L'essenza di Henraux: la competenza e le relazioni
MARMO
Rivista annuale
Numero 11, 2023 aprile
Direttore responsabile Paolo Carli
Direttore Costantino Paolicchi
Vice Direttore Aldo Colonetti
Coordinamento editoriale
Eleonora Caracciolo di Torchiarolo
Coordinamento
Manuela Della Ducata
Redazione
Eleonora Caracciolo di Torchiarolo, Manuela Della Ducata, Nicola Gnesi, Anastasia Marsella
Grafica
Silvia Cucurnia, Thetis
Editore Henraux SpA
Fotolito e Stampa Grafiche G7 sas, Genova
Contributors
Roberto Bernabò, Edoardo Bonaspetti, Eleonora Caracciolo di Torchiarolo, Aldo Colonetti, Lara Conte, Manuela Della Ducata, Fiammetta Griccioli, Lucien Kayser, Barbara Musetti, Costantino Paolicchi, Eugenio Venezia
Traduzioni
Romina Bicicchi, Daniel Olmos
Fotografie
Agenzia Fotografica del Museo Rodin, Parigi (Christian Baraja, Jérome Manoukian, Hervé Lewandowski), Archivio Henraux, Archivio Nicolas Rostkowski, Andrea Bartolucci, Riccardo Benassi, Birk Enwald, Roger Gain, Nicola Gnesi, Yana Marudova, Sebastian Mittermeier, Agostino Osio, Lorenzo Palmieri, Studio Vesotsky
Copertina Nicola Gnesi
“Stampato sotto gli auspici della Henraux SpA”
Registrazione presso il Tribunale di Lucca no 3/2017 del 24/02/2017
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LE STANZE DEL CIELO
Costantino Paolicchi
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EDITORIALE
Paolo Carli
RODIN E HENRAUX: PRIMA CHE IL MARMO DIVENTI SCULTURA
Barbara Musetti
LIVING MARBLE
Eleonora Caracciolo di Torchiarolo
LA PRESENZA DELLE SCULTRICI ALL’HENRAUX NEGLI ANNI SESSANTA
Lara Conte IL PROGETTO AIRSIDE SECONDO IL GRUPPO IDEATORE NAN FUNG
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Eugenio Venezia
LA QUINTA EDIZIONE DEL PREMIO INTERNAZIONALE DI SCULTURA HENRAUX
Edoardo Bonaspetti
IL BELLO È OVUNQUE, SE LO SGUARDO È LIBERO
Aldo Colonetti
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88
LO STEMMA HENRAUX SULLA FACCIATA
DEL DUOMO DI FIRENZE
Costantino Paolicchi
COLLEZIONE HENRAUX 1960-1970
Redazione
96
DESIGN DEI SENSI. LA CIOCCOLATERIA ALLÉNO & RIVOIRE A PARIGI
Manuela Della Ducata
104
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SAURO LORENZONI. IL MARMO, COMPAGNO DI VITA
Roberto Bernabò
50 HUDSON YARDS, NEW YORK
Redazione
126
UOMO TEMPO SCULTURA
RICORDO DELLO SCULTORE LUIGI MORMORELLI
Costantino Paolicchi
TRATTENERE LA POLVERE, SINTONIZZARSI CON LA NATURA. DINEO SESHEE BOPAPE IN CONVERSAZIONE CON LUCIA ASPESI E FIAMMETTA GRICCIOLI
Fiammetta Griccioli
DISEGNI IN MARMO BIANCO ALTISSIMO
Lucien Kayser
NOTIZIARIO HENRAUX
PAOLO CARLI
Il 2022 è stato per Henraux un anno importante e frenetico.
È stato l’anno in cui ha potuto finalmente celebrare la sua storia e i gloriosi traguardi raggiunti in duecento anni, augurandosi di proseguire per almeno altrettanti.
È stato l’anno della quinta edizione del Premio Internazionale di Scultura Henraux che ha inaugurato un nuovo impianto di presentazione dei candidati e della loro selezione. È stato infatti un comitato curatoriale – quest’anno composto da Lorenzo Giusti, Fatima Hellberg, João Laia, Luca Lo Pinto, Lucia Pietroiusti, Yasmil Raymond e Zoé Whitley – a identificare e invitare la rosa di finalisti ed è stata una seconda giuria – formata da Edoardo Bonaspetti, Vincenzo de Bellis, Letizia Ragaglia, Eike Schmidt e Roberta Tenconi – a decretare i vincitori.
