Alfredo Maestroni L’ULTIMA PARTITA Poesia
Prefazione di Vincenzo Guarracino Postfazione di Annitta Di Mineo
Dedicato a Clara Paola e Alessio Mattia e Sara
Vivere è come aver giocato un azzardo col tempo
Prefazione di Vincenzo Guarracino L’ultima partita, ultima poesia della raccolta che da essa prende il titolo, dice tutto dello spirito cui l’autore, Alfredo Maestroni, nella sua lunga avventura nella poesia, è rimasto sempre fedele, come la “stella” di leonardesca memoria da cui non discostare mai lo sguardo (“Non si volta chi a stella è fiso”, ricordate?): il tenace legame con luoghi e presenze, con le “storie”, che l’hanno accompagnato dalla stagione giovanile ad oggi, come autentici “luoghi del cuore”, costituendo quelle che Roland Barthes definisce la “piccola storia sacra” cui si àncora, compiuta e cristallizzata, la vicenda di ciascuno. Colpisce in essa un verso in particolare, che dice proprio di questo momento fondante di ricordi ed emozioni, al di là dello specifico: “vedemmo poi tutto”, come dire che da lì in poi, pur nell’esatta percezione del trascorrere del tempo, sono rimasti inalterati i parametri del giudizio, la vita cioè come una “partita”, giocata sempre con lealtà, anche senza bisogno di “battimani”. È una visione etica della vita, riletta dalla parte di un uomo che la sua esistenza sicuramente, per dirla con Machiavelli, non se l’è giocata “a dadi” e che dal limitare di una stagione considerevolmente “âgée” avverte ancora ardori giovanili mai obliati, da foscoliano “spirto guerrier”, urgergli dentro, riemergenti dalla coltre del ricordo dell’impari partita fin qui ingaggiata col tempo, da ciò che nell’esergo d’apertura aveva senza enfasi definito “un azzardo” (“Vivere è come aver giocato un azzardo col tempo”), con tutto quanto tale metafora comporta in termini di volontà di resistenza e forse anche di agonistica rivalsa, pur nella coscienza del “pavido lume / -7-
prossimo a un tramonto rosso fuoco” e a dispetto di un ethos di mitezza (di “timidezza provinciale”, addirittura si parla in un testo della raccolta precedente La memoria ineguale, 2014). È entro questi due concetti, tra “azzardo” e “partita”, che retrospettivamente, sul teatro del “tempo”, si struttura tutta quanta l’esperienza che Alfredo Maestroni descrive nel suo libro, distribuendola in parti che sembrano secondare l’andamento stesso della vita, come suggeriscono, per esempio, certi titoli di sezioni (Pandemie e Diario minimo), che più delle altre (forse più ancora della sezione Come l’albero degli zoccoli) istituiscono con la memoria-ricordo un più stretto colloquio, sulla scena delle angosce dell’oggi. Titoli, questi, i cui testi più o meno esplicitamente si riferiscono nel primo caso ai tragici eventi che stiamo ancora vivendo e nel secondo chiamano in scena luoghi, momenti e affetti personali e familiari all’insegna della fedeltà a un sentimento che “non ha età”, un sentimento piantato come un “seme” (una parola-chiave di tutta quest’esperienza di scrittura), tra attimo e infinito, tra cuore e pensiero, tenace e intramontabile dunque ancorché razionalmente filtrato e rivissuto e solo fintamente camuffato come prodotto di una fatica attimo-per-attimo in un oggi diaristico.
Si diceva prima del “colloquio” memoria-ricordo: esposta tra ricordare e rammentare, tra sentimento e razionalità, nel cortocircuito insomma tra cuore e mente, la Memoria si rivela una matrice quanto mai conveniente di pensieri, di immagini e di forme, di desideri e convincimenti, che attendono il loro destino formale in cui ri-conoscere e -8-
riconoscersi. Un deposito di emozioni a cui attingere, dunque, e a cui chiedere di esorcizzare l’ansia del tempo in fuga, attivando e fissando nella scrittura, nel suono della parola, per far riemergere e vivere i propri fantasmi, nel qui e ora dell’esperienza: qualcosa che non si scorda e riemerge, qualcosa che attiene a un “fuoco” che, se “languiva” rifiorisce da una “coltre luminosa”, risvegliato da una “fioca febbre”, come citare Ungaretti in un testo memorabile, L’isola, che non è estraneo alla coscienza poetica di Alfredo Maestroni come di tutti noi. Dico questo per introdurre un tema che così marginale o inessenziale non è, come potrebbe sembrare. Maestroni colloquia, sì, con figure e luoghi fondanti e decisivi del proprio immaginario, con una “cultura” che sembra essere sommersa, costruendosi la propria “collina”, una personale intramontabile “Spoon River” (come dice in uno dei testi conclusivi de La memoria ineguale), ma colloquia anche con la poesia, con la grande poesia del ‘900 (e non solo) più o meno esplicitamente chiamata in causa e riaffiorante come una vena carsica dai suoi versi: con Sereni, con Montale, con Ungaretti e ancor più a distanza con Leopardi, col suo concetto di “rimembranza” come autentica matrice di poesia, come idea di un riacquisto di sensi e vita, di membra appunto attraverso la parola.
È attraverso la “parola”, una parola di volta in volta “fatta miele, / canto e scabra essenza” (per dirla con i versi del testo In memoria di Gabry), che ha acquistato membra e calore la grande “partita” con la vita e i luoghi dell’esistenza, oltre l’”azzardo” dei giorni: Maestroni a questo si è applicato incurante del trascorrere e “cambiare” del tempo, -9-
disegnando sull’”immenso velario” delle sue pagine una “mappa” di emozioni trascelte dalla “ressa di volti, di respiri”, e il suo compito sente di averlo assolto e così, alle soglie della sua Ultima Partita, ci congeda, come il convalescente di Pronto soccorso in attesa di un referto: “sono qui piantato / tra sordi che ci sentono / e mi consumo nelle parole / in uno sventato / desiderio senza esilio”. In attesa di un referto e col desiderio di non essere ignorato: ecco, questo possiamo garantirgli, di non ignorarne il suo legittimo bisogno, facendone vivere testi e parole, attraverso le “crepe di luce” delle pagine.
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“Addio, indifferente a guerra o pace non hai sentimento o ragione tu non puoi essere ancora o tempo, il mio tormento giovanile ti avevo chiuso nel labirinto a contare passi di vita come serraglio di memorie. Ancora tu mi fuggi, sei sempre avanti a me che insonne ti rincorre per mendicare un riposo, una tregua; mi condanni alla veglia, ti fuggo ma ti respiro, bevo il tuo veleno pur sapendo di morire, lentamente.”
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SOTTOVOCE
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Quo vadis? Traspare una luce remota si alza, si spande. L’immenso velario dell’ombra s’invetra, si disfa. Tegole, antenne e giardini, i ponti sul fiume, le cupole sorgono dalla palude per una nuova fondazione. Ha nome e numero il giorno e una ressa di volti, di respiri. Altra e uguale è la mappa interminato il percorso.
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Canto sul lago Sentivo questo abbraccio di luci come un porto sicuro per una tolda inquieta, sedotto da una tregua – da una sera vestita di pause e silenzi. Un limbo di traguardi affiorava – di parole trattenute, traghettate prima che il vento le mordesse, le risucchiasse nel regno dell’assenza – nella bonaccia di un vulcano spento – di un “indice di ascolto” nutrito da un niente che inghiotte ignaro, le forre del suo vuoto. Qui può essere che, se una fiammella arde e tace un canto scuoterà il lago, al pari dell’onda – del lampo; si avviterà al cielo e ricadrà come orma che spiani nel folto.
