FARCORO, May 2010

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Tariffa Associazioni Senza Fini di Lucro “Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Bologna”

Quadrimestrale dell’AERCO Associazione Emiliano Romagnola Cori

N° 2 Maggio — Agosto 2010

Farcoro


Farcoro - indice

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EDITORIALE

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DIDATTICA Bárdos Laios e la sua musica corale sacra

di Andrea Angelini

4 Bárdos Laios e la sua musica corale sacra di Francesco Barbuto

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DIDATTICA Tradizione ed avanguardia nella musica sacra corale di Liszt Ferenc di Giovanni Acciai

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COMPOSIZIONI Pèn graté

21 Composizioni: Pèn graté di Matteo Giuliani

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STORIA Terra di Romagna e musica popolare: tradizioni, autori e repertorio di Matteo Unich

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ANALISI Aspetti evolutivi nella dimensione verticale nella musica veneziana del tardo Rinascimento

29 Terra di Romagna e musica popolare

di Marco Gemmani

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PILLOLE Preparazione e studio della partitura di Andrea Landriscina

33 Musica nella Venezia del tardo Rinascimento


FARCORO

Quadrimestrale dell’Aerco Associazione Emiliano Romagnola Cori Maggio-Agosto 2010 Autorizzazione del Tribunale di Bologna N° 4530 del 24/02/1977 Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 Art. 1, comma 2 DCB, Bologna Direttore Responsabile Andrea Angelini Comitato di Redazione Fedele Fantuzzi Giacomo Monica Puccio Pucci Edo Mazzoni Loris Tamburini Matteo Unich Mario Pigazzini Grafica e impaginazione Andrea Angelini Sede Legale c/o Aerco – Via San Carlo 25/f 40121 Bologna Contatti Redazione: farcoro@aerco.it +39 347 2573878


Farcoro - editoriale

Tempo di bilanci “Chi teme l’insuccesso non si muove!” (Orazio)

che per il livello altamente professionale degli incontri. Quest’ultima affermazione non pecca di superbia, è solo quanto emerge da un questionario compilato dagli allievi che hanno riconosciuto ai docenti un’ottima trattazione degli argomenti in programma. Da parte nostra siamo stati fieri e felici di essere riusciti a coinvolgere professori competenti e conosciuti come Franco Fussi e Marco Gemmani, senza togliere nulla agli altri, ovviamente.

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’arrivo dell’estate coincide con un periodo

davvero strano per i cori! Dalle mie parti, vivo a Rimini, è salutata alla stessa guisa con cui lo fanno migliaia di studenti di ogni ordine e grado: “Evviva, è finita! Tutti al mare!” Beh, credo che l’esclamazione sia comprensibile, qua chi più chi meno è in qualche maniera interessato ad un’attività balneare, ancorché come semplice fruitore della spiaggia... Si ripongono le cartelline, ci si saluta dandosi l’arrivederci a Settembre inoltrato. Ci sono, invero, rari casi in cui l’attività continua per il diletto dei turisti, non senza brontolii e mugugni da parte di qualche corista il cui calendario biologico si ferma inevitabilemnte al 30 di Giugno. So invece che in altre parti della regione l’estate rappresenta un fervido periodo di studio, di concerti e di riflessioni. In medium stat virtus! Come sempre......

Il successo, unitamente alle tante richieste di continuare l’esperienza, ha motivato la nostra volontà di rimetterci all’opera per costruire un corso sempre più ricco e qualificante. Tra le tante novità in cantiere, una merita di Anche per noi dello essere segnalata per la sua utilità ed originalità: sono staff AERCO l’estate costituisce un moin corso le relazioni con mento di bilancio.... un Conservatorio della regione per poter attribuire crediti di studio agli allievi interni di quell’Istituto che frequenteranno il Corso Direttori AERCO. Come testimonianza finale, del tutto personale ma spero parimenti condivisa, riporto lo spirito di collaborazione, di servizio e di vera voglia di fare le cose assieme che ha pervaso, in quest’ultimo anno, tutto lo staff associativo come mai era successo nel recente trascorso.

Anche per noi dello staff AERCO l’estate costituisce un momento di bilancio e di intenso lavoro preparatorio per il prossimo anno sociale. L’Associazione ha veramente lavorato sodo negli ultimi mesi ma i risultati non sono di certo mancati. Credo di interpretare i sentimenti dei miei colleghi della Commissione artistica asserendo che il “Primo Corso Direttori AERCO” è stato un successo sia per il numero degli iscritti (una quarantina)

Bologna, 30 Maggio 2010 Andrea Angelini Direttore di FARCORO andrea@angelini.cc

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Farcoro - didattica 1

Bárdos Lajos e la sua musica corale sacra di Francesco Barbuto (*)

A

Bárdos Lajos la musica corale del ‘900 deve molto. Eppure in Italia egli è un compositore ancora poco noto.

rappresentano, nella vita culturale ungherese, anche un momento cruciale per il sorgere di nuove possibilità spirituali ed artistiche e per l’esprimersi di profonde e vigorose forze creative. Nel 1905 Zoltan Kodály (1882-1967) partiva per il suo primo viaggio di raccolta di canti popolari, seguito, dall’anno successivo, da Béla Bartók (1881-1945). Bartók e Kodály scoprirono le radici più antiche e limpide della musica popolare ungherese e, nell’insospettabile primordiale eredità euroasiatica, il più antico ed universale tesoro del popolo magiaro; riconobbero le basi comuni dello sviluppo musicale nella cultura popolare, creando di conseguenza un linguaggio musicale nuovo, vario e allo stesso tempo universale, a partire dal materiale del mondo melodico popolare; espressero i suoi contenuti in modi diversi, ma di uguale intensità. Il successore più meritevole della poesia corale a cappella di Kodály fu proprio Lajos Bárdos. I suoi brani di musica sacra, in particolare, rappresentano, in moltissimi casi, l’armonizzazione di canti popolari in forma mottettistica. Nel 1962 portò a termine la prima stesura di ciò che sarebbe poi diventato un saggio, nel quale individuava un nuovo ordine tonale onnipresente nell’opera di Zoltán Kodály, denominato Heptatonia secunda.

Bárdos ha costruito – attraverso i suoi approcci pedagogici, teorico-didattici, musicologici dediti alla realtà compositiva e corale, insieme a molti tour con i suoi cori – un importante successo in gran parte d’Europa e principalmente (oltre alla propria Ungheria) in Austria, Germania, Belgio ed ex Jugoslavia. In Ungheria, a partire dai primi anni del ‘900, si è attivata in modo spiccato e appassionato una forte sensibilità culturale musicale e proprio questo fermento artistico ha stimolato, e talvolta condizionato, il modo di concepire la musica da parte di Bárdos. Il suo modo unico, creativo e rivoluzionario, affronta un percorso sistematico di studi con risultati che non sempre hanno trovato condivisione, in particolare a livello dell’egemonia politico-ideologica del suo Paese. Di vitale importanza per il nostro compositore risultò la musica di Palestrina, Liszt, Kodály e l’approfondito e sistematico studio sulle armonie neomodali, che gli permisero di stabilire un nesso tra la musica del Rinascimento e la musica magiara del XX secolo. Bárdos ebbe la convinzione che Liszt, in particolare, fosse stato un artefice fondamentale dell’innovazione musicale a tal punto da impegnarsi, dal 1955, in un programma di ricerca e di analisi sulle sue opere per un intero ventennio. Gli inizi del XX secolo

Successivamente giunse ad individuare un altro nuovo ordine, che coerentemente battezzò Heptatonia tertia. Secondo Bárdos questi nuovi ordini tonali si strutturano a partire da cluster1 di suoni 1 Gruppo di note adiacenti suonate simultaneamente.

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ricavati dalla colonna o circolo delle quinte. Questo approccio teorico-analitico rivoluzionerà gran parte dell’insegnamento compositivo musicale nell’Accademia di Musica di Budapest. Tra i musicisti che più stimeranno Bárdos e condivideranno questa nuova metodologia, sarà György Ligeti (1923-2006), che è stato anche collega all’Accademia, destinato a diventare uno dei compositori più d’avanguardia e riconosciuti al mondo del XX secolo.

molto spesso al pianoforte. Stimolato da lei, a 10 anni Bárdos inizia a suonare il violino. All’età di 17 anni compie un’esperienza che gli apre il “meraviglioso mondo della musica”: su richiesta del suo insegnante di violino, Nándor Keltscha, sostituisce un secondo violinista ammalato in una compagnia che suona musica da camera. “Quando poi la domenica ci siamo riuniti, e ho cominciato a suonare con l’insieme del quartetto, mi si è aperto il paradiso della musica. Ho presto imparato anche a suonare il violoncello, perché talvolta è capitato che mancasse il violoncellista”, raccontò più tardi János Mátyás. (Quanti colori ha la vita?, 1996). Si iscrive al liceo di via Attila e dopo la maturità si presenta al servizio militare. “Frequentavo sempre concerti e compagnie che suonavano musica da camera e alla fine dell’anno ho deciso: sarei diventato musicista”, racconta nei suoi ricordi autobiografici.

Come Bach, anche Lájos Bárdos componeva musica per le liturgie quotidiane delle chiese e per cori. Come direttore, condusse contemporaneamente anche due battaglie culturali: da una parte combatteva contro il conservatorismo musicale degli anni ‘30, dall’altra contro l’ideologia statalista invadente nella musica degli anni ‘50. Le stesse battaglie proseguirono anche quando lavorò come editore musicale e come compositore.

Nel 1919 sostiene l’esame d’ammissione all’Accademia di Musica per il corso di violoncello ma, non partendo successivamente questa specializzazione, non viene ammesso. Si prepara, in seguito, per l’esame d’ammissione dell’anno successivo. Questa volta mira alla specializzazione in composizione, poiché vuole diventare direttore d’orchestra. Nel 1920 viene ammesso alla classe di composizione di Albert Siklós. Nel 1921, dopo che Kodály torna all’Accademia, continua i suoi studi col grande Maestro, diventando membro di quella famosa classe che sconvolse l’opinione pubblica musicale con il concerto di diploma nel 1925. “Frutti bacati, marci, putridi del giardino di Kodály che si sentono quasi puzzare” scrive, con tono molto offensivo, il critico di un giornale tedesco dell’alta borghesia di Budapest (Neues Pester Journal, 18 maggio 1925). L’attività di Kodály viene qualificata come “intenzionale influenza anarchista”. La musica del quartetto di Bárdos è apostrofata come “cacofonia falsa”. Kodály difende i suoi allievi, affermando la validità e la novità di questo approccio; li difende sia in quel momento sia più tardi, formulando nello stesso tempo per il pubblico l’essenza e il metodo della sua concezione didattica, con cui desiderava far arrivare la sua classe a livello d’avanguardia dei

Lajos Bárdos, 1899 - 1986

Lajos Bárdos nasce a Budapest nel 1899 da una famiglia di intellettuali borghesi. Deve le sue prime esperienze musicali alla madre, Anna Kaufmann che, da musicista dilettante, suonava

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un punto di riferimento e di ispirazione. Bárdos un giorno disse: Mi auguro che i miei nipoti siano grati per ciò che ho esposto nei miei studi e, inoltre, che essi possano apprezzare consapevolmente ciò che ho lasciato in modo che possano andare avanti e inventare cose per se stessi”.

compositori europei. Bárdos inizia la sua carriera di insegnante e pedagogo di musica nel 1925. Insegna per un quarantennio (1925-66) varie specializzazioni all’Accademia di Musica. È docente e responsabile della specializzazione in “Musica sacra” e “Direzione di coro” dal 1928 fino al 1949; è “Professore di liceo di musica” dal 1929; ha la cattedra di “Composizione” dal 1949 al 1951; su proposta di Kodály, è responsabile della specializzazione in “Musicologia”. Insegna musica sacra, teoria della musica, pratica di coro e prosodia. Crea lui stesso gran parte delle materie insegnate.

Nel corso della sua vita molto produttiva, Bárdos Lajos ha composto un gran numero di opere religiose. Da un lato è stato considerato il successore della poesia corale a cappella di Kodály (di cui fu allievo dal 1921 al 1925) nell’armonizzazione di canti popolari; dall’altra ha ampiamente composto brani per la liturgia, sposando appieno le indicazioni del Motu Proprio di Pio X (1903) e basandosi sulle idee del movimento ceciliano.

Fabian Imre, un allievo affezionato di Bárdos, lascia questa significativa testimonianza: “Sono grato di aver imparato a conoscere ed apprezzare la musica da Bárdos Lajos presso la Liszt Ferenc Zenemővészeti Egyetem di Budapest (Accademia di Musica Liszt Ferenc). Con Bárdos abbiamo appreso come avvicinarsi ai segreti di tanti capolavori musicali. Bárdos è sempre stato molto organizzato, preciso e chiaro, senza mai essere eccessivamente scrupoloso. Elaborò in modo creativo gli insegnamenti del suo maestro Kodály. Aveva un socievole rapporto con i musicisti ed in particolare con i coristi, con cui ha lavorato prevalentemente. Gli insegnamenti di Bárdos erano chiari e concisi, anche quando l’argomento era estremamente complesso e teorico. Ha compiuto grandi sforzi per rendere interessanti e anche divertenti gli argomenti musicali. A differenza di altri studiosi, Bárdos è stato un maestro nel portare la teoria alla pratica concreta. Essere originale è stata sempre una caratteristica del suo metodo di ricerca. La sua teoria è stata sempre suffragata dal suonare concretamente la musica, ma la musica non sarebbe stata possibile senza la sua teoria. Molti articoli di Bárdos divennero noti per merito di pubblicazioni dell’Accademia di Musica e della rivista da lui fondata: Magyar Kórus (ad esempio, Modális harmóniák Liszt műveiben – Armonie modali nelle opere di Liszt; Heptatonia secunda, il miglior studio su Kodály nella letteratura musicale). Quando è stato pubblicato il primo saggio del volume Népi ritmusok Bartók mőzenéjében (Ritmi popolari nella musica di Bartók), ha ispirato una intera giovane generazione alla ricerca musicale su Bartók. Tutto il lavoro di Bárdos sarà sempre per la musica

Promulgato nel 1903 il “Motu Proprio” sulla musica sacra stabilisce nei suoi principi generali che: “La musica sacra, come parte integrante della solenne liturgia ne partecipa il fine generale; [...] suo ufficio proprio principale è di rivestire con acconcia melodia il testo liturgico, [...] così il suo proprio fine è di aggiungere maggiore efficacia al testo medesimo. [...] La musica sacra deve possedere nel grado migliore [...] la santità e la bontà delle forme [...]. Deve essere santa [...]. Deve essere vera [...]. Ma dovrà insieme essere universale [...].” (cfr. Papa Pio X, Motu Proprio, Istruzioni sulla musica sacra: I – Principi generali, punti 1 e 2; II – Generi di musica sacra, punto 3, 22 novembre 1903). Dall’osservazione del materiale edito recuperato – delle case editrici Editio Musica Budapest e Magyar Kórus – si evince che Bárdos ha composto brani per le principali festività: Natale, Pasqua, Pentecoste, per altre occasioni e commemorazioni liturgiche, oltre ad oratori, salmi e cantici. Accanto a quest’ampia produzione vi sono le sue quattro messe (denominate con le quattro numerazioni romane), opere sacre di più ampio respiro. Dal punto di vista dell’organico, Bárdos si dedica a tutte le combinazioni possibili: brani per bambini o voci femminili, voci maschili, cori a voci miste, cori uniti. Nelle edizioni ori-

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in sintonia con le linee espresse nel Motu Proprio.

ginali di alcuni dei suoi brani, le parti sono indicate con numeri romani che sono stati lasciati anche nell’edizione EMB, per affidare al maestro del coro la responsabilità di scegliere il genere di formazione vocale. I brani che iniziano con una breve introduzione d’organo possono essere interamente eseguiti con l’accompagnamento strumentale che raddoppia le parti cantate.

