MARMO 10

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A Franco e Filippo

MARMO Rivista annuale

Numero 10, 2021 settembre

Direttore responsabile

Paolo Carli

Direttore

Costantino Paolicchi

Vice Direttore

Aldo Colonetti

Coordinamento editoriale

Eleonora Caracciolo di Torchiarolo

Coordinamento

Manuela Della Ducata

Redazione

Eleonora Caracciolo di Torchiarolo, Nicola Gnesi

Grafica

Silvia Cucurnia, Thetis

Editore

Henraux SpA

Fotolito e Stampa Grafiche G7 sas, Genova

Contributors

Cecilia Alemani, Roberto Bernabò, Chiara Bevilacqua, Jean Blanchaert, Edoardo Bonaspetti, Pickard Chilton, Lara Conte, Andrea Corradini, Turan Duda, Giacomo Faedo, Valentina Fogher, Rosi Fontana, Pierattelli Architetture, Bruna Roccasalva, Andrea Tenerini

Traduzioni

Romina Bicicchi, Daniel Olmos

Fotografie

Archivio Henraux, Archivio Studio Tommasi, Nick Ash, Ilario Bessi, Neri Casamonti, Stefano De Franceschi, Veronica Gaido, Nicola Gnesi, Giovanni Umicini

Copertina Nicola Gnesi

“Stampato sotto gli auspici della Henraux SpA”

Registrazione presso il Tribunale di Lucca no 3/2017 del 24/02/2017

Paolo Carli

LA FONDAZIONE HENRAUX. TRA TRADIZIONE E SPERIMENTAZIONE, UN DIALOGO POSSIBILE

Edoardo Bonaspetti

L’HENRAUX DI PAOLO CARLI. IL BELLO COME MODELLO PROGETTUALE

Aldo Colonetti

L’HENRAUX NELLO SCENARIO INTERNAZIONALE DELLE ARTI. UNA STORIA IN DIVENIRE

Lara Conte

L’IMPIEGO DEI MARMI DELL’ALTISSIMO NELLA SCULTURA DAL 1821 ALL’INIZIO DEL NOVECENTO

Andrea Tenerini

HENRAUX SINCE 1821. LA GENESI DI UNA GRANDE AZIENDA ITALIANA

Costantino Paolicchi DALL’ARCHITETTURA ALL’ARTE, E RITORNO

Turan Duda

LA MORALE DELLA FAVOLA SECONDO NEÏL BELOUFA

Edoardo Bonaspetti

PHILIPPE, IL MARMO, IL PREMIO HENRAUX

Jean Blanchaert

VILLA IL GIOIELLO: IL RESTAURO DI UNA VILLA STORICA A FIRENZE, TRA ATMOSFERE RICERCATE E ANTICHE SUGGESTIONI

Pierattelli Architetture

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SCOLPIRE. NUOVE TECNOLOGIE PER LA SCULTURA LAPIDEA NEI LABORATORI APUO-VERSILIESI

Valentina Fogher

MICHELUCCI, IL MARMO E LO SPAZIO DINAMICO

Chiara Bevilacqua

LA SCELTA DEL MARMO E IL SUO IMPIEGO PER IL “300 COLORADO” DI AUSTIN

Pickard Chilton

LA FOTOGRAFIA COME LINGUAGGIO DELLA VISIONE E SENTIMENTO DEL TEMPO

Costantino Paolicchi

FORME ORGANICHE, MARMO E METALLO. LA SCULTURA DI HANNAH LEVY A NEW YORK

Cecilia Alemani

RISCOPRIRE IL MARMO NELLO SPAZIO PRIVATO

Aldo Colonetti

LEONE TOMMASI. ARTE DI FAMIGLIA

Roberto Bernabò

NAIRY BAGHRAMIAN. MISFITS

Bruna Roccasalva

NOTIZIARIO

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Il titolo della 17. Biennale di Architettura di Venezia di quest’anno è “How Will We Live Together?”: come vivremo insieme?

È davvero questa la domanda cruciale dei nostri tempi ed è con inesauribile stupore che constato come, ancora una volta, sia il mondo della creatività a suggerire la più acuta lettura del presente e a indicarci una strada per il futuro.

Dopo lo scorso anno vissuto in uno stato emergenziale, con l’impossibilità di avere il tempo e lo spazio interiore per giungere a una riflessione complessiva su quanto stava accadendo, quest’anno, nostro malgrado, abbiamo imparato a convivere con una crisi sanitaria che pur sussiste, ma con una minima distanza che ci consente di fare alcune considerazioni.

Alla luce delle questioni che sono al centro delle nostre conversazioni quotidiane con il collega, il vicino di casa, sui social, e che ci inducono a domandarci se ritenere prioritari le nostre insindacabili libertà, diritti e doveri singolari, o le esigenze plurali di una collettività, se essere individui o comunità, “Come vivremo insieme?” è la domanda.

Nel costruire il numero 10 di Marmo mi accorgo che – forse in modo inconsapevole –l’Henraux dà la sua risposta, che non è altro – semplicemente, ma non banalmente – che la sintesi del suo lavoro svolto sin qui. Da duecento anni. E anche di questo importante traguardo parlerò tra breve.

Henraux trova la sua forza – la sua risposta – nella comunità. Trova la sua vitalità nel lavoro, nella fatica, nel pensiero e nelle

energie condivise di centinaia di uomini e di donne che si sono susseguiti al suo interno nell’arco di due secoli e che hanno contribuito, ognuno con le proprie migliori risorse – e con le proprie debolezze, anche –, a creare ciò che Henraux è oggi.

Arrivo a questa riflessione seguendo il racconto che emerge non tanto dai testi, che tra poco andrò a menzionare, ma dalle immagini presenti in questo numero: si alternano foto storiche, d’archivio, in bianco e nero, un po’ usurate dal tempo, a foto recentissime, nitide, colorate, esteticamente agli antipodi dalle prime. Nella loro eterogeneità, un elemento le accomuna: le persone. Che siano fotografie di ieri o di oggi, raccontano una sola storia: l’Henraux è fatta di persone che lavorano. Insieme.

A ciò che narrano le immagini, si uniscono le parole dei nostri collaboratori, che rafforzano questa idea di collettività coesa che emerge dal corpus iconografico. Nell’anticiparle qui, vorrei partire dai contributi dedicati a Philippe Daverio e Giovanni Umicini, recentemente scomparsi. Sono omaggi – il primo firmato dall’amico e compagno di tante avventure di Philippe, Jean Blanchaert, il secondo dal nostro direttore Costantino Paolicchi – carichi di vitalità, sensibilità, di malinconia – certo – ma anche ironia, che restituiscono a entrambi il profilo che spetta loro, ricco di sfumature, di luci e di ombre. Di umanità.

La rubrica “I maestri dell’Henraux”, inaugurata nel numero scorso, ci consegna il ritratto di un artista che è stato capostipite della

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storia dell’arte contemporanea in Versilia: Leone Tommasi. Ne ha parlato con Roberto Bernabò, la nipote Ilaria Tommasi. Il tributo alla storia recente dell’azienda, che è innanzitutto storia di incontri e questi ritratti lo testimoniano, lascia il posto all’approfondimento sui progetti di oggi e alle riflessioni sul presente legate ai temi che ci sono cari: l’arte, il design, l’architettura. Si susseguono così gli articoli dedicati ai progetti realizzati dalla Fondazione Henraux nell’ultimo anno: quello con l’artista franco-algerino Neïl Beloufa per Apple Piazza Liberty a Milano, quello con Nairy Baghramian per la mostra “Misfits” alla GAM –Galleria d’Arte Moderna di Milano e, infine, la scultura di Hannah Levy che Henraux ha prodotto per la High Line di New York. Ne scrivono i curatori: Edoardo Bonaspetti, Bruna Roccasalva e Cecilia Alemani.

Nel campo dell’architettura, una splendida disamina del progetto della Chiesa di San Giovanni Battista “dell’Autostrada” di Giovanni Michelucci firmato da Chiara Bevilacqua, si alterna al racconto delle realizzazioni più recenti cui l’azienda ha contribuito con i suoi materiali e il suo know-how : quello a Washington DC con lo studio Duda | PaineArchitects e quello ad Austin, in Texas, con lo studio Pickard Chilton.

Nell’ambito del design, un pezzo su tutti: l’illuminante riflessione di Aldo Colonetti sui molteplici e nuovi significati che il marmo assume alla luce del nuovo modo di vivere che la pandemia ci ha imposto e che il mondo del progetto non può ignorare.

Una sezione poi del tutto particolare, e che rimarrà unica nella storia dell’azienda, arricchisce il numero attuale di “Marmo”: quella dedicata alla celebrazione dei 200 anni di Henraux.

Henraux nasce nel 1821.

Nel turbinio di emozioni con cui guardiamo a questo traguardo – che solo in parte possiamo festeggiare visti i tempi che corrono – abbiamo cercato di mettere in fila le vicende salienti che ne hanno caratterizzato il percorso, in un viaggio a ritroso

che dai tempi più recenti risale alle origini. Partiamo così con il contributo del direttore artistico della Fondazione Henraux, Edoardo Bonaspetti, che condivide con i lettori la visione che caratterizza il suo lavoro lasciandoci intravedere le frontiere che intende raggiungere nel prossimo futuro. A seguire, nella mia conversazione con Aldo Colonetti ho voluto chiarire qual è l’approccio che caratterizza la mia guida dell’azienda: un approccio che ha voluto innanzitutto interpretare la sua gloriosa storia per poterne trarre le migliori linee guida per l’oggi e il domani. La Fondazione, il Premio Internazionale di Scultura, la ripresa della pubblicazione di “Marmo”, così come tutte le innovazioni tecnologiche che dal punto di vista industriale sono state introdotte in questi anni derivano da questa lettura e si inscrivono nel mio stile imprenditoriale che vorrebbe fare del “bello” un modello progettuale. Dal racconto dell’operato di Erminio Cidonio – della sua visione, dei rinnovamenti che ha apportato, del momento cruciale che ha rappresentato per l’azienda – restituitoci con dovizia da Lara Conte, approdiamo alla ricerca di Andrea Tenerini sulle personalità artistiche che dal 1821 fino ai primi del Novecento hanno collaborato con Henraux, avvalendosi dei suoi marmi e delle sue maestranze. A partire da Giovanni Grazzini e Francesco Pozzi, passando per gli statunitensi Horatio Greenough e Hiram Powers e giungendo fino ad Auguste Rodin, ricchissimo è il patrimonio di conoscenze ed esperienze che questi incontri hanno portato. Con il testo di Costantino Paolicchi veniamo infine a conoscenza della genesi dell’azienda: i passaggi che hanno portato alla sua fondazione e la sua evoluzione sotto il profilo societario fino all’avvento dell’“era Cidonio” nel Secondo Dopoguerra.

E il futuro? “How will we live together?”. La domanda posta dal curatore della Biennale di Architettura Hashim Sarkis, per noi di Henraux contiene in sé la risposta: Come vivremo? Insieme.

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9 Arte
DUECENT O ANNIHENRAUX
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LA FONDAZIONE HENRAUX. TRA TRADIZIONE E SPERIMENTAZIONE, UN DIALOGO POSSIBILE

Dall’incontro con la figura carismatica di Paolo Carli all’accettazione del ruolo di direttore artistico della Fondazione, per Edoardo Bonaspetti il passo è stato breve. Dal racconto sui progetti più recenti emerge chiara la visione della sua direzione, in equilibrio tra una storia da preservare e un futuro all’insegna della sperimentazione.

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DI EDOARDO BONASPETTI FOTO DI NICOLA GNESI Diego Marcon, Ludwig, 2018

Ho incontrato Paolo Carli, presidente di Henraux Spa, nella primavera del 2018 alla Triennale di Milano. In quelle settimane avevo inaugurato una mostra presso l’istituzione e un amico in comune pensò di presentarci, anticipandomi come il suo carisma ed energia avrebbero potuto dar forma a interessanti collaborazioni. Anche la stessa Triennale ne era testimonianza: di recente era stata posizionata nel parco antistante un’imponente scultura in marmo di Emilio Isgrò che Carli aveva prodotto negli stabilimenti storici dell’azienda a Querceta, nell’Alta Versilia. Il titolo, “ll seme dell’Altissimo”, fa riferimento all’omonima montagna da cui Henraux estrae il prezioso materiale dall’inizio dell’Ottocento e il seme – inteso come seme dell’arte, simbolo del potenziale creativo – fa pensare a ciò che la vita può offrire e a come, in alcuni casi, possa sorprenderci nella sua evoluzione. In quell’occasione imparai che le cave erano state scoperte nel Cinquecento da Michelangelo Buonarroti per la commissione della facciata della chiesa di San Lorenzo a Firenze, che l’azienda era stata fondata nel 1821 e che nel corso di quasi due secoli di attività la sua storia aveva interessato l’architettura e la produzione artistica di un vasto panorama internazionale. Paolo Carli mi raccontò dei suoi progetti di valorizzazione della cultura del marmo e dell’eredità di Henraux, e di come nel 2011 si era impegnato a far nascere una Fondazione con il compito di recuperarne la vocazione e lo spirito innovativo nei diversi ambiti delle arti visive, del design e dell’architettura. Il modello di riferimento era la direzione illuminata di Erminio Cidonio, amministratore della società negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, che riuscì a realizzare a Querceta un polo internazionale di scultura, con la presenza di artisti del calibro di Henry Moore, Hans Arp, Henri Georges Adam, Isamu Noguchi, François Stahly, Émile Gilioli, Georges Vantongerloo e numerosi altri, che dettero vita a una stagione artistica e culturale di grande vitalità.

La prima iniziativa della neonata Fondazione Henraux era stata la manifestazione “Volarearte” presso lo scalo Galileo Galilei di Pisa, il principale della

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In alto, Neïl Beloufa, The Moral of the Story, 2021, Milano, Apple Piazza Liberty. Installation view Nairy Baghramian, Misfits, 2021, GAM - Galleria d’Arte Moderna, Milano, installation view A destra, gli artisti Anto. Milotta e Zlatolin Donchev al lavoro nei laboratori Henraux
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Concordammo che il nuovo corso dovesse muoversi lungo due direttrici guida: da un lato realizzare progetti espositivi ambiziosi in Italia e all’estero e dall’altro attivare collaborazioni con istituzioni, musei e artisti a sostegno di produzioni in marmo.

regione. L’iniziativa, realizzata in collaborazione con SAT, Società Aeroporto Toscano, offriva ai viaggiatori in arrivo e in partenza l’opportunità di apprezzare una serie di sculture e progetti site specific , presentati con cadenza biennale. Nel 2012, assieme a Philippe Daverio e Jean Blanchaert, Carli aveva inoltre istituito il Premio Internazionale di Scultura, il primo al mondo integralmente dedicato al marmo. Il progetto, che continua ad oggi, è rivolto ad artisti di età non superiore ai 45 anni e alla creazione di opere che coniughino le antiche tradizioni manifatturiere con le esigenze e le vocazioni dell’arte contemporanea. I partecipanti hanno l’opportunità di confrontarsi con la realtà produttiva unica di Henraux che unisce alta tecnologia e maestranze secolari, seguendo tutte le fasi della lavorazione che trasforma il nobile materiale nel prodotto finito.

L’esplorazione dei limiti e delle proprietà del marmo, legata ad ambiti di creazione e di pensiero innovativi, giova alla stessa azienda, che ha così modo di testare applicazioni, modelli e competenze in un processo di contaminazione virtuosa. Paolo Carli mi evidenziò come tradizione e sperimentazione dovessero convergere, e come questa visione avesse trovato forma lo stesso anno nella monumentale installazione di Mimmo Paladino per la piazza di Santa Croce a Firenze. Per l’occasione Henraux aveva realizzato una monumentale croce di circa 80x50 metri disponendo davanti alla basilica francescana più di cinquanta blocchi di marmo

diversi per dimensioni, forme e colore, contribuendo a trasformare la celebre piazza in uno luogo di partecipazione, spiritualità e arte.

La conversazione con Carli era coinvolgente, c’era una sintonia di visioni e decidemmo in breve tempo di iniziare a lavorare insieme alla nuova edizione del Premio che si sarebbe tenuta di lì a qualche settimana e di cui sarei stato presidente della giuria. I vincitori furono Francesco Arena, David Horvitz e Diego Marcon. È stato particolarmente gratificante per noi collaborare anche con artisti che non si erano mai confrontati con il marmo e che, grazie a tecnologie a controllo numerico, hanno potuto spingere la loro ricerca verso territori inesplorati.

Il sodalizio professionale con l’azienda si confermò l’anno successivo, nel 2019, quando mi fu chiesto di assumere la direzione artistica della Fondazione. Concordammo che il nuovo corso dovesse muoversi lungo due direttrici guida: da un lato realizzare progetti espositivi ambiziosi in Italia e all’estero e dall’altro attivare collaborazioni con istituzioni, musei e artisti a sostegno di produzioni in marmo, materiale di eccellenza della grande statuaria. L’obiettivo era favorirne la conoscenza, dare il nostro contributo a temi culturali rilevanti e alimentare una rete di rapporti virtuosi all’interno del sistema dell’arte internazionale.

Il primo progetto fu la collaborazione con l’artista americana Jenny Holzer in occasione della sua personale alla

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Mimmo Paladino, La grande croce, 2012, Firenze Foto Veronica Gaido
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Jenny Holzer, With You, 2019 panca in marmo Versilys
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Queste collaborazioni e progetti sono spesso seguiti da acquisizioni di opere che arricchiscono la Collezione Henraux, che dal prossimo anno sarà accessibile al pubblico in occasione dell’apertura di uno spazio espositivo presso gli stabilimenti di Querceta.

GAMeC di Bergamo. Il lavoro era composto da nove panchine in marmo grigio Versilys disposte in cerchio nella penombra della Sala delle Capriate a Palazzo della Ragione. Su ogni panchina erano incisi pensieri e versi di poetesse e scrittori che trattavano questioni d’identità di genere, di appartenenza o esclusione. Seguì la collaborazione con l’artista canadese Jon Rafman – riconosciuto per la sua appassionante ricerca sulla tecnologia, i media digitali e il loro impatto sulla società e la vita contemporanea – con il quale la Fondazione ha realizzato “New Age Demanded (Prince Arthur)”, un progetto composto da due grandi sculture in marmo Bianco Canal Grande e Bianco Macchietta installate permanentemente nel centro della città di Montreal.

La consapevolezza di quanto fosse importante avvicinare sempre più persone alle pratiche artistiche contemporanee, ci ha spinti poi a sostenere la produzione di una provocante installazione della giovane artista americana Hannah Levy, inaugurata quest’anno nel parco sopraelevato della High Line di New York. Contestualmente, a Milano abbiamo lavorato con l’artista di origine iraniana Nairy Baghramian e la Fondazione Furla a “Misfits”, una mostra curata da Bruna Roccasalva alla GAM - Galleria d’Ar-

te Moderna che affronta l’idea di gioco come dispositivo educativo in relazione all’esperienza estetica dell’inadeguatezza e dell’imperfezione. Sempre a Milano ho avuto modo di curare “The Moral of the Story” dell’artista franco-algerino Neïl Beloufa presso l’anfiteatro di Apple Piazza Liberty. L’installazione pubblica è composta da quattro postazioni decorate con bassorilievi e intarsi di marmi policromi che raffigurano i capitoli di una favola scritta dall’artista per la figlia. L’esito è uno spazio aperto, partecipativo dove questioni sociali si intrecciano a temi di rappresentazione tra realtà e finzione.

Queste collaborazioni e progetti sono spesso seguiti da acquisizioni di opere che arricchiscono la Collezione Henraux, che dal prossimo anno sarà accessibile al pubblico in occasione dell’apertura di uno spazio espositivo presso gli stabilimenti di Querceta. Lo spazio ospiterà le opere storiche e quelle contemporanee, oltre all’archivio e a un programma di mostre temporanee; la Fondazione si riaffermerà come un centro di sperimentazione per la scultura contemporanea dove supportare artisti e far convergere idee, tradizione e innovazione: insomma, tutto il passato e il futuro di Henraux.

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David Horvitz, A sea, a Mountain, 2018

L’HENRAUX DI PAOLO CARLI. IL BELLO COME MODELLO PROGETTUALE

Restituire al mondo la cultura del bello. È questo il fil rouge che lega l’operato di Paolo Carli, presidente di Henraux dal 2003, in continuità con la figura di Erminio Cidonio. Nascono così la Fondazione, il Premio Internazionale di Scultura e innumerevoli altre attività che restituiscono valore al patrimonio industriale e culturale di Henraux. In una conversazione con il nostro vicedirettore, il presidente ce lo racconta.

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DI ALDO COLONETTI Poalo Carli con Tony Cragg in cava delle Cervaiole Foto Archivio Henraux
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“Volarearte”, 2015. Le opere di Park Eun Sun all’aeroporto di Pisa Foto Nicola Gnesi

Aldo Colonetti: Perché pensi che sia strategico, per un’azienda con una storia di duecento anni, avere una Fondazione? Quando è nata l’idea di organizzarla?

Paolo Carli: Tutto parte da una lettura della storia di Henraux. Quando sono entrato in Henraux nel 2003 ho voluto capire, leggendo documenti del passato, innanzitutto degli anni Sessanta, che cosa avesse rappresentato per questa azienda e per il suo territorio la visione di Erminio Cidonio. Principalmente era importante capire che cosa avesse rappresentato quando arrivò nel 1957 in Versilia. Cidonio, al suo arrivo, aveva di fronte decenni di storia che rappresentavano un percorso industriale, economico e anche sociale. Reinterpretare un momento, che è quello di Cidonio, per me è stato un atto di lungimiranza e un grande sforzo interpretativo nei riguardi di un industriale, ma non solo, perché credo che Cidonio non si vedesse solo come uomo d’azienda. L’industria si è sviluppata in seguito, da noi come in tutta Italia. Basti pensare a figure come Olivetti, Piaggio: il progetto era industriale e culturale perché “il bello” non è solo una categoria dello spirito, ma rappresenta un modello progettuale che sta a fondamento di tutto il nostro Made in Italy. Quindi tornare a quel periodo, rileggere quella storia, per me ha significato rimettere di nuovo in piedi quella particolare sensibilità. L’arte è un percorso che l’Henraux ha dentro di sé: dal 1821 a oggi, la storia dell’azienda è sempre stata legata all’arte, in quanto le grandi commesse venivano da lì. Una volta gli “architetti” erano artisti, l’artista era quello che ti portava la grande commessa. Oggi la grande commessa te la portano l’architetto o il designer, e l’arte è quel qualcosa che ti fa crescere e sviluppare una memoria, fondamentale oggi più di ieri dal punto divista del “fare”. Io ero un giovane imprenditore che si trovava davanti una grande storia industriale, un’azienda proprietaria di cave importanti, un’attività estrattiva di proprietà, un grande brand che stava per celebrare i suoi duecento anni. Mi sono chiesto come reinterpretare questa filosofia industriale e leggendo la storia di Henraux e di Cidonio mi sono accorto che la soluzione ce l’avevo in casa: l’ar-

te, senza dimenticare l’architettura e in seguito il design.

Per noi l’arte è una sfida, per noi l’arte è creare un pezzo unico; tutti i miei collaboratori, dal project manager al manager che gestisce le singole attività produttive, sanno che dialogare con un artista vuol dire accettare una sfida. Il pezzo di un artista è un pezzo unico, ed è finito solo quando l’artista ti dice che ne è soddisfatto. È una sfida verso la qualità, il suo raggiungimento, la tensione verso la perfezione: pensiero e azione, la mente e le mani. Dalla storia all’arte contemporanea, il passo è stato breve e necessario, perché noi viviamo il presente e soprattutto dobbiamo guardare sempre verso un futuro prossimo, raggiungibile.

A.C.: L’arte in un’azienda come Henraux è un’attività per raffinare i processi e i pensieri di tutta la cultura del lavoro aziendale. Come dire che non è soltanto una tua scelta, ma è un patrimonio collettivo presente nella stessa organizzazione produttiva.

P.C.: Io riassumerei così: l’arte è disciplina. Se tu osservi un artista, magari dalla vita apparentemente disordinata, nel suo lavoro è disciplinato, è maniacale. Un artista che vuole realizzare un pezzo e arrivare a un certo risultato, è talmente ossessionato dal raggiungimento del risultato da perdere di vista gli aspetti pratici della vita quotidiana. L’artista più affermato è quello, invece, più pragmatico, quasi “portavoce” di se stesso; è quello che questa maniacalità la sa anche un po’ controllare; osservare il farsi dell’arte è un po’ come analizzare noi stessi, sempre sospesi tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.

A.C.: Concluso un progetto, realizzata l’opera d’arte, credo che tutta questa esperienza sedimentata dentro la fabbrica, si trasformi in uno straordinario capitale culturale, in sostanza nasce qui la ragione e la necessità della Fondazione.

P.C.: Esattamente. La collaborazione con la dimensione artistica all’interno di un’azienda come Henraux rappresenta il cuore, il valore di tutto ciò che facciamo. Oggi affrontiamo l’arte contemporanea, ma il metodo è lo stesso degli anni Sessanta quando Henry Moore arrivava in

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fabbrica: aveva fiducia in un artigiano, che era al suo fianco, nel suo caso Sauro Lorenzoni, che da una piccola maquette , si parla di 10-15 cm, era in grado di sviluppare un bozzetto che sarebbe stato poi rappresentato, punto per punto, in un insieme di dati, trasmessi poi non alla macchina che allora non c’era, ma al compasso che attraverso la progressiva moltiplicazione di questi punti, consentiva, attraverso le mani sapienti dei nostri operai, il passaggio dal bozzetto alla forma monumentale.

A.C.: Importante il passaggio dal compasso alla macchina, perché sta a indicare la relazione tra lo strumento e l’opera, al cui centro – comunque – c’è sempre l’uomo, l’artista.

P.C.: Certamente, era la moltiplicazione del punto su punto del compasso, e ciò che l’artista vedeva in piccolo, l’artigiano lo trasferiva nel grande. L’artista stesso, poi, veniva a rifinire le linee. Oggi invece queste forme le facciamo attraverso la tecnologia, la robotica e i controlli numerici, però continua a essere presente il controllo dell’artista. Per questa ragione si è creata un’altra struttura importantissima in azienda, composta da giovani che sanno leggere e reinterpretare questa cultura particolare che è quella del disegno e dello sviluppo in 3D di una certa forma; certamente la macchina, ma sempre controllata dall’occhio vigile del tecnico e dell’artista. Ora le forme sono sempre più astratte, sempre più espressive, una sfida verso l’irraggiungibile. Cosa è difficile fare oggi? Raggiungere l’estremizzazione di una forma attraverso la materia: tu sai già che c’è una materia che arriva a un punto di rottura e quel punto di rottura è la massima capacità di sviluppo espressivo.

A.C.: A questo punto si comprende molto chiaramente perché sei arrivato a pensare alla Fondazione come elemento strategico della struttura aziendale: non è solo una scelta individuale, rappresenta il futuro

che raccoglie il passato, tenendo sempre l’attenzione al presente, perché è qui che si misura il polso di un’attività industriale.

P.C.: Perché la Fondazione? Innanzitutto, perché quando sono entrato mi sono accorto che tante risorse del passato erano andate disperse, compresa la stessa collezione di Cidonio. Cidonio lavorava così: ti accolgo, ti faccio percepire il marmo, ti metto a disposizione tutta la mia struttura, la materia prima e tutto il resto, ma lasciami almeno qualcosa! E questo qualcosa era un’opera d’arte: quindi aveva creato una collezione unica, di una bellezza assoluta! Altri una cosa del genere se la stanno inventando oggi, mentre noi non dobbiamo inventare nulla: Henraux ha un patrimonio di duecento anni che nasce dalla collaborazione con la grande arte del momento, che parte dall’Ottocento passa dal Novecento e arriva fino agli anni Duemila. La Fondazione era necessaria per dare una forma istituzionale a una storia unica. Questo significa che per formare la Fondazione ci vuole una struttura operativa al proprio interno, si tratti di una o due persone che quotidianamente animano, alimentano e coordinano tutte le attività. I nostri eventi sono ormai conosciutissimi, a cominciare dal Premio Internazionale di Scultura, che ho voluto fortemente, grazie anche alla collaborazione con Philippe Daverio. Non ho fatto altro che rivisitare l’esperienza di Cidonio, Daverio mi ha accompagnato, prima discutendo e poi cercando di dissuadermi da questa mia idea folle, poi, vista la mia caparbietà nel portarla avanti, ormai sfinito, mi ha detto di sì. E da lì è nato tutto: nel 2012 il Premio. Abbiamo riportato giovani artisti a reinterpretare il marmo, un materiale straordinario ma molto difficile da lavorare.

A.C.: Il progetto è anche un segno di attenzione di un’azienda privata verso il proprio territorio di riferimento. È stata compresa secondo te questa proiezione verso il contesto, in modo tale da restituire ciò

Henraux ha un patrimonio di duecento anni che nasce dalla collaborazione con la grande arte del momento, che parte dall’Ottocento passa dal Novecento e arriva fino agli anni Duemila. La Fondazione era necessaria per dare una forma istituzionale a una storia unica.

In alto, lavorazione al robot presso il laboratorio Henraux

Foto Nicola Gnesi

In basso, Paolo Carli con un artigiano durante le fasi di rifinitura a mano presso il laboratorio di rifinitura Henraux

Foto Nicola Gnesi

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La sede della Fondazione Henraux Foto Neri Casamonti

che Henraux in 200 anni ha ricevuto da un luogo così straordinario e unico?