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Variazioni sul tema Le parole sopra l’onda, la fiammella e il lampo accesero il niente, il vuoto delle forre. Poi eravamo lì solo per intercessione.
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Girandole Nulla che tu mi porti oggi, è diverso da ieri e dove il sangue ribolle è un giaciglio di frenetiche ore. È solo la somma di litanie usurate che ghiacciano rapprese in rovine d’anima, un tramite rituale. Siamo girandole al vento una giostra di giorni che non coglie mai l’intero, un divieto votato al silenzio.
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Tu sei l’ombra Tu sei l’ombra che non vedo l’ombra di cui ho bisogno quando il sole ti proietta su un muro che piange la sera. Tu sei di me, quel certo incerto quel tempo, un tempo quando donne, madri, chiamavano forte nell’ora senza limite del buio, avvento di liberi amori. Tu sei come un quadro d’autore riposto: tardi ti ritroveranno.
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PANDEMIE
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Un requiem da remoto Metti la mascherina quest’aria è fatta greve assedia il respiro, la primavera; ora ti racconto solo da remoto – da un vuoto che parla. Gli spazi senza nome empi stagni d’inquietudine. Da remoto altari di morte per un rito, un requiem. Ti serra pensare a una fame insaziabile alle bare sui camion. Col pass verso un ignoto fatto di cenere volute di fumo per epitaffio. Non ode più la terra il silenzio dei morti – la pietas di una prece. “E noi teatro d’ombre troveremo ancora la brezza di un mattino – un abbraccio?” Risorgere domani è bello (non) da remoto. marzo 2020
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Lockdown Da qui mi seduce quel tempo sospeso che percorre visioni di spazi dilatati – limbo metafisico dov’è caduta la corsa; dov’è caduto il coro – il segreto pianto delle cose. Mi seduce un tempo nuovo, parallelo – lo spleen della città (Milano 2020? – Bergamo 2020?) si mostra; parla di noi murati nei lutti e di lei, così stranita in un canto libero d’avvento. Saranno frammenti vitali, saranno lacerti o calendari diversi?: fermo immagine che muove da un battito di ciglia. Da qui, prigionieri. marzo – aprile 2020
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Consumanza Avessi quel tempo che si avvita su ogni cosa, che svolta piano storie non scritte sull’acqua, dipanate nel grembo di ogni alba. Crepita solo un silenzio che assorbe i respiri, al fondo di ogni meta erosa, nel morire di ombre e tramonti. Conta forse un vagito della mente che cozza un cristallo – dalle lune rosse dei barbari, un grido persegue tenace la transumanza di un impigrito caos – ora distratto nel consumo di sé, come vuoto a perdere numero pari al numero. Avessi il tempo di un filo d’erba, del fil di fumo di una pipa che – compagna – mi riempie la sera.
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Pronto soccorso (l’attesa) Non ci saranno più le voci della memoria. Come un caso della vita sono qui piantato tra sordi che ci sentono e mi consumo nelle parole in uno sventato desiderio senza esilio. Attendo, attendo attendo sempre qualche esito – un’urgenza del tempo che comprima, che atomizzi il mio essere; lo liofilizzi – lo diluisca nel sentimento fino a scivolare in crepe di luce, su un velluto spinoso o salire scale impossibili. Non vedrò che una stagione selvaggia non vedrò che rovine e cenere.
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COME L’ALBERO DEGLI ZOCCOLI (2014 – 2020) “Il poeta è un minatore che riesce a scavare e scovare zone del proprio io, vene aurifere e tesori che sono di tutti noi, ma che nessuno di noi sapeva vedere e valorizzare prima che lui ce le rivelasse” Giorgio Caproni
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«Tremavo, da bambino, che già lo vedevo curvo sul suo mondo, riflesso sul vetro del mio mondo; e mi doleva pensare che fosse nato già curvo, parentesi volta a terra contadina cosi immanente calamita per le sue ossa. Là tra i miei giochi ci misi l’isola della sua vita – lo misi nel baule delle ‘finzioni’ il vero delle mie paure – del mio segreto scrutare. Fu polvere di anni, dischiuse immagini che lui non disse, tacque, nascose come storie – impronte piovute sulla povertà: la grande guerra, pronostico del male là sul Carso, con ‘Veglia’ e ‘Soldati’ di Ungaretti e lo ‘incurvò’ quel male più della terra. Il ‘bisogno’ ci tastò e lui si fece viandante e ‘divo’ inconsapevole e indissolubile verso i fotogrammi di Olmi – gli arnesi, l’albero rubato e gli zoccoli, il tabacco nel panciotto – le nenie di Natale al fiato delle stalle…: avvilite gioie e non meglio che un Annuncio là fuori, un velo di neve. Dissolvenza fu a fermo immagine, come voltò le spalle, nel punto mortale, alla falce sulle messi. E si sparse il profumo della sua mite fierezza a lenire affogati volti – nel pallore di foto ingiallite…; - 29 -
sconosciuto eroe del silenzio, del tempo decomposto in un flash.»
fermo Imagine – luglio 2018 al nonno Vanni Giuanì a Ermanno Olmi e ai quarant’anni del suo film “L’albero degli zoccoli”
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Dalla guerra, non più altro vestito che la fame addosso. Della terra, i solchi sul viso nei veli di lacrime. Dell’inverno di fronte, era morta anche la terra, prima dei fuochi del vento purificatore; di una bocca senza memoria, per un nuovo pane.
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Le prime estati apparvero come la corsa dei puledri in libertà sui prati; e poi al fiume, scalzi nei solchi fumanti, sull’aia calda di voci. Sotto il grande portico col desco, la polenta al tocco del mezzodì e il vino che uomini stordiva, al parlare greve; curvo il nonno dai grandi baffi a sfaccettare legno e zoccoli per noi. C’era però qualcosa che ancora non potevo capire, ma che doveva venire. Era per me pallido sogno fatto di impercettibile inquietudine fredda, come il ghiaccio alle finestre.
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Dai picchi di stagioni, sofferenza atavica in origine accerchiata. Catene da spezzare per ogni uomo verso nuove primavere, oltre il buio svelato. Ingannevole visione quel manto di neve al sole d’inverno; come bagliori di calma raggelata allo scorrere crudo e stridente di neri tabarri, vaganti in cantilena lungo i sentieri alle cascine. A prepararsi un tempo sostitutivo di paesaggi eversivi ancora nascosti.
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Sentivamo, nei silenzi, il treno fischiare alla stazione; chissà chi partiva ora. Era il dopoguerra e laggiù la ferrovia tagliava netta i campi verso un infinito di altri mondi e confinava in vie di fuga i margini tesi del paesaggio agreste, incalzava promesse nei crepuscoli di crune celesti. E allora si tolsero le chiavi dei sogni si spensero i camini e le lanterne, si svuotò la stalla e arrugginì l’aratro, e si lasciò la bricolla coi secchi al fiume. Un giorno, anche noi partimmo e nel terso mattino era il fumo nero della locomotiva l’unico segnale a solcare il cielo. Trovammo un altro cortile, un’altra chiesa una valle e un altro fiume e lo stesso Dio. E un orizzonte verso cui guardare.
