani, di cui ci prendiamo cura in Libano nel Dar El Zahra Hospital a Tripoli e in altre quattro cliniche nella valle della Bekaa. Ma l’azione di MSF non si limita al soccorso medico: negli anni abbiamo più volte parlato pubblicamente e denunciato gli atti di violenza, la mancanza di accesso alle cure e le crisi dimenticate di cui siamo stati testimoni diretti perché i principi d’imparzialità e neutralità non sono sinonimo di silenzio. Decidere di testimoniare è però sempre una scelta difficile perché in molti casi una denuncia può compromettere la possibilità di continuare a operare nel Paese in questione. Nel 2005, MSF venne espulsa dall’Etiopia per aver pubblicamente denunciato le deportazioni forzate di parte della popolazione civile. Nel 2009 è la volta del Sudan, dal quale vengono cacciate due sezioni di MSF accusate dal Governo di agire in connivenza con la Corte Penale Internazionale. Nel 2014 abbiamo inoltre deciso di condannare pubblicamente i bombardamenti contro i civili nella Striscia di Gaza, durante l’operazione militare israeliana “Margine Protettivo”, così come l'attacco sferrato il 28 luglio contro l’ospedale di Al Shifa a Gaza City, dove lavora anche un’équipe chirurgica di MSF. Numerose sono state poi le testimonianze dirette degli operatori umanitari impegnati in Iraq riguardo i pesanti bombardamenti e attacchi aerei nelle zone Settentrionali e Centrali del Paese che in estate hanno colpito ospedali e altre strutture mediche. In Sud Sudan, anche nel 2014 siamo stati testimoni dei continui sfollamenti dei civili a causa delle violenze tra gruppi armati. Ad aprile abbiamo denunciato la Missione delle Nazioni Unite nella capitale, Juba, per le pessime condizioni di accoglienza riservate agli sfollati nel campo di Tomping. Sempre quest’anno abbiamo presentato “L’impatto della guerra”, un documentario multimediale che racconta una giornata del conflitto in corso in Siria dalla prospettiva degli operatori umanitari, dei pazienti e dei rifugiati. Dopo quattro anni, la guerra in Siria ha ucciso più di 150mila persone, ha costretto più di nove milioni di persone ad abbandonare la propria casa, un terzo delle quali ha lasciato il Paese. Per quanto sconcertanti, le cifre non riescono a trasmettere la reale portata del conflitto e l’impatto che esso ha sulle vite degli individui. Durante tutto il 2014 abbiamo continuato a richiamare l’attenzione pubblica sulla violenza sistematica dei gruppi armati in Repubblica Centrafricana ai danni della popolazione civile, sempre più intrappolata nel conflitto. Anche noi di MSF siamo stati vittime di continui attacchi, che hanno messo a serio rischio la nostra capacità di proseguire nel fornire cure salvavita in quel Paese. È un dato di fatto che la dinamica dei conflitti degli anni recenti mette sempre più spesso “sotto tiro” l’azione medico-umanitaria, e le organizzazioni, come MSF, che la portano avanti. Per questo motivo abbiamo avviato un’iniziativa, “Medical Care Under Fire”, che intende documentare la crescente difficoltà a portare il nostro soccorso alle popolazioni che ne hanno bisogno. Denunciare violazioni del diritto umanitario e denunciare attacchi al sistema umanitario: sono due aspetti centrali nella nostra azione di testimonianza. Azione indispensabile per continuare a portare il nostro aiuto, come facciamo dal 1971, a chi ne ha più bisogno, anche nei contesti di guerra.
Introduzione
Guerra al pianeta
Conflitti ambientali e giustizia climatica
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uesta sesta edizione dell'Atlante viene pubblicata in un anno cruciale per le politiche ambientali a livello mondiale. A fine 2015 si terrà infatti a Parigi la 21° Conferenza delle Parti Onu sul Clima, per discutere (e verosimilmente siglare) un accordo internazionale sulla riduzione delle emissioni clima-alteranti che rimpiazzi il protocollo di Kyoto e che aiuti a contenere l'ormai irreversibile processo di riscaldamento globale entro i 2° medi di temperatura. Si tratta, dopo il vertice di Copenaghen del 2009, del primo momento in cui nuovamente l'attenzione della comunità internazionale, dei media, dei governi, dei movimenti sociali e dei grandi attori economici si concentrerà su un tema che, nonostante i continui allarmi degli scienziati e nonostante incida sempre più pesantemente sulla vita di milioni di persone in tutto il mondo, latita nell'agenda politica globale: il cambiamento climatico. Dopo i buchi nell'acqua dei vertici Onu di Cancun (2010), Durban (2011), Doha (2012), Varsavia (2013) e Lima (2014), contrassegnati da una generalizzata mancanza di volontà politica per l'adozione di impegni concreti e da un assordante silenzio mediatico, sulla capitale francese sono concentrate le aspettative per il varo di una strategia globale. Il complesso gioco delle parti tra Paesi industrializzati e nuovi colossi economici, Cina e India in testa, assieme all'indisponibilità ad un nuovo accordo di Paesi come Canada, Russia e Giappone minano il cammino per un protocollo vincolante. Da anni la comunità scientifica avverte che il punto di non ritorno è pericolosamente vicino: entro il 2050 sarà necessario abbattere del 70% le emissioni