P.C.: Quando ho pensato alla Fondazione, ho subito scelto la via di un sistema misto, pubblico e privato: Henraux spa, Comune di Seravezza, Comune di Stazzema, Comune di Forte dei Marmi e Provincia di Lucca, scegliendo un grande radicamento sul territorio. Purtroppo, non è stato compreso pienamente. Confido sempre in un futuro, principalmente nei giovani talenti, di cui, come è possibile constatare, mi avvalgo molto, sia per quanto riguarda le nuove assunzioni, alcune delle quali vengono dal nostro straordinario territorio, sia in relazione alle collaborazioni con designer, architetti e artisti. L’Henraux deve tramandare la sua storia, è un obbligo che ho come imprenditore che ha deciso di intraprendere questa grande sfida ma anche come “abitante” di un luogo unico al mondo. Mi sono preso l’impegno di tramandarlo alle nuove generazioni, di tramandarlo oltre i duecento anni. Oggi rappresentiamo un’azienda rivolta a un mercato internazionale. Credo che nonostante la crisi attuale, Henraux possieda una tale energia umana così superiore all’energia finanziaria, che ci consente guardare al futuro con ottimismo.

A.C.: La tua Fondazione, per statuto, non produce profitti in modo diretto, ma indirettamente costituisce un elemento valoriale che poi ritrovi nelle capacità produttive, nel vendere al mondo un materiale unico che è anche simbolo non solo di una storia ma anche di un territorio che tutto il mondo ci invidia.

P.C.: L’azienda sa performare bene e lo deve anche ai percorsi artistici.

I percorsi artistici sono quelli che arricchiscono, che alimentano, ed è chiaro e fondamentale che questo patrimonio culturale debba essere difeso.

Ogni giorno impiego tutta la mia energia per difendere un’azienda con duecento anni di storia; una grande produzione all’interno con grandi filiere produttive verticali. Vorrei essere un modello, ma devo dire che non sempre il nostro impegno viene riconosciuto. Abbiamo un sistema burocratico pesante e farraginoso. Noi rappresentiamo la legalità, ci tengo a

dirlo, abbiamo bilanci certificati da almeno otto anni, e quindi ben rappresentiamo la trasparenza amministrativa. Il non essere tutelati o il non essere alleggeriti da tutta questa pesantezza burocratica che ci schiaccia ulteriormente mi preoccupa fortemente e mi rattrista.

A.C.: Parliamo ora dei duecento anni, traguardo strettamente legato a tutto ciò che abbiamo detto.

P.C.: Per me i duecento anni sono un traguardo importantissimo. Quando ho acquisito l’azienda diciannove anni fa, il 2021 era lontano, molto lontano. Ci siamo arrivati in un momento estremamente triste e drammatico per tutta l’intera comunità, a livello mondiale. Leggo all’interno di questi duecento anni una grande potenzialità; l’azienda, nonostante i momenti difficili che ha dovuto superare nel 2020, ha dimostrato una grande tenuta. Stiamo affrontando un 2021 in cui non potremo esprimere al meglio i nostri duecento anni; abbiamo deciso di rinviare al prossimo anno i festeggiamenti, comunque già partendo quest’anno con una serie di progetti, perché 200 anni arrivano una volta sola nella vita.

Sono molto orgoglioso, perché lavoriamo con grande umiltà. Non faremo grandi celebrazioni. Il primo impegno è mettere in ordine questa grande collezione, in modo tale da raccordare la storia passata con le attività svolte negli anni recenti, mettendo in luce l’apertura sul contemporaneo.

A.C.: Possiamo auspicare che nel 2022 lo Stato possa essere presente, per mostrare con un gesto simbolico, che non resta mai solo tale, l’inizio di un altro percorso politico ma soprattutto etico e culturale?

P.C.: Speriamo. Intanto lavoriamo perché questo possa accadere. Tutto ciò che ho fatto in questi vent’anni va in quella direzione: il Premio, la Fondazione, la presenza sul territorio attraverso le mostre, come quelle organizzate negli aeroporti di Pisa e Firenze con la manifestazione “Volarearte”, la scultura di Emilio Isgrò “Il seme dell’Altissimo” inaugurata a Milano davanti alla Triennale in occasione di Expò 2015, aver ripreso la pubblicazione della rivista “Marmo”, quest’an-

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no siamo già arrivati al numero 10. Pubblicare un magazine aziendale con questa assiduità rappresenta un segno di continuità, come aveva intuito Cidonio: è stata la prima rivista che andando sulle scrivanie dei migliori architetti internazionali rappresentava il marmo come un prodotto da coltivare, da capire e da far crescere. Con “Marmo” vogliamo restituire al mondo la cultura del bello.

A.C.: Il marmo è la parte per il tutto; il marmo è sinonimo di Henraux, e nell’immaginario del mondo l’Italia ha alcuni

elementi che la caratterizzano – il design, la moda, il cibo, l’arte, l’architettura – e il marmo li attraversa tutti perché appartiene alla natura e alla cultura nelle sue espressioni più alte. Basti pensare solo a Michelangelo.

P.C.: Infatti il sottotitolo di “Marmo” è: Architettura Design Arte, intendendo così un’interpretazione delle forme e degli spazi in senso ampio, dove queste tre discipline dialogano tra loro, si intrecciano, mantenendo la propria identità per poi ritornare insieme.

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Con “Marmo” vogliamo restituire al mondo la cultura del bello. Veduta esterna della Fondazione Henraux Foto di Neri Casamonti

L’HENRAUX NELLO SCENARIO INTERNAZIONALE DELLE ARTI.

UNA STORIA IN DIVENIRE

Con Erminio Cidonio, arriva per l’Henraux il tempo dell’utopia e della ricerca attraverso il coinvolgimento di grandi scultori e giovani artisti e la promozione della scultura contemporanea, di cui l’istituzione della stessa rivista “Marmo” costituisce un momento fondamentale. Una progettualità mossa non da intenti pragmatici ma da una visione autenticamente illuminata.

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Henry Moore nello stabilimento a Querceta
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Leone Tommasi

«Fare ricerca, per Cidonio, era appassionarsi a ogni proposta o progetto che guardasse al domani, era promuovere iniziative che non potevano avere immediato riscontro produttivo, era incoraggiare modalità e metodi sperimentali dando grande spazio all’utopia».

Un antefatto cruciale

«Mi recai a Querceta, vicino a Forte dei Marmi, in Italia, per la scultura dell’Unesco. Querceta è un paesino sotto le montagne di Carrara. Per me il Monte Altissimo è enormemente eccitante e affascinante. È là che Michelangelo ha passato due anni della sua vita ad estrarre il marmo. Del Monte Altissimo è proprietaria la Società Henraux che commercia marmi e pietre in tutto il mondo»1.

Così Henry Moore ricorda il suo primo incontro con la Versilia; incontro che segna l’inizio della collaborazione dell’artista con l’azienda Henraux. La fortuna e l’impatto della scultura di Moore in Italia, consolidati da mostre e da una crescente attenzione sulla stampa specialistica e divulgativa a partire dal dopoguerra, si fecero ancora più incisivi nella seconda metà degli anni Cinquanta. Era il 1956 quando, ottenuta la prestigiosa commissione per la realizzazione della grande scultura per la sede dell’Unesco di Parigi, Moore scelse di realizzare la sua “Reclining Figure” in travertino romano. Da qui la decisione di recarsi direttamente in Versilia, dove non solo avrebbe potuto scegliere il materiale, ma soprattutto avrebbe potuto giovarsi della collaborazione tecnica degli abili artigiani locali.

Frequenti furono i soggiorni di Moore a Querceta tra il 1957 e il 1958 tanto che, come hanno di recente messo in luce Davide Colombo e Giorgio Zanchetti, «la scultura monumentale in pietra diventa per Moore “un’attività indissolubilmente legata all’Italia per il resto della vita”»2. Gli artigiani locali in un primo tempo si trovarono impreparati ad affrontare il dialogo con le forme della ricerca plastica contemporanea. Ciò che dovette generare stupore fu la decisione dello scultore di utilizzare il travertino romano in luogo del marmo bianco. La perplessità crebbe ancor di più quando Moore mostrò alle maestranze del luogo «una maquette in gesso non più grande di venti centimetri, da cui doveva essere ricavata una statua di oltre quattro metri»3, implicando, di fatto, una rivoluzione dei tradizionali metodi di lavorazione.

Sarebbe stata proprio questa “sfida”, così ben accolta dalla società Henraux e dai suoi collaboratori, a giocare un ruo-

lo determinante per le sorti della storica azienda e per il futuro del comprensorio versiliese tout court

Il progetto di Erminio Cidonio

La presenza di Henry Moore all’Henraux può pertanto essere considerata come l’antefatto di un’avventura che si concretizzò nel corso degli anni Sessanta, assumendo un’articolata fisionomia, grazie alla lungimiranza dell’allora amministratore delegato dell’azienda Erminio Cidonio4, il quale riuscì a dar vita, nel giro di pochi anni, a un progetto di promozione della scultura contemporanea di grande risonanza internazionale, coinvolgendo scultori affermati accanto a giovani artisti, intellettuali e professionisti gravitanti nel mondo dell’arte, dell’architettura, del design e del restauro.

Erminio Cidonio si rese conto che la via da percorrere per dare un nuovo impulso al settore marmifero fosse proprio quella di promuovere l’impiego del marmo nel campo della scultura contemporanea, dell’architettura e della produzione di serie, coinvolgendo grandi maestri e giovani artisti che avrebbero potuto frequentare il laboratorio dell’Henraux, usufruendo della collaborazione degli artigiani locali. Solo in questo modo il marmo poteva tornare al centro del dibattito contemporaneo, smarcandosi dalla pesante eredità fascista e da tutto quel monumentalismo identificato con l’ideologia e l’immagine del regime.

Secondo quanto ricorda Pier Carlo Santini, Cidonio «non fu contento di condividere l’abito praticistico, il pragmatismo arido e calcolatore dei suoi colleghi […]. Il suo fu un dissenso illuminato da acute e precise intuizioni, sostenuto da un entusiasmo costante, mirato al rinnovamento culturale e insieme tecnologico dell’ambiente in cui si trovava a operare. Fare ricerca, per Cidonio, era appassionarsi a ogni proposta o progetto che guardasse al domani, era promuovere iniziative che non potevano avere immediato riscontro produttivo, era incoraggiare modalità e metodi sperimentali dando grande spazio all’utopia»5

Un’utopia – quella di Cidonio – che traeva certamente spunto dai più moderni esempi di imprenditoria industriale volti a coniugare produzione, impegno sociale

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e culturale, in quella curvatura temporale che si estendeva dalla ricostruzione postbellica agli anni del miracolo economico.

Per la concretizzazione del suo originale progetto, l’imprenditore si circondò di abili collaboratori e declinò un progetto diversificato, dando importanza al lato teorico e alla ricaduta pratica, all’immagine internazionale e all’identità locale. In questo senso l’idea di fondare una rivista come contenitore di esperienze e luogo di elaborazione teorica, sembrava il primo passo utile a raccontare e divulgare il progetto. Durante il 1962 Cidonio entrò in contatto con l’editore Bruno Alfieri6, che accettò l’incarico di dirigere “Marmo”, la rivista internazionale d’arte e d’architettura promossa dalla Società di Querceta. A partire da quel momento prese avvio un dibattito e una rete di relazioni che permisero di concretizzare altri aspetti del progetto. Alfieri propose a sua volta come collaboratori e interlocutori Pier Carlo Santini e Giuseppe Marchiori. Quest’ultimo, insieme all’editore, fu prontamente coinvolto da Cidonio nella progettazione di un seminario di scultura per giovani artisti e nell’organizzazione di un museo di scultura contemporanea da allestirsi a Querceta, presso l’Henraux7. L’obiettivo era proprio quello di far convergere in Versilia i più importanti protagonisti della ricerca plastica internazionale facendo sì che tramite le loro opere rimanesse traccia del loro passaggio.

La rivista “Marmo”

Secondo gli accordi intercorsi tra Cidonio e Alfieri, la rivista “Marmo” avrebbe dovuto pubblicizzare i progetti realizzati dall’azienda e raccogliere contributi critici sulla scultura, l’architettura e il design, in modo tale da «creare una piattaforma di cultura moderna, non settaria, internazionale, protesa verso il futuro»8. In essa potevano essere presentate «realizzazioni moderne di artisti, architetti e designers, in qualsiasi materiale, purché vagliate attraverso il filtro della critica d’arte e della tecnica»9. Il marmo è pertanto il tema dominante, ma non esclusivo della pubblicazione.

Alfieri diresse i primi tre numeri, dati alle stampe a cadenza annuale dal 1962

al 1964; la direzione del quarto numero, apparso nel 1965, e del quinto, uscito –dopo un’interruzione di alcuni anni – nel 1971, fu assunta, invece, da Pier Carlo Santini.

I primi quattro numeri riuniscono riflessioni di storici dell’arte, critici e specialisti delle molteplici discipline trattate. Per quanto riguarda la scultura, si segnala l’assidua presenza di Giuseppe Marchiori, che scrisse approfonditi saggi sui grandi scultori che grazie a lui arrivarono all’Henraux. Oltre alla già consolidata presenza di Henry Moore, da lui raccontata nello svolgersi degli anni, si segnalano i contributi dedicati a Hans Arp e Henri Georges Adam10. Stralci di diario, progetti e schizzi di Le Corbusier, Giovanni Michelucci e Alvar Aalto arricchiscono le pagine dedicate all’architettura contemporanea11. Tematiche inerenti all’archeologia, alla storia dell’architettura e al restauro furono affrontate da Piero Sanpaolesi, Marco Dezzi Bardeschi, Brunetto Cartei, Licisco Magagnato e Pier Carlo Santini, il quale curò altresì le pagine destinate al design12

Indubbiamente gli intenti della pubblicazione andarono chiarificandosi nel secondo e nel terzo numero, dati alle stampe, rispettivamente, nel novembre 1963 e nel dicembre 1964. Essi si compongono, infatti, di contributi d’impostazione storico-critica, di una rubrica consacrata interamente al marmo intitolata, per l’appunto, “Marmorama” e di un “Notiziario Henraux”. Quest’ultima sezione illustra i progetti condotti e portati a termine dall’azienda in quel fecondo biennio; progetti che spaziano dall’architettura al restauro, dall’ industrial design alla scultura contemporanea.“Marmo 2” presenta un servizio sull’Albergo Cavalieri Hilton di Roma (alla cui progettazione presero parte Franco Albini, Franca Helg, Ignazio Gardella e Melchiorre Bega), in cui i marmi dell’Henraux trovarono ampio impiego nella pavimentazione e negli arredi. Un’intervista di Giuseppe Patané a Ugo Blätter, pubblicata anch’essa sul secondo numero della rivista, documenta la realizzazione del pavimento per il portico di San Pietro progettato da Giacomo Manzù, i cui lavori furono condotti dal dipartimento “Ricostruzione e Arte Sacra” della società versiliese13

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Artigiani dell’Henraux posano la grande pavimentazione del portico di San Pietro progettato da Giacomo Manzù

Su “Marmo 3” sono fornite approfondite informazioni sulla ricostruzione dell’Abbazia di Montecassino distrutta dalle bombe della seconda guerra mondiale, il più grande intervento di restauro cui l’Henraux collaborò e che vide impegnate le maestranze dell’azienda per più di un decennio14

Il progetto del centro per la scultura contemporanea

A partire dal 1963 il progetto di Cidonio, volto alla creazione di un centro per la scultura contemporanea a Querceta, venne ad assumere una fisionomia ben definita, come testimonia altresì la rivista, nella quale sono pubblicizzati i seminari di scultura organizzati da Alfieri e Marchiori, che si tennero nei mesi estivi del 1963, 1964 e 1965, e sono parimenti documentate le presenze degli artisti che, in quegli anni, visitarono l’Henraux.

I giovani scultori inviati ai seminari ebbero l’opportunità di confrontarsi con il marmo (a ogni artista veniva messo a disposizione il materiale occorrente per l’opera da eseguire) e di giovarsi dell’assistenza tecnica delle maestranze locali. In base a quanto disposto dal regolamento, le opere realizzate durante i seminari sarebbero rimaste di proprietà dell’azienda e avrebbero formato una raccolta di scultura, previo parere della commissione giudicatrice15. L’intento era quello di «condurre i giovani scultori sul terreno della maturità professionale, del lavoro su materiali che non consentono se non un colloquio diretto e intimo tra l’opera e l’artista, al di fuori di ogni forzato intellettualismo»16. Gli artisti prescelti per la prima edizione furono Marisa Mauri, Silverio Riva, Paolo Icaro e Guido Pinzani; per la seconda Fumio Otani e Antoine Poncet; e per l’ultima Juan Dries, Bruno Raspanti e Aldo Dezza. Se per alcuni quell’esperienza si rivelò una breve parentesi all’interno del loro percorso creativo che proseguì verso tutt’altre sperimentazioni, per altri costituì l’inizio di un’assidua collaborazione con l’azienda e di una duratura frequentazione del territorio apuo-versiliese. È il caso, per citare un esempio, di Antoine Poncet. Il 1964 fu un anno cruciale per lo svi -

luppo del progetto legato alla scultura contemporanea. Frequentarono, difatti, l’Henraux Henry Moore, Hans Arp, Henri Georges Adam, Isamu Noguchi, François Stahly ed Emile Gilioli. Come osserva Marchiori, «l’interesse per le iniziative di carattere culturale della Henraux, relative all’impiego del marmo nel secolo del ferro e delle saldature autogene, si manifesta in artisti di ben diverse, anzi spesso antitetiche, formazioni»17

Noguchi progettò una risistemazione del giardino, nel quale doveva essere allestito il primo nucleo di sculture del museo, di cui – a quanto riferisce lo stesso Marchiori – si stava già tanto parlando nel mondo internazionale delle arti.

Durante l’estate, Arp si trovava a Querceta per dare gli ultimi ritocchi al “Paysage Bucolique”, la grande scultura con cui l’azienda versiliese scelse di farsi rappresentare alla Fiera di Milano del 1964. Si legge su “Marmo”: «Arp, indossato un camice bianco da medico, s’è messo a lisciare con carta vetrata ed una raspa finissima una curva che gli sembrava troppo accentuata. Arp accarezzava quasi la sua scultura e la polvere bianca sollevata faceva apparire più lunare del solito il volto spirituale dell’artista. Bianco su bianco in un volto, che assume le inattese espressioni di curiosità, di distacco, d’ironia, di spirituale armonia, e talora di farsesca buffoneria, tipo Dada»18

Quando Arp ripartì per Meudon, giunse all’Henraux François Stahly che successivamente avrebbe inviato un bozzetto da far tradurre in marmo per il museo. Presso il laboratorio erano inoltre in lavorazione opere di Alicia Penalba e di Georges Vantongerloo, storico fondatore di De Stijl, il quale, nell’autunno del 1963 aveva inviato il bozzetto di “Constructions dans une sphère”, il cui originale in gesso risaliva al 1917. Gli esperti operai dell’azienda, che avevano peraltro da poco terminato il monumento di Adam per Vincennes, eseguirono la trasposizione in marmo per la collezione. L’Henraux stava diventando «un cantiere scultorio europeo»19. Nell’estate del 1965, si registrano le presenze di Antoine Poncet, Alicia Penalba, Emile

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Gilioli, Isamu Noguchi, Pietro Cascella e Henri Georges Adam.

«C’è qui Adam che sta terminando il grande muro per il castello di Chantilly – riferiva Marchiori su “Marmo” –. Un muro composto di elementi appena sbozzati, con profonde incisioni, di bella orditura geometrica, linee che si intersecano, apparentemente casuali come graffiti. I massi sono di differenti colori e di forme spesso quasi naturali. Vanno collocati su uno specchio d’acqua» 20 . E proprio alla grande fontana di Adam per Chantilly, Santini dedicò un approfondito saggio – pubblicato anch’esso su “Marmo 4” – corredato da splendide fotografie di Ugo Mulas, in cui descrisse il processo di realizzazione plastica del monumento, per la creazione del quale lo scultore aveva sfruttato appieno l’apporto tecnologico dei macchi-

nari dell’azienda versiliese, dando vita a una perfetta integrazione tra il lavoro dell’artista, delle maestranze e delle macchine21

Dopo l’estate del 1965, si profila per l’azienda versiliese un periodo di intensi cambiamenti.

Per quanto riguarda il progetto dedicato alla scultura contemporanea, sopraggiunsero problemi finanziari legati, presumibilmente, alla pubblicazione della rivista e all’organizzazione dei seminari.

Nell’agosto del 1965 l’editore Bruno Alfieri concluse la sua collaborazione con la società. La direzione del quarto numero di “Marmo”, pubblicato nel dicembre 1965, fu infatti assunta da Pier Carlo Santini.

Nel gennaio del 1966, Cidonio, che già

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Erminio Cidonio con Hans Arp al lavoro su una scultura Foto Ilario Bessi
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A destra, Joan Miró, Oiseau solaire, 1968, marmo bianco

Dopo l’uscita di Cidonio dall’Henraux, fu sospesa la pubblicazione della rivista. Il cambio di direzione riuscì tuttavia ad assicurare una continuità al progetto del museo di scultura, grazie anche alla collaborazione di Giuseppe Marchiori.

nel maggio aveva rinunciato alle cariche di direttore amministrativo e di direttore tecnico, decise si lasciare l’Henraux. La carica di amministratore delegato fu pertanto assunta da Giuseppe Formai. Purtroppo, dopo l’uscita di Cidonio dall’Henraux, fu sospesa la pubblicazione della rivista 22. Il cambio di direzione riuscì tuttavia ad assicurare una continuità al progetto del museo di scultura, grazie anche alla collaborazione – seppur meno assidua rispetto agli anni precedenti – di Giuseppe Marchiori. Durante la seconda metà degli anni Sessanta, artisti di fama internazionale continuarono, pertanto, a frequenta -

donarono espressamente una loro ideazione plastica, o a titolo gratuito o in cambio di fornitura di materiali. Tra le sculture che in quegli anni confluirono nella collezione, si possono ricordare, “Oiseau solaire” di Joan Miró , “Unidades yunta” di Pablo Serrano , “Rencontre dans l’espace” di Maurice Lipsi e “Ghibellina II” di Giò Pomodoro26.

Vicende collezionistiche e nuove prospettive

Con l’inizio degli anni Settanta, l’avventura dell’Henraux nell’ambito della scultura contemporanea si sarebbe avviata alla conclusione. A scandire

re il laboratorio Henraux e inviarono opere per il museo. Uno spoglio della corrispondenza conservata nell’Archivio Storico dell’azienda, permette di tracciare un elenco piuttosto dettagliato delle sculture che, in quel quinquennio, arricchirono la collezione, e di definire altresì le modalità di acquisizione delle medesime: in alcuni casi gli artisti autorizzarono l’esecuzione di una copia dell’opera che era in corso di realizzazione presso il laboratorio; in altri casi

i confini cronologici di quell’entusiasmante stagione si pongono due eventi: la pubblicazione dell’ultimo numero di “Marmo”, dato alle stampe nel novembre del 1971, dopo un silenzio di alcuni anni, e la mostra tenutasi nel Cortile d’Onore di Palazzo dei Diamanti di Ferrara nel 197227, in cui le sculture della collezione versiliese poterono essere apprezzate in tutto il loro splendore. In quell’occasione furono esposte opere di Hans Arp, Giovanni

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Le copertine dei primi cinque numeri di “Marmo”

Benvenuti, Carmelo Cappello, Pietro Cascella, Nino Cassani, Lynn Chadwick, Gaetano Di Martino, Joan Dries, Richard England, Agenore Fabri, Maurizio Giannotti, Rosalda Gilardi, Emile Gilioli, Gigi Guadagnucci, Maurice Lipsi, Juan Mirò, Luigi Mormorelli, Rosario Murabito, Isamu Noguchi, Maria Papa, Alicia Penalba, Giò Pomodoro, Antoine Poncet, James Ritchie, Branko Ruzic, Giannetto Salotti, Adolfo Saporetti, Pablo Serrano, Carlo Sergio Signori, François Stahly, Alina Szapocknikow, Cornelia Von Den Stein, Georges Vantongerloo e Giorgio Zennaro.

Di lì a poco, l’organica e raffinata raccolta sarebbe stata smembrata. Infatti, il 31 dicembre 1973, ben venticinque opere furono acquistate dalla Banca Commerciale Italiana, lasciando definitivamente l’Henraux nel luglio del 1976. Grazie a Pier Carlo Santini, alcune sculture fecero una temporanea ricomparsa in Versilia nel 1984. Il critico lucchese curò, difatti, presso il Parco della Versiliana, la “Rassegna Marmi del parco”,

NOTE

1 “Henry Moore a Forte dei Marmi e in Versilia. L’Uomo, l’artista”, catalogo della mostra (Forte dei Marmi, LU, Galleria Civica d’Arte Moderna, 1998), Pisa 1998, p. 9.

2 D. Colombo, G. Zanchetti, “Moore: viaggio in Italia”, in “Henry Moore” catalogo della mostra (Roma, Terme di Diocleziano, 2015), a cura di C. Stephens e D. Colombo, Tate Electa, Milano 2015, p. 166.

3 Testimonianza di Vando D’Angiolo, in “Henry Moore”…, cit., p. 47.

4 Erminio Cidonio, nato a Rocca di Mezzo (AQ) il 13 ottobre 1905, fu nominato amministratore delegato dell’Henraux il 29 aprile 1957. Il 31 maggio 1961 assunse la carica di direttore generale. I documenti conservati presso l’Archivio Storico Henraux [ASH] attestano che, in data 30 maggio 1963, ricopriva le cariche di amministratore delegato, di direttore generale e di direttore tecnico.

5 P. C. Santini, Introduzione, in “Marmi nel parco”, catalogo della mostra (Marina di Pietrasanta, LU, Parco della Versiliana, 1984), a cura di P. C. Santini, Pietrasanta 1984, p. 16.

6 Gran parte delle informazioni sul progetto editoriale di “Marmo” sono desunte da una conversazione intercorsa con Bruno Alfieri il 25 marzo 2004 a Milano, presso Automobilia s.r.l. – Società per la Storia e l’Immagine dell’Automobile. Per uno studio della rivista “Marmo”, si rimanda a L. Conte, “La rivista ‘Marmo’ ”, in “Da “Marmo” al marmo. 1962 –1972”, catalogo della mostra (Seravezza, LU, Palazzo Mediceo, 2004), a cura di A. Tosi, con la collaborazione di L. Conte e A. Salvadori, Saravezza 2004, pp. 25 – 33; L. Conte, “‘Marmo’: una rivista internazionale degli anni Sessanta, tra architettura, scultura e design”, in “Marmo”, a. I, dicembre 2016, pp. 20-28. 7 Grazie ad una lettera conservata presso l’Archivio Marchiori, pubblicata da Anna Vittoria Laghi, è stato possibile fissare al luglio 1962 l’inizio della collaborazione fra il critico e l’imprenditore dell’azienda versiliese. Per uno studio approfondito del rapporto fra Erminio Cidonio e Giuseppe Marchiori, si rimanda a

A.V. Laghi, “Cidonio, 1963 – 1965: cronaca di un’utopia”, in “X Biennale Internazionale Città di Carrara. Il Primato della scultura. Il Novecento a Carrara e dintorni”, catalogo della mostra (Carrara, 2000), a cura di C. Bordoni, A.V. Laghi, A. Paolucci, Siena 2000, pp. 280 – 285; A.V. Laghi, “Giuseppe Marchiori, l’Henraux e i “suoi” scultori, in Da Rossi a Morandi, da Viani a Arp. Giuseppe Marchiori critico d’arte”, catalogo della mostra (Venezia, Fondazione Bevilacqua La Masa, 2002), a cura di S. Salvagnini, Venezia 2001, pp. 97 – 109. A.V. Laghi, “L’Henraux di Querceta (1962-72) e i suoi scultori”, in “Da “Marmo” al marmo”, cit., pp. 13 – 21.

8 B. Alfieri, “Una nuova rivista”, in “Marmo”, n. 1, dicembre 1962, p. 13.

9 Ibidem.

10 “Lo scultore Henry Moore”, in “Marmo”, n. 1, dicembre 1962, pp. 22 – 47; “Jean Arp, 50 anni di creazione”, in “Marmo”, n. 2, novembre 1963, pp. 21 – 57 (con pubblicazione di due poesie di Arp); “Adam scultore monumentale”, in “Marmo”, n. 3, dicembre 1964, pp. 28 – 39.

11 Le Corbusier, “Sur l’Acropole”, in “Marmo”, n. 2, novembre 1963, pp. 17 – 21 (pagine di diario del 1910; indicate in rivista come pubblicate in “Almanach d’architecture moderne”, Collezione Esprit Nouveau, 1925); G. Michelucci, “Appunti”, in “Marmo”, n. 2, novembre 1963, pp. 61 – 63; E. Brunori, “Incontro con Michelucci”, in “Marmo”, n. 2, novembre 1963, pp. 63 – 75; L. Mosso, “Il Vogelweidplatz di Alvar Aalto”, in “Marmo”, n. 4, dicembre 1965, pp. 8 – 51.

12 Si segnalano i seguenti contributi: P. Sanpaolesi, “Il cantiere di Artemide a Sardi”, in “Marmo”, n. 2, novembre 1963, pp. 75 – 87; M. Dezzi Bardeschi, “Nuove ricerche sul S. Sepolcro nella Cappella Rucellai a Firenze”, in “Marmo”, n. 2, novembre 1963, pp. 134 – 161; P.C. Santini, “Oggetti in marmo di Enzo Mari”, in “Marmo”, n. 3, dicembre 1964, pp. 130 – 132.

