L'ombra della polvere

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The Bid Journal L’ombra della polvere Morena Ambrosini

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Allegato alla rivista quadrimestrale indipendente prodotta da Lorenzo Uccellini con il marchio del suo spazio per le arti in Pesaro - THE BID | Art Space

Numero 2 - Estate 2018

Per richieste di collaborazione scrivere a: lorenzo@the-bid.org

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The Bid Journal L’ombra della polvere Morena Ambrosini

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MORENA AMBROSINI

L’ OMBRA DELLA POLVERE prima parte La strada polverosa all’ombra dei pini secolari è l’unico accesso al vecchio cimitero. L’aria condizionata fatica a raffreddare la temperatura mentre la radio diffonde la musica allegra dell’estate. La monotonia di questo silenzio è coperta solo dal frinìo assordante delle cicale che affollano i rami stanchi dei vecchi alberi. Sembrano anime in concerto. Mi attraversa un brivido, ma è solo un attimo; è una violenza questo sole. Il vento caldo striscia sul marciapiede e scrolla dai vasi le foglie rinsecchite dal sole. Eccoti sei lì. Al buio e nella solitudine angosciante. So come ci si sente. Me ne sto qui senza il coraggio delle lacrime; eppure piangere servirebbe a fare un po’ di pulizia. Guardo il tuo primo piano incorniciato, ma vedo solo mani che mi strattonano, piedi rabbiosi che mi allontanano, le tue pose ma non il tuo sguardo, quello non riesco più a sostenerlo. Accostata alla foto, una rosa si sforza di resistere alla sete. Odiavi le rose, così scontate e dozzinali. Ti piacevano i mughetti, me lo avevi detto in un raro momento sereno, il fiore che simboleggia “ la scala per il Paradiso” ma Paul non se lo sarà ricordato. Comunque non ti servirà nessuna scala lì sotto terra, marcirai all’ inferno perché è quello il tuo posto. Sarai crudele e fredda anche tra le fiamme, ne sono certa e i vermi non vorranno cibarsi di te; se tra cent’ anni dovessero riaprirti, ti ritroveranno ancora intatta come marmo. E’ di me che resterà polvere. “Luce dei miei occhi” così c’era scritto sul testamento olografo. Quando il notaio Salvoni lo aveva aperto era rimasto alquanto imbarazzato. Si era schiarito la voce e aveva iniziato a leggere. E a sudare. 4


Caro Paul, luce dei miei occhi, senso della mia vita, so che in questo momento sarai disperato per la mia scomparsa. Cerca di consolare Sofia e la mia cara Alice, anche loro distrutte dal dolore. Fatti forza se ci riesci. Ritengo doveroso lasciarti l’albergo in Sicilia; se non te la senti di occupartene puoi sempre venderlo. Sono fiduciosa che saprai fare la scelta giusta. La casa di Milano voglio che rimanga ad Alice, già ci abita e non ha senso venderla. Digli di impegnarsi di più all’ università ma di continuare a divertirsi ugualmente. Il casale che con tanto impegno tu e Sofia avete ristrutturato e i terreni sono vostri. Siate felici. Vi voglio bene. Anna. A Rosalia lascio la legittima.” Mi era arrivata dritta in faccia questa cosa come uno dei suoi tanti schiaffi senza motivo; frastornata mi ero chiesta se non fosse veramente quello il giorno che mi aveva addolorata di più, perfino della morte di chi mi aveva generata. Paul aveva guardato sua moglie serenamente e non sembrava minimamente sorpreso mentre io precipitavo velocemente come se qualcuno mi avesse spinto dalle scale e sentivo già le ossa frantumarsi al contatto del pianerottolo che si avvicinava. “Non capisco notaio ... mia madre possedeva almeno altri cinque appartamenti, per non parlare dei terreni che nostro padre le aveva lasciato. Che fine hanno fatto?” “La signora ha venduto negli anni la maggior parte delle sue proprietà” aveva risposto il notaio con un velo di disappunto.

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Ok devo stare calma, ci sarà un errore; non ha saputo volermi bene, forse non aveva gli strumenti per farlo ma ora che senso ha avermi diseredata, lasciandomi la legittima di poco più di niente, come se non fossi carne della sua carne. Che razza di essere malvagio riesce a scrivere con tanta freddezza le sue ultime volontà? Neanche una parola per me. Niente ha senso. Al diavolo Paul, dì qualcosa, sei mio fratello, io ci sono sempre stata per te! Paul mi aveva guardata con la coda dell’ occhio come se fossi un’ombra dietro di lui. Si era accorto del mio smarrimento ma era rimasto impassibile e sereno; il suo volto era disteso e soddisfatto come uno sazio perché si è appena ingozzato tutto quello che c’ è nel piatto. Che altro potevo fare se non alzarmi e andarmene in silenzio, come se non mi importasse di loro e di tutto il dolore che mi continuavano a causare? Non meritavano neanche il mio odio. Chiudo gli occhi e finalmente respiro lentamente, col diaframma. Anni passati a cercarlo e a capire come si fa. Sei lì, dietro quella lastra di marmo, sigillata nel legno vivo, al buio freddo mentre qua fuori la terra scotta. Riaprendo gli occhi so che potrei leggere un altro nome, date diverse che non coincidono. E invece il nome è il tuo, le date sono quelle; sei proprio morta. Mia madre, l’origine del disastro che è stata la mia vita, è morta. Ti sei spenta come questo lumino che ancora non ti tiene compagnia con la sua luce fioca; domattina passerò in comune a firmare per il contratto elettrico perché non penso che al tuo caro Paul interessino le questioni dove è richiesto mettere mano al portafoglio. Non riesco a perdonarti; avrei voluto vederti soffrire e ho desiderato farti del male eppure sono qui a cercare le tue attenzioni. Ci sono dolori che impediscono alle lacrime di uscire. Dolori nascosti agli altri, talmente profondi che ci si può perdere ed è semplice sorridere quando chi te l’ ha impedito per anni adesso non c’è più. Hai cercato in tutti i modi con le umiliazioni di piegarmi ed invece eccomi qui. Mi attacco alla bottiglia di vino che tengo stretta nella mano. Bisogna festeggiare

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per il gusto di sapersi vivi e perché si sta scaldando e sarebbe un peccato. Lascio che questo liquido mediocre mi scivoli dentro e spenga per un po’ il mio odio. Quando muore qualcuno si dice che la vita debba continuare; la mia ricomincia a cinquantacinque anni. Lascio che una voragine mi risucchi mentre i pensieri stanchi cercano di recuperare gli sfilacci di una vita. Il caldo insopportabile di quell’altra vita, in Sicilia. Quella sensazione di appiccicoso che m’infastidisce ancora ogni tanto, specialmente adesso con l’età. Eri stata tu mamma a volermi portare a mostrare la terra dove ero nata; dopo la morte di mio fratello Robert ti sono ritornata in mente e sei venuta a cercarmi. Ci si dimentica di un documento, del mazzo di chiavi o semplicemente di una figlia e poi capita che quel pensiero ti riaffiori nella mente e di colpo sai precisamente dove devi rovistare. Il vuoto lasciato da quella povera creatura ti ha fatto ricordare che mi avevi affidata ai tuoi genitori. Quegli anni senza vederti sono stati l’unico regalo che tu mi abbia mai fatto. Quando sono arrivata in Sicilia, ero piena di timori; era come se tutto ciò che mi ero rassegnata a perdere tornasse a chiamarmi ma tu avevi bisogno che tra noi ci fosse spazio sufficiente. Mi bastavano piccole dosi di istanti felici, ma avevo imparato a distinguere gli abbracci. Ti avevo gettato le braccia al collo ma sembravi infastidita, senza allontanarmi ma senza neanche perderti in quella stretta. Le tue braccia erano rimaste a penzoloni come quando incontri qualcuno che non ricordi chi sia e cerchi in fretta di far riaffiorare quel nome. Avevi il freno a mano tirato anziché venirmi incontro. Sul tuo volto era apparsa la delusione di una bambina che ha appena scartato un regalo non desiderato e non trova le parole per confessare che non lo vuole più. Era come se avessimo consumato tutta la felicità a nostra disposizione. Adesso che non ci sei più, i ricordi vagabondi vengono a bussare alla mia porta. L’ ho odiato subito quell’albergo da cui papà era fuggito, non gli ho lasciato il