se si vuole evitare l’apocalisse climatica. Lungi dall'essere un tema di pertinenza scientifica, il cambiamento climatico si traduce in un verdetto di condanna per una cospicua parte della popolazione mondiale, soprattutto nei Sud del mondo. Migliaia di comunità vedranno inondati o devastati i propri territori, perderanno i mezzi di sussistenza, saranno costretti a migrare. Secondo l'Unep, saranno 50milioni i profughi del clima solo in Africa entro il 2060 a causa della desertificazione galoppante. Allo stesso tempo anche nei paesi industrializzati le condizioni climatiche instabili e l'aumento degli eventi meteorologici estremi mietono ogni anno un numero crescente di vittime, complici i danni prodotti, in termini di dissesto idrogeologico, dalla cementificazione selvaggia e più in generale da una gestione irresponsabile del territorio. È chiaro che, così posta, la questione del clima riguarda da vicino il campo della giustizia sociale e del rispetto dei diritti umani fondamentali. Come è chiaro che molteplici sono le connessioni tra emissioni di gas serra, strategie per il controllo delle fonti fossili, interessi delle grandi multinazionali petrolifere, conflitti armati, conflittualità sociale sui territori e crescita della povertà. Abbiamo provato a rappresentare tutto questo nell'info-grafica di copertina, dedicata - nell’anno che ci auguriamo possa essere una chiave di volta per la lotta al riscaldamento globale - proprio a giustizia climatica e conflitti.
Marica Di Pierri Presidente Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali
Introduzione
Un lavoro quotidiano per la pace Informazione e cultura, strumenti di libertà
Francesca Chiavacci Presidente ARCI
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a responsabilità di chi racconta la guerra è grande. Può limitarsi ad agitare irrazionalità, paure, odio. Oppure stimolare il pensiero. Può generare abitudine e assuefazione. Oppure mobilitare le coscienze. E oggi quella responsabilità è forse ancora più grande. L'ecosistema delle comunicazioni in cui tutti sono connessi (e spesso sono soli) consente di dedicare alla parola “guerra” tante pagine dei giornali, tante immagini delle televisioni, tante foto e video postate sui social network. Oggi raccontare le guerre e i conflitti è possibile come non mai. Ma il rischio rimane sempre lo stesso: non riuscire ad andare oltre scorci parziali, estremamente parziali. Si resta in superficie, si predilige l'aspetto più spettacolare e/o più violento. Eppure le guerre nel mondo, però, non sono solo quelle di cui abbiamo immagini “spettacolari”. Ce ne sono tante altre: sono quelle che una globalizzazione ingiusta e politiche economiche fondate sul predominio dei più forti sui più deboli producono quotidianamente. Le guerre nel mondo, purtroppo, non sono solo quelle di cui gli organismi sovranazionali sembrano occuparsi, ma i tantissimi conflitti che producono centinaia di migliaia di vittime civili e che, a fatica, si affacciano sul grande circuito mediatico. Per questo occorrono strumenti di conoscenza approfonditi e accurati per tenere aperta la prospettiva sulla visione generale. L’Atlante delle guerre fonda la sua “filosofia di racconto” (anche nella sua impaginazione) su questa considerazione: non ci sono guerre ‘più importanti’ o ‘meno importanti’ oppure 'più giuste' o 'meno giuste'. Le guerre nel mondo sono tutte uguali. Informazione e cultura non si limitano ad agitare, ma si fondano sulla conoscenza e forniscono strumenti di consapevolezza. Conoscere significa poter scegliere, imparare significa acquisire libertà. Per questo con grande piacere sosteniamo anche quest'anno la nuova edizione dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti, che è come sempre accurata, aggiornata e frutto di un lavoro collettivo importante e coraggioso. Lo useremo nella nostra attività quotidiana di associazione che da sempre si è battuta per la pace, per l’affermazione dei diritti umani e della giustizia sociale. Ci sono stati momenti in cui il movimento pacifista ha espresso attraverso grandissime manifestazioni in tutto il mondo il proprio dissenso; oggi siamo in una fase diversa, più complessa: la ricostruzione di un senso collettivo di responsabilità, ritrovare forme collettive di discussione è più difficile, ma come ARCI continuiamo con ostinazione a farlo, nelle reti di cui facciamo parte, insieme a tanti e a tante, nelle nostre attività nel territorio, consapevoli che il pacifismo è uno dei nostri tratti identitari. È proprio in momenti come questo che sono utili strumenti per ragionare e discutere e l’Atlante rappresenta uno di questi strumenti, intorno al quale si possono organizzare momenti di dibattito e di iniziativa politica. Continueremo a distribuirlo e consigliarlo ai tanti formatori che credono ancora nella conoscenza come strumento di uguaglianza e libertà per ragionare su come e quanto oggi la guerra rappresenti uno dei mezzi più importanti (forse il più importante) di affermazione di un sistema economico ingiusto, fondato sul disprezzo delle vite umane. Ci servirà per continuare a dimostrare che non è attraverso la guerra che si affermano “civiltà” e “democrazia”.