13 Realizzato su commissione di Papa Giovanni XXIII in occasione del Concilio Vaticano II del 1962.

14 B. Cartei, “Il restauro delle tarsie marmoree

ipotizzando un possibile percorso museale per l’esposizione della collezione versiliese, studiato in collaborazione con l’architetto Giuseppe Davanzo.

Nel 2000, parte della raccolta fu esposta nell’ambito della X Biennale Internazionale di Carrara, in una sezione ordinata da Anna Vittoria Laghi. Un ulteriore momento di studio è stato fornito dalla mostra “Da “Marmo” al Marmo. 19621972” curata da Alessandro Tosi, con la collaborazione di Alberto Salvadori e di chi scrive, tenutasi nel 2004 presso il Palazzo Mediceo di Seravezza. In quell’occasione è stato proposto un percorso espositivo che ha privilegiato la presentazione delle opere tuttora conservate nella collezione della società Henraux (comprendente sculture e bozzetti), in attesa che il futuro progetto di riordino museale promosso dalla Fondazione Henraux possa conferire la giusta visibilità a queste opere e alla narrazione visiva di una storia che declina al presente l’identità dell’azienda nello scenario economico e culturale globale.

di Montecassino”, pp. 97 – 112; A. Dini, “L’allestimento della Henraux a Palazzo Grassi”, pp. 113 –122; G. Nuti, “Nota sull’esposizione del restauro di Montecassino”, pp. 122 – 130.

15 Seminario Henraux di Scultura. Regolamento, ASH.

16 B. Alfieri, “Il primo seminario Henraux della scultura”, in “Marmo”, n. 2, novembre 1963, p. 212.

17 C. V. (Giuseppe Marchiori), “Artisti alla Henraux”, in “Marmo”, n. 3, dicembre 1964, p. 134.

18 C. V. (Giuseppe Marchiori), cit., p. 141

19 C. Volta (Giuseppe Marchiori), in “Marmo”, n. 4, dicembre 1965, p. 202. 20 Ibidem.

21 P.C. Santini, “La grande fontana di Adam per Chantilly”, in “Marmo”, n. 4, dicembre 1965, p. 110.

22 Cidonio avrebbe dato seguito altrove al progetto di creare un centro internazionale per le arti visive in Versilia. Negli anni successivi aprì difatti, all’Argentiera di Seravezza, il laboratorio “Officina”, che si sarebbe orientato verso il design.

23 L’opera è databile alla fine degli anni Sessanta. Cfr. A.V. Laghi, scheda, in “X Biennale Internazionale…”, cit., p. 256.

24 L’opera fu realizzata presumibilmente a cavallo fra il 1968 e il 1969. Cfr. lettera inviata all’artista in data 14 marzo 1969, conservata presso ASH.

25 L’opera fu realizzata presumibilmente nel corso del 1968. Cfr. lettera inviata dall’artista alla società Henraux in data 17 gennaio 1968, conservata presso ASH.

26 L’opera fu donata alla società nel gennaio 1969. Cfr. lettera inviata dall’artista al Direttore Generale della Società Henraux in data 9 gennaio 1969, conservata presso ASH.

27 La mostra si tenne dal 1° luglio al 30 ottobre. Fu organizzata dall’allora direttore dell’azienda, Mario Paiotti, con la collaborazione di Tacconi e Citi.

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L’IMPIEGO DEI MARMI DELL’ALTISSIMO NELLA SCULTURA DAL 1821

ALL’INIZIO DEL NOVECENTO

Pur nella difficoltà del reperimento delle fonti, l’autore consegna ai lettori una documentata quanto preziosa indagine sull’uso dello statuario dell’Altissimo nella grande scultura europea e internazionale durante i primi cento anni di attività dell’Henraux.

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Ernest Christophe, La commedia umana

La presenza a Seravezza di materiale che si prestava «ad ogni genere di Lavorazione Scultoria» era stato confermato da tutti gli autorevoli artisti che i due, forti delle rispettive amicizie, avevano portato in Versilia.

La scomparsa dall’archivio Henraux delle più antiche testimonianze relative alle forniture del materiale impedisce di ricostruire in modo sistematico, muovendo dall’epicentro, una storia dettagliata sull’utilizzo del marmo versiliese nella scultura del periodo che dal neoclassico conduce alle prime avanguardie novecentesche. Per tentare un primo bilancio sul tema, inevitabilmente sommario e forzatamente discontinuo, occorre indirizzare le ricerche nello studio delle pubblicazioni sui diversi artisti e sul vaglio della pubblicistica dell’epoca o sugli archivi stranieri. Quelli francesi, in particolare, risultano ricchi di documentazione, ancorché scarsamente studiati. Presentano tuttavia delle difficoltà dovute al fatto che negli atti lo statuario è spesso definito, in modo generico, come «proveniente da Carrara»

Alla base del sodalizio avviato tra l’ex ufficiale napoleonico Jean-Baptiste Alexandre Henraux e Marco Borrini per la riapertura delle cave dell’Altissimo vi era un progetto piuttosto ambizioso che, avvalendosi dei rapporti di entrambi, partiva dall’estrazione e vendita del marmo per l’architettura e per l’ornato per giungere a quello, più prestigioso, della statuaria.

La presenza a Seravezza di materiale che si prestava «ad ogni genere di Lavorazione Scultoria» era stato confermato da tutti gli autorevoli artisti che i due, forti delle rispettive amicizie, avevano portato in Versilia. Così già all’inizio del 1823, a poco più di due anni dall’avvio dell’impresa, il cavalier Cordero di San Quintino, in una corrispondenza alla Reale Accademia delle Scienze di Torino seguita ad un’escursione alle cave, poteva riferire di aver visto «…in Firenze sul finire del 1820 il primo esperimento che si fece del nuovo marmo statuario di Seravezza il quale corrispose pienamente alla comune espettazione. Un valente scultore toscano prese a ritrarre in profilo l’effigie del Granduca

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Francesco Pozzi, Latona e i suoi figli

Ferdinando Terzo, e circondò il bassorilievo di un ornato così sottilmente intagliato, e di una ghirlanda di fiori condotta con tanto amore, che ogni sua foglia, ogni sua fronda vi èė tirata a capello come se fosse di cera candidissima e trasparente, anzi che di sasso». Dopo la prova, la fama dei nuovi marmi si era sparsa con tanta rapidità che, come ricordava il numismatico, archeologo e storico dell’arte, «anche il Cavaliere Tordwalsen ha voluto in questi giorni preferirlo ad ogni altro per trarne il busto dell’Imperatore Alessandro». Quasi in contemporanea con la ripresa dell’attività estrattiva era stato aperto un laboratorio artistico a Seravezza e il marmo era stato fornito agli scultori Giovanni Grazzini e Francesco Pozzi, perché ne traessero delle opere. Se il primo aveva plasmato il citato “Ritratto del Granduca”, che prodotto in modo seriale fu acquistato da diverse amministrazioni toscane, con la pietra versiliese Pozzi aveva dapprima realizzato una figura di “Iside” e, nel 1825, il gruppo raffigurante “Latona con i figli”, lavoro celebrato per la nitidezza, la bellezza e la tenacità del materiale.

Verosimilmente per merito dell’intercessione di San Quintino, il piemontese Giacomo Spalla, il maggiore scultore di monumenti nella Torino di Vittorio Emanuele I, nel luglio dell’anno successivo, dopo una visita alle cave, aveva acquistato diversi blocchi di statuario per l’esecuzione di alcuni rilievi dedicati alle vittorie sabaude. In una lettera inviata a Borrini nel febbraio 1827 l’autore elogia i marmi avuti «tanto per la loro candidezza e uniformità di grana, quanto per la facilità con che si vanno prestando ai colpi dello scalpello».

Grazie a un prodotto di indiscutibile valore, alle forti amicizie nel mondo granducale e, non ultimo, al suo fare vivace e disinvolto, Marco Borrini riuscì a inserirsi, prontamente e in modo significativo, all’interno delle forniture per il ragguardevole mercato delle

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La lettera di Charles Blanc a Henraux per la fornitura di un blocco di marmo per il gruppo di “Ulisse” di James Pradier A destra, Gaetano Grazzini, Aronne
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Negli anni a seguire l’apprezzamento del materiale fornito darà la spinta definitiva per la completa affermazione del marmo di Seravezza all’interno degli studi di gran parte degli scultori attivi oltralpe e di un cospicuo numero di autori nostrani.

comunità artistiche italiane, in particolare Firenze e Roma. Ma i tentativi del suo socio Henraux di sostituire sulla piazza francese l’utilizzo del marmo di Carrara con quello seravezzino stentarono ad avere esito positivo.

Dal 1806 Henraux si era occupato di gestire l’acquisto e la spedizione dei blocchi di marmo a Parigi per conto di Napoleone Bonaparte e in seguito era divenuto Commissario del governo per tali forniture. Con la Restaurazione la richiesta del materiale per i monumenti, già elevata, aumentò in modo esponenziale e il governo francese provò, senza riuscirci, a reperire marmi nazionali in grado di sostituire quelli apuani. Fatto oggetto di discredito l’Henraux, seppur tra mille difficoltà, conservò il ruolo di Commissario fino al 1823, anno in cui il visconte Héricart de Thury, direttore dei lavori pubblici, soppresse il suo stipendio e lo rimpiazzò, per la fornitura dei marmi statuari, con Carlo Orsolini proprietario di una cava a Carrara. L’ex ufficiale impiegò alcuni anni a rientrare nelle grazie di de Thury ma dal 1828, con la chiusura di ogni rapporto del ministero con Orsolini, i marmi del Monte Altissimo cominciarono ad essere utilizzati in modo sistematico dagli scultori francesi, anche se per giungere ad una vera e propria predilezione da parte degli organi ministeriali nei confronti del materiale di Seravezza, sarà necessario attendere almeno il 1833.

Importanti in tal senso furono le due commesse ottenute all’inizio degli anni Trenta per la consegna dello statuario necessario a realizzare altrettante opere pubbliche da collocare a Parigi: le quattro statue colossali per la borsa - affidate a Jean-Pierre Cortot, Pierre Petitot, Jean-Baptiste Roman e James Pradier - e le otto sculture della serie “Grands hommes” richieste dalla liste civile per il Giardino delle Tuileries.

Di lì a poco un programma simile, dal manifesto valore educativo e civile, venne intrapreso nel Granducato di Toscana per iniziativa dello stampatore fiorentino Vincenzo Batelli con il progetto di «ventotto statue, rappresentanti altrettanti uomini Toscani illustri per azioni virtuose, scienze, lettere, ed arti», da disporre nel loggiato degli Uffizi. Nel 1835 Borrini, aderendo alla sottoscrizione voluta da Batelli, si impegnava a consegnare ai ventiquattro artisti toscani selezionati i marmi del Monte Altissimo per la realizzazione di tutte le opere. Negli anni a seguire l’apprezzamento del materiale fornito darà la spinta definitiva per la completa affermazione del marmo di Seravezza all’interno degli studi di gran parte degli scultori attivi oltralpe e di un cospicuo numero di autori nostrani. Per il raggiungimento del vero e proprio riconoscimento internazionale, se non di decisa superiorità, almeno di equivalenza tra la pietra versiliese e quella carrarese, era stato però necessario attivare un più deciso coinvolgimento degli artisti che operavano nelle altre grandi città d’arte italiane – in particolare Roma – e soprattutto dare impulso all’impiego del prodotto presso l’esteso mondo artistico anglosassone, da secoli prerogativa del mercato imprenditoriale di Carrara.

L’occasione per aprire un importante varco anche in quest’ultimo settore di mercato si era presentata con l’arrivo a Firenze degli statunitensi Horatio Greenough e Hiram Powers. Originario di Boston, Greenough fu il primo scultore americano a stabilirsi in città nel 1828. Nel luglio 1832 aveva ricevuto dal Governo del proprio Paese la prestigiosa commissione per la realizzazione di un grande monumento marmoreo a George Washington, per decorare il cuore della sede del Parlamento. Lo scultore e i suoi collaboratori impiegheranno poco meno di dieci anni per completare l’opera. Grazie verosimilmente anche all’alta opinione del bostoniano sul materiale, diversi altri artisti attivi nel Nuovo Mondo sceglieranno il marmo dell’Altissimo per le opere da trasferire in America; tra questi si ricorda il partenopeo Luigi Persico che, all’inizio degli anni Quaranta, decise di utilizzare un grande blocco di marmo versiliese per la scultura “La Scoperta dell’America” da collocare sul lato sinistro della scalinata della facciata orientale del Campidoglio. Sul lato destro, una decina d’anni dopo, verrà sistemato il gruppo de “La Liberazione” realizzato, sempre con il marmo di Seravezza, da Greenough.

Amico e collega di quest’ultimo, Hiram Powers nel 1837 decide di lasciare l’America per stabilirsi a Firenze. Poco dopo l’arrivo in città, assieme a Greenough, si reca a visitare le «cave di Seravezza sotto il nome di Altissimo, Vincarella, Polla e Falcovaja»; i

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In alto, Auguste Rodin, il Bacio A destra, Horatio Greenough, La Liberazione
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Powers rimase talmente colpito dal marmo dell’Altissimo da dichiararne apertamente la predilezione e la superiorità rispetto a quello carrarese e da diventarne, in breve tempo, il maggior sostenitore nel mondo artistico anglosassone.

due scultori scriveranno a Borrini che in quei luoghi si trova un marmo «di una qualità eguale ai migliori che avessero lavorato», nonché «quanto al colore, alla contestura, finezza della grana degno della più alta raccomandazione».

Powers rimase talmente colpito dal marmo dell’Altissimo da dichiararne apertamente la predilezione e la superiorità rispetto a quello carrarese e da diventarne, in breve tempo, il maggior sostenitore nel mondo artistico anglosassone. Di lì a poco, tra gli altri, utilizzeranno i bianchi blocchi di statuario di Seravezza lo statunitense Thomas Crawford, allievo di Thorvaldsen, per l’imponente opera scolpita a Roma raffigurante “Orfeo e Cerbero” e l’irlandese John Hogan, per la colossale statua raffigurante “Daniel O’Connell”, oggi alla City Hall di Dublino.

Nel 1840, in un breve testo anonimo dal titolo “Marmi statuari toscani” stampato sulla “Gazzetta di Firenze”, principalmente per respingere le voci su una presunta qualità inferiore dei marmi dell’Altissimo fatta circolare dai mercanti di Carrara, si elencavano undici artisti negli studi cittadini dei quali «in più grande o minor quantità si sta lavorando questo marmo toscano». Tra questi oltre a Hiram Powers e Horatio Greenough vi erano Luigi Pampaloni, Aristodemo Costoli, Paolo Emilio Demi, Emilio Santarelli, Gaetano Grazzini, Ulisse Cambi, Odoardo Fantacchiotti, Luigi Magi e Raffaello Insom. Ma sarà soprattutto per merito del successo delle opere di Hiram Powers che la fama del marmo dell’Altissimo si diffonderà definitivamente in tutta Europa e nel mondo anglosassone. Tormentato dalla resa espressiva della superficie modellata, l’artista americano trova nel marmo di un filone da poco scoperto nelle cave di Falcovaia, il materiale ideale capace di influenzare la sua estetica. L’ossessione per la descrizione naturale dei corpi di Powers è in particolare espressa nella statua raffigurante “Eva Tentata”– ora al National Museum of American Art di Washington – che l’artista aveva esposto privatamente nel suo studio e su cui aveva continuato a lavorare poco dopo il suo arrivo in Italia e fino alla morte. Nel 1841– anno nel quale è ricordata una visita alla cave dell’Altissimo anche da parte di Berthel Thorvaldsen – scolpisce “La Schiava Greca”, la sua opera più famosa, con la quale ottiene un successo straordinario in Inghilterra e in America. La trionfante prima inglese di una replica della statua alla mostra del Crystal Palace del

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A sinistra, Enrico Pazzi, Dante Alighieri

1851 rafforzò la popolarità della scultura a livello internazionale, accrescendo la reputazione di Powers e promuovendo definitivamente le qualità del marmo di Seravezza. Lo stesso scultore – con Greenough, il Granduca, l’antiquario Arcangelo Migliarini e il banchiere Emanuele Fenzi – aveva fortemente incoraggiato l’uso di questo materiale, ritenendolo il più adatto a rendere l’incarnato in quanto, nonostante fosse più duro del marmo di Carrara, aveva una grana così fine da assomigliare alla porcellana. Interpellato nel merito, in seguito, Powers dichiarerà alla stampa: «Tutti ora bramano il marmo di Seravezza e questo è in gran parte dovuto alla reputazione che ha ottenuto in Inghilterra attraverso alcune delle mie opere, che non presentavano macchie o difetti nel materiale». A vent’anni dalla nascita, nel momento di maggior diffusione e apprezzamento dei marmi dell’Altissimo, la nomina a direttore dell’azienda del nipote Jean Bernard Sancholle, che nel 1839 Alexandre Henraux aveva designato come suo erede universale, e la difficile situazione di Borrini, oppresso dai debiti, intensificò i rapporti della società con la Francia. L’aggiudicazione della prestigiosa commessa per la fornitura dei marmi per la tomba di Napoleone I all’Hôtel national des Invalides, assieme a quella per l’ornamento della cattedrale di Sant’Isacco a San Pietroburgo progettato da Auguste de Montferrand, stipulata nel 1845, consolidò ulteriormente oltralpe la fama dei marmi di Seravezza. I rapporti della famiglia Henraux con gli scultori attivi a Parigi e in modo particolare con James Pradier, autore delle dodici sculture che oggi ornano l’impianto architettonico che circonda il sarcofago del Bonaparte, raffiguranti “Vittorie” a simboleggiare le

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Henri Gaudier Brzeska, Sansone e Dalila, gruppo erotico

campagne militari di Napoleone, consentirono inizialmente alla società di mantenere un ruolo di primo piano nella fornitura dello statuario agli scultori francesi, attraverso le commesse statali.

Dalla metà degli anni Quaranta, nonostante l’apprezzamento della comunità artistica internazionale per lo statuario dell’Altissimo, le difficoltà finanziarie e i pesanti contrasti tra i soci, dovuti all’inserimento di nuovi azionisti e alla costituzione di una nuova società, uniti al rinvigorimento del mercato di Carrara e all’impiego di quasi tutte le maestranze attive nelle cave per onorare l’impegno gravoso della commessa per San Pietroburgo, condizionarono pesantemente la fornitura del materiale per la scultura.

Così, nonostante Leonardo Pilla nel 1845 ricordasse che «i più grandi massi di marmo statuario di prima qualità estratti dalle cave di Falcovaia, ridotti al maggior grado di pulimento, sono stati di 500 a 600 palmi cubici (circa), ed hanno servito a sculture colossali», e i marmi dell’Altissimo continuassero ad essere richiesti da moltissimi artisti, soprattutto per le opere di carattere monumentale, i pochi documenti rintracciati raccontano un forte rallentamento per tutti gli anni Cinquanta e la prima metà del decennio successivo nell’utilizzo dello statuario di Seravezza.

A causa della ridotta disponibilità e per la sua elevata qualità, all’inizio degli anni Sessanta dell’Ottocento il marmo per la scultura estratto dalle cave di Seravezza continuava ad essere il marmo apuano più costoso. Nel catalogo dell’Esposizione Universale di Londra del 1862 è ricordato come lo statuario del monte Altissimo fosse «superiore ad ogni altro,

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Hiram Powers, La Schiava Greca
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prediletto d’ogni scalpello, ma nel tempo stesso il più caro». In quell’anno, sulla piazza di Firenze, il marmo per scultura di prima qualità di Carrara veniva venduto 1200 lire a metro cubo, contro le 1400 dell’analogo prodotto di Seravezza, con prezzi assai più alti nel caso dei blocchi più grandi e senza macchie.

In questo periodo ottenne ampia evidenza sulla stampa l’estrazione dalle cave de La Polla e l’arrivo trionfale in città del maestoso masso di 33 tonnellate servito a Enrico Pazzi per scolpire la grande statua di “Dante”, oggi a lato della facciata di Santa Croce a Firenze. Lo scultore ravennate realizzerà diverse opere con il marmo di Seravezza tra le quali “Girolamo Savonarola presenta al Popolo Cristo quale re di Firenze” e il busto di “Jean Bernard Sancholle Henraux” per l’abitazione dell’imprenditore, che il figlio Roger farà in seguito replicare dallo stesso artista per il monumento funebre posto nel duomo di Seravezza, disegnato dall’architetto dell’Opéra di Parigi, Charles Garnier.

A fine gennaio del 1864, nel viaggio compiuto in Italia con il pittore Gustave Boulanger e il collega Louis Victor Louvet, proveniente da Menton, Garnier si ferma un paio di giorni a Seravezza per poi proseguire in treno fino a Pisa. In Versilia, ospitato da Sancholle-Henraux, coglie l’occasione per visitare, verosimilmente non per la prima volta, le cave dell’Altissimo e scegliere i marmi che serviranno alla realizzazione dell’ampio scalone dell’Opéra.

In questo periodo, assieme all’Italia, la Francia rimane il luogo privilegiato per l’invio dei marmi statuari dell’Altissimo: lo provano, oltre al risalto che seguitano ad avere le cave versiliesi nella pubblicistica d’oltralpe, anche le notizie sull’utilizzo del materiale da parte di importanti autori come ad esempio Julies Cavelier, che lo utilizza per l’opera “Cornelia madre dei Gracchi”, o Ernest Christophe che lo sceglie per la scultura “La commedia umana”. Un’opera conosciuta anche come “La maschera”, oggi al Museo d’Orsay, nota per la poesia dedicatale da Charles Baudelaire.

I motivi del successo in Francia del marmo statuario di Vincarella, della Polla e di Falcovaia può essere attribuito anche ai legami, più che eccellenti, che fino alla scomparsa – avvenuta nel 1881 – Jean Bernard Sancholle Henraux tenne con i vari direttori dell’Académie francese di Villa Medici a Roma. La fornitura dei marmi per le opere plastiche scolpite dai Pensionati e la concessione di sconti considerevoli, giunti fino alla metà del prezzo di mercato, esercitarono senza dubbio un effetto fidelizzante verso il prodotto. Con il subentro alla guida dell’azienda del figlio di Jean Bernard, Roger, l’atteggiamento

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A sinistra, William Robert-Colton, La Primavera della vita In alto, Giacomo Spalla, Il ritorno di Vittorio Emanuele a Torino

diventò meno accondiscendente, anche a causa di alcuni dissidi sulla qualità del materiale fornito e in merito al reperimento dello stesso da parte di commercianti carraresi. Alla fine degli anni Ottanta l’avvicendarsi dei responsabili dell’istituzione e l’arrivo alla dirigenza di artisti legati da vecchia amicizia all’azienda seravezzina, restituì forza e impulso all’antica collaborazione. In questa fase tra gli autori più affezionati all’utilizzo del marmo dell’Altissimo troviamo Henri Chapu. Lo scultore, noto per lo schietto ed elegante naturalismo delle sue opere, è ricordato in visita alle cave di Seravezza in diverse occasioni e documentato, un’ultima volta, nella primavera del 1890 per lavorare al bassorilievo per il “Monumento a Gustave Flaubert”, oggi al Musée des Beaux-Arts di Rouen, che i suoi lavoranti nelle settimane precedenti avevano sgrossato. Alla morte di Roger, nel 1890, è a lui che la famiglia Sancholle Henraux si rivolgerà per l’esecuzione del busto per il monumento nel duomo di Seravezza, che a causa della morte di Chapu verrà completato da Charles Desvergnes.

Nell’autunno del 1901, Bernard, figlio di Roger, ospitava a Seravezza Auguste Rodin, durante il trionfale viaggio in Italia che, oltre a Venezia – dove figurava come invitato d’onore alla Biennale – portò lo scultore anche a Torino, Lucca, Perugia e Pisa. La presenza in Versilia era determinata dall’idea di acquisire blocchi di marmo da utilizzare, in particolare, per una replica del famoso gruppo “Le Baiser”. Non solo, come scrisse la stampa francese, Rodin «tornò soddisfatto del suo viaggio», ma la celerità dell’invio del blocco e, probabilmente, i prezzi praticati furono talmente benevoli che la stretta collaborazione tra Rodin e Henraux è attestata in modo continuativo per i successivi quindici anni. Il rappor-

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A sinistra, Paolo Emilio Demi, Madre Educatrice A destra, Pio Fedi, Nicola Pisano

La presenza in Versilia di Auguste Rodin era determinata dall’idea di acquisire blocchi di marmo da utilizzare, in particolare, per una replica del famoso gruppo “Le Baiser”.

to prese ancora più vigore nel 1906, quando la vedova di Alexandre Berring-Nicoli, che era stato tra i fornitori dello scultore dal 1899, cedette la propria attività e i clienti a Henraux. Le due società avevano già unito le proprie forze nel 1903 per rifornire l’artista di un masso particolarmente grande, destinato al “Monumento a Pierre Puvis de Chavannes”. Dopo un decennio di grandi difficoltà per collocare il materiale presso gli artisti stranieri, dovute all’aumento delle tariffe doganali, alle prime grandi agitazioni sindacali e al subentro nella gestione dell’Henraux dei quattro figli di Roger, la scelta da parte di Auguste Rodin di utilizzare in prevalenza i marmi dell’Altissimo riportò in auge lo statuario versiliese anche presso gli scultori stranieri. Nei primi tre lustri del XX secolo ne è documentato l’utilizzo, tra gli altri, da parte dei tedeschi Max Klinger, Erwin Kurz e Richard Engelmann, dei britannici George Frampton e William Robert Colton, della statunitense Elisabet Ney e dell’australiano Bertram Mackennal.

Nel periodo che precedette il primo conflitto mondiale, tra le emergenti personalità della scultura moderna che fecero ampio uso del marmo dell’Altissimo piace ricordare il giovanissimo autore francese, attivo in Inghilterra, Henri Gaudier-Brzeska. Esponente del movimento vorticista, nel 1914 Gaudier-Brzeska si arruolò nell’esercito francese e l’anno seguente fu ucciso, a soli 23 anni. Da un intaglio modellato sullo stile di Rodin, con rapidità sbalorditiva, lo stile dello scultore si era evoluto verso un linguaggio originale fatto di forme lineari e semplificate come prova l’opera in marmo dell’Altissimo “Sansone e Dalila, gruppo erotico”, acquistata nel 1913 da Ezra Pound, per il suo lato misterioso, i riferimenti all’arte oceanica e implicitamente a Gauguin, oggi al Centre Pompidou.

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La prima pagina del contratto che istituisce la società Henraux il 20 gennaio 1821

HENRAUX SINCE 1821. LA GENESI DI UNA GRANDE AZIENDA ITALIANA

Con rigore storico-scientifico e il riferimento a solide fonti d’archivio, l’articolo ripercorre la genesi dell’azienda versiliese a duecento anni dalla sua nascita: i passaggi che hanno portato alla sua fondazione e la sua evoluzione sotto il profilo societario fino all’avvento dell’“era Cidonio” nel Secondo Dopoguerra.

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Il 20 gennaio 1821, con contratto rogato dal notaio Frullani, veniva infatti costituita la società in partecipazione BorriniHenraux per lo sfruttamento degli agri marmiferi del Monte Altissimo. Ancora oggi l’azienda porta il nome di uno dei suoi primi fondatori: Jean Baptiste Alexandre Henraux.

Da qualche anno a questa parte nei cataloghi aziendali, nelle monografie e nel materiale pubblicitario l’Henraux inserisce, sotto la ragione sociale, questa dicitura: since 1821 Lo fa per legittimo orgoglio, perché sono davvero poche le aziende italiane che possono vantare una simile longevità.

Certo, non è vecchia come l’azienda senese del Barone Ricasoli che vende olio e vino dal 1141, né come la ditta Barovier & Toso fondata a Murano nel 1295 o la Camuffo di Portogruaro che costruisce navi dal 1438; nemmeno quanto la Beretta di Gardone Val Trompia che fabbrica armi dal 1526. Ma l’Henraux è nata prima dell’Ansaldo (1853), della Pirelli (1872), della Fiat (1899).

Il 20 gennaio 1821, con contratto rogato dal notaio Frullani, veniva infatti costituita la società in partecipazione Borrini-Henraux per lo sfruttamento degli agri marmiferi del Monte Altissimo. Ancora oggi l’azienda porta il nome di uno dei suoi primi fondatori: Jean Baptiste Alexandre Henraux, originario di Sedan in Francia dove nacque nel 1775 da Giovanni Battista e da Caterina Jacquillon; ex ufficiale napoleonico, negoziante in Parigi, operava a Carrara in qualità di «Soprintendente Regio alla scelta ed acquisto dei marmi bianchi e statuari di Carrara per i monumenti pubblici di Francia».

L’altro socio era Marco Borrini, nato a Vicopisano (PI) il 1° ottobre 1787 da un’agiata famiglia di origine ligure. Compì gli studi superiori presso l’Università di Pisa, Facoltà di Giurisprudenza, dove si laureava in utroque iure il 6 giugno 1808.1 Con il trasferimento della famiglia a Seravezza, nei due anni successivi trovò occupazione come segretario presso il maire della cittadina, incarico che nel 1811 lasciava al fratello Luigi, quando ottenne una Commissione di “soprannumerario” nella Direzione delle Contribuzioni Dirette. Suo padre Andrea era uno dei membri del consiglio municipale della «Commune di Seravezza».