Per quanto riguarda i generi di musica sacra si stabilisce che: “Queste modalità si riscontrano in grado sommo nel Canto Gregoriano [...]. Per tali motivi il Canto Gregoriano fu sempre considerato come il modello della musica sacra” (cfr. Papa Pio X, Motu Proprio, Istruzioni sulla musica sacra: I – Principi generali, punti 1 e 2; II – Generi di musica sacra, punto 3, 22 novembre 1903). Ulteriori caratteristiche fondamentali riguardano l’utilizzo delle tecniche compositive fortemente al servizio della “parola”, per esempio: l’uso dell’unisono e del “raddoppio”, come rinforzo melodico di una frase iniziale o significativa all’interno del testo;

Missa Quarta (Kyrie) – Bárdos Lajos (batt. 1-8)

Le sue composizioni corali sono state molto apprezzate in Ungheria e all’estero per il pregio delle linee melodiche, per la loro limpida prosodia – di cui Bárdos è stato insigne maestro – oltre che per il profondo senso della vocalità e delle polifonie. L’indissolubilità della correlazione fra la musica e il testo sacro è uno degli aspetti peculiari della sua sensibilità artistica e fa acquisire una fortissima valenza simbolica ai suoni e alle parole.

Missa Tertia (Kyrie) – Bárdos Lajos (batt. 1-6)

Esistono numerose varianti delle sue composizioni sacre, poiché Bárdos le affinava e adattava alle diverse formazioni corali che le interpretavano. Si possono perfino trovare versioni che portano le correzioni manoscritte del compositore stesso. Missa Tertia (Agnus Dei) – Bárdos Lajos (batt. 7-8)

Innanzi tutto egli rispetta fedelmente le esigenze musicali peculiari del momento liturgico al quale è destinato il brano. È evidente in molti brani osservati, il riferimento al canto gregoriano e al recupero e rielaborazione dell’impronta modale,

il raggiungimento del culmine musicale del brano con l’attenzione sempre rivolta alle parole chiave del testo;

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CLIMAX

altamente preparato a tal punto da permettersi di andare in tournée); molti altri sono scritti per essere eseguiti in concerti, o in eventi religiosi speciali, da cori altamente professionali.

(Psallite Domino – Cantate salmi al Signore)

Per il suo approccio alla musica corale, insegnamento, studio e ricerca approfonditi ricevette insigni premi, come il “Premio Erkel”(1953) e il “Premio Kossuth” (1955). Nel 1970 gli sarà conferita la “Medaglia d’oro dell’Ordine del Lavoro” e sarà considerato “Artista eccellente” di tutta l’Ungheria. Nel 1985 riceverà il prestigioso “Premio dei bambini” per i suoi brani e insegnamenti pedagico-musicali dedicati all’età dell’infanzia e alle scuole superiori.

Sperent in Te – Bárdos Lajos (batt. anacr. 16-17)

l’alternanza tra l’unisono e la risposta del coro, che ricorda la struttura della salmodia in cui vi è il dialogo tra la voce guida e l’assemblea;

Missa Quarta (Benedictus) – Bárdos Lajos (batt. 1-8)

le brevi introduzioni d’organo (presenti nella Missa Tertia, Quarta e in molti altri brani), che hanno la funzione d’intonazione del coro, a somiglianza della modalità che si usa nella liturgia per l’assemblea.

Lajos Bárdos da giovane

Bárdos scrive a vari livelli di complessità artistico musicale, sempre con raffinatissimo gusto polifonico. Molti brani sono ad uso liturgico eseguibili da cori parrocchiali (egli stesso dirigeva il Cecilia Korus di Budapest, coro liturgico, anche se

A conclusione di questo scritto riteniamo suggestivo riportare la testimonianza di un corista di Bárdos, che ricorda il modo di concertare il coro da parte del maestro e quanta passione mettesse in ogni prova musicale.

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[...] Quando avevamo il maestro Bárdos di fronte al coro, osservavamo le sue espressioni che riflettevano tutto il dolore e la gioia della musica. Sapeva sempre tradurre i suoi sentimenti con adeguate modalità di espressione e comunicazione per il pubblico. La consapevolezza di una strategia come conduttore veniva dalla sua empatica esperienza interiore. C’è sempre stata una particolare energia tra lui, noi e gli ascoltatori. [...] Il primo passo da seguire, nell’apprendimento empatico del brano, è quello di comprendere bene il testo, indipendentemente dalla lingua in cui è stato scritto. Bárdos sottolineava una chiara enunciazione del testo, anche in brani molto difficili. All’inizio della prova faceva cantare l’intero brano senza interruzioni, per poi lavorare sui dettagli. Tutto il coro rimaneva nella stessa sala in modo che le diverse sezioni si potessero ascoltare l’un l’altra. Per imparare la musica del brano occorreva partire col finale. E’ sempre stata sua convinzione che la parte più difficile e che consuma più energia è proprio il finale. Voleva che noi fossimo sempre freschi ed energici, mentre ripetevamo il finale. Questo metodo è sempre riuscito. Non abbiamo mai cantato più volte, di nuovo, lo stesso canto, poiché sarebbe diventato monotono. Bárdos era ben consapevole dei pericoli di praticare in eccesso la stessa parte musicale: avrebbe ucciso la passione e reso monotone le nostre prestazioni. Ha sempre dimostrato, eseguendo personalmente, ciò che voleva raggiungere. La sua voce era espressiva e ricca di sfumature. [...] L’uniformità del nostro canto è stata realizzata, per la maggior parte, cantando insieme come una sola sezione. Voci maschili e femminili, sono diventate un tutt’uno cantando canzoni popolari e canti gregoriani eseguiti all’unisono. L’unica pratica di riscaldamento vocale, che abbiamo sempre avuto, è stato proprio cantare all’unisono. Bárdos sentiva che questo era l’unico modo, per il coro, di entrare fortemente in sintonia. [...] Noi non siamo mai stati accompagnati al pianoforte, durante le prove, tranne che per la preparazione di un oratorio. La teoria di Bárdos era che i cantori potevano essere formati, nel rimanere in tono e nel ricercare una naturale chiarezza delle loro voci, solo se non accompagnati da strumenti.

personalmente e concretamente (e non soltanto a livello teorico) nei confronti dei propri cantori. Il suo modo è sempre sensibilmente attento soprattutto alle relazioni umane, oltre che alla direzione dei cori e alla concertazione dei repertori.

Coro.....familiare per Lajos Bárdos

L’insegnamento che ne traiamo è che il “Direttore di coro” non deve mai dimenticarsi che il coro che ha di fronte, prima di essere “strumento” è fatto di “persone” che richiedono rispetto e dignità.

Lajos Bárdos insieme ai suoi studenti all’Accademia di Budapest

Da questa testimonianza riscontriamo come egli stesso si sia sempre posto come “modello” appassionato, attivo ed esecutivo nei confronti dei cantori. Questo approccio dimostra e trasmette come il “Direttore di coro” debba coinvolgersi

(*) Direttore di Coro, Compositore e Musicista. e-mail: francescobarbuto@alice.it

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Farcoro - didattica 2

Tradizione ed avanguardia nella musica sacra corale di Liszt Ferenc di Giovanni Acciai (*)

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n una lunga lettera da Roma dell’8 ottobre 1862, Liszt Ferenc cosí scriveva al critico musicale della Neue Zeitschrift für Musik di Lipsia, Karl Franz Brendel: «dopo aver assolto in Germania, a grandi linee e per quanto possibile, il compito sinfonico che mi ero prefissato, voglio ora assolvere quello di compositore di musica vocale religiosa». In realtà un certo interesse nei confronti della musica corale sacra il compositore ungherese lo aveva già fermamente manifestato durante i sedici anni (1842-1858) che aveva trascorso a Weimar come maestro di cappella della corte granducale. Qui aveva composto una Messa per voci virili (1848), una Missa solemnis zur Einnweilung der Basilika in Gran («Messa solenne per la consacrazione della basilica di Esztergom»), per soli (S.C.T.B.), coro e orchestra, eseguita il 31 agosto 1856; il Salmo XIII «Herr wie lange», per tenore solista, coro (in seguito adattato per solo coro virile) e orchestra (6 dicembre 1855) e aveva incominciato a lavorare a due vasti affreschi sinfonico-corali: Die Legende von der heiligen Elizabeth («La leggenda della santa Elisabetta») per soprano, contralto, tre baritoni, basso solisti, coro, organo e orchestra e Christus, per soprano, mezzosoprano, tenore, baritono e basso solisti, coro, organo e orchestra. Ma sarà a Roma che la musica religiosa di Liszt conoscerà il punto piú alto del suo percorso artistico, allorquando queste due opere verranno completate e vedranno la luce molti altri lavori alcuni dei quali di dimensioni minori ma pur sem-

pre interessanti, per diverse formazioni corali e destinati al servizio liturgico,1 tra cui meritano di essere ricordati il Cantico del sol di San Francesco d’Assisi, per baritono solista, coro maschile, organo e orchestra (Roma, 1862); la Missa Choralis (1865), per coro (SATB) e organo, il Requiem per due tenori e due bassi solisti, coro di voci virili, organo, ottoni ad libitum (1867); la Messa per l’incoronazione a re di Ungheria dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria, per soprano, contralto, tenore, basso solisti, coro e orchestra, eseguita a Budapest l’8 giugno 1867, la Via crucis (1878-79), per voci sole, coro, organo o pianoforte, su testo della principessa polacca Carolyne Iwanowska:2 un esempio significativo della concezione lisztiana in materia di musica sacra e della ricerca di vie nuove sul piano della forma, dello stile, del linguaggio, dell’emancipazione armonica. Il soggiorno romano di Liszt (1861-1869) segna dunque una svolta importante per quanto attiene l’incremento della composizione musicale religiosa. Coerente con la sua personalità poliedrica e irrequieta che lo portava a una continua ricerca del 1. Il catalogo delle opere di musica sacra di Liszt enumera ottantatre titoli. 2. La Iwanowska (1819-1887) era la moglie separata del principe russo Sayn-Wittgenstein. Liszt la conobbe nel 1847 a Kiev e intratenne con lei una relazione sentimentale che durò fin quasi agli ultimi anni della sua vita. La principessa, donna coltissima e dotata di forte carattere, esercitò un’importante influenza sulla personalità e sulla vena ispirativa del musicista ungherese.

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nuovo, Liszt ebbe modo di esprimere le sue idee nei confronti della musica sacra del suo tempo non soltanto attraverso le sue opere piú originali e innovative ma anche in scritti musicologici e filosofici, comparsi, a partire dal 1834, sulla Revue et gazette musicale de Paris. Il pensiero ricorrente in questi scritti è quello di liberare la musica sacra dalle pastoie dell’eccessivo sentimentalismo e dello stucchevole formalismo che la caratterizzava ancora intorno alla metà dell’Ottocento, ben molto tempo prima che nel 22 novembre 1903, festa di santa Cecilia, san Pio x pubblicasse il suo Motu proprio «Tra le sollecitudini», con il quale si bandiva dai sacri riti ogni forma di musica che avesse sapore di profano o di teatro.3 D’altra parte le vicende della musica corale ottocentesca sembrano contraddire, almeno nella loro fase iniziale, quelle della coeva musica strumentale e operistica, pervasa - come si sa - dai fermenti rivoluzionari dell’estetica romantica che, a partire dagli ultimi decenni del Settecento investono un po’ tutti i campi dello scibile universale. Le ragioni di questa discrasia si possono in parte ricercare nel rivolgimento causato dall’Illu-

minismo nella storia sociale, politica, filosofica, culturale e artistica dell’Europa del tempo, con l’esaltazione dell’oggettivismo e del razionalismo e la negazione della musica corale come veicolo privilegiato per la formazione della personalità e del carattere dell’individuo, della sua educazione morale, civile e sociale. Non va infatti dimenticato che ancora verso la fine del Settecento lo stato della musica corale in Europa era tale che la formazione di un coro poteva essere interpretata addirittura come espressione di una nuova coscienza, come ricerca di valori egualitari e, dunque, come atto rivoluzionario in sé. La musica polivocale era allora musica priva di qualsiasi dimensione «corale», destinata esclusivamente ai solisti, eseguita nei teatri e nei salotti borghesi da apprezzati cantanti virtuosi. Non dissimile era la situazione sul versante della musica sacra, nella quale stilemi e forme di chiaro segno melodrammatico costituivano l’espressione musicale prevalente, contribuendo ad avvilire la genuina tradizione polifonica del passato di cui, non a caso, Liszt fu cultore raffinato, instancabile difensore e propugnatore convinto anche attraverso la sua stessa musica. Unica vestigia del Chorgesang, almeno in Germania, erano i cori scolastici dei ginnasî, la cui tradizione risaliva ai tempi di Johann Sebastian Bach, formati da alunni vocalmente ben dotati e d’estrazione sociale medio-borghese. Il loro compito era quello di svolgere il normale servizio liturgico in chiesa. Ma sul finire del secolo XVIII questi cori operavano in condizioni di tale indigenza al punto da renderne assai precaria la sopravvivenza. Fu in gran parte merito del movimento romantico e della sua irrresistibile forza propulsiva in direzione del rinnovamento del gusto e del costume musicale se ben presto questo stato di cose conobbe una radicale inversione di tendenza. Fattore innovativo, dai profondi risvolti etici e sociali prima ancora che muiscali, fu il riconoscimento della compagine corale a voci miste come espressione di profondi rivolgimenti intellettuali e spirituali in atto. Il coro a quattro voci miste, formato da donne come «soprani» e «contralti» e da uomini come «tenori» e «bassi»,

3. Come si legge nel Motu proprio, la musica liturgica doveva tornare a «essere santa e quindi a escludere ogni profanità, non solo in sé medesima ma anche nel modo onde viene proposta per parte degli esecutori; a essere arte vera, non essendo possibile che altrimenti abbia sull’animo di chi ascolta quell’efficacia che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni; a essere universale, nel senso che pur concedendo ad ogni nazione di ammettere nelle composizioni chiesastiche quelle forme particolari che costituiscono in certo modo il carattere specifico della musica loro propria, queste però devono essere subordinate ai caratteri generali della musica sacra, cosí che nessuno di altra nazione, all’udirle, debba provarne impressione non buona». E a quale musica si addicevano in sommo grado queste qualità, se non al canto gregoriano, il «canto proprio della Chiesa romana, il solo canto che essa ha ereditato dagli antichi padri, che ha custodito gelosamente durante i secoli nei codici liturgici, che direttamente propone ai fedeli come suo, che in alcune parti della liturgia esclusivamente prescrive e che gli studi piú recenti hanno sí felicemente restituito alla sua integrità e purezza»?

