Prefazione di Gabriele Del Grande

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ebook

Quattro centesimi per cinque pallottole. Vi raccontiamo i giornalisti, tra minacce e sfruttamento Prefazione di Gabriele Del Grande Postfazione di Roberto Natale

terrelibere.org

Raffaella Cosentino


COLLANA CARTA ELETTRICA Raffaella Cosentino

Quattro per cinque Quattro centesimi per cinque pallottole. Vi raccontiamo i giornalisti, tra minacce e sfruttamento

Sono umiliati, sfruttati oltre ogni limite, pagati pochi centesimi o niente. Vivono sopraffatti dall’omertà e dal terrore di denunciare la loro incredibile condizione. Sono i giornalisti. Alcuni di loro sono stati pesantemente minacciati dalla mafia. In regioni come la Calabria è quasi normale. Angela guadagnava quattro centesimi per ogni rigo. Ha ricevuto cinque pallottole dopo un normalissimo articolo di cronaca. Ad Antonino hanno bruciato la macchina. A Ferdinando hanno scritto: “Sei un morto che cammina”.

Prefazione di Gabriele Del Grande Postfazione di Roberto Natale (FNSI)


terrelibere.org Edizione 1.0 [dicembre 2010]

Copyright Licenza Creative Commons 2.5 Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia (creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/)


Raffaella Cosentino giornalista professionista, reporter freelance. Nata a Catanzaro nel 1980, ha studiato giornalismo a Roma e a Londra. Ha scritto per Redattore Sociale, Il Venerdì di Repubblica, Il Manifesto, S, Terrelibere.org. Ha lavorato per Radio Città Futura e per E Polis. Sostenitrice di progetti indipendenti, co-autrice del documentario Oltre l’Inverno sull’omicidio Carbone a Locri e del dossier Rosarno Arance Insanguinate dell’associazione antimafie daSud onlus. Ha un blog sui diritti umani: rightstories.wordpress.com.

Terrelibere.org produce e raccoglie dal 1999 inchieste e ricerche sui rapporti tra Nord e Sud del Mondo, la mafia, le migrazioni, l’economia e la disuguaglianza. Tutti i materiali sono diffusi liberamente su licenza Creative Commons. Dal 2009 diventa casa editrice.


Sommario Prefazione di Gabriele Del Grande Sfruttamento Siamo uomini o caporali? Lavoratori a cottimo in terra di mafia Le parole si pesano, gli articoli sono come le arance I giornalisti da arma a bersaglio Autonomi che lavorano come dipendenti Far west Disposti a tutto, tranne che a denunciare I sommersi Tre storie Un bacio di troppo Quattro per cinque La mamma della ‘ndrangheta Conclusioni Il caso “Corriere della Sera� Postfazione di Roberto Natale


Prefazione di Gabriele Del Grande

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Ho iniziato a lavorare a quattordici anni. Seguivo mio padre nei ristoranti dove faceva il cameriere nel fine settimana. Matrimoni, battesimi, comunioni. Voleva che imparassi un mestiere. Non c’era contratto, ma c’era rispetto. Ero un ragazzino e non sapevo niente di aperitivi, portate e dessert. Nessuno però quell’estate si sognò mai di farmi lavorare gratis. Come pure negli anni successivi di lavoro tra consorzi agrari, ristoranti e dormitori. Poi, alla fine degli studi, è arrivato il giornalismo. Un lavoro professionale, che richiede studio e preparazione. Il contrario dei tanti lavori umili che fino ad allora ero abituato a fare. E col giornalismo è arrivato il concetto del lavoro gratuito. Il contrario dei tanti lavori umili che fino ad allora ero abituato a fare. Io mi sono sempre rifiutato. Motivo per cui non ho mai scritto con una serie di quotidiani che Raffaella Cosentino cita nella prima parte del suo libro e che poi sono i quotidiani che fanno le loro battaglie ipocrite contro il precariato. Ma come ben spiega anche lei, il fenomeno è ben più vasto, e anche i principali quotidiani italiani non ne sono esenti. I giornalisti non denunciano? È vero, ed è interessante chiedersi come mai. Io negli anni ho avvertito l’influenza su tanti giovani colleghi di una sorta di etica del lavoro. Per cui è talmente importante, in prospettiva, il peso della professione nel definire lo status sociale di una persona, che in tanti sono disposti a farsi umiliare e sfruttare pregustando i giorni di un avvenire migliore. C’è addirittura chi, oltre a

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Gabriele Del Grande è fondatore di Fortress Europe, osservatorio sulle vittime

dell'emigrazione. Con Infinito edizioni, ha pubblicato i libri “Mamadou va a morire”, “Roma senza fissa dimora”, “Il mare di mezzo”.


lavorare gratis, si paga i contributi di tasca propria per potersi iscrivere all’albo della professione. Come se in quel tesserino ci fosse qualcosa di magico. Dopotutto ci sono anche le storie a lieto fine e ogni tanto qualcuno ce la fa. E questo basta, come un mito, a far accettare ogni condizione di lavoro. Non si può però dimenticare che il precariato non è soltanto il male del giornalismo. È l'Italia tutta che ha perso il rispetto per i lavoratori, forse dopo aver perso le istituzioni che quei lavoratori in passato avevano difeso. Il mito della flessibilità, della formazione, del lavoro autonomo. Dal pacchetto Treu in poi. Ogni settore di lavoro ha le sue storie di sfruttamento. Con l'elemento comune di un sistema legislativo che permette alle imprese di approfittarsi della situazione. Come non si può dimenticare che noi giovani giornalisti, oltre a essere vittime del problema, siamo anche una sua concausa. Non soltanto perchè molti di noi si lasciano sfruttare senza opporre resistenza. Ma anche perchè, più in generale, molti di noi hanno un atteggiamento di attesa rispetto alle generazioni precedenti. Come se ci fosse dovuto qualcosa. Un posto garantito, uno stipendio, uno status sociale. No, io credo che certe cose ce le si debba andare a prendere. Che si debba rischiare di più. Perchè è vero che c'è l'Italia delle testate riempite di vecchi giornalisti lontani anni luce dalla realtà, ma c'è anche l'Italia vera, fatta di gente che vuole sentire raccontare le proprie storie e che è pronta a incoraggiare chi lo fa. Personalmente, se riesco a vivere del mio lavoro è grazie a questa Italia, e non alle testate giornalistiche. Nonostante tante prime pagine, e contatti con le principali redazioni di questo paese, ufficialmente sono disoccupato. Perchè come scrive Raffaella, i posti sono pochi, ed è meglio lasciarli alle persone giuste, che in un paese nepotista e clientelare come il nostro non sono le persone con molta conoscenza, ma piuttosto quelle con molte conoscenze. Ma di nuovo, non ci si può solo lamentare. Si deve saper costruire alternative. Io ho un sito che l'anno scorso è


stato visitato da 250.000 persone ed è stato citato su centinaia di testate giornalistiche in Italia e in tutto il mondo. E non sono certo il solo. Il web è popolato di siti e blog all’avanguardia nel campo dell'informazione. Gli esempi sono tantissimi, e forse bisognerebbe crederci tutti di piĂš. E fare rete. Non solo per promuovere il proprio lavoro, ma anche per sancire che in questo paese a partire da un bel giorno si smette di scrivere a quattro centesimi, magari prima di ritrovarsi le cinque pallottole nella buchetta delle lettere.


Sfruttamento

Siamo uomini o caporali? “Oggi non lavoro per meno di cinquanta euro”. Con questo cartello in mano o appeso al collo, oltre 1500 africani si sono presentati all’alba dell’8 ottobre 2010 alle rotonde stradali dove si recluta la manodopera alla giornata. Kalifoo ground strike. Lo sciopero dei kalifoo. Termine unico con cui nigeriani, ghanesi, burkinabé, ivoriani e tutti gli altri africani della Domiziana chiamano gli “schiavi” che lavorano in nero per pochi euro al giorno. I lavoratori di pelle nera, anche quelli senza permesso di soggiorno, hanno opposto le loro facce e i loro corpi allo sfruttamento, occupando sedici incroci, piazze e strade del caporalato tra Castel Volturno e Napoli. Davanti a telecamere e taccuini, dilaga la protesta a casa della camorra e dei casalesi, da Casal di Principe a Scampia. Anche chi non sa dello sciopero, quando raggiunge le rotonde si unisce agli altri. Per un giorno niente mercato delle braccia. Gli italiani che passano in auto o in camion per affittarle a cottimo restano di stucco. Si trovano davanti una scena che ha dell’incredibile. A protestare contro il lavoro nero e i salari bassi non sono precari italiani, ma africani, rifugiati e ‘ultimi’ senza diritti. “Ci pagano 25-30 euro, come si fa con la casa? Come si può vivere così? Oggi noi chiediamo 50!” mi dice uno dei ragazzi che salta con il suo cartello davanti ai parabrezza degli automobilisti di Licola, sul litorale domizio. Il giorno dopo, a Caserta, sono oltre il doppio, circa tremila, quelli che sfilano dalla stazione ferroviaria alla questura per lo stesso motivo. Una pacifica onda nera che avvolge la città. Ne sono testimone, prendo appunti, fotografo, giro video. Sono in contatto


con il quotidiano Liberazione per un reportage. La caporedattrice mi chiama per telefono e ci mettiamo d’accordo. Quattromila e cinquecento battute e anche le foto. Tutto per 50 euro. Ok, ma voglio prima una mail in cui è scritto che il giornale si impegna a pagarmi secondo le modalità per i collaboratori. Nel pomeriggio, quando sono già sul treno del ritorno e ho fatto metà del lavoro, mi arriva un sms. “Carissima, oggi non posso garantirti niente sui pagamenti perché non c’è nessuno in amministrazione e quindi non posso prendere impegni. Se vuoi scrivere lo stesso ci fa piacere”. Rispondo che lo sciopero e il corteo di cui parliamo sono contro lo sfruttamento, non posso proprio accettare di lavorare senza garanzie sul pagamento. La collega in redazione, che non conosco di persona, la prende male. “Non ho mai sfruttato nessuno - scrive sempre per sms - e non sono un caporale”. Ne siamo certi? Il viaggio da 10 euro e 40 centesimi sul regionale che ci mette tre ore e mezzo da Caserta a Roma mi porta dritto verso la mia scelta. Non basta più il solo riconoscimento sociale sancito dalla firma sul giornale. Come si possono celebrare con le parole due giornate memorabili per i diritti e poi tradire la lezione degli africani accettando di lavorare gratis? Di sicuro non scriverò per Liberazione, organo del Partito della Rifondazione Comunista. Non posso dire che questo sia il loro abituale modus operandi. Di sicuro non ho più voglia di rischiare. Ed ecco un’altra collaborazione uccisa prima di nascere. Come ho chiuso con Il Manifesto. Dopo una lunga trafila mi hanno dato un assegno per una serie di articoli e inchieste, ma poi si sono rifiutati di impegnarsi. La mia richiesta? Avere la certezza di essere pagata due volte l’anno, a giugno e a dicembre. Respinta. È troppo per un giornale sempre sul punto di chiudere ma che, nel frattempo, riempie pagine e pagine con le collaborazioni. Per loro avevo scritto da Rosarno sui lavoratori africani in rivolta contro lo sfruttamento, diventati bersaglio di clan mafiosi. Il prezzo delle arance sceso a sei centesimi al chilo è diventato il


paravento dietro cui si sono nascosti gli agricoltori della Piana di Gioia Tauro per giustificare le condizioni di semi schiavitù in cui hanno vissuto i braccianti stranieri. Allo stesso modo, gli editori hanno l’alibi della crisi. La verità è che oggi l’informazione viene fatta sempre più fuori dalle redazioni da giornalisti senza tutele e senza una giusta retribuzione. Ma questo i lettori non lo sanno. E chi dovrebbe dire all’opinione pubblica che un giornalista è pagato meno dei braccianti stagionali che raccolgono patate a Cassibile e meno delle persone sfruttate di cui racconta le storie? Quelle testate che pagano da 3 a 10 euro ad articolo possono diffondere queste informazioni? Gli stessi giornali incassano milioni di euro con la pubblicità e con i contributi pubblici, ma restano sacche di potere appannaggio di una vecchia casta. Al Manifesto, finita l’emergenza da prima pagina, non servo più e il “ti paghiamo la settimana prossima” diventa quella dopo e quella dopo ancora.