Il Borrini fin dal 1815 inoltrò richieste di aiuti e sovvenzioni al Granduca Ferdinando III, che furono accolte nel 1817 dopo la grave carestia dell’anno precedente. Con dispaccio del 27 ottobre 1816 il Granduca ordinava la sistemazione della strada che da Pontestazzemese conduce al Magazzino (poi Forte dei Marmi) offrendo nuove possibilità alla commercializzazione del marmo anche se le attività estrattive e di lavorazione erano quasi irrilevanti: prima del 1817 le cave in attività nei monti della Versilia – secondo i dati forniti dalla relazione di Nicolao Cerchi2 – erano solamente undici, in località La Cappella, ed erano limitate a scavi superficiali. A Seravezza si contavano in tutto diciotto scalpellini e la cittadina appariva, secondo la testimonianza di Barbacciani Fedeli come «…luogo di meschina, anziché agiata apparenza, poco popolata e meno commerciale», con strade strette e case miserevoli fatta eccezione per il «Palazzo Ducale e otto o dieci signorili abitazioni»3.

Marco Borrini, uomo colto, ben introdotto a Firenze presso la corte granducale, fu gonfaloniere di Seravezza e nel 1836 ottenne la Decorazione del Merito Industriale di Prima Classe, quale «promotore della escavazione dei marmi di Monte Altissimo». Tra i due soci fondatori, fu senz’altro quello che ebbe meno fortuna, dissipando nel volgere di pochi decenni un cospicuo patrimonio, tanto da essere costretto a cedere progressivamente all’Henraux tutte le sue proprietà.

Morì povero nel 1876, all’età di 89 anni, quasi ignorato da tutti. Eppure, era stato lui a intuire per primo le possibilità di sviluppo dell’industria del marmo in Versilia e a riscoprire le ricchezze minerarie del Monte Altissimo. Jean Baptiste Alexandre Henraux si dimostrò, al contrario, abile negli affari e seppe gestire l’azienda con grande professionalità. Nel settembre 1839 nominava suo erede universale il nipote Jean Bernard Sancholle che aggiunse al proprio cognome quello dello zio. Alexandre Henraux il 26

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Il busto di Jean Baptiste Alexandre Henraux

I marmi statuari di Monte Altissimo acquisirono ben presto una vasta notorietà, tant’è che scultori di fama internazionale come Hiram Powers, Gaetano Grazzini, Giacomo Spalla, Lorenzo Bartolini li preferivano a quelli di Carrara.

aprile 1843 moriva tra «…l’universale compianto dei versiliesi per non dire degl’Italiani», come annotava il Barbacciani Fedeli.4

Bernard, appena giunto da Parigi, costituì una Società in accomandita sotto la ragione “Bernardo Sancholle Henraux & C.”, con il sostegno del finanziere francese conte Henry De Sercy. Nel 1846 la società fu trasformata in anonima e assunse la denominazione “Società del Monte Altissimo”. In quegli anni l’azienda era impegnata in prestigiose commesse, come la fornitura di ingenti quantità di marmo per la cattedrale di Sant’Isacco a San Pietroburgo. I marmi statuari di Monte Altissimo acquisirono ben presto una vasta notorietà, tant’è che scultori di fama internazionale come Hiram Powers, Gaetano Grazzini, Giacomo Spalla, Lorenzo Bartolini li preferivano a quelli di Carrara.

Bernardo riuscì a superare i momenti difficili e le vicende tormentate della società, caratterizzate da annose liti giudiziarie, e alla fine divenne unico proprietario dell’azienda, delle numerose cave aperte un po’ dovunque in alta Versilia e di tutto il Monte Altissimo. Questa straordinaria montagna era stata esplorata da Michelangelo intorno al 1517, pochi anni dopo la donazione degli agri marmiferi alla Signoria di Firenze da parte delle Comunità di Seravezza e di Cappella: la scoperta di vasti giacimenti di statuario all’Altissimo indussero lo scultore ad abbandonare Carrara per avviarne la coltivazione, dopo aver ottenuto la facoltà di approvvigionarsi gratuitamente di quel marmo per tutta la vita. Impresa che non ebbe buon fine, per le grandi difficoltà incontrate dall’artista a causa dell’asprezza dei luoghi e per l’imperizia delle maestranze.

Miglior sorte ebbe, oltre quarant’anni dopo, Cosimo I Medici, Duca di Firenze e di Siena, che fece completare la strada iniziata da Michelangelo e dette avvio alle escavazioni sul Monte Altissimo.

Con la decadenza della dinastia medicea, le cave di Monte Altissimo vennero abbandonate per oltre un secolo, e solo intorno al 1820 Marco Borrini pensò di riattivarle, dopo

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Cattedrale di Sant’Isacco, San Pietroburgo
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aver acquistato dalla Comunità di Seravezza tutto il versante meridionale della montagna (dove i Medici avevano intrapreso l’escavazione) e dopo aver chiesto e ottenuto un prestito dal governo granducale per il restauro della strada cosimina.

La società gestita da Bernardo Sancholle Henraux prosperò: le innovazioni tecnologiche introdotte nell’escavazione e in particolare nella lavorazione del marmo, consentirono un considerevole aumento della produzione e dell’occupazione. I risultati delle nuove tecnologie furono presentati con successo dallo stesso Henraux all’Esposizione di Firenze del 1861 e a quella di Parigi del 1866.

Alla scomparsa di Bernardo, nel 1881, divennero titolari dell’azienda il figlio Roger e la figlia Marguerite, sposata a Lucien Delatre. Venne allora fondata la “Héritiers S. Henraux”, società a gestione familiare, e fu acquistato un terzo della “Società d’Arni” che aveva attivato diverse cave nella valle d’Arni da poco raggiunta da una strada carrozzabile.

Roger moriva a Parigi il 17 giugno 1890. Subentrarono nella gestione della società i figli Lucien, Albert, Maxime e Jean Bernard, coadiuvati dalla zia Margherita e dal marito Lucien Delatre, che ne assunse la direzione. I due coniugi fondarono e mantennero a Seravezza un asilo infantile, che ancora oggi porta il loro nome, e sostennero finanziariamente la Scuola di Belle Arti di Seravezza.

Scomparso Lucien Delatre, la direzione dell’azienda passò a Jean Bernard Sancholle Henraux, che era nato a Chanceaux sur Choisille nel 1874.

Il successo della società “Les Héritiers S. Henraux” continuò senza soste fino alla grave recessione che precedette la Prima Guerra Mondiale, favorito dall’intraprendenza dei suoi amministratori e dai miglioramenti tecnologici introdotti nelle segherie con i telai a distribuzione automatica e nelle cave con l’utilizzo del filo elicoidale e dei martelli pneumatici.

Il grande scultore francese Auguste Rodin ebbe tra i suoi fornitori anche la ditta Héritiers Henraux per un lungo periodo a partire dal 1901 e nell’autunno di quell’anno incontrò

Bernard e fu ospite nella sua villa a Seravezza.5

La società gestita da Bernardo Sancholle Henraux prosperò: le innovazioni tecnologiche introdotte nell’escavazione e in particolare nella lavorazione del marmo, consentirono un considerevole aumento della produzione e dell’occupazione.

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La villa Henraux a Seravezza Foto Stefano De Franceschi Panoramica del Monte Altissimo dalla località Cappella
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Foto Nicola Gnesi
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La società Henraux, guidata da Bernard che pubblicava nel 1908 un album fotografico contenente splendide immagini delle cave, dei depositi e degli stabilimenti dell’azienda6, mantenne una gestione di tipo familiare fino al 1921, quando il nuovo sviluppo del settore lapideo del dopoguerra indusse a trasformare l’azienda in società per azioni con l’apporto di nuovo capitale conferito dai belgi George Henroz e Matteo Van Roggen. Con una procura generale sottoscritta presso il notaio Charles Tollu in Parigi il 29 aprile 1921 Lucien, Albert, Maxime Sancholle Henraux affidavano a Bernard l’incarico di rappresentarli. La “Società Anonima S. Henraux”, società per azioni, si costituiva il 23 maggio 1921 ai rogiti del notaio Luigi Foscarini in Milano.

Agli inizi degli anni Trenta i Sancholle Henraux uscirono dalla società e l’azienda divenne di proprietà di un gruppo della banca Société Générale de la Belgique. La ragione sociale della “Società Anonima S. Henraux” venne sostituita, mediante deliberazione del 29 giugno 1936, con la denominazione “Società Marmifera Italiana Henraux” e nel 1940, per motivi connessi alla politica autarchica del regime, nuovamente modificata in “Società Marmifera Italiana”.

Nel 1945, dopo l’interruzione dell’attività causata dagli eventi bellici che investirono la Versilia sul fronte della Linea Gotica, l’azienda riportava la ragione sociale - con apposita norma statutaria - sotto la denominazione “Società Anonima S. Henraux”, società per azioni, con capitale italiano, diretta e gestita dai fratelli Cidonio.

NOTE

1 Archivio di Stato di Pisa, Università, 2° Deposito, Sezione D, II-9 n. 232.

2 Relazione del cancelliere di Pietrasanta Nicolao Cerchi sullo stato delle arti, manifatture, agricoltura e commercio nel Granducato, marzo 1768, in Archivio di Stato di Firenze, “Carte Gianni”, cit.

3 R. Barbacciani Fedeli, “Saggio storico, politico, agrario e commerciale della antica e moderna Versilia”, Firenze 1845, op. cit.

4 R. Barbacciani Fedeli, “Saggio storico politico agrario e commerciale dell’antica e moderna Versilia”, Firenze 1845.

5 Lo apprendiamo dal saggio di Véronique Mattiussi, “Itinéraire d’un bloc de marbre: Rodin et sesfournisseurs”, nel catalogo della mostra “Rodin. La chair, le marbre”, Musée Rodin, Parigi, giugno 2012-marzo 2013.

6 B. Sancholle Henraux, “Seravezza. Du Forte dei Marmi à l’Altissimo et au Val d’Arni”, Parigi 1908; ristampa anastatica in versione italiana con introduzione di D. Orlandi, Pontedera, 2000.

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DALL’ARCHITETTURA ALL’ARTE, E RITORNO

Ogni progetto architettonico che utilizzi materiali lapidei, e il marmo in particolare, – come quello al 601 di Massachusetts Avenue, a Washington DC – è innanzitutto un “viaggio di scoperta”. Scoperta della materialità specifica di ogni pietra e della stretta commistione tra architettura e arte che non può – e non deve – mai essere elusa.

601 Massachusetts Avenue, Washington
DI TURAN DUDA, FAIA PRESIDENTE FONDATORE DI DUDA|PAINE ARCHITECTS
DC, esterni. Nella pagina seguente, la hall dell’edificio
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Lavoro con la pietra e la utilizzo per i miei edifici da oltre quarant’anni, e da trentadue collaboro con Paolo Carli –fin da prima che diventasse presidente dell’Henraux. In questo lungo periodo ho maturato diverse idee e concetti sull’utilizzo del marmo in architettura e, ogni volta che sono venuto in Italia, ho fatto nuove scoperte in proposito. Non uso la parola “scoperte” a caso: ogni viaggio ispira in modo esponenziale la mia visione creativa per quelli che saranno i miei successivi progetti artistici e architettonici.

La prima, e forse più importante, scoperta riguarda il comprendere la materialità di una pietra specifica. Questa comprensione è iniziata con una visita al Monte Altissimo e alle sue cave, vicino a Pietrasanta, in Italia. Qui, ogni architetto diventa consapevole dell’enorme sforzo umano che sta dietro all’estrazione del marmo, al trasportarlo giù dalla montagna e al doverlo plasmare cercando di concretizzare l’idea che si ha di quel materiale. Se ne comprendono anche i

limiti, i difetti e la bellezza intrinseca. Il piccolo modello in marmo su cui riflettiamo in ufficio si rivela qui nella totalità di blocchi e lastre. E questo spesso porta a una completa rivisitazione di come verrà utilizzato il materiale.

La seconda scoperta si fa visitando l’Italia per vedere e vivere in prima persona i 2000 anni di pietra presenti nella sua architettura. L’utilizzo, nel corso della storia, del marmo e del granito in architettura, dall’antichità ai giorni nostri, ci fornisce già una chiave di lettura e una spiegazione. Una verità lapalissiana è che la pietra, plasmata da ogni generazione, ci parla: se ascoltiamo con attenzione, possiamo capire in che modo si sono susseguite e sono cambiate le voci di ognuna di esse. Lo stesso blocco di marmo nell’architettura dell’Antica Roma trova una voce moderna nelle mani di un designer come Carlo Scarpa. Sia che la trasformazione avvenga grazie alla tecnologia o alla mera intenzione artistica, i risultati sono profondamente diversi.

La prima, e forse più importante, scoperta riguarda il comprendere la materialità di una pietra specifica. Questa comprensione è iniziata con una visita al Monte Altissimo e alle sue cave, vicino a Pietrasanta, in Italia.

In alto, una veduta delle cave Henraux.

A destra, il dettaglio di una parete in marmo

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601 Massachusetts Avenue, schizzi. A destra, il dettaglio di una parete in marmo
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della parete in Marmo Bianco Altissimo per lo stand del Marmomac, Verona 2009

Una terza rivelazione ci arriva dal fenomeno degli artisti che pensano come architetti e degli architetti che pensano come artisti. Come ha affermato una volta lo scultore Isamu Noguchi: «Quando ho dovuto lavorare in spazi più grandi, li ho concepiti come giardini». Con il concetto più ampio di “giardino”, la dimensione del lavoro di Noguchi è cresciuta e spesso ha coinvolto molteplici pezzi collocati in allestimenti spaziali molto significativi. Lo stesso si può dire per Mimmo Paladino e l’installazione dal titolo “La Croce” che fece nel 2012 in Piazza Santa Croce, a Firenze. Paladino ha dichiarato: «Qui ho deciso di creare un luogo, non una scultura, utilizzando delle caratteristiche specifiche a cui potrei aggiungerne anche di nuove...». Questo creare luoghi e improvvisazioni all’interno di un contesto dato è un’inclinazione naturale per gli architetti che utilizzano oggetti esistenti, trovati o inventati per creare un adattamento moderno di uno spazio architettonico prestabilito.

Noi architetti, al contrario, concepiamo i nostri edifici come forme scultoree oppure cerchiamo di spingere i limiti di uno spazio chiuso verso una nuova dimensione. Qui, la pietra gioca un ruolo

fondamentale: quando una superficie in marmo viene lavorata, scolpita e levigata affinché diventi tridimensionale, riesce a interagire con l’uomo e assume un nuovo significato. Il bassorilievo che se ne ricava si espande oltre i confini di semplice rivestimento, diventando scultoreo ed elevandosi ad arte.

La scoperta finale nasce dall’esperienza di osservare l’arte e l’architettura attraverso la lente del tempo e del movimento. Il concetto è spiegato magnificamente da Noguchi: «Io credo che la scultura sia un’arte che può essere apprezzata solo allo stato grezzo, che si debba relazionare all’essere sempre in movimento dell’uomo, al passare del tempo e alla sua condizione sempre in costante trasformazione». Questa idea, quella del movimento attraverso e all’interno degli edifici, è quella che mi incuriosisce di più. Quando si entra in una stanza grazie a un’apertura incorniciata che ci conduce a un fenomeno artistico concepito per essere visto prima di procedere a quello successivo del percorso, allora l’esperienza che stiamo vivendo diventa cinematografica. Tali momenti artistici sono possibili solo se integrati dall’elemento sorpresa. O questo fenomeno ci viene rivelato inaspettatamente, oppure

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Nel corso degli anni ho visto Paolo Carli e l’Henraux spingersi oltre i limiti di ciò che si può ottenere dal marmo, grazie sia alla loro esperienza e conoscenza del materiale sia all’investimento nella tecnologia robotica più innovativa.

la nostra aspettativa convenzionale di quel tipo di materiale viene alterata in modo straordinario.

Questa idea viene trasmessa bene nel nostro progetto per il 601 di Massachusetts Avenue, a Washington DC. L’opera d’arte in marmo serve da punto di riferimento per orientare e guidare i visitatori che entrano ed escono dalla grande hall dell’edificio. La scultura verticale in marmo bianco di Giovanni Balderi è stata fondamentale per la nostra visione e organizzazione dello spazio: rappresenta infatti un potente perno al centro di due assi allineati con gli ascensori. Le tre pareti della hall rivestite in travertino si interrompono improvvisamente e la pietra prende vita come se fosse una tenda ondulata tridimensionale. Questi

diversi momenti vengono percepiti mentre ci si muove attraverso lo spazio della hall , e assumono significati differenti a seconda che vengano percepiti da lontano o da vicino.

In definitiva, è il processo di immaginazione e di invenzione che rende l’utilizzo della pietra naturale un mezzo di espressione eccezionale. Nel corso degli anni ho visto Paolo Carli e l’Henraux spingersi oltre i limiti di ciò che si può ottenere dal marmo, grazie sia alla loro esperienza e conoscenza del materiale sia all’investimento nella tecnologia robotica più innovativa. Vivendo a contatto con il lavoro degli artisti, Paolo Carli riesce sempre a fornire gli elementi giusti per il linguaggio architettonico. La sua abilità nel promuovere le loro ca -

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La hall di 601 Massachusetts Avenue in un render

pacità e quelle del materiale stesso testimonia la meravigliosa sperimentazione che viene realizzata nel suo cantiere. Su di me ha avuto un’influenza profonda. Mi piace esplorare continuamente, cercando nuove forme di espressione della pietra in architettura. Nella mostra di Henraux per Marmomac nel 2009, la creatività di alcuni artisti emergenti e la tecnologia necessaria per realizzare le loro idee hanno ispirato una parete composta da elementi che si ripetono e che riproducono un movimento ondulatorio.

Alla fine, un semplice filo ha tagliato il marmo bianco del Monte Altissimo per fabbricare un piano che si deforma e si inclina. Ne sono stati fatti diversi, per dare vita a un motivo a nastro che rivela le inimmaginabili possibilità di

utilizzo che ha il marmo in architettura. Penso all’architettura come a una performance con una sceneggiatura adattabile composta da numerosi e stratificati momenti di scoperta. Il “cast” di tale performance è composto dalla luce, dal materiale, dalle proporzioni e dal movimento. Se penso alla pietra come protagonista dell’opera, mi chiedo: che cosa vuole comunicare? Qual è la sua personalità? Quale emozione umana può evocare? Immaginare che una lastra di marmo inerte abbia una personalità può sembrare un po’ strano, eppure tutti rispondiamo in modo viscerale davanti al colore, alla trama e alla texture della pietra. Riconosciamo che ha una storia e che, quando plasmata dall’uomo, la pietra si arricchisce di una narrazione che incarna il progetto artistico.

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LA MORALE DELLA FAVOLA SECONDO NEÏL BELOUFA

La relazione tra opera e spettatore è al centro di “The Moral of the Story”, l’intervento che l’artista franco-algerino ha realizzato a Milano in collaborazione con la Fondazione Henraux. L’istituzione si lega così ancora una volta a uno dei nomi più apprezzati del panorama artistico internazionale.

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DI EDOARDO BONASPETTI FOTO DI NICOLA GNESI Neïl Beloufa, The Moral of the Story 2021, Milano, Apple Piazza Liberty. Installation view
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Neïl Beloufa, The Moral of the Story, 2021, Milano, Apple Piazza Liberty. Installation view
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La scelta di realizzare delle sedute come elementi di arredo urbano per narrare una favola, l’utilizzo delle scanalature dei bassorilievi per rendere “disfunzionali” le superfici dei tavoli e di campiture di colore che confondono i contorni delle figure rappresentate, sono tutte azioni che ci spingono a decidere cosa vedere o riconoscere.

Di fronte a una realtà che è fonte di oppressione e negazione, a volte può accadere di non riconoscerla o di estraniarsi. Un’altra possibilità è intervenire sui problemi alterandone i meccanismi, facendone emergere i difetti e i compromessi. Si parte da ciò che si vede, si cerca di far funzionare il sistema in modo diverso e mentre lo si sovverte dall’interno, si interpone una distanza critica e si crea uno spazio favorevole all’azione.

Questo atteggiamento pro-attivo, questo essere contemporaneamente dentro e fuori, sintetizza la capacità e il talento dell’artista franco-algerino Neïl Beloufa (Parigi, 1985) che, attraverso una pratica che spazia dal cinema, alla scultura e all’installazione, affronta i paradossi della società

contemporanea, svelando i sistemi di rappresentazione e offrendo allo spettatore gli strumenti per trarne rivelazioni e nuove consapevolezze.

È in quest’ottica che la Fondazione Henraux ha presentato a Milano “The Moral of the Story”, un progetto concepito per lo spazio pubblico dell’anfiteatro di Apple Piazza Liberty. L’opera è composta da quattro installazioni decorate con bassorilievi e intarsi di marmi policromi che raffigurano i capitoli di una favola scritta dall’artista per la figlia. I protagonisti – un cammello, delle volpi e una colonia di formiche – affrontano una serie di disavventure che Beloufa presenta senza un esplicito giudizio morale, ma che interessano questioni sociali, economiche e ambientali.

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Neïl Beloufa, The Moral of the Story 2021, Milano, Apple Piazza Liberty. Installation view
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Le opere, prodotte da Henraux con avanzate tecnologie di lavorazione 3D del marmo e rifinite a mano da abili maestranze, sono accessibili sia durante il giorno che nelle ore notturne, e possono essere esplorate anche attraverso i propri smartphone grazie a QR code che rimandano a illustrazioni accompagnate da una voce narrante.

Sfruttando le strategie dell’intrattenimento per intervenire sul modo in cui reagiamo alle rappresentazioni e ai contesti, Beloufa realizza le sue mostre come sistemi “aperti”, risultato di una pratica che adotta registri estetici intenzionalmente destabilizzanti. La scelta di realizzare delle sedute come elementi di arredo urbano per narrare una favola, l’utilizzo delle scanalature dei bassorilievi per rendere “disfunzionali” le superfici dei tavoli e di campiture di colore che confondono i contorni delle figure rappresentate, sono tutte azioni che ci spingono a decidere cosa vedere o riconoscere.

L’esito è un gioco tra realtà e finzione in cui è il visitatore stesso a decidere come rapportarsi alle opere e connettere le forme, le storie e le idee. L’artista altera così

le relazioni di potere tra autore e pubblico, tra oggetto e opera, offrendo dei modelli espositivi più consapevoli e orizzontali. Le opere, prodotte da Henraux con avanzate tecnologie di lavorazione 3D del marmo e rifinite a mano da abili maestranze, sono accessibili sia durante il giorno che nelle ore notturne, e possono essere esplorate anche attraverso i propri smartphone grazie a QR code che rimandano a illustrazioni accompagnate da una voce narrante.

“The Moral of the Story” di Neïl Beloufa offre un’opportunità di riflessione attraverso una ricerca artistica e un linguaggio simbolico che riconoscono nella sperimentazione e nella condivisione gli strumenti privilegiati per il cambiamento.

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Neïl Beloufa, The Moral of the Story, 2021, Milano, Apple Piazza Liberty. Installation view

PHILIPPE, IL MARMO, IL PREMIO HENRAUX

A pochi mesi dalla sua scomparsa, l’amico e compagno di tante avventure lavorative, firma un ricordo, ironico e vitale, di Philippe Daverio. Un omaggio al critico d’arte che rievoca il rapporto speciale che lo legava al marmo e, dal 2011, anche all’Henraux. Con Daverio, Paolo Carli dà vita al Premio Internazionale di Scultura Henraux di cui, nel 2020, si sarebbe dovuta celebrare la quinta edizione, rimandata a causa della pandemia.

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NICOLA
DI JEAN BLANCHAERT FOTO DI
GNESI
Philippe Daverio
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Verso le sei di pomeriggio del 4 ottobre 2011, giornata in cui la Basilica di Sant’Ambrogio di Milano celebrava solennemente con una processione vespertina il giorno dedicato a San Francesco d’Assisi, sentivamo giungere nella nostra galleria d’arte che si trova appunto in piazza Sant’Ambrogio “Il Cantico delle Creature”, musicato da Angelo Branduardi e cantato dal coro dei pellegrini in processione.

«Laudato si’, mi’ Signore, per sor’acqua, la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta». Tutti gli abitanti della piazza, incluso l’architetto Luigi Caccia Dominioni, erano affacciati alle finestre, come

avviene al Palio di Siena. Fu a questo punto che trillò il mio telefono. Era Philippe: «Vieni subito – mi disse – è urgente e molto importante, ti devo presentare una persona». Se i fedeli avessero saputo dove andavo avrebbero cantato: «Laudato si’ mi’ Signore, per frate marmo per lo quale ennallumini lo jorno, forte ello è bello et iocundo et robustoso et forte». Difatti, in piazza Bertarelli, al quartier generale dei Daverio, Philippe mi presentò Paolo Carli e mi disse: «Ho pensato a te perché non abbiamo molto tempo, bisogna radunare le truppe militarmente, una cosa che tu sai fare. Il Premio Fondazione Henraux deve inaugurarsi fra nove mesi,

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a Querceta. Paolo è un imprenditore coraggioso, ha rimesso in piedi l’Henraux, che non ti devo spiegare cos’è perché già la conosci, sia come appassionato del marmo, sia come belga».

Cinquant’anni fa, Erminio Cidonio, allora amministratore unico di Henraux ebbe l’idea di chiamare alcuni dei più importanti artisti del tempo a cimentarsi col marmo dell’Altissimo: Henry Moore, Hans Jean Arp, Joan Miró, Marino Marini, Jacques Lipchitz e molti altri. Vennero a Querceta per “fare marmo”. Paolo Carli sta al marmo come Adriano Berengo sta al vetro. Anche quest’ultimo, sulle tracce di Egidio Costantini e di

Peggy Guggenheim, ha voluto riportare a Murano i grandi artisti contemporanei. A questo punto, prese la parola Paolo Carli: «Vogliamo creare una Giuria internazionale per un Premio internazionale. Ho intenzione di raccogliere il testimone di Erminio Cidonio e portarlo nel terzo millennio. Diamoci del tu. Te la senti di coordinare questo progetto e creare un consenso intorno al Premio? Naturalmente con la costante supervisione di Philippe e mia. Ci proponiamo di celebrare nuovamente le nozze fra Henraux e l’arte contemporanea». La mia adesione fu immediata. Paolo Carli, Presidente di Fondazione Henraux, Philippe Daverio,

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Paolo Carli, Jean Blanchaert e Philippe Daverio all’Henraux

A

Presidente della Giuria del Premio e io, Segretario Generale. Non era un periodo facile per le cave. Gli ecologisti protestavano perché sostenevano che lo sfruttamento della montagna fosse eccessivo, rivolto soprattutto a sbriciolare il marmo per ottenere carbonato di calcio destinato all’industria. Philippe Daverio aveva idee chiare e rilasciò a “La Nazione” una dichiarazione che fece epoca: «Impedire la coltivazione delle cave sarebbe come impedire di coltivare la vite sulle colline del Chianti. Solo ragionamenti fatti con pulsioni primordiali possono limitare la ratio e alimentare certi discorsi. Le Apuane, da Carrara a Pietrasanta, sono belle proprio per quella neve “mistica” che le colora di bianco anche d’estate, rendendole affascinanti a chi le guarda. Meno particolari sarebbero se fossero verdi come le montagne della Svizzera. Le cave si lavorano da millenni e il lavoro che ruota attorno al mondo del marmo va salvaguardato. Da queste cave nasce il lavoro e un po’ di quel bel caratteraccio legato alla pulsione anarcoide di questo territorio. Non confondiamo l’e-

cologia con discorsi da paccottiglia. Non esiste un’ecologia in sé, ma un rapporto tra uomo e natura, che tiene conto anche della produttività territoriale».

Henraux è un’azienda all’avanguardia dove i robot sono protagonisti, ma non si è perso quel senso di antico, di grande famiglia. I modellatori e gli sbozzatori, a volte di terza o quarta generazione, sono portati in palmo di mano. Renzo Maggi ne è un esempio. Figlio di scalpellino e padre di due filosofi, ha saputo guardare il marmo con occhio contemporaneo senza perdere la capacità di realizzare da solo dalla A alla Z un’opera, anche figurativa, scolpendola.

Nei primi anni’60, Philippe Daverio era in collegio, allievo interno, a Saverne, nel nord dell’Alsazia, non lontano da Strasburgo. Ha studiato e vissuto lì dai tredici ai sedici anni. Aveva scoperto che a venti minuti a piedi dalla scuola c’erano le cave di marmo travertino e pietra naturale coi quali erano state costruite molte cattedrali di Francia. Da un buco che aveva scavato sotto la recinzione che circondava l’istituto religioso, spesso riusciva a scap-

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In alto, la Giuria del Premio Henraux, edizione 2016. Dall’alto a sinistra in senso orario: Roberto Bernabò, Aurelio Amendola, Paolo Carli, Francesca Alix Nicoli, Mikayel Ohanjanyan, Claudio Pescio, Philippe Daverio, Marva Griffin Wilshire, Mario Botta, Gianluigi Colin.
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destra, Philippe Daverio con Paolo Carli

Per sei anni, Philippe Daverio e Paolo Carli hanno formato un duo paragonabile al più importante doppio maschile della storia del tennis italiano: Pietrangeli e Sirola.

pare alle cave e si beava in questo mare di pietra. Stare in silenzio da solo nella cava deserta è stata una delle materie più importanti del suo corso di studi. Quando conobbe le Apuane, il marmo era già nel suo cuore.