ASIA ELENCO DEI PAESI IN CONFLITTO Afghanistan Cina/Tibet Filippine India
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Come leggere le Mappe
Nella Mappa Onu, qui sopra, troverete solamente indicato lo Jammu and Kashmir poichè si tratta dell’antico nome dell’intera area contesa da India, Pakistan e Cina. La Mappa, qui a destra, indica invece la spartizione di fatto dei territori da parte dei suddetti Stati, con diversa denominazione, mai riconosciuta a livello internazionale.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
La violenza torna in primo piano in Kashmir, il territorio all'estremo Nord-Ovest del subcontinente indiano, teatro di una rivolta nazionalista interna e allo stesso tempo conteso tra India e Pakistan. Nei primi mesi del 2014 si sono moltiplicati gli scontri lungo la Linea di Controllo, la frontiera Si chiama Loc, acronimo di Line di fatto che separa lo stato di Jammu e Kashof Control, "Linea di Controllo". mir, sotto sovranità indiana, dai territori di Azad Separa la Regione del Kashmir Kashmir, Gilgit e Baltistan sotto il controllo del sotto sovranità indiana da quella Pakistan. Sono ripresi di intensità gli scontri tra sotto il controllo del Pakistan: era truppe indiane e miliziani armati provenienti dal la linea su cui erano assestati i territorio controllato dal Pakistan, secondo un rispettivi eserciti al momento del trend ventennale. cessate-il-fuoco che nel 1949, con Nel corso dell'estate però sono avvenuti anche la mediazione dell'Onu, mise fine numerosi scontri tra i due eserciti, in violazione alla prima guerra tra i due Paesi del cessate-il-fuoco concordato nel 2003. È la da poco indipendenti; è monitorato più grave escalation da un decennio, e mentre da una missione Onu. Non è una India e Pakistan si accusano a vicenda di violare frontiera internazionale ricono- gli accordi, la popolazione civile è la prima vitsciuta, perché resta oggetto di tima: all'inizio di ottobre nel Kashmir indiano si rivendicazione. È stata sancita però contavano ormai oltre 1500 sfollati, in fuga dai come confine di fatto nel 1972, villaggi prossimi alla frontiera per sottrarsi agli con gli Accordi di Simla (alla fine scambi di fuoco. di una nuova guerra tra Pakistan A quanto pare neppure l'inondazione del sete India che segnò la nascita del tembre 2014, che ha fatto oltre 500 morti e Bangladesh). La Loc resta permea- lasciato un milione di senza tetto, è bastata bile all'infiltrazione di combattenti a sospendere le ostilità: nonostante le buone armati (dal lato pakistano a quello parole sull'emergenza umanitaria, la tensione indiano), ma per la popolazione resta alta. civile è una barriera insormontabile Il bollettino delle vittime ha ripreso a salire. Seche separa villaggi e famiglie. Tra i condo il South Asia Terrorism Portal 181 persodue lati non funzionano le normali ne sono rimaste uccise nel 2013 (di cui 20 civili, connessioni telefoniche e solo in 61 uomini delle forze di sicurezza indiane e 100 rarissime occasioni si sono avute guerriglieri). visite e ricongiungimenti familiari. Nel 2014 si contano 134 morti fino al 26 ottobre (19 civili, 33 delle forze di sicurezza, 82 guerriglieri). Siamo ancora lontano dal picco di 4500 morti nel 2001, o anche dagli oltre mille del 2006; ma se da allora il Generalità numero delle vittime era in calo Nome completo: Jammu e Kashmir costante (il 2012, con 117 morti, è Bandiera stato in assoluto l'anno meno sanguinoso dal 1990), ora la tendenza è invertita. Da un lato, preoccupa l'evidente ripresa di attività di formazioni come Lingue principali: Hindi, Inglese Hizb-ul-Mojaheddin o Lashkar-e Capitale: Jammu e Srinagar Taiba, organizzazioni "jihadiste" che (rispettivamente capitali hanno base in Pakistan. invernale ed estiva dello Nell'establishment di sicurezza inJammu e Kashmir) diano è convinzione diffusa che il Popolazione: 12.500.000 ritiro delle forze della Nato dall'AfArea: 222.236 Kmq ghanistan entro la fine del 2014 porterà queste organizzazioni a riReligioni: Musulmana ma nella lanciare le loro attività sul 'fronte' regione Jammu prevale la hindu e in quella del del Kashmir. Ladakh quella buddhista Un video circolato nel giugno 2014 Moneta: Rupia conferma i timori: dirigenti di al-Qaeda fanno appello ai musulmani del Principali Frutta, lane di cacheKashmir a unirsi alla «guerra santa» mire, tessuti ricamati, esportazioni: pietre lavorate globale come i 'fratelli' in Siria e in Iraq. Il video promette che «una PIL pro capite: n.d.