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Sul filo di un parallelo diseguale mutavano gli inverni, le primavere e le estati intorno ai covoni del frumento, abbacinato alle bocche delle ciminiere; e nel cortile si fondeva quel tempo, escluso altrove, i covoni tra le braccia mulinanti sulla macchina infernale, bocca di drago in metamorfosi, roteante al moto ossessivo delle pulegge fino al crepuscolo inatteso. Ci dava la notte calda e quiescente un silenzio di uniforme fatica.
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Il testamento dove sei! gridava mio padre guardandosi in giro – ma ero già fuggito – i campi di agosto ci aspettano, il loro silenzio ci chiama – come la vacca gravida di latte – ma io cercavo altri frutti e guardavo verso l’orizzonte le mie candide mani amavo quella terra, nutrice del mio seme ma io vedevo parole tra i solchi – tra l’ondeggio di spighe – ne carpivo come ape i segreti nettari anche lui mi guardò le mani, mi guardò negl’occhi e vide la mia anima inquieta – combattuta – sognante metafore e quasi rassegnato capì esserci un destino; mi riguardò le mani e disse: usale! per dare un canto a questa terra, serbale memoria con la parola – che è fatica uguale – semina nei solchi di pagine e raccogli il suo sudore – prima che arrivi la città! fu come un testamento tutti ora sono stati congedati anche la terra si congedò – tra popoli distratti – esalando una speranza: che io con l’anima e la parola imboccassi quella strada che non finisce mai.
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Adolescenza andava soffrendo lungo le spirali di giorni chiari e cauti distacchi dagli ammonimenti. Dimore di germogli incominciati in calde sere di maggio, al plenilunio odoroso dei fiori di robinia dopo il rosario, con l’anima sulle labbra al primo bacio. Oh madre, questa poi era l’isola del pane, eravamo i ragazzi della VIMA la cartiera grande madre: scuola, libri e carta; e di parole, emozioni primitive pervase da suoni ancor deboli al pensiero. E dove si esiliava un paesaggio in valle oltre solide mura? Un segno d’eclissi già appariva laggiù sul fondale al ponte ferrato: la vecchia stazione nei silenzi armati di abbandono coi binari confusi tra le stoppie, perduti. Già intuivo che la mia non poteva essere insipiente, trascurabile presenza; poteva il lento paradosso del fiume portarci via incontro alla sua fine?
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Bagliori Senti ancora la sua mano lieve, una carezza poteva darti: e poi scaturivi per lente stagioni, senza un segno dove si aggrappa una luce: il bagliore di un fiammifero e poi l’oscuro. Come scivola l’estate di cicale e assenze, il grano intriso di braccia nel breve circolo di un respiro, un lampo di polvere disseccata. Lei madre, tua signora blu su dall’alto cielo ancora trema; riarso ventre che poi ti perse, che ti lasciò fanciullino né dove fu memoria al lutto di giorni che tu non seppi se infelici o lieti. Lungo fu il viaggio del disincanto che ora si serra, che assolve segreto, se ti coglie il bagliore di un mattino che risplende al fuoco di una parola.
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Dialoghi sull’Isola del tesoro a Sergio L. tu mi dici non ci sono più storie qui il tuo è solo un vaneggiare di sentieri fatti distanze come lunghi sospiri – di corti e vicoli come ronde di memorie per quest’Isola di perduti approdi; tu mi dici non ci sono più porticati e logge – torri e vecchi nomi i Rota Bulò, Cà Colombera, Cà Paganella Cà Bana, Cà Brusada, Cà Dossena nobiltà delle carte, nobiltà delle mani; tu mi dici taci, più nulla possiamo (e che forse io sia stato e sono un invecchiato fanciullino o forse uno spaventapasseri posto là in mezzo?) ma amico gentile, noi abbiamo te basta leggerti – parlaci del Pomarancio e tutto ci torna com’era – a mondi antichi fatti di pietas, a quei cristi dalle mani trapassate alla lentezza di un sentimento un presente passato – incanti di altra vita; tu schivo, nobiltà di mente - 39 -
ultima chiave di un tempo – ultimo approdo ai tesori di quest’Isola.
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Cabanetti Ora sul Dordo mi rallenta un semaforo e talvolta dal ponticello mi chiama quel bambino che non sono più io – parole socchiuse, rarefatte nell’acqua. Quanto pesa un eterno che non c’è a voltare gli stessi angoli – un rosario di attese spinose, un sedersi in disparte: come finta di un tempo immobile riprendere quei dialoghi mozzati col nonno, lo zio moro, la zia Felice il diario e la lettera in mortis del soldato Giacomo; da una guerra aspettare i vestiti di un padre spuntare sulla ferrovia luccicante tra i filari d’uva. È stata vita anche questa, un dado tratto – come farsi leggere la mano da una chiromante avendo negl’occhi il cadere di una quieta, irreprensibile e inflessibile disperazione in un ripetuto oscillante ritornello.
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Confessione Vacilla il mio tempo, radice che geme lo sciame sotterraneo, e come vuoto elemosiniere solo trame infitte sulla pelle; sono vincitore e vinto qui tra brandelli di cose: rughe profonde rivolte al cielo e assorte in antiche memorie offerte a un disordine vitale, che ferisce i miei occhi. E un lascito di tempo felice al desco di povera terra, inconsapevole di martirii d’esistenza come frutto di innocenza. Ora hai l’aria del professore e giochi con le parole, dicono; ma nel sogno frequenti ancora quel mondo perduto, le logge ol melgòt e l’albero degli zoccoli, il canto sussurrato del Dordo al suono greve del campanile. L’azzurro dove accadde il volo del tamburello o i cigolii di strada, tra i muri di sassi piangenti. E vivi ancora, tra suoni e accenti, - 42 -
nella lingua di questa terra. Così confesso: a cosa servono i versi pagine di memoria, se non per farne dono a qualcuno che ci esplori l’anima? E oggi mi libero da questo peso respiro e qui lascio questo giorno, come il primo respiro e le mie primavere si confondono col vissuto e ancor più con l’esilio. Post scriptum. mi proteggo da un saluto furtivo: guardatemi ancora un attimo, come un pettirosso sul davanzale di casa che becchetta di frodo briciole, le ultime prima del suo volo.
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16 settembre (1943 – 1949 – 2017) a Bonate Sopra ho letto di contadini e gentilhomini de Bonnate – ma panta rei Bonàt Sura oggi il canto si fonde in terra dolce vendemmia per nuova civitas e il cuore brinda con te. Quel treno che fu sempre in me come un aquilone sospeso sull’Adda e la vita scesa in un percorso segreto. Da una sala d’attesa nasco un’altra volta – vivo un’altra volta nel giallore del mio autunno. Radicato era il sogno, per nuovi amici nuovi volti Carlo, Pina, Michela, Sergio Marzia e tutti in un eccetera – in una luce di anime scritte su pagine celesti. E mi sporgo, guardo, rivedo questa terra come pagina bianca – rondine superstite nell’azzurro di me stesso, nel domino cadente la febbre del mio canto ha sparso parola ha fatto primavera – ha rifiorito il ramo ha tolto l’ultimo chiodo da una croce antica. - 44 -
Controcanto Rivedo ancora l’ultimo gioco come dolorosa soglia, confusa ormai col bianco della strada che già urlava in lontananza e dissoluta, di luci danzava. Dammi ancora un fremito terra a me incompiuta, per far sì che abbia voglia di tornare, sempre e ancora a saggiare la tua iniziale durezza fino allo sfinimento della memoria. Indicibili radici avvolte nel tempo, da sgomitolare e trovato il bandolo, liberare nel cerchio compiuto di mia vita, il controcanto. Dammi ancora un volo che sappia di rondine superstite; spoglie di una voce, venute al riscatto come una goccia che balena su un brivido, in controluce.
