La bottega dei longevi

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LA BOTTEGA DEI LONGEVI ESPERIENZE E PENSIERI SUL FENOMENO DELLA LONGEVITÀ COME RISORSA SOCIALE

a cura di Lino Duilio



E se non puoi la vita che desideri cerca almeno questo per quanto sta in te: non sciuparla nel troppo commercio con la gente con troppe parole e in un via vai frenetico. Non sciuparla portandola in giro in balia del quotidiano gioco balordo degli incontri e degli inviti, fino a farne una stucchevole estranea. (“Per quanto sta in te�, di Konstantinos Kavafis )



PRESENTAZIONE

Q

uesto libro raccoglie gli interventi di un convegno organizzato dall’associazione PE.LI.DE presso la Casa delle associazioni di Milano, via Marsala , 8 nel corso del Book City nel 2016.

PE.LI.DE (www.pelide.it) è un’associazione culturale che mette al centro della propria azione storie emblematiche della vita reale, storie di donne e di uomini impegnati, senza clamore, a migliorare il nostro Paese, a sostenerlo nella crisi e a rilanciarlo verso il futuro. In essa operano, a puro titolo di volontariato, persone che provengono da diverse discipline; portatrici di differenti esperienze, nel campo delle professioni, della medicina, dell’imprenditoria, della scuola, delle istituzioni, dell’arte. Dopo anni di lavoro sulle buone pratiche, ci siamo soffermati sul tema della longevità attiva, che costituisce un fenomeno sempre più significativo a livello sociale. Qui di seguito diamo conto di alcune esperienze concrete e offriamo alcune riflessioni, di taglio interdisciplinare, che abbiamo presentato nel convegno anzidetto

Un sincero grazie va agli autori dei testi pubblicati, a Paolo Rossetto per la concessione della sua opera “la longevità attiva” come immagine di copertina e a tutti gli artisti che hanno arricchito la parte iconografica di questo libro.

Eugenio Costa Membro del Direttivo di PE.LI.DE.



VECCHIO A CHI? Introduzione di Lino Duilio



I

l tema oggetto del nostro incontro riguarda l’allungamento della vita media della nostra popolazione, più tecnicamente - mi corregga il professor Blangiardo se sbaglio - l’incremento della struttura media per età della

popolazione. La popolazione vive sempre di più. Arriva, ai giorni nostri, ad età che una volta si sarebbero definite “ragguardevoli”: per i maschi 78-80 anni, per le donne, che mediamente vivono più degli uomini, intorno agli 85 anni. Dato statistico, quest’ultimo, che meriterebbe forse una spiegazione scientifica, che non rientra però nell’economia dei nostri lavori. Complessivamente, il fenomeno dell’invecchiamento più avanzato è sotto i nostri occhi, ed i dati che ci saranno tra poco forniti dal professor Giancarlo Blangiardo, che si occupa di demografia all’Università Bicocca di Milano, sono indice di una rivoluzione in corso che ha profili diversi: di ordine

culturale, sociologico, filosofico, politico, economico e finanziario. Introduttivamente possiamo constatare che la persona, soprattutto se sta fisicamente bene, si rassegna sempre meno all'idea che vi sia un “D-Day”, un ultimo giorno della sua vita attiva, dopo il quale debba essere messo da parte, professionalmente e, soprattutto, socialmente. Per fare qualche esempio, il chirurgo che ha operato per trent'anni e ritiene di poter continuare a farlo, l’ingegnere che ha grandi competenze tecniche (sentiremo, in chiusura della mattinata, una testimonianza in questo senso), l’artigiano che ha operato nei diversi settori, queste persone ed altre ancora, arrivate all'età canonica, codificata per l’abbandono di ruoli attivi, dal giorno del pensionamento difficilmente smetteranno, soprattutto se in buona salute, di operare e accetteranno di essere confinati in ruoli marginali. Sempre più diffusamente, invece, esse continueranno a svolgere la loro attività o un’altra ancora, nelle stesse forme o in forma diversa, nelle stesse strutture, quando possibile, o altrove.

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Risulta sempre più obsoleto, insomma, lo schema classico, che faceva riferimento alla sequenzialità convenzionale secondo la quale c'era la prima fase della vita nella quale si studiava, la seconda in cui si lavorava e la terza in cui si andava in pensione. Era questo – tra l’altro - uno schema culturale e sociale nel quale il non detto era rappresentato dal fatto statisticamente acclarato per cui, dopo una media di circa dieci anni dall’età di pensionamento, la questione si chiudeva perché la persona cessava di vivere. A questo punto, se appare sempre più evidente sotto i nostri occhi una “rivoluzione” che è biologica, sociale e culturale, la domanda diventa: come è possibile (ed opportuno) riorganizzare la nostra società per evitare che vi sia una dissipazione di risorse umane e professionali? E, nello stesso tempo, come è possibile riorganizzare il welfare italiano considerata la circostanza per cui lo Stato non ce la fa finanziariamente a pagare per venti o trent’anni pensioni che prima pagava per dieci anni? Che il problema sia di tutta evidenza anche solo sul piano finanziario è dimostrato dal fatto che da anni si comincia a parlare di una prospettiva previdenziale con lo Stato che pagherà una semplice pensione basic, come si dice in Inghilterra, cioè una pensione di base, con il cittadino che, per vivere dignitosamente, si dovrà costruire una propria, ulteriore “pensione complementare”. Ma, oltre alla non eludibile questione finanziaria, molti altri sono gli aspetti indotti dal fenomeno del quale stiamo trattando, tutti rilevanti al punto da implicare la necessaria consapevolezza di una vera e propria revisione del nostro modello di convivenza sociale. Una revisione che, come quasi sempre accade, vede la politica arrivare dopo invece che prima. La politica con la “P” maiuscola infatti, quella che agisce secondo una “una visione di paese”, che anticipa i problemi e non li affronta dopo che sono esplosi, tarda a mostrarsi agli occhi del cittadino.

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E’ molto probabile, dunque, che al nuovo modello di convivenza sociale arriveremo tra un po’ di anni, con qualche fatica, per tentativi, con avanzamenti e arretramenti. Ma è solo questione di tempo, prima o poi ci arriveremo. In questo convegno, non potendo esaurire il tema nei suoi molteplici profili, abbiamo scelto alcuni approcci, che saranno dunque parziali ma che consideriamo interessanti. Cominceremo con una relazione di carattere descrittivo, perché è la descrizione che, in genere, prelude alla prescrizione. Rifletteremo dunque su ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi e su che cosa si prevede che accadrà nei prossimi anni. Non è una previsione affidata alla sfera di cristallo, ma all’analisi di dati che documentano il trend demografico in corso, per sapere oggi ciò che molto verosimilmente accadrà domani, tra dieci, quindici, vent'anni. In questa riflessione ci aiuterà, come già detto, il professor Giancarlo Blangiardo, demografo, che farà riferimento peraltro anche ad un testo molto recente, un volume collettaneo nel quale compare un contributo dello stesso nostro ospite, che si intitola “L'anziano attivo. Sesto Rapporto sulla vita in età avanzata”, su dati della Fondazione Leonardo. Dopo l’intervento del professor Blangiardo, tenuto conto che la vecchiaia è (stata) da sempre oggetto di riflessioni ad ampio spettro e multidisciplinari - si pensi al “De Senectute” di Cicerone del 44 a.c. – oggi proporremo il pensiero sull’argomento di un grande umanista italiano, Francesco Petrarca. Petrarca è stato filosofo, poeta, scrittore, di lui tutti noi ricordiamo il Canzoniere. Ebbene, oggi abbiamo la fortuna di avere qui con noi il professor Pasquale Stoppelli che ha curato, tradotto e commentato un libro di Francesco Petrarca che si intitola "Elogio della vecchiaia ". Offriremo dunque, come seconda riflessione, un intermezzo di carattere letterario, e questo grazie al professor Stoppelli, filologo e

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critico letterario dell’Università La Sapienza di Roma, che ringrazio doppiamente anche perché viene, appunto, da quella città. Last but not least, come dicono gli inglesi, cioè ultimo ma non ultimo per importanza, il professor Francesco Totaro, ordinario di filosofia morale, che personalmente non perdo mai occasione di ringraziare essendo per me un punto di riferimento in ambito filosofico da quando lo conosco, cioè da circa quarant’anni. Il professor Totaro ci parlerà, anche lui facendo riferimento a dei testi significativi, della relazione possibile tra la longevità attiva e la realtà giovanile, una relazione “inedita” tra le generazioni, come abbiamo scritto nell’invito, perché il tema della longevità non riguarda solamente quelli che sono vecchi o stanno per diventarlo, ma riguarda anche la realtà giovanile. E questo non solo perché anche i giovani diventeranno vecchi, ma perché il nuovo modello di convivenza sociale che si prefigura all’orizzonte può postulare – è una mia opinione, ma ascolteremo con interesse ciò che dirà il professor Totaro - una possibile collaborazione tra le generazioni ma anche, all’opposto, un possibile conflitto tra di esse. In proposito, la storia insegna, a dispetto di ogni vulgata su generiche “rottamazioni”, che quando c'è stata una virtuosa collaborazione tra le generazioni, i paesi in cui ciò è avvenuto sono stati costruttori di buon futuro. Un tale esito è stato (anche) il frutto della consapevolezza che le vecchie generazioni hanno la “sapienza”, che deriva dall'esperienza, ma non hanno l'energia, mentre le giovani generazioni hanno l'energia, che deriva dall’età, ma non hanno la sapienza. Dal che è derivata, naturaliter, la valorizzazione delle due dimensioni, entrambe fondamentali per una buona convivenza sociale. Ascolteremo con interesse, anche su questo versante, le considerazioni che ci verranno offerte dalla riflessione filosofica. A conclusione della mattinata, beneficeremo di due testimonianze, molto interessanti, che documentano, concretamente ed emblematicamente, la possibilità e il valore della longevità intesa come risorsa sociale.

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UNA RIVOLUZIONE IN CORSO Allungamento della vita e conseguenze sociali

di Giancarlo Blangiardo



I

l titolo della relazione che vado ad illustrare è il seguente: “Allungamento della vita e conseguenze sociali, una rivoluzione in corso”. “Rivoluzione” perché ogni qualvolta c’è un equilibrio che viene meno a quel punto bisogna immaginarne

uno nuovo. Il dottor Duilio prima ha parlato delle stagioni della vita: c'è una stagione per imparare, una stagione per lavorare, una stagione per riposarsi e naturalmente, dietro a ciascuna di esse, c'è una popolazione che impara, che lavora, che si riposa. Nel momento in cui l'organizzazione della vita e del mercato del lavoro cambiano, anche gli aspetti di natura sanitaria fanno sì che questi gruppi di popolazione mutino in termini quantitativi, rimettendo in discussione quegli equilibri che in qualche modo avevamo immaginato necessari per far sì che funzionasse il passaggio lungo il ciclo di vita nelle diverse stagioni della esistenza.

Sempre più in alto!!! Che cosa ci dicono la demografia, la statistica, i dati? Questi ultimi suggeriscono alcune riflessioni, esprimibili anche attraverso lo slogan "Sempre più in alto" perché la vita è sempre più lunga, così come la speranza di vita che, attraverso un numero, indica quanto un neonato, alle condizioni attuali di sopravvivenza, potrebbe (mediamente) vivere: se fosse maschio si ipotizza fino a 80 anni, se fosse femmina fino a 85 anni, secondo i dati più recenti. Come indica la figura seguente (fig.1), la speranza di vita è rappresentata dalle due curve che si orientano verso l'alto: quella superiore descrive l’andamento dell’attesa di vita alla nascita per la componente femminile, quella sottostante si riferisce al collettivo maschile. Come potete osservare, siamo passati dai 60-70 anni per i maschi e dai 75 per le femmine nel 1974 a, rispettivamente, 80 e 85 anni nel biennio 2014-2015. Naturalmente questa continua ascesa ha subito nel corso del

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tempo qualche rallentamento. Un fatto di cui i giornali hanno parlato recentemente è che nel 2015 è diminuita la speranza di vita. In effetti, è stata registrata una leggera diminuzione, che rappresenta tuttavia un fatto tecnico. Era successo anche poco più di dieci anni fa, nel 2003. Nell’estate di quell’anno, la famosa "estate killer", è aumentato il numero dei decessi facendo nel complesso diminuire la speranza di vita rispetto a quella registrata nell'anno precedente. Allo stesso modo è accaduto nel 2015.