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La Linea di Controllo
Generalità Nome completo:
Azad Jammu e Kashmir
135
Bandiera
Lingue principali:
Kashmiri, Urdu, Hindko, Mirpuri, Pahari, Gojri
Capitale:
Muzaffarabad
Popolazione:
4.500.000
Area:
13.297 Kmq
Religioni:
Buddista, musulmana, induista, sikh
Moneta:
Rupia
Principali esportazioni:
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PIL pro capite:
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carovana» di «eroici martiri» dall'Afghanistan arriverà a «liberare il Kashmir». È la prima volta che al-Qaeda si rivolge in particolare al Kashmir. D'altra parte, anche il dialogo politico interno è bloccato. In Jammu e Kashmir restano in vigore le leggi d'emergenza che danno poteri speciali alle forze di sicurezza, la Armed Forces Special Power Act (Afspa) e la Public Safety Act (Psa), le maggiori fonti di abuso verso la popolazione civile. Come sempre, vere vittime dello scontro sono le persone disarmate.
nel giugno 2013; il Pakistan guarda con sospetto il governo insediato a New Delhi nel maggio 2014, guidato dal nazionalista hindu Narendra Modi. Le forze nazionaliste del Kashmir restano divise su questioni strategiche fondamentali. Gli indipendentisti rivendicano il referendum per l’autodeterminazione raccomandato da una risoluzione dell’Onu nel 1948: ma per alcuni "autodeterminazione" significa scegliere tra India e Pakistan; per altri include l'opzione dell’indipendenza, rifiutata sia da New Delhi che da Islamabad. La prima rivendicazione comune però è revocare le leggi speciali, mettere fine alla militarizzazione della vita quotidiana e all'impunità delle forze di sicurezza, fare luce su esecuzioni extragiudiziarie, torture, stupri, o la scomparsa di migliaia di persone. Mentre una generazione cresciuta nel conflitto rivendica libertà ma non si aspetta nulla da un dialogo che si trascina da troppi anni: terreno fertile per nuovi cicli di rivolta.
Per cosa si combatte
Il conflitto del Kashmir è una delle crisi regionali più prolungate del subcontinente indiano. È un conflitto allo stesso tempo interno (all’India) e tra stati (India e Pakistan): e questo fa del verdeggiante Kashmir, circondato da ghiacciai himalayani là dove si toccano India, Pakistan e Cina, una polveriera con implicazioni regionali. Il Kashmir è una delle eredità irrisolte della Spartizione del 1947, quando dalla vecchia India britannica sono nate due nazioni separate, il Pakistan musulmano e l’India multireligiosa e secolare benché a maggioranza hindu. Il principato di Jammu e Kashmir (che includeva Jammu, Kashmir e Ladakh e i territori di Gilgit e Baltistan) fantasticò di restare indipendente ma infine optò per l’India, con un atto formale che ne fece uno stato dell’Unione indiana in un quadro di ampia autonomia. La decisione presa dal locale maharaja Hari Singh (hindu) con l’accordo dei notabili nazionalisti guidati da Sheikh
Abdullah (musulmano) fu sgradita ai dirigenti pakistani, che rivendicavano il Kashmir. La disputa è sfociata nel 1948 nella prima guerra tra India e Pakistan. La linea di cessate-il-fuoco negoziata nel 1949 con la mediazione delle Nazioni Unite è diventata il confine di fatto ("Linea di Controllo", Loc): a Ovest il settore sotto controllo pakistano (circa un terzo del territorio originario), a Est la parte sotto sovranità indiana (capitali Srinagar e Jammu). Una zona di ghiacciai all’estremo Nord (10% del territorio originario) è stata ceduta dal Pakistan alla Cina nel 1962. Le risoluzioni delle Nazioni unite del 1948 e ‘49 chiesero al Pakistan di ritirare le proprie forze dal territorio occupato e sollecitavano un referendum perché i kashmiri potessero decidere il proprio futuro. Il Pakistan non si ritirò, e l’India se ne fece una scusa per non indire mai il plebiscito. Il periodo post indipendenza ha visto un crescente attrito tra le classi dirigenti kashmire
Quadro generale
136