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divenne dunque simbolo dei tempi, idealizza la comunanza e l’unione di un popolo libero, affrancato da vincoli che in secoli precedenti lo avevano assoggettato o alla chiesa o a una corte; costituí uno dei punti nodali della concezione romantica della musica. In tale mutato scenario, l’azione riformatrice di Liszt anche nel campo della musica corale trovò un terreno quanto mai fertile oltre che ideale. Già nel 1834, nel saggio Über die zukünftige Kirchenmusik («Della musica sacra dell’avvenire») il Maestro ungherese aveva vagheggiato una musica sacra capace di unire il «teatro e la Chiesa su una scala grandiosa», un po’ alla stregua di come aveva teorizzato cinquantanni prima con tutt’altri intendimenti, il teorico e gesuita spagnolo Antonio Eximeno (1729-1808) nel suo trattato Delle origini e delle regole della musica (Roma, 1774). Ventunanni dopo, recensendo il libro dell’amico teorico e compositore tedesco Adolf Bernhard Marx (1795-1866) Die Muzik des neunzehnten Jahrunderts und ihre Pflege: Methode der Musik (Leipzig, 1855) [«La musica del XIX secolo e la sua pratica: Metodo della musica»], del quale aveva eseguito l’oratorio Moses, rifiutato nel 1841 da Mendelssohn, Liszt concordava con lui circa la necessità di dar vita a un dramma musicale in grado di raffigurare i varî aspetti dell’animo romantico senza la necessità di ricorrere all’apparato della scena, «poiché lo spirito indovina piú di quanto gli si possa mostrare; anzi, in molte occasioni l’immaginazione va cosí al di là delle possibilità della rappresentazione che quest’ultima invano si proverebbe a competere con essa». Non v’è dubbio che il saggio di Marx condusse Liszt a riflettere a fondo sull’idea di un teatro musicale interiore capace di appagare la sua incessante ansia di sperimentazione e, nel contempo, di metterlo al riparo, sul versante dell’opera in musica, dai rischi di non riuscire a emulare l’ingombrante lezione wagneriana o, peggio ancora, di rinchiudersi in un accademismo tanto vacuo quanto insignificante. Forse proprio in questo dilemma si può leggere il fallimento del Nostro come autore di melodramma; in questa impotenza a dire qualche

cosa là dove molto era già stato detto o a realizzare un nuovo modello di dramma musicale, si può trovare la risposta al perché egli non sia riuscito a portare a termine alcuna opera teatrale di valore artisticamente apprezzabile.4 Diverso si presenta il discorso sul versante della musica sacra di carattere teatrale: l’oratorio, appunto. Die Legende von der Heiligen Elizabeth e Christus rappresentano, piú d’ogni altra opera lisztiana la testimonianza diretta del tentativo di creare un nuovo genere di dramma musicale. Non a caso la data d’inizio delle loro rispettive partiture è il 1855, lo stesso della pubblicazione di Die Muzik des neunzehnten Jahrunderts und ihre Pflege di Marx. Questa coincidenza potrebbe significare quanto grandi fossero la suggestione e il desiderio del musicista magiaro di sperimentazione dei contenuti e delle forme musicali che in quegli anni animavano il dibattito intorno alla musica assoluta. D’altronde, i valori e le potenzialità creative insite nell’idea di un dramma musicale senza scena auspicati dal saggio di Marx non rappresentavano di certo una novità. Semmai essi ribadivano opinioni, orientamenti e tendenze che, sia in campo musicale sia in campo letterario e filosofico animavano il dibattito culturale nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento. Basti pensare ai tentativi portati avanti in tal senso da Beethoven con il Fidelio, concepito come ideale crogiolo di dramma in prosa, melodramma tout court, linguaggio sinfonico di forte contenuto drammatico; da Schubert, con l’azione sacra da concerto dell’incompiuto Lazarus, nel quale il dramma della morte viene rappresentato sull’immaginario palcoscenico dell’anima come una lunga, stupenda meditazione intorno alla dolcezza del morire, al mistero di ciò che accade 4. Don Sanche ou Le château d’amour, un’opera in un atto, risalente agli anni 1824-25, realizzata piú che altro per scopi propagandistici, ha un libretto (di M.me Théaulon e de Rancé) «a effetto» che contiene quasi tutti gli ingredienti teatrali di repertorio (danze contadine, cupidi che scendono dal cielo, un’aria del sonno, una scena di tempesta, una battaglia, una marcia funebre e un balletto finale) ma è di scarsa consistenza musicale e valore artistico.

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non dopo, ma nel punto in cui avviene il trapasso, osservando lo svolgersi dei fatti in un’atmosfera rarefatta che nulla ha a che spartire con il ritmo del melodramma tradizionale, fatto di colpi di scena e di forti contrasti; da Schumann, con le sue scene dal Faust di Goethe; dallo stesso Wagner che, pur essendo riuscito a fornire una risposta esaustiva al problema del teatro d’opera tedesco, aspirava, come sappiamo, alla creazione di una forma musicale assoluta, in cui musica, scena e dramma fossero sottratti alla dimensione visiva dello spettatore. Con le sue osservazioni sui limiti dell’opera lirica, anche Liszt considerava improcrastinabile la necesità di sperimentare soluzioni diverse da quelle offerte da un teatro, fossilizzato nei suoi schemi sempre uguali, ripetitivi, prevedibili, incapace di proposte strutturali alternative. E lo fa individuando nell’oratorio, cosí come aveva fatto col poema sinfonico nei confronti della sinfonia, la base di partenza dei suoi inediti progetti creativi. A differenza degli altri generi musicali come la cantata o la scena drammatica, l’oratorio offriva condizioni ideali per raggiungere lo scopo: un «carattere marcatamente epico che impediva agli elementi lirici e drammatici di comparirvi frequentemente».5 Ne sono fedele quanto emblematica conferma Die Heiligen Elizabeth e Christus, i due citati oratorî, ai quali il Nostro lavorò a varie riprese fra il 1855 e il 1867, il cui carattere dominante è fuor di dubbio epico. Epici sono infatti i soggetti di entrambi, poiché i rispettivi protagonisti appaio-

no quali veri e propri eroi che in diverse fogge e maniere appartengono al mondo terreno (Elisabetta) come a quello celeste (Christus) e che sacrificano loro stessi per testimoniare o portare a compimento il disegno divino. Con la Leggenda di Santa Elisabetta, per soprano, contralto, tre baritoni, basso, coro organo e orchestra, ispirata dalla Vie de Sainte Elisabeth de Hongrie, di Charles-Forbes-René conte di Montalembert, Liszt evocava le gesta della medievale eroina ungherese Elisabetta, nuora del langravio di Eisenach, principessa brutalmente scacciata dal castello - dopo la morte del marito Ludwig, impegnato nelle crociate - dalla suocera, la regina Sofia, assetata di potere, ma in seguito redenta e votata a opere di carità. Per tale epica evocazione, su testo in lingua tedesca di Otto Roquette, Liszt realizza una partitura di grande fascino, nella quale il tema gregoriano dell’antifona mariana Salve Regina, sempre abbinato alla figura di Elisabetta, si alternano a melodie di antiche canzoni popolari medievali, episodi miracolosi si accompagnano a scene intime e familiari, intonazioni patetiche s’innestano su situazioni di carattere decisamente tragico o melodrammatico. Lo scontro fra Elisabetta e l’ambiziosa regina Sofia con il quale inizia la Seconda parte dell’oratorio, viene stilisticamente risolto in termini di vero e proprio dramma musicale, esplicitamente desunto dai modelli wagneriani. Di struggente bellezza è il lamento di Elisabetta per la morte del marito, esasperato da una melodia dal profilo fortemente cromatico nella quale sovente i confini della tonalità sono abbandonati e l’ambiguità tonale tende a prevalere sulla chiarezza del tracciato modulante. Il resto dell’opera segue linee piú tradizionali e prevedibili (suona a dir poco enfatico, alla fine, il corale unissono delle voci sulle parole «Nobilis Ungaria», privo com’è di equilibrio e di misura nella sostanza musicale). Il «miracolo delle rose» è degno di stare al fianco della piú pura poesia trascendentale; la «scena della tempesta» e il «coro degli angeli della trasfigurazione», con le sue armonie eteree, sono

5. Le idee rivoluzionarie di Liszt coprono ogni aspetto dello scibile musicale. La sua concezione del direttore d’orchestra è assolutamente innovativa oltre che anticipatrice: «Il compositore - egli scrive sulla partitura di Die Heiligen Elizabeth - considera la battuta come un’abitudine brutale e contraria al buon senso e che vorrebbe poter annullare nell’esecuzione delle sue opere. La musica è un susseguirsi di suoni che si chiamano l’uno con l’altro e che devono potersi legare fra loro e non essere, al contrario, soffocati dal battito della misura». Forse si può trovare qui la causa di tutte le discordie fra il musicista ungherese e i cori e le orchestre con le quali egli ebbe a che fare, poco avvezzi a questa sua maniera di dirigere «libera» e costantemente tesa alla ricerca dell’essenza della musica.

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pagine di bellezza incomparabile. Risolvere a questo punto il problema dell’identità di Die Heiligen Elizabeth chiamando in causa questa o quella forma di oratorio o di melodramma equivarrebbe senz’altro ad occultarne la peculiare fisionomia e la reale originalità; anzi proprio il gioco imprevisto e inconsapevole di sdoppiamento fra forma e contenuto finisce paradossalmente per evidenziare ancor piú la presenza di soluzioni e scelte irriducibili a formule consolidate: soluzioni che, a loro volta, interessano soprattutto una drammaturgia ondeggiante fra i modelli d’ascendenza wagneriana e quelli proprî del poema sinfonico ovvero il genere piú vicino, nel catalogo lisztiano, alla sintesi espressiva e rappresentativa del teatro musicale senza scena. Guarda caso, al pari di altri esempi di musica a programma, anche questa Legende nasce, oltre che da una suggestione letteraria, anche da un pretesto pittorico: gli affreschi del pittore tedesco Moritz von Schwind, sulla vita della santa Elisabetta, patrona d’Ungheria. Forse non è esagerato definire questo oratorio come una forma estremamente dilatata di poema sinfonico per voci e orchestra. Una forma che si sviluppa sino a coincidere con una vera e propria immaginaria rappresentazione drammatica, del tutto coerente con le teorie dell’autore in materia di drammaturgia musicale. Nel rispondere all’obiezione di Wagner circa l’impossibilità di rappresentare esaurientemente alcunché da parte della musica assoluta, Liszt era invece convinto delle capacità quanto meno potenziali del poema sinfonico di giungere agli stessi risultati del Wort-Ton-Drama. Se Die Legende von der Heiligen Elizabeth segna il punto culminante della ricerca lisztiana attorno al progetto di teatralità musicale senza scena, il Christus rappresenta invece il superamento di questa tendenza: esso è il simbolo di quella profonda crisi spirituale che assale il Maestro quasi in limine mortis e lo divora nella lacerante ricerca della fede. È lo stesso compositore a descriverci la genesi di quest’opera: «la prima idea del lavoro l’ebbi

intorno al 1850. Ne parlai a Wagner durante un nostro incontro a Zurigo, nel 1853. Però soltanto nel 1864 iniziai ad elaborare questa idea, durante il mio soggiorno a Roma, presso il convento di Santa Francesca romana e la chiesa di Monte Mario». La stesura della partitura procede con grosse difficoltà. Nel 1866, comunque, l’opera è conclusa. Dodici anni (1855-1867) occorreranno a Liszt per portare a termine la ciclopica impresa. Se gravosa fu la realizzazione della partitura, non meno agevole fu la preparazione del testo poetico, scritto interamente in lingua latina. In un primo momento Liszt si avvalse della collaborazione del poeta Georg Herwegh (1817-1875); in seguito egli si serví anche dell’Evangelienharmonie (sintesi in versi dei quattro Evangelisti) di Friedrich Rückert (1788-1866), e dei versi dell’amico e compositore Peter Cornelius (1824-1874), ricavati dalle riflessioni sul tema del Cristo della principessa Carolyn Sayn-Wittgenstein. Conclusa questa fase preparatoria, lo stesso Liszt provvide a integrare il testo con passi tratti dalla Bibbia, da inni medievali e dalla liturgia cattolica. Appare subito evidente che il Christus presenta non poche analogie col Messia di Haendel. Il tema e l’apparato esecutivo sono pressoché identici, mentre differiscono, ovviamente, nel testo poetico, nella struttura musicale e per il diverso contesto culturale entro il quale le due opere si collocano. Entrambi illustrano gli episodi salienti della vita del Redentore, dall’Annunciazione alla Resurrezione. Linfa musicale inesauribile del Christus il cui motivum ispiratore, come è riportato sulla prima pagina della partitura, sono le parole di San Paolo agli Efesini (4, 15), «Veritatem autem facientes in charitate, crescamus in illo per omnia, qui est caput: Christus» (Vivremo nella verità e nell’amore, per crescere continuamente e per avvicinarci sempre piú a Cristo), sono la melopea gregoriana, la modalità medievale e la polifonia d’ascendenza rinascimentale. Il recitativo, l’aria e tutti gli elementi tipici dell’oratorio barocco, classico e romantico vi sono preclusi. Impressionante l’organico vocale e strumenta-

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le richiesto: sei voci soliste (soprano, mezzosoprano, contralto, tenore, baritono, basso), coro (s.a.t.b.), un ottavino o terzo flauto, due flauti, due oboi, corno inglese, due clarinetti in b e in a, due fagotti, quattro corni, tre trombe, tre tromboni, basso tuba, timpani, percussioni varie fra cui campane tubolari, arpa, organo (o armonium), archi. Una massa strumentale che Liszt domina con mano sicura e sfrutta in tutte le sue piú intime risorse, smentendo cosí chi lo voleva insuperabile virtuoso alla tastiera ma mediocre orchestratore. Christus consta di tre parti. La prima, la piú ampia, intitolata Oratorium in Nativitate Domini, comprende cinque brani: «Rorate caeli desuper et nubes pluant justum; aperiatur terra et germinet Salvatorem», «Angelus Domini», «Stabat Mater speciosa», «Pastorale», «Et ecce stella».

tre numeri («Rorate caeli», «Angelus Domini», «Stabat Mater speciosa») si fa pittoresca e sontuosa nel quarto, con la descrizione della marcia dei tre Magi verso la capanna di Betlemme. «Non è forse la sinfonia della natura - s’interroga Liszt - altro che la voce di Dio che canta?». Nuclei motivici di chiara derivazione gregoriana alimentano l’impianto costruttivo della fuga (es. 1) con la quale l’oratorio ha inizio (il tema è ricavato dalle note inziali dell’Introitus di primo modo, «Rorate coeli desuper», che si canta nella Messa della IV Domenica di Avvento; Isaia 45, 8) e del ridondante affresco sinfonico-corale nel quale un Angelo (Soprano solo) annuncia la venuta del Redentore (antifona «Angelus ad pastores ait», in settimo modo, che si canta nelle Lodi del giorno di Natale; Luca 2. 10-14; es. 2), culminante in un gioioso coro di cherubini («Gloria in excelsis Deo») che si stempera in toni sempre

Es. 1. F. Liszt, Christus, parte prima: «Rorate coeli de super», fuga iniziale, bb. 1-23

Es. 2. F. Liszt, Christus, parte prima: «Pastorale e coro degli angeli», bb. 1-30.