Fig.1 ITALIA. Speranza di vita alla nascita. Anni 1974-2015 - Fonte: Istat

La buona notizia è che tutte le volte che c'è un abbassamento della speranza di vita, l'anno successivo si registra un rialzo che può risultare abbondantemente superiore al calo osservato nei dodici mesi precedenti. Quindi il trend è positivo e, salvo il verificarsi di drammatici eventi bellici, stiamo tuttora procedendo lungo questa direzione. E’ comunque innegabile che il 2015 sia stato effettivamente un anno sventurato dal punto di vista della mortalità: quasi 50-60.000 decessi in più rispetto all'anno precedente, un aumento che non si era mai verificato in passato, se non ai

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tempi della Grande Guerra. Perché? Ancora nessuno ha compreso bene che cosa sia accaduto, gli organi ufficiali non hanno fornito spiegazioni esaustive. Tuttavia, è ragionevole supporre che le mancate vaccinazioni, da un lato, e le avverse condizioni climatiche, dall’altro, abbiamo contribuito a incrementarne il numero delle morti. A questi fattori se ne aggiunge, verosimilmente, un altro: i tagli subiti dal sistema sanitario che hanno determinato conseguenze significative, soprattutto tra i soggetti più fragili: gli anziani. Non è un caso che le morti in più siano riferite esclusivamente a persone ultra 75enni, e questo naturalmente è spiegabile con la loro maggiore fragilità e talvolta con la presenza di un sistema sanitario meno efficace nel fornire risposte adeguate e tempestive a questa popolazione in crescita.

n

… onostante un’impennata di mortalità del tutto anomala in tempo di pace Se osservate il grafico seguente (fig. 2), il confronto tra nati e morti evidenzia, anche nel 2003, un innalzamento della curva verso l'alto. Faccio notare che la curva nera è quella dei morti mentre quella che ha come simbolo il trapezio bianco si riferisce alle nascite. Negli anni più recenti le morti salgono e le nascite scendono sensibilmente, tant'è che il 2015 è stato anche l’anno in cui la natalità in Italia ha toccato il suo minimo storico. Ecco un altro elemento da mettere in conto perché è chiaro che un minore numero di nascite si traduce in una minore immissione di forze giovani nel sistema –produttivo, sociale, ecc.- del Paese.

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Una notizia confortante (il calo del numero dei morti)… E una conferma preoccupante (un nuovo minimo di nascite) Ma cosa sta succedendo nel 2016? Due sono le notizie: una buona e una cattiva. La notizia buona è che nell’anno in corso la mortalità ritorna ai livelli del 2014. Quindi la punta, il picco del 2015 è stato superato. La spiegazione è un po' cinica, ovvero: “l'albero aveva delle foglie secche, è arrivato il vento e le ha fatte cadere nel 2015…, quelle foglie sono cadute e nel 2016 non cadono più”. È così, dopo una stagione di grande mortalità segue, in genere, una stagione “clemente”, ma semplicemente perché i soggetti deboli se li è portati via l'anno precedente. Questa era la buona notizia. La notizia meno buona è che, pur avendo già preso atto che nel 2015 è stata registrata la più bassa natalità in Italia di tutti i tempi, nel 2016 stiamo andando ancora più in basso, la diminuzione è del 6% rispetto all'anno prima, quindi arriveremo probabilmente ad avere un paese con 465.000 nati, un fenomeno che non si era verificato neanche ai tempi della Prima Guerra Mondiale. Neppure nel 1917 si era osservato un evento di tale portata.

Fig.2 ITALIA. Nascite e decessi. Anni 1991-2015. Valori in migliaia - Fonte: Istat

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Ogni giorno che passa… non è uno di meno! Questa è un'altra notizia confortante. Osservate ora la tabella 1, in particolare i numeri che compaiono nell’ultima colonna di destra. Si può dimostrare che nel passare, per esempio, da zero anni a dieci anni, un bambino che vive dieci anni ne consuma otto e lo stesso risparmio sul consumo di vita residua vale naturalmente anche per le altre classi di età. Quindi l'allungamento della sopravvivenza fa sì che noi, dopo aver vissuto ventiquattro ore in una giornata, non abbiamo consumato ventiquattro ore della nostra vita residua, ma un tempo inferiore. Perché, nel frattempo, le condizioni sono migliorate e questo, direi, è un elemento positivo, purché non si abbassi la guardia sul fronte del sistema sanitario.

Non abbassare la guardia! Nel grafico successivo (fig. 3) potete infatti osservare la curva che rappresenta la speranza di vita in Italia, e quelle che si riferiscono all'est Europa all’indomani della caduta del Muro di Berlino. Vale a dire a Paesi in una situazione problematica, come è stato il passaggio dall'economia di Stato a quella di mercato con tutti i cambiamenti che ne sono derivati. Dunque non è affatto vero che l’allungamento della vita debba accadere obbligatoriamente, e non ci si riferisce al piccolo regresso nell’Italia del 2015, bensì a cadute più “importanti”, come per l’appunto è capitato in questi paesi quando il sistema socio-sanitario ha dovuto riadattarsi alla nuova realtà. Quindi, attenzione perché possiamo contare su una vita che si allunga sempre di più, ma dobbiamo fare in modo di non cadere in situazioni che possono farci retrocedere.

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Tavola di mortalità 2004

Tavola di mortalità 2014

ex(t)

ex+10(t)

differenza

ex+10(t+10)

differenza

[3]-[5]=

[1]

[2]

[3]=[1]-[2]

[4]

[5]=[1]-[4]

guadagno (*)

da 0 a 10 anni

77,9

68,3

9,6

70,6

7,3

2,3

da 20 a 30 anni

58,5

48,9

9,6

51,0

7,5

2,1

da 40 a 50 anni

39,3

30,

9,3

31,9

7,4

1,9

da 60 a 70 anni

21,3

13,7

7,6

15,1

6,2

1,4

da 80 a 90 anni

7,7

4,0

3,7

4,1

3,6

0,1

Età x e x+10

Maschi nel passare:

Femmine nel passare: da 0 a 10 anni

83,6

73,7

9,9

75,3

8,3

1,6

da 20 a 30 anni

64,1

54,2

9,9

55,5

8,6

1,3

da 40 a 50 anni

44,4

34,8

9,6

36,0

8,4

1,2

da 60 a 70 anni

25,6

17,0

8,6

18,0

7,6

1,0

da 80 a 90 anni

9,6

4,6

5,0

4,8

4,8

0,2

(*) minor consumo di anni di vita residua dovuti alla tavola del 2014 con livelli di sopravvivenza più favorevoli Tab.1 ITALIA Speranza di vita alle età x (ex) e x+10 (ex+10) al tempo t e t+10. Confronto tra la variazione osservata in base alla mortalità negli anni 2004 e 2014 - Fonte: elaborazioni su dati Istat

Quello che abbiamo visto era l'allungamento della vita, la figura 4 propone invece allungamento della vita in buona salute che vuol dire rivedere i dati sulla sopravvivenza tenendo conto di quanti soggetti restano in assenza di situazioni croniche e di gravi problematiche di carattere sanitario. Come vedete - e questi sono solo i dati degli ultimi anni - le cose migliorano, anche se in qualche caso non si può affermare che vada tutto perfettamente: è il caso dei maschi dal 2012 al 2013 quando è stata registrata una leggera diminuzione nel numero di anni residui attesi in buona salute. Ciò che voglio affermare è che va data la massima attenzione ai segnali che provengono da un sistema sanitario che ci ha abituati a determinate condizioni generalmente in continuo miglioramento. Non si può escludere, talvolta, il rischio di fare anche alcuni passi indietro.

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Fig.3 ITALIA. Speranza di vita in buona salute. Anni 2009-2013 - Fonte: United Nations

61,0 60,0 59,2

59,0 58,0

59,2

57,7 57,3

57,0

57,0

57,3

Maschi Femmine

56,4

56,0 55,0

59,8

59,4

55,1

54,0 2009

2010

2011

2012

2013

Fig.4 Speranza di vita alla nascita in alcuni Paesi. Anni 1950-2015 - Fonte: Istat

Il profilo di una piramide destinata a trasformarsi in «fungo»: italiani di oggi, di ieri e di domani Detto ciò, dal punto di vista della composizione per età della popolazione, entro un sistema in cui la vita si allunga e, come abbiamo osservato, le nascite diventano via via sempre più ridotte, che cosa accade alla popolazione nel suo

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insieme? Ovvero, qual è l'immagine, il profilo della popolazione per età che possiamo delineare?

Fig.5 ITALIA. Piramide delle età. Popolazione residente al 1° gennaio 2016 per età e sesso - Fonte: elaborazioni su dati Istat

Il grafico riportato in figura 5 si chiama ancora “piramide delle età”, anche se non ne dà proprio l'idea. Piramide perché una volta l’immagine grafica della composizione per età di una popolazione era una piramide: c'erano tanti bambini poi, via via, sempre meno adulti e poi, via via, sempre meno anziani e pochissimi vecchi: emergeva la selezione della vita. In presenza di generazioni che si susseguivano in maniera più o meno omogenea in termini numerici, la curva della distribuzione per età assumeva la forma di un triangolo o quasi. Oggi non è più un triangolo perché la base è stretta per effetto delle poche nascite. Il grafico di figura 5 evidenzia un rigonfiamento che rappresenta i figli del Baby boom, cioè i cinquantenni e cinquantacinquenni di oggi, persone nate negli anni ‘60 che sono diventate adulte, non ancora anziane, ma che tra dieci anni avranno più di sessant'anni e fra venti ne avranno più di settanta. Quindi, se oggi in Italia la maggioranza della popolazione ha 50-55 anni, tra vent'anni ne avrà 70-75, con tutte le considerazioni del caso.

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A proposito di piramide, negli anni cinquanta la forma a piramide era quella che la figura 6 descrive per la popolazione italiana del periodo. Si osservano due rientranze che rappresentano i non nati durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Oggi evidentemente non è più così.

Fig.6 ITALIA. Piramide delle età. Popolazione residente al 1° gennaio 1950 - Fonte: United Nations

E domani? La piramide diventa un fungo, peraltro un poco ancor più ristretto perché le nascite sono a quei livelli che vi ho detto, cioè sempre meno nati che morti. Per darvi un'idea, nel 2015 la differenza tra morti e nati in Italia è stata di 162.000 morti in più rispetto ai nati, quest'anno magari non replicheremo lo stesso valore ma resteremo non molto al di sotto di esso. Quindi evidentemente o arrivano gli immigrati che “tappano i buchi” oppure, se il paese non è più attrattivo per l'immigrazione, la popolazione scende in termini quantitativi quindi invecchia e diminuisce in termini numerici. Uno dice “benissimo, stiamo più larghi”, certo ma il cambiamento strutturale e l'invecchiamento della popolazione comportano anche una serie di problematiche di riequilibrio sul piano sociale nelle classiche tre stagioni della vita che dobbiamo considerare, e quindi è chiaro che se aumenta la componente anziana poi bisogna trovare il modo di pagare le pensioni e, forse più grave, dare un sistema sanitario che funzioni a gente più fragile, che esprime una domanda più alta

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e che ha anche un'abitudine al ricorso sanitario, per effetto generazionale, più elevata. Mi spiego: un novantenne di oggi non è tanto abituato a fare radiografie, tac, ecc., ma in genere lo fa solo se è necessario, un novantenne tra 30-40 anni sarà abituatissimo a questa prassi perché si tratta di una persona che nella sua vita ha sempre fatto prevenzione e quindi è abituato a usare il sistema sanitario. Quindi non solo gli anziani saranno di più come numero, ma saranno anche grandi utenti e allora a quel punto bisognerà far quadrare i conti del sistema sanitario, e non sarà certo facile.

Fig.7 ITALIA. Piramide delle età. Popolazione residente al 1° gennaio 2065 - Fonte: United Nations

«

Capelli grigi», un esercito che avanza… Immaginate una persona che arriva a 65 anni e entra nel mondo degli anziani,

se vogliamo accettare l'idea – di cui riparleremo in seguito - che ci sia un confine anagrafico superato il quale si diventa anziani. Questo potrebbe essere già un primo punto su cui riflettere, ma ammesso che il confine oltre il quale si diventa anziani sia il sessantacinquesimo anno di età, questi sono i numeri: nei prossimi anni la curva superiore che vedete in figura 8 rappresenta i nuovi anziani, cioè quelli che andranno

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all'Inps e diranno “buongiorno, ho raggiunto l'età per avere una pensione di anzianità”.