Le parti in causa sono almeno tre: l'India, il Pakistan, e gli abitanti del Kashmir. Per India e Pakistan si tratta di una contesa territoriale: per il Kashmir hanno combattuto due guerre dichiarate (nel 1948-49 e nel 1965) e una non dichiarata (nell’estate del 1999), oltre a una lunga "proxy war" condotta da guerriglieri infiltrati dal Pakistan nel territorio sotto controllo indiano (Islamabad dichiara di dare ai musulmani del Kashmir solo "sostegno morale e politico"). Dall'inizio di questo secolo si sono alternati momenti di escalation e di relativa calma. Nel 2002 le due potenze atomiche hanno schierato i rispettivi eserciti in stato di massima allerta; tra il 2005 e il 2008 hanno avviato il ciclo di dialogo più promettente dal 1947. Nel dicembre 2008 l'attacco terroristico a Mumbai, organizzato dal gruppo jihadista Lashkar-e-Taiba (che ha base in Pakistan), ha riportato il gelo: e benché nell’agosto 2011 siano ripresi i contatti bilaterali, le relazioni restano fredde. L'India diffida del premier pakistano Nawaz Sharif, insediato
Il fronte di guerra più alto del mondo
I simboli contano: il primo Ministro indiano Narendra Modi ha celebrato la festività hindu di Diwali, nell'ottobre 2014, con una visita lampo sul ghiacciaio di Siachen, dove truppe indiane fronteggiano quelle pakistane a 6700 metri di altezza. Il Siachen, tra la catena del Karakorum e il Ladak, alla confluenza tra India, Pakistan e Cina, è il più alto fronte di guerra al mondo. La posizione inaccessibile (e non strategica) ne aveva fatto una terra di nessuno. Finché nel 1984 l'esercito indiano ha cominciato a trasferirvi uomini e attrezzature con un ponte aereo, e ha costruito postazioni lungo il presumibile tracciato della Linea di Controllo che qui segna il confine di fatto tra India e Pakistan. L'esercito pakistano ha risposto facendo altrettanto. Mantenere truppe e attrezzature a quell'altezza è un costo enorme, di denaro (oltre un miliardo di dollari annuo solo dal lato indiano) e di energia: gran parte delle vittime qui non sono dovute a combattimenti ma a gelo e malattie in quelle temperature tra 40 e 50 gradi sotto zero. In passato molti, sia in India che in Pakistan, hanno proposto di smilitarizzare il Siachen: non serve neppure essere pacifisti, basta una valutazione sui costi e l'importanza strategica. Ma il sospetto reciproco finora lo ha impedito.
TENTATIVI DI PACE
Un progetto del Dalai Lama per gestire i conflitti
Cosa succede quando un disastro naturale colpisce una delle Regioni a più alta densità di militari nel subcontinente indiano? Ci si potrebbe aspettare che uomini e logistica siano messi a frutto in una emergenza umanitaria. Il caso del Kashmir dice il contrario. Nel settembre 2014 l'estremo Nord Ovest del subcontinente indiano è stata colpito da alluvioni disastrose. Nel Jammu e Kashmir piogge torrenziali hanno fatto straripare il fiume Jelhum, uno dei cinque affluenti dell'Indo che scendono dalla catena himalayana, allagando la capitale estiva Srinagar. L'intera valle del Kashmir è stata devastata da straripamenti e frane, così come i confinanti territori di Azad Kashmir e Gilgit-Baltistan (sotto controllo pakistano); l'alluvione ha colpito anche più a valle, nella Provincia pakistana del Punjab. Il bilancio a tutto settembre era di almeno 564 morti (284 metà nel Kashmir indiano, 280 in Pakistan) e di un milione di senzatetto. Nel Jammu e Kashmir in particolare almeno 180mila abitazioni sono distrutte o danneggiate, e nella sola Srinagar in ottobre almeno 50mila persone affrontavano i primi freddi di stagione in ripari di fortuna, per lo più moschee o templi.
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Disastri naturali
“Donne in sicurezza, gestione dei conflitti e Pace” (Wiscomp) è un progetto lanciato a Delhi dalla Fondazione per le Responsabilità Universali del Dalai Lama, che intende promuovere la sensibilità di genere e il rafforzamento del ruolo della donna nei settori di pace, sicurezza e affari internazionali, oltre ad occuparsi di gestione dei conflitti e educazione al peacebuilding. Wiscomp interviene per facilitare la costruzione di rapporti pacifici a livello di politiche e di relazioni in aree di conflitto del Sud asiatico, tra India, Pakistan, Nepal e Afghanistan, con una particolare attenzione dedicata al Kashmir. Workshop ed eventi, oltre a fornire uno spazio per l'incontro tra responsabili politici, attivisti per la pace e accademici, incoraggiano giovani e donne ad impegnarsi nella prevenzione dei conflitti e nella costruzione di fiducia fra etnie, religioni e classi sociali. Educare alla pace è di vitale importanza per gestire senza violenza i conflitti e per consentire maggiore consapevolezza ai giovani nell'accettare le differenze.