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tempo di distruggermi per primo. I turisti invece adoravano quel posto vicino alle saline, il personale gentile e la cucina locale. Eppure ci sono stati giorni che non ho mangiato perché avevi altro da fare come svuotare in fretta il bicchiere. I tuoi sentimenti rispecchiavano le rare cene fredde sul tavolo. Davo una mano come potevo in cucina e a volte mi facevo male. Ero solo una bambina. Quella volta che avevi trovato sulla scala la gallina decapitata non mi avevi lasciato il tempo di spiegarti che non ero stata io. Mi avevi costretta a toglierle le viscere ancora fumanti mentre l’ odore nauseabondo mi provocava conati di vomito. Poi ti eri fatta il brodo mentre io ero rimasta senza mangiare; rannicchiata nell’angolo realizzavo che non sarei diventata madre per non assomigliarti. Ti guardavo, incapace di reagire mentre abbracciavo Bob, il cagnolino trovatello che aveva riempito la mia vita di un amore tiepido. Me l’avevi lasciato tenere con indifferenza, sottovalutando il fatto che mi avrebbe resa felice. E mentre addentavi orgogliosa la coscia della gallina, io abbracciavo Bob sentendo quel calore e quella tenerezza che fino ad allora mi erano estranei. Soltanto Rachele qualche anno più tardi mi avrebbe fatta sentire di nuovo così. “Cagnaccio vieni qua!” L’ avevi chiamato muovendo l’ aria con quell’osso scarnito, ma lui rannicchiato tra le mie braccia si era limitato a sollevare fiaccamente lo sguardo. Allora ti eri alzata, abituata a farti obbedire da tutti, lo avevi preso a calci non facendo particolare attenzione a schivarmi. Bob era fuggito via con la coda bassa mentre gli tiravi sassate. La sua figura era scomparsa teneramente lungo la strada, e di tanto in tanto aveva girato il muso per guardarmi. Nelle notti successive aveva provato ad avvicinarsi senza fare rumore. Guadagnava terreno lentamente, come un bravo soldato; avanzava pian piano e poi si metteva a cuccia appiattendosi sulla ghiaia polverosa. Poi non è venuto più e al di là del giardino ho visto il terreno smosso. Non ho avuto il coraggio di scavare perché a volte il non sapere fa meno male, ma credo che fosse lì, compatto nella terra. Non era quantificabile il dolore per la scomparsa di Bob e più forte sarebbe stato

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doverti chiedere spiegazioni e sentire uscire dalla tua lurida bocca schifose bugie o maledette verità a seconda di come ti andava di ferirmi. Quante volte ci si può risollevare mantenendo la fiducia, cercando dappertutto il positivo; quanto si può continuare ad avere speranze? Se solo potessi cancellare i ricordi o semplicemente sbiadirli per trovarti qualche attenuante per soffrire di meno, allora chissà potrei forse perdonarti, rimuovere e dimenticare. E basterebbe? “ Rosalia mettiti in posa!” La tua voce la sento ancora conficcarsi nella mia pelle mentre il fotografo mi guarda con commiserazione. Quell’orrendo abito da maschio, giacchetta e pantaloncini corti con le bretelle. Le ciocche di capelli sparse ovunque. Mi avevi fatto credere che ero sporca, che avevo preso i pidocchi perché non mi lavavo. Mi avevi afferrato per la lunga coda e trascinata in bagno. Quanto ti avevo supplicata di non tagliarmeli mentre le tue mani insensibili guidavano le forbici. Ce l’ ho ancora sai, tengo quella vecchia foto in bianco e nero dentro al portafoglio. Quando la mostro dico che è mio fratello perché in fondo era quello che volevi vedere quando mi guardavi. Il tuo era solo un tentativo di attenuare le negligenze e i sensi di colpa. Per cosa sei morto? Di fame, per la sete o semplicemente nel sonno perché a pochi mesi di vita hai preferito morire piuttosto che averla come madre. Quanto hai pianto sperando che qualcuno ti sentisse! Ti sei sfondato i polmoni. E bravo Robert, bambino coraggioso. Io non ho avuto la stessa forza. Eppure c’ho provato. Sono sola in cucina che sistemo le posate quando afferro un coltello qualsiasi, piccolo e affilato; mani ancora troppo bambine per capire l’ assurdità del dolore, la scontentezza per ciò che mi manca. E’ una scelta veloce e precisa. Adesso quelle immagini sgranate riappaiono tra noi due ed è come se quella lama fredda mi provocasse sollievo da questa calura. Mi vedo mentre prendo confidenza con il coltello, me lo passo su e giù a solcare l’interno del braccio quasi a farmi

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solletico. Mi guardo allo specchio complice e mi lascio accarezzare dalla lama. Seguo il profilo del mento, continuo il percorso del collo dove sento le vene pulsare e giù nel canale dello sterno ancora arido. Basterebbe una piccolissima dose di coraggio ... sono solo un minuscolo insignificante essere codardo dai capelli corti. Senza protezione. Riporto il coltello al braccio e lo lascio affondare leggero sulla carne tenera, sopra le ossa sottili; piccoli tagli superficiali da dove esce un filo di sangue. Sangue e dolore. Dolore necessario ad anestetizzarne altri. Tagliarsi per sentirsi vivi quando dentro tutto è morto. Mentre gocciola lento nel lavandino, assaporo quel sangue vischioso. Dopo è piacevole prendersi cura di me, disinfettare i tagli, cambiare la fasciatura. Nessuno mi chiede mai come sto. Gioco a farmi da madre per provare cosa significa averne una vera. Rimasi stordita da quello che siamo capaci di fare e non lo feci mai più. Non sarei rimasta tanto in quel posto e forse ce la potevo fare. Le cicatrici al braccio scomparvero presto, quelle più profonde le vedevo ogni giorno. Dovevo solo colmare un vuoto temporaneo. Ero lì per questo, occupare un posto vacante. Robert non c’ era più e papà se n’ era andato da tempo, lasciandoti sola. Lasciandomi sola. Eppure ti ho chiamato mamma. Non solo per dovere. Ti ho voluto bene. Disperatamente. Contro ogni senso. Tu invece non me ne hai mai voluto; hai sempre esercitato la tua autorità spingendoti nelle più assurde punizioni. Di solito saltavi la fase delle minacce passando direttamente ai castighi. Non ricordo un accenno di comprensione; sei sempre stata ostile con me. Ho ammucchiato i ricordi della mia infanzia e li ho gettati da qualche parte lontani da me. Ora che sei morta i frammenti riaffiorano come parti di un vecchio film: io che salgo sullo sgabello perché le stoviglie sono tutte sporche nel lavandino; affogate lì da qualche giorno in attesa che non ci sia più niente di pulito e mi

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decida a lavarle. Pesco dall’ acqua oleosa la tua tazza scheggiata e la strofino con la spugnetta. Sapone non ce n’è . Nel frattempo l’ acqua per il tè inizia a bollire. Spero solo che ti faccia passare il mal di stomaco dopo la sbronza di ieri sera e ti venga fame perché io ho fame e in casa non c’è niente. Ma ai bambini non sono richiesti altri desideri? Mi avvicino insicura con la tazza bollente in mano. Tu con un braccio mi scacci via come faresti con un insetto fastidioso e mi rovesci la tazza di tè addosso urlandomi che senza zucchero ti fa schifo. Ma lo zucchero a casa non c’è più da qualche settimana perché nel frattempo l’albergo ha chiuso per il periodo invernale. I turisti con le loro facce amiche se ne sono tornati a casa. Mi rannicchio in un angolo con i vestiti bagnati; mi sento stupida e la fame se n’è andata con le mie buone intenzioni. Stringo i pugni finché le unghie non si conficcano nel palmo della mano. Ancora quel dolore che mi costringe a concentrarmi proprio in quel punto dove mi sto facendo male per allontanare altri pensieri che di male me ne farebbero di più. Fisso la tazza in mille pezzi, ma sono io che vado in frantumi. Sul pezzo di pane secco dimenticato sul tavolo si ferma una mosca e per un attimo penso che se fossi quella mosca potrei volare via lontano da qui. Quant’è ridicola la verità di voi adulti. Questo ho pensato quando ti ho vista quella sera. Immagini che si mischiano ad altre immagini mentre scendo dal letto svegliata da rumori ubriachi, un chiasso di voci maschili. Finalmente papà è tornato; l’attesa di una via d’uscita. Mi stringerà forte, così forte che le ossa scricchioleranno tra le sue braccia. Il calore del bacio che mi darà si diffonderà su tutta la fronte; riuscivo a percepirlo in anticipo quel calore. Allora avevo una fervida immaginazione. Ti vedo. Vedo le tue labbra avare attaccarsi vogliose alla bottiglia; una fresca beatitudine che velocemente accarezza il palato e appaga la lingua di un piacere infinito e poi giù ad arderti dentro, a riscaldare il tuo corpo gelido. Il piacere amaro