Fig.8 ITALIA. Bilancio dei movimenti in entrata della popolazione ultra65enne (a seguito del raggiungimento del 65° anno di età) e in uscita (per causa morte). Anni 2016 - 2065. Fonte: Elaborazioni su dati Istat

L’altra curva riguarda il numero di coloro che smettono di essere anziani semplicemente perché muoiono. Come si vede, la differenza tra chi entra e chi esce dal gruppo è largamente a favore dei primi per circa un trentennio. Pensate che addirittura nel 2030 c'è una distanza enorme, cioè sono 950.000 i nuovi “clienti” dell’Inps e circa 600.000 coloro che l’Inps dovrà cancellare. Si vede che poi nel 2050 le cose si risistemeranno; ma bisogna sopravvivere fino a quell’anno e forse ce la faremo. Aggiungo una cosa su questo perché è una curiosità che è bene riferire quando si fanno discorsi in tema di immigrazione. Guardando la figura 8 si nota come nel 2030 ci sia un picco, poi però, siccome in Italia le nascite sono diminuite subito dopo il 1965, ci si potrebbe aspettare che quel picco scenda negli anni successivi e invece questo non accade: il valore rimane più o meno uguale. Qual è la ragione sottostante? L spiegazione è che ci sono persone che diventano anziane da noi ma che non sono nate da noi, sono gli immigrati. Dal 2030 in poi ci saranno più o meno 200.000 persone ogni anno che raggiungono il sessantacinquesimo compleanno senza essere nate in Italia. Il problema è che in molti casi si tratta di persone che spesso sono state irregolari, hanno ottenuto la sanatoria, hanno cominciato a pagare i

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anni e quando arriva il loro momento di andare in pensione in un sistema contributivo, quel è il nostro, hanno diritto a una pensione misera che va integrata da parte della collettività. Questa è una piccola ‘bombetta’ che sta dietro l’angolo. Adesso non se ne parla, però prima o poi converrà prendere in considerazione anche questo problema. L'immigrazione è importante, immette soggetti giovani nel sistema ma se poi non vanno via e invecchiano nello stesso sistema, qualche problema può emergere. Quando si dice che gli immigrati versano tanti contributi, è vero ma si tratta di un prestito perché poi qualcuno glieli dovrà restituire sotto forma di pensione, non possiamo ragionare in termini di competenza ciò che opera per cassa. Questo va chiarito solo per parlare onestamente, per evitare i condizionamenti ideologici, perché bisogna essere onesti di fronte ai dati statistici.

Un sorpasso annunciato Un’altra considerazione riguarda il sorpasso annunciato (fig. 9), gli ultra sessantacinquenni rispetto a coloro che hanno meno di vent'anni sono già di più oggi quindi il sorpasso di quella generazione rispetto ai giovani è già avvenuto, nei prossimi anni avremo il sorpasso delle persone che hanno più di 80 anni rispetto a quelle che ne hanno meno di dieci cioè, se volete, i bisnonni verso i pronipoti. È comunque uno dei cambiamenti della nostra società che dobbiamo mettere in conto.

Fig.9 ITALIA. Popolazione residente in alcune classi di età. Anni 2016-2065. Valori in migliaia Fonte: Elaborazioni su dati Istat

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Raddoppia l’incidenza del «carico sociale» Dicesi “carico sociale” l’indicatore che rappresenta il numero di persone anziane per ogni 100 persone in età attiva. Oggi questo numero è circa 35-36. Si tratta di un indicatore rilevante perché su di esso si gioca, per esempio, la fetta di torta di Pil, che viene destinata alle pensioni. Voi sapete che una fetta del prodotto del paese è assorbita dalle pensioni, ebbene tale fetta è proporzionale a questo numero, il che vuol dire che se questo valore raddoppia la fetta, a parità di torta, raddoppia. Certo, potremmo riuscire a fare una torta più grande e allora saremmo tutti felici e contenti, ma se la torta è sempre quella e la fetta è doppia, gli altri mangiano meno, salvo dimezzare le pensioni... Si dice che per compensare tale aumento basterebbe aumentare la produttività o riuscire ad accrescere la partecipazione al mercato del lavoro. Certo, sono tutte leve sulle quali agire, qualche volta lette in maniera un po' ottimistica. Quando si fanno i bilanci a livello governativo per poi trasmetterli all'Unione

Europea

si

immagina

che

lo

scenario

preveda

un

aumento

dell’occupazione e della produttività, così che alla fine non ci sia un grande effetto della spesa pensionistica legata all'età, però qualche volta sono semplicemente degli artifizi, la realtà è questa e naturalmente noi dovremo confrontarci con essa.

Fig.10 ITALIA. Indice di dipendenza dei giovani e degli anziani. Anni 2016-2065 - Fonte: Elaborazioni su dati Istat

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Verso un futuro con più di un milione di grandi vecchi in un paese di 60 milioni di abitanti… La popolazione con più di 95 anni, conta oggi 127.000 persone in un paese di 60 milioni di abitanti, nel 2065 i 127.000 ultra novantacinquenni saranno 1.257.000 (figura 11), e sempre in un paese di 60 milioni di abitanti. Per questo sottolineavo la necessità di prestare attenzione alla sanità. Un milione e 257mila persone che vanno a chiedere l'assegno di accompagnamento, provate a fare i conti a 500 euro al mese e vedrete che cosa viene fuori. “Non glielo diamo, non ce lo possiamo permettere e si arrangiano”, ma questa è un'altra delle ‘bombe’ che stanno sullo sfondo.

Fig.11 ITALIA. Popolazione con almeno 95 anni di età. Anni 2011-2065 - Fonte: Elaborazioni su dati Istat

È chiaro che avendo più anziani ci sono famiglie più piccole, spesso sono donne, vedove, persone sole, che contano sul welfare, sulla rete familiare. Però anche qui c'è una brutta notizia, il sostegno intra-familiare si è indebolito perché l'albero è cresciuto, il fusto è alto, ci sono tre, quattro generazioni che convivono ma sono spariti i rami perché, avendo un figlio unico, spariscono i cugini, gli zii, ... E poi il figlio unico deve accudire la mamma, la nonna, la bisnonna. Anzi, la figlia unica perché poi spesso questo ricade sulle donne. Certo che diventa un problema, si può

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fare qualcosa però indubbiamente diventa molto più difficile intervenire rispetto al passato.

I

… n un contesto di fragilità crescente La figura 12 mostra una curva più o meno come quella di prima che dice: assumendo che i tassi di prevalenza-tecnicamente si chiamano così, ovvero la percentuale di incidenza per età- ad esempio, di soggetti affetti da Parkinson e Alzheimer siano sempre quelli di oggi, il solo cambiamento dell’età comporta che l'incidenza di queste malattie nel 2030 aumenti del 30-40%. Quindi è chiaro che per tutte le patologie correlate all'età, a parità di condizioni, il cambiamento strutturale determina un aumento dei casi con patologia cronica con tutte le conseguenze che ne possono derivare.

Fig.12 ITALIA. Numeri Indice della frequenza di alcune patologie, a parità di tassi di incidenza 2013. Variazione dovuta unicamente al cambiamento della struttura demografica per età e sesso. Anno base 2013. Anni 2013-2030 Fonte: Elaborazioni su dati Istat

Queste erano le notizie problematiche, dobbiamo prenderne atto e organizzarsi per gestire al meglio queste situazioni. Si può anche fare di più, ci sono non solo elementi problematici ma anche aspetti che in fondo si possono valorizzare, come ‘l'anziano giovane’ e qui io proporrei qualche ipotesi. Come diceva prima il dottor Duilio, uno diventa anziano, va a giocare a bocce, a pescare oppure ai 27


giardinetti a guardare i piccioni oppure può continuare a fare delle cose. Anche perché l'anziano del futuro è uno che non ha lavorato in fabbrica a fare girare una chiave inglese per tutta la vita, in qualche modo si è abituato, ha fatto di necessità virtù, ha imparato come funzionano i telefonini, magari non benissimo ma in qualche modo ci sta provando, si è riconvertito, ha vissuto in una società che ha continuato a dargli impulsi sul cambiamento, quindi necessariamente ha dovuto adattarsi, avendo un titolo di studio e una formazione più importante, e acquisendo via via una maggiore esperienza. Non c'è neanche più bisogno di essere dei Maciste, non devi avere la forza fisica, non devi sollevare pesi, puoi far funzionare la testa e se la testa gira tutto sommato, perché no? L’anziano di oggi (e di domani) è una risorsa che è un peccato sprecare, non valorizzare. Allora occorre immaginare uno scenario diverso, un'uscita dal lavoro magari anche graduale, volontaria, incentivata, perché la gente non cambia immediatamente la sua esistenza dall'oggi al domani, ma si adatta gradualmente a un nuovo stile di vita.

Non solo problematiche da gestire, anche risorse da valorizzare Ho fatto alcune ipotesi. Consideriamo le persone dal 65º al 75º compleanno. Se noi riuscissimo a immaginare che questi soggetti svolgano delle attività, non importa cosa, e queste cose abbiano una valorizzazione in termini di 5.000 euro all'anno, che non è una cifra esagerata essendo il limite per attività occasionali senza contributi Inps, questo porterebbe a un valore di qualche decina di miliardi di euro. Queste persone dunque darebbero alla società un ritorno anche in termini economici tutt'altro che trascurabile e quindi perché buttarlo al vento? Certo, devono esserci le condizioni anche di carattere normativo perché questo possa accadere e, in questo caso, ci vuole qualcuno che prenda atto di quello che ci siamo detti prima e dica: “va bene, abbiamo una risorsa, aiutiamola volontariamente, senza imporre nulla a nessuno, ma sosteniamola”.

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Periodi 2016-2020

2021-2040

2041-2060

Migliaia di anni-persona (Maschi)

3.141

3.812

3.680

Migliaia di anni-persona (Femmine)

3.542

4.272

4.094

Totale

6.683

8.084

7.774

Corrispondente valore (miliardi di €) (*)

33,4

40,4

38,9

(*) A una valorizzazione di 5000 € per ogni anno di attività Tab.2 Numero di anni-persona vissuti tra il 65° e il 75° compleanno dalla popolazione italiana nei periodi sotto indicati. Valore medio annuo - Fonte: Elaborazioni su dati Istat

E se l’invecchiamento fosse un falso problema? L’ultima tabella suggerisce il bisogno di un cambiamento culturale. In questa

rivoluzione cui stiamo assistendo, noi abbiamo sempre le tre stagioni della vita ma chi ha detto che i confini siano quelli? Per esempio, già il confine in cui finisce l'età dell'apprendimento e inizia quella della produttività una volta, almeno in termini demografici, si definiva a quindici anni, i giovani erano quelli in età compresa tra l’anno zero e il 15° compleanno. Da un po' di tempo già si è deciso che l’intervallo va dalla nascita al 20° compleanno, è già più ragionevole ma forse conviene andare oltre. E lo stesso discorso vale per la fase produttiva e quindi anche per l'uscita dal mondo lavorativo e quindi per l'ingresso nell'età anziana. Allora la logica potrebbe essere quella di definire anziano non colui che ha vissuto un certo numero di anni, ad esempio 65, bensì immaginare una definizione di anziano che lo identifica in colui che ha ancora mediamente da vivere un certo numero di anni, diciamo dieci. Quindi si diventa anziani quando si raggiunge quell'età dalla quale, secondo i dati della scienza, c'è ancora una vita attesa di dieci anni. Ebbene, se così fosse, nel 1881 questo valeva per un’età che era 65-66 anni per i maschi e 65 per le femmine, cioè nel 1881 un uomo o una donna di 65 anni aveva davanti a sé una speranza di vita di dieci anni mentre nel 2014 bisogna considerare un uomo di 77 anni e una donna di 80 e mezzo per avere soggetti con davanti a sé una speranza di vita di altri dieci anni. Non sto dicendo che

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adesso una donna deve lavorare fino a 80 anni, ma è un modo diverso di vedere le cose. E se le cose stanno in questi termini, allora potremmo chiederci quale è l'incidenza degli anziani nella popolazione di oggi, adottando una logica che pone il confine di ingresso nell'età anziana in funzione degli anni residui. I numeri che vedete nella tabella 3 sono quelli che si riferirebbero teoricamente, dati i nuovi confini, all'incidenza della componente anziana. È chiaro che sembra quasi un modo per spegnere il problema sulle spalle di chi poi, in qualche modo non essendo più anziano, deve andare ancora a lavorare, però un cambiamento di mentalità e di logica sottostante potrebbe certamente aiutare.