Lavoratori a cottimo in terra di mafia Se un manovale sa prima quanto gli frutterà la giornata di lavoro, spesso il giornalista scopre dopo mesi se e quanto verrà pagato, mentre le spese restano tutte a suo carico. All’assemblea settimanale del movimento migranti e rifugiati all’ex canapificio di Caserta, la parola d’ordine è “intelligenza collettiva”, declinata anche in inglese e in francese. Quelli che i giornalisti e i politici si ostinano a vedere solo come ‘i nuovi schiavi’ sono in prima linea per i diritti e hanno maturato la coscienza di essere un gruppo. Sulla strada, tutta in salita, di scioperi e rivendicazioni per una retribuzione equa entro tempi certi e ragionevoli, i giornalisti ancora non si sono nemmeno incamminati. Ognuno attaccato al suo Pc, chiuso nella casa-ufficio, immerso in una


quotidiana lotta telematica con le redazioni e con la competizione di chi fa la fila davanti alla porta dei capi. Tutti con un articolo in mano e un’idea in una mail. Di solito le redazioni neanche rispondono. Disunità, competizione feroce, mercato senza regole. La tutela della libertà di stampa passa prima dalla tutela della dignità dei giornalisti. Soprattutto di quelli che vanno a cercare e a verificare le informazioni sul campo. A ricoprire questo ruolo sono i freelance e i collaboratori. Che hanno cambiato pelle. Fino a pochi anni fa, il freelance era un pubblicista, qualcuno che di mestiere fa altro, l’insegnante o l’avvocato ad esempio, e scrive per passione. Oggi i freelance sono professionisti, persone che vivono esclusivamente di lavoro giornalistico. O meglio sopravvivono al di sotto dei limiti di sussistenza, sfruttati non solo dalle testate minori e di provincia, ma anche dai grandi gruppi editoriali, quegli stessi colossi che lanciano campagne mediatiche a difesa della libertà di informazione. La spia dei rischi enormi ai quali sono esposti questi lavoratori sono le minacce e le pressioni subite dai giovani collaboratori nei territori in cui domina la criminalità organizzata. Il 2010 segna l’anno nero della Calabria su questo speciale fronte di guerra dentro i confini di casa nostra. Sono tredici i giornalisti calabresi minacciati in un anno, le prime cinque intimidazioni si sono concentrate in meno di un mese, dal 28 gennaio al 22 febbraio.

Le parole si pesano, gli articoli sono come le arance Sei centesimi al chilo per le arance di Rosarno, un euro a cassetta per chi le raccoglie. Quattro centesimi a riga per un cronista locale in Calabria. Per questa cifra, Angela Corica, corrispondente di Calabria Ora da Cinquefrondi, nella Piana di


Gioia Tauro, si è beccata cinque proiettili sparati da cecchini della ‘ndrangheta contro la sua automobile parcheggiata davanti a casa. Quattro centesimi a riga è la retribuzione delle collaborazioni occasionali usata dagli editori dei quotidiani locali calabresi. Collaborazioni ‘occasionali’ in cui si lavora tutti i giorni, seguendo scadenze imposte dall’azienda e diventando il punto di riferimento per le notizie dai comuni. San Luca, Gioia Tauro, Locri, feudi delle più spietate famiglie della ‘ndrangheta sono ‘coperti’, come si dice in gergo, da cronisti ventenni che per quattro centesimi a rigo scrivono i resoconti delle sedute dei consigli comunali, la cronaca bianca, quella nera, perfino le inchieste. Per la stessa cifra, Ferdinando Piccolo ha scritto da San Luca per il Quotidiano della Calabria. Piccolo ha solo 24 anni. Ha passato gli ultimi quattro a raccontare quello che succedeva a casa delle famiglie coinvolte nella strage di Duisburg. E’ stato l’ultimo giornalista calabrese in ordine di tempo a ricevere minacce di morte e proiettili come ricompensa per il servizio svolto. E quanto si guadagna con un blog? Antonino Monteleone, 25 anni, studente di giurisprudenza a Reggio Calabria, ha visto la sua automobile divorata dalle fiamme in una sera di febbraio. Aveva scritto nei suoi post on line troppe cose che non piacevano. “Articoli che fanno schifo tipo Roberto Saviano” dicono, nelle intercettazioni, gli uomini che gli hanno incendiato la macchina. Fino a oggi, gli unici autori di attentati ai giornalisti arrestati. Individui estremamente pericolosi. Per gli inquirenti sono anche tra i responsabili della bomba contro la procura generale di Reggio Calabria del 3 gennaio 2010. Sono accusati di essere affiliati alla ‘ndrina dei Serraino, coinvolta negli attentati al procuratore Salvatore Di Landro. “I giornalisti rappresentano un potere efficace nell’azione di contrasto”, mi spiega proprio Di Landro al termine della manifestazione ‘No ‘ndrangheta’ del 25


settembre a Reggio Calabria, organizzata e promossa dal Quotidiano della Calabria, una delle testate bersagliata da intimidazioni ai suoi cronisti. “Preoccupano la ‘ndrangheta come la magistratura efficace perché incidono sulla realtà sociale – continua il magistrato -. Tutti coloro che svolgono un ruolo nella lotta alle mafie sono protagonisti. Se un giornalista è onesto non può non dire la verità e la verità può far male”.

I giornalisti da arma a bersaglio Andare, vedere, raccontare. Le vecchie regole del cronista, giovani reporter freelance, nuovi mezzi di diffusione. Non c’è la visibilità dei grandi media con migliaia di copie vendute e di contatti, ma anche una pagina interna di cronaca locale o un blog costituiscono un affronto al prestigio, al potere e all’impunità dei boss. Infrangono l’omertà e il rigido controllo del territorio. Le parole del procuratore generale Di Landro sono chiare. I giornalisti non sono più solo testimoni dei fatti, diventano co-protagonisti del contrasto alla criminalità organizzata. Più che una piovra, la ‘ndrangheta ricorda l’Idra di Lerna, il mostro mitologico con 50 teste. Ogni volta che se ne taglia un capo, al suo posto ne spuntano altri due. Si è riprodotta e infiltrata nel centro e nord Italia, in Europa, nelle Americhe e in Australia, domina il narcotraffico, gestisce appalti pubblici e privati, investe con il riciclaggio inquinando l’economia. Nel 2010 decide di uscire dall’invisibilità e sceglie l’attacco diretto allo Stato come forma di comunicazione. Con una strategia para-terroristica, gli ‘ndranghetisti prendono di mira magistrati e giornalisti. Segnano in modo eclatante la presenza sul territorio. Se ci sia stata una decisione da parte di una specie di ‘cupola’ è ancora motivo di indagini, ma è


inevitabile che un ‘parastato’ cresciuto nell’ombra fino a raggiungere proporzioni gigantesche arrivi a un certo punto a scontrarsi con lo Stato legittimo. Giustizia e libertà di stampa, le prime linee dell’apparato democratico, finiscono entrambe sotto assedio.

Autonomi che lavorano come dipendenti Il caso Calabria per i freelance e i giovani collaboratori delle redazioni diventa la punta dell’iceberg dei rischi di un giornalismo senza protezione, senza tutele. I freelance ci mettono la firma e la faccia nei territori dominati dalle mafie, anche loro sono esposti in prima persona, perché scrivono del posto in cui continuano a vivere. In molti casi portano alle redazioni e all’opinione pubblica notizie importanti di cui altrimenti nessuno verrebbe a conoscenza. Ma a differenza dei colleghi con contratto, rischiano senza una retribuzione equa e senza una testata alle spalle. Le paghe incerte e da fame hanno fatto del giornalismo un mestiere per ricchi, per chi può contare su genitori che sovvenzionano le spese, negando le origini estremamente democratiche della professione e della normativa che la regola. Per capire qual è la situazione dei giornalisti in Italia in questo momento, è utile andare all’altro capo della penisola. In Veneto il coordinamento dei giornalisti freelance, Refusi, ha pubblicato a fine settembre 2010 i risultati di un’inchiesta realizzata distribuendo questionari ai colleghi. Per le spese relative alle attrezzature, telefoni, fax, internet e computer, in media si spendono più di 100 euro al mese. Per le spese di trasporto si va dai 30 ai 150 euro. Tutto ovviamente a proprio carico. Infatti solo il 10% ha un qualche rimborso dall’azienda. Il 90% degli intervistati, pur essendo ‘autonomo’ in termini contrattuali, in realtà svolge mansioni uguali a quelle del lavoro dipendente. E per le retribuzioni si va dai 4 ai 15 euro ad articolo. Sempre in Veneto, secondo i dati


riferiti dall’Inpgi, l’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti, gli ‘autonomi’ sono il doppio degli assunti e guadagnano 8mila euro l’anno di media contro i circa 60mila euro di un giornalista dipendente. I giornalisti attivi sono 2.393, meno di metà degli iscritti all’Ordine del Veneto. Settecentocinquantatre giornalisti lavorano con contratto da dipendente e 1.640 sono “autonomi”. Di questi, 309 sono precari co.co.co, 955 sono freelance e 376 entrambi. Bisogna aggiungere che ad ogni ristrutturazione aziendale, sono sempre i collaboratori e i precari a pagare il prezzo più alto e a restare senza ammortizzatori sociali. Non manca il lavoro nero e quello non pagato. Ciò che ‘conta’ è avere la firma sul giornale. La truffa della visibilità. Il sistema era già partito alcuni anni prima della crisi, ad esempio con le testate free press e semigratuite. Una redazione centrale composta da pochi assunti al desk e un esercito di collaboratori sguinzagliati per l’Italia, pagati quasi niente, isolati, intercambiabili, sostituibili. Inviati dispendiosi, addio. La macchina colossale dello sfruttamento giornalistico tocca ormai i giornali locali, i siti, i periodici e si estende a macchia d’olio fino ad arrivare alla prima agenzia di stampa nazionale, l’Ansa, che secondo una tabella diffusa dall’ordine dei giornalisti, nel Lazio paga cinque euro a ‘lancio’, indipendentemente dalla lunghezza, dall’argomento e dal tempo necessari per coprire la notizia. La dignità dei giornalisti sprofonda nel baratro quando un reportage esclusivo dall’Afghanistan o dall’Iran in rivolta viene pagato 50 euro e senza copertura assicurativa. La battaglia per ‘il giusto valore’ non è ancora partita, se solo adesso la ‘Commissione lavoro autonomo’ della Federazione nazionale della stampa italiana, Fnsi - il sindacato unico dei giornalisti, annuncia di volere realizzare entro l’anno un rapporto-denuncia sulle condizioni dei freelance e chiede testimonianze in merito. E’ l’ulteriore conferma di quanto il fenomeno sia sconosciuto, sommerso e invisibile, perfino alle organizzazioni di categoria.