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dell’ ultimo sorso e la bottiglia vuota che sbatte sul tavolino. La fine dell’amplesso. Fatico a tenere aperti gli occhi nel buio del corridoio. Li sento respirare, intravedo le loro facce, sono due. Papà non c’è. Sei in ginocchio seminuda con la bocca miseramente in un pezzo di carne e la mano nell’altra, la stessa bocca avida sul collo della bottiglia, la stessa mano che mi spintona. Sei una preda imprevista che si agita e ansima. Loro respirano affannosi. E ridono. Riesco a cogliere i gesti ma non a capirne il significato. Uno dei due uomini si accorge di me, ti giri e mi guardi infuocata mentre ti strofini la bocca con il dorso della mano. I tuoi occhi mi oltrepassano. Chi sono questi uomini? Scappo via inesperta del mondo. E mentre mi lascio la scena alle spalle, mi domando dove sei papà ... mi manchi. In un attimo il tuo sguardo s’ infuoca. E’ come se tu avessi un laccio emostatico intorno al collo che impedisce al sangue di affluire al volto. Ma l’ attimo dopo è la mia guancia che brucia insieme a quel tremendo fischio all’ orecchio. Mi colpisci. Un colpo e un altro ancora. Puoi fare di meglio. Colpiscimi forte, fai un lavoro pulito, risolutivo. Cado a terra e tremo. E’ questo che hai fatto a Robert? Avevi provato a piegarmi ed invece mi avevi spezzata, ma le ossa rotte si risaldano e le ferite prima o poi guariscono, anche se i segni restano. Mi disgustava tutto di te e non parlo di quelle orrende pantofole rosa con le piume bianche o della vestaglia da notte sempre volutamente lasciata aperta ma del fatto che hai sempre sfruttato e consumato tutto ciò che ti stava vicino. Una madre che ha tagliato fuori la figlia dalla sua vita, mostrandole solo ossessioni, vizi e capricci fino a renderla incapace di amare. Guardami mamma, guarda quello che sei riuscita a distruggere! Senza sosta si susseguono verità e menzogne, immagini prepotenti che si srotolano anche se ricordare non vale la pena. Anche da morta sei capace di farmi stare male.

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In cucina è tutto fermo, solo le pale del ventilatore a soffitto si muovono stanche per il caldo. Mi avvicino per sentire il tuo respiro; sei viva ma vorrei io porre fine a questa tua vita disgraziata, a questo male di vivere. Questo tanfo di chiuso, aria respirata chissà quante volte; odori di cucinato sopra a quelli del gabinetto passano dal naso agli indumenti e giù nello stomaco. Ti sei adagiata nella diagnosi: alcolizzata. Hai l’alito che viene da mondi sconosciuti , forse è un miscuglio di whisky e sigarette; un’infinità di mozziconi sul pavimento. La vestaglia è sudicia di vomito. Sostengo il tuo sguardo mentre mi guardi con quegli occhi vuoti come di un pesce nella cassetta del mercato che aspetta da troppo tempo che qualcuno lo compri. Ma chi ti vuole più mamma! Anneghi nel tuo dolore e cerchi di portarmi giù con te. Ridi, sputi e poi piangi quasi a morirne. Sei di una tristezza insopportabile. Una stamberga fatiscente con le finestre sbarrate. Con un lavoro certosino ti stai distruggendo. Ti mancano le emozioni che danno sapore alla vita . Un figlio ad esempio che colmi la perdita di Robert. Prendi il cuscino Rosy e copri quel viso ... e quell’ odore stomachevole che esce dalla sua bocca. E invece scappo come fanno i vigliacchi e corro sulla strada dissestata lasciandomi dietro una scia di polvere. Sono una foglia che cade senza fare rumore eppure la gente si gira e mi guarda. Incrocio le grida di bambini felici e le mamme che accompagnano i figli a scuola tenendo per mano i loro gioielli preziosi; piango mentre il vento secca all’ istante le mie lacrime. E con in bocca il sapore della polvere impastata grido ”Ti odio,ti odio, ti odio!” che a otto anni non so bene se è quello che provo ma è quello che tu mi urli quando sei arrabbiata. Finalmente ero lì con te, avevi voluto riavvicinarmi per distruggere anche le fantasie che mi ero fatta. Che stupida che sei Rosy, come hai potuto pensare che la sera ti raccontasse storie o sperare nei baci della buona notte. Stupida

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perché era proprio nei momenti che stavi con lei che ti sentivi morire. Il desiderio di avere una madre si era spezzato nelle macerie della sua vita. Il giorno della laurea ti ho aspettato, sai. Eri il mio regalo inatteso. Bastava che fingessi di essere capitata lì per caso, magari quando tutto era finito. Non servivano fiori né spiegazioni o misere scuse. Nessuno ti avrebbe chiesto niente. La tua presenza mi sarebbe bastata. Del resto mi sono sempre accontentata dei tuoi avanzi come i pettirossi d’ autunno, affamati in cerca di briciole. Anche Davide un po’ ci sperava, ti aveva chiamato con insistenza fino a strapparti quella promessa. Davide è quello che alla fine ha pagato il prezzo più alto. Ha subito la mia rigidità e freddezza nei suoi confronti, ma è riuscito ad accettarla perché aveva capito che chi porta dentro un dolore, è corroso in profondità. Ho provato affetto e tenerezza per lui che non mi hanno impedito però di umiliarlo. A modo mio gli ho voluto bene ma la riconoscenza viaggia su binari paralleli all’ amore. Davide, modesto e privo di ambizioni, uno che si accontenta dei sogni rattrappiti, sempre a testa bassa, di quelli educati che pisciano seduti. L’ avevo conosciuto al bar dove lavoravo la sera ; se ne stava imbalsamato in un angolo del bancone, ingobbito con il bicchiere all’insù tentando di far scivolare il limone dentro bocca. Dopo vari tentativi andati a vuoto, aveva lasciato perdere, forse a causa dell’ ingombro del naso sul bicchiere e adesso alitava sugli occhiali spessi per poi strofinarli con il bordo del maglione. Quei gesti impacciati mi avevano fatto tenerezza e gli avevo passato un tovagliolo. Il locale quella sera era semivuoto ed eravamo riusciti a chiacchierare un po’; era ritornato qualche sera dopo offrendosi di riaccompagnarmi a casa alla chiusura. Se ne era stato tutta la sera paziente in un angolo ad aspettare che finissi il turno, straniato da tutto quello che gli passava attorno, senza mai uno sbuffo di insofferenza; chi glielo faceva fare, nessuno aveva mai avuto attenzioni per me. Sottocasa ci baciammo, un bacio goffo, insignificante e senza coinvolgimento ; provai fastidio per la sua lingua invadente e per quella

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montatura degli occhiali che mi sbatteva sul naso. Volle che la domenica dopo pranzassi con i suoi genitori e la cosa mi mise non poca ansia. Temevo di non riuscire ad aprir bocca, di fare una brutta figura. Invece si rivelò una bella giornata; suo padre, il famoso dottor Pivati mi mise subito a mio agio e non di meno fu sua moglie Caterina. Lui era un uomo sulla settantina ma aveva l’aria più giovane anche per merito dei capelli scuri; era indubbiamente un uomo premuroso e garbato anche se ostentava una camicia troppo sbottonata sotto l’ abito, ricordo forse di una gioventù ribelle. Mi piacque il suo modo di parlarmi con affetto, i suoi gesti educati nel passarmi le pietanze per prima; non mi permise neanche di aiutarlo a sparecchiare la tavola e anche se si notava che non erano abituati ad occuparsi della casa, lo fecero con molta naturalezza senza ostentare che la domestica il giorno seguente avrebbe comunque sistemato tutto. Sì, erano una delle famiglie benestanti di Bologna e non ci tenevano particolarmente a fartelo vedere e Davide era il loro unico figlio. Anche la signora Caterina fu molto cordiale con me, volle sapere tutto sui miei progetti e ne fantasticò lei stessa altri per me; ma soprattutto l’apprezzai perché non mi chiese nulla della mia famiglia anche se di questo avrei dovuto ringraziare Davide. Passammo il pomeriggio sui divani a sorseggiare tè e piluccare pasticcini; com’ era disinvolta sua madre nello stringere la tazza tra le mani sottili e con che eleganza afferrava i dolcetti con le unghie curate. Caterina era sicuramente più giovane di una decina d’anni rispetto al marito e nel tempo aveva saputo prendersi molta cura di se; aveva i capelli corti di un color cenere vivo che non la invecchiavano affatto, anzi, le facevano risaltare l’ abbronzatura artificiale. Laureata in giurisprudenza, non aveva avuto bisogno di lavorare e per agevolare la carriera del marito, aveva trascorso l’ esistenza tra un interesse e l’ altro senza troppe soddisfazioni. Era questo che attendeva anche me? Io non ero come lei e me ne resi maggiormente conto quando agguantai il mio unico pasticcino con le dita smangiucchiate, le pellicine sollevate per poi nasconderle tra le pieghe delle gambe accavallate.