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Si annoda in gola, quel vecchio filo di Arianna nel labirinto di voci che fu, intorno al vecchio pozzo: lì stretto all’edera, al cigolio del legno e l’intimo annaspo nel moto verticale; anche lui ricorda: lo scatto del secchio ricolmo dava misura dei confini di un volere fantastico. Ho giocato ignaro talvolta nel solco di disvelate pene e stupiti gl’occhi dietro quel tendere saturo del giorno allo sparo di un lampo inatteso, alla gravida cupezza del temporale inarcato ai sentieri. Mi apparivano supplizi quelle durezze di vita e quel treno, filo d’acciaio alle Falck di Milano a strappare radici, orbo in falsità di rotte; e quasi volesse il Dio delle mura accanto donarci l’abbraccio di una civiltà struggente.
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Passaggio a Ca’ Bana Ascolta le trasognate voci passaggio di chimere sotto la volta antica; e il vento incolonnarsi in quel vuoto, risalire correnti di memoria come il gioco di una voluta perdizione – e immagina nel giro di colline l’autunno dei vecchi falò; forse avrà un mattino il sogno costante ma una ruga è il margine dei ricordi e ogni misura scompare – forse saremo passatori di un confine, quanto basta stranieri; se non che affonderà sperduta quell’ora se non che l’effimero intento s’acquieterà nell’approdo di quell’oltre.
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Quelle sponde magre (tra Isola e lago) a Vittorio Sereni in memoriam
«Qui (dico) sull’Isola il monte Canto è il grande vecchio dagli antichi segni e sotto, la piana (prima) addomesticata dagli aratri (anche qui) di poveri strumenti umani ora che giace tra paesaggi stralunati e file ordinate di casse per lo scontrino» Una similitudine di sponde si frappone, se invoco una visione per incontrarti: (magari conversando lungo il viale di Prada, sul ponte San Michele, tra le logge contadine di Papa Roncalli o a Luino su quella Terrazza dell’imbarcadero, a improvvisa sera sospesi a un tacito evento). «Qui (poi dicevi) era la “sponda magra”; terra di frontiera nel fiato di contrabbandieri, lago e montagna di radice aspra, di scarse vite, tra i prati grami d’inverno e disperate brughiere» Come avvinti ad un alito di tempo.
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E dove sale il tuo essere inquieto sulla strada di Zenna, percossa da un vento inestricabile, a te mi unisco per quel monologo discreto sotto voce: Ma torneremo taciti ad ogni approdo. Non saremo che un suono di volubili ore noi due… Quale non fu assidua nostalgia per terre cadute nelle metamorfosi del mondo. E mi consola il tuo sopravvivere nel paese dell’anima – nello specchio di me stesso.
Isola bergamasca – lago Maggiore 2019
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Un quaderno dalla copertina blu, celato quel diario che poi spuntò dagli antri bui. Eri tu Giovanni detto Giacomo, soldato tra i fiori d’Albania; avevi vent’anni come altri mille e già la notte ti rapì nel folle incipit. (e non eri poeta: il soldato Sereni scriveva per te diario d’Algeria) Ma chi poteva mediare parola che lacera e svela luce sinistra al lume sotto tenda, nel fango e stento o l’inutilità che morde le carni; o la gelida anarchia di giacigli animali che strappa deliri di malaria, a notte insonne? Nessuna risposta giunse se non la morte che dipanò quel gorgo di parole, come fatuo bagliore di quel nulla, di quel tutto e richiuse il quaderno dalla copertina blu. Rimasero solo ferite senza sangue Sereni, la tua e la mia poesia: addio soldato Giacomo.
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Un murmure La scala degli anni ci ha differenziato ma la linea dello specchio mi dà linfa – la stessa forma. È un carosello dal rumore gentile, come un canto sospeso: un murmure inatteso sul mio giorno crudele giunto alla sera. per Vittorio Sereni – estate 2020
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Lamento e canto per l’Isola memorandum tra Adda e Brembo Non era il dubitare delle stagioni terra madre, ma quel peso d’esistenza così struggente. Ti lasciammo e vagava senza nome un alito di rimprovero. In fondo fu quella la vigna degli incanti, delle fantasie – tra gli infiniti azzurri. Parlatene disse il tempo: dalle sue fessure una missiva duplicata, per i vecchi suoni di zoccoli avvinti ai fondachi di un imbrunire sopra la terra rivolta(ta); così incessante ho sciolto il fardello dei luoghi – un viluppo di storie a giocarsi l’attimo di parole in un canto. Ma, in fondo, basta tenerti in questa memoria? Non essermi matrigna, in questo enigma nel silenzio di ruggine che sale e ti sfiora come ora il ponte San Michele: noi sospesi, nell’eco di un sordo applauso a taciti eventi, funamboli sul vuoto. Se poi, errando tra gli astratti confini scendo qualche volta “da Giovanni” ospite di un lembo, di un reliquiario, non sono più che una congettura. Da lì si vede chi non si avvede e l’elogio del segreto, è là tra i fogli, tra le parole - 52 -
tra le aspre radici, avvolte nel fruscio, di una vicina lontananza. Isola bergamasca – estate 2019
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CANTI LIBERI (2006-2020)
“Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.” Da “I limoni” di Eugenio Montale
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Altrove Vorrei essere altrove nell’ansimante marea sulla spiaggia, sugli scogli nelle tue mani di ghiaccio. Vorrei stare altrove (luna) l’essere del non essere come presenza riflessa dentro i tuoi occhi dai tuoi occhi vederti dentro. Salire infinite scale camminare tra le stelle da disciolte ragnatele cadere sul nero della notte sul rosso tra le ferite del tempo. Vorrei tra cumuli d’ombre di un qualche presente volare affiancato al sogno e da questi rapito, prigioniero tra arcipelaghi di anime. Evanescenza di un altrove.
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Approdi a Milano (il naviglio) S’è fermato un tempo il barcone l’anima sull’alzaia alla fune i cavalli sferzati alle grida approdò in darsena per sempre. Ti trasporti la sera piccola Venezia non tu ora dentro la tua sacrale solitudine sei chi piange l’inverno fondente nebbia le brumose tristezze di un mattino i vaneggi delle lavandaie. Traghetti la notte les bohémiens di Porta Ticinese. Creatura del Genio compiuta al tempo affacci il cielo d’azzurro salmastro - 58 -
la tua infinita stanchezza sorride ora ad ogni festa sulla riva.
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Assenza Ore morte del giorno a giocarsi ombre di fronte alla mente chiedi aiuto, bussi alla brezza calda che scarmiglia al di là, le fronde a smuovere l’apatia indifferente velo là dove campeggia il bivio come natura morta ai guizzi d’autore. Oltre non puoi da precoce calura oltre i limiti di questa assenza così temporanea roccia da lasciare speranza che resista a un domani fermo sotto il cielo. E seppur da un fresco odore di erba rasa bastasse un blando rinnovo tra pareti d’aria come se tu potessi ad ogni alba gridare alle voraci brame, fuoco di stagioni ormai cenere. - 60 -
Dove il mattino Senza quel passo di presunto male, tramuta il cielo e adagio ormeggia la notte, rugiada sull’ultima fronda. Dove il mattino riapre le ombre, come rintocco, e ritma giardini di luce lembi di sogno, a ignote rive. Dove presta l’ultimo silenzio senza che preda appaia al giorno rapace, di grida, l’ora leggera che trapassa il guado rossastro e s’accosta a nuovo, memore cammino. E già se potessi blandire l’attesa del tempo, il chiaro e lo scuro che mi spetta, come potrei scordare dove ti porterò, o anima pensosa.