Anni

Maschi

Femmine

Età (anni)

% residenti

Età (anni)

% residenti

1881

65,80

5,1

65,02

5,1

1931

68,27

5,3

69,33

4,8

1951

69,22

5,1

70,60

5,0

1961

70,80

4,7

72,82

4,3

1971

70,62

5,3

73,73

5,5

1981

70,84

6,3

75,08

5,8

1991

73,34

5,7

76,88

6,8

2001

74,23

6,5

78,17

7,0

2014

77,37

6,5

80,41

7,7

Tab.3 ITALIA. Età cui corrisponde un valore di “vita residua attesa” pari a 10 anni e percentuale di residenti la cui età supera tale limite - Fonte: Elaborazioni su dati Istat

***

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Fine della storia. Credo e spero di aver documentato che cosa sta accadendo, di aver fatto intuire cosa c'è dietro a ciò che stiamo osservando e come si possa in qualche modo intervenire per gestire il cambiamento da tanti punti di vista, non ultimo quello di un atteggiamento più elastico, anche dal punto di vista culturale e normativo, nei riguardi di questo fenomeno che c’è da noi e c'è altrove. Noi siamo ai vertici nel mondo, si è ricostruito l'asse Roma-Berlino-Tokio perché sono i tre paesi con il massimo dell'invecchiamento al mondo con il Giappone in testa e, al secondo posto, una lotta serrata tra l’Italia e la Germania. Questa situazione riguarda l’oggi e, nelle prospettive delle Nazioni Unite, anche i prossimi decenni, quindi non se ne viene fuori. Così è e così sarà. Dobbiamo solo rimboccarci le maniche e cercare di gestire il fenomeno nel migliore dei modi.

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LA VITA CHE TRASCORRE, NELLA LETTERATURA

di Pasquale Stoppelli



F

rancesco Petrarca (1304-1374) è una figura capitale nella storia della cultura occidentale. Fu il primo a dare impulso alla riscoperta del mondo antico, per cui è oggi considerato il fondatore dell’Umanesimo. Petrarca è anche alle

origini della moderna prosa morale, per non dire che tutta la tradizione lirica europea è debitrice nei suoi confronti. La sua opera morale di maggior mole, il De remediis utriusque fortunae, è un libro sulla condotta dell’uomo. Il titolo potrebbe essere tradotto “Sul modo di reagire alla buona e alla cattiva sorte”. Lo iniziò a comporre dopo i cinquant’anni, ultimandolo entro il 1366, quando di anni ne aveva 62. Per gli standard di allora era già entrato nella vecchiaia. Petrarca morirà a 70 anni, che secondo il Salterio (89.10) costituiva il traguardo simbolico della vita umana. Il De remediis ebbe un successo immediato, pari solo a quello del Canzoniere, il libro delle poesie volgari di Petrarca. Diventerà riferimento imprescindibile per tutta la letteratura morale europea che tra il XVI e il XVIII secolo troverà terreno fertile soprattutto in Francia: da Montaigne a Rousseau, passando per Pascal, La Rochefoucauld, La Bruyère e altri. L’opera consiste di 254 dialoghi, distinti in due libri, nel primo 122, nel secondo 132. Nella prima parte sono trattati argomenti che si riferiscono alla fortuna prospera (la giovinezza, la bellezza, la sanità del corpo, la libertà, la ricchezza, ecc.), nel secondo alle condizioni avverse (la bruttezza fisica, la cattiva sorte, la povertà, la morte di un familiare, la perdita al gioco ecc.). Tra gli aspetti negativi della vita è considerata anche la vecchiaia. Gli interlocutori dei dialoghi del De remediis sono fissi. Nel primo libro la Gioia, la Ragione e la Speranza; nel secondo ancora la Ragione, ma questa volta interloquisce con lei sempre e solo il Dolore. La Gioia, La Speranza e il Dolore rappresentano la parte istintiva, passionale dell’uomo, quella pronta a esaltarsi nella buona sorte e a deprimersi nella cattiva. Compito della Ragione è di ricondurre a moderazione il sentire umano in qualsiasi condizione, favorevole o sfavorevole. Dunque una rappresentazione in forma dialogica di un contrasto che si svolge all’interno dell’animo di ognuno. Volendo

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storicizzare, il De remediis è un manuale di filosofia stoica aggiornato cristianamente sul fondamento soprattutto di sant’Agostino, dunque nella prospettiva cristiana dell’aldilà, e sostenuto da un grandissimo numero di esempi tratti dagli autori antichi. Il dialogo sulla vecchiaia (De senectute) è uno di quelli del secondo libro.1 È un invito ad accettare la vecchiaia, a viverla serenamente, a considerarla addirittura un privilegio per chi riesce ad arrivarvi. Sono argomenti che riprendono le trattazioni antiche su questo tema, tra le quali spicca il Cato maior, de senectute di Cicerone. L’opera ciceroniana conteneva una confutazione delle idee negative correnti sull’ultimo tempo della vita: prospettava i vantaggi di una condizione in cui l’animo, finalmente sgombro dalle passioni, sarebbe stato in grado di godere piaceri mai prima assaporati con tanta intensità, come le gioie dello studio e dell’amicizia, oltre che naturalmente l’esercizio della saggezza. Anche Seneca affronterà il tema della vecchiaia nel De brevitate vitae e qua e là nelle Lettere a Lucilio, ma non in maniera così specifica. Ma bisogna anche dire che la meditazione sulla vecchiaia non è argomento esclusivo della letteratura latina classica. Viene declinato in tutti i suoi aspetti già nella letteratura greca antica, poi soprattutto nella Bibbia e di conseguenza nelle opere dei padri della Chiesa. Nella Bibbia sono numerosi i passi che invitano al rispetto degli anziani: dall’Ecclesiaste («Quam speciosum caniciei iudicium!», come è attraente il giudizio di chi ha il capo canuto), al Levitico («Coram cano capite consurge et honora personam senis», davanti ai capelli bianchi alzati in piedi e onora l’anziano che li porta), al libro dei Proverbi («Corona senum filii filiorum, dignitas senum canicies», i figli dei figli sono corona di chi è vecchio, la canizie è il suo onore), ecc.

1 Di questo dialogo ho pubblicato a mia cura il testo latino e la traduzione in F. Petrarca, Elogio delle vecchiaia, a cura di P. S., Milano, La Vita felice, 2009

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Ma nell’antichità l’argomento della vecchiaia non è considerato solo nella chiave che vede nella vecchiaia l’età della saggezza, della moderazione o che riconosce a essa una naturale nobiltà oltre che una funzione equilibratice all’interno della società; si mettono anche in evidenza i difetti e talora i vizi che accompagnano l’ultima età. Questo soprattutto nei Padri della Chiesa. San Girolamo, in particolare, sottolinea l’avarizia dei vecchi tormentati dal pensiero delle ricchezze che dovranno presto abbandonare, oltre che le farneticazioni (delirus senex), la gola, l’iracondia che sarebbero connaturate alla condizione della vecchiaia. Gregorio Nazanzieno da vecchio si impose il silenzio come rimedio alla tendenza propria dell’età a eccedere nel parlare: «Trovai un ottimo rimedio: trattenni nel petto ogni discorso, perché la lingua imparasse a custodire quello che si può e non si può dire». C’è poi la tendenza alla lascivia dei vecchi (senex luxuriosus), che Giovanni Crisostomo disprezza in questo modo: «La canizie è degna di essere riverita solo quando compie ciò che è confacente alla canizie. Quando invece compie ciò che è proprio dei giovani sarà più ridicola che i giovani stessi». Segnalo a chi fosse interessato alla conoscenza dello sviluppo storico di questi temi nel mondo antico tre volumi di saggi dal titolo Senectus, pubblicati a cura di U. Mattioli per l’editore Pàtron di Bologna (1995-2007), dedicati in sequenza alla Grecia antica, a Roma antica e a Ebraismo e Cristianesimo. Petrarca sul tema della vecchiaia si aggiunge dunque a una letteratura ricca di voci. Cosa apporta di originale in questa tradizione? Gli argomenti sui vantaggi dell’ultima età della vita sono sostanzialmente gli stessi di quelli esposti da Cicerone, seppure – come detto – rivisitati cristianamente. Petrarca vi aggiunge una straordinaria eleganza dello stile e una sensibilità inquieta, che se non è ancora moderna, può definirsi certamente premoderna. Nel dialogo infatti, Dolore, come già detto espressione della parte passionale dell’animo, non accetta fin in fondo ciò di cui

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Ragione vuol convincerlo, ma, senza controbattere con argomenti contrari, oppone con ostinazione a tutti i tentativi di convincimento un’unica parola: Senui ‘sono vecchio’, ‘sono diventato vecchio’. Senui produce nel testo l’effetto di un rintocco ossessivo che esclude ogni possibilità di rassegnazione. Alle spalle di Petrarca c’è il pessimismo agostiniano. In un discorso tenuto a Ippona il 26 settembre del 426 per annunciare il suo abbandono della cattedra vescovile della città, Agostino pronunciava queste parole:

“In questa vita siamo tutti mortali, ma l’ultimo giorno è per ogni individuo sempre incerto. Nell’infanzia si spera di giungere all’adolescenza, nell’adolescenza alla giovinezza, nella giovinezza all’età adulta, nell’età adulta all’età matura, nell’età matura alla vecchiaia. Non si è sicuri di giungervi, ma si spera. La vecchiaia, al contrario, non ha davanti a sé alcun altro periodo da potere sperare: la sua stessa durata è incerta. Certo è solo che non resta alcun’altra età che possa succedere alla vecchiaia. Io, per volontà di Dio, giunsi in questa città nel vigore della mia vita; ma ora la mia giovinezza è passata e io sono ormai vecchio”.

Le ultime parole suonano nel testo originario: «sed tamen iuvenis fui et senui». Del resto la letteratura classica ci ha lasciato anche testimonianze di un approccio per nulla positivo nei confronti della vecchiaia. Da Menandro che riconosceva nella vecchiaia un peso insostenibile per gli uomini, a Terenzio che sentenziava: «Senectus ipsa est morbus», la stessa vecchiaia è di per sé una malattia. Ritornando a Petrarca, anche quando la Ragione oppone al Dolore il paradosso per cui: «Tutti aspirano alla vecchiaia, ma nessuno vuol essere vecchio», il dolore commenta ancora Tandem senui ‘sì, però alla fine sono vecchio’. Perché la cultura occidentale abbandoni sul tema della vecchiaia gli insegnamenti della morale stoica e cristiana, bisogna attendere il laico Montaigne, il primo a esprimere quello

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che la sensibilità moderna non riusciva più a coprire con le ragioni filosofiche. Scrive Montaigne:

“Avrei vergogna e invidia se la miseria e la sventura della mia decrepitezza dovessero preferirsi ai miei begli anni sani, gagliardi, vigorosi; e se dovessi esser stimato non per ciò che sono stato, ma perché ho cessato di esserlo. […] Similmente la mia saggezza può ben essere dello stesso stampo nell’uno e nell’altro tempo; ma era ben più ardita e piena di grazia, verde, gaia, schietta di quanto sia ora intorpidita, lamentosa, faticosa”.

Da questo rapido excursus risulta che il tema della vecchiaia è affrontato in letteratura, dall’antichità fino agli inizi dell’età moderna, nel bene e nel male, fondamentalmente in prospettiva morale. Intorno a esso si costituisce comunque un genere

con

due

finalità

precipue:

l’accettazione

della

vecchiaia

e

la

sdrammatizzazione della morte. In questa letteratura la riflessione sulla vecchiaia si accompagna sempre a considerazioni sulla morte. Cicerone opponeva l’argomento tradizionale dello stoicismo: “non devi temere la morte perché quando ci sei tu non c’è lei, quando c’è lei non ci sei più tu”). Per gli scrittori cristiani il momento della morte è invece quello della rinascita alla vita vera. Ma questo non è sufficiente a liberare il cristiano dall’angoscia della fine. Non ci sono argomenti sufficienti a renderla accettabile. Petrarca risolve questa contraddizione con argomenti non razionali, usando addirittura un tono aggressivo verso chi lamentosamente rimpiange la gioventù e si addolora della morte. A Dolore che ancora una volta aveva protestato la sua condizione: «Povero me, dunque sono vecchio!», così ribatte Ragione: “Ma smettetela ormai di lagnarvi, gente piagnucolosa, e riconoscete di buon grado l’imperio della natura. Non c’è nulla da piangere per quello che la sua legge ha immutabilmente stabilito. Cosa c’è di più naturale per

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chiunque sia nato dell’invecchiare vivendo e vecchio morire? Ma voi, dimentichi della vostra condizione, non accettate né una cosa né l’altra, benché o alla sola morte o insieme alla vecchiaia e alla morte necessariamente dobbiate andare incontro. Perché, se non volevate né l’una né l’altra, avreste dovuto astenervi anche da un’altra circostanza: non saresti dovuti nascere. […] Inutilmente, vi dico, resistete al giogo a cui tutti gli uomini nascendo hanno accettato di sottomettersi”.