A vincere la quinta edizione sono state tre artiste, Nikita Gale, Lorenza Longhi e Himali Singh Soin. «I tre progetti – sottolinea il direttore di Fondazione Henraux Edoardo Bonaspetti nel suo testo presente in questo numero – si sono distinti per il significativo grado di sperimentazione artistica e tecnologica, e per la capacità di affrontare temi centrali del nostro presente.»
Sono tre premi che mi rendono particolarmente orgoglioso perché mi hanno restituito il polso di quanto occuparsi d’arte contemporanea significhi esplorare ed approfondire il presente e acquisire nuovi strumenti per comprenderlo.
E perché hanno rappresentato una sfida del tutto personale nella comprensione dei linguaggi espressivi contemporanei che a volte sono tanto fitti di contenuti quanto rarefatti nella forma. Per me che mi occupo di pietra, di marmo – capirete – è stato un bel rebus.
Tra le mani delle artiste il marmo si è infatti dissolto, è diventato il contrario di quello che ha sempre rappresentato nella storia e nelle nostre
menti: materia, permanenza. Con loro, il marmo è diventato evanescente, è diventato materia spirituale, facendosi suono, facendosi polvere, facendosi opera d’arte a partire da materiale di scarto. Mentre mi interrogavo su questi linguaggi che a volte sentiamo lontani, è arrivata alla redazione di Marmo la riflessione illuminante di Aldo Colonetti che ci esorta: la dimensione estetica delle cose dipende da noi e non solo dall’opera che guardiamo.
Pensiamo a Duchamp che ha tolto oggetti di uso comune dal loro contesto quotidiano e utilitaristico e li ha dichiarati opere d’arte: ci ha fatto guardare il mondo con uno sguardo nuovo. Allo stesso modo potremmo pensare ai grandi volumi geometrici di marmi diversi posizionati nel grande piazzale di Henraux non come materiali per l’architettura, il design o la scultura, ma in quanto oggetti che hanno un valore estetico in sé e per sé. Uno sguardo nuovo e libero, dunque, che affranca le “cose” dalle loro funzioni e le vede per quello che sono.
Tre vincitrici, dicevamo. A tre donne è andato il Premio di Scultura Henraux. Non è un dato da sottovalutare, anche se sarebbe bello non farci più caso. Ma sappiamo bene che il mondo dell’arte è stato uno dei tanti che fino alla metà del XX secolo è stato quasi del tutto precluso alle donne. Quello della scultura poi, con una narrazione che l’ha sempre vista come attività adatta a chi avesse la forza fisica per affrontarla, ancora di più. Non così in Henraux. Tra gli anni ’60 e ’70 – racconta Lara Conte nel suo contributo – le storie di Rosalda Gilardi, Maria Papa, Alicia Penalba, Alina Szapocznikow, ma anche di Louise Bourgeois, si sono intrecciate con quella dell’azienda, anche grazie alla progettualità visionaria di Giuseppe Marchiori. Sostenute da importanti qualità artistiche, queste scultrici hanno trovato in Henraux un luogo dove potersi esprimere liberamente, dove
DI
potersi autodeterminare, esercitando la scultura anche come scelta politica e di coscienza sociale, scalzando i pregiudizi, ciascuna nella direzione specifica del proprio rapporto con la materia e con il lavoro.
Il 2022 è stato anche l’anno della grande mostra Collezione Henraux 1960-1970 realizzata grazie alla collaborazione con Intesa Sanpaolo e alla sollecitudine con la quale il direttore Michele Coppola e il dottore Stefano Barrese, che ringrazio, hanno accolto il progetto e lo hanno reso possibile. Un’esposizione che ha riunito oltre venti sculture che nel 1973 furono separate, in parte acquisite dalla collezione di Banca Commerciale Italiana, oggi Banca Intesa Sanpaolo, in parte rimanendo in Henraux.
Dopo essere state esposte alle Gallerie d’Italia di Milano a giugno e luglio, il prezioso corpus di opere è stato esposto sotto lo stesso tetto – quello bellissimo della vecchia segheria della sede di Querceta, reperto affascinante di architettura industriale dell’Ottocento – fino a settembre.