Questa parte è forse quella in cui maggiormente si avverte l’influenza stilistica dell’Enfance du Christ (1850-54) di Berlioz. L’atmosfera prevalente è di carattere pastorale; l’orchestrazione trasparente di sapore quasi cameristico nei primi

piú dolci man mano che i pastori e i re Magi si avvicinano alla grotta, al canto dell’Halleluja (es. 3). Uno «Stabat Mater speciosa», contrafactum del piú noto «Stabat Mater dolorosa», attribuibile for-

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non troppo mascherati toni haendeliani e l’adorazione dei tre re Magi («Die heiligen drei Könige) su un motivo di marcia («Et ecce stella», Matteo 2, 9) concludono questa prima parte, quasi a predisporre l’animo ai momenti di piú intensa religiosità delle due sezioni successive. La musica dell’Oratorium in Nativitate Domini ha

Es. 3. F. Liszt, Christus, parte prima: Halleluja conclusivo della «Pastorale e del coro degli angeli», bb. 173-184.

se a Jacopone da Todi (1240?-1306), per coro (S.A.T.B.)6 e organo (es. 4), un «Hirtenspiel an der Krippe» (Canto pastorale al presepio) dai

Es. 5. F. Liszt, Christus, parte prima: Beati paupers spiritu, inno per coro a quattro voci e organo, bb. 1-29.

un carattere spiccatamente «ungherese» e, per questo, venne criticata con durezza. Liszt non se ne preoccupò soverchiamente, rispondendo cosí ai suoi detrattori: «Se Rubens poté ritrarre nei suoi quadri a soggetto biblico il popolo fiammingo, perché io non posso far crescere i mustacchi ai miei re Magi? Non mi vergogno affatto di questo». La sezione centrale del Christus, intitolata Post Epiphaniam, in cinque numeri, mostra almeno tre episodi di grande rilevanza: «Beati pauperes spiritu» (Matteo 5, 3-10) per baritono solo, coro e organo, su testo tratto dalla narrazione evange-

Es. 4. F. Liszt, Christus, parte prima: Stabat mater speciosa, inno per coro a quattro voci e organo, bb. 1-29.

6. L’esperienza derivata nel corso della preparazione dell’esecuzione viennese della prima parte del Christus (l’Oratorium in Nativitate Domini), nel 1871, sotto la direzione di Anton Rubinstein, con Anton Bruckner all’organo e con i cantori del «Singwerein der Gesellschaft der Musikfreunde», convinse Liszt a inserire l’accompagnamento organistico a questo brano, originariamente pensato «a cappella».

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lica di Matteo (es. 5); il «Pater noster» dalle linee grandiose sul tema dell’omonima melodia gregoriana (es. 6) e «Et ecce motus magnus» (Matteo 8, 24-26) per orchestra con brevi interludî vocali in cui viene descritto il prodigio di Gesú che cammina sulle acque, attraverso una serie di episodi che richiamano ad effetto, connessi però

zione di Liszt e di quella universale della civiltà musicale occidentale. Segue il poderoso brano a cinque voci, sulla notissima sequenza medievale «Stabat Mater dolorosa», per il quartetto dei solisti, il coro (S.A.T.B.) e l’orchestra. Ancora una volta l’intonazione della melodia gregoriana e un antico Lamento ungherese (circa 1300) forniscono il materiale motivico sul quale Liszt costruisce questo grandioso, drammatico, ispirato movimento (es. 8). L’esultante pienezza del fugato finale «Resurrexit», preceduto dall’etereo canto dell’Hymnus Paschalis, «O filii et filiae», per voci femminili (S.A.), accompagnate dal solo harmonium e coronato dalla solenne invocazione «Christus vincit, Christus regnat» (es. 9) conduce a termine la gigantesca partitura del Christus. La sintesi dell’ingente materiale musicale profuso a piene mani da Liszt in questa pagina, esplode letteralmente nell’esultante grido liberatorio dell’«Halleluja. Hosanna in excelsis».7 Nel Christus i tratti idiomatici della scrittura sinfonico-vocale di Liszt, già posti in evidenza nella Legende von der Heiligen Elizabeth, trovano una sicura conferma, raggiungendo inoltre quella organicità nella disposizione dei materiali architettonici altrove difettosa. Equamente bilanciata fra numeri per voce sola e orchestra rievocanti alcuni episodi della vita del Redentore e preghiere corali che da questi stessi episodi sembrano derivare, la struttura complessiva del Christus rivela una tecnica compositiva davvero nuova e anticipatrice, capace di creare pagine d’una bellezza incomparabile, come la gigantesca marcia dei Re Magi, di spiccato sapore mahleriano oppure l’estrema concentrazione descrittiva, purgata d’ogni esteriorità teatrale, della tempesta sul lago di Tiberiade, in cui la continua citazione del materiale tematico all’insegna

Es. 6. F. Liszt, Christus, parte prima: Pater noster, per coro a quattro voci e organo, bb. 1-26.

in un coerente e logico sviluppo compositivo. Il tema del «Benedicamus Domino», sapientemente combinato in un fitto tessuto contrappuntistico, prepara il saluto osannante del popolo al passaggio di Gesú che fa il suo ingresso in Gerusalemme e sfocia in una trascinante fuga finale (es. 7). «Tristis est anima mea», pronunciato dalla voce di Cristo (Baritono solo) apre la terza e ultima parte dell’oratorio (Passio et Resurrectio). Ci troviamo qui di fronte a una pagina in cui la confessione, il cordoglio, l’angoscia del compositore ungherese sul tema della Passione sono intimamente sentiti e rappresentati con un lirismo vibrante e sincero. Questa pagina va sicuramente collocata fra i vertici assoluti dell’intera produ-

7. La prima esecuzione integrale del Christus avvenne il 29 maggio 1873 nella chiesa di Herder, a Weimar, con Liszt come direttore. In questa occasione la masssa orchestrale e corale fu imponente: oltre 300 esecutori provenienti da Weimar, Jena, Erfurt e Sonderhausen. Tuttavia l’esecuzione del novembre successivo, nel teatro Vigadó di Pest, diretta da János Richter fu ancora migliore.

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In generale, possiamo affermare che nella musica sacra di Liszt si evidenzia la forza di un contrappunto (sovente rappresentato con le sembianze dell’arabesco, del ricamo prezioso piuttosto che con le fattezze dell’architettura massiccia) e di una situazione melodica che si incontrano in una definizione formale e soprattutto espressiva, in cui il magistero degli antichi maestri è una presenza di cultura profondamente acquisita ed operante in una proiezione attuale e non un ricordo compiaciuto o una citazione erudita da nota a pie’ di pagina.

di falsi movimenti e di apparenti sviluppi, lascia trasparire l’inesausto migrare di una mente, interamente assorta nella contemplazione di Dio.

Es. 7. F. Liszt, Christus, parte seconda: il tema del Benedicamus Domino, introdotto dall’orchestra, annuncia l’ingresso di Gesú in Gerusalemme, bb. 1-26.

La musica del Christus, non v’è dubbio, è musica che guarda all’avvenire. Ma si avverte anche in essa un legame solido con il retaggio del passato. Vi si coglie con evidenza il senso di una modernità che non si alimenta alla pura enunciazione di sé stessa ma si nutre della rielaborazione personale di canoni compositivi indagati fin nelle pieghe piú profonde della loro essenza. Ciò vale sia per la sperimentazione e l’applicazione delle formule compositive sia per l’esplorazione delle possibilità tecnico-espressive che Liszt compie sullo strumento «voce». Questa innata vocazione al canto, questa predilezione per la voce che si sposa con la parola devozionale, è condotta sul filo di una riflessione strutturale e musicale che, nella sua eterogenea ricchezza, si lascia ricondurre sempre all’alveo di un’esperienza che trae la sua linfa ispirativa dai modelli dell’antica melopea gregoriana e della polifonia rinascimentale.

Es. 8. F. Liszt, Christus, inizio della parte terza: «Tristis est anima mea» per Baritono solo e orchestra, bb. 38-63.

Si considerino le diafane sonorità delle protopolifonie medievali che eccheggiano nella Missa solemnis zur Einnweilung der Basilika in Gran, evocatrice delle visioni del Nuovo Testamento. La tematica di questo lavoro è il canto gregoriano e la fraseologia romantica, le melodie di lungo slancio e i temi tessuti sopra un unico motivo, sviluppati per sequenze. L’armonia mescola formule eterogenee: modale e cromatica. Vi ridondano i procedimenti compositivi tanto cari a Liszt basati sull’impiego di motivi che ritornano nel

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Nel «Benedictus», come in quello della Missa solemnis di Beethoven, s’innalza un luminoso assolo di violino. Si avverte in questa messa una forte influenza del canto popolare ungherese (molti spunti tematici sono tratti dalla nota Chanson de Rákoczi), peraltro già impiegato nella Legende von der Heiligen Elizabeth e nel Christus. Queste considerazioni non devono però essere fraintese. Non devono in alcun modo far pensare alla musica di Liszt Ferenc come a un sofisticato esercizio intellettuale. Al contrario, imbrigliati e trasfigurati nell’elaborazione formale, sono il temperamento vigoroso e la vitalità intellettuale di un uomo che vive intensamente l’arte, e quella al servizio della parola di Dio in modo particolare, come esigenza primaria dell’essere e non come sua narcisistica ostentazione. La parola, dunque, il verbum divino che si fa canto, è l’elemento propulsivo della fantasia creativa del Maestro ungherese, il pungolo che stimola di continuo la sua fervida invenzione. Intonando il testo liturgico, Liszt avvicina l’ascoltatore al mistero della Trinità, dell’Incarnazione, della Redenzione, della Resurrezione, del Giudizio finale. E lo fa ricorrrendo quasi sempre a un motivo generatore (non è forse Dio fons et origo di ogni cosa) che rappresenta la sorgente da cui scaturiscono per contrasto altri motivi o temi che, a loro volta, offrono dei rapporti organici e mostrano i diversi aspetti del tema generatore.

corso delle diverse parti in cui la messa si articola e mutano di sembianze e di aspetto. Ancora una volta siamo di fronte a un lavoro sinfonico, a una musica a programma in cui dramma e lirismo si mischiano assieme. E il «Credo», risplendente di tutto il fulgore sontuoso dell’orchestra romantica sembra voler dominare, con un simbolismo nemmeno troppo mascherato, l’intera messa.

Es. 9. F. Liszt, Christus, parte terza: Christus vincit, Christus regnat, per soli, coro e orchestra, sezione conclusiva dell’oratorio, bb. 76-94.

E se la Messa per l’incoronazione a re di Ungheria dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria, non eguaglia la «Messa di Gran», il suo stile è molto ardito e nuovo. Liszt si concede molte libertà per quanto attiene la struttura liturgica come, ad esempio, la presenza del «Graduale» (Salmo CXVI), dopo il «Gloria», non contemplata dall’Ordinarium missae; un brano soltanto strumentale all’«Offertorio», alla stregua del Grand Offertoire degli organisti francesi; il «Credo» è costruito sopra un tema tratto dalla Messe royale del compositore e clavicembalista francese Henry Du Mont (1610-1684) ed è scritto in uno stile che potrebbe esser definito «neogregoriano».

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Il risultato estetico che scaturisce da siffatto modo di procedere è sempre quello di una musica che si fissa e si libra in uno spazio che spinge in avanti, ma che costringe anche a volgersi indietro, a interrogare il passato, inteso non come reliquia della memoria ma come perenne fonte ispirativa. L’espressione musicale diventa allora la conseguenza di un processo psicologico sviluppato attraverso un incessante lavoro tematico: il motivo psicologico e il motivo musicale procedono parallelamente, il primo evolve, il secondo sviluppa. Tutto ciò rende estremamente difficile classificare e contestualizzare la musica sacra corale di Liszt in una precisa categoria stilistica, proprio perché sospesa in una dimensione di straordinaria ampiezza lirica ed emotiva, che poi, a ben vedere, non è altro che la testimonianza di una cifra stilistica personale, libera da qualsivoglia demarcazione di tempo e di spazio. Alla luce di queste considerazioni, appaiono davvero profetiche le parole della principessa Carolyne Sayn-Wittgenstein: «Liszt lanciò il suo giavellotto negli spazi futuri, ben piú in là del punto dove lo aveva scagliato Wagner». A oltre centocinquant’anni di distanza, è davvero difficile stabilire dove il giavellotto sia andato a cadere. (*) Direttore di coro; direttore artistico e musicale degli ensembles vocali e strumentali I Solisti del madrigale e Nova ars cantandi; docente di Storia ed estetica della musica medievale e rinascimentale, Semiografia musicale e prassi esecutiva della polifonia vocale al Conservatorio «Giuseppe Verdi» di Milano e presso l’Ateneo della Basilicata; autore di saggi musicologici e di importanti edizioni critiche vocali e strumentali; presidente del Comitato scientifico per l’Edizione nazionale delle Opere di «Carlo Gesualdo di Venosa», direttore artistico dei Concorsi internazionali di canto corale di Riva del Garda (Trento) e di Quartiano (Lodi); rappresentante ufficiale per l’Italia dell’«International Choir Olympic Council».

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Farcoro - composizioni

Pèn Graté di Matteo Giuliani

P

èn Graté nasce da frammenti di una filastrocca in dialetto bolognese rintracciati a Monghidoro (BO). Si tratta di una ninna nanna cantata verosimilmente da un padre malato al suo figlio più piccolo in cui gli stenti e le asprezze della vita, così comuni nel nostro passato, vengono riproposte con immagini molto crude.

e diversa da quelle adiacenti (“fugata” la prima, di melodia su sfondo la seconda e omoritmica l’ultima). Saranno questi tutti e soli i tipi di zona di scrittura usati nella composizione. Il nuovo culmine tensivo di battuta 63 – ottenuto sempre per contrasto, in questo caso giocato su più fronti (registro, timbro, intervalli) – non sembra sufficientemente appagato dalla conclusione di battuta 69: è l’ampia zona successiva, dove una scrittura imitativa scivola sullo sfondo in continua evoluzione, a ricreare progressivamente tensione fino al nuovo culmine di battuta Si tratta di una ninna 78, definito dalla nanna cantata verosimilconvergenza di numerosi parametri mente da un padre ma(ampiezza com- lato al suo figlio più picplessiva del registro colo.......... massima sui culmini acuto e grave, massima densità di linee di sfondo). Le battute 79-82, quindi, scaricano la tensione accumulata grazie ad un veloce assottigliamento del registro utilizzato, che si ridirige verso la quinta giusta iniziale e predispone alla ripresa.