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Me lo sono fatta piacere Davide, solo perché l’ origine della sua famiglia mi avrebbe tirata fuori dalla miseria in cui vivevo, non evitandomi però il disagio. Ho avuto il mio tornaconto, tasse universitarie pagate, e pranzi e cene in famiglia di cui non conoscevo l’ esistenza . Lo stare con lui mise in risalto anche me; finalmente esistevo come persona, non ero più la sfigata senza un soldo e senza una famiglia, ma di colpo la sua agiatezza si era estesa anche a me e nonostante continuassi a lavorare, adesso mi vedevano come quella che lavora perché è emancipata e non perché ne ha bisogno. Sono stata la sua prima storia seria e avrei dovuto essere più indulgente. Davide aveva urgenza di esperienze e anche se io avevo già avuto qualche rapporto insignificante, era palese che sapessi più io di lui. Fui io a prendere l’iniziativa, a toccarlo e a pretendere che facesse quello che io volevo mentre lui impacciato mi obbediva; mi pentii subito di essere stata la sua prima volta e mi pentii di essere stata brusca, scontenta senza provare nemmeno a fingere, umiliando il suo orgoglio. Del resto chi è stata abbandonata dal padre quale rapporto può costruire con gli uomini? Per quanto ci abbia provato, Davide non è riuscito a placare la rabbia che stava crescendo dentro di me; ha lasciato che i miei sbalzi d’ umore passassero da soli, senza interessarsene veramente, convinto che un suo abbraccio bastasse mentre la sua presenza mi infastidiva sempre di più. In poco tempo aveva pianificato tutto: laurea,lavoro, casa, matrimonio,figli. Io ho rovinato tutto. Sono indifendibile perché sarebbe stato un padre responsabile, di quelli che portano al parco i figli, che non si perdono una festa di compleanno e anzi ne approfittano per condividere con gli altri genitori le gioie della paternità; peccato che la scelleratezza di mia madre avesse rimosso in me qualsiasi istinto materno. Come ci si salva da se stessi? Abbiamo vissuto insieme ma il matrimonio in chiesa per i suoi genitori era un punto fermo, figuriamoci io che non sono più entrata in chiesa, neanche per il tuo funerale, mamma. E non è stato solo per evitare gli abbracci falsamente sofferenti, le parole fasulle di comprensione per un dolore che in realtà non provavo.

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Seconda parte Ancora ricordi profondi che aspettavano la tua morte per riaffiorare. Ero poco più di una bambina, avresti dovuto proteggermi ed invece mi avevi rispedita di nuovo dai nonni che non sapevano che farsene di me, troppo avanti con l’età per accogliere un pacco ingombrante. Mi fa tenerezza ripensarmi bambina mentre fatico ad aprire la porta maestosa della chiesa che scricchiola. I miei passi svelti rimbombano nella navata deserta. Non si corre in chiesa, lo so, ma voglio essere la prima che va ad aiutare don Luca a preparare “il pane di Gesù”. Trascorro i pomeriggi a giocare con gli altri ragazzini nel cortile dietro la chiesa. Don Luca le ostie se le fa da solo. Acqua e farina, è semplicissimo. Mi chiede di seguirlo in cucina; il mio compito è di mescolare bene finché la pastella non diventa bella fluida. La verso sulla piastra calda di una specie di pressa con gli stampini, la chiudo per qualche secondo ed ecco che le ostie sono pronte. Poi bisogna rifilarle una per una, con precisione e questo però lo fa lui; è molto protettivo ed ha paura che mi faccia male. I ritagli me li mette in una busta e io ci faccio merenda perché non sono consacrati. Ma comunque fare merenda con il corpo di Gesù non è che riempia tanto la pancia perché si scioglie subito in bocca, quando non rimane appiccicato al palato. In quel periodo don Luca mi aveva nominata sua aiutante e mi faceva sentire necessaria. Si vedeva che ci teneva a me, che gli importava. Un giorno mentre sistemavo le candele consumate, nel buio leggero della chiesa, gli avevo chiesto di confessarmi, mi fidavo. “ Dai siediti qui!” Mi aveva detto indicandomi le ginocchia. “ Ma don Luca non andiamo nel confessionale?” Gli avevo risposto incuriosita da quella modalità nuova. “ Stai tranquilla, il confessionale è per gli anziani, qua starai più comoda.”

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E mentre mi sedevo sulle sue ginocchia, gli raccontavo di mio fratello Robert che era morto dopo pochi mesi dalla nascita e non si sapeva il perché e poi adesso era arrivato quest’ altro fratello; si chiamava Paul ma io non lo avevo mai visto perché non appena mia madre era rimasta incinta mi aveva nuovamente spedita qui dai nonni. Altri fratelli e sorelle non ne avevo e di mio padre se ne erano perse le tracce. Il seno ingrossato, la pancia tonda che nasconde un frutto prezioso. Riesco ad immaginare Paul lì dentro che spinge i tuoi pensieri gioiosi a fantasticare sulle prodezze del futuro pargolo ; vedo il tuo viso beato di mamma e poi lo stesso viso e la smorfia di quando hai saputo che dentro la tua pancia ostile crescevo io, un piccolo insetto venuto a scombinarti i piani. Quanta fatica hai fatto ad abituarti a quella pancia indesiderata, al pulsare di un essere non voluto! Una madre senza rimedio che non ha saputo darmi affetto. Don Luca aveva attaccato con la vecchia storia che siamo tutti figli di Dio, tutti fratelli e che volendoci bene non mi sarei sentita più sola e rifiutata. Mi stringeva così forte che finalmente quel calore scioglieva la mia rabbia nascosta. Mi faceva un sacco di domande, un interesse corrosivo era il suo; voleva sapere perché i miei fratelli avessero nomi francesi mentre il mio nome era siciliano, ma io non lo sapevo se c’ era un perché. Non ci avevo mai pensato. Erano solo nomi, anche se stranamente a quelli di nomi avevi voluto bene; ti eri persa nel dolore per la morte di Robert e adesso il pensiero di Paul riempiva la tua vita. Avevi smesso di ubriacarti e mi ero illusa che avresti accarezzato anche me con la stessa dolcezza con cui ti sfioravi la pancia. Una creatura cresceva dentro di te ed io ti avrei aiutata a fargli il bagnetto e a metterlo a nanna. Una sera però ti avevo sentita discutere con Daniel, il cameriere francese che troppo spesso prendeva le decisioni al posto tuo e nel giro di qualche giorno mi avevi definitivamente allontanata. Senza rimpianti.

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Ed io? Avevo mai riempito la tua vita? Cos’ ero io per te? Una specie di orfana senza essere mai stata figlia. La fonte dei tuoi mali, una presenza malvagia nella tua vita? Per questo mi hai tenuta lontana ? E’ stato tutto assurdo; l’ odio che avevi per papà non dipendeva da me. E’ sempre stato come se gli altri due figli ed in particolar modo Paul che ti era rimasto, fossero stati invece il frutto di un amore indissolubile. Un prodotto innocente dei vostri errori, ecco cos’ero. Ma ero anche una bambina e avrei meritato clemenza. Avevi delle responsabilità per quanto fossi ubriaca o delusa dalla vita, da papà o innamorata di qualcun altro, io ero la creatura che ero uscita dal tuo corpo. Svegliati Rosy e guarda le differenze. Perché ce ne sono parecchie. Gli raccontavo quel poco che mi ricordavo di mio padre; lui e mamma si erano conosciuti durante una vacanza che lei aveva fatto in Sicilia. Papà era il figlio del proprietario dell’albergo dove alloggiava. Erano una ricca famiglia mentre la mamma aveva origini modeste. Papà si era innamorato e lei era rimasta incinta di me; era già una cavalla imbizzarrita che papà non era riuscito a domare. Senza carattere, troppo indulgente. Io ero nata in Sicilia ma la mamma era troppo presa a fare la bella vita per occuparsi di me. Papà era sempre fuori perché doveva gestire altri alberghi sparsi in Italia. E così mi avevano accudito i nonni paterni . E’ molto triste non avere nessun ricordo di loro, neanche un frammento di foto. Poi papà se n’era andato, senza spiegazioni. Le aveva lasciato l’albergo in Sicilia ed era scomparso mentre nella pancia di mamma cresceva inutilmente Robert. Nove mesi di fatica per viverne così pochi. Non avevo visto quella pancia crescere allora e neanche con Paul. Un’intermittenza di famiglia senza alcun senso apparente. Non gli ero necessaria come una figlia dovrebbe esserlo per una madre; ero solo una presenza, a volte ingombrante, nella sua vita. Io al contrario avevo bisogno di lei, disperatamente. Ogni volta che mi allontanava, lo faceva con disinvoltura come se non gli importasse perdermi mentre io, nonostante tutto, ogni volta che mi mandava via, la supplicavo con le lacrime di tenermi con lei. Per troppo