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Fiore di campo Dal notturno travaglio aspersa rugiada stilla colori d’avvento al primo sole. È memoria ormai o forse sogno dove sporge la fronda s’è fermato il sudore della notte. Ti elevavi nel soffio d’alba come stelo Venere onirica ancora di amori il brusio sulla pelle. A dischiuse fattezze subivi lo sboccio l’esplosione di un giorno come fiore di campo.
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Giovanna (ragazza down) Placida e interrogante ti guarda Calendario di sorrisi senza giorni sfogliato da piccole mani leggera d’essere unica stagione davanti agli occhi come specchi di un amore scevro. Nicchia di usati gesti quegli approcci di colori fan vivere i fiori di carta stagliati poi sul vetro Se fosse come figli di un Dio minore di chi…lo stupore passi lievi felpati a cercarsi dell’anima un cantuccio sicuro e dentro i soliti silenzi già come forma di una smemorata dimensione - 63 -
L’emozione di un niente innocente come paradiso vaga certezza di un ignoto che arriva quaggiù senza i nostri perché.
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Il borgo del Cardinale (Castiglione Olona) Di quante stelle nel visibile silenzio a cadere su trame di pietre sfumate alle luci a sgranarsi come rosari gemmati su alla Collegiata Anche dal sole al tempo concluso pare mutarsi di forme alle penombre di quei vuoti sospesi Del Cardinale i celebrati fasti ai costumi trasfusi nei clamori del Palio e il ciotolar delle botti come fiati appesi trabocca la Fiera improvvisa (vociante) dai vicoli in attesa Dal Branda fuggiasca spoglia alla corte del Doro forse gli antichi servi - 65 -
all’alzar di voci e passi su al Castello con ai piedi lingua di fiume Se fosse la neve cuscino al cadere (dentro i portoni) di secoli silenti un addio di memoria lacerata ormai dagli schiusi lumi del tempo libera in danza al profilo di vaghezze gotiche. Riconosco il volto di una giovane eternità
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Impronte Alla terra del Seprio anch’io ho sostato. Ad aspettare l’anima estenuata di un grappolo di pietre sonnacchiose alla storia in seno. Mercante della sera al tremore dei falò in morte di un amico piangevo la sua terra promessa. Ora lungo il cielo sfarina l’autunno; le ombre del tempo come foglie a cadere sugli occhi. A svanire l’impronta assaporata dal vento.
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Infinito Dai cerchi d’acqua smaniosa abitudine ininterrotta, ogni vuoto a lambirsi stanco Dentro ai tuoi passi rotoli di strade, ai tuoi confini, lo sconfinato limite di qualche eternità. Di tutti i giorni una porta schiusa, a vederti senza guardare, e avanti a me le inutili cadenze di un sussurro naufrago. Perché il volerti, è spina nel cuore ogni tuo contatto è perduto al senso.
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La casa di Maria (Paestum) Silente e ombrosa di sé memoria la pelle rugata a salsedine del giorno si gioca il sole; col vento la pineta – col cardo la torre saracena. Fragile avvenenza come giglio di mare. Le dona il ficus come scialle di sera schermito a ventaglio che sussurra al giardino arruffato, le parole perdute nelle notti di luna. E qui, poi, l’inverno ammanta cerchiose atmosfere quando schiocca il ceppo dal camino – e il pendolo distilla le ore cadute al torpore di languide reminiscenze.
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L’amore di ieri Dissimula ogni volta l’angolo delle cose in flebile equilibrio, induce danza in cima all’estremo e affonda impulsi al senso misura abbandoni. Amore di ieri riposto, ultimo palpito si fa cristallo immobile senza fiamma pone distanza tra sguardi confina un resistere come pallido sentore. Dove scorre solo il livido strenuo e smarrito del vuoto, l’anfratto di un esilio pensoso nella bugiarda eco di battiti estranei. Nel vaneggio di sera nuova solitudine al lento delirio s’appresta al quanto delle cose perdute, al tarlo attonito del profondo d’anima come un soffio di vertigine su vascello in deriva. - 70 -
Opacità Livida più non riluci di sentimenti ai trapassi di anime anch’esse opache trasparenze. Perdersi a simulati abbracci di anni sopiti fino al giungere come sorda eco di una qualche tua voce come canna al vento … attraverso.
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Per anno domini Guarda il cielo: e come altrove muta l’istante. Si frammenta l’Evento al barlume quotidiano, consuma segni a noi sepolti. Brezza fredda che ricuce il bussare di grida, in bilico come apparenze, su distese d’orme a candida neve. Presso il mistero della Notte s’azzarda il vinto scandaglio al fondo d’anima, creste di cime rischiara, spossessa i sordi anfratti di corpi sparsi e ne riluce. Dove falso idillio si forma al tondo di luna e lontananze tracima a svagate, ritorte parole. Alla voce del coro, ultimo stenta il formarsi di una verità senza alfabeto, un Dio nel bicchiere così esiliato, assorto in chiuse aduse stanze.
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Per una sera Se contassi i miei giorni uno dopo l’altro mi troverei, forse a fuggire il piacere di una saggezza acquisita raccolta nelle mani del tempo. Tu ragazzo se contassi i tuoi giorni fuggiresti l’angelo demone del sabato sera troveresti gli attimi del cuore a parlarti dentro. Non giocheresti l’azzardo dei giorni del vento, le sirene della roulette tra il rosso e il nero come sangue e asfalto. Per strade senza nome incontro alla cenere a lato quei verdi pascoli senza i tuoi passi incompiuti. Non è più sognare quell’urlo spezzato nella notte scarlatta lascia la mente a metà e s’annulla nell’azzardo del cielo.
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Proibizione Artificio nel respiro afoso attimo immemorabile è ciò che siamo sul viale, sfrangiato a cupola in sussulto di foglie a tarda estate: miraggi, in turbamenti inesausti di figure a scena aperta. Ma quello era il limite e di tua voce lasciami il segno, scolorito ora nel piatto silenzio di sonorità nascoste. Ogni desiderio è rappreso nelle vene, al tuo vento di nuvola, che sovrasta; scandaglio di visione accentrata sul mio peccato. Al presagio d’orizzonte sfumava ogni tua forma là dov’era il calore precoce del tuo intimo pulsare. Quello era il limite; o forse un placido scalpore sotteso, proibito al tuo assoluto strepito; colto e perduto nel sottile nitore dei tuoi occhi.
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Una notte sognando Una notte sognando te su cuscini di pietra adagiato Il pallido verso della civetta dirama l’impaziente ora nel vasto senso scalfito come scarno simulacro Tu che mi sembri non eri nella raggera della notte fra disputate voci Scioglie la luna il sentore simulata presenza dove la notte è mistero L’infranta marea di stelle nell’occhio silente ti guarda stupita nel suo nulla ora così già com’eri.