Nel settembre 2011, atterrato in elicottero con Paolo Carli sulla grande e immacolata piazza della Cava Cervaiole, sul Monte Altissimo, ritornò con la mente ai tramonti di Saverne e decise di buttarsi

ternazionale, da Mario Botta a Jan Fabre, da Christos Joachimides a Gabriella Belli. Per sei anni, Philippe Daverio e Paolo Carli hanno formato un duo paragonabile al più importante doppio maschile della storia del tennis italiano: Pietrangeli e Sirola. Dalla quarta edizione, nel 2018, il Premio, a scadenza biennale, è presieduto da Edoardo Bonaspetti. Edoardo, da ragazzo, seguiva con passione su Rai 3 le puntate di “Passepartout”, programma

anima e corpo nell’avventura del Premio Henraux. Lo spumante italiano, seppur buono, sta alla pietra naturale dell’Alsazia come lo champagne di Reims al bianco statuario dell’Altissimo.

Ci volevano un’energia, un entusiasmo e una competenza daveriani per rompere il ghiaccio, per ideare e affermare il Premio Fondazione Henraux, coinvolgendo grandi personaggi dell’arte italiana e in-

di Daverio su arte, storia e antropologia. Oggi, il nuovo presidente sta proiettando il Premio Henraux in una contemporaneità futura, continuando a creare quella magnifica collezione museale iniziata ai tempi di Erminio Cidonio e proseguita da Philippe Daverio sotto l’egida di Paolo Carli.

La storia, da quando mondo è mondo, si scrive in marmo. Acropoli docet.

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VILLA IL GIOIELLO: il restauro di una villa storica a Firenze, tra atmosfere ricercate e antiche suggestioni

A CURA DI PIERATTELLI ARCHITETTURE FOTO DI NICOLA GNESI

Il progetto di restauro reinterpreta un’antica dimora donandole un nuovo valore: suggestioni storiche si uniscono a funzioni contemporanee, tra composizioni materiche raffinate.

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A sinistra, bagno degli ospiti realizzato in marmo Arabescato Altissimo
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Schizzo degli esterni di Villa Il Gioiello
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Le colline di Firenze, il paesaggio toscano, le sue suggestioni. Villa Il Gioiello sorge in una delle zone più esclusive della città, lungo una strada stretta e tortuosa delimitata da caratteristici muri irregolari di pietra. Il complesso edilizio, situato in prossimità del centro storico, è appartenuto ai Vettori nel ‘400 e nel ‘500: il progetto di restauro a opera di Pierattelli Architetture lascia intatta la sua anima storica e dà origine a una residenza unifamiliare evocativa e contemporanea.

L’intervento dello studio fiorentino rinnova la struttura, ricostruendo e restaurando gli elementi originari, e attribuisce agli spazi interni nuove funzioni. Se da una parte i tratti dell’epoca rimangono visibili – la loggia esterna affacciata sul verde, gli archi e il camino di pietra del salone –,

dall’altra gli ambienti assumono un nuovo volto attraverso il gioco di superfici e l’accostamento sapiente di materiali naturali come marmo, travertino e legno di noce Canaletto.

Il progetto riscopre e valorizza la storicità degli ambienti, preservando l’atmosfera di vissuto grazie a un intervento puntuale e accurato.

I solai e le travi in legno originali sono stati ricostruiti, ma trattati in modo da mantenere vivo il fascino di antichi elementi; il pavimento è in formelle in teak massello indiano di recupero, ripulite lasciando ancora visibile traccia del loro vissuto.

L’inserimento di nuovi elementi architettonici, contemporanei e funzionali, e di arredi progettati su misura dallo studio fiorentino, dà vita a un contrasto delicato

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Render degli esterni di Villa Il Gioiello
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A destra, bagno degli ospiti realizzato in marmo Arabescato Altissimo
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Vasca in marmo Verde Alpi, design Humbert & Poyet In alto e a destra, bagno master realizzato in marmo Statuario Altissimo e Verde Alpi
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Storia e segni del tempo, insieme alla presenza avvolgente del paesaggio, definiscono gli ambienti distribuiti su cinque piani e una superficie totale di 700 mq. Gli spazi raccontano di un passato lontano attraverso un’interpretazione progettuale sofisticata.

ed equilibrato di memorie, storie, incontri. La villa si presenta così come un luogo dal fascino senza tempo, somma di stratificazioni stilistiche e storiche.

Storia e segni del tempo, insieme alla presenza avvolgente del paesaggio, definiscono gli ambienti distribuiti su cinque piani e una superficie totale di 700 mq. Gli spazi raccontano di un passato lontano attraverso un’interpretazione progettuale sofisticata. Ampie e ariose come all’epoca, le stanze del piano terra ospitano le aree destinate alla convivialità: il living, collocato in un salone spazioso a doppia altezza e sormontato da un’affascinante volta a crociera; la cucina rivisitata con i toni caldi del legno e quelli ricercati del marmo; la sala da pranzo, aperta verso l’esterno attraverso tre finestre ad arco, include una scala in corten disegnata dallo studio e realizzata da Niva, uno dei più importanti produttori di scale complesse a livello mondiale.

La maggior parte degli arredi è su misura, disegnati da Pierattelli Architetture per integrarsi perfettamente allo stile e alle esigenze dello spazio. Colori, materiale e geometrie sono stati scelti in accordo con il progetto architettonico: l’intervento di restauro si declina così attraverso molteplici livelli, assicurando una continuità stilistica in grado di rendere unico l’intero progetto.

accostato a finiture di ottone, che donano ai complementi un ulteriore tocco di raffinatezza.

Tra gli arredi progettati su misura anche la boiserie della camera padronale e i mobili degli ambienti bagno e living. Per la sala lettura del primo piano è stata pensata una grande libreria geometrica in noce Canaletto, con fianchi metallici e mensole dotate di strisce led.

Al piano mezzanino sono stati aggiunti nuovi ambienti dedicati allo svago, come la sala cinema e una hi-fi room con mobili progettati da Pierattelli Architetture. Le possibilità di relax e benessere si ampliano al piano interrato, dove si trova una palestra con sauna, mentre la zona notte occupa il primo piano.

Bagno del sottotetto realizzato in Travertino Romano tagliato

Realizzati artigianalmente da Carimati Arredamenti, gli arredi si caratterizzano per le linee pulite ed essenziali: si inseriscono negli interni con raffinatezza e misura, dialogando armoniosamente con le preesistenze e l’architettura. Il legno di noce, con la sua matericità ed eleganza, viene

Suggestiva la camera padronale, aperta sulla loggia e sul panorama delle colline toscane: uno spazio da scoprire, con angoli nascosti, che le nuove superfici e gli arredi rendono ricercato e intimo. Una scala in legno di noce Canaletto con parapetto trasparente e forme organiche, disegnata dallo studio e realizzata su misura sempre da Niva, caratterizza l’ambiente, mentre la pavimentazione è composta da formelle di recupero, perimetrate da una cornice in legno di teak indiano. La cura ai dettagli traspare dalle boiserie in legno di noce Canaletto poste a soffitto e a parete, dove una porta nascosta conduce alla cabina armadio.

Il sottotetto accoglie lo studio del proprietario e un appartamento per gli ospiti: il primo è accessibile dalla scala nella zona notte, il secondo da quella in corten della sala da pranzo. Dotato di camera da letto

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al verso

con luce zenitale, bagno e zona living, lo spazio per gli ospiti è stato ricavato con la realizzazione di un nuovo solaio passante che ha permesso di incrementare la superficie della villa.

Pierattelli Architetture ha dedicato la massima attenzione alla progettazione dei bagni che diventano luoghi accoglienti, dai tratti moderni e lussuosi.

Il bagno padronale al primo piano è impreziosito da un rivestimento bicolore: il contrasto cromatico del marmo Statuario Altissimo del Monte Altissimo, poco venato, e il marmo Verde Alpi dà origine a un ambiente unico, inaspettato e sofisticato.

Il tono caldo del noce Canaletto e i riflessi dell’ottone enfatizzano l’atmosfera accogliente. La doccia, disegnata da Michael Neumayr per Dornbracht, è dotata di sistema Aquamoon, che produce quattro modalità di getti d’acqua ed emissioni di profumi, offrendo un’esperienza multisensoriale.

Il marmo è protagonista di tutti i bagni della villa. Il Marmo Travertino è stato scelto sia per il bagno del cinema sia per quello del sottotetto: nel primo con controfalda con venatura verticale, nel secondo un Travertino Nuvolato tagliato in falda.

Un candido marmo bianco Arabescato Altissimo, caratterizzato da forti venature,

definisce i bagni di servizio e quelli dei ragazzi al primo piano. Materiale antico e dall’eleganza senza tempo, il marmo utilizzato per la villa è firmato Luce di Carrara.

Il marmo si inserisce negli spazi disegnati dallo studio fiorentino con versatilità ed eleganza. Un materiale, ma anche un linguaggio che contraddistingue il progetto: un unicum dal quale vengono sviluppate soluzioni inedite e personali. Pierattelli Architetture ha scelto i marmi di Luce di Carrara per la preziosità materica e la qualità Made in Italy dei prodotti, oltre che per la capacità del marchio di dare vita a soluzioni personalizzate e su misura.

Per gli arredi e complementi, sono stati scelti i rubinetti Vaia di Dornbracht, mobili e specchi di Antonio Lupi, i sanitari Sfera Newflush di Catalano e i termoarredi di Tubes. Per i lavabi sono state inserite le forme morbide e avvolgenti di Bull, Urnamood e Poggio firmate Antonio Lupi.

Il giardino esterno è stato riprogettato e ampliato. Alcuni alberi sono stati sostituiti e la siepe che inizialmente si trovava in prossimità della villa è stata spostata e abbassata con la collaborazione di un architetto paesaggista, ed è stata realizzata una rimessa per le auto.

A destra in basso, bagno del sottotetto realizzato in Travertino Romano tagliato al verso

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A destra in alto, bagno della sala cinema realizzato in Travertino Romano tagliato al contro
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SCOLPIRE. NUOVE TECNOLOGIE PER LA SCULTURA LAPIDEA NEI LABORATORI APUO-VERSILIESI

In anteprima per “Marmo”, uno stralcio del nuovo libro di Valentina Fogher. Al centro dell’estratto, l’evoluzione dei ruoli dell’artista e dell’artigiano a seguito di una sempre più progressiva automazione: con i robot, lo scultore diviene anche progettista e l’artigiano si “digitalizza” diventando esperto di elettronica e di meccanica.

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Braccio antropomorfo nello Studio Stagetti, Pietrasanta (*) DI VALENTINA FOGHER FOTO DELL’ARCHIVIO FOGHER
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Dai primi anni del ‘900, l’attività scultorea in Versilia divenne sempre più vivace con l’apertura di numerosi laboratori per la lavorazione del marmo e il conseguente specializzarsi degli artigiani che si dedicavano in particolar modo alla statuaria figurativa classica. Questo settore venne ad un certo punto segnato da un particolare episodio: l’arrivo nel 1956 di Henry Moore presso la Ditta Henraux di Querceta per la realizzazione di “Reclining Figure” per la sede dell’UNESCO di Parigi. La traduzione in opera di questa scultura diede inizio a una prominente produzione internazionale di scultura contemporanea in marmo: da allora l’area apuo-versiliese divenne meta preferita di moltissimi artisti provenienti da tutte le parti del mondo. Si creò così una completa rivalutazione del marmo nell’ambito della scultura e ciò fece sì che nascessero alcuni laboratori specializzati dedicati quasi esclusivamente alla scultura contemporanea, con il conseguente investimento in attrezzature appropriate.

La maggior parte degli utensili impiegati ancora oggi nella scultura lapidea sono rimasti quelli che sono stati usati dagli Egizi in poi - punta, subbia, gradina, trapano, bocciarda, raspa, lima - e diversi abrasivi, quali la sabbia, la pietra pomice o lo smeriglio, preferito dai Greci. Fondamentale quindi divenne nel corso dei secoli la collaborazione tra l’artista e l’artigiano, a cui era affidata l’esecuzione della scultura, mentre al primo l’idea, l’eventuale creazione del bozzetto in creta o cera e quindi la finitura finale.

E proprio in quest’area c’è stato un continuo e progressivo evolversi delle tecniche della lavorazione lapidea, soprattutto con l’introduzione di sistemi di automazione, ora più che mai perfezionati grazie ai computer e alla robotica. I laboratori artigianali di Carrara, Massa, Seravezza e Pietrasanta hanno da sempre fatto a gara per bravura nella realizzazione delle loro opere. All’epoca della loro produzione più intensa, a cavallo tra ’800 e ‘900, alcuni di questi studi potevano impiegare anche oltre un centinaio Disegni di utensili

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L’artigianato della manodopera tradizionale nella lavorazione del marmo sta diventando così un artigianato dell’era digitale: la macchina è un’estensione meccanica del braccio dell’artigiano, che ora si confronta con nuove tecnologie.

di artigiani, ognuno dedito alle proprie distinte mansioni. E con l’evoluzione del lavoro, sono stati introdotti via via macchinari sempre più specifici, che potessero coadiuvare l’artigiano nelle proprie funzioni.

Determinante quindi per la scultura è stata l’adozione della cosiddetta “automazione”, considerata come l’insieme delle tecniche e dei metodi per sostituire o ridurre l’intervento umano in un’attività lavorativa. Questa, applicata alla lavorazione scultorea lapidea, si divide nel settore delle macchine a controllo numerico, che dalla sbozzatura del blocco arrivano talvolta alla quasi-finitura del pezzo, e in quello della robotica, con l’uso dei bracci antropomorfi.

Le macchine a controllo numerico (CNC o computer numerical control ) sono macchine utensili, dirette da un computer integrato, che ne dirige gli spostamenti e comanda le funzioni secondo un programma di lavoro preimpostato. I robot antropomorfi fanno parte invece della più grande famiglia dei robot industriali, che secondo la norma ISO TR/8373-2.3, vengono definiti «manipolatori con più gradi di libertà, governati automaticamente, riprogrammabili, multiscopo, che possono essere fissi sul posto o mobili per utilizzo in applicazioni di automazioni industriali».

Di conseguenza i costruttori di macchine utensili si sono adeguati al settore lapideo, adattando le attrezzature alla richiesta. L’artigianato della manodopera tradizionale nella lavorazione del marmo sta diventando così un artigianato dell’era digitale: la macchina è un’estensione meccanica del braccio dell’artigiano, che ora si confronta con nuove tecnologie. Questo comporta un preciso

lavoro di comprensione dell’attività che il robot può eseguire, perché la macchina deve essere costantemente controllata e programmata a seconda del taglio e delle venature del blocco di marmo, applicandovi frese o punte adatte, da sostituire prima dell’usura. D’altro canto, i robot antropomorfi sono caratterizzati da un’altissima automazione, per cui il loro controllo e struttura permettono una notevole flessibilità meccanica e garantiscono la copertura di zone dello spazio circostante irraggiungibili dalle altre tipologie di macchine: sono in grado di raggiungere uno stesso punto con differenti configurazioni degli assi e di mantenere elevati livelli di precisione e ripetibilità, arrivando a realizzare una scultura fino al quasi 90% della sua esecuzione finale. Il lavoro di finitura rimane invece ancora manuale, perché a quel punto la mano dell’uomo, data la varietà di strumenti da usare, è più abile e definita della macchina.

La maggior parte degli artisti si adegua volentieri all’“evoluzione” dei loro artigiani di fiducia, anche perché la velocità di esecuzione del lavoro dei robot contribuisce notevolmente ad abbassare i costi di manodopera e a ridurre i tempi di realizzazione. Come ci insegna Adolfo Wildt nel suo “L’arte del marmo” 1 , la maggior parte degli artisti affida la realizzazione delle proprie sculture agli artigiani, se non in toto, almeno per le prime sequenze della lavorazione, cioè quelle della sbozzatura e della punteggiatura, che in genere sono molto faticose e portano via tempo prezioso, per chi è in piena vena creativa. Gli artigiani d’altronde hanno capito che loro stessi possono affidarsi alle macchine per ridurre le fatiche, accorciare i tempi di

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File 3d di una scultura
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lavorazione, migliorare la produttività e ovviare a possibili errori umani. Ciò, d’altronde, comporta anche un elevato investimento per il costo iniziale delle macchine, con relative problematiche di manutenzione e una maggiore preparazione di base. Questo ha fatto sì che al posto della figura tradizionale dello sbozzatore, dunque, si sostituisse piuttosto quella di un operatore informatico, che attraverso nuovi software sapesse programmare e controllare i computer integrati nelle macchine stesse. Questo passaggio è stato in certi casi traumatico e in altri ha invece portato a uno stadio di avanzamento. Se molti studi artigianali si sono trovati a chiudere, perché non in grado di mantenere il proprio personale, in altri l’automazione ha generato maggiore indipendenza e gestione familiare intergenerazionale. Gli artisti più innovativi si sono addirittura spinti fino a imparare loro stessi a creare i loro bozzetti al computer, per poi stamparli con stampanti 3D o inviare invece i file direttamente al laboratorio, in un modo puramente “oggettivo”, dall’artista alla macchina, senza fasi intermedie di manipolazioni esterne.

La figura dell’artigiano, nella sua accezione tradizionale, piano piano è destinata a scomparire, e con lui tutta la sapienza ed esperienza, passate di generazione in generazione. Nella sua evoluzione l’artigiano si è “digitalizzato”, è diventato un programmatore, un esperto in primis di software, di elettronica e di meccanica. Il mettere sempre più alla prova le capacità performative dei software e dei robot, ha fatto sì che anche la scultura stessa superasse quotidianamente nuovi traguardi, portando a uno sviluppo emergente della ricerca in campo tecnologico al servizio della creatività, in una sfida costante tra uomo e macchina, e generando così un investimento per le generazioni future di artisti e di “addetti” alla scultura, in cui questa non sarà più sinonimo di pesantezza e maestosità, ma anche di leggerezza e adattabilità.

In fondo, sia la subbia che il braccio antropomorfo sono solo strumenti. Come sostenne Marshall McLuhan: «Ogni invenzione o tecnologia è un’estensione o un’auto-amputazione dei nostri corpi fisici […] tale estensione richiede nuove proporzioni o nuovi equilibri tra gli altri organi e le estensioni del corpo»2.

NOTE

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(*) Volume di prossima uscita per Pacini Editore, Pisa. 1 A.Wildt, “L’arte del marmo”, Milano, Ulrico Hoepli Editore, 1922, II ed., pp. 8-10. 2 M. Mc Luhan, “Gli strumenti del comunicare”, Il Saggiatore, Milano, 1967, p. 9. Utensile di ultima generazione di un braccio antropomorfo
Architettura

MICHELUCCI, IL MARMO E LO SPAZIO DINAMICO

L’autrice delinea il ritratto di uno tra i più importanti progettisti del Novecento: il suo carattere solitario ed eclettico – oltre ad architetto e urbanista, è stato anche considerevole incisore – gli ha permesso di elaborare un linguaggio personale e ha impedito che il suo operato fosse assimilato e assimilabile a correnti precise.

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DI CHIARA BEVILACQUA FOTO DI NICOLA GNESI L’esterno della Chiesa di San Giovanni Battista “dell’Autostrada”. Nella pagina seguente, un dettaglio a mosaico su una delle facciate
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Per Michelucci l’architettura non è la manifestazione dell’individualità e dell’abilità del progettista ma piuttosto una conseguenza della collaborazione di professionisti ed esperienze legate da un fine comune: la costruzione di uno spazio a misura d’uomo.

Giovanni Michelucci (Pistoia, 2 gennaio 1891 - Firenze, 31 dicembre 1990) è uno dei maggiori architetti del XX secolo. Ha insegnato per molti anni alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze e per qualche tempo a quella di Ingegneria dell’Università di Bologna. Alla base dell’esperienza di Michelucci c’è una tradizione artigiana maturata nella fonderia del nonno paterno che gli permette di imparare tecniche di lavorazione quali la tornitura e la sagomatura, nonché la cura del dettaglio e delle rifiniture. Nasce nel secolo che vede un’ampia diffusione dell’acciaio, di cui apprezza la versatilità. Michelucci segue assiduamente i cantieri dove osserva e apprende, mosso dal desiderio di entrare nel processo costruttivo, instaurando un rapporto diretto con le maestranze. L’architetto riflette attentamente sugli aspetti costruttivi dell’architettura fissandoli in sapienti scatti fotografici durante i suoi viaggi. Per Michelucci l’architettura non è la manifestazione dell’individualità e dell’abilità del progettista ma piuttosto una conseguenza della collaborazione di professionisti ed esperienze legate da un fine comune: la costruzione di uno spazio a misura d’uomo. Mostra una naturale inclinazione a scomporre l’opera per comprendere i segreti costruttivi e i dettagli tecnici. Ma Michelucci non guarda solo il dettaglio: egli, infatti, riflette minuziosamente sulle dinamiche “città-architettura” in modo da evidenziare

sempre l’importanza della completa integrazione del costruito con l’ambiente naturale. Fa propria la logica formale e costruttiva delle architetture viste e studiate, non per replicarle, ma per assimilare i meccanismi costitutivi e rielaborarli attraverso un’originale e completamente personale azione compositiva. Specialmente nelle opere del secondo Michelucci è possibile rintracciare un’esemplare fusione tra concezione dello spazio, struttura e forma che elimina il limite tra interno ed esterno. Nella visione “michelucciana” lo spazio è concepito in senso dinamico. Esso diventa infatti “spazio della vita”, ovvero l’unico spazio in grado di creare un nesso reale con l’uomo. Racchiudendo tutto alla dimensione umana si definisce facilmente anche la concezione di città secondo l’architetto: egli amava definire la città come storia in continuo divenire, risultato di storie e tradizioni derivanti da particolari relazioni che nel tempo ne hanno creato struttura, sostanza ed essenza. La città diviene mutevole, risolta ogni giorno attraverso la vita dei propri abitanti e capace di conservare la propria singolarità nel tempo anche nonostante gli inevitabili cambiamenti.

Di grande rilevanza è senza dubbio il progetto della Chiesa di San Giovanni Battista “dell’Autostrada”. A metà strada tra Milano e Roma, dove l’Autostrada del Sole incontra la Firenze-Mare, è stato individuato il nodo dove venne realizzata la chiesa per

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Gli interni della chiesa Foto Archivio Henraux
Architettura
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Michelucci, liberatosi dal concetto tradizionale di edificio, scompone la “scatola muraria”, interpretata come ostacolo al continuo cambiamento dello spazio e al fluire della vita, e individua nel sistema dei percorsi un valore predominante dell’architettura.

commemorare gli oltre cento operai morti durante la costruzione di quella grande opera pubblica.

L’incarico viene affidato nel 1958 a Lamberto Stoppa ma nascono alcune polemiche che suscitano opposizioni e riserve al suo progetto. Così la proposta viene fatta a Michelucci, il quale dopo vari dubbi accetta.

I primi schizzi risalgono al 1960 e il concetto sul quale Michelucci fonda la propria proposta risulta chiaro da queste sue stesse parole: «Il concetto strutturale al quale mi sono ispirato è semplice, mi sembra, e l’ho chiarito nel primo schizzo che ho fatto: una tenda portata da dei bastoni…».1

Il tema della tenda deriva da archetipi biblici anche se l’architetto persegue e fonda il proprio operato principalmente sull’idea di spazio. Michelucci chiarisce la genesi del progetto che si sviluppa a partire dall’interno verso l’esterno: «Una tenda, una tenda dei beduini o degli Israeliti nel deserto che può significare, analogicamente, il transito e non la dimora definitiva degli uomini sulla terra. Dico può, perché questa forma è un risultato e non una premessa. Non sono partito dall’idea della tenda per assoggettarle poi la struttura interna, ma la forma ha cominciato a delinearsi in conseguenza del tessuto interno»2

Si riscontrano in molti progetti dell’architetto delle tematiche ricorrenti: il percorso e la tenda diventano il punto cardine della

composizione michelucciana. Essi sono simboli religiosi, ricordano la caducità della vita dell’uomo e il suo temporaneo passaggio sulla terra in transito verso Dio, ma sono anche metafora di un’umanità votata al nomadismo, alla ricerca di stimoli culturali e di condizioni di vita migliori. Michelucci, liberatosi dal concetto tradizionale di edificio, scompone la “scatola muraria”, interpretata come ostacolo al continuo cambiamento dello spazio e al fluire della vita, e individua nel sistema dei percorsi un valore predominante dell’architettura. Lo spazio diventa percorso, l’architettura esperienza spaziale nel tempo. Entro il mese di dicembre 1960 i disegni per la chiesa precisano il progetto consolidandone l’assetto definitivo. Nello studio dei percorsi, non esistono direzioni prevalenti su altre: è un fabbricato la cui immagine risulta completa da qualsiasi prospettiva la si colga. Si tratta di un organismo che focalizza lo spazio e il paesaggio attirando il fedele in una percezione che annulla le tipiche progressioni prospettiche.

In questo progetto si abbandonano le tradizionali gerarchie costruttive; non esistono infatti distinzioni tra pareti e copertura, tra strutture portanti ed elementi portati; non è più constatabile la distinta successione delle facciate – frontale, posteriore e laterali – e anche la separazione tra interno ed esterno tende a sbiadire. La tenda non ha forma

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univoca; è una conseguenza della natura e dello sviluppo dei sostegni. Non esiste una distinzione tra la base e la copertura né tra la facciata e i fronti secondari. La copertura alla quota più alta è vincolata alla trave principale, mentre dall’altro lato poggia sulle capriate cementizie impostate sulla parete che delimita la cappella dei matrimoni.

Michelucci era fortemente legato agli ambienti delle cave apuane. Esistono numerosi disegni che confermano la presenza dell’architetto nelle cave al fine di scegliere il marmo da destinare alle proprie opere: alcuni disegni risalenti al maggio 1972 lo vedono coinvolto nella progettazione di un Memoriale Michelangiolesco sulle Alpi Apuane, opera mai realizzata di cui si conservano solo schizzi preparatori ed una ricostruzione in gesso realizzata da Bruno Sacchi e “Studio Forte 63”, conservata presso la Fondazione Michelucci di Fiesole. Inoltre, la sua collaborazione con Henry Moore nella realizzazione del progetto del memoriale sulle Apuane e numerose foto della Chiesa di San Giovanni Battista nell’archivio fotografico della Henraux S.p.A., lasciano intendere una collaborazione diretta con quest’ultima.

Anche nel progetto del memoriale da erigersi sulle Alpi Apuane, dedicato a Michelangelo in occasione del quinto centenario dalla nascita, è possibile riscontrare i temi cari a Michelucci e presenti anche nel pro-

getto della Chiesa di San Giovanni Battista. Ancora la tenda, i percorsi e l’eliminazione di qualsiasi confine tra interno ed esterno, tra naturale e costruito. L’architettura diventa un potente mezzo attraverso il quale il progettista, in collaborazione con i costruttori, deve esprimere i propri valori. Nei progetti della prima fase michelucciana, che riguardano principalmente gli anni Cinquanta, ruolo preponderante ha il rapporto con il contesto, aspetto che rimarrà di spessore anche nei progetti successivi dove ogni elemento è strutturato in funzione del luogo di ubicazione. Essenziale è anche la grande capacità di scelta dei materiali in relazione al luogo e l’utilizzo di tecniche costruttive che mirano al rispetto della tradizione passata.

In Michelucci emerge l’importanza e la continua ricerca dell’archetipo. Ricorrente quello della tenda, riscontrabile in moltissimi dei suoi schizzi e realizzato nella Chiesa dell’Autostrada: tema che richiama una sinuosità raggiunta anche attraverso l’utilizzo di materiali spesso considerati limitanti per ottenere determinate forme, nonché chiari riferimenti e ricerca di continuità con la morbidezza spesso trasmessa solo dalla perfezione degli elementi naturali. Degno di nota l’archetipo del pilastro dendriforme che Michelucci utilizza nella Chiesa dell’Autostrada a sostegno della magnifica copertura a vela che svolge anche funzio-

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Uno schizzo della Chiesa di San Giovanni Battista
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Una veduta degli interni della chiesa

ne evocativa richiamando la natura e il suo ruolo protagonista in tutto il pensiero dell’architetto. Alla base del pensiero dell’ultimo Michelucci vi è la certezza della complessità e universalità della natura, le cui leggi sono per lui sicurezza. La natura diventa ossatura portante dei suoi progetti entrando nel suo spirito creativo con sempre maggiore intensità. Essa non è semplicemente ciò che ci circonda e che ci offre paesaggi e scenari di grande bellezza, quanto piuttosto uno stimolo indispensabile dell’agire umano che consente un orientamento necessario: «… Natura è ciò che entrando dentro di noi suscita un’evoluzione tale per cui ci si accorge che si è sbagliato ogni cosa»3. Michelucci sostiene l’importanza di aderire alla terra e di trovare nella terra l’ispirazione senza ricercare – in architettura – quelle “altezze” che sarebbero sempre in svantaggio rispetto alla maestosità della natura. Concetto particolarmente forte nello studio per il Memoriale Michelangiolesco. Egli si reca più volte sulle Apuane per vivere quelle sensazioni che poi avrà modo di esprimere nei suoi progetti. Attento osservatore, cattura in scatti fotografici ciò che lo colpisce nei luoghi che visita alla ricerca delle “voci” delle cave: «Io ho percorso coste e crinali per render-

mi conto dei punti di vista, ma anche per avere sensazioni precise in rapporto alle cose vicine e lontane. A un certo punto si ha una cava, una grande cava, di fronte, in cui si vede il lavoro. Allora si sente che il lavoro, il lavoro reale (si vede la gente che si muove, si sentono i colpi di mazza) ha una precisa funzione e fisionomia: e di fronte a questo il lavoro diciamo intellettuale può apparire, qui, fuori posto e fuori scala. Ti porti dietro un oggetto che ti sembra importante, e qui è falso (…). E questo succede perché qui si cambia noi, ci si spoglia di tante cose. Qui ci sono delle forme: delle forme che sbalordiscono (…). Il mio discorso è quindi quello di aderire alla terra e di trovare nella terra le ragioni di un fatto poetico, di scendervi con queste forme, con questi percorsi. Inutile cercare quassù le altezze; non si potrà mai competere con questo mondo: non ci si fa; si farebbe una brutta figura».4 Questo atteggiamento progettuale privilegia quella estensione dello spazio, premessa della composizione tardo rinascimentale, attraverso una fluidità spaziale e attraverso la presenza di elementi in contrapposizione come i sostegni della tenda che si apre ad accogliere il paesaggio impossibile da delimitare né dal punto di vista fisico né da quello culturale o mentale.