Oggi il tema della vecchiaia non si pone più, o meglio non soltanto, come nel passato in prospettiva morale. Quelle che oggi si definiscono terza e quarta età comportano rilevanti implicazioni sociali: questa del resto è la ragione del nostro incontro qui oggi. Rispetto alle epoche a cui facevo riferimento la soglia della vecchiaia si è spostata oggi molto più avanti. Norberto Bobbio in un bel saggio degli ultimi anni della sua vita, intitolato anch’esso De senectute (Einaudi, 1996), nota come l’emarginazione degli anziani sia un processo quasi fisiologico in una società dinamica come l’attuale. In una società statica il vecchio ha accumulato nel corso degli anni un sapere che i membri giovani di essa non conoscono ancora e che hanno bisogno di imparare da lui. Ha scritto Bobbio: «Nelle società evolute il mutamento sempre più rapido sia dei costumi sia delle arti ha capovolto il rapporto tra chi sa e chi non sa. Il vecchio diventa sempre più colui che non sa rispetto ai giovani che sanno, e sanno, tra l’altro, anche perché hanno maggiore facilità di apprendimento». Insomma c’è anche un problema di invecchiamento culturale. Cito ancora Bobbio: «Quanto più mantiene fermi i punti di riferimento del suo universo culturale, tanto più il vecchio si estrania dal proprio tempo e tende a dare un giudizio negativo sul nuovo, unicamente perché non lo capisce, e non ha più voglia di sforzarsi a capire per comprenderlo». Gli antichi avevano coniato un’espressione per definire chi, in ragione di questa incomprensione, andava con nostalgia al passato: laudator temporis acti. Purtroppo molti di coloro che sono avanti negli anni finiscono per essere

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laudatores temporis acti, e rimpiangono il passato anche quando, e avviene spesso, non era affatto preferibile al presente. In realtà ciò che si rimpiange non è il passato, ma gli anni della propria giovinezza. Oggi accettare la vecchiaia comporta anche sentire il presente come il proprio tempo, malgrado contraddizioni e contrarietà. Ritornando alla letteratura sulla vecchiaia, è difficile trovare oggi argomenti persuasivi per sostenere la sua preferibilità alla gioventù. Gli argomenti che nei secoli hanno costituito il conforto ad accettare serenamente la vecchiaia non sono più spendibili. Molto si dovrà fare per combattere l’emarginazione di cui diceva Bobbio, in modo da rendere accettabile e positiva anche l’ultima stagione della vita, stimolando l’educazione del corpo e della mente, l’accrescimento culturale, la creatività. È quello che prospettava con convinzione un autore che ha dedicato pagine importanti al nostro tema. È Paolo Mantegazza, medico fisiatra, antropologo, scrittore, divulgatore in Italia della teorie di Darwin. Mantegazza scrisse anche lui nel 1893 un Elogio della vecchiaia (ristampato da Muzzio editore nel 1993), con le cui parole mi piace chiudere questa mia conversazione; “Alla propria felicità [il vecchio] deve provvedere egli stesso con una savia economia delle forze, col tenere alta la propria dignità fisica e morale; cercando di nascondere i guasti del tempo con una cura maggiore della propria persona, con l’indipendenza del carattere. E deve farsi amare, perché degno d’amore, perché generoso in vita di ciò che presto dovrà abbandonare per forza; perché egli non ruba il posto ad alcuno, e dove egli sta è giunto col lavoro onesto, con la vita intemerata. Egli non ha diritto a minori gioie e a una felicità più incompleta del giovane e dell’adulto. Soltanto, gioie e felicità devono essere diverse in lui, non minori mai. Ad ogni età un clima diverso, ma fiori sempre e frutti sempre. […] Io non voglio la vecchiaia agonia della morte, ma crepuscolo roseo di un sole che tramonta; senza rimpianti e senza dolori”.

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GIOVANI E MENO GIOVANI, PER UNA RELAZIONE INEDITA

di Francesco Totaro



Contemplare l’unità delle cose

G

razie di avermi dato la parola. Vado incontro a un supplizio di Tantalo, perché le questioni che sono state sollevate incombono come un macigno sulle modeste riflessioni che vi proporrò. Entro subito nel tema. Nella

bibliografia relativa a questo incontro, che si colloca nell'evento di Bookcity, abbiamo indicato alcuni libri. Uno è di Carlo Maria Martini ed è intitolato Le età della vita, stampato e ristampato presso Mondadori. In quel libro, a pag. 191 leggiamo: «i vecchi devono imparare a ritirarsi dalle loro responsabilità e contemplare maggiormente l'unità delle cose». Più che sul ritiro dalle responsabilità, vorrei mettere l'accento sul “contemplare” e sulla “unità delle cose” in riferimento al contemplare. Questa sottolineatura ritornerà poi nella parte finale della mia riflessione.

Gli stereotipi che pesano sulla persona anziana Vorrei dedicare la prima parte a un tema che potrebbe avere il titolo seguente: “Il profilo dell'essere anziano come costruzione sociale”. Negli interventi precedenti sono stati messi in luce gli elementi biografici e biologici dell'età anziana. Io penso che ci siano anche degli stereotipi che vengono a definire la figura dell'anziano a livello sociale. L'anziano è investito da “imperativi” o da prescrizioni di un comune senso sociale (ricordiamoci che il senso comune non coincide sempre con il buon senso, come già Manzoni ci insegnava) a cui egli deve sottostare per atteggiarsi e comportarsi da anziano. Egli deve assumere un tono minore anche quando è ancora dotato della ricchezza di energie e di capacità che le analisi demografiche – come quella esposta da Blangiardo – evidenziano. L’anziano è anche – non soltanto – ciò che viene immaginato come tale.

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Uno stereotipo dalle conseguenze traumatiche riguarda la frattura tra il tempo dell'attività lavorativa e il tempo della sua cessazione. Questo passaggio, che pure è reale, può essere configurato addirittura come vera e propria frattura, come passaggio a qualcosa di completamente diverso che annulla il vissuto che lo precede. Si passerebbe quindi dal riconoscimento di dignità, collegato all'attività lavorativa e produttiva, al disconoscimento di dignità. C’è però un effetto ancora più grave. Non solo colui che è fuori dal lavoro, e da compiti produttivi, cessa di essere visto come dotato di dignità, ma giunge pure a rendere proprio questo stereotipo, a introiettarlo in una rappresentazione mentale e in umori sentimentali autodistruttivi: “cosa sono adesso che non lavoro più e non produco più? Niente”. Non lavoro, non sono. Un altro stereotipo – e ci potremmo sbizzarrire nell’indicazione degli stereotipi, ognuno di voi potrebbe indicarne qualcuno – è incentrato sulla dislocazione spaziale e consiste nella frattura tra l'essere stati nello spazio pubblico a pieno titolo e il trovarsi invece relegati nello spazio privato. Di tale segregazione lo stazionare sulla panchina dei giardinetti è la metafora principe (senza demonizzare i giardinetti, che andrebbero anzi incrementati e possono essere luoghi d’incontro, tenendo conto che l’alternativa, per molti, è lo stare in perenne solitudine davanti al televisore). Questi stereotipi attribuiscono all’anziano – e l’anziano finisce con l’attribuirselo anche senza motivo – uno status di minorità e di deficit energetico, che si riassume in un “non ce la fai, non ce la puoi fare più, rassegnati e mettiti da parte”. Certo, al contrario, talvolta all'anziano viene attribuito uno status di potere eccessivo o di prepotenza, ma questo riguarda un'élite ristretta, non tutti gli anziani bensì gli anziani di successo, quelli che al top di carriere privilegiate “non vogliono lasciare la poltrona” per continuare a comandare, accusati perciò di togliere possibilità ai “giovani” determinando un conflitto intergenerazionale. Un altro aspetto che configura uno stereotipo a sua volta attribuito e subíto – ne accennava già Stoppelli – è l'handicap tecnologico, assurto al rango di un vero e

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proprio gap culturale. Sappiamo che i bambini insegnano a usare gli strumenti elettronici, il tablet per esempio, ai genitori e, quando i nonni ci sono, anche a loro. Quindi c'è un rovesciamento nel possesso di competenze culturali o di abilità di apprendimento che poi si traducono in competenze culturali.

Una visione d’insieme sulla vita Vengo alla seconda parte della mia esposizione. In un’opera di Norberto Bobbio dal titolo De senectute pubblicata presso Einaudi nel 2006 – della quale non discutiamo le note pessimistiche dovute al fatto che l’Autore non è incline a indorare la pillola, da lui ritenuta per lo più amara, della vecchiaia – a un certo punto il filosofo dice che l’età senile non è separabile dalla vita precedente, è la continuazione dell’adolescenza, della giovinezza e della maturità di ciascuno (p. 27). Questa è una visione di insieme che si ricollega a quanto abbiamo letto già nel testo di Carlo Maria Martini a proposito del contemplare l'unità delle cose. Questo pensiero ci consente di riflettere sui modelli complessivi di vita. Una persona, da anziano, vivrà conformemente a come ha vissuto addirittura da adolescente e da giovane e, ovviamente ancor più, da persona matura. La condizione dell'anziano non viene fuori improvvisamente nel percorso di vita, ma è l’esito di un flusso esistenziale continuativo. Per tale motivo, quando nell’associazione PELIDE, che organizza questo incontro, abbiamo discusso del tema della longevità attiva, ci siamo detti a più riprese che la longevità attiva non è propriamente, o soltanto, una questione per anziani, è anche, e forse prevalentemente, una questione giovanile, una questione per i giovani. Dal modo in cui si vive da giovani, infatti, ci si apre o meno a una certa idea e una certa pratica possibile di longevità o, per non cadere in eufemismi, di senilità attiva. Insomma, una persona da anziano vive in linea con quanto ha già vissuto da giovane, da adolescente e da persona matura.

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La riduzione unilaterale dell’umano Possiamo chiederci: nel nostro contesto di vita e di cultura si danno gli spazi e i tempi per esercitare la virtù esistenziale della contemplazione? Si dà la capacità di cogliere unitariamente il nostro vivere? La risposta è relativa a una domanda-chiave che ci fa approfondire la nostra questione: da che cosa oggi l'umano è connotato prevalentemente? Dico “oggi” perché non era così forse fino agli inizi del XIX secolo, quando, come ha messo in rilievo Michel Foucault nell’opera Le parole e le cose, nasce e successivamente si consolida l'antropologia moderna del lavoro, imperniata appunto – per dirla con parole nostre – sulla preponderanza della coppIa lavorareprodurre, in una dinamica cumulativa che si spinge fino alla sua declinazione ipertrofica, a scapito di altre dimensioni. L’umano cioè coincide con la capacità inesauribile, e incessantemente in progress, di lavoro e di produzione. Il riconoscimento della dignità dell’uomo “lavoratore” è stata una conquista importante e irreversibile; la insufficiente coordinazione con altre dimensioni ha portato – e questo è il punto critico – a un modello unilaterale della rappresentazione dell'umano, delle sue attenzioni teoriche e delle sue pratiche. Bookcity si occupa solo di libri, è un peccato che non si occupi con uguale attenzione di riviste, perché forse nelle riviste si può trovare qualcosa di interessante. Allora approfitto di questo sconfinamento per citare nientemeno che me stesso dalla pagina 100 di un articolo pubblicato in un numero della rivista dell’IRES Veneto “Economia e società regionale” (anno 2013, n. 3) interamente dedicato al tema “Invecchiare, un'età in più”. Oltre al mio trascurabile contributo, quel numero ne contiene altri indubbiamente più interessanti, nei quali il tema dell'anzianità viene trattato con varie sfaccettature (l'editore è Franco Angeli, dal cui sito si può fare il download delle pubblicazioni). Vengo ora all'autocitazione, che mi risparmia il dilungarmi troppo sul concetto dell'umano che viene appiattito sul registro esclusivo del lavorare-produrre:

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«Il significato della vita si condensa nel suo essere messa al lavoro e le qualità dell'umano, da quelle dell'intelletto a quelle affettive ed emotive, diventano apprezzabili se si travasano in potenziale produttivo. L'attività del produrre, dalla quale il nostro vivere non può di certo prescindere, ingoia tutte le altre espressioni dell'attività umana e le assume solo se funzionali al proprio incremento. Il produrre si sottrae a una misura riferibile alla completezza dell'umano e, diventando esso stesso criterio assoluto, si rende smisurato, degenera cioè in produttivismo. Il produttivismo è infatti l'ipertrofia abnorme del produrre. Tale ipertrofia finisce con il creare effetti di ingorgo allo stesso produrre. La crisi dell'economia va considerata anche da questo punto di vista. E allora esplodono le questioni cruciali. Anzitutto, si può continuare a produrre in modo illimitato? Conviene concentrare tutto lo sviluppo umano nell'espansione dell'attività produttiva? Quale guadagno si trae dall'erigere l'aumento della produzione a fine supremo rispetto al quale tutto diventa mezzo? Si può pensare che la ricchezza affidata alla capacità di produrre (di accrescere il Pil) sia tutta la ricchezza possibile?».