L’esaltazione del dato melodico anche attraverso la ricerca timbrica è uno degli obiettivi del brano in cui i materiali popolari vengono utilizzati sia in quanto figure riconoscibili, sia come serbatoi – intervallari, di polarità e, più in generale, di relazioni – impiegati nel processo elaborativo. Formalmente si individuano tre macro-sezioni: alla prima (fino al battere di battuta 37) segue un’ampia zona evolutiva (battute 37-83) che si aggancia in elisione alla ripresa (timbrica), con cui si conclude il brano. Attraverso variazioni dello stesso materiale, la prima zona vuole creare un tappeto sonoro – di sfondo alla melodia principale, sempre riconoscibile – espandendo progressivamente il registro (dalla quinta giusta iniziale alle tre ottave di ampiezza intervallare complessiva di battute 37) e conquistando via via timbri nuovi (ad esempio: la parte del coro maschile di battute 13-25 sarà immediatamente riproposta identica, ma con la sovrapposizione di un nuovo blocco cantato delle voci femminili). Nella parte centrale, le dialettiche procedono per contrasti più evidenti: ciascuna delle frasi che compone il periodo ternario delle battute 37-49, ad esempio, presenta una scrittura molto netta

Questo lavoro ha recentemente ottenuto un riconoscimento internazionale vincendo il concorso internazionale di composizione proposto dal rinomato Choral Project di San Jose (California, U.S.A.), diretto da Daniel Hughes, ed è stato eseguito dallo stesso coro californiano in vari concerti in America.

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Pèn graté

Dilidilindolla pèn graté lè la papa, lè la papa. Dilidilindolla pèn graté lè la papa di amalè. Dilidò dilidò dilidondondo. Fa la fa la nana fa la pur ch’anden tot a let ai bur, Con la lom senza i stupin dorum dorum fa e nanin. Fa la fa la nana fiol d’un frè diml a me chi le i to pé. Le e guardién d’i capucin, dorum dorum fa e nanin. Biribiritolla, pèn graté, mitim a lèt ch’a son malé, Trota, trota pir balota du furmai e ‘na ricotta, Un parol ed taiadel per rimpir al to budel. Tiritirindina pèn graté, mitim a lèt ch’a son malé, E pò cusìm ’na galinina ch’a la maegn pò domattina. Se ’na galénna lè un pò tropa dén un pò a c’la patoza. Se c’la patoza la nin vol dén un pò a chi la vol!

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Il brano può essere gratuitamente fotocopiato dai lettori di FARCORO, fermo restando che ogni diritto relativo all’esecuzione ed alla registrazione rimangono di proprietà dell’autore.

Pèn Graté Matteo Giuliani

 T solo I 2 3 4 5 6 7 8                                          Con calma

A

Soli

Tenori

     



Di-li-di-lin - dòl -la pèn gra - té





lè la

pa-pa lè la



pa - pa

Di-li-di-lin

    



-

dòl -la pèn gra - té

  

lè la

pa - pa di.a-ma - lé





Di-li-

(T. II)

 

(T. I) u (T. II) b.c.(m)

        

b.c.(m)

Baritoni e Bassi

     

9





    



(Bs.)

  







 

b.c.(m)

B

                                               10

11

12

13

14

15

16

17

T solo II

Soli

dó Di-li-dó di-li-dòn-dòn

T.

      

- dò.

Di-li

   

-

dó Di-li-dó di-li-dòn-dòn - dò.

    

Fa la fa la

na-na fa la

  

(T. tutti u sulla vocale)

Br. e Bs.

      

  

   

 

pur ch'an-den

tót a let ai

bur,

    con la

   

 

  

    

 

   

   

 

   



u

                    18

Soli

19

lòm sen-za.i stu - pin dó-rum

S.

20

21

Br. e Bs.

C 24

       

25

Fa la fa la

delicatiss.                                 

   

solo

            



23

dó-rum fa.é na - nin.

Di-li

T.



22

 

 





   

 

-

dó Di-li-dó di-li-dòn-dòn

      don do

don

     don do

don

- dò.

   

do

 don

Di-li

don

  do

-

 

dó Di-li-dó di-li-dòn-dòn - dò.

     don do

don

    don do

don

  

don

do



don

do

  


       

2 Soli

27

na - na fiól d'un

S.

        

C. II

frè

diml a

 

na - na

 

   

    

  

na - na

na - na



    

 

 

    

S.

don

C. I

don

do

   don

T.



   don do

Br. e Bs.

  

     36

don

don

don

don

                         dó Di-li-dó di-li-don don

C. II

     35

 

     don do

 don

 don

do

  

don

don

   

don

don

don

Di-li

don

   do

-

dó Di-li-dó di-li don don

  don

    don do

   do don

-

don

don

don

don

don

don

  na - na

dién d'i ca - pu - cin



32

33

 

  na - na

        

 

na - na

dó - rum fa.é na

-

  

  

  

na - na

na - na

     

 

 

  



      na - na

 

o

34

31

na - na

  

                    

 

 

30

na - na

   



     

le.e guar

   

o

Br. e Bs.

oh



oh

(Alcuni C. soli)

  



pé,

  

            

Pèn Graté

29

me chi le.i tó

na - na

na - na

T.

28

 

na - na (S divisi)

C. I

         

26



dó - rum

do

Di-li-

 

na - na

na - na

        



D

               

37

nin.

Bi-ri-bi-ri (S. e C.)

38

-

tól - la

           

39

pèn gra - tè

40

mi-tim

a

lèt ch'a són ma -









 

do

 

don

       

don

  

   

don

      Bi-ri-bi-ri-tól - la

           pèn gra - té

mi - tim a

          

Bi-ri-bi-ri - tól - la pèn gra - tè

lèt ch'a

    són ma -




      41

S. e C.

T.

trò - ta

di - na

      

51

pèn gra - té

          

Br. e Bs.

T.

      don don

Br. e Bs.

      don don

don

-

58 (S. divisi)      na - na

se 'na ga

-

lèt

3

len - na lè.un pò

     

 

59

na - na

 don

Don

   Don Don

lé ch'a són ch'a

 

   

 

60

cu

-

na - na

sim 'na

pér rim - pir al tó bu

-

a

són ma

cla pa

     don don don don

 



don

don don

don

don don

ga - li - ni - na ch'a la

  

dèl.

dèl.

Ti-ri -ti-rin-



56

    

mègn pò

 



Don Don

don

don don

don

don don

 

Oh

oh

61

62

tó - za,

 

   

do - mat -

     

  

-

 

Dondon

don don don

 

dèl.

Don

          

    don

-

55

      

don don

-

pér rim - pir al tó bu

      

trò - pa dén un

Don don don

-

pér rim - pir al tó bu

54

e pò

         són ma

49

            

(S. uniti)

ch'a són ma - lé són ma - lé

c'ha

                  (C.)

un pa - rol ed ta - ia - del

don don

53

a

48

                                



lèt c'ha són ma

mi - tim

47

un pa - rol ed ta - ia - del

      

a

pèn gra - té

ti - na,

C.

don don

Ti-ri - ti-rin - di - na pèn gra - té

            

don don don

52

     

57

S. e C.

mi-tim

 

don

                

Ti- ri - ti-rin-di - na

   

don

Don Don

46

                        

    

don don don

45

du fur - mai e 'na ri - cò-ta un pa - rol ed ta - ia - del

  

Don don Don

                 

       

44

pir ba - lò - ta

     

          

50

T.

43

trò -ta

lè ch'a són ch'a són ma

S. e C.

E

                                         

c'ha són ma - lé són ma - lé

Br. e Bs.

 

Pèn Graté 42

don



don don don



don

 63    oh

    

         

oh oh

dén un

                         oh don

se c'la pa se

-

tó - za la nin

vol

dén un


4 S.



 66    

65      

64

na - na

C. I



 

na - na

C. II

T.

    

          Di - li - dó

di - li-don don

na - na

don

don

do

 

vo(l)

don do

don

do

           

 

don do

don

don

          

vo(l)

      

   

   

71

     don

    





don

don

Dili -

  do

do

  don

  

  

do(n) don

do

Di-li





don

don

do

don

          Dili - -dó Dili - - dó dilidondon --

  don

don

don

don do

don

don

don

don

don

don

don

     75

oh



 

don

Dili -

-

Di-li -

 

  subito     

 

    subito  

 

don

don

don

don

dó Di-lidó - di-lidon - don

     don

  



don

don

don

   

 

76

do

don

Dili --

 



do

            

do

do

                 

fa la fa la Oh

   

    

     

don

            

di - li-don don

    don do



(o)

   

la fa la

Di - li - dó

74



Don

         



 

-

don

do

  

  

fa

69      

          

don

73

dó Di-lidó - di-lidon - don

              Dili - -dó Dili - - dó dilidondon --

     

-

  

  

                           do

soltanto alcuni soli

F

68

don

    

72

   

don

  

na - na

(Br.)

Bs.

don

(T. I)

T. II

don

dó Di-lidó - di-lidon - don

T. I e Br.

70

C.

67

 

po a chi la

S.

  

pò a chi la

Br. e Bs.

do(n) don

Di-li - dó



Pèn Graté

Dili - -dó Dili - - dó dilidondon --

     don

don

 don

   do

 


      77

S.

don

C.

don

don

78

dó Di - li- dó di - li-don don

T. I e Br.

don

T. II

    

Bs.

don

83

Soli

S.



 

  

        fa la fa la Oh

  

 









don

don

do

don

        Di - li - dó Di -li - dó di - li-don

don

don

G

  

don

Don

80

oh

don

Di -li

-

 

(uniti)

do

don

  

  

Di - li - dó

Di - li - dó

di - li - don

don

 

    



   

Soli

do

S.

     

T.

    

 



don

don

don

don

  

do

don

82

do

Di-li

-

 

Br. e Bs.

don

don

dó Di - li-dó di - li-don don

 

do

don





 

 

do

don





don

don

don

don

86

  

  

Di - li

Di - li - dó

di - li - don

don

-

    

       

  

  

 

Di - li - dó

Di - li - dó

di - li - don

don

 

   

 

 

  

  





 

  

 

 

 88   

  

  

di - li - don

Di - li - dó

di - li - don

don

rit.

   89

90

91

b.c.(m)

    

5

   

  

(Br. e Bs.)

solo I



  

    

87

don

85

 

b.c.(m)

don

  

(T. I) u b.c.(m) (T. II)

Br. e Bs.

   

81

dó Di - li -dó di - li-don don

don

  

  

   

                                  

   

don

84

solo (soli)

   

 

  

b.c.(m)

T.

la fa la



     

         

Pèn Graté

79

fa

                

    

92

 



  


Dopo il compimento inferiore di pianoforte e la maturità scientifica, dal 2004 studia composizione presso il Conservatorio G. B. Martini di Bologna, dove consegue il compimento inferiore nel 2006 con la prof. ssa Chiara Benati. Attualmente è iscritto al VII anno di Composizione presso lo stesso Conservatorio, nella classe della prof.ssa Cristina Landuzzi, ed è laureando in Ingegneria Informatica presso l’Università di Bologna. La sua attività direttoriale inizia nel 2000 con il Coro Scaricalasino di Monghidoro (BO), con il quale si occupa di ricerca etnomusicologia. Dal 2007 dirige anche la Corale San Sebastiano di Borgonuovo (BO) e il Rave’l Vocal Ensemble, di recente formazione. Dallo scorso anno insegna Composizione al Libero Conservatorio di Musica J. Du Pré di Spilamberto (MO). Nel 2009 le sue Variazioni per corno, archi e marimba sono state eseguite al Teatro Comunale di Bologna nell’ambito della manifestazione “Anno XVI – Il tempo oscuro”. Di recente ha vinto una borsa di studio Fondazione Zucchelli per la composizione in 36 ore di un brano per ensemble su tema dato. Il suo lavoro per coro a cappella Pèn Graté è primo classificato al concorso internazionale di composizione proposto dal Choral Project Group di San Jose (California, USA) diretto da Daniel Hughes ed è stato eseguito, tra l’altro, anche presso la Mission della Santa Clara University (Santa Clara, CA, USA) e la Holy Cross Church (Santa Cruz, CA, USA). Il suo brano Vortici per pianoforte solo si è recentemente aggiudicato il concorso di composizione pianistica per giovani compositori iscritti alle istituzioni AFAM proposto da Divertimento Ensemble (in commissione Sandro Gorli, Alessandro Solbiati e Maria Grazia Bellocchio) ed è stato eseguito in due concerti a Monza e Milano da Maria Grazia Bellocchio, all’interno della stagione Rondò 2010. La sua composizione L’odore della luna per soprano e ensemble è stata eseguita al Teatro Comunale di Bologna il 14 maggio 2010, all’interno de “L’altro Comunale – L’odore della terra, del viaggio e dell’esilio”. MATTEO GIULIANI e-mail: mgiul@tiscali.it web: www.coroscaricalasino.it

28


Farcoro - storia

Terra di Romagna e musica popolare: tradizioni, autori e repertorio di Matteo Unich (*)

L

a Romagna è tradizionalmente una terra abitata da gente sanguigna e ricca di valori: il lavoro della terra, la staticità dovuta a quest’ultimo, hanno creato un forte radicamento territoriale, una grande ricchezza di usanze connesse ai diversi momenti dell’anno e al ritmo dell’annata agricola, aspetti questi che investono anche l’aspetto canoro.

per qualunque altro intellettuale del primo Novecento) una mondina era una lavorante, non un’informatrice, e il suo nome non aveva importanza: contava il brano musicale, non la persona che te l’aveva fatto sentire. Dal ristretto ambito zonale, il Nostro passa ad una ricerca – fatalmente non altrettanto approfondita – su tutto il territorio nazionale, che sfocia in una pubblicazione dal titolo “Saggio di gridi, canzoni, cori e danze del popolo italiano” (Bongiovanni, Bologna). Tornando all’ambito locale, Pratella pubblica, presso lo stesso edicori generaltore, quattro serie di Questi “Cante romagnole” mente si coagulavano atper coro a 4 voci torno alla presenza di un maschili o a 6 voci miste, spesso senza direttore-compositore indicare se si tratti carismatico....... di armonizzazioni proprie di canti preesistenti, o se invece siano brani originali in stile popolare.