Oltre alle opere di Jean (Hans) Arp, Pietro Cascella, Rosalda Gilardi, Émile Gilioli, Jacques Lipchitz, Morice Lipsi, Joan Miró, Isamu Noguchi, Maria Papa Rostkowska, Giò Pomodoro, Antoine Poncet, Branko Ruži, François Stahly, Georges Vantongerloo e molti altri, la mostra – curata da Edoardo Bonaspetti – ha presentato documenti, foto d’archivio, modelli e riproduzioni organizzati in nuclei tematici raccontando il vitale contesto in cui le sculture sono state create, la nascita della collezione Henraux e l’esempio straordinario di cultura d’impresa dato dall’azienda.
Come noto, tanti sono stati gli artisti che hanno attraversato la storia di Henraux. Nell’attuale numero di Marmo rendiamo omaggio, tramite l’accurato testo di Barbara Musetti, a uno dei più grandi, se non il più grande: Auguste Rodin. Il carteggio tra lo scultore e Jean Bernard Sancholle
Henraux ci restituisce due profili dalla forte personalità e, soprattutto, dalle immense competenza e professionalità.
La storia di Henraux non si è però definita solo grazie alla presenza di questi grandi caratteri, ma è stata il frutto di un lavoro quotidiano, paziente, determinato di decine di uomini e di donne, di maestranze che hanno reso possibile attraverso la loro esperienza la realizzazione delle visioni di artisti, architetti e designer. Nella rubrica “I maestri dell’Henraux” Roberto Bernabò intervista questa volta Sauro Lorenzoni che ci racconta cosa significhi lavorare accanto ai grandi maestri – Moore, Marini, Gilioli – e rendere reali i loro progetti. Onore ai nostri preziosi artigiani. L’arte ha occupato quasi tutto questo editoriale, ma mi preme ricordare che il 2022 e, in parte, il 2023 sono stati anche gli anni in cui il nostro brand Luce di Carrara ha compiuto un enorme lavoro di rinnovamento del proprio catalogo sotto la sapiente direzione dell’Art Director Attila Veress. Nella sua visione, il marmo diventa compagno della quotidianità declinandosi non solo nel complemento d’arredo, ma anche nei rivestimenti e nelle finiture, consentendo al nostro sguardo di appoggiarsi sul bello in ogni angolo della casa. Abbiamo quindi voluto rendere merito a tale lavoro, che ha richiesto grandi creatività e professionalità, dedicandogli la copertina di questo numero.
In chiusura, vorrei citare infine i testi del direttore di Marmo, Costantino Paolicchi, che ci regala quest’anno tre contributi che sono una miscela perfetta di conoscenza della storia dell’azienda e del territorio e di grande attenzione e cura verso le persone che questo territorio hanno costruito. Lo ringrazio quindi per averci riportato, dopo le tante magnifiche divagazioni che questo numero contiene, all’essenza di Henraux, ai suoi temi fondanti: la competenza e le relazioni.
LE STANZE DEL CIELO
DI COSTANTINO PAOLICCHI
FOTO DI ANDREA BARTOLUCCI
Una ricerca fotografica che punta l’obiettivo sul lato estetico e metafisico delle cave di marmo delle Alpi Apuane. Lontano dal negare la fondamentale salvaguardia ambientale, Bartolucci con le sue immagini esalta la bellezza di questi paesaggi, suggerendo nuove strade nella prospettiva di un corretto e armonico rapporto tra attività produttive e territorio.
Cava Rigo, Arni
Le stanze del cielo1 è una pubblicazione che propone, mediante la ricerca fotografica di Andrea Bartolucci, un percorso sulle e dentro le Alpi Apuane dedicato agli ambienti e ai paesaggi delle cave di marmo che, soggette da oltre duemila anni al lavoro degli uomini, hanno impresso nella catena montuosa un carattere esclusivo, destando – ieri come oggi –l’ammirazione di visitatori, viaggiatori, artisti e imprenditori provenienti da ogni parte del mondo.
Andrea Bartolucci ha condotto il suo lavoro in un lungo arco di tempo, visitando i siti estrattivi ancora in attività o abbandonati da anni sulle montagne di Carrara e della Versilia, individuando aspetti di rilevante interesse paesaggistico, ambientale, culturale, antropologico. Le sue fotografie – risultato della sedimentazione di una solida preparazione tecnica unita ad una esemplare sensibilità artistica e umana, e di una assidua frequentazione delle Apuane – interpretano la luce, i colori, le architetture e le geometrie prodotte nella montagna dal plurisecolare lavoro dell’uomo.