Essere umanamente più ricchi Il problema è questo: possiamo continuare ad essere sbilanciati sul registro del lavorare e del produrre che diventano la ragione esclusiva delle nostre esistenze, con la conseguenza dell’annichilimento dell'anziano il quale, sbattuto fuori dal lavoro, si rappresenta, più che come un nullatenente, addirittura come un nulla-essente? Qui abbiamo uno squilibrio sistemico che investe le motivazioni in grado di dare senso alla qualità umana della vita. Dal mio canto propongo un'antropologia più ricca di quella concentrata nel semplice lavorare e produrre, di cui beninteso non disconosco l'importanza relativa in un contesto più ampio di realizzazione dell’umano. Un’antropologia più ricca dovrebbe comprendere anche la capacità di agire e la capacità di contemplare.

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Ora, sulla capacità di agire ci sono parecchie riflessioni propositive. Tra gli altri, un autore molto noto come Amartya Sen insiste sulla facoltà di agency, intesa appunto come capacità di azione che si realizza nei “funzionamenti” propri di ciascuna persona, e afferma che l'economia trae da essa il proprio fine. Sul contemplare si avanzano invece delle perplessità, anche in aree culturali di marca cattolica o cristiana, perché il contemplare viene visto come il “guardare le nuvole“e il “rincorrere fanfaluche”. No, il contemplare è la capacità di vedere le cose nell’insieme, di guardare verso l’orizzonte dell’intero. La capacità contemplativa ci consente di dire che l'esistente non è tutto, non è la totalità dell’essere, e quindi che c'è dell'altro. La contemplazione ci impedisce di arrestarci allo stato attuale delle cose e ispira il senso critico. L’esercizio dello sguardo acuto e lungimirante della contemplazione

muove

di

conseguenza

l’agire

impostato

criticamente

e

costruttivamente. Se al lavoro ci si dedica immettendovi anche le intenzioni del contemplare e le finalità dell'agire, lo spessore dell’attività lavorativa viene a sua volta arricchito e si può parlare, a ragione, del lavoro come servizio alla persona e tra persone. Al contrario, se ci si chiude soltanto nel lavoro come prestazione cieca, si atrofizzano e si perdono, come metteva in guardia già Hannah Arendt, le altre qualità dell'umano. Una tale atrofizzazione diventa molto grave soprattutto in una società nella quale – e su questo dovremmo riflettere in modo più approfondito – le tecnologie possono anche alleggerire il lavoro umano riducendolo quantitativamente.

Riorganizzare il lavoro per espandere l’azione Che ne sarà di una umanità capace solo di lavorare in una società dove il lavoro sarà destinato a diminuire? Già ora siamo in presenza di tecnologie produttive che sostituiscono il lavoro umano. Da alcuni questa tendenza viene temuta come una grande sciagura da scongiurare. A mio avviso, si tratta di declinarla positivamente e di pilotarla, con forme intelligenti di controllo

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“democratico”, verso la partecipazione allargata – il più possibile universalistica – al bene lavoro. Ciò sarebbe consentito da una decrescita opportuna dei carichi quantitativi che, nella attuale impostazione organizzativa, pesano sulle prestazioni dei singoli. Insomma, con l’impiego “democratico” delle tecnologie, meno lavoro per ciascun individuo, più lavoro per tutti. Una efficace riorganizzazione del lavoro, oltre che fare perno su una congrua politica economica su scala nazionale e internazionale, dovrebbe essere sostenuta da una forte etica di condivisione della risorsa lavoro. Bisogna allora prepararsi a relativizzare l’enfasi del lavoro e a dare un risalto maggiore all’agire. Come dare conto, già da ora, della loro distinzione? Lo scopo specifico del lavoro è realizzare oggettivazioni, cioè pervenire ad avere oggetti o a conseguire risultati verificabili nel loro sbocco oggettivo. Anche nel caso del lavoro di relazione con persone, si richiedono prestazioni conformi a mansioni e a procedure oggettive. L'agire è invece l'ambito in cui si tende anzitutto a essere qualcuno, a incrementare ciò che si è e non tanto ciò che si ha. Nell’agire si decide chi si intende essere. Certo, i confini tra agire e lavorare sono permeabili e vanno tenuti in comunicazione. Ciò nonostante, non si può risolvere l'agire nel lavorare. Ne è conferma il fatto che l’eccesso di lavoro spesso inibisce la disponibilità all’azione. Per esempio, noi oggi ci lamentiamo del fatto che la partecipazione politica è in crisi e che a decidere sono i pochi che occupano posizioni di vertice. A spiegare il fenomeno possono esserci fattori molteplici. Puntiamo però l’attenzione sulla risorsa tempo e domandiamoci: come è possibile una capacità diffusa e capillare di analisi, di conoscenza e di decisione politica in un contesto sociale nel quale la preoccupazione lavorativo-produttiva assorbe interamente la vita delle persone? Da dove lo tiriamo fuori il tempo per informarci seriamente e dibattere con competenza in vista di deliberazioni non verticistiche? L’assorbimento totale della risorsa temporale nella sfera del lavoro prosciuga disponibilità differenti e consegna il lavoratore alla gabbia della alienazione da lavoro. Si impone quindi subito l'esigenza di una misura del lavoro per dare espansione all’agire.

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Far confluire lavoro e azione nella contemplazione Soffermiamoci infine sul contemplare. “Contemplare l'unità delle cose” era l'invito di Martini. Accogliendo l’invito, possiamo sostenere che il problema principale per gli anziani non è la rivendicazione di una continuità con la fase del lavoro o una contestazione della esclusione da esso al grido “perché ci buttate fuori dal lavoro all'età canonica dei 65-67 anni?'', posto anche che tale limite possa magari allungarsi per convenienze di ordine demografico ed economico. Prima di andare al punto fondamentale, riconosciamo pure che tali rivendicazioni hanno indubbiamente delle buone ragioni, perché buttare fuori dall’attività lavorativa una persona anziana ancora in grado di fornire prestazioni egregie, creando un discrimine netto tra il tempo dell’in e quello dell’out, è sicuramente uno spreco irrazionale di abilità e di competenze, è certamente una sottrazione di risorse per le stesse istituzioni e imprese dove il lavoro veniva svolto. In proposito, alcune industrie più illuminate, facendo da pioniere, stanno cercando di rendere permeabile l’esperienza dell'anziano che ha cessato di lavorare con gli skills di chi è ancora nell'attività produttiva, soprattutto negli ambiti per i quali si ritiene che l'anziano che ha cessato ufficialmente di lavorare sia particolarmente esperto. Gli anziani, che forse non sanno insegnare l'uso del tablet, sono in grado di trasmettere saperi e abilità acquisite nel loro percorso lavorativo (e umano) a chi si trova a pieno titolo nei ranghi occupazionali. Allora sembrerebbe utile e conveniente, anche in una logica di efficienza, creare delle aree di porosità e di comunicazione fra anziani ex-lavoratori e lavoratori attuali, in modo tale da mettere in comune risorse preziose. Abbiamo molti motivi per dire che la logica della frattura, della cesura tra impegno e disimpegno lavorativo, è largamente irrazionale. Ciò non toglie che l'anziano, anche qualora si mantenesse in rapporto con la sfera lavorativa, debba “riciclarsi” in misura più o meno ampia, maturando la consapevolezza che la propria attività lavorativa va incontro a una riduzione 51


oggettiva alla quale è bene corrisponda una capacità di autoriduzione. Anche riguardo all'agire, l'anziano non può non ponderare saggiamente le proprie energie, da investire in modo selettivo evitando dispersioni e dando priorità all’essenziale rispetto a ciò che lo è meno. Le capacità di riduzione del lavoro e di selezione dell’agire possono allora confluire nell’ampliamento dell’attività contemplativa, alla cui luce lavoro e azione vengono considerati in una prospettiva diversa, meno incline al calcolo delle utilità, più propensa alla gratuità e al dono di sé agli altri. È questa la posta in gioco più importante

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Buone pratiche

AGGIUSTARE IL PASSATO di Nello Paolucci



L

a mia è un'esperienza molto concreta, che dimostra cosa si può fare - come si diceva pocanzi - una volta usciti dal mondo produttivo, nel mio caso dopo 42-43 anni di attività. Durante la mia vita professionale avevo fatto

molte esperienze di lavoro pratico, con responsabilità diretta anche per la parte economica.

Dovevo

cioè

rispondere

dell’organizzazione

del

lavoro,

dell’ottimizzazione delle risorse, soprattutto evitare la nascita di ogni tipo di aree improduttive e, ovviamente, di sprechi. Avendo lavorato in industrie di grandi dimensioni, avevo acquisito una notevole professionalità su vari settori del mio mestiere. Quando stavo maturando l’età pensionabile mi sono detto: "quando tra poco farò la vita del pensionato, tutto quello che ho acquisito in questi anni dove finirà? A chi servirà questa vasta esperienza?”. Parlando con altri amici, anche loro molto sensibili al problema, poiché anche loro erano prossimi al pensionamento (anzi, qualcuno era già in pensione), ci siamo detti: "Perché non mettiamo a disposizione

della

collettività

le

nostre

esperienze,

tutta

questa

nostra

professionalità?". Il caso ha voluto che per ragioni di lavoro conoscevo l'ambiente dell'Osservatorio Astronomico di Brera e sapevo che avevano ammassato gli antichi strumenti astronomici in ambienti umidi e polverosi, sicuramente non idonei alla loro buona conservazione. Più o meno la stessa cosa risultava per alcuni Istituti scolastici, non tutti, ma comunque una alta percentuale. Sapevo anche che all'estero strumenti simili sono tenuti come dei cimeli nei musei, oppure conservati in maniera, oserei dire, alquanto rigorosa anche perché lì vengono ancora utilizzati per farli conoscere ai giovani studenti. Purtroppo qui da noi, invece, le esperienze scientifiche fatte con questi strumenti non rientrano più nei nuovi programmi didattici, quasi come a dire che ai giovani di casa nostra non debbono interessare, che essi possono fare a meno di una certa cultura scientifica, ritenuta oramai arretrata o superata. Strano, vero?… per quel che io ho potuto

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constatare, all’estero queste problematiche si affrontano in modo diverso, nel senso che i giovani, magari non tutti ma molti, sono coinvolti e fanno ancora esperienze con strumenti costruiti 70 - 80 e più anni fa. Così facendo gli strumenti vengono mantenuti efficienti, si trasmette cultura scientifica alle nuove generazioni e si conserva il patrimonio. Tornando alla mia storia, dopo lunghi ragionamenti, riflessioni e contatti con vari Enti, il 23 maggio del 1998 ci siamo riuniti in sei, quali futuri soci “fondatori”, e abbiamo discusso ed approvato lo statuto per costituire un’associazione di volontariato ONLUS senza fini di lucro, che abbiamo chiamato ARASS - Brera, acronimo di Associazione per il Restauro degli Antichi Strumenti Scientifici. Per espressa volontà dei soci fondatori, gli scopi dell’Associazione dovevano essere essenzialmente tre: 1°) il recupero, il restauro e la valorizzazione degli antichi strumenti scientifici di proprietà degli Enti Pubblici, 2°) la formazione dei giovani per l’apprendimento delle tecniche necessarie al corretto restauro degli Antichi strumenti scientifici e 3°) la diffusione della cultura scientifica. Non abbiamo volutamente aprire la partita IVA e quindi non possiamo fare fatture, il che ci obbliga a lavorare solo per gli Enti Pubblici, i quali ci corrispondono, su nostra richiesta, un rimborso spese. I soci sono tutti impegnati a dare il proprio lavoro in forma gratuita (al massimo si può erogare, a fronte di pezze giustificative, giusto un rimborso). Prima di iniziare qualsiasi tipo di lavoro di restauro, ci siamo dovuti documentare su testi specializzati, conoscere la normativa legislativa che regola il lavoro di restauro sui beni tutelati di proprietà pubblica. I primi lavori sui quali abbiamo messo alla prova la nostra, come dire, professionalità appartengono all’Osservatorio Astronomico di Brera, per il quale abbiamo restaurato l’intera collezione degli antichi strumenti astronomici compreso Il telescopio Merz da 22 cm, il quale ha richiesto un notevole impegno professionale. Poi siamo andati all'Osservatorio Astronomico di Torino, anche in questo caso