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tempo avevo pensato che senza l’ombra di una madre non sarei riuscita a diventare una donna; per troppo tempo mi ero sentita una figlia cattiva alimentando i sensi di colpa. E mentre chiedeva, don Luca mi accarezzava il viso e io mi sentivo così amata e protetta perché Gesù aveva mandato questo prete a sapere come stavo. Mi stringeva così forte che la mia faccia sbatteva contro il suo petto fino quasi a soffocare mentre le sue mani sfioravano le mie gambe. Poi aveva iniziato a respirare forte come quegli uomini in camera tua, mamma, e allora ero fuggita e in quella chiesa non avevo più messo piede. E in nessun’ altra per la verità. Quel prete aveva provato a vedere se dentro quelle ferite, uscito il dolore, poteva esserci una luce. E poi ha spento anche quella. Il dolore non è mai solo, ne arriva sempre altro che è pronto a colpirti in ogni forma e noi non possiamo far altro che convincerci ad accettarlo sperando che se ne vada da solo, lasciandoci in pace, dando tempo alle ferite per rimarginarsi. Il suo interesse serviva a depistare. E se non ti sei mai sentita amata, non hai gli strumenti per separare il bene da ciò che bene non è. Non credevo possibile che i vermi trovassero terreno fertile dentro un luogo sacro. Quel silenzio inviolato, quel profumo di fiori sempre freschi ... non avevo fatto caso alla muffa che si arrampicava, nascosta dietro la colonna. Ne avevo abbastanza delle persone. Ecco perché con Davide non avrebbe funzionato . E’ cambiato il cielo, adesso ha il colore della polvere e la calura non mi salta più addosso ma le cicale assordanti sembrano continuare a rimproverarti. Neanche loro vogliono perdonarti. La mia vita è stata condizionata dall’abitudine di sentirmi sola, fuggire via e lasciare i legami ad altri perché la paura dell’ abbandono è sempre quella che vince. Davide si era laureato prima di me, la sua carriera era segnata alla nascita

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e da bravo oculista intravedeva il rettilineo davanti alle nostre strade; entrambi lavoravamo in ospedale, stipendio sicuro e vite da realizzare, ma io mi sentivo soffocare dai termosifoni incandescenti, dall’ odore di disinfettante, da Davide. Avevo bisogno di tempo, ma il tempo a volte inganna. C’era un progetto faraonico per la realizzazione di una gigantesca diga in Etiopia, lungo il Nilo Azzurro, la più grande d’ Africa , 1800 metri di lunghezza in grado di risolvere il problema energetico e serviva personale per l’ ospedale da campo. Sarei stata via sei mesi. Non esitai, per troppi anni ero stata china sui libri; studiare era un modo per placarmi. E poi il rapporto con Davide era un fossile, senza vita; vivevamo perennemente in una stagione scolorata e lui non se ne rendeva conto. Mi avrebbe lasciata partire ma l’avrebbe presa male. Era una decisione tutta mia, senza consultarlo ma non per questo avventata . Se solo si fosse fermato a riflettere avrebbe capito che non potevamo stare insieme. Il suo starmi accanto, colmare i vuoti era così triste e patetico. Quando sei attrezzata per la sofferenza non c’è amore che ti guarisca e può capitare che ti perda in altri dolori. Così avevo lasciato che le cose accadessero, giocando a perdermi nei cerchi della vita. Rachele era stata quell’ aria fresca, necessaria per sopravvivere, aria che ti riempie i polmoni, quella che ti manca quando da troppo tempo sei sott’acqua, aria che con la sua prepotenza ti entra dentro, ti domina e a cui non c’è modo di opporsi. Ma Rachele era stata anche quell’ acqua che ti si strofina morbida sui piedi a riva avvolgendoti e mentre si ritira è un sussulto di vibrazioni. E’ il lento respiro del mare. Il suo sorriso fresco mi saltò addosso insieme al caldo africano; la vidi la prima volta alla riunione che convocò per conoscere tutti i nuovi volontari appena arrivati. Sui quarant’ anni, più grande di me e con una sicurezza che mi mise soggezione; mi catturò la mano con una stretta energica per poi lasciarla scivolar via. Che ci facevo lì in mezzo al niente, e cosa speravo di apprendere tra la polvere di un

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cantiere immane che non avrei imparato in un moderno ospedale italiano? Posava il suo sguardo di sfuggita su di me, ma con insistenza ed infatti più volte eravamo state costrette a distogliere i nostri occhi curiosi che si incrociavano l’ uno nell’ altra in una sorta di danza misteriosa. Mi sentivo appiccicosa, sudata e non ero abituata a quel clima; feci un gesto per scacciare una mosca fastidiosa e le uscì un’ espressione divertita che a distanza di anni se ci ripenso mi fa sorridere. Aveva degli occhi potenti di chi ha saputo prendere dalla vita tutto ciò che voleva; il camice aperto per il caldo faceva intravedere il seno lasciato libero sotto la maglietta. Le scarpe da tennis e i pantaloncini corti evidenziavano la magrezza delle sue gambe dritte come due asparagi selvatici mentre i cappelli chiari raccolti a caso con una penna sembravano il risultato di un’ accurata acconciatura. Ero fuori posto anche lì, con il trucco che si scioglieva e il rossetto scadente che sentivo ammucchiarsi in un impasto agli angoli della bocca; dove pensavo di andare? Il senso di inadeguatezza si mischiò alla stanchezza mentre mi dirigevo nel container dove avrei alloggiato. L’ indomani Rachele mi svegliò presto per andare al villaggio. La regione del Benishangul-Gumuz era un territorio vastissimo, emarginato dalle sue paludi dove non c’ era nulla da vedere. Bisognava percorrere strade accidentate per arrivare all’insediamento più vicino formato da casette di paglia. Lì il tempo scorreva con modalità diverse rispetto al nostro; gli uomini coltivavano la terra con strumenti rudimentali e la forza delle loro mani mentre le donne dovevano recarsi al fiume per lavare i vestiti. Mentre Rachele guidava la camionetta e mi spiegava che avremmo dovuto somministrare vaccini ai bambini del villaggio, io mi sentivo parte di un documentario; la spensieratezza era finita quando Rachele si era raccomandata di fare molta attenzione perché la zona era a rischio AIDS. Parlò molto del lavoro che stavano facendo per aiutare la popolazione dove la mortalità infantile era alta e di quanto se ne sarebbe potuto fare se ci fossero stati più volontari ma si rendeva

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conto che non era una scelta facile lasciare tutto. Lei sarebbe rimasta per molti anni perché in quel niente aveva trovato tutto; l’ Africa le aveva dato una ragione di vita. Quando arrivammo al villaggio e vidi quei bambini denutriti, ripensai alle sue parole e provai per lei un senso di stima fortissimo. La tranquillità di quei primi giorni fu interrotta una mattina presto dal suono pungente della sirena che mi costrinse ad alzarmi velocemente dal letto. Era franata una parete della diga in costruzione e nell’ incidente erano rimasti coinvolti diversi operai; Larry il capo-cantiere sembrò subito il più grave. Aveva la gamba lacerata e stava morendo dissanguato; bisognava fare in fretta e trasferirlo nella capitale ma non c’era tempo di far arrivare l’ elicottero; Larry non ce l’ avrebbe fatta. Rachele prese la decisione di amputare la gamba lì per fermare l’ emorragia. Non eravamo attrezzati per una cosa simile, ma lei se ne assunse tutta la responsabilità e la sua determinazione salvò la vita a quel poveraccio. Mentre Larry sarebbe potuto morire, una scarica di adrenalina mi elettrizzò; per la prima volta avevo una vita tra le mie mani, ero importante per qualcuno. E anche quando l’ emergenza finì e mi ritirai nel container, mi portai addosso un miscuglio di sfinimento ed eccitazione. Ero stesa sul letto che fissavo il soffitto quando sentii bussare; pensai ad un altro imprevisto ma aprendo me la trovai di fronte Rachele, con i capelli selvaggi che le ricadevano sulle spalle. Un bagliore improvviso tagliò il cielo mentre goccioloni, schiacciando il terreno polveroso, rimanevano impressi sulla terra arida. I suoi occhi lucidi come i colori delle foglie dopo un temporale furono uno squarcio che illuminò il grigio della quotidianità che svaniva, minando le sicurezze della vita prevedibile che mi ero immaginata. Non so quante volte mi sono immaginata la sua ombra lunga che sgattaiola via dal suo container e corre verso quello dove alloggio io; i pugni che sbattono sulla porta e io che con un balzo mi tiro su dal letto. Sarà successo qualcosa mi chiedo