In genere gli autori, nell’affrontare fin dalla seconda metà dell’Ottocento le tematiche compositive che le cave di marmo suggeriscono, sono stati fortemente influenzati dalla presenza umana, dalle
situazioni legate alle tecniche estrattive, alle diverse fasi del ciclo produttivo, riservando particolare attenzione ai personaggi che animano questo micro-universo: cavatori, tecchiaioli, filisti, riquadratori, lizzatori. Le fotografie risultano pertanto vive testimonianze del lavoro in cava e dei mutamenti tecnologici che hanno profondamente trasformato, almeno a partire dai primi anni del Novecento, gli ambienti e i paesaggi apuani.
Diversamente, Andrea Bartolucci ha volutamente omesso la presenza umana: le sue fotografie raccontano il grande silenzio della montagna quando le cave sono inattive, o perché abbandonate o perché temporaneamente chiuse, come nei giorni di festa. È allora che senza i rumori – spesso assordanti – di macchine taglia blocchi, pale meccaniche, gru e camion, la cava rivela una dimensione assolutamente inconsueta, quasi metafisica, dove è possibile cogliere i segni e le stratificazioni del lavoro nei tagli prodotti nel monte dal filo elicoidale (oggi dalle taglia blocchi a catena diamantata), nelle pareti verticali che disegnano geometrie di marmo, nelle incredibili architetture che delimitano le “stanze del cielo”: luoghi capaci di comunicare emozioni profonde, di sollecitare riflessioni e tensioni creative, di indurre momenti di elevata spiritualità.
Le Cervaiole, Monte Altissimo, Seravezza
A sinistra, Geometrie di luce
Cava Diaccetto al passo del Vestito, Arni
A destra, luci e ombre nella
Tagli di filo elicoidale in una cava di Arnetola (Vagli)
Cava Rigo
Nel silenzio delle “sue” cave l’obbiettivo di Bartolucci opera il prodigio di una trasfigurazione, rivelando come ambienti di fatica e di pena, dove gli uomini ancora oggi mettono a rischio le proprie vite per guadagnarsi il pane, divengano cattedrali di pura bellezza costruite togliendo, fino a penetrare nel cuore della montagna dove ciascuno può identificare il suo sancta sanctorum , e attingere sconosciute energie dalla luce riflessa su quelle pareti a specchio, di un bianco accecante che dilata lo spazio.
Bartolucci è riuscito a ristabilire un dialogo tra la natura incontaminata delle Alpi Apuane e le cave che ne operano la progressiva trasformazione. Bartolucci rivendica, senza schierarsi, i significati e i valori che le cave, nonostante tutto, apportano alla catena apuana come patrimonio aggiuntivo e per molti versi esclusivo sotto il profilo storico-culturale e paesaggistico. Le cave da oltre duemila anni sono componente primaria della cultura e della tradizione dei paesi
del marmo: I paesi della pietra piegata 2
Del resto, le Alpi Apuane sono assai più conosciute nel mondo per le cave di marmo che non per le loro peculiarità naturalistiche. Una bella mostra dal titolo Cava , allestita nei suggestivi ambienti della Fondazione Arkad a Seravezza, a cui Bartolucci ha partecipato, aveva per sottotitolo La cava di marmo bianco come un’opera d’arte scolpita nella natura . Questa mostra ha avuto come tema la cava di marmo vista proprio come un’opera d’arte «…da ammirare e tutelare, con l’obbiettivo di valorizzare ed apprezzare l’indiscutibile bellezza artistica ed il fascino da sempre emanato dalle montagne di marmo.»
Ciò non significa non riconoscere l’importanza della salvaguardia ambientale nella prospettiva di un corretto e armonico rapporto tra attività produttive e territorio, ma si vuole indicare nuove possibilità di valorizzazione e sviluppo delle Apuane nella riconsiderazione delle cave anche da un punto di vista estetico.
NOTE
1 A. Bartolucci, Le stanze del cielo. Sulle tracce di Michelangelo , Bandecchi&Vivaldi Ed., Pondera 2012.
2 È il titolo di un mio libro pubblicato dalle Edizioni Container, Firenze 1981.
RODIN E HENRAUX: prima che il marmo diventi scultura
Il particolare rapporto tra il grande scultore Auguste Rodin e l’azienda Henraux, per mano di Jean Bernard Sancholle Henraux. Attraverso la rilettura dei carteggi emergono i dettagli di un legame professionale, e talvolta personale, di due figure esigenti e competenti, ognuna nel suo campo, unite dalla passione comune per il marmo.
fig. 1
Il deposito Henraux a Querceta
DI BARBARA MUSETTI
Il
blocco non parteggia per lo scultore.