Far west La vergogna dei quattro centesimi a rigo non è solo calabrese, anche nel resto d’Italia il mercato selvaggio la fa da padrone. Testate ben più ricche e prestigiose non sono meno schiavistiche con i loro collaboratori. Secondo una tabella realizzata dall’Ordine dei giornalisti, mettendo a confronto le sovvenzioni pubbliche di cui godono i giornali e i compensi elargiti ai collaboratori, la retribuzione di una manciata di euro non è l’eccezione ma la regola. Emerge il quadro di un giornalismo schiacciato. Di sicuro non si è liberi se per un articolo costato anche una giornata di lavoro, il guadagno somiglia più a un’elemosina che a una paga. Secondo la tabella della vergogna, il quotidiano toscano Il Tirreno si è inventato come metro di pagamento 20 centesimi a modulo, cioè ogni 4 righe. Lo stesso giornale per 10-12 pezzi al mese, oltre box e brevi, stabilisce compensi mensili che vanno dai 67 ai 153 euro. Restando in Toscana, La Nazione paga 2 euro le notizie brevi, 2 euro e cinquanta centesimi le foto pubblicate, da 5 a 12 euro gli articoli, ma dopo il cinquantesimo articolo tutto viene pagato 2 euro. La tabella riferisce che “il tetto è in vigore da 4 anni: da quel momento c’è chi è passato da un guadagno mensile di 800-1000 euro a 200-300 euro”. Il Giornale di Sicilia paga 1,03 euro per articoli fino a 20 righe, 6 euro e 20 centesimi quelli più lunghi, a fronte di quasi 500mila euro di contributi pubblici. Dall’inizio del 2010 anche Il Sole 24 Ore paga i giornalisti 50 centesimi a riga con un contributo statale all’editoria di oltre 19 milioni di euro. In Emilia Romagna, un articolo pubblicato sul Resto del Carlino frutta dai 2 euro e cinquanta fino ai 9 euro. La Repubblica, sempre secondo la tabella stilata dall’Ordine, ha dimezzato i compensi passando dai 50 euro ad articolo del 2009 ai 30 euro dei 2010 per 5-


6mila battute, mentre riceve contributi pubblici per oltre 16 milioni di euro. Nel Lazio, l’agenzia Apcom paga dai 4 ai 10 euro. La ricerca realizzata dall’Ordine dei giornalisti sulla base di alcune testimonianze raccolte è al momento l’unico documento reperibile su scala nazionale. Non esistono infatti statistiche sul fenomeno. Lo sfruttamento dei giornalisti sul lavoro è una realtà quasi completamente sommersa. Se le paghe sono queste e se per avere accesso alla professione si svolge il praticantato in una delle scuole accreditate dall’Ordine, pagando spesso rette da capogiro, il mestiere del cronista diventa sempre più ‘roba da ricchi’. Dopo una laurea di 5 anni (vecchio ordinamento) in Scienze della Comunicazione alla Sapienza, ho frequentato la scuola Luiss “Guido Carli” di Roma. Un master biennale che è costato 18mila euro di sole tasse, cui aggiungere il costo dei materiali e il mio mantenimento a Roma per due anni. Un praticantato comprato grazie a un mutuo pagato dalla mia famiglia, utile solo per capire dall’inizio come funzionano le cose in questo mestiere. Alla fine del 2007 mi sono ritrovata a sostenere la prova scritta dell’esame di Stato con la macchina da scrivere. Nostalgia di Indro Montanelli e della sua famosa ‘Olivetti lettera 22’? O forse attaccamento a un passato remoto e incapacità di adattarsi al presente? Il computer fa il suo ingresso all’esame di stato soltanto nell’autunno 2008, dopo il cambio di legge. Sono sedici i master di giornalismo in tutta Italia che danno accesso alla professione, solo a Milano ce ne sono quattro. Il sogno di fare il giornalista potrebbe trasformarsi in una colossale truffa. Rischio su cui è difficile lanciare l’allarme, se i canali da cui passano le informazioni al grande pubblico sono gli stessi artefici dello sfruttamento. Ma gli organismi di categoria ne sono ben informati in realtà. “Se oggi gli iscritti all’albo sono quasi 110mila (30mila nel 1975


con un aumento del 390%, ndr) bisogna con chiarezza saper dire a tutti i nuovi colleghi che il sistema complessivo dell’informazione, per quanto sia dilatato, non consente di assorbire una massa così elevata di addetti […] Una forza lavoro così smisurata rispetto alle richieste del mercato si risolve ineluttabilmente nel precariato, nella marginalizzazione, nella disoccupazione. È bene non farsi illusioni né demagogicamente illudere tutti coloro, soprattutto i giovani, che sono ammaliati dal fascino della nostra professione”. Lo dice nero su bianco una ricerca curata da Pino Rea del laboratorio Lsdi, Libertà di stampa diritto all’informazione, dal titolo “Giornalismo: il lato emerso della professione”, presentata il 4 novembre 2010 nella sede nazionale del sindacato a Roma. “Gli ultimi, i paria”, vengono definiti i collaboratori al centesimo da Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei giornalisti e promotore dell’indagine dell’Odg. “Quelli costretti a subire la mortificazione dei compensi da elemosina, che debbono essere lì sempre pronti a scattare al primo squillo di una chiamata. Il mandante è sempre l’editore. Ma dall’altro capo del telefono c’è un esecutore. E’ triste scoprire che si tratta di un giornalista”. Anche gli schiavi dell’informazione hanno i loro caporali. Manovali della notizia, produttori di contenuti, persone che con il loro lavoro tengono in piedi tante testate e procurano preziose inchieste. Salvo poi essere ‘dimenticati’ un attimo dopo la pubblicazione. I giornalisti sono corresponsabili di questo sfruttamento. Non solo nei termini descritti da Iacopino. Ancora più grave è che, a differenza dei migranti africani, non denunciano chi li sfrutta. Tra i giornalisti manca ancora il coraggio di unirsi e raccontare pubblicamente quello che accade dietro i mass media. L’omertà comincia da qui e si nutre di isolamento e debolezza.


Disposti a tutto, tranne che a denunciare “Stiamo faticando molto perché c’è un muro d’omertà e di paura”. Sono parole dei componenti della commissione Lavoro Autonomo della Fnsi, il sindacato nazionale dei giornalisti, che sta cercando di fare compilare un questionario anonimo sullo sfruttamento dentro e fuori dalle redazioni. Gli omertosi in questione sono giornalisti. “Incrociando i dati dobbiamo fare capire come ci trattano gli editori” dicono al sindacato. Ma è difficile fare un monitoraggio sulle testate, se gli ‘schiavi dell’informazione’ non collaborano, non raccontano cosa succede dentro le redazioni. Non solo i rapporti con gli editori ma anche con i colleghi contrattualizzati. Chi ha potere sulla notizia e su chi deve raccontarla? Quali sono le armi di ricatto? Racconta il segretario generale del sindacato Franco Siddi: “Abbiamo avuto segnalazioni su precari e collaboratori che svolgevano mansioni da redattori a tempo pieno, sono stati mandati gli ispettori dell’Inpgi (l’ente di previdenza dei giornalisti, ndr) e sia i precari sia i Comitati di redazione hanno negato”. Servono denunce dall’interno. Un collega mi dice di giornalisti prepensionati che continuano a scrivere per la stessa prestigiosa testata pagati a ‘pezzo’. Così il giornale mantiene la grande firma, non assume nuovi giornalisti e non ha l’onere dello stipendio da pagare, ci pensa l’Inpgi. Il collega però vuole che gli assicuri l’anonimato e io non posso dare ulteriori dettagli. Le storie in giro sono tante, sempre raccontate sottovoce o meglio, off record. Tutti hanno il terrore di perdere quel poco che hanno ottenuto lavorando a testa bassa anche per dieci anni, senza mai un contratto. O al massimo rimediando una sostituzione per ferie o per malattia che sembrava il preludio a qualcosa di più e invece dopo sono ripiombati nell’invisibilità della retribuzione ad articolo.


Le testate spesso hanno un tetto di 5.000 euro lorde annue per i freelance. Oltre quella cifra non è più considerata una collaborazione occasionale, quindi si deve lavorare con partita Iva o con il diritto d’autore. Un’altra opzione è ottenere un co.co.co, un contratto di collaborazione che non prevede un compenso fisso, il pagamento è sempre ad articolo. Ma ci sono giornali come Il Corriere della Sera che sul co.co.co pretendono l’esclusiva per il settore di competenza. Se il giornalista si è sempre occupato di economia, non può più scrivere di questo per altre testate. Le ripercussioni sul lavoratore sono enormi, perché quando la proposta per una notizia non viene accettata dal caporedattore, non si lavora. Un capitolo a parte meriterebbero gli esteri. Colleghi che hanno scritto per giornali diversi mi parlano dei loro reportage realizzati in teatri di crisi come l’Iraq, l’Afghanistan, l’Iran, pagati 50 euro lordi. Vuol dire che per quella cifra si va all’altro capo del mondo a spese proprie, senza assicurazione in caso di incidenti, sobbarcandosi i rischi di paesi in guerra. Sui 50 euro lordi si sono attestati vari giornali nazionali, dal Tempo al Riformista. Al Tempo però, pagano dopo circa 18 mesi. Quindi chi ha scritto a giugno 2009 vede i soldi a dicembre 2010. Non sono eccezioni o casi limite. Queste tariffe diventano sempre più diffuse per i collaboratori ‘normali’. In generale, pare che le firme più altisonanti abbiano un trattamento economico migliore, anche se scrivono di esteri senza spostarsi dall’Italia. Il giornalismo è un bene comune, dice la Federazione europea dei giornalisti che indice la giornata internazionale “Stand up for journalism”. Proprio mentre sto andando all’incontro, mi ritrovo nel centro di Roma davanti a un manifesto a caratteri cubitali: “Gruppo informatico cerca giovani laureati con il massimo dei voti e il minimo della dignità”. Pubblicizza il sito “giovanidispostiatutto.com”. Il portale si rivolge “a chi è convinto che invece di reclamare diritti che ormai appartengono a un’altra epoca, sia meglio lavorare con grinta e a testa bassa, giorno e notte, estate


e inverno, sempre. Per chi è pronto a rinunciare a tutto oggi, per affermarsi domani, o al massimo dopodomani. E invece di alzare la testa preferisce alzare i gomiti e darci dentro. E allora dacci dentro anche tu. Il nostro motto è: solo il sacrificio porta al successo. Speriamo che diventi anche il tuo”. Per fortuna è ‘solo’ una campagna innovativa dei giovani della Cgil per lanciare una manifestazione e agganciare i pari età invisibili, ricattabili e non iscritti al sindacato. Mistero svelato una settimana dopo, quando sui vari annunci cartacei e on line viene attaccato l’adesivo ‘non +’. I giornali rilanciano ovviamente l’iniziativa con accanto il logo di un annuncio tipo: “Network della comunicazione cerca giovani talenti pronti a farsi sfruttare in silenzio”. Repubblica.it raccoglie le testimonianze e scrive che “gli annunci veri sono molto simili a quelli finti”.

I sommersi Compensi minimi garantiti, tempi certi di pagamento, fondi pubblici ai giornali solo se non sfruttano i giornalisti. E’ questa la vera battaglia per la libertà d’informazione e passa per la tutela dei freelance e dei precari. Altrimenti il giornalismo è come un pallone sgonfio che non può andare da nessuna parte. Si deve alimentare una rete di solidarietà per rafforzare chi produce notizie e resta senza diritti. Franco Siddi e Roberto Natale, segretario e presidente della Fnsi, lanciano una proposta per i contributi pubblici all’editoria. “Condizione qualificante e parametro centrale per le assegnazioni - scrivono- secondo nuove regole trasparenti e neutrali rispetto a qualsiasi potere, devono essere l’occupazione giornalistica regolare, il rispetto del contratto di lavoro, il giusto compenso e la corretta protezione sociale per le attività professionali richieste ai giornalisti autonomi’’.