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abbiamo restaurato tutta la collezione della strumentazione antica, a seguire quello di Trieste, di Padova, di Firenze e qualcosa abbiamo fatto anche per l'osservatorio di Bologna. A Milano abbiamo restaurato gli strumenti del gabinetto di Fisica del Liceo Parini (525), Beccaria (473), Manzoni (8), Berchet (374) e Virgilio (286). A Roma gli strumenti meteorologici e sismici dell’Ufficio Centrale di Ecologia (470). A Padova abbiamo restaurato il più antico orologio astronomico del mondo che ancora svolge una funzione pubblica nella Piazza dei Signori. Si tratta di una ricostruzione del 1425. La prima andò distrutta per eventi bellici sul finire degli anni 1399/1402. Questo lavoro ci ha impegnato per oltre 4 anni e richiesto un notevole impegno di progettazione meccanica, per adeguarlo alle nuove esigenze di sicurezza, ed una notevole esperienza professionale. Al termine di questo lungo lavoro, senza alcun intervento invasivo sulla parte storica, l’orologio è tornato a funzionare perfettamente. Era fermo da sette o otto anni perché non trovavano nessuno che fosse in grado di metterci le mani. Adesso è meta di visitatori e di studiosi. Sono venuti a vederlo anche dall'estero, persino dall'Inghilterra, i tecnici che gestiscono il Big Ben di Londra. Ma purtroppo il Comune di Padova non lo valorizza per l'importanza storica che possiede. E questo, a noi restauratori che facciamo questo lavoro con enorme passione, non fa molto piacere. Ricollegandomi all’introduzione di Lino Duilio, se fossimo all'estero questo orologio sarebbe meta di numerosi visitatori e anche fonte di un certo introito economico, sempre utile per la sua conservazione, per la valorizzazione e per la promozione nel pubblico. Invece in Italia purtroppo tutto questo non succede ed è un vero spreco di risorse. Ho elencato solo alcuni esempi, forse i più significativi, poiché se dovessi solo fare un cenno di tutti i lavori fatti occorrerebbe più di una giornata. In questi diciotto anni di esistenza dell’ARASS - Brera di restauri ne sono stati fatti su oltre 14.000 pezzi. E questo enorme volume di lavoro è stato eseguito senza mai chiedere aiuti economici a nessuno, né al Governo né alla Regione né tanto meno al Comune.

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Nel corso degli anni quel primo nucleo di sei persone è cresciuto, oggi siamo 34 soci e operiamo prevalentemente nel nord Italia. Da qualche anno abbiamo terminato il complesso restauro del grande telescopio Repsold - Merz da 50 cm di apertura, anche questo di proprietà dell’INAF Osservatorio Astronomico di Brera. Si tratta del telescopio che venne usato dal famoso astronomo Giovanni Schiaparelli per i suoi studi sul pianeta Marte, negli anni che vanno dal 1885 al 1900. In quegli anni Milano era al centro dell’attenzione di tutte le massime istituzioni scientifiche del mondo. A seguito di tali osservazioni molti altri astronomi si dedicarono alla conoscenza del pianeta rosso. Alcuni di loro ipotizzarono che Marte potesse essere abitato da esseri intelligenti. Quindi da queste nuove conoscenze è nata anche la letteratura fantascientifica. Ci sono volute parecchie decine di anni per essere certi che questa ipotesi risultasse non suffragata da dati certi. Il restauro di questo telescopio ha richiesto uno sforzo professionale e scientifico di enormi dimensioni. Si è resa necessaria la costruzione di un consistente numero di parti che erano andate smarrite, poiché era smontato da quasi mezzo secolo, ha richiesto quattro anni di lavoro con una intensità di impegno notevole. Anni di impegno e di lavoro determinati dal fatto che, come accennavo prima, lavorare per noi vuol dire fare ricerche storiche sui documenti di archivio, studiare i funzionamenti delle parti, documentarsi per la costruzione dei pezzi mancanti, richiedere informazioni ad altre istituzioni che hanno strumenti analoghi e conoscere perfettamente tutte le funzioni dello strumento. Ora questo magnifico telescopio andrà al Museo della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci di Milano. E’ una scelta che ci ha un po’ delusi perché, dopo averci lavorato e studiato quattro anni con notevole intensità ed enorme passione, lo vedevamo pronto per osservare gli oggetti celesti, ma purtroppo, se come pare andrà al Museo succitato, lì svolgerà una funzione solo contemplativa o al più didattica, che certo non è poco, ma è molto meno di quanto ci saremmo aspettati.

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Comunque, pazienza! Resta in ogni caso la soddisfazione di essere riusciti a realizzare questo recupero, con un costo economico per la collettività molto modesto, anzi direi estremamente modesto. Mi sono dilungato un po’ su questo caso, solo per ribadire un concetto con molta forza in questa sede, poiché sono convinto che esistono molteplici risorse sottoutilizzate nel nostro Paese, risorse che cioè non vengono puntualmente valorizzate. Tutta questa ricchezza non possiamo più permetterci di sprecarla, dobbiamo imparare a renderla produttiva offrendo uno sbocco a tutti dopo l’uscita dal mondo del lavoro, in forma totalmente gratuita. Quello fatto per il telescopio Schiaparelli è stato un lavoro intensissimo, vi assicuro, ma contemporaneamente ci ha anche molto gratificato, perché fare questi lavori genera una immensa soddisfazione. Ora si potrebbe obbiettare: ma quanti sono i pensionati che hanno una professionalità così elevata? ... La risposta non è difficile: quanti sono i lavori di pubblica utilità che non vengono fatti o sono fatti male per mancanza di risorse? … Sono tanti, tantissimi, e non si dimentichi che ciascun lavoro utile, per chi lo fa con passione è fonte di straordinaria gratificazione. C’è da considerare, inoltre, un effetto trascinamento che si innesca a fronte di manifestazioni positive. La nostra Associazione ad esempio lavora essenzialmente per lo Stato eppure viene aiutata in modo consistente da un Ente privato, il quale crede nella utilità del nostro lavoro. Ora, personalmente piuttosto che pensare a forme di contrarietà a queste riflessioni che considero molto importanti ma anche di semplice buon senso, preferisco credere che quasi sempre non ci si pensa, altrimenti non si spiegherebbe tutto il lassismo che si vede in giro. Questa è la manifestazione pratica di come tutto è quasi sempre regolato da una compensazione quasi naturale. Potrò sembrare fatalista ma io ci credo.

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Buone pratiche

QUASI COME IN UN SOGNO Civitas Vitae Padova, la prima infrastruttura di Coesione sociale

di Ernesto Burattin



G

razie dell'invito, sono molto contento di essere qua anche perché ho sentito degli spunti molto molto interessanti. Mi sono annotato "esercizio della saggezza", "deficit energetico", "handicap tecnologico", sembrerebbe

dunque che siamo più in discesa che in salita e cercheremo anche di tirare su un po' le sorti di questi anziani. La Fondazione Opera Immacolata Concezione nasce sessant'anni fa, compiamo sessant'anni, e nasce sostanzialmente come residenze per anziani contro quelli che al tempo, negli anni ’56, venivano chiamati ospizi, grandi cameroni dove 20-30-40 persone si mettevano il pigiama e lì andavano a mangiare, in bagno ecc. Nasce da una intuizione e cioè da otto domestiche anziane venete, classicamente venete, che sono state mandate fuori, lasciate sulla strada dai loro padroni e non avendo versato le cosiddette marchette, che non è una brutta parola ma sono i contributi, si sono trovate per la strada. I nostri fondatori hanno colto una cosa fondamentale, una capacità, una potenzialità enorme di queste donne che sapevano cucinare, sapevano tenere pulito, accudire i bambini ecc.. Le hanno messe insieme in una casetta, ognuna con la sua stanzetta, ognuna con il suo bagno ecc. e una cucina comune. Alcune di loro stavano in casa e altre hanno cominciato a fare le babysitter e ad andare per le case. È il primo caso, uno dei primi casi di auto aiuto e da lì è partita la storia della Fondazione con i condomini e gli appartamenti. Le persone venivano, portavano i loro mobili e poi insieme travasavano il vino, facevano la pasta ecc.. Poi dagli autosufficienti si è passati alle esigenze dei non autosufficienti. Vi risparmio 50 anni di storia, e arrivo a dieci anni fa circa, quando c'è stata la grande rivoluzione cioè quando, data la platea che avevamo sott'occhio, abbiamo visto i dati che emergevano, la grande rivoluzione di massa dell'anzianità, della longevità, e abbiamo cominciato a studiarla e a capirla. Così a un certo punto dalle residenze per anziani, dai centri servizi, siamo passati a studiare e capire che queste persone avevano delle potenzialità. La

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longevità per noi è una risorsa e non è solo per noi questa risorsa. È una risorsa perché, come abbiamo sentito, gli anziani, i longevi hanno una ricchezza che pochi hanno, una ricchezza che può essere spesa molto bene cioè hanno tempo, un tempo liberato, un tempo quindi che permette di produrre. E anche in questo caso c'è un altro passaggio, cioè i longevi per noi sono una potenzialità perché sono produttori di relazione, diventano produttori di relazione. Occorreva però contestualizzare la cosa, spargerli non era possibile, occorreva contestualizzarli in un territorio. Così su 15 ettari di terra si è cominciato a pensare, a strutturare degli ambienti multidimensionali, invece che grandi strutture da 500 ospiti in camere, stanze, piccole realtà da 50-60 appartamenti da 50-60 metri quadri completamente autonomi dove ognuno faceva la sua vita però sotto l'ala protettrice di questa grande realtà per cui si poteva schiacciare un bottone e arrivava la colazione, se volevano, oppure arrivava l'infermiera e avevano l'ambulatorio medico vicino casa. Quindi multidimensionalità. Ma occorreva studiare anche un'altra cosa, la polifunzionalità. Usiamo questi termini sinonimi per capire cosa c'è sotto: la polifunzionalità vuol dire più funzioni presenti nel territorio, cioè cominciano a crearsi le realtà per i non autosufficienti, i primi ospedali di comunità - una struttura che fa da atterraggio morbido tra l'ospedale e la casa, per la riabilitazione ad esempio -, cominciano a crearsi i primi nuclei di hospice (li ho presentati personalmente io all'allora Ministro Sirchia). Iniziano cioè a crearsi dei servizi che cominciavano a leggere la vita così come si muoveva. Ma l'altra grande cosa era far sì che il longevo che esce dal cosiddetto ciclo produttivo continuasse ad essere valido, continuasse ad essere opportuno, continuasse a creare produzione. Abbiamo cominciato a fare i primi percorsi per la terza età protagonista, praticamente a 65-70 anni gli si chiedeva: che cosa vuoi fare da grande? Cioè cosa volessero fare a proposito dell'età che restava. Cominciavano a stare con noi per sei mesi due volte alla settimana, insieme ad un gruppo di

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animatori, psicologi ecc., e cominciavano a capire che cosa avevano in mente, quali erano le loro passioni. E allora veniva fuori che il direttore di banca, che aveva sempre maneggiato soldi, era un esperto di orti e così partirono i primi orti sociali, studiati insieme per gli altri. Oppure l'avvocato di grido a un certo punto, alla fine della sua attività, si sentiva portato a fare l'amministratore di sostegno. Oppure dei commerciali che vendevano prodotti che si mettevano insieme, andavano nella grande distribuzione, nei supermercati, si mettevano in un angolo e spiegavano agli anziani che entrano a fare la spesa come leggere le etichette, come fare la spesa migliore e magari potendo portare questa conoscenza anche a casa. Lo fanno magari ricevendo anche dei punti dal supermercato che poi loro stessi possono utilizzare per la spesa, diventando prosumer cioè produttori e consumatori insieme. Quando voi andate al Bancomat siete dei produttori e dei consumatori cioè producete un servizio perché digitate e ricevete un servizio perché consumate, dunque siete prosumer, produttori e consumatori. Diventano cioè questi anziani delle persone che abbiamo definito civil servant cioè che servono per l'attività civile. Così cominciano altre attività ancora, cominciano ad esserci dei nonni che hanno dei nipotini e hanno piacere e voglia di andare a stare in mezzo ai bambini, diventando i Nonni del cuore, oltre che nonni di sangue. Poi costruiamo, il nido a forma di igloo, costruiamo la scuola materna a forma di trenino, per cui ogni aula è un vagone e quando si entra si entra in una penna, i bambini entrano in un gioco sempre all'interno di questa realtà. Ma poi ci sono anche i ragazzi che volevano fare ginnastica e così costruiamo un palazzetto dello sport dove si allenano ragazzi normodotati ma ad un certo punto si allenano anche i disabili. Abbiamo premiato, proprio sabato scorso, i multi medagliati delle Olimpiadi di Rio e sono venuti là perché là si allenano. Abbiamo la squadra di rugby in carrozzina, arcieri ciechi ... Pensate, abbiamo un campo per arcieri ciechi, come fanno a tirare non so, eppure tiranno con l'arco.