Il blocco è contro di lui.
”
Thomas Mann, La legge, 1944
All’apice di una personale gerarchia di gusto, l’artista issava infatti il marmo attico, noto per la sua compattezza, seguito da quello di Paros, dalla grana più grossolana ma di un bianco traslucido, dal bianco di Carrara, sfruttato dai romani e da quello di Seravezza.
Il marmo secondo Rodin
Il marmo, materiale nobile della statuaria, è il primo lemma dell’alfabeto artistico sul quale si fonda tutto il linguaggio plastico rodiniano.
Eppure, il percorso formativo di Auguste Rodin (1840-1917) fu tutto tranne che accademico. Nato a Parigi nel 1840, l’artista fu rifiutato per ben tre volte al concorso di ammissione all’Accademia di Belle Arti, dovendo ripiegare sull’Ecole des arts décoratifs, specializzata nella formazione di scalpellini attivi soprattutto nell’ornato architettonico. Una vera delusione per un giovane ambizioso che aspirava ad un destino di grande statuario. L’esclusione dal sistema accademico non aveva privato Rodin soltanto di un iter formativo strutturato, di una rete di contatti professionali e di commissioni statali ma anche – e soprattutto – della possibilità di candidarsi al prestigioso Prix de Rome, un soggiorno formativo di quattro anni da svolgersi presso l’Accademia di Francia a Roma, che gli avrebbe garantito lo studio diretto dell’arte antica. La strada da percorrere fu quindi per lui tutta in salita. Ma quello che inizialmente avrebbe potuto essere un grave pregiudizio si rivelò invece una straordinaria occasione di libertà intellettuale, affrancando lo scultore dai modelli imposti dall’accademismo. Da autodidatta, all’educazione della mano, Rodin affiancò parallelamente quella dell’occhio, grazie allo studio di opere incontrate quasi per caso nelle sale del Louvre o nelle botteghe di qualche antiquario, dove cominciò ad acquistare con i primi guadagni piccole statuette antiche.
E fu proprio la supremazia che Rodin riconobbe molto presto all’arte antica nel suo percorso formativo, che influenzò considerevolmente la sua comprensione del materiale scultoreo. I celebri marmi dell’Antichità, per i quali lo scultore professava una venerazione, lo avevano condizionato nel suo approccio alla materia. All’apice di una personale gerarchia di gusto, l’artista issava infatti il marmo attico, noto per la sua compattezza, seguito da quello di Paros, dalla grana più grossolana ma di un bianco traslucido, dal bianco di Carrara, sfruttato dai romani e da quello di Seravezza, apprezzato da Rodin grazie soprattutto all’uso che Michelangelo – l’altro polo dell’estetica rodiniana – ne aveva fatto.
Quell’estetica del bianco, intrisa di sofferenza fisica nella lotta impari con il blocco, Rodin l’aveva conosciuta fin dai primi anni della sua carriera quando, in attesa di riconoscenza, traduceva con il suo scalpello le idee creative di altri. Dovrà aspettare almeno fino agli anni Ottanta prima di ottenere una prima e importante commissione pubblica, quella della Porta dell’Inferno2 che, per quanto sfortunata, rivelerà al mondo il suo genio creativo. A partire da quel momento da semplice scalpellino Rodin acquisirà una vera e autonoma identità artistica. Le richieste, soprattutto di busti, diventeranno sempre più numerose e alla lista dei collaboratori si aggiungerà anche quella dei fornitori di marmo. Tra il 1880 e il 1916 se ne contano almeno una trentina, attivi nel commercio di varie tipologie di prodotti. Per quanto riguarda i marmi italiani – essenzialmente lo statuario bianco – Rodin si rivolgeva inizialmente ad alcuni scalpellini carraresi attivi a Parigi e presenti sul mercato anche nella duplice veste di mercanti3. A questa lista, si aggiungerà all’inizio del Novecento anche il nome della società Henraux di cui Rodin diventerà un cliente fedele ed esigente.
Rodin nella galassia Henraux
Le relazioni commerciali tra Rodin e la società Henraux sono documentate su un arco di tempo di circa quindici anni, tra il 1901 e il 1915.