La discussione sul lavoro autonomo nel giornalismo comincia adesso. E mentre a Roma si consultano, la strage di freelance pagati al centesimo si consuma dietro titoli, articoli, homepage di siti luccicanti e riviste patinate. Debole, sommerso, non garantito. É la foto del giornalismo autonomo scattata dall’indagine di Pino Rea incrociando i dati di Inpgi, Ordine e Fnsi fino al 2009. La parola chiave è ‘sommerso’. Rea sottolinea infatti che si tratta di una ricerca sulla condizione dei giornalisti italiani ‘visibili’. Una fetta che equivale appena alla metà degli iscritti all’Ordine dei giornalisti. Si confermano così su scala nazionale i dati dell’indagine in Veneto. I ‘visibili’ sono quelli iscritti all’Inpgi, l’Istituto di previdenza dei giornalisti con contratto subordinato, e all’Inpgi2, la gestione separata dove versano i contributi pensionistici i lavoratori autonomi. Sono i giornalisti con previdenza sociale. L’altra metà sono i sommersi. Ma anche dai dati sul ‘lato emerso’ della professione, raccolti da Rea, viene fuori una spaccatura netta fra chi sta in redazione e chi sta fuori. Tra gli assunti e gli autonomi. Freelance e co.co.co. aumentano di numero, sono spesso professionisti e costituiscono ormai quasi la metà dei giornalisti attivi, ma i loro guadagni annui sono al di sotto della soglia di povertà e con una disparità enorme rispetto ai contrattualizzati. Dei cinquantamila ‘attivi’, ventiseimila (il 56%) sono lavoratori subordinati ma seimila di questi non versano contributi anche da più di 5 anni. Il resto, il 47%, sono iscritti all’Inpgi2 come freelance o collaboratori co.co.co. I giornalisti Inpgi1 sono aumentati del 60% negli ultimi dieci anni, gli Inpgi2 del 208%. Triplicati. Secondo il presidente del sindacato Roberto Natale, “le cifre del lavoro autonomo sono gonfiate, vuol dire che si tratta di lavoro subordinato mascherato”. Ma se è così, quanto sono pagati questi lavoratori? Oltre la metà ha dichiarato un


reddito al di sotto dei cinquemila euro lordi nel 2009. Quattromila hanno un reddito pari a zero. La disparità di trattamento è evidente, visto che tra i giornalisti con contratto solo un terzo guadagna meno di 30mila euro l’anno. Ma fino a quando un collaboratore costerà così poco, agli editori converrà continuare a sfruttarli e appaltare gli articoli all’esterno delle redazioni. Per la pensione, i freelance possono contare su cifre tra i 500 e i 1000 euro lordi l’anno. A tanto ammontano le prime pensioni Inpgi2. Un’altra forma di sfruttamento è quella di fare lavorare con mansioni da redattori a tempo pieno, i famosi ‘articolo1’ del contratto nazionale, giornalisti assunti con altri contratti per rispamiare. Come gli articolo 2 cioè i collaboratori fissi che svolgono lavoro subordinato ma con un massimo stabilito di pezzi al mese e gli articolo 36 cioè pubblicisti part-time. La spia dello sfruttamento è il numero di questi contratti, cresciuti in 8 anni del 224 per cento. Ma al momento la condizione più difficile è quella dei freelance e dei co.co.co, professionisti che in tasca hanno un tesserino che non vale un giusto compenso e si vedono negata la dignità professionale. In un contributo alla ricerca di Lsdi, Siddi definisce “fenomeno dilagante con conseguenze devastanti” la divisione dei ruoli fra i redattori al desk impegnati solo nel rielaborare i testi che arrivano dalle agenzie e dalla rete e i freelance che finiscono per essere gli unici che “hanno un rapporto immediato e diretto con la notizia, che seguono i fatti e li raccontano”. Il segretario della Fnsi parla di “responsabilità degli editori” e di “acquiescenza dei giornalisti”, che preferiscono restare incollati alla sedia piuttosto che andare fuori a caccia di notizie. Tra uomini e donne si è quasi raggiunta la parità, ma solo in termini numerici, non retributivi. Le giornaliste sono il 40% sia tra gli assunti, sia tra gli autonomi. Ma le lavoratrici assunte nelle redazioni sono anche il 43% dei redditi più bassi, sotto i 30mila euro.


Tre storie

Un bacio di troppo “Potrei incontrare per strada o al bar chi ha deciso di incendiare la mia auto e gioito per questo, preferisco ridere di loro, piuttosto che farmi bruciare la serenità”. Ironia e inchieste sono gli ingredienti del blog di Antonino Monteleone. “Se non fossi ironico sarei già morto, se pensassi che domani mi sparano, non camperei più. Ci sono 130 cosche in provincia di Reggio Calabria, non potrei fuggire”, mi dice per telefono poco tempo dopo l’incendio che ha distrutto la sua Fiat Idea. A mezzanotte del 5 febbraio 2010, Antonino rientra a casa a Reggio Calabria, vicino al Castello Aragonese. Nota una Seicento grigia che lo segue e si impensierisce perché teme gli possa portare via l’ultimo parcheggio libero. Ma quando il giornalista ingrana la retromarcia per fare manovra, la Seicento si piazza in attesa all’angolo della strada. Antonino coglie il particolare anomalo ma non gli dà peso ed entra nel portone. Ha già fatto le scale quando ricorda di aver lasciato una camicia sul sedile posteriore e torna a riprenderla. Vede un uomo vicino alla sua macchina, il quale, preso alla sprovvista dal ritorno improvviso del proprietario, mette la mano in tasca e ne tira fuori un cellulare, fingendo di fare una telefonata. Va via la luce dei lampioni e Antonino non riesce a vedere il viso della persona vicino alla sua Fiat. Si apposta nell’intercapedine della porta e guarda verso l’auto, percependo di essere osservato a sua volta. Il veicolo sospetto si allontana. Antonino risale a casa e si mette al computer. Pochi minuti e sente il botto provenire dalla strada. “Le fiamme erano molto alte, hanno usato una gran quantità di combustibile”, dice sul falò che ha ridotto in cenere la sua macchina, immolata


sulla via del giornalismo d’inchiesta. Ma siamo solo all’inizio. Il 22 febbraio al cronista di giudiziaria del Quotidiano della Calabria Giuseppe Baldessarro, unico corrispondente regionale di Repubblica, arriva una lettera in redazione fatta con i ritagli del suo giornale. C’è scritto il suo nome e “andare oltre significa morte”. Racconta Antonino: “Quando l’ho saputo, la frase mi ha molto scosso, era inequivocabile. Casualmente ci eravamo incontrati proprio quella mattina, poche ore prima, per parlare di come andavano le cose in città”. Il 2010 è iniziato all’insegna della tensione a Reggio Calabria con l’attentato del 3 gennaio alla Procura generale, quando un ordigno artigianale ad alto potenziale collegato a una bombola del gas è stato fatto esplodere davanti al portone dell’ufficio giudiziario guidato dal procuratore generale Di Landro. In quel periodo vengono colpiti i cronisti che si sono occupati di giudiziaria, di ‘ndrangheta. Il 15 febbraio tocca a Filippo Marra Cutrupi, collaboratore dell’agenzia ApCom, del Giornale e della Stampa. “Non devi scrivere più di noi - la ‘ndrangheta attacca lo Stato” e una croce sul suo nome è il contenuto di una lettera con ritagli di giornale fatta recapitare a casa di un familiare. Quattrocento pezzi pubblicati sul blog di Monteleone. Quattrocento fronti aperti. Però lui ha dei sospetti e mi dice subito in che direzione vanno. Tanti baci a Giuseppe De Stefano è il titolo di un post scritto il 12 dicembre del 2008 dopo la cattura del latitante più pericoloso in Calabria e uno dei 30 più ricercati in tutta Italia. Il capoclan quarantenne davanti alla questura saluta i giornalisti, “Ciao belli”, e manda baci, ricambiato. Antonino ha scritto il nome di chi ha mandato baci al latitante. E’ stato l’unico giornalista a fornire questo particolare sul suo blog. “Al bacio di questo Ivan, il boss ha ricambiato, questo dimostra un avvicinamento tra i due, non escludo che facesse parte della rete di sostegno alla latitanza”, mi spiega nel corso della lunga telefonata. In quel post c’è già la chiave per spiegare


cos’è la ‘ndrangheta a Reggio Calabria e il rapporto con l’informazione. De Stefano che è riuscito a concepire due figli da latitante e a passare con la famiglia tutte le feste comandate, viene scoperto in un appartamento vista mare nel cuore della città. Una rete di appoggi, protezione e rispetto gli ha dato sostegno per anni. Un cognome, De Stefano, che vuol dire guerra di ‘ndrangheta e influenza sulla politica. Poi arriva la cattura, ma il Tg1 delle 20 non trasmette alcun servizio. E un operatore che lavora per un service fornendo le immagini alla Rai viene aggredito in questura dal fratello del boss. Scrive Antonino: “Tu riprendi. Io ti rompo la telecamera. Come se tutti guadagnassero i soldi per gli strumenti di lavoro come fanno loro. A suon di affari illeciti. Di estorsioni. Di traffico di stupefacenti. Con le imprese “pulite” di forniture di beni e servizi. Riciclando i proventi illeciti in altre attività, anche queste pulite”. “Perché scrivi queste cose?”, gli chiedo. Risposta: “Perché speri che prima o poi lo facciano anche gli altri”. Incontro di persona Monteleone a Reggio. È il 13 marzo e c’è il No Mafia Day, con poche centinaia di persone, arrivate quasi tutte da fuori Calabria. Nonostante l’impatto della manifestazione sia deludente, Antonino accetta di esporsi parlando dal palco in piazza Duomo. Mi dice: “E’ importante scendere in piazza e manifestare il dissenso, anche se per chi rimane in Calabria diventa davvero difficile”. Sei mesi e molti altri giornalisti e magistrati minacciati più tardi, in quella stessa piazza confluiranno ventimila persone, questa volta in gran parte calabresi, per il corteo di solidarietà ai giudici “No ‘ndrangheta” organizzato il 25 settembre dal Quotidiano della Calabria. Cinque giorni dopo le agenzie battono una notizia: Reggio Calabria, arrestati gli uomini che bruciarono l’auto del giornalista Monteleone. Il cerchio delle indagini si è chiuso proprio attorno a quel nome, Ivan. Epilogo. Si chiama così l’operazione


coordinata dalla Dda di Reggio Calabria che porta all’arresto di 22 persone legate alla cosca Serraino, tra cui Ivan Valentino Nava di 25 anni, Antonino Barbaro di 24, Felice Lavena di 28 e Nicola Pitasi, 31 anni. Sono loro a essere accusati dell’intimidazione a Monteleone. Il giornalista aveva denunciato di avere visto gli autori del danneggiamento, uno dei quali con indosso un giubbotto bianco che gli ricordava quello di Ivan Nava. Monteleone, proprio il 3 gennaio, nel pomeriggio, aveva filmato la stessa persona a bordo di una Seicento vicino alla Procura generale, durante la manifestazione di solidarietà ai giudici per la bomba contro la procura. Nava si era accorto di essere stato ripreso e aveva mandato a dire a Monteleone di stare attento. Le intercettazioni ricostruiscono la spedizione punitiva della notte del 5 febbraio, la ricerca dell’automobile di Monteleone in ogni singola traversa nei dintorni della sua casa, gli appostamenti. “Cornuto, figlio di puttana” lo chiama Nava mentre si trova nella Seicento con i suoi compari. “Il figlio di puttana, il giornalista, che scrive gli articoli contro le persone, ha fatto un articolo a me…minchia se parcheggia… è una vita che lo aspetto, una vita - dice ancora -. Questo qua è un figlio di puttana, sai come scrive brutto sopra le persone mafiose, a me mi ha scritto topo burlone, quando hanno arrestato a quello vicino a casa mia, tipo che sono andato a salutarlo io mi ha scritto l’articolo. Scrive articoli brutti contro le persone, che fanno schifo, tipo Roberto Saviano”. Epilogo arriva quando Monteleone ha lasciato Reggio Calabria per trasferirsi a Roma dove è stato assunto come inviato per il programma Exit di La7. Nel frattempo grazie a una raccolta fondi su internet, i cittadini hanno in parte ripagato il danno mafioso, donando 7.200 euro per ricomprargli la macchina. In tanti hanno versato anche solo 50 centesimi. “Il messaggio più antimafioso che si potesse