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Caro maestro (il viaggio) A A.V. Lo prendeva amore di sua terra ma non pensava al controcanto errante di vite al doppio di medaglia ai suoi taglienti spigoli; eclissi del sangue che torna a capo, che muta senza appiglio. Terra per nuova terra, ha parlato a nuova infanzia nei crocevia di parole, fatali universi per gesti e sguardi di una pari umanità; cruna del sogno, luci fragori di un viaggio, vegliato nelle vene sotto le volte del tempo atteso era colui presente a voci di dentro, a nuovo canto sul palcoscenico. E qui sulla bocca delle ciminiere dal deserto freddo per alte vele, le antiche silenti grazie di Agrigento la poesia, musa senza tempo, essenza dell’anima nostalgia futura. Caro maestro, del viaggio insegnaci ancora.
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Casa Pascoli A San Mauro donde venni come naufrago dal moderno reticolo. Come se, senza sosta vagassi in quei versi, fosse nel ventre del tempo il tonfo di una assenza; e l’aria del fanciullino nel respiro, la sua terra che dà misure antiche. Di questo silenzio ne fa il cielo luce riversa alla stanza che riposa cinta e sola nel passo frugale. E dove guardo nel suo vuoto, ove non rimane che vertigine che chiudere gli occhi per serbare memoria del nido che pianse storie, il tenace rampicante del giardino, ti guarda sospeso.
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Declinando parole Hai visto l’inganno di occhi quieti e interroganti ma era tutto chiuso nel sogno, chiuso nel labile moto esteso; stupito vedere ciò che vedeva come uno specchio l’immaginare di mobili sfondi o trame parlanti. Se tu non vedessi ora avresti le mani a tracciare un volto asciutto, vissuto o angelico, toccare le ali del suo pensiero. Taciturna mente, che pure ti manca certo rifugio a uno sparso disagio: un flusso che sgorga lieve e ardito di una parola che scivola via, dal caso scomposta a uno sguardo che sfugge nel malizioso sorriso. Hai visto infiniti occhi e volti e sei naufragato nel giorno saldamente rappreso a un nulla: nel cercare un breve gemito, l’incapacità del silenzio.
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Il volto (la sindone) Non dire di venti lontani d’oriente non dire di dei oscurità o leggende troppi i secoli a gravare la tua soma ove già pesa un animo imperfetto. Volesse solo l’arduo inganno e il dubbio che ti abita, lasciarti al varco di un istante che animo di tanti già oppresse e liberare dal falso gli occhi. Al punto delle città estenuate murate al canto che attende pagano tu vedi quel volto, dimesso in morte; re, guerriero, profeta? o l’umano Dio: sembianza che trabocca assolta in leggerezza di verità, salvifico ostaggio di un amore. È tutta in quel volto, l’ora presente. È tutto nel respiro del passo che soccombe alla fissità del velo; sullo scoglio, testimone del tempo germina rimbalzo che adombra luce, come un sussulto che tradisce l’attesa. - 79 -
Le voci e il sogno ad Antonella L. Là dove io vedo apparenze e un autunno che appena smuore è il bosco, il mistero o materia d’acqua lucida, o forma irreale. Calma levitante pulsioni sotterranee avvolge verticale betulle linfatiche di vita, muse trasognate; fate ai trapassi di anime, opache trasparenze dal lieve veleggio, presenze del sogno a far da fondale, coro che frantuma una cupezza vitrea. Questa calma che tenta i miei fremiti, non posso urlare o il mio cospetto si sveglierà e non sarà più sogno ora che mi ha trovato pace. Là sovente dopo le notti viene l’alba e timida origlia una luce, equivoca luce che traspare chimere di chete voci sulla soglia del bosco sulla soglia del cuore, ora cheto.
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Lo scultore a Paolo Borghi Mi aveva detto: vieni a trovarmi a bottega, quest’uomo dalle mani già avvezze alla fama di mondi stellati, irrompendo nelle mie parole con la secca semplicità del genio. E così il filo misterioso della mente è impronta confusa resa ìmpari, dalla plasticità e forme che ho tutte intorno silente perfezione al mio balbettio inutile. Cerco di salvarmi dal vuoto dicendomi: perché non scrivi qualcosa e a quei marmi dai muscoli tesi e dal volto sublime: perché non parlate. …le sue mani volteggiano ancora e pensando che un niente ci separa raccolgo il suo estro come un soffio di tempo vitale, infinito.
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Nemesi Riluce ora il longobardo di sua storia; dal suo grido lontano traspare al nostro limite e non più sottesa, risale a sequenze in levità di passi. Disvela al suo giogo, luce paziente qui sopra la valle, dove arroccato era negligente il nostro viaggio dov’era Manigunda, la fonte e il chiostro dove, notte nella notte, di terra siprium fu l’orda del Barbarossa. E laggiù consuma nemesi l’inciso girone, al silenzio di valle non più che l’oblio, l’immane crepuscolo di rovine al paesaggio attonito senza più nome; non più atteso che a storie svanite nude, al fragile castello di carta. Di questo viaggio, smarrita la traccia che di speranza ha fatto orpello; solo dal fiume una sorda eco vagante ombra di leggende trasposte che si porta l’arida pena al trapasso.
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Parole Parola, devo dire ad alta voce che mi sei transitata accanto brividi ustioni indizi schegge di un seme incerto come l’ora di un pendolo sventato ero immobile da tempo tra sabbie mobili e intermittenze al limite del buio, porte sul deserto miraggi di troni dorati promessi a un re prigionieroquando un angelo cadde a frantumare la realtà delle cose; parole come petali di rosa nera ficcate nell’assoluto materiale di un foglio bianco: fin qui ciecamente vissute di silenzio davanti a un parterre ansioso di chimere.
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Recita d’autunno Scarno reciti l’omelia delle cose, della terra che abbruna nel ventre dei falò; reciti l’agonia dei colori in fuga e vaga nel trapasso che incauto si svela, il silenzio delle foglie in danza – lacrime secche in crocchio a una bava di vento. Scarno reciti la luce obliqua, i tramonti l’abbandono, il soliloquio di corpi assolati, di esauste membra – di anime orfane di una voce, arrese alle cicale d’estate. Attese oltre la rinascita di terra in zolle rivoltate a un senso che irrompe impudico come vigilia per altre stagioni.
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Sul Casentino Per una tendenziosa comunanza ai canzonieri del tempo qui ci troviamo e l’eco dismisura nel passato che ritaglia i nostri sguardi; una corolla scabra che posa al colle: sospesa nello stallo e nel torreggio tra nuvole basse e un raggio di sole tra una cartolina e un infinito sul molle tardo verde del Casentino. Azzardo serrato di tempo monacale che ci offre clausura di pensieri nel silenzio verticale. E pietra che riaffiora battuta da cavalieri o gomme rotolanti; somiglianze e mescolanze per un enigma tra colonne il passaggio in Abbazia (forse è altra eco l’“ascoltami, i poeti laureati…”) che avvertiamo, oltre, sogno immanente: e veniva l’umile poesia come preghiera gioco sacro sottovoce, impari altare, lumi di idillio nella grande penombra. Qui a Poppi – (Pupium come ogni tanto ti volti ritaglia le tue pietre, ricuci questo tempo abbandonato…) e proveremo a inseguirti dal futuro - 85 -
da plaghe lontane, in un cammino impolverato. Poppi – giugno 2016
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DIARIO MINIMO La mente come l’anima non ha età, col cuore ascolto i battiti del pensiero.