Nonostante la perdita degli archivi italiani dell’azienda, la lettura della corrispondenza tra lo scultore e la società apuana conservata presso il museo Rodin di Parigi4 ci permette di far riemergere la trama delle loro relazioni. Il carteggio è costituito da un centinaio di documenti, un corpus prezioso che affianca a carte commerciali (fatture, avvisi di consegna, documenti tecnici) lettere più personali legate alla famiglia Henraux.
L’arrivo di Rodin nella galassia Henraux avviene sotto la direzione di Jean Bernard Sancholle Henraux (1874-1931), uno dei quattro figli di Roger all’origine, insieme alla sorella Margherita, della «Héritiers S. Henraux»5.
Jean Bernard, prese la direzione della società nel 1890 dopo la morte prematura del padre, di cui proseguirà l’opera. Parallelamente al processo di rilancio tecnologico dell’azienda – contribuendo a un vero e
proprio piano di promozione internazionale del marmo del monte Altissimo – sfruttando non solo il proprio famigliare legame con la Francia ma anche la presenza in Toscana di una ricca colonia di artisti stranieri, inglesi e americani in primis, che sceglieranno il marmo apuano per prestigiose commissioni6. Ma è in Francia che il marmo dell’Altissimo trova la sua massima diffusione, seconda solo all’Italia, grazie ad un’intelligente promozione, iniziata dal padre, presso i giovani pensionnaires dell’Accademia di Francia a Roma per la realizzazione dei loro saggi di fine anno, pratica che naturalmente mantennero nel tempo. Alla fine degli anni Ottanta il marmo versiliese era all’apice della sua reputazione francese. Lo statuario del Monte Altissimo era considerato come il più pregiato e il più costoso marmo del bacino apuano. La società Henraux ne era il suo ambasciatore incontestato.
È quindi legittimo ipotizzare che l’incontro tra Rodin e Jean Bernard Sancholle Henraux sia avvenuto proprio a Parigi – dove la Henraux aveva una sede di rappresentanza7 – intorno al 1900, quando l’Esposizione Universale aveva attratto nella capitale circa 56 milioni di visitatori. Difficile non immaginarvi la presenza dell’azienda versiliese, capace di cogliere in quell’evento uno straordinario veicolo di promozione.
Per Rodin questo periodo coincide con l’apice del successo, grazie alla trionfante mostra dell’Alma. Quell’anno, infatti, a pochi metri dal sito dell’Esposizione Universale, l’artista aveva stupito tutti
con una memorabile quanto originale mostra monografica8. La grande esposizione mediatica dell’evento gli aveva procurato un incremento esponenziale delle commissioni, interrotto solo dall’inizio del primo conflitto mondiale. Ormai anziano, nell’impossibilità di poter onorare tutte le richieste, lo scultore aveva potenziato la rete già esistente di collaboratori, un’armata fatta di scalpellini, formatori, riduttori e fornitori di marmo, che permettevano alla «fabbrica della scultura» rodiniana di mantenere la cadenza. In questo sistema ben rodato, il marmo era diventato quanto mai essenziale, strumento necessario alla creazione e all’immagine che Rodin voleva dare di sé.
Perché, per quanto l’organizzazione dell’atelier dell’artista si fondasse oramai da decenni – in realtà proprio fin dai tempi della Porta dell’Inferno – su una distribuzione delle diverse fasi della produzione artistica ai vari collaboratori, la reputazione dello scultore era indissolubilmente (e paradossalmente) legata proprio al lavoro individuale del marmo.