rivolgere alle cosche” scrive Antonino sul blog. Ma solo il 30% delle donazioni è arrivato da calabresi, il restante 70% dal resto d’Italia o dall’estero. Lui se l’aspettava. “Sono contrario a questa iniziativa di alcuni amici – mi aveva detto in quella nostra prima conversazione al telefono – perché non voglio mettere il sigillo al fatto che la mia città è indifferente. E poi c’è chi solo per metterti in imbarazzo ti dice in mezzo a tutti: allora con tutti quei soldi te la sei comprata la macchina?”. Un modo subdolo per isolare la vittima di un’intimidazione. Da quella telefonata riprendo gli scampoli di vita da freelance che mi aveva raccontato. “In tutte le città le fonti giudiziarie subiscono una distorsione, devi avere un magistrato o un avvocato amico che ti passano le carte. Il freelance che non ha un direttore alle spalle, che non può spendere il nome di una testata ha molte più difficoltà. Se poi dici che scrivi per un blog, a Reggio ti ridono in faccia”. Il blog però ha funzionato, per inventarsi un mestiere, un ‘ufficio di collocamento’ come dice lui. Ha scritto per Panorama, per il blog del Fatto Quotidiano e gratuitamente per il quotidiano online Strill.it. Ha collaborato con Report e con TeleReggio. Sull’emittente calabrese, un ciclo di inchieste di sei puntate per le quali ha lavorato tre mesi e ogni weekend dormiva in Tv per montare i servizi, sono state retribuite 500 euro a puntata e nessun rimborso spese. “Da un lato ci sono tutte le difficoltà di sopravvivere da freelance, dall’altro può capitare anche di essere rispettato proprio perché non ti manda nessuno, quando le persone capiscono che scrivi solo per interessi giornalistici e senza secondi fini. Ci tengo a essere per conto mio, chi ti dà le informazioni deve dartele a prescindere dalla testata”. Per chi fa della libertà una condizione di vita e di lavoro, il panorama della stampa calabrese, influenzata da tutto il contesto sociale, è


molto complesso, come dimostrano altre vicende che racconterò più avanti. Le minacce ai giornalisti hanno fatto esplodere tutte le contraddizioni del sistema. “Non serve che la ‘ndrangheta punti la pistola alla tempia – mi dice Monteleone –, il cittadino non è libero perché non vota chi ritiene capace, ma qualcuno che sia in grado di soddisfare un interesse particolare. I portatori di consenso portano una molteplicità di interessi singoli invece di migliorare il sistema nel complesso. Non si vota sulla base di quello che scrivono i giornali. E la pubblicità scarseggia perché in Calabria il tessuto imprenditoriale e commerciale è asfittico. Il 50% del budget pubblicitario è pubblico istituzionale, gli altri sponsor sono soprattutto la grande distribuzione organizzata (in gran parte in mano alla ‘ndrangheta), concessionarie di autovetture e piccole o medie imprese. Dunque i giornali in Calabria dipendono dai poteri pubblici e a questo aggiungi che nessun centro commerciale finanzierebbe una testata come l’Ora di Palermo”. Non c’era spazio in Calabria per le inchieste di Antonino Monteleone.

Quattro per cinque Cinque proiettili spaccano la carrozzeria e l’aria delle feste di Natale, alle undici di sera del 28 dicembre 2008. Angela Corica ha 25 anni. Ma ne aveva solo 23 quando la sua macchina è stata crivellata di colpi mentre era parcheggiata davanti a casa. Cronista di paese, giovane e donna. Da collaboratrice occasionale scriveva molto, almeno due articoli al giorno, pagata per un anno mezzo “4 centesimi a rigo”. Il totale fa 400 euro ogni tre mesi. Anche la busta paga è ‘occasionale’. Da grande svendita giornalistica. “Volevo imparare, non lo facevo per i soldi – spiega - sono stata da subito visibile, non ho mai chiesto niente al giornale e non ho discusso sull’aspetto economico”.


Lavora per Calabria Ora. O meglio, lavorava. Perché adesso le cose sono cambiate. Ma quando io l’ho conosciuta era ancora orgogliosa della sua testata. Come può esserlo della sua determinazione. “Pensavano di potermi fermare facilmente perché sono una ragazza, invece vado avanti”, mi dice nella primavera del 2010, quando la catena di minacce ai giornalisti ha riportato a galla anche la sua storia. Un’intimidazione gravissima di cui non si era accorto nessuno. A Cinquefrondi, 6.500 abitanti nella Piana di Gioia Tauro, piccolo mondo stretto in cui si conoscono tutti. Angela Corica e i suoi cinque bossoli sono stati una breve di cronaca sui giornali locali sei mesi dopo l’accaduto. La storia è stata tirata fuori dal dimenticatoio da un rapporto dell’osservatorio della Fnsi, Ossigeno per l’informazione, grazie al lavoro di Roberta Mani e Roberto Rossi. “Che cavolo ho fatto? Non è possibile”. L’ha pensato pure lei quando ha visto la sua macchina crivellata da chi voleva tapparle la bocca. “Per la polizia non c’è dubbio – racconta -, quando si fanno queste cose non si sbaglia e poi la mia abitazione è in una strada chiusa”. C’era bisogno di dare questa precisazione? Si, perché a tanti è sembrato assurdo che qualcuno potesse voler colpire Angela Corica, una collaboratrice alle prime armi. “Non avevo la percezione chiara di cosa fosse il territorio, ora capisco: una parola di troppo e ti devono tappare la bocca, si allarmano per una voce fuori dal coro”. I freelance all’estero sono considerati cani sciolti, giornalisti rispettati perché senza padroni. In Italia sono meno che precari. Angela si è sentita una giornalista libera. Ha scovato un business di smaltimento illecito dei rifiuti. E soprattutto l’ha scritto. “Si è parlato della mia inchiesta sui rifiuti ma per ora non ci sono prove, è una parentesi aperta”, vuole precisare. A due anni dalle indagini non ci sono risposte, né responsabili in manette. Ma questa è la regola con le intimidazioni. L’eccezione è lei, la sua reazione.


“Quello che è successo mi ha messo difronte a un bivio. Smettere e fare un altro lavoro, scrivere solo quello che si può o continuare senza clamore, senza sentirmi un’eroina”. La scelta era già dentro la sua vita. Se il chiodo fisso del giornalismo ti perseguita dalle elementari, finisce che ti iscrivi a Scienze della Comunicazione, ti laurei e inizi a collaborare. Così Angela ha incontrato a Cosenza Calabria Ora ed è tornata nel suo paese per scrivere. Le piacciono Marco Travaglio e il giornalismo d’inchiesta. La strada era segnata, ma i proiettili non erano previsti. Non ci avevi pensato, Angela? “Lo sapevo, sì, la realtà è questa, ci sono nata e cresciuta, devo conoscere a cosa vado incontro quando scrivo”. Una risposta che smentisce qualunque ingenuità. E basta ricostruire quell’inchiesta per capire che la notizia se l’è andata a cercare. “Era partita da qualche mese la raccolta differenziata porta a porta gestita da una cooperativa per conto del comune che ha indicato un sito dove portare i rifiuti – dice – Era un’ex scuola distrutta, in campagna. Con il mio primo articolo ho evidenziato che, quando la discarica era piena, qualcuno bruciava l’immondizia. La raccolta differenziata era un bluff e il comune ha perso i finanziamenti”. Angela ha scritto tre articoli sull’argomento in tre settimane tra ottobre e novembre del 2008. Risultato: c’è stato un calo della differenziata perché la gente si è sentita presa in giro e anche la discarica è stata sequestrata perché non era un sito di stoccaggio. I provvedimenti però sono arrivati solo dopo l’intimidazione e la pista degli interessi sui rifiuti è stata quella più battuta dagli inquirenti per l’attentato alla giornalista. “Se c’è qualcosa di interessante sul giornale, la gente legge e ne discute in piazza”, commenta, rovesciando uno stereotipo che vede i calabresi poco propensi a comprare i quotidiani. Angela si è sacrificata per la sua comunità, svelando una verità scomoda e provocando un cambiamento reale. “Qualcosa che era sotto gli occhi di tutti ma


nessuno aveva mai denunciato, per questo ha dato fastidio”, sono le sue parole. L’omertà rovescia il mondo reale. Il problema non è che si bruci la spazzatura, è che qualcuno lo scriva, punti il dito. Per questo la gente del paese le ha detto che “doveva stare attenta”. Per Cinquefrondi Angela non doveva scrivere, ha sbagliato a mettere il naso in qualcosa più grande di lei. Che poi qualcuno ti spari è una cosa data per scontata. Nella Piana di Gioia Tauro si vive come in uno specchio capovolto e la vittima diventa il colpevole. “C’è stata la vicinanza formale dei politici, che mi hanno espresso solidarietà con dei manifesti, un consiglio comunale aperto, gli amministratori sono venuti a farmi visita a casa, ma i rapporti personali e le relazioni sociali sono peggiorate. Non ho molti amici, la gente invece di starmi vicina mi ha allontanata”. È l’effetto reale pagato sulla pelle. Non arriva sulle pagine dei giornali. L’intimidazione funziona perché manda in frantumi la tua vita sociale. Perché crea isolamento. “Non sapere chi è stato mi rende più insicura, non so chi è il mio nemico, può ancora agire indisturbato. La notte mi spavento se sento rumori strani sotto casa. Nell’immediato avevo paura di spostarmi, non uscivo con la mia macchina, evitavo di tornare tardi”. Stanca di angosciarsi e di autolimitarsi ha deciso di vivere alla giornata e non pensarci più. Non so se mi fa più paura quello che dice o la naturalezza con cui ne parla. “La gente non ha capito il senso di quello che ho scritto, anche tra i giovani pochi mi sono rimasti vicini, gli altri si sono uniti al coro delle critiche. La mia famiglia mi ha sostenuta però giustamente aveva paura e all’inizio mi stava con il fiato sul collo”. Tirare fuori l’argomento pallottole è come aprire una lotta interiore. “Se ne sta parlando tanto – dice - queste persone che hanno compiuto l’attentato si infastidiscono ancora di più”. Sfidare a mani nude l’omertà è difficile. Eppure le


piacerebbe ancora restare nella sua terra. Un ‘addio amaro’ è invece quello che ha dato il 31 ottobre 2010 a Calabria Ora, da luglio diretto da Piero Sansonetti, ex direttore di Liberazione. Angela lavorava come collaboratrice. Dopo i proiettili la novità è stata quella di avere un contratto. Ma da esterna alla redazione, con l’impegno di seguire 5 dei 33 paesi della Piana con le spese ovviamente a suo carico. In realtà lei era parte integrante della redazione di Gioia Tauro, composta di un caporedattore, un grafico e altri tre collaboratori. Questo contratto nemmeno l’ha chiesto, glielo hanno offerto. Nella lettera di dimissioni, Corica scrive che per un anno ha “assicurato turni e presenze quotidiane in redazione e firmato le pagine”. Mansioni da redattore ordinario non previste dal suo contratto di collaborazione. La motivazione ufficiale delle dimissioni è il dissenso rispetto alla linea editoriale del nuovo direttore Sansonetti. Ma la lettera racchiude tutte le categorie dello sfruttamento sul lavoro. L’incomunicabilità con il Comitato di redazione, la ‘mancia’ di 150 euro euro in più con il nuovo contratto a settembre. “Non ho accettato lo pseudo aumento di settembre perché non ne ho fatto una questione esclusivamente economica, chiedevo che fosse quantomeno riconosciuto il lavoro di chi non si è potuto prendere neppure un giorno di corta. Sempre in attesa che questo stato di assestamento passasse”, scrive. E continua: “Oggi tante certezze che avevo crollano, io non mi sento più sicura all’interno di un giornale che non mi tutela. Non avrei la forza, né la voglia, né il coraggio di espormi come prima. Di fare inchieste anche rischiose. Perché oggi (vedi il caso Musolino) nessuno nel giornale sarebbe dalla mia parte. E’ inutile continuare a lavorare per un giornale da un territorio così difficile quando i colleghi del Cdr, la proprietà e il direttore, non lo riconoscono questo lavoro fatto di rinunce, di sacrificio, di pericolo e di passione.