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E così ancora una volta si apre un'altra opportunità che è la grande rivoluzione di questa realtà, l'intergenerazionalità; comincia cioè a crearsi un distretto di cittadinanza dove c'è il diritto ad essere cittadini in qualsiasi stato della propria vita e del proprio essere. Dove, per esempio, c'è anche un pistodromo dove i bambini (2500 ne sono girati l'anno scorso) vanno in bicicletta insieme ai nonni o, in accordo con la polizia del Comune, fanno educazione civile per le strade, fanno attraversare i nonni per la strada, o imparano a correre in bicicletta. Pensate che ci sono ragazzi di 6-7-8 o 10 anni che non sono mai andati in bicicletta e lì cominciano a prendere possesso di questo grande parco dove ci sono anche delle sculture perché è bene che il contemplare ci sia anche negli ambienti all’aperto. Nell’ambito dell’intergenerazionalità c'è anche il tema di queste “diavolerie”, degli smart phone che i ragazzi adoperano e abbiamo creato il Talent lab dove chiunque con certi codici può entrare. Ci sono tutte le strumentazioni per creare, per stampare, ci sono le stampanti 3D tridimensionali. Premesso che noi siamo la struttura più grande no profit del nostro settore, per darvi un'idea della nostra realtà, faccio presente che in Veneto ci sono 300 strutture come la nostra, il 70% di queste è sotto i 120 posti letto e la struttura più grande nel restante 30% ha 600 posti mentre noi ne abbiamo 2200, abbiamo 1700 dipendenti e sostanzialmente in Italia siamo la struttura forse di punta, anche come filosofia. Tornando al Talent Lab, nella nostra sede di Asiago c'era una persona che quando mangiava gli tremavano le mani, non riusciva a tenere il cucchiaio e tra l'altro veniva anche un po' estromessa dalla sala da pranzo per questo motivo. Ebbene, i ragazzi insieme ai fisioterapisti hanno cominciato a studiare questo caso e hanno inventato un anello in plastica che tiene ferme le mani, si infila il pollice e tiene all'interno il cucchiaio o la forchetta bloccando la mano e questa persona è tornata a mangiare a tavola. Questo strumento lo hanno costruito nel Talentlab con la stampante 3D prendendo le misure della mano, si trattava di un ex contadino e

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aveva una mano molto grossa. Cioè ancora una volta l'anzianità, nonostante fosse non autosufficienza, diventa una risorsa e diventa una risorsa di relazioni perché anche i non autosufficienti continuano a mantenere il loro fascio di relazioni tra i parenti ecc. Noi poi abbiamo il nucleo più grande in Italia di stati vegetativi, persone che sono tronchi, stati vegetativi giovani anche (il classico tuffo, trovi la pietra e resti lì). Le famiglie di queste persone sono arrivate e avevano una caratteristica comune cioè si sentivano completamente sole e abbandonate, si è creato così un gruppo e un nucleo dedicato a loro dove c'è la tisaneria, dove si preparano da mangiare. I parenti cioè vengono e stanno lì, dormono lì se vogliono e hanno creato tra loro un'associazione che vive e convive all'interno di Civitas vitae. Ecco il termine: civitas vitae. I nostri filosofi e professori presenti sanno benissimo la diversità tra civitas vitae e polis che sono due cose diverse, perché anche le parole hanno un senso. A proposito di multidimensionalità e polifunzionalità, abbiamo inserito all’interno della nostra realtà anche un centro prelievi. Facendo riferimento a quando si dice “la persona al centro”, si tratta di un punto prelievi dove la persona arriva, preleva il sangue e lì vicino, sempre dentro la nostra struttura, abbiamo aperto uno sportello bancario dove la persona paga il ticket, torna indietro a prendere l'esito e va a casa. Qui quando una persona deve fare un prelievo deve andare in un posto, per pagare il ticket in un altro… Cioè nel nostro caso la persona diventa veramente una realtà al centro dei servizi, i servizi vanno a lei e non è lei che corre intorno ai servizi. A proposito di intergenerazionalità, l'ultima nata è una palestra a due piani, che inaugureremo proprio tra una settimana, dove è possibile fare riabilitazione per i post trapiantati di fegato, di polmoni ecc., i quali si inseriscono ancora una volta in una realtà che presenta aspetti di multidimensionalità.

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Chiudo con delle immagini che abbiamo raccolto in un breve filmato per questa occasione (rinviando per maggiori informazioni al web, dove cliccando Civitas vitae è disponibile una significativa documentazione sulla nostra realtà). Guardiamo un attimo questo filmato perché parlare è una cosa e si può dire “questo inventa”. Come si può vedere, è tutto aperto per cui le persone entrano ed escono quando vogliono a tutte le ore purché con il rispetto delle altre persone ovunque in tutti i luoghi. Abbiamo poi il Museo veneto del giocattolo, il primo museo veneto del giocattolo dove dei nonni insegnano ai bambini come costruire giocattoli attraverso il riuso delle cose, ancora una volta qualcosa che ha “senso”. Con bottiglie di plastica, bicchieri di plastica, tappi ecc. fanno trenini, aerei, mini biciclette e al tempo stesso insegnano la storia attraverso i giocattoli, come correvano i treni ecc. Ricordo perfettamente due bamboline vestite da balilla e i nonni che spiegavano il ventennio. I longevi diventano una risorsa, anche economica se si pensa al tempo che fanno risparmiare ai genitori che non hanno la possibilità di stare con i loro figli perché lavorano. Insieme agli insegnanti fanno anche da vigilanti oppure fanno in modo che ci sia meno spreco di risorse all'interno di una civitas come questa. Quello che vedete è il museo, abbiamo anche il club “Ricomincio da zero”, sono 62 ultracentenari che arrivati a 100 anni hanno azzerato l'età, pagano una tessera annuale o sine die. E abbiamo anche il Ricomincio da zero per i piccoli che hanno meno di tre anni. Nello spazio che osservate c'è la loro festa, qui i nonni che corrono. Queste sono le palestre, grandi palestre molto luminose e queste sono le parallele ad altezza variabile per cui ogni persona può scegliere. Qui abbiamo le piscine dove fanno attività natatoria. Qui ci sono tutte attrezzature per confezionare vestiti per una compagnia teatrale e quindi si risparmia anche su questo. Ecco, questo è il laboratorio di informatica, ho visto una nonna di novant'anni che ha parlato con suo figlio in Svezia attraverso questi strumenti proiettando i messaggi, " valeva la pena di

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arrivare a questa età " ha detto questa donna. Queste sono le biblioteche. Qui stanno insegnando ai ragazzi cosa devono fare. Questa è la scuola materna. Pensate che ci sono piccoli che insegnano ai grandi, l'intergenerazionalità comporta questo, sono varietà che stanno insieme. Gli anziani si siedono anche su seggioline molto piccole, pensate alla schiera quando devono alzarsi. Questa è la festa dei centenari. Questo è il parco, dentro c'è un piccolo pistodromo per i bambini dell'asilo in corrispondenza di quello più grande, ci sono cinque generazioni contemporaneamente. Sono momenti molto belli, qui siamo nel palazzetto dello sport dove fanno vedere gli sport che hanno praticato. Questo è il grande parco dove ovviamente quando li lasci andare tra poco l'erba non cresce più. Qui ci sono i genitori insieme con i nonni. Provate a pensare ad una famiglia che ha il nonno accolto come ospite e ha il figlioletto che è lì all'asilo, quando viene a trovare il nonno, stanno tutti insieme. Questa è una veduta notturna della struttura. Questa è tutta la realtà, praticamente dove vedete il palazzetto dello sport e sulla destra, qui in basso il trenino con l'igloo e con la penna. L’area che vedete in rosso sono appartamenti di varie metrature, e poi il villaggio Airone con anche il garage sotto. Al centro c'è la struttura dove si fanno i convegni, poi c'è la nostra scuola di formazione. Quelle due grosse strutture con la parte che si allunga sono per i non autosufficienti, la chiesa è quella realtà marrone, poi c'è il borgo, dove tra l'altro c'è un supermercato a cui si può accedere, e poi il pistodromo ecc.. Tutto questo sotto terra è percorso da grandi corridoi dove corrono trenini, macchinette e biciclette perché l'idea è che i servizi ausiliari corrono sotto terra, mentre le persone stanno sopra. Lì sotto si può fare anche walking, abbiamo organizzato un percorso per donne in gravidanza, sono circa 4 chilometri di percorso. Quindi ci sono percorsi coperti e percorsi scoperti in una realtà di 15 ettari. Questo è il “modello base”, lo stiamo replicando nelle Marche e tutte le nostre sedi sono strutturate per essere pronte a mettere insieme le realtà del territorio. A Vedelago c'è una bellissima struttura, costruiremo un asilo a forma di tartaruga e se

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c'è un palazzetto dello sport già costruito facciamo in modo che questo ci stia dentro, sempre in una logica di intergenerazionalità. Ancora una volta la longevità, perché questa è la caratteristica, diventa una risorsa per la nostra società e da minaccia diventa un'opportunità.

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L’ARTE NELL’ETÀ CHE AVANZA


Artisti

Cristina Stifanic Paolo Rossetto Susy Manzo Paola Faggella Silvano Brugnarotto

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Figura 1 “How do I keep young� 100 x 100 cm acrilico su tela - Cristina Stifanic

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Figura 2 “L'albero della Vita - Tree of Life� 120 x 110 cm acrilico e pastelli su tela - Cristina Stifanic

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Figura 3 “mamma & figlia� 70 x 100 cm tecnica sovrapposizione paper cutting e matite colorate su cartoncino, matite e crete su carta vellum 2014 - Susy Manzo

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Figura 4 “Invecchiamento attivo” 60 x 42 cm acrilico - Paolo Rossetto

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Figura 5 “Sguardi tra generazioni” 40 x 62 cm acrilico - Paolo Rossetto

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Figura 6 “comunicazione frantumata� 70 x 100 cm stampa digitale - Paola Faggella

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Note sugli autori Lino Duilio Già Deputato al Parlamento Italiano, giornalista pubblicista, presidente dell’associazione PE.LI.DE.

Gian Carlo Blangiardo Docente di demografia presso l'Università di Milano Bicocca e collaboratore della Fondazione Ismu.

Pasquale Stoppelli Filologo e critico letterario italiano, Università La Sapienza di Roma.

Francesco Totaro Già Professore ordinario di “Filosofia morale” nell’Università di Macerata.

Nello Paolucci Capo dei 30 pensionati che “aggiustano il passato”, Arass-Brera, Milano

Ernesto Burattin Civitas Vitae. Padova.



Artisti Paolo Rossetto (immagine di copertina) È inserito nel gruppo di artisti del "Museo della Permanente" di Milano. La sua personale tecnica pittorica consiste nel fatto che utilizza la tempera, gli acrilici, l'olio, il carboncino ed i colori in polvere seguendo la tecnica in uso nel Trecento.

Cristina Stifanic È consulente aziendale, espone da 20 anni presso musei, gallerie ed ambasciate italiane all'estero. Le opere pubblicate in questo testo fanno parte del film animato Pinocchio Parade realizzato con la leggenda del jazz italiano Giancarlo Schiaffini.

Susy Manzo È pittrice, scultrice e disegnatrice, specializzata in decorazione murale e pittura su ceramica (terzo fuoco), utilizza la tecnica del paper-cutting, sviluppa progetti artistici collegati alle usanze e alle tradizioni popolari della nostra cultura. “Storie Sospese” (2016) e “Giochi di Ruolo” (2012).

Paola Faggella Dedita alle arti visive con crescente impegno ma solo per passione, utilizza sia la pittura nelle sue diverse varianti, sia le tecniche digitali di post-produzione fotografica. Nel corso degli anni ha partecipato a numerose collettive a tema; ha svolto inoltre funzioni progettuali e organizzative per eventi artistici espositivi, curandone anche i relativi cataloghi.

Silvano Brugnerotto (Immagini in filigrana dei frontespizi di questo volume) È pittore, illustratore e insegnante di storia dell'arte. Ha realizzato mostre in Italia e all'estero e curato la mostra “The last Apple on the Tree”, collettiva di artisti internazionali sul tema del cibo legata a Expo 2015.

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