NOTE

1 F. Borsi: “Giovanni Michelucci, intervista”, Firenze 1966

2 G. Michelucci, in “Chiesa dell’Autostrada del Sole “San Giovanni Battista””, a cura di E. Pierattoni, Idest, Campi Bisenzio 2003, p. 26.

3 G. Michelucci, intervista di M. Lupano, Colloquio con Giovanni Michelucci, in “Domus”, 720 (1990), p.24

4 G. Michelucci, in P.C. Santini, “L’ultimo Michelucci e un’idea per Michelangelo”, in “Ottagono”, IX, 34 (1974), p.103

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LA SCELTA DEL MARMO E IL SUO IMPIEGO PER IL “300 COLORADO” DI AUSTIN

L’intervento dello studio Pickard Chilton nella città americana di Austin per la realizzazione dell’edificio “300 Colorado” è caratterizzato da una grande attenzione ai dettagli. Soprattutto nella scelta dei materiali, che coniuga qualità, funzionalità e bellezza degli spazi. Per questo, il marmo italiano, e quello di Henraux in particolare, è parsa la scelta più naturale.

DI PICKARD CHILTON
Architettura
Architettura Gli esterni dell’edificio “300 Colorado” a Austin, in Texas

Lo studio ha subito compreso che l’edificio doveva distinguersi non solo per la qualità della sua struttura architettonica e dei suoi servizi, ma anche per la bellezza della sua hall

Il nostro studio di architettura, Pickard Chilton, ha alle spalle una lunga e illustre collaborazione con la Cousins Properties, la famosa società di investimenti immobiliari, collaborazione che risale a uno dei nostri primi progetti,“The Pinnacle”, un grattacielo di 22 piani (41.800 m2) adibito a uffici, ad Atlanta in Georgia.

Considerato dalla Cousins Properties come un edificio simbolo nel loro portfolio, le finiture interne del Pinnacle dovevano rispecchiare il livello artistico dell’architettura esterna. L’accogliente hall è rifinita in marmo Fior di Pesco Carnico, scelto per rivestire anche l’interno degli ascensori. Se c’è una costante che ricorre nello straordinario portfolio della Cousins Properties è il rispetto che hanno sempre avuto per la qualità della pietra naturale e il valore che essa conferisce a ognuno dei loro progetti: una bellezza innata, senza tempo, e la capacità di trasmettere l’idea di raffinatezza e durevolezza.

Fino a poco tempo fa, Pickard Chilton e Cousins Properties avevano lavorato insieme principalmente ad Atlanta, in Georgia. Nel 2017, lo studio è stato incaricato da Tim Hendricks, vicepresidente senior e amministratore delegato della sede di Cousins ad Austin, di progettare il “300 Colorado”, una nuova torre uffici di 32 piani: 132 m di altezza e 17 piani destinati a uffici di classe A collocati su tredici piani adibiti a parcheggio.

Nel fervido mercato altamente competitivo dei progetti edilizi per uffici, il “300 Colo-

rado” è stata la prima incursione di Pickard Chilton nella dinamica città di Austin. Lo studio ha subito compreso che l’edificio doveva distinguersi non solo per la qualità della sua struttura architettonica e dei suoi servizi, ma anche per la bellezza della sua hall che, offrendo la prima impressione di tutto l’edificio, doveva essere rappresentativa delle persone che sarebbero andate a occupare gli uffici della torre.

Dall’inizio del progetto, è stato subito evidente che il signor Hendricks e Jon Pickard avevano una predilezione per il marmo naturale e, in particolare, per il marmo italiano. Nel discutere le idee preliminari per la hall, si sono trovati d’accordo sul desiderio di inserire una pietra senza tempo per definire e caratterizzare l’ingresso dell’edificio. Hendricks, con un’esperienza trentennale nel settore della realizzazione, collaborava già e lavorava a stretto contatto con Henraux, il celebre fornitore di marmo italiano, nello specifico con Paolo Carli. La sua profonda conoscenza della pietra, delle finiture e delle applicazioni ha permesso di prendere decisioni consapevoli e tempestive in termini di scelta dei materiali.

Il progetto “300 Colorado” include un mix di marmi per il pavimento principale della hall, per le pareti e per le finiture caratteristiche. Nell’agosto del 2019, Hendricks e Pickard hanno collaborato con il team di Henraux per la scelta del marmo che soddisfacesse le loro aspirazioni progettuali. Per le pareti interne dell’atrio principale è stato scelto il Travertino Romano, per la

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Una veduta della hall dell’edificio
126 Il desk della reception Architettura

Henraux ha curato con estrema attenzione tutti i dettagli del desk, e ha preparato addirittura un modello dimostrativo per il gruppo di designer che nell’ottobre del 2019 e giunto in Italia per visitare l’azienda.

sua atemporalità, per la sua bellezza estremamente naturale, e per le sue marcate venature orizzontali. Questo materiale ha una storia davvero importante, poiché in passato venne scelto per alcuni dei monumenti più iconici di Roma: il Colosseo, la Basilica di San Pietro e la Fontana di Trevi. La sfida principale che i progettisti del team Henraux hanno dovuto affrontare con questo tipo di pietra è stato disporre in modo coerente la venatura orizzontale del marmo sulle diverse pareti della hall alte

6,7 m. Questo pattern (orizzontale) è stato ulteriormente accentuato da un ribasso orizzontale nei giunti.

Il granito Jet Mist degli Stati Uniti è stato scelto come pietra principale del pavimento della hall per il suo colore, la sua resistenza e la sua eleganza. La predisposizione trasversale di questa pietra ha messo in evidenza lo sfondo scuro con dolci venature bianche sparse su tutto il pavimento, creando una base decisamente complementare ai toni della terra del travertino romano alle pareti.

L’area della hall che porta all’ascensore è messa in risalto dalle venature del limestone Jesenice. La pietra di colore chiaro crea un contrasto con il contiguo granito Jet Mist, offrendo un indizio visivo della variazione d’ambiente.

Elemento centrale della hall, il desk della reception è il risultato dell’unione tra l’abilità artigianale dell’Henraux e lo splendore della pietra naturale. È stato realizzato in marmo Graphite una pietra che presenta una venatura diagonale che va a contrastare con la sua finitura levigata.

La forma del desk si anima grazie al corrispondere delle venature sugli angoli esterni che danno l’impressione che il banco sia stato scolpito da un unico blocco di marmo, quando in realtà lo spessore del materiale con cui è stato realizzato è di soli 2 cm.

Henraux ha curato con estrema attenzione tutti i dettagli del desk, e ha preparato addirittura un modello dimostrativo per il gruppo di designer che nell’ottobre del 2019

è giunto in Italia per visitare l’azienda. Il prototipo, basato sui bozzetti iniziali di Jon Pickard, ha confermato al team che la venatura desiderata, che andava a unirsi su tutti i lati del desk, era realizzabile ed elegante proprio come nel progetto.

Durante quel loro viaggio per valutare i materiali, Henraux realizzò anche ampie campionature di tutti i marmi presenti nel progetto della hall per il “300 Colorado”: il pavimento, le pareti e le particolari caratteristiche del desk della reception.

Il consulente Raoul Luciani, della ISCS SA (Independent Stone Consulting Swiss SA) in collaborazione con Henraux, ha messo a disposizione la sua esperienza per il corretto accostamento del materiale e per il coordinamento delle procedure di pre-posa durante la lavorazione della pietra, affinché si potesse realizzare il progetto presentato da Pickard Chilton e Cousins Properties. Per i vanity top delle toilette è stato utilizzato il materiale Astral Grey con una finitura levigata. Questa pietra è stata scelta per il suo grigio freddo, colore complementare che ben si armonizzava con lo stile equilibrato e le tonalità delle finiture del bagno.

Durante la loro visita all’Henraux, Tim Hendricks e Jon Pickard si sono a lungo soffermati sulle maniglie in marmo Versilys della porta d’ingresso dello showroom “Luce di Carrara” presso lo stabilmento Henraux di Querceta. Come riconoscimento dell’amicizia che lega da anni le due aziende, Hendricks e Pickard hanno deciso di modellare degli inserti in marmo Versilys simili per le maniglie della porta d’ingresso della hall del “300 Colorado”. Inoltre, in omaggio all’Henraux, hanno deciso anche di incidere sulla maniglia della porta il logo “HX 1821” insieme al nome dell’edificio. Il recente completamento del “300 Colorado” consentirà agli abitanti del palazzo e ai visitatori di accedere e apprezzare i dettagli della sua hall progettata e realizzata ad arte: una dimostrazione della versatilità e dell’eleganza della pietra.

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LA FOTOGRAFIA COME LINGUAGGIO DELLA VISIONE E SENTIMENTO DEL TEMPO

DI COSTANTINO PAOLICCHI FOTO DI GIOVANNI UMICINI

Un ricordo del grande fotografo Giovanni Umicini a pochi mesi dalla sua scomparsa. Un ritratto carico di sensibilità, perché ricco di sensibilità, professionale e umana, era il suo protagonista. La giovinezza a Firenze, il trasferimento a Padova e il passaggio – nella sua vita nomade – da Seravezza, di cui nei suoi scatti aveva saputo restituire la fatica del vivere e la profonda umanità.

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Dei toscani, Umicini possedeva e conservava l’apparente ruvidità del carattere e la semplicità dei modi, la curiosità di conoscere e di sperimentare, la capacità di stabilire relazioni umane profonde e durature, l’istintiva sensibilità per l’armonia e l’amore per la bellezza.

Nella notte tra giovedì 17 e venerdì 18 settembre 2020 è scomparso il celebre fotografo Giovanni Umicini. Aveva da poco compiuto 89 anni, essendo nato a Firenze il 18 luglio 1931. Umicini si era trasferito nella città del Santo nel 1953, assumendo la direzione tecnica del laboratorio Kodacolor. A Padova era legato da un intenso rapporto e alla città d’adozione aveva dedicato la mostra fotografica “Per Padova”, sintesi di un lavoro di oltre cinquant’anni, esposta al Museo Civico del Santo per circa quattro mesi a cavallo tra il 2007 e il 2008 e poi divenuta permanente all’ultimo piano del centro culturale San Gaetano di via Altinate.

Dei toscani, Umicini possedeva e conservava l’apparente ruvidità del carattere e la semplicità dei modi, la curiosità di conoscere e di sperimentare, la capacità di stabilire relazioni umane profonde e durature, l’istintiva sensibilità per l’armonia e l’amore per la bellezza che si manifesta con infinite forme e modalità, in insospettabili luoghi e situazioni.

A Seravezza, piccolo paese incuneato fra i monti della Versilia, antica enclave fiorentina dove i Medici si adoperarono per valorizzare i marmi locali, e dove Cosimo I fece costruire intorno al 1565 una villa-fortezza, Umicini era giunto nell’anno 2003, quando il Comune allestì nelle sale espositive di quella stessa villa la sua mostra personale “Street Photography”.

L’anno seguente vi tornava insieme all’amico e “maestro di vita”, il fotografo americano Walter Rosemblum, che a Palazzo Mediceo presentava un’ampia antologica.

Da allora Seravezza, con le sue montagne e la sua gente, in questo angolo appartato della Toscana nord-occidentale, gli era entrata nel sangue, aveva risvegliato in lui sentimenti d’appartenenza, quell’istinto che proviene da lontane radici mai rinnegate né dimenticate, tanto che poi – a chi gli chiedeva ragione di un lavoro così impegnativo nelle cave di marmo delle Cervaiole, dove ha speso diversi anni – egli prima di tutto dichiarava: «Volevo fare un omaggio alla mia terra».

Un omaggio che non riguardava i territori dell’Arno, le città d’arte e nemmeno la sua Firenze, ma una cava della Versilia alta sopra il mare nel cuore delle Apuane dure e taglienti, perché forse proprio qui Giovanni Umicini aveva esemplificato la “sua” toscanità, che appare distante dai luoghi e dai paesaggi che nel mondo identificano la geografia culturale della regione, costruiti dalla mano sapiente di molte generazioni di contadini e maestri muratori, e che nella loro geometrica perfezione sembrano escludere quelle passioni e quei tormenti, quelle asperità e quella fatica del vivere che invece Umicini aveva cercato, e trovato, nel fermento di grandi città, come New York; nel frenetico agitarsi degli uomini lungo le strade e nelle piazze, dove la vita scorre e si rivela nelle sue tante contraddizioni; dove l’umanità ha mille volti, dove più facile è osservare e incontrare genti diverse, e cogliere della loro faticata esperienza le emozioni, le impressioni,

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Giovanni Umicini, 2007
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Le città di Umicini sono New York, Parigi, Berlino, Padova, ma sono soprattutto le città dell’uomo, dovunque nel vasto mondo accomunate da analoghe esigenze di vita, attraversate dalla passione, dal dolore e da effimere felicità.

quel “momento decisivo” che è dato da un sorriso, da uno sguardo, da un segno anche impercettibile che nel macrocosmo urbano è rimasto come traccia della loro presenza o del loro passaggio.

Umicini aveva fame d’umanità. Era nato con l’istinto del viaggiatore e dell’esploratore: un Livingstone senza più terre da scoprire, né misteriose sorgenti, ma che era in perenne movimento per trovare le ragioni della vita, le origini del dolore, per cercare dentro i propri ricordi e la propria memoria indizi di una comunione di intenti e di destini con altri uomini e donne, amici sconosciuti e ritrovati perché la fatica del vivere rende uguali e vicini.

La semplicità con la quale Giovanni Umicini si accostava agli altri, nel suo lavoro che era quello di realizzare immagini mediante l’obbiettivo di una macchina fotografica, era alimentata dal rispetto che egli poneva come fondamento di ogni sua azione e di ogni sua ricerca. Semplicità come virtù, come disposizione positiva dell’animo, come disponibilità di aprirsi al mondo, alla vita, agli affetti.

La fotografia di Umicini si colloca nell’alveo della “Street Photography” della New York School, che faceva capo a Weegee, Helen Levitt, Robert Frank, William Klein, Walker Evans fino a Walter Rosemblum, e che indica la dimensione creativa, l’humus generativo di tutte le emozioni che scaturiscono dagli atti e dai gesti del vivere quotidiano e appartengono all’eterna vicenda dell’uomo e del mondo. Per questa vocazione e naturale inclinazione è fotografia umanista che agisce per esigenza d’amore verso la vita individuale e collettiva, dove concentra tutta la propria capacità di indagine per suggerire riflessioni e per raccontare pacatamente le proprie rivelazioni.

La Street Photography di Giovanni Umicini considera le strade, le piazze, gli edifici dove si anima la vita delle città come i luoghi di pertinenza degli uomini, dove essi consumano il loro tempo e le loro storie. Le città di Umicini sono New York, Parigi, Berlino, Padova, ma sono soprattutto le città dell’uomo, dovunque nel vasto mondo accomunate da analoghe esigenze di vita, attraversate dalla passione, dal dolore e da effimere felicità.

Si è detto prima che Umicini era nato con l’istinto dell’esploratore, ma vi era in lui piuttosto un’altra disposizione al sentimento universale, un’altra virtù che rendeva la sua esperienza, la sua voce, la forza espressiva della sua fotografia così attuale e condivisibile: la vocazione di nomade. Che significa, ovviamente, essere partecipe senza condizioni delle altrui vicende, della storia e della contemporaneità, e attraverso la poetica delle immagini distillata dai simboli che derivano dalla memoria e dalla tradizione, dal grumo di esperienze, dalle radici dell’amore e degli affetti, riuscire a portare fuori di sé un messaggio di eternità.

Per Umicini la fotografia è “lingua della visione”, fondamentale strumento di comunicazione per ogni disciplina scientifica e per tutte le attività del genere umano. Per questo la sua tecnica fotografica era improntata alla chiarezza e all’onestà ed era dunque estranea a trucchi di metodo ed escludeva artificiose manipolazioni. Nell’estate del 2008 l’Henraux aveva allestito nelle Scuderie granducali di Seravezza la splendida mostra: “Cervaiole. La montagna che vive” che riassumeva il lavoro che Umicini aveva sviluppato per alcuni anni a stretto contatto con questa cava e con i suoi cavatori. Il fotografo, seppur abituato a rapportarsi con le vite altrui in ogni parte del mondo, aveva inizialmente riscontrato una cortese diffidenza in quegli uomini. I cavatori delle Cervaiole, diceva, non si fermano mai, ognuno dà l’impressione di sapere esattamente quello che fa e perché lo fa, e tutti procedono con quel ritmo serrato e sicuro di gente avvezza da sempre a svolgere quei compiti, a confrontarsi con quell’ambiente duro e insidioso come se fosse cosa da poco.

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Giovanni Umicini, 2004
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“Perché è qui?”, si chiedevano. “Che cosa cerca in questa sassaia?”. E allora hanno capito che quello che cercava Giovanni Umicini lassù, su quella cima nuda e scheggiata, battuta dal vento, era la verità del loro microcosmo immutabile e quasi fuori dal tempo.

Con grande rispetto, Umicini si era avvicinato alla loro fatica quotidiana, aveva osservato i movimenti, i gesti, i procedimenti, aveva studiato i volti e le espressioni, aveva ascoltato le loro voci nel concerto di suoni, rumori, silenzi. Aveva condiviso il freddo e il caldo, la nebbia che rende i contorni della cava inquietanti come i ruderi di un arcigno maniero. I cavatori lo hanno visto tante volte, per giorni di seguito, per vari anni consecutivi, muoversi tra loro con discrezione, senza interferire, seguendo un suo progetto da concretizzare poco alla volta con la macchina fotografica: un uomo avanti negli anni, con quella sua faccia scavata e severa che sembrava scolpita nella pietra, e pareva sempre rannuvolato come il cielo delle Cervaiole. «Perché è qui?», si chiedevano. «Che cosa cerca in questa sassaia?». E allora hanno capito che quello che cercava Giovanni Umicini lassù, su quella cima nuda e scheggiata, battuta dal vento, era la verità del loro microcosmo immutabile e quasi fuori dal tempo, eppure vitale e complesso come lungo le strade delle città che quel fotografo aveva interrogato per scoprire l’essenza dell’uomo.

Hanno sentito che la sua presenza assumeva molti significati, tutti vicini alle loro semplici, faticate storie, e che con le sue fotografie, alcune già stampate ed esposte nei locali della mensa, altre, con i loro ritratti, consegnate a ciascuno come segno tangibile di un affetto, di una speciale amicizia, egli intendeva raccontare la loro quotidiana scommessa con l’incerto futuro, con il destino che li lega, orgogliosi, a quel mestiere antico sulla montagna bianca.

Giovanni aveva raccolto il senso delle loro vite, lo aveva rivelato con quella sollecitudine e quella delicatezza che è propria dei poeti e degli spiriti più elevati. Era divenuto uno di loro, per narrare – nel modo più appropriato, finalmente! – e tramandare un’avventura vecchia di secoli e sempre nuova e diversa, come il tempo e le stagioni, come il sorriso dell’alba e il trascolorare del cielo ad ogni tramonto.

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Giovanni Umicini, 2006

FORME ORGANICHE, MARMO E METALLO. LA SCULTURA DI HANNAH LEVY A NEW YORK

Commissionata dalla High Line di New York nel 2020, l’opera “Retainer” di Hannah Levy, realizzata in collaborazione con la Fondazione Henraux, è stata inaugurata questa primavera.

Cecilia Alemani, che dirige la High Line Art e che nel 2022 sarà curatrice della Biennale d’Arte di Venezia, ne ha intervistato per “Marmo” l’autrice.

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DI CECILIA ALEMANI
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Hannah Levy, Retainer, 2021, dettaglio. Courtesy: Friends of the High Line
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Amo il marmo come materiale, per la sua grandiosa storia legata alla scultura e per la sua capacità di assumere caratteristiche molto diverse a seconda della forma, della consistenza e del colore.

Cecilia Alemani: Parlaci dell’ispirazione che ti ha portato a creare “Retainer”, l’opera d’arte che hai realizzato per la High Line di New York.

Hannah Levy: Il lavoro svolto all’Henraux si basa su un apparecchio ortodontico. Spesso nelle mie sculture ricreo delle forme naturali che abbino a del metallo curvato; mi piace il fatto che l’apparecchio rappresenti una forma organica preesistente, il negativo dell’interno di una bocca, unito a una struttura metallica curva. Sono affascinata anche dal contesto in cui nasce una certa forma. Trovo che l’apparecchio ortodontico sia particolarmente interessante per il suo essere un indicatore socioculturale dell’universo adolescenziale.

C.A.: Hai già lavorato con il marmo?

H.L.: Sì, ho già realizzato opere in alabastro intagliate a mano, e ho lavorato

anche con lastre di marmo tagliate ad acqua su scala molto più piccola. Amo il marmo come materiale, per la sua grandiosa storia legata alla scultura e per la sua capacità di assumere caratteristiche molto diverse a seconda della forma, della consistenza e del colore.

C.A.: Come è andata la tua visita in Italia alla cava dell’Henraux? Qual è stata la cosa che più ti ha sorpreso?

H.L.: Sono venuta in Italia lo scorso anno e mi sono innamorata della cava. Non avevo mai visto da dove vengono esattamente i materiali con cui lavoro, quindi vedere il processo di creazione di quella che di solito considero una materia “grezza” ha dato un ulteriore significato all’esperienza della lavorazione del marmo. La grandezza della montagna e la storia della pietra nel corso dei secoli è quasi impossibile da immaginare

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Hannah Levy, Retainer, 2021. Courtesy: Friends of the High Line
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finché non te la trovi davanti, finché non la vedi di persona. Sono rimasta scioccata dalle dimensioni e dalla bellezza del Monte Altissimo. Ci sono parti della montagna che sono così incredibilmente monumentali che sembra quasi uno spettacolo soprannaturale. Mi sento così fortunata ad averla potuta visitare, è stato il mio ultimo viaggio prima della pandemia. Sono davvero grata di aver avuto questa opportunità.

C.A.: Hai avuto qualche imprevisto a lavorare su dimensioni così grandi?

H.L.: Di solito faccio tutto il lavoro a mano, quindi è un processo molto solitario e, lavorando da sola e con i miei utensili soltanto, ovviamente c’è un limite alle dimensioni sulle quali posso agire. Comincio a creare un’opera senza un’idea precisa o troppo strutturata del risultato finale. Da ciò viene sempre fuori qualcosa che non è mai esattamente quello che avevo in mente all’inizio, poiché il processo di realizzazione consente una sorta di “ripensamento materiale” del concetto iniziale. Quando si lavora su così ampie dimensioni, molta di quella libertà d’azione per una rivisitazione spontanea dell’opera si perde, poiché questa si basa sul lavoro di molte

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Hannah Levy, Retainer, 2021. Courtesy: Friends of the High Line

I miei riferimenti spaziano dai designer modernisti alle inferriate di un ferramenta. Mi piace trovare affinità estetiche tra gli oggetti più insospettabili e concentrarmi su oggetti il cui design rivela dei valori sociali sottostanti.

persone, non solo sulle mie mani. In questo caso, la risoluzione dei problemi non può avvenire nella fase di lavorazione ma in quella di progettazione, e comunicazione e collaborazione diventano quindi indispensabili. Si deve passare da un’esperienza artistica in solitaria a qualcosa di molto più collaborativo. In questo caso, il team di High Line e quello dell’Henraux hanno trovato soluzioni per ogni sfida o imprevisto senza alcuna difficoltà. Credo che questo nuovo processo collaborativo sarà molto istruttivo per qualsiasi progetto futuro su larga scala.

C.A.: In che modo pensi che interagiranno le persone con la tua opera?

H.L.: Credo che le persone ci si siederanno sopra, perché io l’ho immaginata come una panchina. L’apparecchio infatti è stato ampliato in modo che il marmo si trovi più o meno alla stessa altezza della seduta di una panca, e l’acciaio ha proprio la larghezza di una ringhiera. Per sua natura, la High Line invita all’interazione fisica tra i visitatori e le opere d’arte. C’è sempre stata un’intesa e un collegamento tra il mio lavoro e l’arredamento: nel creare questo pezzo per la High Line ho ampliato quella relazione in un modo nuovo. Creare un’opera sulla quale ci si può sedere, letteralmente, è un modo per relazionarsi con la natura interattiva e pubblica dello spazio e il legame che c’è nel mio lavoro tra oggetto, arte e arredamento.

C.A.: Nel tuo lavoro c’è sempre un dialogo, se non addirittura uno scontro, tra

materiali morbidi e sensuali come la gomma, il silicone e in un certo senso anche il marmo, e materiali freddi come l’acciaio. Puoi parlarcene?

H.L.: Mi piace creare un contrasto tra materiali come mezzo scultoreo. Per me il punto di accesso a una scultura è spesso una rappresentazione visiva di un’interazione sensuale/tattile familiare.

Viviamo in corpi morbidi e organici, che interagiscono costantemente o sono vincolati da vari elementi esterni: telai di sedie in metallo, dispositivi medici, attrezzature da palestra sono tutti esempi di interfaccia corporea. Conosciamo istintivamente la sensazione che si prova quando un oggetto morbido e carnoso viene schiacciato o allungato su dell’acciaio lucido e freddo.

Mi piace l’apparecchio come esempio di questo contrasto perché non solo contiene una forma organica sospesa su una struttura in acciaio, ma viene anche utilizzato per preservare, costringere e rimodellare un corpo fisico attraverso l’applicazione di una pressione lenta e costante. C’è qualcosa di intrinsecamente scultoreo incapsulato dentro la struttura di un tutore medico.

C.A.: Dove trovi l’ispirazione?

H.L.: Trovo ispirazione dalle cose più disparate. Da un’altalena, da un corrimano, da un tapis roulant o da un lampadario. I miei riferimenti spaziano dai designer modernisti alle inferriate di un ferramenta. Mi piace trovare affinità estetiche tra gli oggetti più insospettabili e concentrarmi su oggetti il cui design rivela dei valori sociali sottostanti.

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Hannah Levy accanto alla scultura Foto Nicola Gnesi
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Alberto Meda, Pgreco per Luce di Carrara

RISCOPRIRE IL MARMO NELLO SPAZIO PRIVATO

Non potremo ignorare nel futuro prossimo i cambiamenti che la pandemia ha portato nel mondo del progetto.

Il marmo, da duemila anni, è protagonista tanto di architetture pubbliche e oggetti preziosi, quanto di spazi privati e manufatti di uso comune.

È tempo di riconoscere a questo suo ruolo più legato alla quotidianità il giusto valore.

DI ALDO COLONETTI
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La pietra, il marmo nel nostro caso, accompagna da sempre l’evoluzione culturale dell’uomo, segnando il passaggio fondamentale da “natura” a “cultura”, ovvero quando per necessità di sopravvivere diventa necessario difendersi dall’altro.

Il tempo che viviamo fa parte della storia, per cui progettare d’ora in avanti significherà, come d’altra parte ha sempre significato, fare i conti con le nuove condizioni, non solo fisiche ma soprattutto antropologiche, che la pandemia ha imposto al nostro modo di vivere, di pensare e di “fare”. Quando avremo messo alle spalle questi anni particolari, la memoria comunque farà da sentinella non solo sul piano del timore di altre esperienze simili, ma anche in relazione a ciò che abbiamo imparato sull’abitare, sul lavoro, sul progettare. In sostanza, sul “mestiere” del creare che da sempre accompagna l’uomo dall’inizio della sua avventura. In quel libro straordinario dal titolo “La storia del mondo in 100 oggetti” scritto da Neil MacGregor, direttore per molti anni del British Museum di Londra, le prime tre opere in ordine di tempo sono la mummia di Hornedjitef, il Chopper e l’ascia da pugno di Olduvai, tutte collocate tra il 2.000.000 e il 9.000 a.C., realizzate queste ultime due in pietra. Come scrive MacGregor, «sono in sostanza ciottoli scheggiati picchiando una grossa pietra una sull’altra fino a quando non si formi almeno un margine tagliente. Non sono oggetti improvvisati,

sono il risultato di esperienza, di attenta pianificazione e di abilità apprese e affinate nel corso di un periodo di tempo lunghissimo».

La pietra, il marmo nel nostro caso, accompagna da sempre l’evoluzione culturale dell’uomo, segnando il passaggio fondamentale da “natura” a “cultura”, ovvero quando per necessità di sopravvivere diventa necessario difendersi dall’altro che è sempre un nemico che si presenta sotto diverse “spoglie”: animali, persone, intemperie o malattie, non importa. Fondamentale è organizzarsi per dare forma a una convivenza, capace di riconoscere gli altri come membri di una società, nella forma primaria di una semplice “tribù” legata a vincoli esclusivamente famigliari.

Gli oggetti e i materiali che segnano tutte le diverse fasi della storia sono espressione delle nostre identità simboliche, là dove la memoria, insieme ai cambiamenti e alle trasformazioni che ogni giorno mettono in crisi i modelli precedenti, esercita un ruolo insostituibile: ricordare e selezionare per evitare di avere i “cassetti” pieni.