e il Governo centrale dell’Unione indiana, che ha via via eroso il regime di autonomia del Jammu & Kashmir. La disaffezione è esplosa nel 1989 in una protesta civile che ha coinvolto un ampio schieramento sociale e politico, dall’Università ai sindacati ai partiti nazionalisti. Alla fine di quell’anno risalgono anche le prime azioni armate contro obiettivi governativi a Srinagar: era l'inizio di una ribellione separatista ha raggiunto nei momenti peggiori l’intensità di una guerra civile. La risposta dello stato centrale indiano è stata dura, e l’escalation inesorabile. Il primo gruppo armato, Jammu & Kashmir Liberation Front (Jklf), è stato presto sbaragliato: erano giovani con idee di lotta di popolo, il loro leader Yasin Malik fu arrestato e nel ‘94 il Jklf ha rinunciato alla lotta armata. Altri protagonisti avevano però preso il sopravvento: il Hizb-ul Mojaheddin, braccio armato del partito conservatore (e filopakistano) Jamiat Islami, a sua volta scavalcato da altre sigle (Jaish-e Mohammad, Lashkar-e-Taiba
I PROTAGONISTI
e altre). Erano i primi anni ‘90 e in Kashmir confluivano armi e combattenti provenienti dall’Afghanistan, formati alla jihad ("guerra santa", in senso politico-militare) contro l'Unione sovietica, e sostenuti dal Isi, il servizio di intelligence militare pakistano. Con loro è arrivato in Kashmir un islam di stampo taleban estraneo alla tradizione sufi locale. È arrivato anche il terrore: attentati contro civili, bombe nei mercati, rappresaglie. Gli hindu del Kashmir, i pandit, sono in gran parte fuggiti. Il Governo centrale ha mandato esercito e corpi paramilitari a contrastare i ribelli, la valle è stata militarizzata. È una guerra largamente manovrata da servizi segreti, ma è la popolazione del Kashmir che ha pagato il prezzo più alto: tra 50 e 80mila persone sono morte dal 1989, in gran parte civili. Senza contare migliaia di desaparecidos e una scia di ingiustizie e abusi che hanno travolto le forze sociali, sindacati, forze politiche, gruppi per i diritti umani. Per questo, la pace in Kashmir dipende sia dalle relazioni tra India e Pakistan, sia dalla capacità dell’India di trovare un assetto democratico condiviso con le forze sociali e politiche di questo territorio.
EUROPA ELENCO DEI PAESI IN CONFLITTO
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Politkovskaja, ecco i colpevoli
Alla fine del 2014, la giuria popolare di un Tribunale di Mosca ha dichiarato colpevoli cinque uomini per l’omicidio di Anna Politkovskaja, la giornalista russa uccisa il 7 ottobre 2006. Sono i fratelli ceceni Rustam, Ibragim e Dzhabrail Makhmudov, il loro zio Lom-Ali Gaitukayev e l’ex dirigente della polizia moscovita Serghiei Khadzhikurbanov. Sono stati considerati colpevoli di avere, a vario titolo, organizzato ed eseguito il delitto. Gli avvocati della difesa hanno annunciato che presenteranno ricorso. La decisione è arrivata a 8 anni dall’omicidio e dopo tre processi burla. Da ricordare che in un processo stralcio, l’ex poliziotto Dmitri Pavliucenkov era stato condannato a 11 anni di carcere duro per aver pedinato la vittima, e fornito l’arma al killer in cambio di 150mila dollari. Politkovskaja lavorava per Novaja Gazeta e aveva spesso attaccato l’esercito russo e il Presidente Putin per violazione dei diritti umani nella guerra in Cecenia.
È davvero una guerra che pare infinita quella della Cecenia. A vent’anni dalla prima invasione russa, cova ancora sotto traccia, proprio mentre il Governo centrale e la Russia - la grande avversaria dei separatisti - proclamano di avere tutto sotto controllo. I fatti del 2014 sembrano raccontare altre storie. Il 4 dicembre, ad esempio, una vera e proprio battaglia ha insanguinato Grozny, la capitale. Il bilancio finale è stato di 19 morti, 10 uomini delle forze di sicurezza e nove ribelli ceceni e di 28 feriti. Lo scontro si è concentrato per qualche ora attorno ad un posto di blocco, poi si è spostato alla “casa della Stampa” e in una scuola. L'attacco è stato rivendicato dal movimento islamista "Emirato del Caucaso" e i miliziani, in un video, hanno detto di obbedire ad un nuovo capo, lo sceicco Ali Abu Mouhammad. L’annuncio sembra confermare la morte del capo storico dei miliziani islamici ceceni, Doku Umarov. L’uomo era stato dato più volte per morto, ma nel marzo 2014 la voce è parsa più consistente. Da Londra, l’ex emissario dei separatisti ceceni, Ahmed Zakaev, aveva raccontato alla stampa che Umarov era morto a causa di una cancrena, sviluppatasi da una piaga diabetica. Si era scatenata - aveva aggiunto - la lotta per la successione e per questo la morte non era stata ufficializzata. L’attacco di fine dicembre 2014, comunque, dimostra che pur a ranghi ridotti, il separatismo ceceno è sempre pronto a colpire, anche se non sono più i russi gli avversari, ma il Governo che sostengono. Il movimento, per altro, si è sempre più islamizzato. Combattenti ceceni sono sicuramente in Siria, arruolati nel sedicente califfato. In ottobre del 2014, sempre a Grozny, 5 poliziotti sono stati uccisi e altri 12 sono rimasti feriti per un attentato kamikaze di chiaro stampo integralista. L’attentatore si chiamava Apti
CECENIA
Generalità Nome completo:
Repubblica Cecena
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Russo, Ceceno
Capitale:
Groznyj
Popolazione:
1.269.000
Area:
15.500 Kmq
Religioni:
Musulmana sunnita
Moneta:
Rublo, nahar
Principali esportazioni:
Petrolio
PIL pro capite:
n.d.