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mentre apro; ed è un odore di terra che si raffredda dopo una giornata torrida quella che mi apre il naso. Me la trovo davanti, gocciolante per la pioggia mentre lo smarrimento cade tra i nostri sguardi. “Direi che possiamo festeggiare!” E me lo dice mentre mi sfiora il viso con una carezza inaspettata per scostarmi la ciocca appiccicata alle labbra e con una lentezza incurabile mi bacia. E quello è il bacio giusto, audace, un maremoto che spazza via tutti i baci dati in passato. La sua è una saliva che addolcisce la mia e mentre mi bacia lentamente sento le mani che vorrebbero cercare di respingerla invece cedono e si intrecciano con forza alle sue, come se gli spazi tra le nostre dita avessero un bisogno urgente di essere riempiti. E’ una fame d’aria la nostra mentre il suo respiro mi si strozza nella gola; lasciamo che i vestiti scivolino dai nostri corpi e cadano a terra, svuotati e persi, svelando corpi gelati e cuori caldi. Facciamo in modo che le parole vengano inghiottite dai rumori dell’ esistenza mentre cerco di capire quanto mi sono volutamente persa e perché. Siamo due corpi uguali affondati l’ uno nell’ altro, un infinito senza natura, una completezza senza senso. E’ una guerra la nostra e nella luce scemante di una candela, questa amalgama di corpi saldati che aderiscono senza lasciare spazi sembrano tizzi provenienti dall’ inferno. Il suo è uno sguardo che annienta mentre pronuncia il mio nome nel modo in cui mia madre non ha fatto mai. Non lo sapeva quanto bisogno avessi di quelle carezze materne, di quel corpo che sapeva di culla e di quelle strette che azzeravano ogni tormento. In quell’ episodio incomprensibile per la prima volta mi ero sentita voluta. Era come se tutto quello che mi era accaduto fino ad allora fosse appartenuto ad un’ altra; mi sentivo un disordine dentro che mi rendeva capace di compiere qualsiasi gesto, anche avventato, come se per troppo tempo fossi stata in attesa che quell’ incidente capitasse. Mi sentivo come quella volta che avevo preso la moto di

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Davide per sentire il vento che entrava tagliente dalla visiera lasciata aperta ed ero caduta sull’asfalto. Il casco mi aveva protetto la testa, ma adesso non c’era nessun casco a proteggermi. E che differenza avrebbe fatto schiantarsi o no? Ero sua. Se solo Davide avesse visto le mie mani che stringeva paternamente cosa erano state in grado di fare a quest’altra donna. Dovevo riacquistare lucidità e ammettere che la mia vita stava prendendo una direzione sconosciuta e imprevista. Rachele era entrata nella mia vita all’ improvviso e ci si era attaccata senza lasciarmi vie di fuga. L’ aveva deciso lei ma l’ avevo voluto anch’io, forse ancora di più. Man mano che la tensione tra noi cresceva, le sue mani da chirurgo che attimi prima avevano amputato la gamba di quel poveraccio, salvandogli la vita, adesso forzavano nella profondità delle cosce serrate per poi rallentare dolcemente. Era un recidere affilato le fibre profonde per arrivare alle scanalature più intime dell’ anima. Siamo chirurghi, macellai che tagliano la carne per routine; ci rifugiamo dentro i camici bianchi, protetti e apparentemente isolati dal dolore. E invece quei dolori ci scalfiscono e ci consumano lasciando cicatrici profonde. Ogni volta che avevo immaginato un futuro, irrimediabilmente era cambiato, mettendomi alle strette. Fuori da quel contesto mi sarei sembrata ridicola ed incomprensibile “Dimmi qualcosa Rosy.” E mentre lo dice mi accarezza il viso muovendolo verso di lei. Com’ è veloce l’ infelicità; mi sento in una bolla d’ aria dove ho già respirato tutto l’ ossigeno e adesso soffoco. La stessa sensazione mentre lei con i suoi baci mi impediva di respirare; è un po’ morire e vivere allo stesso tempo. Ho nostalgia di Davide mentre ci annusiamo dalle nostre distanze. Fatico a risponderle mentre mi chiedo cosa ci faccio lì. Gioia e disgusto in perfetta armonia. Non è facile parlare con me nonostante fino a poco prima avevo lasciato che il

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mio corpo si abbandonasse consapevolmente a quel piacere tenero e devastante. Le parole sono un metro confuso e trovarle ora per giustificare tutto questo sarebbe uno sforzo atroce. Il silenzio ammanta il troppo che c’ è da dire perché è nel silenzio che ci si capisce meglio. La guardo con gli occhi velati di tristezza e la voglia di morire in quell’ istante. Ci troviamo misere e nude, senza più le nostre armature bianche,stupite per quello che inconsapevolmente ci è accaduto; io rannicchiata nella piccola doccia che cingo forte le ginocchia e lei che lentamente mi accarezza con l’ acqua che le scivola tra le mani. E’ un’ acqua battesimale che cancella i peccati. Mi bacia la spalla, scosta i capelli per leccare le gocce sul collo. Nel buio silenzioso del container, penso al chiarore dei lampioni della città che soffoca le luci del traffico e dei suoi rumori. E mi addormento con il rumore del suo respiro lento mentre pesanti gocce d’ acqua picchiano sul tetto. Ci vuole questo temporale che lava via tutto. Mi sveglio con il suo odore ancora addosso mentre la notte svanisce lasciando posto all’ alba algida che filtra dalle tendine e sembra un lampo di normalità questo chiarore che scaccia le ombre. Un fitto pulviscolo danza nel fascio di luce cruda. Nel chiarore debole Rachele non c’è più, rimane solo il suo foulard abbandonato nella sedia; mi manca già il suo respiro e il suo profumo. Adesso c’è solo l’ odore opprimente del vuoto e un’ immensa e sterminata malinconia. Dove si nascondeva la felicità? Ero venuta a cercarla fin qui, in Africa e non volevo ammettere che forse l’ avevo trovata. Portavo al collo il foulard che aveva dimenticato e riportarglielo poteva essere la scusa per rivederla e cambiare idea perché il suo odore mi sarebbe mancato per sempre, sarebbe svanito sull’ aereo che mi riportava alla piattezza della normalità, da Davide, coperto dal puzzo dei vassoi serviti dalle hostess e distrutto dall’aria condizionata.

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Me ne andai la mattina dopo, senza cercarla, tra la calura polverosa e con l’ anima ammaccata. Rachele era un pensiero bello che faceva male e ancora più male faceva il doverci rinunciare. È come se il caldo opprimente mi avesse scossa o forse sono solo i vecchi pensieri inconfessabili. Pensare oggi a Rachele è stancante; un vortice di ricordi che riaffiorano senza ordine e senza perché. Non so da quanto tempo sto qui davanti questa lapide fredda mentre mi sto letteralmente sciogliendo; ho l’ alone nella camicetta, sotto le ascelle; ero così distaccata stamattina quando sono uscita per andare dal notaio. Ero un’ altra persona e adesso tutto riaffiora. Ed ecco quella sensazione di vuoto che con il suo mantello avvolge tutto sradicando luce e vita. Inizio a vagare tra i loculi deserti e dove ci sono, trovo qualche somiglianza: i genitori non spariscono mai per sempre, i tratti restano inevitabilmente nei figli e una vena di malinconia mi attraversa perché io non rimarrò, non rimarrà il mio sguardo, non avrò figli in cui ritrovare gli stessi capelli corvini, gli occhi disillusi. Rimango incollata a quei visi scuri, morti un secolo fa dopo una vita di stenti. Come sono diversi i morti di oggi, con le foto ritoccate, sorridenti come se alla fine se ne infischiassero di non esserci più , quasi stessero meglio loro . Nelle vecchie foto invece si percepiscono tutti gli stenti, le fatiche specialmente delle donne con i loro fazzoletti sulla testa, i visi scavati, gli sguardi screpolati, i baffi neri. Una lucertola sbuca da dietro un grosso contenitore scuro dove giacciono gambi secchi e fiori appassiti tra le foglie marcescenti. Il mio cuore accelera; è solo una lucertola che mi guarda incredula come non fosse abituata ad avere visite a quest’ ora. E penso che è un posto inoffensivo il cimitero. Quanti bambini ci sono nella parte vecchia del camposanto; mi colpisce la foto di uno in particolare, il nome non c’è e l’ immagine è angosciante, con gli occhi aperti, la cuffietta e la copertina sembra vivo se non fosse per la coroncina che stringe tra le mani. Inevitabilmente penso a Robert e penso che se non fosse morto