La pietra e il marmo rappresentano, da questo punto di vista, la continuità, direi la permanenza, perché hanno sem -

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Alberto Meda, Pgreco per Luce di Carrara
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pre accompagnato le nostre esperienze collettive, dall’arte all’architettura fino al luogo simbolo, per antonomasia, del passaggio da un mondo a un altro: il cimitero.

L’estrazione del marmo dalle Alpi Apuane è iniziata circa 2000 anni fa, quindi più recentemente rispetto agli oggetti in pietra di cui ci parla il direttore del British Museum. I marmi erano caricati su

navi nel porto di Luni e da lì trasportate a Roma. La fortuna di questo materiale dipende infatti, oltre che dalle sue caratteristiche, uniche nel loro genere, dalla possibilità di trasportarlo in tutto il mondo: sarà il porto di Marina di Carrara, da un lato, e, dall’altro, la realizzazione di una ferrovia dedicata, la Marmifera, a sviluppare la sua diffusione nel mondo. Ecco: se noi potessimo seguire, passo

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Angelo Mangiarotti, Tavolo M

dopo passo, l’utilizzazione del marmo attraverso tutte le trasformazioni espressive ma anche funzionali che gli artisti, gli architetti e i designer hanno realizzato, avremmo una sorta di “cartina tornasole” delle fondamentali oscillazioni del gusto, per dirla à la Dorfles, presenti nella nostra società, come a segnare alcune tappe, tra vittorie e sconfitte, tra democrazie, imperi e dittature, tra vita pubblica

e spazi privati, tra il tempo di pace e il tempo di guerra, ma anche tra pandemie e guarigioni.

In sostanza, la nostra vita non può fare a meno del marmo perché – come tutti i materiali che hanno una storia e uno sviluppo nel segno della “rarità” e, in questo caso, anche riconducibile esclusivamente a un luogo particolare e non replicabile altrove – segna la nostra vita collettiva,

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Il marmo appartiene alla storia del gusto, certamente, ma rappresenta anche una permanenza simbolica, al di là della sua dimensione estetica, di carattere antropologico perché è in grado di mettere insieme rarità, preziosità, unicità, con il senso comune.

ma anche le nostre case, con una forte presenza simbolica.

Chi non ha nella propria casa un oggetto di marmo, capace di rispondere a funzioni specifiche – pensiamo alla cucina o al bagno – e nello stesso tempo in grado di riportare un ricordo, una memoria legata a un momento particolare della propria vita, felice o doloroso o di successo, come una premiazione o un riconoscimento? In sostanza i principali passaggi della nostra vita, pubblica e privata.

Il marmo appartiene alla storia del gusto, certamente, ma rappresenta anche una permanenza simbolica, al di là della sua dimensione estetica, di carattere antropologico perché è in grado di mettere insieme rarità, preziosità, unicità, con il senso comune, i desideri e le aspettative di ciascuno di noi, oltre il censo e il livello culturale.

Solo così è possibile separare il marmo di Carrara dalla sua “solennità” e approdare al significato più profondo, presente non solo nei “grandi” – un nome per tutti: Michelangelo – ma in tutte quelle manifestazioni delle arti applicate, in particolare architettura e design, che hanno reso possibile una sorta di riscatto nel segno di una “laicità” progettuale ed espressiva.

Alcuni esempi: se analizziamo i premiati e selezionati dei premi del Compasso d’Oro, dal 1954 ai giorni nostri – ventisei appuntamenti, migliaia di oggetti e prodotti – è possibile ritagliare una storia particolare, all’interno della presenza del marmo. Pensiamo a progettisti come Angelo Mangiarotti e Alessandro Mendini, ma anche a esperienze più recenti di Antonio Citterio e Alberto Meda. Una sorta di fil rouge che segna le trasformazioni

del gusto e delle funzioni, perché il marmo di Carrara non è soltanto “bellezza”, ma rappresenta anche alcune soluzioni a problemi specifici di interior design. Ovviamente sono molto più numerose e disseminate in tutto il ‘900 e in questo secolo, fondamentali opere di architetture dove il marmo contraddistingue in modo indelebile, con il proprio linguaggio, sia la singola opera sia la relazione con la città. Un esempio per tutti, entrato in tutti i libri di storia è la Looshaus (1909-1911), il famoso edificio di Vienna, progettato da Adolf Loos, che con la rinuncia dichiarata dello storicismo e della decorazione floreale dello stile secessionista, annuncia un momento di rottura: in questo caso fondamentale è il contrasto tra il marmo disposto nella parte inferiore della facciata e la semplice facciata intonacata in calce dei piani residenziali superiori, come a segnare, contemporaneamente, permanenza e cambiamento.

Ma è soprattutto negli spazi privati, oggi riscoperti come luoghi di lavoro, che è possibile, proprio per la permanenza necessaria dettata dalla pandemia, riscoprire non solo nuove funzioni ma anche tutte quelle presenze simboliche che fanno parte della nostra vita, magari accantonate in altri periodi, oggi invece insostituibili per dare un significato nuovo a un’esistenza in attesa di normalità. Il marmo rappresenta una presenza fondamentale, sempre sospesa tra relazioni personali e memoria collettiva, capace di raccordare e mettere insieme “riti” e “miti”, “alto” e “basso”, soprattutto ciascuno di noi con il resto del mondo: anche un vassoio o un vecchio portacenere è parte della nostra esistenza.

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La Looshaus di Adolf Loos a Vienna

LEONE TOMMASI. ARTE DI FAMIGLIA

Patriarca di una famiglia eclettica in cui tutti, dai figli ai pronipoti, si dedicano all’attività artistica con declinazioni diverse, Leone Tommasi è soprattutto capostipite di una storia: quella dell’arte contemporanea in Versilia. Attraverso il ricordo della nipote

Ilaria Tommasi, Roberto Bernabò disegna un ritratto del grande artista.

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Leone Tommasi
I maestri dell’Henraux
I maestri dell’Henraux

Siamo con Ilaria Tommasi, figlia di Marcello Tommasi e nipote di Leone Tommasi, famiglia di grandi artisti, per provare a raccontare la storia di un personaggio illustre di questa terra, forse il più importante dell’arte contemporanea.

Di sicuro un nome che rappresenta l’inizio di una grande storia legata al territorio versiliese, un nome che è quasi sacro, perché per chiunque sia nato qua, come me, che ha respirato la storia del marmo e la sua evoluzione – in particolare dagli anni ‘60-‘70 quando poi Pietrasanta è stata riconosciuta come un luogo centrale, soprannominata “la piccola Atene”, usando la frase abusata del Sovrintendente Paolucci – diciamo che lassù, in lontananza, c’è sempre stata la figura di Leone Tommasi come capostipite di una storia.

Grande artista, uomo che lavorava nei suoi laboratori di famiglia, ma anche in un insieme poi di laboratori, a cominciare da quello che ci ospita oggi dell’Henraux.

Roberto Bernabò: Una storia che si consolida nel tempo, e vorrei partire chiedendo a Ilaria Tommasi questo: la Versilia ha saputo riconoscere a sufficienza chi è stato Leone Tommasi e quello che davvero ha rappresentato?

Ilaria Tommasi: Forse successivamente, in un secondo momento. Importante è stata la figura del padre di Leone, Luigi Tommasi, che aveva fondato il laboratorio del marmo Ferretti, dove Leone aveva appreso e interiorizzato quella cultura del lavoro che è importante in questa terra. I confini tra lavoro artigianale e arte sono labili, e lo erano forse ancora di più a quel tempo. Il nonno Leone poi si è affrancato da questa immagine, diventando indubbiamente un grande artista, al di fuori di ogni falsa modestia. E artista lo è stato e si è affermato tale perché da un lato non ha subìto l’ascendente delle avanguardie, che erano sirene notevoli nel momento in cui lui ha lavorato, dall’altro però non ha neanche subìto la suggestione delle accademie. Ed è qui l’innovazione fortissima, questa tensione che nasce dall’interiorità, questo attenersi alla realtà, questo attenersi alla natura, non secondo un criterio di imitazione pedissequa, ma come qualcosa che nasce da dentro e che si esprime senza raggiungere quel gonfiore che fa sì che l’opera acquisisca la classica connotazione accademica. Ecco, in questo il nonno era lontano da questi due estremi, aveva delle tensioni interiori che lo rendevano nuovo: si ispirava all’arte classica, ma era un artista innovativo.

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Leone Tommasi, Fanciulla con le trecce, scultura appartenente al ciclo ispirato alla Pastorale di Beethoven
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Leone Tommasi nello studio in Argentina A destra, Descamisado in marmo negli studi dell’Henraux a Querceta
I maestri dell’Henraux

R.B.: Un altro aspetto di Leone è stato anche quello di scegliere di vivere a Pietrasanta, dopo aver fatto l’Accademia di Roma e di Milano, dalla quale non è che si muovesse con troppo piacere.

I.T.: Lui aveva deliberatamente scelto di ritirarsi, da giovane. Tuttavia, era un uomo che aveva cominciato a vivere la sua dimensione artistica molto presto, per cui aveva già viaggiato molto, aveva girato il mondo, infatti le opere del nonno sono disseminate un po’ ovunque. Poi decise di compiere questo tipo di scelta della quale molti sono stati grati, perché il suo studio era una sorta di tempio dove si raccoglievano le arti, dove c’era questo senso di accoglienza molto spiccato, ma di grande rispetto e di grande formalità. Era un luogo aperto a tutti, e la cosa interessante è che le persone che lo frequentavano appartenevano a qualunque estrazione sociale. C’è un ritratto bellissimo di Angelo Canali, un lavoratore del marmo, che è di una forza sconvolgente, perché il nonno riuscì a tirar fuori dal volto di quest’uomo, che palesemente è una perso-

na molto semplice, una grande interiorità; insomma, lui aveva la capacità di cogliere lo spirito di tutti.

R.B.: Dicevo all’inizio che da una parte c’è il laboratorio di famiglia, ma Leone, nel realizzare le sue tante opere, si è avvalso della collaborazione di tanti laboratori di Pietrasanta, e una delle opere più grandi, prima che poi venisse interrotta, era proprio con l’Henraux, e merita di essere raccontata. L’11 agosto del 1954 stipulò con il governo argentino un contratto per realizzare un’opera colossale a Buenos Aires: il “Monumento al Descamisado”. Un’opera commissionata dai Perón che doveva diventare il mausoleo di Evita Perón e doveva avere delle dimensioni imponenti: 137 m di altezza su una base circolare di 100 m di diametro, per 43.000 tonnellate di marmo e 15.000 m³ di cemento armato, con il marmo dell’Altissimo che doveva ornare il basamento circolare del monumento. Ecco, quest’opera, che poi fu interrotta e non andò avanti, fu per lui un impegno straordinario.

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Leone Tommasi, scultura appartenente al ciclo ispirato alla Pastorale di Beethoven A destra, Leone Tommasi, Evita Perón

Lui infatti aveva la capacità di cogliere ogni minima variazione espressiva di un soggetto, ogni moto dell’animo.

I.T.: Fu davvero un impegno straordinario. È importante qui parlare della ditta Henraux, che all’epoca era quella maggiormente preposta alla realizzazione di quest’opera mastodontica, grandiosa. Addirittura, arrivò qui un alto funzionario del governo di Perón, esaltato all’idea di questa realizzazione. Perfino la senatrice disse che si sarebbe compiuta l’opera più grande e più importante del mondo: insomma, si era creato un clima molto fervido, pieno di aspettative intorno a quest’opera. Io conservo gelosamente le lettere che il nonno scriveva alla nonna, quando era in Argentina, a Buenos Aires. Tra l’altro scriveva in modo incredibile poiché descriveva puntualmente tutte le situazioni, e l’emozione dei Perón che andavano a posare per lui. Di lei addirittura, in una lettera, fa una descrizione attenta anche dei modi con cui si poneva davanti a lui, rispetto alla posa; questa donna, lui scrive, «più elegante nel portamento, nella figura, che non nell’abbigliamento, con questo incarnato diafano, questa espressione molto mobile».

Lui infatti aveva la capacità di cogliere ogni minima variazione espressiva di un soggetto, ogni moto dell’animo. Queste lettere sono bellissime, parlano di lui e del clima che lo circondava, dell’accoglienza che gli avevano riservato; infatti, era considerato come un dio, gli avevano preparato addirittura uno studio privato.

R.B.: E secondo te come viveva lui da artista questa committenza, per un regime come quello di Perón, come riusciva a coniugare lo spirito di artista libero e questa committenza?

I.T.: Hai detto bene, lui era un artista libero, anche se in merito ci sono state molte polemiche che hanno fatto soffrire il nonno e i figli (il mio babbo non ne voleva parlare). Arrivarono addirittura ad assimilare Perón alla figura di un fascista, e il nonno, che aveva salvato degli antifascisti, figuriamoci se poteva essere un artista asservito a una dittatura di quel tipo! Assolutamente no. Inoltre, le cose viste con un certo distacco vanno anche valutate per quelle che erano: si trattava

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I maestri dell’Henraux
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sicuramente di un governante populista, eppure il nonno, parlando della situazione argentina dell’epoca, si sentiva semplicemente un uomo libero che doveva fare svariati ritratti, anche a questi personaggi, certo. Soprattutto in lui agiva la figura di Evita, così galvanizzante, questa donna che aveva scelto il nonno − perché era stata lei che fondamentalmente aveva scelto lui − come artista, perché secondo lei era capace di interpretare bene la figura del descamisado, cioè di colui che si fa popolo. Grazie a lei, che era un personaggio così importante, una donna così umana, così vivace, una personalità fortissima, trainante, lui non si poneva il problema dell’asservimento politico: il nonno viveva il suo incarico in maniera libera e disinvolta.

R.B.: Quando parliamo di Leone Tommasi e dei Tommasi parliamo di una famiglia che vive d’arte: intanto i due figli, Marcello e Riccardo, due personaggi straordinari della cultura artistica, poi Luigi, che aveva

Soprattutto in lui agiva la figura di Evita, così galvanizzante, questa donna che aveva scelto il nonno come artista, perché secondo lei era capace di interpretare bene la figura del descamisado, cioè di colui che si fa popolo.

la fonderia, e Paolo, che pur avendo fatto la carriera di avvocato, era anche lui un artista. Insomma, l’arte è sempre stata in mano a questa famiglia, o in veste di artisti o sotto altre vesti come i tuoi figli.

I.T.: Sì, mia figlia ha il grande merito di aver fatto sì che la memoria di Leone sia stata finalmente valorizzata, recuperando nel 2014 lo studio a Firenze di mio babbo (suo nonno Marcello) e qui a Pietrasanta lo studio del nonno Leone, che peraltro ha avuto una storia strana, perché era stato venduto come nuda proprietà quando il babbo era ancora in vita, e poi noi lo abbiamo recuperato, e se non ci fosse stata Francesca io non ce l’avrei fatta…

R.B.: Qual è stato il rapporto artistico tra Leone e i figli?

I.T.: Leone e i figli erano tutti diversissimi come artisti: seppur tutti collocabili in un criterio figurativo, erano molto diversi tra loro. Riccardo era un genio della pittura con una sua ironia tutta particolare, il nonno e il babbo forse erano più im-

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Descamisado in marmo negli studi dell’Henraux a Querceta

prontati alla scultura, nonostante dipingessero anche loro, però in modo molto diverso. Il tipo di scultura del babbo era molto più nervoso, anche se bisogna stare attenti a queste codificazioni, perché si rischia di scadere nel pedante, quindi diciamo che erano semplicemente diversi. C’era questa adorazione da parte di mio babbo nei confronti del nonno: ha scritto dei saggi bellissimi su di lui, perché mio babbo era anche critico d’arte e aveva scritto dei libri di storia dell’arte, quindi aveva voluto teorizzare in un certo senso i criteri estetici del nonno. Erano molto diversi anche nella vita, il nonno aveva un carattere molto più posato, nonostante comunque tutti i Tommasi abbiano avuto un carattere forte, però era molto più tranquillo, più preciso, mentre mio papà era un disastro, disordinatissimo… Non saprei che rapporto ci fosse in verità, c’era sicuramente un rapporto di stima e di profondo rispetto. C’era

rispetto per la figura di questo grande maestro, che non avrebbe mai voluto che i figli facessero il suo stesso lavoro, perché sapeva che era un percorso estremamente impervio e molto accidentato, quindi non desiderava che i figli lo seguissero.

R.B.: Di Leone bisogna ricordare anche che ha insegnato per tanti anni all’Istituto d’arte di Pietrasanta. Quindi ha fatto anche un’opera di insegnamento, per formare le nuove generazioni, e nuovi allievi che frequentavano il suo studio.

I.T.: Sì, certo, l’insegnamento è fondamentale: la trasmissione del sapere, una trasmissione gratuita, secondo l’accezione nobile del termine, che è importantissima; il trasmettere, il donare il proprio talento, è una cosa che mio nonno ha sempre fatto, e anche il mio babbo Marcello e mio zio Riccardo hanno sempre avuto questa attitudine.

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Leone Tommasi sotto il Monte Altissimo dalla località Vallecchia, Pietrasanta A destra, Leone Tommasi appena arrivato in Argentina.
I maestri dell’Henraux
Nella pagina seguente, veduta del grande studio di Pietrasanta
I maestri dell’Henraux
I maestri dell’Henraux
I maestri dell’Henraux
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Era una persona che quando nel suo studio andavano personalità di rilievo come Carrà o Soffici, se ne stava lì a lavorare, magari senza neanche parlare troppo di arte, ma piuttosto di buon cibo, di pesca; insomma, aveva un’indole semplice.

R.B.: L’atelier di Pietrasanta da quale spirito è animato?

I.T.: L’atelier di Pietrasanta è stato convertito in una galleria d’arte dove però vengono realizzati anche eventi, manifestazioni, diciamo che ha una funzione un po’ trasversale, non essendoci più gli artisti in carne e ossa; ce ne sono altri naturalmente, che vengono ospitati e di cui vengono fatte esposizioni. Insomma, lo spirito è questo, quello di perpetuare la tradizione artistica e la memoria storica, anche perché è una gipsoteca notificata dalla Soprintendenza dove sono conservate le opere e i gessi di Leone e di Marcello.

R.B.: Quindi chi vuol vedere le opere di Leone e di Marcello intanto può sicuramente trovare lì i gessi di tante opere; mentre se uno volesse fare un tour delle opere disseminate per la Versilia?

I.T.: Quello è già da considerarsi un luogo preposto alla visita, ed è lì che troviamo anche gran parte del lavoro che Leone svolse in Argentina. A Querceta nello stabilimento Henraux si trovano ancora le teste decapitate delle figure di Juan Domingo Perón e di sua moglie Evita. Le figure in via di completamento del “Monumento al Descamisado” e di Eva Perón furono distrutte nel 1956 da una delegazione del nuovo governo dopo la caduta di Perón.

Poi c’è la gipsoteca di Sant’Agostino dove, nel 1984 se non sbaglio, la famiglia donò alla fondazione Luigi Russo la maggior parte dei gessi a figura intera del nonno. Poi ci sono le sculture in marmo della facciata della chiesa di San Paolino a Viareggio, poi ad Azzano c’è la testa del nonno messa dai cavatori per rievocare la Madonna del Cavatore alla Tacca Bianca. E poi c’è il Duomo, c’è la Madonna del Sole e nel Duomo di Pietrasanta c’è anche un dipinto di mio zio Riccardo, “San Martino”, e un dipinto di mio cugino Giovanni, “San Biagio”, e

poi c’è tutta la via Crucis del mio babbo Marcello, e di Leone ci sono anche tutti i bassorilievi in bronzo. Leone è un po’ ovunque, in tutto il mondo, magari non è un artista che ha avuto il riconoscimento che avrebbe meritato, però le opere ci sono.

R.B.: Tuo nonno è morto quando tu avevi solo sei anni: qual è il tuo ricordo di lui da bambina?

I.T.: Era un uomo che aveva una personalità talmente estrosa e potente, che si dispiegava in maniera grandiosa anche all’interno della famiglia. Io mi ricordo mio nonno con il suo cane, il nonno con la sua Giardinetta, quando a tavola ci faceva il gioco del tovagliolo e con il tovagliolo faceva le facce: era un mito per noi bambini perché era davvero una persona particolare. Purtroppo, poi si ammalò, però anche da malato era incredibile, perché noi lo andavamo a trovare all’ospedale, e questa cosa è presente anche nella memoria di Mario Cancogni, lo scrittore. Quando lo andavamo a trovare in ospedale, lui, per dire, una volta recitò “La scoperta dell’America” di Pascarella; era lì, più morto che vivo, ma aveva una verve e una gioia di vivere incredibili, una sorta di compiacimento solo per il fatto di essere al mondo. Desiderava lasciare una traccia importante su questa terra, quindi era una persona gioiosa e vivace. Ho sempre il ricordo del nonno nel letto dell’ospedale che ritraeva me e mia sorella sedute in fondo al letto. Era una persona che quando nel suo studio andavano personalità di rilievo come Carrà o Soffici, se ne stava lì a lavorare, magari senza neanche parlare troppo di arte, ma piuttosto di buon cibo, di pesca, dato che a lui piaceva tanto pescare e fare gite sui monti; insomma, aveva un’indole semplice, fondamentalmente, quindi come fa una bambina a non ricordare una figura così meravigliosa? Ero piccola, ma me lo ricordo bene.

167 I maestri dell’Henraux
Leone Tommasi posa con il busto di Perón

NAIRY BAGHRAMIAN. MISFITS

Il testo è una versione rivista dell’originale pubblicato in occasione di “Nairy Baghramian. Misfits” (GAM, Milano, 26 maggio-26 settembre 2021), progetto espositivo a cura di Bruna Roccasalva, organizzato da Fondazione Furla e GAM – Galleria d’Arte Moderna di Milano, con il contributo di Fondazione Henraux per la produzione delle opere in marmo. La mostra è parte del ciclo “Furla Series”, un programma promosso da Fondazione Furla e realizzato in collaborazione con le più importanti istituzioni d’arte italiane.

DI BRUNA ROCCASALVA FOTO DI NICOLA GNESI
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Nairy Baghramian, Misfits, 2021, GAM - Galleria d’Arte Moderna, Milano, installation view
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«What is sculpture?

What is the burden of sculpture?

What is the power of a sculpture occupying a site?

Those

Nairy Baghramian porta avanti da due decenni una rigorosa ricerca formale e concettuale che si interroga sulla definizione stessa di scultura, a partire da una pratica profondamente radicata nella tradizione scultorea. Esplorando la relazione tra architettura, oggetto e corpo umano, la sua produzione conferma l’importanza della fisicità dell’opera, capace di incarnare idee e presupposti teorici attraverso le specificità formali, materiali ed espositive che la contraddistinguono.

Il suo lavoro rappresenta uno dei contributi più importanti alle sperimentazioni contemporanee sul linguaggio della scultura e il progetto “Misfits” ne

riassume alcuni degli elementi cardine, dall’interesse ad attraversare e ripensare il confine tra interno ed esterno, all’analisi del rapporto che lega l’oggetto estetico e la cornice istituzionale che lo ospita. Per Baghramian ogni opera d’arte, pur nella sua sostanziale autonomia, è legata al tempo, al luogo e al tessuto politico-sociale in cui è inserita, e l’idea di “Misfits” nasce proprio dallo specifico contesto urbano in cui si trova il museo che ospita il progetto. L’architettura neoclassica di Villa Reale, in cui ha sede la GAM, si affaccia su un bellissimo giardino all’inglese, uno dei primi esempi realizzati a Milano, che ha la particolarità di essere accessibile agli

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are all problems that I’ve had with sculpture and that keeps me doing sculpture».
Nairy Baghramian, “Ambivalent Abstraction”, Ocula, August 28, 2020
Nairy Baghramian, Misfits, 2021, GAM - Galleria d’Arte Moderna, Milano, installation view Foto Nick Ash
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Fin dall’infanzia siamo educati ad assemblare elementi dagli incastri perfetti e a sviluppare così un modello di pensiero secondo il quale ogni cosa deve combaciare con un’altra.

Le sculture di Baghramian negano questa supposta coincidenza: offrono al contrario l’esperienza dell’errore.

adulti solo se accompagnati da bambini. Le suggestioni contrastanti suscitate da un contesto che rimanda a un universo protetto e ludico come quello infantile, ma che al tempo stesso genera un senso di frustrazione per le restrizioni alla sua accessibilità, sono state il presupposto all’ideazione di “Misfits”. Ibridando l’idea di gioco come dispositivo educativo con una riflessione sull’esperienza della delusione e dell’inadeguatezza, Baghramian ha realizzato una serie di sculture di grandi dimensioni formalmente concepite per abitare sia lo spazio interno sia quello esterno al museo. All’interno, la mostra si articola in cinque ambienti, ciascuno dei quali ospita un elemento scultoreo. Le opere abitano le sale in modo discreto, secondo una disposizione volutamente rarefatta esasperata dalla scelta dell’artista di creare un momento di “interruzione” nel percorso espositivo. La mostra prosegue infatti sulla terrazza adiacente alle sale, che il visitatore può osservare attraverso le finestre o dal giardino, ma solo nel rispetto delle norme che ne regolano l’accesso. Anche sulla terrazza gli elementi scultorei sono cinque, e sono posizionati in corrispondenza di quelli che occupano le sale all’interno del museo. Ognuna delle opere in mostra è costituita di due metà, realizzate con materiali differenti – fusioni in alluminio dipinto e legno per gli elementi che si trovano all’interno, marmo per quelli in esterno – e installate come fossero parti disgiunte di un possibile intero.

Da sempre interessata a esplorare la relazione tra interno ed esterno – l’istituzione e il contesto socio culturale in cui si colloca; l’opera e lo spazio che la ospita; l’idea e la forma che le dà corpo –, Baghramian interviene sugli spazi che segnano un confine per attraversarli e ripensarli. Questi interspazi sono per l’artista zone di riflessione in cui sollevare dubbi e porre domande: separare gli opposti, anziché cercare di farli combaciare, equivale a rimettere in discus-

sione tutto quello che c’è tra questi due estremi, e dunque a scardinare idee fisse e regole precostituite.

La parziale dislocazione di ogni scultura al di fuori delle sale del museo crea un’osmosi fra lo spazio dedicato all’arte e quello di un parco pubblico i cui principali fruitori sono bambini. Gli elementi scomposti di queste sculture sembrano evocare la struttura tipica di certi oggetti ludici basati sull’incastro di forme geometriche. Fin dall’infanzia siamo educati ad assemblare elementi dagli incastri perfetti e a sviluppare così un modello di pensiero secondo il quale ogni cosa deve necessariamente combaciare con un’altra. Le sculture di Baghramian negano questa supposta coincidenza: le loro forme non si incastrano alla perfezione, offrono al contrario l’esperienza dell’errore come l’unica possibile, invitandoci a scoprire la bellezza proprio nel loro accostamento imperfetto.

La scelta dei materiali, o il modo in cui sono trattati, concorrono alla restituzione di questa esperienza. Conoscere a fondo la natura dei materiali e testarne le potenzialità è un aspetto fondamentale della pratica scultorea di Baghramian. Questo approccio si traduce spesso nella sperimentazione di accostamenti inconsueti di materiali molto diversi tra loro all’interno della stessa opera, come avviene anche nelle sculture in mostra, che combinano fusioni in alluminio smaltato e legno con marmi di diversa natura e provenienza, come lo Statuario Altissimo e il Versilys Altissimo, estratti dalle cave di Henraux; il Rosa Norvegia, il Rosa California e il Costa Smeralda, appositamente importati.

L’alluminio ricorre spesso nella produzione dell’artista, ma qui è del tutto nuovo il modo in cui sono trattate le superfici. Il rigore e la precisione di una finitura industriale, reminiscenza della tradizione Minimalista, lascia il posto a un’attitudine di matrice pittorica, che si concede l’imperfezione o la sbavatura del “fatto a mano”. La produzione di

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Nairy Baghramian, Misfits, 2021, GAM - Galleria d’Arte Moderna, Milano, installation view
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Nairy Baghramian, Misfits, 2021, GAM - Galleria d’Arte Moderna, Milano, installation view

“Misfits” ha coinciso per l’artista anche con l’opportunità unica di accostarsi per la prima volta a un materiale tradizionale come il marmo. Baghramian lavora sempre relazionandosi in modo stretto con il contesto in cui si trova e impiegare uno specifico materiale per lei non significa soltanto avere a che fare con le qualità fisiche che lo contraddistinguono, ma anche con la memoria, la storia, la politica che sono parte integrante del materiale stesso. Fare una mostra in Italia era dunque un’occasione perfetta per approcciare un materiale che appartiene al nostro patrimonio culturale. Visitare le cave del Monte Altissimo, i cui marmi sono celebri in tutto il mondo, e venire a contatto con le maestranze del posto depositarie di una esperienza plurisecolare sul processo di estrazione e lavorazione di questo materiale, è stata per Baghramian un’esperienza unica e fonte

di grande ispirazione e la scelta di utilizzarlo per un progetto come “Misfits” è stata tutt’altro che casuale. Impiegando un materiale nobile come il marmo, da sempre simbolo di compiutezza e perfezione, per dare forma scultorea all’imperfezione, Baghramian rimette in discussione ogni idea precostituita della bellezza e della forma, suggerendo che anche la scultura dovrebbe avere «la possibilità di non soddisfare le aspettative». Le sculture di “Misfits” e le loro forme dagli incastri imperfetti non si fondano su canoni estetici precostituiti e generalizzati, contemplano la possibilità dell’errore, dell’inadeguatezza e dell’imperfezione e ne rivelano la bellezza, dimostrando come queste esperienze, che fanno parte della formazione di ogni individuo, possono avere anche un’autonoma ragion d’essere come manifestazioni formali.