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Sarò per te Ho cercato il vento, per salpare la vela sulle acque di un mare di sempre e prestato un sogno ho toccato porti, per tacitare la meta mentre con separate parole abitavo già nella tua mente, nel tuo cuore. Ho cercato una luce da corpi silenti su rive sognanti, le congiunzioni dove la marea è il canto della luna dove la sabbia si unisce alla risacca dove l’onda si aggrappa alla roccia che acquieta il suo furore. Per questo, ti ho cercato. E così sarò per te la congiunzione dei giorni, l’abbraccio della sera il respiro della notte, il dono casto di un mattino sorgente al tuo bacio. Infinite lettere di parole nascoste nel tuo amore, piegato in un sospiro dall’attimo infinito. Sarò per te l’approdo d’ogni pena l’orma dal passo lieve che ti seguirà; sempre io sarò per te.
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Luce ad Assisi Splendi oggi, dal sole distesa a tua radente luce Assisi fiore umbro, fiore di pietra; petali rosa del Subasio a santa Chiara come da tua carne rinnova e luce rimanda, diffusa. Da un invano, si ascolta voce d’anima sospesa a orante meta come ritrova pace a te l’ascesa e non è ora in te che mi lasci. E laudato sii Francesco per frate sole, sora luna e per sora aqua che oggi battezza nuova creatura; rivenuta a luce di grembo a noi dono su terra pellegrina. A noi di novello cantico rivelata luce, come frate focu fatto si bello e giocondo per illuminare la notte. a Mattia Francesco Assisi – 27 Ottobre 2013
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A Sara Sono da tempo nel solco della vita, ma la semina è perenne. Ora ci sei anche tu nel fiato del mondo. La fatica si scioglie nei tuoi occhi, nel tuo sorriso e mi rende ancora un sussulto di poesia; io che sono del seme una piccola luce, un pavido lume prossimo a un tramonto rosso fuoco, prossimo al vento che scuote la sera. Tu invece che ci vieni incontro, un giorno leggerai tra questi versi. Rovate di Carnago – 25 febbraio2018
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Ogni giorno (duetto d’amore) Ogni giorno ho rubato racchiuse fragranze e ogni notte sospiri di luna per adombrare il tuo profilo. Ogni giorno ho rubato i tuoi sogni e nell’attesa li ho dispersi, germogli di armonie leggere nascoste tra parole e silenzi. Ora mi basta non temo più, la memoria di una serbata felicità non temo più che il vento ordisca ripari altrove. Mi è bastato, di ogni giorno un celato approdo nel cuore e da lontane tempeste, porto sicuro al tramonto svelando la sera, radiosa. Ma domani basterà? Se mai il tempo inutilmente scorrerà come sabbia tra le dita domani mi basterà naufragare nei tuoi occhi - 92 -
oltre ogni giorno e mai abbastanza dentro il tuo amore.
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Anniversario Raccontami un tempo da ricordare nell’attimo di uno sguardo: cinquanta rose mai sfiorite per due cuori senza spine; ogni pena attraversata – ogni gioia ogni lacrima ha avuto un nome. Raccontami questo amore: lo diresti un vascello saldo che resiste ai flutti, all’onda che piega che mescola, che confonde, che intorpida; raccontami di una foce chiara – quieta, che non sarà mai solitudine ma l’anima viva e salvata della memoria che fugge – si increspa solo, improvviso, sul tuo volto un ricamo: non è che un sussurro – non è che una carezza di vento – non è che un bacio. Raccontami, amore.
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Intimo Natale Tempo lontano la strada s’imbianca d’armonie leggere, forme ovattate. È Natale e che giovi di sé quel lume che oscilla; tu mi parli dal chiarore e mi sospira stancamente la tua posa, fragile e intatta nella sfera di cristallo all’albero appesa. Brindo nel tuo sguardo forse nel tuo cuore, se mai saprò dai tuoi occhi quale lampo cadrà. Se l’istante propaga in fuga e l’orma come pavido segno, amerò la tua immagine così come ora amo te.
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In memoria di Gabry a Gabriella F. Ti ho vista come donna che vibrava, sacerdotessa custode della parola – fatta miele, canto e scabra essenza – danza solitaria nei veli del tempo. Il tuo sacrificio era un altare di alunni – quei nodi da sciogliere per l’incarno di fioriture – disperse poi su un tappeto infinito. Hai percorso la genesi, la divinazione della poesia – e lo stesso attendevi – ogni volta, la nostra manciata di versi come una biblioteca in disordine: mai eludevi un tuo sottofondo e lasciarci così – non ci è parso un congedo.
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L’educatore a Ercole M. Nel senso d’autunno come sospeso sto nei colori delle foglie sto nel tuo ricordo, nel tuo giardino di rose preziose da sbocciare, quei bravi fioeu cui parlavi con gli occhi; e l’oratorio, le olimpiadi; fiero contadino seminatore sto coi tesori dei tuoi cortili, dei tuoi dialetti perduto nel mio autunno nel giardino sfatto di tante storie; ma cadrò sulla soffice memoria che tu ci hai preparato: addio Ercole da un bravo fioeu.
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A Lucia in memoriam Vorrei solo dirti che era marzo – dopo le ceneri si era mosso il vento e disperse le tue pagine nei giardini di una vanitosa primavera. Ma tu hai conosciuto il respiro dell’assenza, la sorte di un germoglio spezzato – posto ai confini di una copiosa vendemmia, come un incavo di pienezze mancate. Eppure hai amato la vita, memoria dei tuoi occhi tu che hai visto ciò che la luce a noi nasconde.
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L’ultima partita me ne parla spesso il cuore di questo spazio che è stato campo o agorà tra liturgie e vespri tra sacro e profano forgiata al suo piano invitante la palla correva e correva – interminabili scie di tempo consumate come scarpe senza cammino certe storie non hanno eco sono senza battimani gesta del tempo avvinghiate ad ogni angolo – come me – ma la partita fu impari un agguato di porte girevoli vedemmo poi tutto e com’è cambiata anche l’antica villa: ora sul campo si affaccia – quale ironia – un ingresso per la terza età in quella porta – fatta attesa – vorrei tirare il calcio di rigore. “piazza” della chiesa Bergoro di Fagnano Olona - 99 -
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Postfazione di Annitta Di Mineo Alfredo Maestroni ne “L’ultima partita” svela e al contempo si oppone alla terra guasta del presente. Una poetica travagliata la sua, e se c’è oscurità è solo nei dettagli. Dolore immenso ma composto, lasciandolo sulla soglia a guardare che già è successo. Un libro di poesie suddiviso in sezioni per temi e forma in cui l’autore chiama il lettore a condividere la storia per imparare i valori, i valori che contano in tutta una vita, e a saperli riconoscere. Nei versi del poeta Alfredo Maestroni si coglie un’etica, si evidenziano i principi veri e meno celebrati, rappresentano un altro vivere. Il vivere del tempo di Kairòs, il tempo qualitativo, il tempo agito, impegnato, e non il tempo quantitativo ossia Chronos, il tempo che stritola, che spinge ad un ritmo incalzante. Ci parla del tempo propizio che implica responsabilità e consapevolezza, Seneca diceva <<Il tempo qualitativo non è poco ma è tanto, purtroppo lo usiamo male>>. Il volume si presenta con organicità che rivela una realtà da aspetti inediti e imprevedibili. Una poetica che mostra nuove esistenze e nuovi destini per l’umanità volta a cambiare il mondo. Il Nostro esalta la vita quotidiana, i momenti irripetibili in una selva di mezze verità. C’è un’inscindibile filiazione col passato, un tempo vissuto in lontananza e osservato con occhi pregni di lucidità. Negli anfratti poetici si rintracciano l’autenticità della vita e le svagate nudità degli spazi in un tempo interno, della - 101 -
natura, delle persone, dei paesaggi fino ad affrontare eventi sociali che travolgono una popolazione, Kant dichiarava <<Noi non possiamo conoscere se non spazializzando e temporalizzando>>. Ogni poesia crea ed evoca emozioni sottili che bisogna cogliere in ogni singolo verso, da potenza iconica qual è la poesia aiuta a comprendere meglio ciò che ci circonda, e Maestroni ci invita a guardare il mondo al di là delle apparenze, vedere altro. Esplora lo spazio che lo circonda e lo interpreta per rifondare in maniera personale e naturale valori sociali e alcuni valori comuni. Il lettore diventa il prolungamento e il completamento dello sguardo dell’autore, vede sfilare soggetti, vicende, luoghi, scenari che popolano l’opera di Maestroni, passando senza soluzione di continuità della vita reale al mondo poetico. Ne “L’ultima partita” vita e poesia sono strettamente intrecciate; la vita, le emozioni acquistano significato solo nel momento in cui vengono traslati in versi. Questa è la poetica di Alfredo Maestroni, un viaggio della vita nella sua fragilità e incompiutezza.