Le relazioni tra Rodin e Henraux si costruirono lentamente a Parigi sulla base di una progressiva frequentazione sempre più cordiale. Insieme alla moglie, Marie Bernières Henraux9, l’imprenditore rese visita più volte a Rodin nella sua abitazione di Meudon, alle porte di Parigi, dove ebbe occasione di vedere da vicino l’attività dell’atelier del maestro e dei suoi numerosi scalpellini. Dal canto suo, la moglie, giovane scultrice in erba, riconobbe subito nell’artista una figura tutelare alla quale,
in seguito, non mancherà di chiedere sostegno per la propria carriera. Le relazioni tra Rodin e Henraux si consolidarono definitivamente nell’autunno 1901 durante un viaggio quasi ufficiale dello scultore in Italia10. Dopo un breve soggiorno a Torino tra il 23 e il 25 ottobre – su invito del critico Giovanni Cena – e uno probabilmente a Venezia, dove quell’anno la giovane esposizione della Biennale gli aveva consacrato una sala monografica, Rodin si era recato sulla costa toscana in cerca di marmi, accettando l’invito di Henraux di visitare le cave di Seravezza. Lo scultore, che aveva trascorso qualche giorno ospite nella villa di famiglia tra il 28 e il 30 ottobre11, si era consacrato essenzialmente alla ricerca di un blocco nel quale tradurre il celebre gruppo de Il Bacio. Si tratta di una tra le numerose opere sviluppate da Rodin a partire dai personaggi della Porta dell’Inferno. Le figure di Paolo e Francesca, presenti nella Porta sotto forma di bassorilievo, prenderanno forma autonoma e a tutto tondo nel 1887. Il tema seducente e la composizione dinamica contribuiranno rapidamente al successo del gruppo. Lo Stato francese ne ordinerà una versione ingrandita in marmo la cui esecuzione richiederà a Rodin quasi dieci anni. Nel 1898 il gruppo è esposto per la prima volta al Salon de la Société nationale des Beaux-Arts. L’opera trova la sua definitiva consacrazione grazie ad altre due versioni marmoree realizzate dopo il 1900: la prima, realizzata tra il 1901 e il 1904 per Edward Perry Warren, è oggi alla Tate Gallery di Londra; la seconda, realizzata invece tra il 1901 e il 1903 su
commissione dal collezionista danese Carl Jacobsen, fu in seguito donata alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen. Il blocco acquistato a Seravezza di eccezionale qualità e di dimensioni straordinarie (h 200 cm) fu probabilmente utilizzato per quest’ultima versione dell’opera. Pronto fin da febbraio del 1902, il marmo fu infine inviato a Parigi il 17 marzo 1902, dopo un memorabile trasporto dalla cava fino a Seravezza12
Marmo-lavoro-scultura
Il carteggio Rodin-Henraux ci fornisce molte preziose informazioni che testimoniano non solo del funzionamento efficace di un’impresa ma anche della doppia e talvolta inattesa competenza dei due uomini nei rispettivi ambiti di attività.
In alcuni casi, l’acquisto dei blocchi veniva fatto non su richiesta specifica da parte dell’artista ma su proposta di Henraux che gli inviava alcuni campioni di marmo statuario di tipo I (la miglior qualità). Se Rodin fosse stato soddisfatto, il blocco sarebbe stato trasferito dalle cave al deposito di Seravezza e poi spedito via treno nei depositi della Henraux a Parigi dove gli scalpellini di Rodin andavano a verificarne la qualità. Questa operazione poteva richiedere tra i venti e i trenta giorni, a seconda delle condizioni delle strade che portavano fino alle cave e della ferrovia.
Come più volte ricordato nella corrispondenza, lo scultore disponeva di novanta giorni per effettuare i pagamenti «al netto». Nonostante le insistenze di Rodin, la Henraux non effettuava riduzioni di prezzo sul bianco statuario ma solo un piccolo
sconto del 2% sulle lastre e i marmi colorati13. Il trasporto tra il deposito e l’atelier dell’artista era a carico della società italiana mentre lo scarico del blocco veniva pagato dall’acquirente.
Gli «incidenti» però non erano rari e in quelle circostanze la Henraux offriva ai suoi migliori clienti una certa flessibilità e disponibilità come testimonia l’episodio seguente. Nell’ottobre del 1907 uno tra gli scalpellini di fiducia di Rodin, Victor Peter, si recò nel deposito parigino della Henraux per chiedere la segatura del plinto di un blocco acquistato dallo scultore. Durante l’operazione si scoprì un difetto sui lati del blocco assolutamente invisibile dall’esterno. La «vena» rinvenuta, che avrebbe compromesso il risultato dell’opera, rendeva quindi il blocco inutilizzabile. Lo scalpellino chiese a Monsieur Polet, uomo di fiducia della Henraux a Parigi, di poter sostituire il blocco difettoso, ma questi rifiutò «nel rispetto dei principi della casa»14. In seguito alle insistenze di Rodin, il blocco venato venne mostrato allo stesso Henraux che propose in alternativa l’acquisto di un altro blocco con una riduzione straordinaria di 60 fr «in virtù delle buone relazioni»15 esistenti tra i due.
Tuttavia, per quanto fruttuosa16, la collaborazione tra i due non sarà sempre semplice. Dalla lettura delle lettere di Henraux capiamo che l’imprenditore si rivolge ad un interlocutore attento che si presenta non come «artista» ma come «uomo di mestiere».