Spesso qualificati (non necessariamente a torto) come rivoluzionari e teste calde i romagnoli generalmente tendevano al canto solistico più che a quello corale. Era anche un uso frequente quello del canto a stornello, o quello del canto antifonale, con due voci che si rispondono l’una con l’altra. La lingua era sempre il vernacolo, in quanto nessuno (tranne i sacerdoti o le persone di alto ceto sociale) era in grado di parlare l’italiano, tranne magari qualche parola storpiata. In questo contesto socioculturale si muove Francesco Balilla Pratella, nato a Lugo (Ra) nel 1880 e diplomatosi in composizione al Conservatorio di Pesaro sotto la guida di Pietro Mascagni. Pratella, grande appassionato della propria terra e conoscitore dei canti e delle usanze che questi accompagnavano, inizia una capillare opera di ricerca sul territorio della Romagna. I mezzi sono quelli dell’epoca: bicicletta o calessino per spostarsi, matita e carta pentagrammata per trascrivere i brani. Ora la ricerca etnomusicologica è molto più raffinata: di ogni informatore si annotano nome, età, provenienza, si raccolgono varie versioni del brano, le si confronta, si registrano i contributi in formato mp3. Per Pratella (come

Negli stessi anni un altro avvenimento aveva cambiato il panorama corale romagnolo. Il poeta Aldo Spallicci, altro grande appassionato delle usanze romagnole, aveva avuto l’idea di fondare gruppi corali con l’obiettivo dichiarato di mantenere, tramandare e valorizzare attraverso il canto gli usi e i costumi della terra di Romagna. Spallicci interessò a questo progetto il musicista forlivese Cesare Martuzzi, che si dimostrò subito coinvolto nell’iniziativa. In una memorabile sera, Spallicci e Martuzzi radunarono in un capannone una trentina di contadini, operai, braccianti

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e chiesero loro di cantare i brani che conoscevano. Inizialmente timorosi, gli astanti presero gradualmente fiducia e iniziarono a cantare com’erano abituati gli stornelli e i canti spiegati che li accompagnavano nel lavoro. Martuzzi, diversamente da Pratella, non fissò su carta i canti che gli vennero presentati, ma semplicemente prese da essi l’ispirazione e lo stile melodico per le sue composizioni originali. In questo senso quindi Martuzzi non può essere definito un etnomusicologo, ma semplicemente un compositore interessato all’ispirazione popolare.

seguirono ben presto quello lughese – ispirato da Pratella – e quelli di Massa Lombarda, Imola, San Pietro in Vincoli e Russi. Questi cori generalmente si coagulavano attorno alla presenza di un direttore-compositore carismatico: alla presenza di Pratella (che però non fu mai direttore del coro, lasciando ad altri l’incombenza e tenendosi sullo sfondo) a Lugo e Martuzzi a Forlì, fecero da contraltare le figure di Turibio Baruzzi a Imola, Antonio Ricci a Massa Lombarda, Domenico Babini a Russi e Bruto Carioli (che però non era compositore, e nemmeno musicista professionista, essendo invece titolare di una farmacia) a S. Pietro in Vincoli. Vale la pena di notare che brillano per la loro assenza alcuni dei principali centri della terra di Romagna, quali Cesena, Ravenna e Faenza; a mio avviso, ciò è dovuto

Francesco Balilla Pratella (Lugo, 1880 - Ravenna, 1955)

La nascita delle prime camerate dei Canterini Romagnoli (come Martuzzi e Spallicci definirono il loro primo gruppo) interessò profondamente Pratella, che proprio per questi nascenti complessi scrisse le raccolte delle cante romagnole (la definizione tipica dei brani dei Canterini è proprio così, al femminile: la “canta”) di cui si è detto sopra. Inizialmente i cori erano solo maschili, a quattro voci, successivamente integrati da voci femminili, divise in soprani e contralti, per cui spesso i brani più antichi sono presenti in due versioni, l’una per coro maschile, l’altra per coro misto. Alla nascita del gruppo forlivese

Cesare Martuzzi (Alfonsine, 1885 - Forlì, 1960)

al fatto che in questi ambiti più “cittadini” le tradizioni e il gusto del canto popolare avevano meno attrattiva, e mancava spesso una figura carismatica di riferimento che potesse fungere da catalizzatore dell’interesse. Del resto fino a pochi anni fa (e forse questo tarlo in qualche testa alligna ancora) le parole “popolare” e “artistico”

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venivano messe in contrapposizione, negando che dalla viva voce o dall’estro del popolo potesse nascere qualcosa di artisticamente valido. In tempi successivi Ravenna colmò la lacuna con la fondazione del Gruppo corale Pratella Martuzzi da parte dello stesso Bruto Carioli, mentre non conosco gruppi riconducibili all’esperienza dei Canterini Romagnoli negli altri centri citati.

Tornando alla nascita delle prime camerate, grande fu l’influenza di Spallicci sulla diffusione delle prime cante e sulla nascita di cori che le proponessero in pubblico. Oltre ad offrire le proprie poesie per essere musicate, principalmente a Martuzzi, ma anche Pratella e Guido Bianchi di Coccolia (frazione di Ravenna ai confini con Forlì) compongono brani su suoi testi, egli diffonde le cante con l’ausilio delle riviste “Il plaustro” e “La Piè” da lui fondate la prima nel 1911 (e chiusa nel 1914) e la seconda nel 1920 insieme a Pratella e ad Antonio Beltramelli, letterato, giornalista e conoscitore della Romagna. La lettura delle riviste e la pubblicazione degli spartiti delle cante crearono le condizioni ideali per il nascere di gruppi corali nelle varie città.

Abbiamo quindi il formarsi di due filoni artistici: quello pratelliano, etnomusicologico, che affianca alla composizione originale il recupero e la valorizzazione – attraverso l’armonizzazione, la revisione e l’integrazione dei testi – di brani popolari autentici, e quello martuzziano, non interessato direttamente alla tradizione autentica, ma che da questa trae ispirazione per lo stile e la cantabilità di brani composti appositamente. Nel solco pratelliano troviamo Antonio Ricci, che a Massa Lombarda crea un gruppo, tuttora attivo e a lui intitolato, per il quale armonizza canti massesi o risorgimentali, affiancando ad essi alcune composizioni originali su parole del fratello Ettore. Sulla scia di Martuzzi si pone invece l’imolese Turibio Baruzzi, anch’esso fondatore di un gruppo corale tuttora attivo, e anche in questo caso, oggi a lui intitolato. Vale la pena di ricordare nuovamente che i criteri etnomusicologici del tempo erano profondamente diversi da quelli attuali, e non posso nascondere un sorriso quando leggo, nelle raccolte di Pratella, la fatidica frase “Solo la prima strofa è originale; quelle successive sono state scritte da me in sostituzione delle originali, sconvenienti e licenziose”; inutile dire che, nelle occasioni in cui mi è stato possibile reperire i testi originali raccolti da Pratella, agli occhi attuali di “sconveniente e licenzioso” era rimasto assai poco…

La prima canta romagnola del nuovo stile, scritta ovviamente da Cesare Martuzzi con testo di Aldo Spallicci fu “La majè” (la maggiolata), scritta nel 1908 e presentata al pubblico per la prima volta nel 1910. E’ il caso di notare che nello stesso 1908 Pratella (non ancora contagiato dal futurismo) fa rappresentare, al Teatro Comunale di Bologna, l’opera su libretto proprio “La Sina d’Vargoun” (approssimativamente traducibile in “Rosellina di Vergone”, dove il lettore difficilmente capirebbe qualcosa in più prima di scoprire che Vargoun/Vergone è un personaggio la cui figlia si chiama Sina/Rosellina). In quest’opera Pratella fa espliciti riferimenti alla Romagna: ivi – nelle campagne della zona di Solarolo – si svolge la vicenda, che a sua volta pullula di riferimenti a usanze prettamente locali, e la prima entrata del coro è su una canta tradizionale, ancorché accompagnata dall’orchestra. Nonostante quel che si potrebbe pensare dal titolo, l’opera è in italiano, ed è comunque un melodramma in tre atti, con tutti gli annessi e connessi: grande

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orchestra, coro, coro di voci bianche nel secondo atto, personaggi tradizionalmente strutturati come soprano e tenore nel ruolo dei due innamorati, e il baritono “cattivo”. Non per nulla Pratella era allievo di Mascagni. Il sottoscritto possiede sia il libretto stampato sia la fotocopia dello spartito manoscritto – gentilmente fornito dalla signora Eda Pratella, figlia vivente del Maestro – e ho notato una discrepanza che ascrivo all’intervento di Mascagni. La vicenda si conclude con Sina, la protagonista, che pugnala a morte Selmo d’Zarlett (suo ex fidanzato che l’ha abbandonata), all’uscita della chiesa dove questi si è sposato; nel libretto Sina fugge senza parlare, nello spartito (dopo una pagina e mezzo di cancellature fittissime) si sofferma, trattenuta da un altro personaggio, e urla, senza intonazione: “L’ho ucciso”! Ogni riferimento a Compare Turiddu…

varie partiture tra le quali spicca “La nebia”; altri autori da menzionare sono Alberto Ceccarelli di Forlì, Giuseppe Calamosca di Ravenna e Dante Rava di Lugo. Tra i brani più conosciuti del repertorio dei gruppi di Canterini Romagnoli, ricordiamo anzitutto “La majè”, di Martuzzi su testo di Spallicci, conosciutissima e importante anche storicamente come prima canta del nuovo filone compositivo; “Gli scariolanti”, che è il brano più celebre e che ormai appartiene al patrimonio corale nazionale anche grazie al testo in italiano, raccolta e armonizzata da Pratella; ancora di Martuzzi “A gramadora”, meglio conosciuta come “Bela burdela” dalle prime parole del testo di Spallicci; la dolcissima “Nina nana”, trascrizione di Pratella per coro misto di una melodia popolare; tutta la raccolta dei mesi dell’anno di Guido Bianchi, su testi di Rino Cortesi, per coro misto a sei voci, spesso con solisti (fino a tre, soprano, tenore e baritono, nella canta “Setembar”). Il corpus complessivo delle cante romagnole, tra brani antichi trascritti modernamente e cante originali a partire dai primi anni del XX secolo, consta di circa duecento cante, ed è tuttora in evoluzione: il Gruppo corale “Pratella – Martuzzi” di Ravenna indice periodicamente un concorso per la composizione di cante romagnole, che in edizioni anche abbastanza recenti ha permesso di conoscere brani di autori nuovi, giovani ed entusiasti. Tra questi vogliamo citare in modo particolare il M° Carlo Argelli, direttore del coro “Francesco Balilla Pratella” di Lugo, che ha vinto due volte il concorso con le cante “Ravèna” e “Vos”, entrambe su testi di Nevio Spadoni.

La Camerata dei Canterini Romagnoli di San Pietro in Vincoli, 1930

Le ancora numerose compagini di Canterini Romagnoli, eredi del lavoro della triade Spallicci – Pratella – Martuzzi, tendono a focalizzare il loro repertorio sui brani di questi autori. Accanto a loro e alle figure “zonali” sopra ricordate, vanno citati alcuni altri compositori: Guido Bianchi, nativo di Coccolia, che ha musicato un imponente numero di brani tra i quali spiccano le cante dei dodici mesi dell’anno; Angelo Creonti di Solarolo, eccellente contrappuntista e per lunghi anni docente di Cultura musicale generale presso il Conservatorio “Martini” di Bologna, accostatosi alla composizione in dialetto piuttosto tardi ma autore di un brano conosciutissimo come “Tott um arcorda te”; Dario Mirandola, nativo di Medicina ma operante a Lugo da vari anni, autore di

(*) Diplomato in Trombone; dal 1982 Direttore del Gruppo Corale “Pratella-Martuzzi” di Ravenna; membro della Commissione Artistica dell’AERCO.

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Farcoro - analisi

Aspetti evolutivi della dimensione verticale nella musica veneziana del tardo Rinascimento di Marco Gemmani (*)

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n questo intervento ci proponiamo di indagare su di un fenomeno che si è verificato alla fine del cinquecento, in modo preponderante nella musica veneziana: la nascita di un linguaggio musicale che tenesse conto anche dell’aspetto verticale oltre che di quello orizzontale. Parleremo dei nuovi processi di caduta e ascesa di quinte del basso e del loro inserimento nel sistema polifonico esistente, ma per far questo dobbiamo liberarci dei nostri occhi (e orecchi) tonali e imparare a guardare quella musica con gli occhi di quel tempo. La nostra cultura musicale, che lo si voglia o no, è radicata nel cosiddetto “sistema tonale”, codificato per la prima volta da J. P. Rameau nel suo Traité d’Harmonie pubblicato nel 1722 e più volte rielaborato dai teorici successivi fino a giungere ai manuali di Armonia che ancora oggi vengono utilizzati in tutto l’orbe. Elementi imprescindibili di questo sistema sono: a) una visione sostanzialmente verticale della musica, in cui tutti i suoni simultanei risultano accorpati in accordi; b) l’individuazione di un baricentro temporale e temporaneo detto tonica destinato a stabilire una gerarchia tra gli accordi individuati; c) il tentativo persistente di schematizzare le successioni degli accordi cercando di stabilire quelle da privilegiare. Una certa storiografia, ma anche una certa musicologia, hanno tentato, in un passato anche non molto lontano, di far apparire il sistema tonale come la naturale evoluzione del preesistente, come se la tonalità avesse finalmente messo ordine nel caos che fino a quel momento aveva regnato. Nelle abbondanti trascrizioni di musica rinascimentale e medievale, effettuate in questo periodo, non si incontra nessuna remora a “tonalizzare” le opere antiche, quasi a compiere un gesto di pietosa redenzione. In realtà il preesistente ha avuto caratteristiche ben diverse dal sistema tonale e, spesso, non è andato verso di esso ma anzi, qualche volta, è andato in direzioni del tutto differenti. Nella seconda metà del cinquecento, per una serie di circostanze, la musica conobbe una certa tendenza all’omoritmia. Per omoritmia non si intende che le durate dei suoni dei frammenti musicali siano tutte uguali ma che tutte le voci si muovano sulla stessa sequenza di durate. Esistevano già composizioni tipicamente omoritmiche come la lauda e la villanella e, qualche volta, poteva capitare che anche all’interno di un mottetto vi fossero sezioni omoritmiche. In questo periodo si cominciò a ritenere che alcuni testi, quali ad esempio i salmi, oppure il Gloria in excelsis e il Credo in unum Deum dell’Ordinarium Missae, fossero di dimensioni troppo elevate per permettere un’elaborazione integralmente imitativa, per cui gli autori iniziarono a musicarli utilizzando prevalentemente l’omoritmia. Ne è esempio l’incipit del Gloria della celebre Missa Papae Marcelli di G. Pierluigi da Palestrina.

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G.P. Da Palestrina: incipit del Gloria dalla Missa Papae Marcelli

La scrittura omoritmica permetteva una maggiore compattezza degli elaborati e soprattutto favoriva una migliore comprensione del testo (argomento divenuto piuttosto assillante in quel periodo). Non erano solo gli ambienti ecclesiastici riformisti a chiedere una maggiore intelligibilità del testo ma anche alcuni ambienti laici, specialmente letterari. L’appiattimento, che la presenza di omoritmie produceva all’interno di una partitura, spinse i compositori a porre maggiore attenzione all’unica altra variabile in campo: il ritmo. Una scrittura compattata, che rinuncia volontariamente all’efficace avvicendamento contrappuntistico, deve per forza cercare nuovi elementi di interesse, e uno di questo non può che essere l’alternanza di differenti durate. Nel citato esempio di Pierluigi da Palestrina si può già intravedere un inizio di differenziazione delle durate in cui l’omoritmia non è più caratterizzata da note di lunga durata tutte uguali ma lentamente si accosta sempre più al ritmo insito nella parola declamata. Se, dunque, tutte le parti procedono con lo stesso ritmo allora è importante che questo ritmo sia il più interessante possibile. C’è però un’altra variabile che inizia a fare capolino, ma per evidenziarla è necessario qui citare un altro antefatto. Le opere rinascimentali sono caratterizzate da un severissimo controllo di tipo verticale, vale a dire: tutte le voci attive in un determinato momento devono essere in consonanza perfetta o imperfetta con la nota più grave (la quarta giusta è già trattata da molto tempo come una dissonanza). Le consonanze possono essere in qualunque sequenza temporale, tranne la successione immediata di due consonanze perfette. Dunque massima libertà di movimento, nessuna regola di concatenazione tra le consonanze (di cui invece sarà intriso il futuro sistema tonale), nessuna sequenza preferenziale tra le stesse. Il fluire della musica viene interpuntato solo da cadenze verso le “toniche” modali, le quali non sono così condizionanti come quelle tonali. La scrittura imitativa permetteva di concentrare l’attenzione su un raffinato ritmo di avvicendamento vocale, ma, nel momento in cui l’omoritmia diventa una forma di

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scrittura importante, è necessario imparare a curare anche la successione delle consonanze in modo che anch’essa risulti il più gradevole possibile. Quindi, la nuova variabile, di cui ci occuperemo, è quella verticale, ovvero, cercheremo di indagare circa la preoccupazione che certi autori, principalmente quelli attivi a Venezia, svilupparono nel curare le successioni delle note al grave delle forme omoritmiche. Più tardi questo problema diverrà di capitale importanza e darà vita al concetto moderno di Armonia come arte di concatenazione degli accordi. I motivi per cui tutto questo succede proprio a Venezia sono molteplici, ma ne enunciamo solo due. Il primo e più importante, è che la Serenissima, in questo momento storico, è un immenso laboratorio di produzione e di diffusione di materiale sonoro. La quantità di musica prodotta a Venezia è di gran lunga superiore a quelle di altre capitali europee per cui è naturale che le novità siano sperimentate proprio qui. Il secondo motivo va ricercato nel fatto che queste sperimentazioni avvengono principalmente nelle chiese, ovvero in luoghi in cui si verifica un significativo prolungamento del suono. Questo riverbero produce una fugace compresenza tra il suono prodotto un attimo fa e quello attuale. Ciò obbliga il compositore a ben ponderare la successione delle consonanze altrimenti l’impasto sonoro potrebbe risultare sgradevole. La polifonia di provenienza fiamminga, pur essendo scritta senza seguire nessuna regola in merito alle successioni temporali di consonanze, ha una certa tendenza ad accostare note al grave ad intervalli di terza l’una dall’altra. Ciò accade per una serie di motivi, anche teologici, cui non è qui il caso di accennare. Comunque si può affermare che, storicamente, i fiamminghi hanno in un certo qual modo imposto il dominio delle consonanze imperfette a scapito di quelle perfette per cui è giocoforza pensare che questo dominio sia stato esteso anche alle scelte di tendenza per quanto riguarda le successioni di consonanze verticali. Il seguente esempio mostra quanto questo gioco possa divenire anche molto scoperto. Il frammento è tratto dalla sequenza di Pentecoste del Choralis Costantinus di H. Isaac. La successione di terze melodiche discendenti produce una successione di consonanze verticali in cui la nota al grave si sposta anch’essa prevalentemente di terza.