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nostra madre sarebbe stata migliore, senza le cattiverie della vita e forse anch’io non avrei covato la rabbia nel tempo, non avrei dato solo affetto scadente. Affondo il viso sotto l’ acqua della fontanella e ancora sgocciolante ritorno da mia madre mentre il vento caldo m’ asciuga all’ istante. Quando Davide mi vide ritornare dall’ Etiopia considerò il mio ritorno come la mia impossibilità di vivere senza di lui e io glielo lasciai credere. Poco dopo ci sposammo in comune, una cerimonia sbrigativa senza tanti fronzoli. Ma quei pochi giorni passati lontano in un altro continente mi avevano resa ancora più inquieta. Solo il silenzio che trovavo a casa la sera mi curava di tutto il frastuono dell’ esistenza. Quella vita senza scossoni con il cinema il sabato sera, l’ odore buono di caffè la mattina, il camino acceso e l’ impressione o meglio la quasi certezza che forse una felicità era possibile. Terza parte Ero emozionata all’inverosimile quando rientrando a casa Davide mi raccontò che avevi telefonato per invitarci a trascorrere il Natale da te in Sicilia; una richiesta del tutto inattesa dato che né tu né Paul vi eravate presi il disturbo di venire al nostro matrimonio. Perché tentare, dare altre possibilità quando sapevo che gli ostacoli erano insormontabili? Non sarebbe stato più facile lasciar perdere? Ed invece no, con le valigie piene di illusioni eravamo partiti. Al nostro arrivo non avevamo trovato nessun clima di festa, non sembrava neanche Natale perché non c’ erano addobbi e nella sala da pranzo dell’ albergo, le sedie erano sistemate sopra i tavoli impolverati, probabilmente erano lì da ottobre quando l’ albergo aveva chiuso. Avevo cercato con gli occhi un tavolo apparecchiato mentre mia madre vestita a festa scendeva le scale annunciando che non aveva fatto in tempo a preparare qualcosa per il pranzo. Sembrava un serpente a sonagli

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mentre si soffiava le unghie per asciugarsi lo smalto. Snervati avevamo appoggiato il panettone farcito sopra le valigie vicino all’ entrata con il desiderio di andarcene al più presto; dopo i saluti di rito, Davide si era messo ai fornelli per riempire il silenzio che era calato e preparare qualcosa che assomigliasse ad un pranzo di festa. Non riuscivo a capire il perché di questo riavvicinamento ma poi era arrivato Paul, un fratello i cui ricordi risalivano ad una decina di anni prima, al funerale di papà. Smunto, con gli occhiali troppo grandi che gli nascondevano ancora di più il viso scavato; stentavo a riconoscerne perfino la voce. Si era avvicinato a me e senza neanche sfiorarmi aveva allungato una serie di esami clinici da controllare. “ Vorrei che gli dessi un’occhiata” e lo aveva detto con la voce tremante non so se per l’ emozione o la paura mentre nostra madre mi fissava preoccupata. Avevo dato una rapido sguardo a quei fogli mentre la rabbia mi cresceva dentro. “E’ Davide l’ oculista, io sono un medico di pronto soccorso” avevo detto con tono infastidito mentre mi spostavo in cucina; Davide si era asciugato le mani e aveva letto quegli esami senza mostrare particolare preoccupazione. “ Quindi era un consulto che vi serviva? Abbiamo fatto tanta strada perché volevate un parere medico? Avevo alzato la voce ma Davide mi aveva preso la mano e me l’ aveva strattonata come si fa con un cane al guinzaglio che sta per azzuffarsi con un altro. Avrei potuto sbranarli. “ Non è una cosa grave Paul, verrai ad operarti a Bologna e penserò a tutto io; Rosy dagli il mio numero.” Adesso la rabbia aveva gonfiato di lacrime i miei occhi mentre rovistavo dentro la borsa in cerca del biglietto da visita. In quel momento avrei voluto farli cadere dentro la mi sofferenza

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perché con la loro insensibilità erano di nuovo riusciti a farmi sentire insignificante. Davide era sempre disponibile e pronto a dare una mano mentre io avrei voluto che sparissero per sempre dalla mia vita. Sono chiusi in una gabbia tutti questi ricordi indelebili, una prigione di cui io solo ho la chiave e mi illudo di poter entrare e uscire quando voglio, ma non è così. Il pensiero di Rachele ad esempio in alcuni periodi mi offriva una tregua dandomi modo di recuperare una qualche serenità ma capitava che la mente stessa si concedesse delle incursioni nei momenti passati con lei alla ricerca di odori ed emozioni che questa nuova vita cercava a fatica di far svanire. Il suo arrivo era stato preceduto dalle voci di corridoio e lo stesso Davide era venuto da me ad annunciarmi che la famosa Rachele De Nisi aveva ottenuto il posto come primario del pronto soccorso del nostro ospedale; tornava in Italia dopo anni passati in Etiopia e aveva scelto Bologna per concludere la sua carriera. I colleghi volevano sapere se nella mia breve esperienza di volontariato l’ avessi conosciuta e io facevo di tutto per rimanere sul vago, forse l’ avevo vista ma non me la ricordavo era versione che raccontavo. Quando la vidi in ospedale, fu lei a venirmi incontro ad abbracciarmi; le nostre anime si ritrovarono a fatica, erano passati anni, eravamo cambiate; le rivolsi un saluto stentato con il fiato intrappolato in gola mentre mi teneva il viso stretto tra le sue mani, come se potessi sfuggirgli di nuovo. Aveva la pelle invecchiata, solcata da rughe e macchie scure sulle mani; sentii male allo stomaco per i sacrifici che aveva fatto, per quello a cui aveva rinunciato, per noi due. Non ero preparata al suo ritorno, non sapevo cosa dirle; avrei voluto ridarle il foulard che aveva dimenticato, ripartire da dove ci eravamo lasciate anziché rimanere lì goffa e impacciata. Aveva fili bianchi nei capelli che adesso teneva corti, gli

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occhi melanconici che si portavano dentro la desolazione che avevano visto in Etiopia ma ancora magnetici come un tempo. Sentivo la gente che sussurrava, suoni confusi intorno di medici pronti a fare diagnosi sui nostri i occhi lucidi che stridevano con la versione che avevo raccontato io. Lo trovo in piedi Davide che sistema i suoi abiti nella valigia; è pallido come se il bianco delle pagine nelle quali ha studiato si fosse spostato dai libri al suo viso. Mentre svuota l’ armadio è come se anche lui si svuotasse, perdesse la consistenza. I capelli in disordine, ci si passa la mano. Non ci si accorge mai quando arriva la catastrofe; finché vediamo lontano le nuvole minacciose non crediamo possibile che stiano cercando proprio noi per scaricarci sopra di tutto, distruggendo ogni cosa. Si, l’avevo umiliato e non avevo provato niente nel farlo; l’ avevo trattato come merce scadente senza vederlo per quello che realmente era; inevitabile come affondare il bisturi nei corpi in sala operatoria. Mentivo e ferivo le persone e me stessa perché era la vita stessa che mi scalfiva. “Dove te ne vai?” Provo a tastare il terreno, capire cosa sa ma è talmente lontano con i pensieri che neanche si volta. Sta perdendo i punti di riferimento, il baricentro, ma lo perdiamo insieme; afferra la valigia come se fosse un appoggio senza il quale perderebbe l’ equilibrio. Non ha più quello sguardo sottomesso che tanto mi ha disgustato e che oggi non avrei sopportato di vederlo nei suoi occhi. Capisco che lui sa, questa volta è finita davvero; è stanco di compatirmi, non ci si ritrova più in quel ruolo salvifico. L’ho capito da come ha sbattuto le chiavi sul tavolo e senza scenate è andato in bagno; ha lasciato aperta la porta, volutamente, e non posso fare a meno di guardarlo mentre piscia in piedi, ferito ma orgoglioso di quell’ ultimo sfregio. Tira l’ acqua e la nostra storia scompare nel cesso. A volte si placa il dolore alla meglio, con ciò che si ha. E’ la prima volta che lo vedo così,