Mi dimetto perché quelle garanzie oggi non le ho più, anzi penso di essere stata ampiamente presa in giro. […] La mia scelta è arrivata tardi, purtroppo. Avrei dovuto avere la forza di farlo prima. Ho firmato insieme ad altri colleghi il documento di solidarietà a Musolino, querelato dal direttore e poi licenziato, perché il collega non poteva essere lasciato solo in quel momento. Penso a lui e penso a quello che è accaduto a me due anni fa. Cosa avrebbe fatto il giornale per me oggi, se qualcuno mi avesse sparato contro la macchina un’altra volta? Perché è stata pubblicata solo la risposta del direttore rammaricato e non la lettera di noi giornalisti per il sostegno a Musolino? Questa non è informazione. Ed io non posso continuare”. Mentre la leggo e mi pongo le stesse domande, ricordo quello che Angela mi aveva detto in un’altra occasione. “Se veramente vogliamo bene alla nostra regione, i giornali e i giornalisti dovrebbero essere uniti”. Una voce sola non basta. A tapparti la bocca più dei proiettili può essere il tuo giornale che ti volta le spalle. Questa storia mostra che a Gioia Tauro può esserci la dignità professionale che non si trova a Roma e a Milano. In un’estrema periferia, tra collaboratori di provincia, il caso Corica brilla per coerenza. Non si è fatta comprare da una promessa di contratto, ha rifiutato una proposta economica migliore. Non ha ceduto perché il suo lavoro ha bisogno di tutele che non sono solo economiche. Non ha voluto abbassare la testa, come mi spiega lei stessa: “Calabria Ora non è più il progetto nel quale credevo. Non me ne vado per soldi, ho anche rifiutato un’offerta contrattuale da parte loro. Per me è un problema etico, quando è cambiato il direttore da Pollichieni a Sansonetti, è cambiata anche la linea del giornale, per questo ho dato le dimissioni”.


La mamma della ‘ndrangheta Minacciato di morte assieme alla sua famiglia per due volte in una settimana. Ferdinando Piccolo è un giornalista pubblicista di 23 anni che non viene pagato dal Quotidiano della Calabria da quasi tre anni. Veterano dei 4 centesimi, con una collaborazione occasionale e un tetto di 250 euro mensili, da tre anni e mezzo scrive di ‘ndrangheta dall’Aspromonte, da San Luca. Attorno a Piccolo, l’ultimo in ordine di tempo dei cronisti minacciati in Calabria, è nato un caso a fine settembre. Gli sono arrivate due buste con proiettili e lettere minatorie a ridosso della manifestazione “No ‘ndrangheta” indetta dal suo direttore Matteo Cosenza in sostegno ai magistrati antimafia minacciati a più riprese dall’inizio dell’anno. Alla vigilia del corteo del 25 settembre, Cosenza è ospite nella trasmissione televisiva Uno Mattina. “Gli ho sentito dire che è fiero di un giornalista come me, a quel punto l’ho chiamato per chiedere di rivedere la mia posizione contrattuale”, racconta Piccolo. Le intimidazioni al giovane reporter non sono collegate alla manifestazione anti‘ndrangheta di Reggio Calabria, ma la data in cui arrivano, 11 e 19 settembre, le rendono un traino per l’iniziativa del Quotidiano, che conta tra le sue fila una sfilza di corrispondenti e redattori minacciati in tutto il 2010. “Mi hanno telefonato dall’amministrazione il giorno del corteo per dirmi che la mia collaborazione passava da 4 centesimi a rigo a 6 euro e 50 centesimi a pezzo lorde, 5 euro nette, e che entro una settimana avrei avuto gli arretrati dal 2008”, mi racconta il giornalista di Bovalino. Ma due mesi dopo quei soldi non sono ancora arrivati. Sempre il 25 settembre sul sito Giornalisti Calabria del sindacato della stampa calabrese appare un articolo dal titolo: “Piccolo, giornalista minacciato e non pagato”, in cui il segretario Carlo


Parisi raccomanda al direttore Cosenza di ricordarsi di pagare i giornalisti. Parisi ribadisce la posizione del sindacato calabrese sulle minacce, più volte espressa in questi termini: “Solidarietà, marce, manifestazioni e girotondi servono a poco. Costituiscono, sì, attestazioni di solidarietà e d’affetto ai destinatari delle minacce, ma finiscono per fare il gioco sia di chi vuole alimentare il clima di terrore e la cultura del sospetto, sia di chi costruisce le proprie fortune, economiche e professionali, grazie al professionismo dell’antimafia. La risposta deve darla, innanzitutto, lo Stato, garantendo alla Calabria più investigatori e magistrati per smascherare ed assicurare alla giustizia i responsabili del malaffare. A tutti i livelli. Soprattutto a quelli più alti ed insospettabili”. Per Parisi, Piccolo è “un giovane che sogna di fare il giornalista e che, come tanti altri, assicura al giornale di Cosenza montagne di articoli che gli consentono di riempiere pagine e pagine, soprattutto in questi giorni di grande visibilità per via delle minacce e della manifestazione”. A questo editoriale segue un commento di Rino Labate, giornalista della Gazzetta del Sud e professore di giornalismo di Ferdinando alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Messina. “Se il giornalismo vive sullo sfruttamento” è il titolo del suo intervento sulla manifestazione di Reggio. In cima all’articolo si legge: “Solidarietà ai magistrati ma c’è chi specula sui sogni dei giovani”. Labate si riferisce “a chi nel nostro ambiente fa il puritano, conduce grandi battaglie morali e poi sfrutta chi gli sta vicino, lo costringe a lavorare rischiando la vita e pagandolo, per la sua opera intellettuale, meno che un bracciante di Rosarno”. Un vero tiro alla fune tra il Quotidiano e il sindacato. Ferdinando Piccolo decide di prendere le distanze “da tutti coloro che stanno cercando di usare l’immagine non solo mia ma di tutti i giornalisti minacciati”. Mi spiega chiaramente il motivo. “Da una parte c’è il direttore che va a Uno Mattina e dice ‘sono contento di Piccolo’ ma poi non mi paga. Non fa niente per tutelare la mia situazione contrattuale


perché 4 centesimi a rigo è misero, non tanto per le spese della benzina, ma per il reale rischio che si corre a scrivere da San Luca. Dall’altra c’è il segretario del sindacato a cui sono iscritto, Carlo Parisi, che risponde: ‘Ferdinando deve essere pagato’. Però è anche vero che da tre anni sapeva quanto ero pagato, è stato lui ad avviare la pratica per farmi avere il tesserino da pubblicista. Tutti i giornali pagano 4 centesimi, il sindacato conosce la nostra situazione da anni”. Ma sembra accorgersene giusto la mattina della manifestazione a Reggio Calabria. “Il segretario Carlo Parisi scrive una nota in mia difesa perché sono sfruttato – continua Piccolo - sì è vero, 4 centesimi al rigo è sfruttamento, però non capisco perché è uscita il giorno della manifestazione. Certamente mi fa piacere anche l’articolo del mio professore di giornalismo Rino Labate, che da anni mi sostiene in questa battaglia, ma non capisco perché tutto questo rumore solo dopo che mi sono arrivati i proiettili. L’ho detto anche al mio direttore: prima Ferdinando Piccolo non esisteva? Non scriveva ogni giorno da San Luca o di ‘ndrangheta o di appalti o di milioni di euro che scompaiono? Prima no. Ho incontrato il direttore una volta sola, non mi ha mai chiamato in quattro anni e improvvisamente mi ha telefonato quando ho ricevuto la prima busta con i proiettili”. Ferdinando ha scritto anche per Avvenire, il quotidiano dei vescovi, scoprendo dopo che la collaborazione era ‘gratuita’. Lo sponsor dell’attività giornalistica è il papà, che fa il barbiere e sovvenziona anche gli studi universitari a Messina. E’ stato lui a trovare la prima busta gialla con i proiettili indirizzati al figlio, sotto la porta del suo negozio a Bovalino. “Stai attento a quello che scrivi o sarai un morto che cammina, con la ‘ndrangheta non si scherza”. La minaccia arriva con cinque bossoli 8 millimetri. Stesso sistema per la seconda intimidazione che compare sul pianerottolo di casa. Ferdinando la trova al suo rientro, poco dopo la mezzanotte del 19 settembre.


Stavolta i proiettili sono due e vengono da una pistola caricata a salve. Le parole invece sono molte di più e scritte in Times New Roman 36. Stessa mano. “E’ passata una settimana. Ferdinando Piccolo Sappiamo dove abiti…. che macchina hai, dove dormi, e sappiamo anche cosa fa tua sorella, a che ora va a lavorare tuo padre…non hai capito che stai giocando con il fuoco. Vorrà dire che alzeremo il tiro….non avvertiamo più…..stai attento a non uscire da solo…. Giornalista infame che non sei altro…sei un morto che cammina. Devi smettere di scrivere da San Luca. Sei di Bovalino, e scrivi di Bovalino...”. A casa Piccolo non l’hanno presa bene. Soprattutto la mamma di Ferdinando appare più spaventata che rassicurata dalla presenza fissa di una pattuglia dei carabinieri sotto l’abitazione. “Cosa hai fatto? Che altro c’è? Dimmi la verità”, chiede, vedendo la sorveglianza per quel figlio che non vuole farsi i fatti suoi. “Dà fastidio che scrivo da San Luca – commenta –, ma Bovalino non è l’isola felice, è la stessa cosa. Scriverei ugualmente di ‘ndrangheta”. Bovalino, locride, feudo mare delle cosche di San Luca. Nirta e Strangio da una parte, Pelle e Vottari dall’altra. Sono le famiglie al centro della faida che ha portato alla strage di Duisburg il giorno di ferragosto del 2007. Piccolo è un testimone privilegiato a San Luca perché non è visto come un estraneo, è dentro al contesto, frequenta il santuario di Polsi con la famiglia da quando era bambino. Conosce tutti, è uno del posto. Ne comprende la mentalità e i codici sociali. “San Luca è la mamma della ‘ndrangheta, Bovalino e gli altri paesi limitrofi sono i figli, per formare un nuovo locale di ‘ndrangheta serve l’assenso della ‘mamma’ – racconta -, anche se solo il 20% degli abitanti di San Luca è ‘ndranghetista, l’altro 80% ha il compare, il cugino, il parente affiliato, quindi si tende ad avere una società totalmente omertosa. In questo momento la situazione è confusa perché il paese è diviso in due, spaccato come la faida. Non si riesce a capire ora chi comanda”.