Mudarov, un diciassettenne della capitale, sparito da casa da mesi. Insomma, la tensione resta e le reazioni del Governo ceceno continuano ad essere durissime. Poche ore dopo l’attacco di dicembre, il Presidente Ramzan Kadyrov ha annunciato che le famiglie dei membri del gruppo armato sarebbero state espulse dal Paese e le loro case demolite. Di lì a poco, almeno nove case sono state date alle fiamme da sconosciuti in cinque città della Cecenia. La cosa è stata denunciata da alcune organizzazioni per i diritti umani: i rappresentanti sono stati minacciati e il Presidente, sui social media, ha scritto che queste organizzazioni stavano aiutando e finanziando i terroristi.
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Parte dell’impero russo dal 1783, anche se con periodiche ribellioni (Imamato del Caucaso), Cecenia ed Inguscezia furono inglobate nella Repubblica Autonoma Socialista Sovietica Ceceno-Inguscia alla nascita dell’Unione Sovietica. Durante la Seconda guerra mondiale, i ceceni insorsero contro i russi sperando di approfittare dell’impegno dell’esercito sovietico su altri fronti per ottenere l’indipendenza, ma una volta che l’Armata Rossa ebbe ricacciato le truppe nemiche, Stalin ordinò una durissima punizione, accusando i ceceni di aver collaborato con i nazisti (non ci sono però prove storicamente valide a sostegno dell’accusa). Il 23 febbraio 1944 con l’Operazione Lentil in una sola notte mezzo milione di cittadini ceceni vennero deportati dal Governo centrale sovietico nella Repubblica sovietica del Kazakhstan. Qui i ceceni vennero isolati e le famiglie disperse nel tentativo di “decaucasizzare” i ribelli. Fu loro concesso di ritornare alla loro Regione d’origine solo nel 1957. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica in Cecenia nacque un movimento indipendentista che entrò in conflitto con la Russia, non disposta a riconoscere la secessione della Cecenia. Tra i motivi dell’opposizione russa vi sono anche la produzione petrolifera locale e soprattutto il passaggio sul territorio ceceno di oleodotti e gasdotti. Džokhar Dudaev, il Presidente nazionalista della Repubblica cecena, dichiarò l’indipendenza della nazione dalla Russia nel 1991. Nella sua campagna elettorale presidenziale del 1990 Boris Eltsin aveva promesso di riconoscere le richieste di autonomia amministrativa e fiscale dei governi federati, spesso disegnati su base etnica in epoca sovietica e il 31 marzo 1992 la Duma (presieduta da Ruslan Khasbulatov, un ceceno) approvò una legge in tal senso, in base alla quale Eltsin e Khasbulatov firmarono il Trattato della Federazione (Russa), che definiva la divisione dei poteri fra i due livelli di Governo, con 86 degli 88 territori interessati. Il Tatarstan firmò nella primavera del 1994, mentre nel caso della Cecenia, che rifiutava di ritirare la dichiarazione di indipendenza, nessuna delle due parti tentò seriamente di trattare. Nel 1994 il Presidente russo Boris Eltsin inviò 40mila soldati nella Repubblica per impedirne la secessione dando avvio alla prima guerra cecena. Le truppe russe, mal equipaggiate e poco motivate, subirono sconfitte anche notevoli ad opera dei ribelli ceceni. I russi riuscirono a prendere il controllo di Groznyj, la capitale, solo nel febbraio del 1995, e a uccidere Dudaev il 21 aprile 1996 lanciando intenzionalmente un missile sul luogo in cui si trovava con una operazione gestita dalla intelligence militare centrale. A fine agosto 1996 Eltsin si accordò con i leader ceceni per un cessate il fuoco a Chasavjurt, in Daghestan, che portò nel 1997 alla firma di un trattato di pace. Alla fine della prima guerra russo-cecena (1991-96) venne eletto come primo Presidente della Cecenia Aslan Maskha-
dov, il comandante delle forze ribelli che firmò con il generale Aleksandr Lebed la tregua con le forze armate russe. Tuttavia una grave crisi economica, le continue azioni terroristiche di Shamil Basayev e la perdurante presenza di signori della guerra, che in varie zone sostituivano completamente l’autorità governativa, ridimensionarono fortemente la figura del comandante Maskhadov. Il conflitto tornò a divampare nel 1999, dando inizio alla seconda guerra cecena. Nell’agosto 1999, Shamil Basayev decideva di allargare lo spettro del conflitto al vicino Daghestan. Le truppe russe invasero la Cecenia nell’ottobre 1999, radendo al suolo la capitale Groznyj. La maggior parte della Cecenia è attualmente sotto il controllo dei militari federali russi. La causa indipendentista Cecena ha perso l’interesse presso i media, soprattutto a partire dal 2007, anno al quale risale l’ultimo atto rivendicato dal movimento indipendentista.