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Nairy Baghramian al lavoro con le maestranze Henraux

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FAEDO E HENRAUX: STORIA DI UNA PARTNERSHIP

Non capita molto spesso nella vita di una piccola impresa industriale, l’opportunità di fornire i propri prodotti a un’azienda affermata nel mercato di riferimento da 200 anni. Se aggiungiamo poi che la richiesta consisteva nella quasi integrale sostituzione del suo parco macchine, l’idea poteva apparire ancora più irrealistica, quasi un’utopia. Eppure, questo è accaduto nel mese di gennaio del 2020 quando Henraux ha affidato a Faedo la realizzazione di due gru a cavalletto per il piazzale esterno della storica sede di Querceta e di otto carroponti interni al servizio della nuova area produttiva in costruzione. Nei sessant’anni di storia della nostra azienda non ci sono state molte altre occasioni di fornitura come questa, trattandosi non solo di un’importante opportunità di vendita ma nella sostanza della creazione di uno showroom a cielo aperto dei nostri prodotti. Il progetto, molto ambizioso da parte di Henraux, ha visto completata la sostituzione delle storiche gru a cavalletto a servizio del piazzale di stazionamento dei blocchi di marmo e delle lastre. La sfida per la nostra azienda è stata quella di progettare delle gru capaci di coniugare la bellezza estetica dei macchinari richiesta dal meraviglioso contesto aziendale presso cui le macchine dovevano essere installate, al buon funzionamento industriale degli stessi, nel pieno rispetto delle normative vigenti in termini di sicurezza negli ambienti di lavoro, tema altrettanto caro al committente. Le due gru a ca-

valletto esistenti e ancora funzionanti rappresentavano un vero caso di archeologia industriale: entrambe entrate in funzione nel 1929, avendo così totalizzato quasi un secolo di attività, rappresentavano uno dei simboli stessi dell’azienda e un punto di riferimento per Querceta. Molto spesso durante la progettazione delle due nuove gru a cavalletto ci siamo chiesti quanti visitatori abbiano potuto ammirare queste due macchine che colpivano il visitatore non solo per la loro anzianità ma anche per le loro dimensioni: la prima, infatti, era lunga quasi 70 metri, la seconda invece quasi 50. Il ciclo produttivo delle macchine è durato quasi sei mesi, prolungato dal fatto che proprio nel cuore del progetto ha avuto luogo il lockdown di marzo-aprile 2020 che ci ha costretti a chiudere lo stabilimento produttivo. Soprattutto nella fase di progettazione delle nuove gru, l’attenzione posta al tema del design è stata massima, avendo a riferimento questi due colossi che per così tanto tempo hanno occupato gli spazi del piazzale di Henraux. Inoltre, fin da subito la nostra azienda ha sentito forte l’entusiasmo di questo nuovo progetto, sicuri della grande visibilità che questa installazione avrebbe comportato data la grande tradizione e fama di Henraux nel mondo.

La coincidenza ha voluto che entrambe le nostre aziende, Henraux e Faedo, fossero alla vigilia di un importante anniversario di vita aziendale: 200 anni per la prima e 60 anni per la seconda.

La nostra azienda ha preso vita infatti nel 1961, per opera del fondatore Cesare Faedo nella sua città nativa in provincia di Vicenza, Chiampo. La sua storia, per certi versi, assomiglia molto a quelle maggiormente note di imprenditori dell’era moderna: giovanissimo, infatti, all’età di 26 anni, dopo un’esperienza lavorativa in una nota azienda metalmeccanica locale, scelse di mettersi in proprio aprendo una piccola attività di officina meccanica nello scantinato di casa, la F.O.E.M. (acronimo di Faedo Officina Elettromeccanica). In quegli anni il Veneto, come molte altre regioni d’Italia, stava vivendo il passaggio da un’economia prevalentemente agricola a un’economia industriale fatta di piccole imprese attive in quelli che sarebbero diventati poi distretti specializzati. La localizzazione geografica di Chiampo, città presso cui la nostra azienda è ancora attiva, la posiziona vicino a uno dei grandi distretti del marmo italiano, quello di Verona, e ai più piccoli ma allora molto attivi distretti marmiferi di Grezzana (VR) e della stessa Chiampo. Molto presto l’attività di officina meccanica si perfezionò nella costruzione di argani e macchinari per l’estrazione, fino poi alla completa specializzazione nella costruzione di gru a cavalletto per la movimentazione dei blocchi e di carroponti per la movimentazione delle lastre. Anche l’orizzonte geografico di attività della F.O.E.M. si espanse: in tutti i distretti del marmo d’Italia, come Tivoli, Cassino, le zone del bresciano coinvolte nella lavorazione del

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La nostra storia aziendale ci accomuna a molte piccole aziende famigliari italiane, nate dalla caparbietà dei fondatori, e capaci di continuità, espansione e miglioramento a opera di successori cresciuti in un ambiente in cui i valori dell’imprenditorialità erano parte integrante della storia famigliare.

Botticino, Carrara. Contestualmente, le vendite si svilupparono all’estero, dando il via a una vocazione all’esportazione che perdura ancora oggi. Purtroppo, nel 1991 Cesare Faedo scomparve all’età di 57 anni e a continuare l’attività furono i figli Massimo e Franca che nel 1992 costituirono l’Officina Faedo. Il cambiamento più importante che ebbe luogo con l’avvento della seconda generazione fu l’espansione dei settori merceologici di riferimento, trovando spazio in settori industriali diversi da quello lapideo in cui si rendeva necessario il ricorso a impianti di sollevamento e movimentazione, come il settore siderurgico, quello meccanico, il settore dei prefabbricati e quello navale. Conseguente all’aumento dei settori merceologici di interesse fu l’aumento dei volumi e della forza lavoro impiegata, oltre che lo sviluppo di un’importante rete di servizi e di lavorazioni esternalizzate che condussero al passaggio da logiche artigianali a logiche di industrializzazione.

La nostra storia aziendale ci accomuna a molte piccole aziende famigliari italiane, nate dalla caparbietà dei fondatori, e capaci di continuità, espansione e miglioramento a opera di successori cresciuti in un ambiente in cui i valori dell’imprenditorialità erano parte integrante della storia fa-

migliare. Ora che la nostra azienda sta vivendo l’avvento della terza generazione grandi sono le sfide che abbiamo di fronte. In primo luogo, vogliamo valorizzare la lunga tradizione della nostra azienda, facendo emergere la ricchezza dei processi di condivisone del know-how. In secondo luogo, è nostra volontà espandere ancora la nostra attività introducendo logiche di industrializzazione e di informatizzazione ma riuscendo al contempo a mantenere la nostra stretta relazione con i clienti grazie alla cui conoscenza riusciamo a fornire macchinari che soddisfino appieno le esigenze di ciascuno di loro.

Grande è stato l’impegno profuso nell’aggiornamento dei nostri prodotti per recepire le logiche di funzionamento secondo la transizione digitale in chiave 4.0, adattando le macchine a ogni tipo di situazione richiesta dalle specifiche esigenze informative dei clienti. Un investimento questo che il mercato ci ha riconosciuto e da cui consegue un’importante crescita aziendale, nel solco della nostra tradizione.

Ringraziamo molto Henraux per la fiducia che ci ha voluto accordare affidandoci l’esecuzione di questo importante progetto di riqualificazione, e di aver inserito anche la nostra azienda nel novero delle sue partnership

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HENRAUX PROTAGONISTA DI UNA SERIE TV: IL DIETRO LE QUINTE DI “UOMINI DI PIETRA”

Neppure nella fantasia più ardita si sarebbe immaginato che un giorno i cavatori, le donne e gli uomini di Henraux sarebbero diventati protagonisti di una serie televisiva di successo. Ma si sa, la realtà spesso supera la fantasia, e così è accaduto: gli “uomini di pietra” si sono inseriti nei palinsesti televisivi nazionali e hanno raggiunto il notevole traguardo di serie TV tra le più viste dell’autunno 2020.

Con “Uomini di pietra”, andato in onda a ridosso della celebrazione dei 200 anni della sua storia, Henraux si è raccontata attraverso i panorami mozzafiato del Monte Altissimo, la vita nelle cave e la frenesia del lavoro nel deposito e negli stabilimenti di Querceta.

È il giugno 2019 quando il produttore Ugo Pozzi ci racconta per telefono il suo progetto: girare una serie televisiva di sei puntate, un’ora ciascuna, da trasmettere su D-Max, il canale satellitare di Discovery Italia. Non una richiesta abituale, nulla che rientrasse nei parametri televisivi o cinematografici consueti, nazionali e interna-

zionali, in cui le cave sono protagoniste solo in quanto oggetto di servizi e approfondimenti televisivi o set cinematografici.

La storia dell’azienda, e delle sue cave in primis, consente un lungo racconto che dal 1517 arriva ai giorni nostri, con storie e fatti in crescendo sotto gli aspetti dell’eccellenza, delle produzioni e del prestigio dei committenti. Ma se cinque minuti televisivi sono un tempo lunghissimo, sei ore sembravano un’eternità. Cosa si sarebbe potuto, o dovuto, raccontare in tutto quello spazio televisivo, e soprattutto come, era l’enigma da sciogliere.

Il primo passo di questa entusiasmante avventura è stato di accompagnare in cava e negli stabilimenti la troupe di GiUMa Produzioni, la cui necessità era di vedere da vicino se la realtà produttiva e gli uomini che ci lavorano avrebbero potuto prestarsi al non facile compito di recitare se stessi e raccontare una delle storie più antiche e meno conosciute fra le realtà produttive: la storia del marmo e la sua filiera completa. Dalla coltivazio-

ne all’estrazione, dalla lavorazione al prodotto finito, dai controlli di produzione fino allo shipping Era tutto possibile, Henraux rappresenta questo da sempre, ma mancava il tassello più importante: come l’azienda avrebbe potuto trasformarsi in un prodotto televisivo per il grande pubblico.

Intanto, le telecamere, i registi e gli autori avrebbero compiuto il loro primo “allunaggio” alle Cervaiole in una caldissima giornata di metà luglio 2019. Ad accoglierci, come sempre, Franco Pierotti, e ricordandolo sappiamo essere stato il primo tra i fan del programma.

Lo stupore di chi arriva in cava per la prima volta è cosa nota, il paesaggio di cava è davvero stupefacente per chi non lo ha mai visto – in particolare lo è quello delle Cervaiole – e lo è soprattutto per chi lo guarda attraverso l’obiettivo fotografico o cinematografico.

Lo splendore e la luce abbagliante dell’immenso spazio bianco di cava Russia, caratterizzato dai gradoni co-

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lossali dove si muovono in perfetta sintonia uomini e macchine, tra piccoli gesti ed eventi roboanti, è di per sé un grande palcoscenico. La chiave che avrebbe aperto al racconto era presto trovata: la meraviglia del marmo e dei suoi uomini era la storia.

Ma per fare “spettacolo” le telecamere e gli autori si sarebbero dovuti concentrare sulle difficoltà, sui problemi e sugli errori che si compiono sul lavoro. Per convincerci a mettere in luce in un primo tempo solo i fattori critici in cava e in produzione, Ugo Pozzi ci ha raccontato che quando giunge il lieto fine la favola finisce. Per questa ragione, il pubblico è attratto dalle sfide, dalla capacità degli uomini di affrontare le avversità, dalla caparbietà contro le ostilità.

Henraux è realtà economica internazionale, abituata a parlare di sé in termini di eccellenza, di performance, di risultati. La richiesta di GiUMa Produzioni di partire all’inverso e mostrare il lato faticoso e vulnerabile di questo lavoro è stata la vera sfida nelle mani di Paolo Carli, che ha accettato di mettere se stesso e i propri uomini a una prova mai immaginata.

“Uomini di pietra” è un tributo a un’arte millenaria, al territorio, a uomini e

donne che ogni giorno, con orgoglio, prestano la loro opera per costruire bellezza e per trasformare in storia ogni pietra che faticosamente viene portata nel mondo dal cuore pulsante della montagna.

A luglio 2020, esattamente un anno dopo il primo sopralluogo, un’intera troupe costituita dallo stesso Ugo Pozzi, dal direttore Mario Barbieri, dall’autore Andrea Rizzoli e da numerosi cineoperatori e tecnici del suono, si installa ai piedi del Monte Altissimo e tutti i giorni per un mese è nelle cave a girare.

È un turbinio di telecamere, di droni, di corse dietro agli uomini e alle macchine in movimento. È uno spostamento continuo per seguire gli eventi in cava Russia e alla Catino Alto, e nelle più recenti Piastrone e Buca. È un lavoro molto faticoso inseguire ribaltamenti di bancate, trovare lo spazio per i “confessionali”, cogliere i caratteri e le peculiarità dei protagonisti che si sdoppiano in un lavoro che li vede attori e operai. E poi, correre dal monte al piano per girare scene salienti fra commissari e project manager che altrettanto faticosamente si confrontano con le esigenze dei clienti.

Saranno state al contempo la paura e

la voglia di apparire, l’orgoglio di esserci e l’imbarazzo a mostrarsi, il forte senso di appartenenza e la sfida a raccontarsi che hanno fatto emergere in “Uomini di pietra” protagonisti come Mario (Massimo) Tarabella, Jacopo Bertozzi, Michele Giannelli, Filippo Celentano, Luca Truffelli, il Presidente Paolo Carli e due tra le molte donne dell’azienda, Letizia Luporini e Barbara Farina.

Un silenzio di alcuni mesi si aggiunge al fragore della calda estate 2020: è il tempo della post produzione. A ottobre clip promozionali, che raccolgono milioni di visualizzazioni oltre a commenti entusiasti, annunciano in TV, nel web e sui social l’arrivo di “Uomini di pietra”.

Il 19 novembre 2020 alle ore 21.25 è la sera della prima TV su D-Max. Ènotte, le cave sono chiuse nel loro silenzio e nell’oscurità impenetrabile della montagna. I protagonisti come il pubblico sono silenziosi ed emozionati davanti alla TV. È un momento speciale, è vedersi e vedere. È un successo dedicato a tutte quelle mani che nel tempo hanno toccato, accarezzato, trasformato il marmo in leggenda.

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L’ATTIVITÀ ESTRATTIVA E I GRUPPI AMBIENTALISTI: I PRESUPPOSTI PER UN DIALOGO POSSIBILE

Henraux è un’azienda sostenibile. Lo è nella sua definizione più ampia in base alla quale è sostenibile quell’impresa che partecipa al benessere sociale ed economico del territorio cui appartiene.

Con la sua attività, industriale e culturale, Henraux può affermare, senza timore di smentita, di contribuire alla prosperità della sua comunità e di occuparsene in modo concreto da duecento anni.

Forte della sua posizione, il 4 luglio l’azienda ha voluto essere presente alla manifestazione indetta da Cosmave – il Consorzio per lo sviluppo dell’attività marmifera della Versilia – con il fine di contrastare la protesta da parte dei gruppi ambientalisti che lamentano una supposta indisponibilità degli industriali del marmo al dialogo sul tema dell’attività estrattiva da loro fortemente osteggiata.

Ciò che si desidera mettere all’attenzione delle realtà ecologiste è che il dialogo, per essere tale, deve partire da un inevitabile presupposto, fuor da ogni retorica e con grande senso di realtà: il rispetto dei lavoratori, che devono mantenere le loro famiglie, pagare il mutuo della casa, far studiare e crescere i propri figli, avere ogni assicurazione e poter contare, alla fine dell’attività lavorativa, su una buona pensione. Tutti beni che sono assicura-

ti loro dalle cave, dalla filiera e dall’indotto creato dalle aziende del marmo.

Le cave nel parco sono infatti innanzitutto un luogo di lavoro e sono il principio della filiera che rende possibile e stabile l’economia del territorio.

Il dato oggettivo con cui gli ambientalisti si dovrebbero confrontare è che senza le cave il territorio intero cadrebbe in una crisi economica irreversibile. E dovrebbero ragionare, inoltre, sul fatto che in un periodo come quello che stiamo vivendo a causa della pandemia, che ha creato una crisi occupazionale senza pari, nel territorio versiliese, invece, grazie ai sacrifici e alla serietà delle aziende del marmo, si sono potuti mantenere i posti di lavoro e le retribuzioni.

È infatti la tutela del lavoro e dell’attività produttiva, che si svolge su questo territorio da secoli, il tema cui la stessa Henraux rivolge tutta la sua attenzione. E, nel farlo, non dimentica l’ambiente: la sua attività estrattiva si svolge nel totale rispetto delle norme e leggi vigenti.

«In questi giorni abbiamo ricevuto molto sostegno per le nostre dimostrazioni pacifiche a difesa del lavoro e della filiera del marmo – dichiara il Presidente di Henraux, Paolo Carli –. I miei ringraziamenti vanno in primis a tutti i lavoratori presenti, sia di Hen-

raux che del proprio indotto, ringrazio la Fillea CGIL, in particolar modo la sua Segretaria Alessia Gambassi presente domenica presso la Cava Cervaiole a sostegno di tutti i lavoratori. Un sentito ringraziamento al Sen. Massimo Mallegni che in tutti questi anni, e oggi ancora con più forza, si è posto a difesa del lavoro, del territorio e del comparto marmifero, e all’On. Umberto Buratti che con la sua presenza alle Cervaiole ha dimostrato la sua vicinanza all’azienda e ai dipendenti. A dimostrazione che le personalità politiche preminenti del territorio, con il loro sostegno e la loro presenza, sono da sempre vicine e pronte a intervenire a salvaguardia del benessere dei cittadini e per la difesa dei posti di lavoro». Nella consapevolezza di occupare posizioni diametralmente opposte nella concezione stessa di “patrimonio montano” e di cosa significhi la sua tutela – da una parte quella imprenditoriale, che difende un indotto economico che dà lavoro a centinaia di famiglie, dall’altra quella di chi vorrebbe ridotta, se non addirittura fermata, l’attività estrattiva a favore di una rigenerazione paesaggistica –, Henraux non si sottrae all’ascolto e al confronto, purché si assuma un approccio al tema con argomentazioni concrete e non puramente ideologiche.

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La manifestazione di domenica 4 luglio sul Pizzo di Falcovaia, cava delle Cervaiole Notiziario

L’ARTE NELL’EPOCA DELL’INNOVAZIONE TECNOLOGICA

Che rapporto ha l’arte, e la scultura in marmo in particolare, con l’innovazione tecnologica? Molto stretto, a partire dal momento in cui la pietra dev’essere estratta e trasportata, attività che hanno richiesto sin da tempi remoti ingegno e tecnica. Ma non è solo l’arte ad avvalersi della tecnologia, la relazione è anche inversa: la capacità visionaria dell’arte è infatti ugualmente utile al progresso tecnologico.

«Se la gente sapesse quante ore ho sudato per realizzarlo, non mi considererebbe un genio» affermava Michelangelo Buonarroti.

L’arte e l’innovazione sono il frutto di anni di studio, di esperienza, di prove, di errori, di tentativi, sono la sintesi di tutto ciò, ma anche dell’intelletto dell’uomo che con perseveranza investe e scommette sulla sua capacità di creare qualcosa di unico, originale, eterno.

Non possiamo pensare a famose opere d’arte in marmo di Brunelleschi, di Michelangelo o di Canova senza pensare al duro lavoro che vi si cela, fatto non solo di studi e di preparazione ma anche di estrazione, di trasporto e di

lavorazione artistica del blocco. Leonardo possiamo definirlo come l’innovatore per eccellenza nelle scienze; eppure, senza le sue ricerche e i suoi studi probabilmente non avrebbe realizzato le innovazioni che gli riconosciamo e non sarebbe stato il Leonardo Da Vinci innovatore.

Arte e innovazione nel corso del tempo sono sempre andate di pari passo perché il miglioramento si ottiene attraverso l’incontro e la contaminazione di culture diverse.

Quando parliamo di arte del marmo ma anche semplicemente di marmo è naturale pensare al marmo di Carrara. Difficilmente pensiamo ad altre tipologie perché, checché se ne dica, la tradizione italiana della lavorazione del marmo come noi la conosciamo, inizia con Michelangelo e dalle cave del Monte Altissimo vicino a Carrara. Nella scultura, il marmo, come anche la pietra, è il principale protagonista, da sempre, da prima degli egiziani; ma l’arte della scultura è sempre stata accompagnata dall’innovazione tecnologica poiché ha sempre dovuto affrontare il problema dell’estrazione,

del trasporto e della lavorazione. Forse ci pensiamo o forse no, forse lo diamo per scontato, ma il marmo pesa, pesa kilogrammi, quintali, tonnellate e le aziende hanno sempre cercato soluzioni che le potessero aiutare a ottimizzare le diverse fasi di lavorazione. Paolo Carli, presidente di Henraux, in una recente intervista ha affermato: «La tecnologia è decisiva per il futuro delle aziende, consente di fare passi da gigante mantenendo l’identità della manualità dell’artista e determina quello scatto di competitività di cui abbiamo bisogno per vincere le sfide internazionali».

Capire come affrontare le sfide di ogni giorno e imporsi sul mercato non è facile e Henraux ne è consapevole. Il fatto che Henraux abbia scelto Donatoni come partner tecnologico non è un caso ma semplicemente l’incontro tra arte e innovazione tecnologica, tra la mano e la macchina, tra due aziende convinte che l’unico modo per crescere ed essere competitivi sia continuare a investire nell’innovazione tecnologica e in ricerca.

Donatoni è nata nel 1957, in pieno

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DI ANDREA CORRADINI

boom economico del dopoguerra, e nello stesso anno Erminio Cidonio prendeva la guida di Henraux. Sembra un gioco del destino ma a volte le coincidenze ci fanno pensare che esista veramente un disegno di cui noi siamo solo gli attori. Nonostante le strade di Henraux e Donatoni non si siano mai incrociate fino al 2019, entrambe dal 1957 hanno sempre lavorato tenendo la bussola fissa verso un solo obiettivo: il miglioramento continuo attraverso l’innovazione.

Quando Vittorio Donatoni aprì la sua Officina Vittorio Donatoni, iniziò fornendo servizi di riparazione e assistenza di mezzi e macchinari utilizzati nelle cave e nella movimentazione di blocchi e lastre; non immaginava minimamente come sarebbe evoluta l’azienda e che alcune sue innovazioni avrebbero aperto la strada alla futura Donatoni Macchine. La sua grande abilità meccanica e l’ingegno lo spinsero sin da subito a cercare soluzioni che non solo fossero rivolte alla riparazione ma anche al miglioramento dei mezzi e conseguentemente del lavoro degli operatori del settore del marmo. Dal miglioramento, Vittorio passò alla realizzazione di brevetti e strumenti e in seguito alla vendita di macchinari, mantenendo quella che era la mission aziendale ossia fornire servizi di assistenza e riparazione.

In 43 anni, dal 1957 al 2000, Vittorio, e poi anche il figlio Giorgio, ha continuato a riparare e migliorare i mezzi e i macchinari dei propri clienti, osservando, ascoltando le loro necessità, imparando e capendo ciò che andava e ciò che non andava bene, ciò che andava riparato e ciò che andava migliorato o cambiato. Dall’esperienza di queste due persone nel 2008 nasce la Donatoni Macchine, un’azienda che dell’innovazione ha fatto il suo valore trainante.

Uno dei fattori determinati del successo di Donatoni è sempre stata la solidità, la qualità e la cura con cui le sue frese a ponte e i centri di lavoro universali vengono realizzati, riconosciuta dagli stessi clienti. Il saper fare nasce dall’esperienza acquisita in anni di assistenza che ha permesso di capire i punti di forza e i punti di debolezza delle macchine presenti sul mercato. Se a ciò uniamo intuizione e ingegno, abbiamo brevetti e soluzioni dalle alte prestazioni e dalla lunga durata. Pos-

siamo definire la Donatoni Macchine un’azienda che è nata dal basso, per cui le esigenze del cliente rappresentano una sfida e un’opportunità di crescita continua.

L’incontro tra Henraux e Donatoni è la conseguenza diretta del continuo lavoro di ricerca e sviluppo che da anni Donatoni ha adottato nella progettazione delle proprie macchine. Giorgio Donatoni, che possiamo definire la mente tecnologica dell’azienda, dalle necessità e dai problemi quotidiani dei clienti, ha sempre tratto ispirazione per lo sviluppo delle nuove macchine e delle tecnologie ad esse applicate. Questa grandissima capacità di ascolto ha permesso a Donatoni di approcciare Henraux. Paolo Carli ha dichiarato di essersi avvicinato a Donatoni perché attratto non soltanto dalla qualità delle macchine, ma anche dall’engineering, dalla mente dai cui nascono queste soluzioni. Oggi Donatoni rappresenta per Henraux il partner tecnologico per migliorare la produzione e sviluppare nuove soluzioni che aiutano a superare i gap produttivi, mantenendo l’automazione al servizio dell’uomo e della manualità. La Fondazione Henraux rappresenta in un certo modo il reparto ricerca e sviluppo dell’azienda Henraux; attraverso lo sviluppo delle relazioni con artisti internazionali, architetti e designer è possibile fare progredire l’arte e ciò spinge l’azienda alla ricerca di tecnologie sempre nuove in grado di trainare la trasformazione.

A confermare quanto detto, possiamo citare la collaborazione tra Henraux e Donatoni nello sviluppo e realizzazione di una macchina nuova e unica, mai prodotta prima per il mercato della pietra: la KSD-1 (oggi DONATONI KROSS). La necessità di automatizzare ulteriormente il processo produttivo nella realizzazione di rivestimenti e pannelli in marmo e pietra destinati a grandi progetti architettonici ha portato allo sviluppo della macchina KSD-1, una macchina volta alla realizzazione di predisposizioni di sistemi di fissaggio per pannelli e lastre a parete per facciate continue interne ed esterne. L’aspetto interessante di questa macchina non sta solo nella sua unicità ma nell’approccio utilizzato per realizzarla: Henraux è stata coinvolta direttamente nella progettazione, diventando parte integrante del suo processo di sviluppo. L’esperienza di Henraux nella realizzazione di pro-

getti architettonici importanti ha permesso di trasmettere ai progettisti di Donatoni quali fossero le difficoltà nel realizzare rivestimenti e pannelli per le facciate continue, consentendo lo sviluppo di questa soluzione.

Per Donatoni oggi la ricerca non è solo sviluppo meccanico; si è spinta oltre esplorando nuovi territori da cui attingere e contaminarsi. Lo sviluppo software è oggi per l’azienda un punto di forza ma anche un punto di partenza. La digitalizzazione è un processo che lentamente sta coinvolgendo tutti i settori produttivi e il settore del marmo e della pietra non è da meno. Realizzare macchine interconnesse, controllate a distanza e automatizzate non è più un’utopia ma è la normalità. I vantaggi per le aziende sono molti e si traducono molto semplicemente in soluzioni che aiutano l’operatore a lavorare meglio e l’azienda a produrre di più e con una qualità superiore avendo un controllo completo dell’intero processo produttivo. Avere al proprio interno un ufficio software composto da personale qualificato di alto livello è una scelta strategica che consente a Donatoni di essere una delle poche realtà in grado di assecondare velocemente le esigenze della propria clientela con una capacità di adattamento e reazione unica nel settore, permettendo la perfetta integrazione della macchina con il software.

Un altro ambito su cui Donatoni ha messo radici è la robotica. Già da qualche anno l’azienda ha iniziato a produrre sistemi robotici per la lavorazione e finitura del marmo e della pietra andando in contrapposizione ai tradizionali centri di lavoro universali che sin dall’inizio l’hanno resa famosa. La scelta di utilizzare robot per questo scopo è nata dalla necessità di fornire soluzioni molto flessibili a clienti che hanno una forte componente produttiva di tipo contract e design.

“Robot” non significa solamente soluzioni per la lavorazione, ma anche per l’automazione. Per Donatoni l’automazione è un motore per la competitività e una scelta tecnologica che consente alle aziende di ottenere numerosi vantaggi in termini di tempo, sicurezza e controllo. Attraverso le tecnologie di automazione è possibile realizzare linee di produzione, ridurre la manodopera e ottimizzare la produzione, programmare le commesse e garantire le

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consegne, monitorare le fasi produttive e controllare i costi di gestione. Se le osserviamo da troppo vicino, innovazione e tecnologia a volte sembrano qualcosa di scollegato dall’uomo, di distante e a volte estraneo; ma se vogliamo che nell’arte, nella scultura e più in generale nella lavorazione del marmo e della pietra il valore di quanto prodotto non passi solo attraverso degli automatismi, dobbiamo fare in modo che la manualità e il genio artistico restino le componenti di valore principale che il cliente riconosce e acquista, e la macchina sia al loro servizio. È per questo che la partnership tra Donatoni e Henraux ha senso di esistere. Le loro strade si sono incrociate al momento giusto, quando l’una aveva bisogno dell’altra, quando l’innovazione aveva bisogno dell’arte per progredire e l’arte dell’innovazione per migliorare, ovvero l’innovazione al servizio della mano dell’artista. Leonardo da Vinci affermava che «saper ascoltare significa possedere, oltre al proprio, il cervello degli altri ». Donatoni nasce dalle esigenze del cliente, dall’assistenza: è un’azienda che ascolta e impara da aziende come Henraux e oggi più che mai ha bisogno di ascoltare per potersi proiettare verso il futuro.

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Progetto grafico e impaginazione

Thetis Srl

Via Oliveti 110 • 54100 Massa

Finito di stampare nel mese di agosto 2021 presso Grafiche G7 sas, Genova

ISBN9788894350241

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