Duisburg, 15 agosto 2007. I sei morti ammazzati davanti al ristorante Da Bruno sono uno spartiacque nella storia di San Luca. Ad aprile 2010 si è aperto in Corte d’Assise a Locri il processo contro Giovanni Strangio, 31 anni, ritenuto dagli inquirenti l’ideatore e uno degli esecutori della strage, difeso dall’avvocato Carlo Taormina. La latitanza di Strangio si concluse l’anno scorso alla periferia di Amsterdam dove fu arrestato. Le donne della famiglia protestarono in piazza con i cartelli “Giovanni Strangio è innocente”. Ma le sorelle di Strangio, Angela e Teresa, sono state arrestate anche loro a febbraio del 2010 nell’operazione “Fehida 3” contro i clan di San Luca e quelli che per gli inquirenti sono gli altri due killer del commando di fuoco di Duisburg, Sebastiano e Giuseppe Nirta. Per capire quanto sia delicata la situazione, bisogna entrare nella redazione del Quotidiano a Siderno, quella della locride, a cui fa riferimento il collaboratore Piccolo. A febbraio e a marzo scorsi è stato minacciato l’allora caporedattore Michele Inserra, in seguito trasferito a Reggio Calabria. A giugno è arrivata in redazione anche una telefonata intimidatoria al suo caposervizio Giovanni Verduci. “Sappiamo chi sei e dove abiti”, gli hanno detto. A Siderno stanno seguendo tutti i guai giudiziari delle ‘ndrine di San Luca. In particolare il processo “Fehida” inteso a dimostrare l’associazione mafiosa per gli affiliati ai clan della strage di Duisburg, che ad aprile è stato accorpato al processo contro Giovanni Strangio. Il 3 febbraio 2010 il giornalista Michele Inserra pubblica un articolo in cui, in base a una soffiata, si dice che Domenico Nirta si appresta a lasciare San Luca. Sarebbe lui e non Giovanni Strangio l’autore principale della strage di Duisburg. L'identikit diffuso dalla polizia tedesca attribuito in un primo momento a Strangio, comunque coinvolto, ritrarrebbe invece Nirta. E' quanto emerge dal processo Fehida in corso a Locri. Il giornale pubblica anche l'identikit e affianco la foto di Nirta. Il diretto interessato chiama in redazione e parla con il giornalista. Dice che lui “non c’entra niente con Duisburg” e che l'articolo “ha creato troppe tensioni a San Luca dove


molte persone hanno la testa calda”. Inserra vuole strappargli un’intervista e quindi va a San Luca, avvisando il caposervizio e le forze dell’ordine. All’arrivo, chiama Nirta al numero che era comparso sul display del telefono in redazione. Non ottiene l’intervista ma la risposta è inequivocabile. Inserra è "persona indesiderata a San Luca dove potrebbe farsi male”. Il giorno seguente, in tribunale, una cognata di Nirta e praticante avvocato ripete il messaggio: “A San Luca si sono molto arrabbiati”. E denuncia per “danni all'immagine” il giornalista e il collega Pasquale Violi che fa la cronaca giudiziaria del processo. “Se per caso dovesse capitare un’intimidazione, la denuncia può essere un alibi”, mi spiega Inserra per telefono pochi giorni dopo. Se l’aspettava e, puntualmente, il 22 marzo una cartuccia di fucile calibro 12 esplosa viene lasciata davanti alla porta di ingresso della redazione di Siderno che sta al terzo piano di uno stabile di via Correale. La cartuccia ha incollato sopra un ritaglio di giornale con la sua firma. Michele Inserra è campano, viene dal Mattino di Napoli e dopo un'esperienza al Quotidiano della Sera a Roma, dal novembre 2007 ha coordinato l'ufficio di corrispondenza di Siderno, divenuto in seguito redazione. Il 21 luglio arriva il trasferimento e la promozione a caposervizio a Reggio Calabria. Il Quotidiano pubblica in anteprima nazionale l’identikit che scagiona Strangio. Il giorno dopo pubblica anche le lettere dal carcere dell’imputato ai familiari, con un articolo di commento firmato da Ferdinando Piccolo. È lui che è andato a recuperare le lettere a casa di Strangio. “Ho parlato con tutte le sue sorelle e con la moglie di Nirta, sono andato a sentire le loro versioni”, racconta. Un’operazione complessa, in cui si deve usare il bilancino per evitare compromissioni e ripercussioni pericolose. “Il giornale viene letto anche dalle famiglie, si crea tensione – spiega – si deve stare attenti a non creare fraintendimenti che possono


provocare altri scontri e a non lasciare pensare che sono da una parte o dall’altra”. Ferdinando ha dato voce anche ai Pelle Vottari, intervistando Antonia Giorgi, vedova, mamma di Marco e Achille Marmo, il primo ucciso a Duisburg, il secondo in carcere a Parma con il 41 bis per associazione mafiosa. La signora Giorgi ha scritto un libro per sostenere l’innocenza dei suoi figli. Si intitola Dalle origini della mia famiglia alla strage di Duisburg, edito da Officina Grafica. “Non mi conosceva, mi ha visto al municipio a San Luca e mi ha detto: tu sei Ferdinando Piccolo? Ti cercavo perché voglio parlare con te, degli altri giornalisti non mi fido, tu sei di Bovalino e voglio parlare con te che sei un giovanotto”. Antonia Giorgi voleva convincere Piccolo a scrivere di suo pugno un articolo per sostenere l’innocenza del figlio Marco. “Marmo è partito da San Luca con una Golf carica di armi e a Duisburg ha fatto un rito di iniziazione – ricorda il giovane reporter - I sei uomini uccisi a Duisburg avevano in tasca i santini di San Michele Arcangelo con la testa bruciata. Quelle immagini sono il segno che avevano fatto entrare nella picciotteria i due adolescenti. A quell’età passi da contrasto onorato a picciotto. Era il rito per farli entrare nella famiglia Pelle. Marco Marmo era stato accusato di avere ucciso Maria Strangio a Natale del 2006, il delitto da cui è nata la strage. Era andato a formare un nuovo locale a Duisburg. Sua madre mi ripeteva: mio figlio è innocente. Le ho detto: ma qui vogliamo scrivere o ci prendiamo in giro? Le ho spiegato chiaramente che avrei riportato da cronista che quella era solo la sua convinzione. Ogni mamma difende il figlio suo”. Le famiglie di San Luca cercavano un canale di stampa che gli desse voce. Il Quotidiano della Calabria ha potuto pubblicare i suoi servizi in esclusiva dalle case della faida. Il tramite di questa comunicazione è stato Ferdinando Piccolo, nonostante abbia poco più di vent’anni. O forse proprio per questo. “In tanti mi hanno detto sei ingenuo. Ancora non capisci nulla della ‘ndrangheta, scrivi di cose


che non conosci – afferma - mi spinge la voglia di fare luce in determinate situazioni, forse amo troppo la mia terra e questo è un modo che ho per contrastare la criminalità organizzata che la insanguina. Penso che se siamo soli non risolveremo mai nulla”. Ma oltre alla tensione per la faida che si è acuita con l’apertura del processo, anche la festa del 2 settembre a Polsi per la Madonna della montagna aveva gli occhi dei media e delle forze dell’ordine puntati addosso. Massima attenzione dopo i video degli inquirenti che mostravano il summit di ‘ndrangheta del 2009 all’interno del santuario. Le immagini erano state diffuse a luglio con l’operazione “Il Crimine”, condotta dai giudici di Reggio Calabria e di Milano, che ha portato alla cattura di 300 persone in tutta Italia, tra cui Domenico Oppedisano, accusato di essere stato incoronato a Polsi come ‘capo dei capi’ della provincia di Reggio. Queste vicende che tutti abbiamo letto nelle cronache nazionali in qualche modo incrociano la vita di Ferdinando. Lui scrive della festa di Polsi anche quest’anno e dopo pochi giorni arrivano gli avvertimenti mafiosi. Difficile pensare che non siano collegati agli ultimi articoli. “Polsi è un paradiso terrestre, amo l’Aspromonte. Mi dà fastidio quando si cerca di infangarne il nome con i summit mafiosi e le riunioni di ‘ndrangheta. Polsi è un santuario che vede arrivare ogni anno 100 mila fedeli che in segno di devozione fanno un voto, le donne vengono da San Luca a piedi scalze, arrivano ai piedi del santuario e fanno gli ultimi chilometri in ginocchio, lacerandosi. Se dieci persone vengono a riunirsi all’ombra di una quercia sacra, intesa nel gergo mafioso come luogo perfetto per iniziare un rito di picciotteria, ci sono altre centomila persone che vengono per pregare la Vergine”. A Polsi non c’è solamente la ‘ndrangheta. Ferdinando lo crede fermamente e ha iniziato a dirlo dalle colonne del suo giornale. “Polsi batte ‘ndrangheta uno a zero. Polsi non chiude per mafia. Polsi blindata, la ‘ndrangheta non fa i suoi summit


quest’anno”. Sono alcuni titoli che ricorda con l’orgoglio di chi vuole impegnarsi a difendere la sua terra. Tra le due lettere con i proiettili, c’è un’altra riccorenza importante per il santuario aspromontano. La festa della Croce il 14 settembre. “Per tradizione, una vacca sacra viene fatta camminare in chiesa, donata al santuario. Nel caso della ‘ndrangheta la vacca ha una simbologia precisa, legata alla condizione della donna a San Luca”. Nel suo articolo Piccolo ha sottolineato il controsenso per cui la croce è stata portata in processione dai calciatori del San Luca calcio che l’anno scorso ricevettero il Daspo, il divieto d’accesso alle manifestazioni sportive, perché scesero in campo col lutto al braccio per onorare la memoria del boss ‘Ntoni Gambazza, al secolo Antonio Pelle, morto d’infarto a novembre del 2009. “Saranno stati purificati dalla vergine Maria” commenta il giornalista tra l’ironia e la rabbia. I riti mafiosi all’ombra di santini e santuari, l’arretratezza della condizione femminile, la chiusura di una società su se stessa per conservare l’esistente con il sigillo dell’omertà. Le stragi consumate come un rituale di sangue a ogni festa comandata. I massacri a Carnevale, a Natale e a Ferragosto. Sono le caratteristiche arcaiche su cui la ‘ndrangheta fonda il suo potere moderno fatto di narcotraffico e di affari illeciti globali. Quando la sera di Natale del 2006 morì Maria Strangio, uccisa per errore nell’agguato contro il marito Giovanni Luca Nirta, in cui restarono a terra anche quattro feriti, nessuno denunciò l’accaduto. Fu solo dopo il ricovero in ospedale dei feriti che i carabinieri appresero la notizia. Lo rivelò il maggiore Mason, che all’epoca guidava i carabinieri di Locri, durante il processo Fehida. Ai primi di ottobre, nell’ambito dello stesso dibattimento, i giudici della Corte d’Assise di Locri hanno atteso invano che in aula si presentasse il testimone Giovanni Giorgi, 28 anni, di Bovalino. Doveva essere ascoltato in relazione ai suoi rapporti con Strangio e al contesto in cui si è riaperta la faida. Ma il giovane non si è presentato.