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Nota Un insieme di parti caratterizza, seppure in termini variegati, questo libro che apre in forma interrogativa per passare al tema delle pandemie a partire da quella (tragica) del Covid-19 ancora in corso a qualche altra dal sapore più ‘subdolo’ e ‘strisciante’, ancorché arrendevole. La terza parte come l’albero degli zoccoli, invece, ha una costruzione più complessa e scaturisce principalmente nell’Ottobre 2017 quando il mio Comune di nascita Bonate Sopra in provincia di Bergamo mi fa l’onore di conferirmi la cittadinanza onoraria per il forte legame con la terra natia (la cosiddetta Isola bergamasca tra i fiumi Adda e Brembo) cantato nella raccolta La memoria ineguale (più volte premiata) edita da LietoColle nel 2014. Rifacendomi al ‘poeta minatore’ di Giorgio Caproni ho ripreso a scavare nella miniera al momento abbandonata, scovando altre vene, spunti e personaggi, completando così un ‘affresco’ che a buon diritto può rifarsi al film capolavoro di Ermanno Olmi L’albero degli zoccoli del quale nel 2018 si sono celebrati i 40 anni dal conferimento allo stesso della Palma d’Oro del Festival Internazionale del cinema di Cannes. Quindi innesti e un intreccio di nuovi testi sul filo conduttore della memoria per ‘dialogare’ anche con personaggi quali, ad es., Sergio Limonta, storico locale, abilissimo nel raccontare nei suoi volumetti una comunità locale: la cosiddetta ‘civiltà contadina’ dell’Isola (poesia Dialoghi sull’Isola del tesoro). Con un’aggiunta: un omaggio a uno dei maggiori poeti italiani Vittorio Sereni per una sorta di comunanza nel - 103 -
cantare di poveri strumenti umani. I versi in corsivo nella poesia Quelle sponde magre sono tratti da sue poesie. Delle poesie riprese da La memoria ineguale e la maggior parte – senza titolo -, soltanto una (Passaggio a Ca’ Bana) è stata ritoccata. Come quarta parte, i testi di Canti liberi hanno visto la luce nel tempo a partire dal 2006 e vi abbondano, tra l’altro, luoghi e personaggi personalmente vissuti e conosciuti. Dal borgo di Castiglione Olona, Isola di Toscana in Lombardia, (poesia Il borgo del Cardinale), ai nuovi fasti del Monastero di Cairate (anno 737) affacciato sulla Valle Olona, un tempo culla dell’industria cartaria e ora desolata archeologia industriale (poesia Nemesi). Dal maestro elementare venuto dal sud agli artisti Paolo Borghi, scultore di fama internazionale (Lo scultore), e Antonella Lelli, valente pittrice del quadro “Le fate dei boschi” (Le voci e il sogno). Infine, una precisazione: alcune poesie di questa parte sono apparse nel Dicembre 2014 nel numero 3 di “Nuova Presenza”, rivista culturale a carattere aperiodico, dal titolo “Poeti a Varese”. Diario minimo va a cadenzare momenti e affetti personali e familiari che lascerei al lettore gustare, se vuole. In memoria, poi, una dedica a Ercole Macchi, educatore di gioventù, che ho reincontrato qualche anno fa; a Gabriella Ferioli, professoressa di lettere, amante della poesia; a Lucia T., colpita nell’infanzia da una rara patologia con cecità progressiva. Non a caso, in chiusura, la poesia L’ultima partita che dà anche il titolo al libro. L’ho scritta di getto dopo un particolare ‘ritorno’ agli spazi e ambienti della stagione - 104 -
giovanile, dove tutto è cambiato ma ‘niente è cambiato’ (i vecchi tigli a fare da pali di porta) e mi sembra la summa, in metafora (col brano d’apertura), dell’azzardo di un’impari partita (tra palla - porte e rigori) col tempo. Amen. Un ringraziamento particolare agli “Amici di Carvisi e Cabanetti”
Alfredo Maestroni
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INDICE DEDICA PREFAZIONE
007
Addio
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SOTTOVOCE Quo vadis? Canto sul lago Variazioni sul tema Girandole Tu sei l’ombra
013 015 016 017 018 019
PANDEMIE Un requiem da remoto Lockdown Consumanza Pronto soccorso (l’attesa)
021 023 024 025 026
COME L’ALBERO DEGLI ZOCCOLI (2014 – 2020) Tremavo, da bambino… Dalla guerra… Le prime estati… Dai picchi di stagioni… Sentivamo, nei silenzi… Sul filo di un parallelo… Il testamento Adolescenza andava… Bagliori Dialoghi sull’Isola del tesoro Cabanetti Confessione 16 settembre…
027 029 031 032 033 034 035 036 037 038 039 041 042 044
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Controcanto Si annoda in gola… Passaggio a Ca’ Bana Quelle sponde magre Un quaderno dal… Un murmure Lamento e canto per l’Isola
045 046 047 048 050 051 052
CANTI LIBERI (2006-2020) Altrove Approdi a Milano (il naviglio) Assenza Dove il mattino Fiore di campo Giovanna – ragazza down Il borgo del Cardinale (Castiglione Olona) Impronte Infinito La casa di Maria L’amore di ieri Opacità Per anno domini Per una sera Proibizione Una notte sognando Caro maestro (il viaggio) Casa Pascoli Declinando parole Il volto (la sindone) Le voci e il sogno Lo scultore Nemesi Parole Recita d’autunno Sul Casentino
055 057 058 060 061 062 063 065 067 068 069 070 071 072 073 074 075 076 077 078 079 080 081 082 083 084 085
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DIARIO MINIMO Sarò per te Luce ad Assisi A Sara Ogni giorno Anniversario Intimo Natale In memoria di Gabry L’educatore A Lucia in memoriam L’ultima partita
087 089 090 091 092 094 095 096 097 098 099
POSTFAZIONE NOTA
101 103
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Montabone Editore Collana di poesia “Sphera” Diretta da Annitta Di Mineo
1) Alfredo Maestroni
L’ultima Partita
Copyright © 2021 Alfredo Maestroni Montabone Editore Via Cerva, 1 – 20122 Milano cittaetempo@gmail.com www.montaboneditore.it ISBN 9788832275421