H. Isaac: frammento dalla sequenza di Pentecoste del Choralis Costantinus

I vantaggi che derivano da questo modo di accostare le consonanze sono molteplici. In questo caso, in cui si è operato a due e tre voci, le consonanze hanno quasi sempre una nota in comune con quelle che le precedono. In un contesto a quattro voci, lo stesso procedimento può provocare la comunanza anche di due note tra consonanze verticali in successione temporale. Già gli italiani della metà del XVI secolo

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hanno allargato la gamma di possibilità aggiungendo la quarta a questi intervalli in successione al grave. Tornando al primo esempio, l’incipit del Gloria della Missa Papae Marcelli, possiamo notare che entrambi i bassi si muovono su una successione di quarte e terze per moto contrario. Se si controllano le note in comune si può verificare che il salto di quarta ascendente permette la comunanza di una nota, mentre il salto di terza discendente permette quella della altre due. E’ molto importante puntualizzare che, nonostante vi sia una grande libertà nel scegliere le consonanze verticali, quasi tutti i compositori di questo periodo scelgono in gran parte di utilizzare le consonanze simultanee di terza, quinta e ottava (la futura triade maggiore o minore), più raramente impiegano quelle di terza, sesta e ottava (il futuro primo rivolto della triade) spesso solo su tempo debole, o comunque non in posizioni di primaria importanza ritmica, e, con molta circospezione, associano quinta, sesta e ottava. Quest’ultima combinazione, dopo una lunga evoluzione, diventerà la prima quadriade del sistema tonale. Il fatto che due gruppi sequenziali di consonanze abbiano o non abbiano note in comune è importante per diversi motivi. Il primo motivo è di tipo concettuale. L’ascoltatore è continuamente alla ricerca di punti di riferimento durante l’ascolto e la ripetizione di un elemento, come ad esempio un frammento di testo, oppure di una piccola sezione musicale, di una successione di accenti ritmici o, più semplicemente, la ripetizione di una nota all’interno di un contesto in evoluzione, è logica fonte di appiglio per la fruizione cerebrale del brano musicale. Il secondo motivo, cui abbiamo già brevemente accennato, consiste nel fatto che se tra due situazioni verticali successive vi è almeno una nota in comune, questo favorirà la gradevolezza fisica dell’ascolto, specialmente in situazioni fisiche in cui il riverbero sia di consistente intensità. Un Andrea Gabrieli (1533 circa - 1585), Maestro di Cappella in San Marco terzo motivo va ricercato nella necessità di alternare diverse situazioni durante l’ascolto. E’ stato più volte dimostrato che il nostro sistema di apprendimento si muove per approssimazioni successive, e, tra uno stadio e l’altro di acquisizione, è necessaria una seppur breve fase di stasi. Tutti i linguaggi sono costruiti in modo da permettere questa alternanza tra un momento di forte impatto e uno successivo di relativo riposo. Quest’ultimo permette la riflessione e l’elaborazione interna che prepara ad una nuova e più positiva capacità di ricezione. Anche la musica, alterna continuamente situazioni di forte comunicazione ad altre più riflessive. Ciò succede sia al livello macroscopico delle grandi strutture (alternanza di movimenti, di situazioni dinamiche, timbriche e ritmiche) sia nel veloce fluire dei singoli suoni. Il mantenere o ripetere anche un singolo suono tra due gruppi sequenziali di consonanze verticali è una possibile garanzia di questa necessaria fase di riposo. Inoltre, l’inserimento di questo elemento di stasi, permette a sua volta un gradito avvicendamento, anche repentino, degli altri suoni. Andrea Gabrieli è il primo autore veneziano che affronta queste problematiche con una certo raziocinio. Nelle sue partiture le successioni di consonanze verticali si trovano ordinate in un modo che sembra studiato con cura. Non dobbiamo aspettarci una organizzazione globale come il successivo sistema tonale.

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Una vera e propria strutturazione del linguaggio musicale esisteva solo per la costruzione dei canoni ed era un sistema che utilizzava il controllo verticale solo come ambiente di formazione dei movimenti e non come fine principale. In ogni caso, anche se ci fosse stato un qualunque sistema di organizzazione, il clima di sperimentazione di quel momento induceva al superamento di ogni forma di schematizzazione. Nell’esempio che segue, un frammento omoritmico del mottetto O Salutaris Hostia tratto dai Concerti del 1587, abbiamo nominato con una serie di lettere maiuscole in grassetto poste tra i due cori i gruppi di consonanze verticali. E’ necessario per noi non considerare questi gruppi come delle triadi anche se ai nostri occhi lo sono a tutti gli effetti, per cui assoceremo a questi gruppi una lettera dell’alfabeto in ordine di apparizione. Se compiamo questo piccolo sforzo di dissociazione dal nostro sistema, potremo entrare nel loro modo di considerare la questione e capirne meglio gli sviluppi. A indica le consonanze di terza, quinta, ottava e replicate con un Re al grave (in entrambi i cori), B indica le stesse consonanze con un Sol al grave, C idem con un Fa al grave, D idem con un Do, G idem con un Sol. E e H indicano le consonanze verticali di terza e sesta, rispettivamente con un Si bemolle e un Mi bemolle al grave. Come già evidenziato in precedenza, questi due insiemi di consonanze si trovano su accento debole della battuta. F e I indicano la dissonanza verticale di quarta (percussione di un ritardo preparato che risolve nell’insieme successivo) e le consonanze di sesta e ottava, rispettivamente con un La e un Re al grave. Questo insieme (che successivamente è diventato il secondo rivolto della triade) si trova solo in prossimità di cadenza.

A. Gabrieli: frammento dal mottetto O Salutaris Hostia

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Infatti le successioni GA a cavallo delle battute 32/33 e AB tra le battute 34/35 sono due cadenze (più tardi chiamate perfette) con procedimento al basso di quinta inferiore, la prima al nono modo trasportato e le seconda al primo trasportato, entrambe con innalzamento della terza (piccarda). Come era facilmente prevedibile le sequenze di lettere non sono assolutamente casuali. Vi sono un certo numero di ripetizioni di cui, viste le premesse sin qui delineate, è possibile capirne la ragione. Alcuni andamenti, come le due sequenze BEFGA (batt. 32/33) e DHIAB (batt. 34/35) hanno moltissime attinenze con la futura cadenza composta. I due accostamenti BE (batt. 32) e DH (batt. 34), che per noi sono dei normalissimi scambi di parti all’interno dello stesso accordo, erano per Gabrieli delle non comuni successioni di due insiemi aventi ben tre note in comune che gli permettevano, proprio a motivo di questa totale comunanza, una migliore stabilità del frammento. Ma le similitudini con le future sistematizzazioni si fermano qui, benché questo che abbiamo presentato sia uno degli episodi in cui il compositore veneziano più si presta ad una lettura tonale. Anche il fatto che i due episodi totalmente simili alternanti (batt. 31/33 il primo e 33/35 il secondo), in cui l’antecedente ha una funzione dominantica sul seguente, va ben al di là delle funzioni tonali e ci introduce nel vero cuore della questione. Se osserviamo i tre momenti in cui ci appare la sequenza AB (batt. 29, 33 e 34/35) dove la nota in comune è un Re, vediamo che, pur avendo tutte le caratteristiche della futura cadenza perfetta, nei primi due casi non lo è assolutamente, cioè non ha quelle caratteristiche risolutive verso una tonica di cui essa sarebbe inequivocabile segnale nel sistema tonale. Questa sequenza si inserisce infatti in quella serie reiterativa di procedimenti alla quinta inferiore del basso (o quelli analoghi e più frequenti alla quarta superiore), detti anche caduta di quinte e che spesso venivano utilizzati come elementi strutturali trainanti nella polifonia di questo periodo. La sequenza speculare ad essa, avente funzioni analoghe, è quella in cui il basso procede per quinte ascendenti (o più frequentemente per quarte discendenti) e viene comunemente chiamata ascesa di quinte. La prima successione di questo secondo tipo che incontriamo è CDB (batt. 30/31). Se leggiamo questa sequenza basandoci unicamente sul secondo coro, il basso procede prima di quinta ascendente (nota in comune Do) e poi di quarta discendente (nota in comune Sol). Questi cambi di direzione del basso sono spesso dovuti unicamente a ragioni di tessitura vocale. Se invece leggiamo entrambi i bassi, la sequenza diventa una successione di quarte discendenti. Il fatto che l’autore veneziano introduca un procedimento di tale spinta di continuità nel momento in cui spezza i due cori, indica chiaramente che il susseguirsi delle quinte Giovanni Gabrieli (1557 - 1612), Maestro di Cappella in San Marco ha la funzione di collegarli più strettamente. La doppia ripetizione di DB (batt, 30/32) conferma e stabilizza il movimento. Analoga funzione di collegamento tra i due cori ha la sequenza in caduta di quinte GABD (batt. 32/34). Come si può ben immaginare, queste sequenze hanno lo scopo di dinamizzare fortemente la partitura, mentre tutti gli altri elementi, come i gruppi cadenzanti già notati, ma anche le note in comune, divengono invece elementi chiaramente stabilizzanti. Per inciso è interessante notare che le successioni di quinte al grave (alla base di alcune fatidiche progressioni dei secoli successivi) divennero, al contrario, elementi di riposo. Analizziamo ora un frammento del mottetto Jubilate Deo di Giovanni Gabrieli, tratto dalle Sacrae Simphoniae del 1597.

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G. Gabrieli: frammento dal mottetto Jubilate Deo

Notiamo immediatamente alcune analogie con il succitato frammento di Andrea Gabrieli. Questa volta tutti gli insiemi di consonanze verticali, tranne l’H, sono costituiti da terza (maggiore o minore), quinta, ottava e replicate. L’insieme H, formato dalle consonanze di terza e sesta (maggiore alterata), è tipicamente cadenzante. In questo caso la cadenza HB conduce al primo modo trasportato (sempre con terza piccarda). Dunque, in questo esempio, il materiale accordale è ancora più fortemente connotato che in quello precedente. La sequenza AB, che ha casualmente identiche caratteristiche di quelle che aveva nel frammento di Andrea Gabrieli, appare anche qui in tre situazioni diverse (batt. 18, 19 e 20/21), senza giungere mai ad una connotazione veramente risolutiva, quale più tardi avrà la analoga cadenza perfetta. Potremmo avere dei dubbi nel secondo caso, quello di battuta 19 e più ancora nel terzo (batt. 20/21), ma se guardiamo più a fondo vediamo che in entrambe le situazioni siamo all’interno di un’ascesa di quarte (o caduta di quinte), ABE nel primo caso e ABEC nel secondo, che collegano l’alternarsi dei due cori. E’ interessante notare che qui, in maniera più evidente che nell’esempio precedente, appare uno dei più efficaci elementi di riposo tra una sequenza di quinte e l’altra: la sequenza BCDEA (batt. 18/19) e la successione EF di battuta 20, le quali sono costituite prevalentemente da una discesa di grado congiunto del basso. Specialmente nel secondo caso è evidente che tale elemento di riposo permette alla sequenza di quinte, in cui è immesso, di condurre l’azione in maniera più efficace. Infatti, pur non avendo i due insiemi di consonanze verticali alcuna nota in comune, ciò permette alla voce superiore di procedere con una scala ascendente e quindi di tracciare un nuovo elemento di riconoscimento molto individuabile.

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Un altro artificio, che in questo esempio è più evidente che nel precedente, è l’uso del passaggio da una sequenza in caduta di quinte ad uno in ascesa. Una specie di “inversione di marcia” che provoca una brusca interruzione nel dinamismo progressivo. La sequenza in caduta ABECE (batt. 20/23) una volta giunta a C inverte la propria rotta e torna su E bloccando l’azione espressiva della successione. La ripetizione a stretto giro di questo ultimo insieme di consonanze verticali (E) lo rende nuovo punto di riferimento su cui l’autore si sofferma per inserire una cadenza. La differenza, che invece balza immediatamente agli occhi, tra i frammenti di Andrea e Giovanni Gabrieli, consiste nel fatto che la successione ritmica di quest’ultimo è decisamente più caratterizzata di quella di Andrea, con inserzioni di frammenti ternari veloci (minima seguita da semiminima, vedi batt. 18/20) all’interno di un andamento binario canonico. Nel frammento di Andrea le lettere di riconoscimento verticale valevano per una durata di una semibreve o di una minima, mentre possiamo ben vedere che in quello del nipote Giovanni tali lettere valgono per una gamma di valori che va dalla breve alla semiminima. Concludiamo questa mini-rassegna di frammenti omoritmici di autori veneziani della fine del XVI secolo con un inciso di Giovanni Croce. Questo autore non possiede la spinta innovativa dei due precedenti ma, anzi, in lui si ravvisa la tendenza alla sistematizzazione di ciò che altri proponevano. Forse ciò è dovuto alla stretta vicinanza che egli ebbe con il conterraneo Gioseffo Zarlino. Il seguente frammento è tratto dal terzo Laudate Pueri dei Salmi del 1597.