Per cosa si combatte
Va detto che oggi del sogno irredentista ceceno resta ben poco. Sotto il comando dell’auto-proclamato nuovo Emiro del Caucaso, Doku Umarov, resterebbero infatti - secondo le stime del vice-ministro degli Interni russi, Arkady Edelev - meno di 500 terroristi abbarbicati sulle montagne, fra cui una cinquantina di mercenari arabi. La maggioranza di questi combattenti, inoltre, sarebbe spinta a scegliere la guerriglia non da considerazioni ideologiche o da motivi religiosi,
Quadro generale
Beslan, strage senza risposte
Chiedono giustizia, i famigliari. Nel 2014 è stato celebrato il decennale dalla strage di Beslan, nell’Ossezia del Nord. Tra l’1 e il 3 settembre 2004, 334 persone - tra cui 186 bambini - morirono per un’azione terroristica dei separatisti ceceni. Un gruppo armato fece irruzione nella scuola , sequestrando 1200 persone. I terroristi risposero al tentativo d’irruzione dell’esercito russo facendo esplodere due bombe all’interno dell’edificio, uccidendo più di trecento persone e ferendone altre 700. Le domande senza risposta, dicono ora i famigliari, sono ancora troppe.
TENTATIVI DI PACE
Cecenia: ciò che pare e ciò che è
Ramzan Kadyrov ci prova: invita personaggi famosi per promuovere il Paese e usa regolarmente Twitter nel tentativo di far apparire la Cecenia come uno Stato tranquillo. Il quadro reale, però, mostra una dilagante corruzione e persistenti violazioni dei diritti umani: tortura, arresti arbitrari e minacce non risparmiano i “criminali” (né i loro avvocati). In un simile contesto, le denunce e il giornalismo investigativo possono contribuire ad una effettiva normalizzazione. A tal proposito Amnesty International continua a riportare le violazioni dei diritti e non manca di rendere omaggio ad Anna Politkovskaya, giornalista della Novoya Gazeta uccisa nel 2006. Oggi è Elena Milashina a sostituirla. Lavora per lo stesso giornale - che continua a mantenere l'indipendenza a fronte delle leggi russe che cercano di smorzare la libertà di stampa dal 2011- ed ha il compito di monitorare la situazione: “vivono ancora sotto un regime totalitario, ma nessuno ne parla o ne scrive. L'informazione è l'unica cosa che possa cambiare la loro situazione”.
Doku Umarov
Nato il 13 aprile 1964 nel villaggio di Kharsenoj, in Cecenia e dato per morto per una cancrena nel 2014, Doku Umarov ha scritto un impressionante elenco di colpi terroristici. In diverse occasioni, attraverso la diffusione di videocassette, ha rivendicato alcuni dei più spettacolari attentati in Russia, come la bomba sul treno Nevskij Ekspress nel 2009, le esplosioni nella metropolitana di Mosca nel 2010, l’attentato all'aeroporto moscovita di Domodedovo nel 2011. Nella struttura armata del separatismo ceceno è entrato nel 1990, all’alba della dissoluzione dell’Unione Sovietica. È diventato presto uno dei “capi militari” più prestigiosi. Tra il 2006-2007, è stato "Presidente” dell’Ičkeria, la Cecenia secessionista, in contrapposizione all’uomo del Cremlino, Ramzan Kadyrov, capo della Cecenia "ufficiale” filo-russa. Nel settembre 2007 è diventato "emiro” del cosiddetto Emirato Caucasico, dichiarato dalla Procura generale della Federazione Russa organizzazione terroristica.
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(Kharsenoi, 13 aprile 1964 7 settembre 2013)
quanto piuttosto da motivi personali, per vendicarsi cioè di un torto subito. Dietro questo mutamento epocale c’è sia la stanchezza - in Cecenia si combatte ormai da 20 anni - che l’eliminazione progressiva di tutti i grandi leader della guerriglia: dal Presidente Dzokhar Dudaev, ucciso nel 1996, al suo successore Aslan Maskhadov, ucciso nel 2005, fino al comandante Shamil Basayev, ucciso nel 2006. Ma a far suonare la campana a morto per la guerriglia cecena è stata soprattutto l’ascesa di un clan forte e prestigioso, che ha scelto di abbandonare la lotta armata e si è schierato dalla parte del Cremlino: il clan dei Kadyrov. Già gran Mufti di Grozny, Akhmad Kadyrov viene eletto capo del Governo nel 2000 e diventa Pre-
I PROTAGONISTI
sidente della Cecenia nell’ottobre 2003, carica che occupa fino al maggio 2004, quando viene ucciso in un attentato allo stadio di Grozny. Al suo posto è subentrato il figlio Ramzan, famoso per i suoi metodi brutali, che viene confermato Presidente nel 2007 e regna tuttora, con pieni poteri. È la milizia dei Kadyrov che viene incaricata, negli ultimi anni, di fare la “guerra sporca”, in nome di una progressiva cecenizzazione del conflitto, perseguita da Mosca con caparbietà: ne consegue un’alternanza di bastone e carota, con ripetute amnistie per i ribelli che scelgono di abbandonare la lotta armata e una spietata caccia all’uomo per stanare gli irriducibili. Se i risultati ci sono, insomma, restano contradditori. Per imporre la sua pace, Ramzan Kadyrov ha ridotto infatti a carta straccia i diritti umani più elementari, come denunciano da anni tutte le organizzazioni internazionali.
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