I carabinieri hanno accertato che era andato a pascolare il suo gregge di pecore in Aspromonte. Ma sarebbe fuorviante leggere i clan di San Luca solo sotto questo aspetto. Obiettivo delle ‘ndrine è fare parte della classe medio-alta, facendo laureare i loro rampolli. Le inchieste passate e presenti sulle Università, da Messina a Reggio Calabria e Catanzaro, si sprecano. L’ultima coinvolge professori e studenti di Architettura dell’ateneo reggino, con undici avvisi di garanzia. Secondo la Dda di Reggio Calabria, che ha condotto l’operazione ‘Reale’, il potere della cosca Pelle è così esteso da poter condizionare le università. In un’intercettazione, Giuseppe Pelle si vanta di poter influenzare i test d’ingresso alla facoltà di Medicina a Catanzaro e a Messina. Questa è la realtà in cui vive Ferdinando Piccolo, che il giorno dopo aver ricevuto le minacce è andato con suo padre a vedere una partita di calcio al campo comunale. E si è visto trattare come un appestato. “Le persone cercavano di evitarmi – dice - a mala pena mi salutavano, non alzavano lo sguardo, il volto a chiedermi allora ti sono arrivate queste lettere di minacce? Non so se per vergogna. O per paura di essere visti da qualche ‘ndranghetista mentre mi danno la mano e mi salutano. Quattro amici buoni ancora ci sono. Però la società civile mi ha abbandonato, tante belle parole e messaggi di stima e solidarietà che non servono a nulla”. Questi chi li difende? Titola il 21 ottobre Il Fatto Quotidiano che mette in prima pagina le fotografie di otto cronisti calabresi minacciati che “non fanno notizia”. Nello spazio riservatogli dal giornale di Antonio Padellaro e Marco Travaglio, Ferdinando racconta: “il 4 settembre avevo scritto di una strada che collega Polsi a San Luca. Una strada da sistemare da almeno vent’anni. Scrivo di un appalto di 12 milioni di euro vinto nel 1996 da una ditta di Crotone che era poi andata in fallimento e del subappalto concesso a un’altra ditta di San Luca il cui proprietario, un Nirta incensurato, aveva dichiarato di non avere mai ricevuto denaro. Soldi che scompaiono nel nulla”.



Conclusioni

Il caso “Corriere della Sera” Raccontare la ‘ndrangheta è difficile. È necessario essere equipaggiati di memoria storica, conoscenza del contesto e del background. Tutti elementi che spiegano al lettore cosa c’è dietro un fatto di cronaca che coinvolge realtà complesse come le organizzazioni criminali globali. Ad esempio ancora non c’è un immaginario condiviso sulla ‘ndrangheta e sulla resistenza alla ‘ndrangheta. La criminalità organizzata calabrese viene decodificata con un’immaginario di ‘importazione’, come quello siciliano o della mafia palermitana, organizzazione verticistica molto lontana dalla struttura di tipo familiare delle ‘ndrine. Questo è segno di arretratezza culturale sia nella produzione che nel consumo di letture dei fatti. Una prospettiva in cui le intimidazioni ai giornalisti costituiscono un tentativo di far scomparire l’interprete della notizia, colui che ha un ruolo di testimone sociale. Inoltre nel momento in cui la ‘ndrangheta decide di colpire l’opinione pubblica, anche i giornalisti diventano un bersaglio, come co-protagonisti del conflitto in atto. Anche se la Calabria è una periferia estrema dell’Europa, i media, in primis quelli locali, stanno diventando l’arma più importante per l’infowar. Così circola anche molta disinformazione, un metodo subdolo di isolamento. C’è la tendenza a diffondere voci secondo cui le intimidazioni non sarebbero tutte vere e alcuni colleghi si manderebbero i proiettili o si taglierebbero le ruote delle auto da soli. Nel corso del mio viaggio, più volte mi sono trovata davanti ad accuse di questo tipo. Gli attacchi ai giornalisti creano il punto di contatto più


stretto tra i media e il conflitto secondo un fenomeno di ‘compartecipazione’. Allo stesso tempo sono argomenti di ‘corto-circuito’ perché mettono gli operatori dell’informazione al centro delle loro stesse notizie. Questo crea in molti dei giornalisti minacciati un forte disagio a parlare del proprio caso e una pericolosa tendenza a voler ‘occultare’ l’intimidazione, quasi vergognandosene. Un’altra possibile causa di isolamento e debolezza per i cronisti nel mirino delle mafie. Il giornalista è un mediatore della realtà, un’altra conseguenza delle intimidazioni è che fanno riemergere la sua centralità personale e fisica, in un mondo sempre più virtuale. Uscire dall’invisibilità ed essere tutelati è la sfida cruciale che accomuna freelance, precari e giornalisti nel mirino delle mafie. Il caso è già esploso con il blasonato Corriere della Sera. A metà novembre 2010, una precaria, Paola Caruso è ricorsa allo sciopero della fame e della sete, poi sospeso, perché dopo aver lavorato al Corriere per sette anni le è stato detto: ‘Non ti assumeremo mai’. Dalla sua storia emerge il trattamento riservato ai collaboratori sfruttati con forme contrattuali inique protratte per tanti anni, ma anche il gesto estremo di chi sente di aver speso la sua vita in un lavoro senza prospettive. Perché dopo l’iter della lunga collaborazione nella speranza di essere assunta e di vedere valorizzato il suo impegno, Paola Caruso si è vista scavalcare da un ragazzo di una scuola di giornalismo quando finalmente si era liberato un posto in redazione per le dimissioni di un collega. Il gesto estremo di Paola Caruso ha subìto il completo black out informativo da parte dei “media mainstream”, che non hanno neanche citato il suo caso, ma sulla rete la notizia si è diffusa in un attimo, facendo il tam tam dei blog e dei siti. Il 30 settembre, con una lettera aperta, il direttore Ferruccio de Bortoli era stato il primo a uscire pubblicamente con la questione delle regole e dei ‘privilegi’ dei


giornalisti contrattualizzati, a scapito di quelli più giovani. “L'industria alla quale apparteniamo e la nostra professione stanno cambiando con velocità impressionante. In profondità. Di fronte a rivolgimenti epocali di questa natura, l'insieme degli accordi aziendali e delle prassi che hanno fin qui regolato i nostri rapporti sindacali non ha più senso”, ha scritto. “Questo ormai anacronistico impianto di regole, pensato nell’era del piombo e nella preistoria della prima repubblica, prima o poi cadrà. Con fragore e conseguenze imprevedibili sulle nostre ignare teste. Non è più accettabile che parte della redazione non lavori per il web o che si pretenda per questo una speciale remunerazione. Non è più accettabile che perduri la norma che prevede il consenso dell’interessato a ogni spostamento, a parità di mansione. Prima vengono le esigenze del giornale poi le pur legittime aspirazioni dei giornalisti. Non è più accettabile che i colleghi delle testate locali non possano scrivere per l’edizione nazionale, mentre lo possono tranquillamente fare professionisti con contratti magari per giornali concorrenti. Non è più accettabile l’atteggiamento, di sufficienza e sospetto, con cui parte della redazione ha accolto l’affermazione e il successo della web tv. Non è più accettabile, e nemmeno possibile, che l’edizione iPad non preveda il contributo di alcun giornalista professionista dell’edizione cartacea del Corriere della Sera. Non è più accettabile la riluttanza con la quale si accolgono programmi di formazione alle nuove tecnologie. Non è più accettabile, anzi è preoccupante, il muro che è stato eretto nei confronti del coinvolgimento di giovani colleghi. Non è più accettabile una visione così gretta e corporativa di una professione che ogni giorno fa le pulci, e giustamente, alle inefficienze e alle inadeguatezze di tutto il resto del mondo dell’impresa e del lavoro. L’elenco, cari colleghi, potrebbe continuare. E' un elenco amaro, ma sono


costretto a farlo perché, continuando così, non c'è più futuro per la nostra professione. E, infatti, vi sfido a contare in quanti casi sulla Rete è applicato il contratto di giornalista professionista”. La risposta del Comitato di redazione sono stati due giorni di sciopero l’1 e il 2 ottobre contro “l’attacco che il Direttore ha mosso contro le tutele e le regole che garantiscono la libertà del loro lavoro”. E siamo solo all’inizio.


Postfazione di Roberto Natale

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C’è un viso che mi torna in mente ogni volta che leggo o sento le storie di giovani giornalisti minacciati dalla criminalità organizzata. E’ quello di una collega che lavora in terra di camorra, e che gli avvertimenti li ha ricevuti in forma di scritte ben visibili intorno alla casa dei genitori. “La cosa che più mi fa male non è il rischio che corro, o la paura che faccio vivere ai miei. E’ il disincanto e il cinismo di chi, magari pensando di mostrarsi preoccupato per me, mi chiede: ma chi te lo fare ad esporti così, per la miseria che guadagni?” Già: chi glielo fa fare, a lei e a decine di altri cronisti, ad andarsi a cercare pericoli inversamente proporzionali alle dimensioni dei paesi dai quali scrivono? Eppure lo fanno, dando una testimonianza professionale e civile che è motivo di speranza per tutto il giornalismo italiano. Meritano innanzitutto che il loro rischio venga conosciuto, per essere ridotto o annullato. Per questo è nato Ossigeno, l’osservatorio promosso da Fnsi e Ordine che ha cominciato a censire queste storie, nella consapevolezza che la prima cosa da fare è spezzare il silenzio intorno alle minacce. Ma queste biografie, per brevi che siano, mostrano un’altra costante che non possiamo addebitare alle ‘ndrine o alle cosche. E’ il livello vergognosamente basso dei compensi. Non è una forzatura demagogica l’accostamento di Raffaella Cosentino tra le condizioni del precariato giornalistico e quelle degli immigrati. Pratiche di reclutamento e di pagamento alla mano, i nostri editori non hanno titolo per sentirsi offesi dal parallelismo (ma poi se ne offendono?). Come non

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Roberto Natale è presidente della FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana), il

sindacato dei giornalisti.


hanno motivo di lagnarsi le nostre gerarchie di redazione, quelle che ogni giorno reclutano braccia per la raccolta delle notizie, se qualcuno le vive come i caporali che passano all’alba col furgoncino nella piazza del paese. Parlare di scandalo è sacrosanto, ma non basta proprio. Né può essere sufficiente “contestualizzare” e rimandare a un’Italia che (vedi il collegato lavoro approvato recentemente dal Parlamento) smonta pezzo a pezzo le tutele di legge per milioni di precari. L’indignazione che il sindacato dei giornalisti ha imparato a provare su questi temi - e che è sincera, oggi - deve diventare programma di azione a più livelli, come quello che sta tracciando la “Commissione per il lavoro autonomo” istituita dalla Fnsi. C’è da fare parecchio sul versante istituzionale: per ottenere dal governo e dalle Camere norme che impongano soglie di compensi sotto le quali deve essere considerato illegale scendere. E per vincolare l’erogazione dei finanziamenti pubblici al rispetto della dignità del lavoro. Ma almeno altrettanto ci tocca fare nelle nostre redazioni. Perché non siamo affatto disarmati, nei confronti degli editori. Il punto decisivo è se chi è “garantito” sceglie finalmente di non ignorare più lo sfruttamento che gli passa sotto gli occhi. Non serve un nuovo comma del contratto: serve senso civico, direi, lo stesso che impone di testimoniare quando in strada si assiste ad una rapina. La scommessa del sindacato, la strada sulla quale ci siamo incamminati, è portare chi è “dentro” a farsi sentire insieme a chi è “fuori”, e in suo nome. Vedo difficilissima da realizzare - e facile da boicottare - un’iniziativa che si proponga di bloccare in simultanea le mille forme di lavoro precario che tengono in vita i giornali italiani. Se invece questa diventa iniziativa di tutta la categoria, il segnale può avere una forza straordinaria.



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