G. Croce: frammento dal terzo Laudate Pueri dei Salmi del 1597

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In questo frangente la scrittura del compositore chioggiotto è piuttosto lineare, molto vicina a quella di Andrea Gabrieli. La disposizione delle lettere ci rivela che, mentre i Gabrieli utilizzavano una o al massimo due sillabe di testo per ogni insieme di consonanze verticali, Croce si sofferma più volte sui gruppi, movendo le parti all’interno di essi e utilizzando fino a quattro sillabe per ognuno di essi. Ciò delinea una situazione fortemente affermativa in cui la staticità dei movimenti verticali è compensata da una certa vivacità ritmica e, quindi, in questo frammento il testo e il ritmo sono sganciati dalle successioni delle sequenze verticali. Anche in questo caso, l’unico insieme che non ingloba consonanze di terza, quinta, ottava e replicate è F (batt. 48). Le sequenze ABCD (batt. 44/47) e ABC (batt. 49/50) sono due successioni analoghe in caduta di quinte di cui la prima, piuttosto plateale, ci mostra quanto questa tipologia di consequenzialità fosse ampiamente entrata nell’uso. L’aspetto più interessante è che queste sequenze non dovevano per forza concludersi su di un punto fermo ma anzi più spesso accadeva che portassero a una situazione instabile che poteva prendere qualunque direzione. In questo caso è rimarchevole il fatto che la prima di queste sequenze concluda a sorpresa su E dopo essersi temporaneamente appoggiata su A. Il fatto che la coppia AE costituisca un’ascesa di quinta ci riporta all’analoga ”inversione di marcia” dell’esempio precedente. La sequenza ABCD (batt. 44/47) conclude su E invertendo la propria direzione. La differenza è che questa volta c’è stata una deviazione improvvisa verso A. Il fatto che gli insiemi D e A abbiano in comune due note rende questa rottura della sequenza appena percettibile anche se, per il nostro orecchio, D e A sono due situazioni accordali molto differenti. Concludendo, possiamo riassumere quanto detto ed evidenziato negli esempi, mettendo in luce il fatto che a Venezia, alla fine del sedicesimo secolo, inizi un processo di verticalizzazione in cui le parti tendono sempre più frequentemente all’omoritmia. Ciò comporta l’affermarsi sempre più prepotente della triade come gruppo verticale preferito. Questo gruppo non comporta nessun intervallo di quarta tra le parti in causa per cui è un elemento molto sicuro e molto facile da manovrare. Ma, prima che tutto ciò preluda al sistema tonale, prende vita un’ampia ricerca di come queste nuove serie di situazioni che si vengono a creare, la cui comunicatività è molto veloce ed immediata, possano muoversi agilmente ed elegantemente senza creare inciampi. Vengono messe in campo tutte le abilità al fine di trovare un certo numero di elementi retorici che ne permettano la fruizione. Vengono messe a punto le serie che abbiamo denominato caduta e ascesa di quinte che danno grande slancio alle opere degli autori veneziani. La forza vincente di queste serie è spesso dovuta ad aspetti per noi marginali come ad esempio la comunanza di una sola nota: un legame debole che però permetteva un’alta velocità; oppure la possibilità di “invertire la marcia” per stabilizzare il movimento veloce delle serie. Vengono sondate le possibilità di movimento delle sequenze miste in cui le nuove successioni di quinte inglobano i vecchi passaggi melodici alla terza o alla seconda. Ciò produce nuovi elementi di riferimento uditivo mediante la formazione delle successioni scalari nelle voci acute che dinamizzano visibilmente le partiture. Il tutto porta ad una nuova gamma di elementi che arricchiscono ed accentuano l’alternarsi di situazioni di forte comunicatività con altre più riflessive di cui è costituito il piacevole fluire della musica.

(*) Docente di Musica Corale e Direzione di Coro al Conservatorio “B. Marcello” di Venezia, Insegnante accreditato del Metodo Funzionale e Direttore della Cappella Marciana di Venezia.

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Farcoro - pillole

Preparazione e studio della partitura di Andrea Landriscina

La scelta della partitura

del revisore e, sulla base della struttura compositiva, cercare di ricostruire autonomamente, per quanto possibile, il vero pensiero dell’autore. Ricordiamoci che per secoli la figura del revisore è stata una figura che rielaborava (e spesso stravolgeva) completamente i testi per fare predominare le proprie idee o la situazione contingente in cui operava. 2 - Edizione scolastica: è un tipo particolare di edizione pratica che privilegia l’aspetto didattico rispetto ad altri. Può essere a sua volta sia una edizione scarsamente affidabile, sia una edizione ad alto livello di scientificità. La sua caratteristica è di presentare arcate, fiati, diteggiature, segni espressivi, consigli esecutivi, suggerimenti per la realizzazione di abbellimenti, suggerimenti interpretativi, informazioni storiche sul brano e sull’autore, e tante altre informazioni di importanza didattica. 3 - Edizione scientifica: comprendo genericamente sotto questa terminologia una tipologia molto vasta di tecniche editoriali diverse. In termini generali si tratta di una edizione accurata e attendibile che cerca di rendere conto della volontà dell’autore riscontrabile in un determinato testo o manoscritto. In questa categoria possiamo avere i fac-simili degli originali, le ristampe anastatiche di edizioni curate dall’autore, le trascrizioni fedeli di manoscritti e tante altre forme editoriali sulle quali non mi dilungo. 4 - Edizione critica: è la forma più completa di edizione scientifica e rappresenta generalmente, ove disponibile, un testo col quale, comunque, è meglio confrontarsi. Per edizione critica si intende una edizione che dà contezza di tutte le volontà autentiche dell’autore rispetto all’opera in oggetto, oltre che del funzionamento interno dell’opera stessa. Quindi contiene tutte le varianti conosciute, le indicazioni che l’autore ha aggiunto successivamente alla composizione durante le

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ui non mi occupo della scelta del programma di concerto, problema che non ho intenzione, in questa sede, nemmeno di sfiorare. Quello che mi interessa è far capire che oggi non esiste un solo tipo di testo a disposizione ma talvolta esistono numerose possibilità, che possono rappresentare una grande ricchezza o una enorme confusione. Quando eseguiamo dei pezzi di autori classici, spesso possiamo avere a disposizione numerosissimi tipi di partiture che posso elencare sommariamente per tipi: 1 - Edizione pratica: è un’edizione che nasce da particolari situazioni contingenti, come una specifica esecuzione o una specifica esigenza di mercato; per questo motivo è a volte scarsamente affidabile. Non sempre si capisce se il testo è integro (possono esserci dei tagli o delle omissioni), se è trascritto, se è trasportato o altro, né si capisce se le in............non esiste un dicazioni riportate effettivamensolo tipo di testo a di- siano te del compositore sposizione ma talvolta o di un eventuale esistono numerose pos- revisore. Quando delle partisibilità............. trovo ture di polifonia rinascimentale con quattro diesis in chiave, con legature di fraseggio, con crescendo e diminuendo di frase, con accenti e sforzandi, posso essere sicuro che il compositore aveva scritto ben altro e che l’edizione che ho in mano è frutto di una pesantissima rielaborazione. Se per vari motivi (impossibilità di disporre di edizioni migliori o di poter visionare il manoscritto originale) non potrò fare a meno di utilizzare tale edizione, sarà sempre meglio valutare criticamente il testo, non seguire pedissequamente le indicazioni talvolta assurde

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prove dell’opera, tutte le informazioni disponibili sulle intenzioni dell’autore riguardo all’opera, le varianti di testo o di libretto, le annotazioni dell’autore riguardo all’esecuzione e molto altro ancora. Qualora le fonti autentiche (manoscritti e altro) risultassero perdute, l’edizione critica dà contezza di come l’opera è pervenuta a noi e di come i testi di cui disponiamo discendano dall’ipotetico manoscritto, creando il cosiddetto albero stemmatico, ovverosia l’albero genealogico del testo di cui disponiamo (considerato come figlio) in relazione al manoscritto originale (considerato come capostipite). Anche se dell’opera ne rimanesse un solo manoscritto senza varianti o indicazioni aggiuntive, l’edizione critica analizza l’opera e dalle caratteristiche interne di questa (secondo i criteri dell’ermeneutica, cioè basandosi sul concetto che “un testo spiega se stesso”) si possono spesso dedurre ulteriori considerazioni sulle volontà dell’autore (discrepanze, contraddizioni, omissioni, sviste). L’edizione critica, diversamente da ogni altra edizione, è costituita da due parti distinte: la partitura (o le partiture qualora ci siano numerose varianti) e l’apparato critico, ovverosia il testo che contiene tutte le informazioni e le considerazioni sull’opera, battuta per battuta. Le edizioni critiche a volte permettono delle interessanti possibilità che nascono dalle varianti scritte dall’autore: per esempio un compositore potrebbe avere scritto una determinata parte estremamente virtuosistica in vista di un’esecuzione da parte di un grande virtuoso e in seguito potrebbe aver scritto la stessa parte molto semplificata per una successiva esecuzione da parte di un esecutore meno dotato. L’edizione critica, contenendo entrambe le varianti, permetterà al musicista di scegliere il testo più adatto alla situazione contingente in cui si trova ad operare. Quando un musicista comincia a capire il valore e l’importanza dell’edizione critica, allora viene il momento di passare al naturale sbocco di questa: l’esecuzione critica.

di testi che appartengono alla categoria delle elaborazioni, cioè attività in cui una persona diversa dall’autore modifica l’opera ottenendo una nuova elaborazione (siamo, quindi, nell’ambito delle edizioni pratiche): a) Antologia o florilegio: quando un’opera è composta da tante parti, da tanti numeri musicali, da tante sezioni, l’antologia ne presenta solo alcune, le migliori, secondo il giudizio del curatore, oppure le più famose o le più eseguite. b) Trasposizione: si tratta del trasporto di un brano in un’altra tonalità. È una cosa comunissima nella musica corale, ma frequente anche nella musica per strumenti a fiato e specialmente nella musica vocale per meglio adattare il brano alla tessitura vocale dei cantanti. Molte edizioni pratiche sono trasposizioni di testi per comodità di esecuzione. c) Trascrizione o strumentazione: si tratta della riproposizione di un pezzo per un altro organico, effettuando tutti gli aggiustamenti del caso. Tante volte un pezzo per coro viene eseguito da dei fiati oppure un pezzo per un gruppo di un certo tipo viene eseguito da un organico molto differente. La trascrizione può essere un atto creativo di notevole portata, tanto che esistono numerose trascrizioni d’autore che possono essere considerati autentici capolavori, senza tenere conto che molti compositori erano usi a trascrivere le proprie opere per differenti organici per aumentare la circolazione delle loro stesse composizioni. La strumentazione è concettualmente la stessa cosa della trascrizione, ma si usa questo termine preferibilmente quando da uno spartito per pianoforte o per organico molto ridotto si trascrive per organico molto più esteso, mentre si usa il termine trascrizione generalmente per indicare una rielaborazione verso un organico equivalente o più piccolo. Esempio classico: i celebri “Quadri di un’esposizione” scritti per pianoforte da Mussorgskij e strumentati per orchestra da Ravel. d) Arrangiamento: con questa parola si intende una vasta tipologia di interventi su di un testo musicale che va dalla trascrizione, alla rielaborazione, all’aggiunta di interventi musicali creativi,

Oltre a queste tecniche di edizione, nelle quali viene riportato il testo dell’autore con modifiche minime o nulle, esistono ulteriori tipologie

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alla trasformazione di elementi, alla modifica di strutture, ecc. Praticamente l’arrangiamento può essere sia un differente confezionamento di un pezzo di musica, sia un nuovo atto creativo che porta ad una nuova opera il cui diretto legame con la precedente è, però, chiaro e riconoscibile.

questo non sia previsto esplicitamente dall’editore). E qui, spesso, i costi si fanno molto alti. In molti casi, poi, le parti di esecuzione non sono in vendita, ma vengono noleggiate secondo tariffe che possono essere in base al tempo di noleggio oppure al numero di esecuzioni, quando non in base ad entrambi. Questo comporta che il costo per le parti di esecuzione può essere anche elevatissimo, i prezzi sono stabiliti dagli editori e sono sempre molto alti se li confrontiamo con i compensi che ricevono mediamente i musicisti del settore classico per le loro prestazioni. Non è infrequente che l’acquisto o il noleggio del materiale di esecuzione sia la spesa più grande di tutte, superando i compensi dei musicisti e le spese organizzative. In ogni caso è obbligatorio contattare l’editore o il suo rappresentante nazionale e informarsi della politica commerciale applicata ad ogni singolo pezzo che si intende eseguire. Gli enti lirici e le grandi orchestre generalmente hanno un professionista, l’archivista, che svolge a tempo pieno il compito di procurare, noleggiare, conservare, annotare, distribuire e archiviare le parti d’esecuzione, che richiedono un impegno molto grande. Benché oggi stiano nascendo dei movimenti che vogliono indurre a produrre opere dell’ingegno unicamente come dono degli autori al progresso dell’umanità, l’esecuzione pubblica di qualsiasi opera musicale richiede il pagamento del diritto d’autore, perfino le opere di autori morti da secoli. Le opere di autori morti da almeno 70 anni, infatti, entrano a fare parte del pubblico dominio, quindi possono essere liberamente copiabili; nonostante questo il pagamento del diritto d’autore per l’esecuzione è ugualmente dovuto, anche se poi finisce in un fondo che viene incamerato dalle società per il diritto d’autore (in Italia la SIAE). Se, però, l’opera di pubblico dominio viene eseguita in una edizione tutelata (per es. se eseguo una composizione di Mozart usando una moderna edizione critica) vige ugualmente il divieto di copia e, chiunque utilizzi un materiale di esecuzione, deve sottostare alle regole (e alle tariffe!) imposte dall’editore.

I diritti d’autore Questo è un argomento spesso molto trascurato dai musicisti, e che, quindi, permette di incappare in guai molto seri e in multe sostanziose. Inoltre chi proviene dal mondo della musica da camera, dove è sufficiente avere il proprio spartito in originale, spesso non si rende conto delle macroscopiche conseguenze del diritto d’autore quando si ha a che fare con gruppi numerosi e con complessi materiali di esecuzione. Le opere dell’ingegno sono tutte protette dal diritto d’autore, che è un diritto riconosciuto a livello internazionale e che comporta sia dei diritti a livello puramente giuridico (per es. il diritto a ritirare la propria opera e impedirne l’esecuzione) sia il diritto allo sfruttamento economico. Questo significa che, salvo che questo non sia diversamente specificato dall’autore o dall’editore, è vietata la fotocopia delle opere musicali, tranne che come copia privata di un’opera già posseduta in originale. Mi spiego: io non posso fotocopiare una partitura edita che ho trovato in una biblioteca o presso un amico e utilizzarla per un concerto o per una esecuzione. Se incappo in un ispettore di una società per i diritti d’autore, riceverò, come minimo, una sostanziosa multa. Posso, tuttavia, fotocopiare liberamente una partitura di mio possesso, per esempio per riempirla di ogni tipo di segni colorati, appunti e grafici. Questo vale anche per le parti di esecuzione: per potere eseguire la musica da me scelta dovrò acquistare non solo la partitura originale, e fin qui è ovvio, ma dovrò acquistare pure tutte le parti di esecuzione in originale. Non basta acquistare una parte di coro e fotocopiarla per il numero dei coristi, oppure acquistare una parte di violino e fotocopiarla per il numero dei leggii (sempre che

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