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meno ridicolo, anche le spalle sembrano più dritte, senza il peso che le incurvava. Quando ritorna vorrei soltanto trattenerlo in un caldo abbraccio di cui non sono capace, dirgli che mi importa di lui, che Rachele è solo un’ amica e che è con lui che voglio invecchiare; com’è facile provare a mentire quando la verità fa male, ma ho già la percezione che tutto sia cambiato irrimediabilmente. Non hanno senso i rimpianti né i serbatoi rancorosi; se ne sta andando con la sua misera valigia, riservata anche lei perché in fondo neanche Davide ci aveva creduto del tutto. Oggi lo vedo più uomo, perfino attraente in tenuta sportiva con le maniche della camicia arrotolate. Il dolore è un sistema infallibile per svegliarsi. Si , avevo mentito così tanto che stentavo a separare il vero da ciò che vero non era. Avevo attraversato la vita facendo del male a me stessa e a chi mi era stato vicino e adesso non era facile rimediare al dolore che avevo scatenato, a riparare i danni; troppi torti avevo subito e altrettanto avevo avuto bisogno di seminarne in giro, di restituirli. Solo con il mio lavoro i riuscivo a rimediare, salvando la gente. “Addio.” E lo dice con un filo di voce stanchissima ma ferma, mentre mi da un esile bacio sulla fronte. Non ha mai avuto una misura sicura nei rapporti umani riuscendo ad essere talmente gentile e mieloso fin quasi a soffocarmi, ma adesso vederlo così ferito e umiliato mi dispiace. Sono un rischio le persone e non è bene investirci. Avrei voluto dirgli che sapevo come ci si sente quando la vita si sgretola in fretta e vorresti aggrapparti a qualcosa per allontanarti da quelle macerie. Lo sapevo, ognuno di noi è pieno di ferite, tatuaggi invisibili sul corpo; prima o poi sarebbero guarite quelle ferite, lasciando solo cicatrici impercettibili. “ Mi dispiace Davide” solo questo ero riuscita a dire. Davide mi guarda ma con la testa è già da un’ altra parte, sta pianificando i

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prossimi giorni senza di me, i turni di lavoro, come riprendersi la macchina che usavamo insieme. “Sai” riprende, “ credo che non riuscirai a trovare un po’ di pace se non fai pace con il passato.” E questa volta esce definitivamente di casa, toglie il disturbo in punta di piedi accostando la porta lentamente con una dolcezza che consuma. Se ne va senza smarrimento, a testa bassa ma con una nuova dignità, una forza ritrovata che lo aveva guidato a non farsi sopraffare da inutili scenate. Era stato tutto molto veloce come se sbrigare questa faccenda umiliante fosse meno doloroso che restarmi accanto. Non ero preparata a quell’ impatto improvviso; ero rimasta senza appigli e di colpo la mia vita prendeva nuovamente altre direzioni. Ero rimasta lì avvilita, senza più saliva in bocca, con la paura di come ricominciare e di cos’ero io senza di lui. Mi ero addormentata con il suo ricordo tenero, di quello che volutamente avevo distrutto. I vestiti addosso, senza lavarmi, con l’odore di ospedale appiccicato. Era una notte più lunga del giorno nell’ attesa di un suo ripensamento; mi ero alzata un paio di volte e avvicinandomi alla finestra avevo scostato la tendina. Un gesto patetico mentre l’ oscurità non c’ era più e chissà dove te ne eri andato a dormire. Penso a tua madre e ai suoi “te l’ avevo detto”. Ti sarai rannicchiato davanti al camino, ricordandomi di fronte al crepitio del fuoco che tanto mi piaceva, finché non arrivavi tu che abbracciandomi mi sottraevi a quelle calde coccole. Una notte in cui il tempo mi era sembrato sospeso tra la nebbia e l’ attesa del suono di un campanello. Una notte che trascorreva nel rumore feroce dei ricordi. Mi credevo in grado di non aver bisogno di nessuno finché non ero rimasta sola a fissare quelle chiavi che lasciate lì sul tavolo sembravano un corpo assassinato. Guardandole avevo la certezza che niente era al suo posto e che la felicità era una scelta scomoda. E comunque la vita poi faceva quel che voleva.

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La mattina dopo avevo ripreso i gesti consueti, il caffè, la fetta di crostata rinsecchita, lo spazzolino con le setole arricciate che avrei dovuto cambiare da tempo. Aveva suonato il telefono e il mio cuore aveva iniziato a pulsare con vivacità, lasciandosi ingannare dal fatto che Davide era una brava persona, che avrebbe capito e tutto sarebbe ritornato al suo posto. Mi ero voluta illudere anch’ io ed invece dall’ altro capo del telefono Paul mi annunciava la tua morte, mamma, e tutti i dettagli di un funerale a cui non avrei partecipato. Fu in quel momento che iniziò a mancarmi Davide, ne percepii l’ assenza nelle parole responsabili che mi avrebbero convinta ad andare ad un funerale che non solo ti chiudeva dietro ad una lapide, ma che mi costringeva a mettere definitivamente una pietra sopra tutta l’ insensatezza della tua vita. Se Davide avesse trovato il coraggio di volermi bene quando più ne avevo bisogno, la forza di passare sopra gli errori perché in questa vita tutti cadiamo, avrei lasciato perdere anche il testamento e non sarei corsa qui con la radio accesa e la bottiglia in mano. Avrei partecipato defilata alle tue esequie, gli occhiali scuri a nascondere un’ indifferenza che nonostante tutto non si può non provare per la morte di un genitore e avrei trovato la forza di perdonarti in qualche modo. Sento avvicinarsi passi pesanti che calpestano la ghiaia e una mano fraterna che mi sfiora la spalla; mi giro di scatto ma non è Davide. “Cos’ altro vuoi Paul? Non mi ha mai voluto bene, non ne ha voluto neanche a nostro padre e mi chiedo perché ha spartito questa colpa con te?” “ Non era mio padre , era il tuo , soltanto il tuo e quando nostra madre gli confessò che il figlio che aspettava, il povero Robert era di un altro uomo, lui la lasciò e nel farlo abbandonò anche te. Se solo lui l’ avesse perdonata forse nostro fratello sarebbe ancora vivo, sarebbe stata una madre meno scellerata,senza sbadataggini. Invece è toccato al mio di padre prendersi cura di lei, aiutarla a superare l’ abbandono di un uomo di cui necessitava , pur senza amarlo. E’ Daniel, mio padre che ha

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pagato caro il prezzo di una notte.” Dove vanno le lacrime quando con forza le ricacci indietro? Chissà se c’è un serbatoio, un contenitore nascosto da qualche parte dietro l’ occhio che contenga tutte quelle non versate. No, ci devono essere più recipienti che le trattengono divise, quelle sofferenti e amare da quelle di gioia e sollievo. Ma se le trattieni troppo, e questo non va bene, cosa diventano poi sedimenti che incrostano la mente e il cuore paralizzandoli? E’ quel calcare che blocca gli ingranaggi, che avvolge tutto? Questo peso che sento addosso allora è solo un’incrostazione e mi sforzo al contrario per farle uscire queste lacrime, le lacrime di una vita, quelle che non ho mai pianto e che adesso si sono solidificate avvolgendo il cuore , la mente e tutti i sentimenti . Adesso vorrei solo che si sciogliessero per poterci affogare. E nell’ attesa che sgorghino, lo prendo a pugni sul petto, davanti la lapide di nostra madre, gli faccio male ma è un niente rispetto a quello che loro hanno fatto a me. Paul mi ascolta e sembra asfissiato ma per la prima volta sembra capire, si lascia investire dalla mia rabbia, mi fa sfogare e mentre sparlo logorandomi nelle accuse, prova a contenermi con un ridicolo abbraccio. Grido e salto di palo in frasca mentre mi scappa una risata isterica perché adesso l’ essermi consumata nelle accuse è talmente ridicolo che mi fa ridere. E’ stata sempre una lotta impari contro tutti e adesso vorrei rigettargli addosso tutto questo odio fermentato. Paul mi passa un fazzoletto per soffiarmi il naso che cola sulle labbra e mentre soffio forte è il mio cuore che si libera, non lo sento più pesante. Sono impreparata a questa sensazione di pace attesa da tanto tempo. Il fischio del cancello automatico ci avvisa che dobbiamo uscire dal cimitero se non vogliamo rimanere chiusi dentro; il sole si è aperto un varco nel cielo e se n’è fuggito via accendendolo di rosso e lasciando ben sperare per il giorno seguente.

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Quando la tempesta finisce i rami spezzati restano a terra e mentre le nuvole minacciose scorrono via, è quello il momento in cui si fa la conta degli alberi che sono rimasti in piedi; e quello è il momento per smettere di odiare.

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L’INVIO DEL MATERIALE PER IL SECONDO NUMERO DAL TITOLO “TERRA, ARIA, ACQUA, FUOCO” È GIÀ IN CORSO CON SCADENZA GENNAIO 2019 VISITA LA PAGINA DEL NOSTRO SITO PER MAGGIORI DETTAGLI

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Ph. MICHELE MATTIELLO 38


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