Da ex-scalpellino, Rodin aveva avuto più volte l’occasione di confrontarsi con i mediatori e i fornitori di marmi, allenan-
do l’occhio alla materia, al potenziale del blocco, ma anche a tutti i suoi rischi. Competente, risoluto, talvolta intransigente, Rodin raramente si accontenta, lasciando spazio a compromessi. Memore dell’insegnamento michelangiolesco, lo scultore francese non cerca marmo, ma il blocco che rivelerà la sua scultura. Se raramente Rodin si reca personalmente sul posto per scegliere il marmo, come nel caso tanto unico quanto straordinario de Il Bacio, una piccola armata di assistenti fidati viene invece inviata regolarmente nei depositi della Henraux a Seravezza (fig. 1) o a Parigi in cerca del buon blocco, accompagnati da indicazioni scrupolosissime del maestro. In un’ottica di economia d’atelier, questi erano solitamente guidati dai cosiddetti saumons (fig.2), sorta di modelli generalmente realizzati in legno nelle dimensioni delle future sculture, o in scala au dixième17, che permettevano di rintracciare non solo il blocco di miglior qualità ma anche il più economico, quello cioè che avrebbe permesso la lavorazione della scultura con il minor scarto di materiale possibile18
Ma la sovrapposizione perfetta tra l’idea e la materia che ne darà forma è un miraggio al quale solo l’ostinazione utopica dell’artista può credere. Perché se la scultura è l’arte del levare, non si può partire che da un blocco più grande del modello. Il marmista lo sa, lo scultore talvolta lo dimentica e questo può influenzarlo fino a dubitare della legittimità dell’esistenza stessa dell’opera. Un esempio piuttosto emblematico a riguardo ci è offerto dal caso del monumento a Puvis de Chavannes19
Nel 1891 Rodin realizza un busto per il suo amico pittore Puvis de Chavannes (1824-1898), uno degli artisti più celebri dell’epoca, insieme a Monet e allo stesso Rodin. In seguito alla morte del pittore nel 1898, lo scultore riceve la commissione di un monumento commemorativo. Inizia un lungo e complesso periodo di gestazione dell’opera che si svilupperà tra il 1899 e il 1903. Ne risulterà uno strano modello in gesso (fig. 3), un assemblaggio costituito dal busto già esistente, appoggiato su due capitelli posti a loro volta su una tavola sul cui lato si appoggia il Genio del riposo eterno (fig. 4). Alta più di un metro e ottanta centimetri, questa figura raccoglie i frutti di un albero di melo, simbolo al contempo della fama dell’artista e
della pace alla quale merita di accedere. Definito il modello, Rodin comincia la ricerca del blocco. Il 13 marzo 1903 Henraux scrive da Parigi allo scultore per annunciargli l’invio dei saumons a Seravezza. «Vedrete – rassicura l’imprenditore – che il primo blocco di misura sarà per voi e sarà il prima possibile! Se ce n’è uno in deposito lo avrete rapidamente, altrimenti dipenderà dalla «Natura» ma vi ricompenserà, ne sono sicuro, fornendovi ciò che chiedete velocemente. Peccato per la pianta che disturba il blocco che è in deposito; dieci centimetri di meno e c’eravamo»20 , conclude Henraux, quasi a suggerire velatamente una possibile modifica del modello.
vorando ad un nuovo filone promettente, rassicura l’imprenditore, e di lì a poco il blocco sarà trovato. E così sarà, già a fine mese, ma purtroppo con un «difetto»21. E la ricerca prosegue. L’11 luglio Henraux non può che dar conto a Rodin di un’altra speranza disattesa: «Un altro blocco che aveva dato anche lui delle speranze non è riuscito; non ne abbiamo nessuno in deposito in questo momento. Inoltre, in seguito agli incidenti di cui le avevo già parlato, abbiamo dovuto fare dei grandi lavori alle cave che hanno ritardato l’escavazione. Ma lei sa che non appena ci sarà il blocco dal quale il suo Genio potrà uscire, partirà direttamente da Seravezza e spero che non ci sarà più molto da aspettare»22
Nelle parole confortanti e quasi poetiche
fig. 5
Per mostrare a Rodin l’ingiustizia della sua reazione, con calma e minuzia, Henraux si lancia in una dimostrazione tecnica, accompagnata da tanto di schema grafico, degna di un trattato di scultura.
di Henraux il “Genio” sembra aspettare di poter uscire dal blocco come dalla lampada magica dell’artista solo su sua richiesta. Così, dopo lunghe ricerche, finalmente il 3 ottobre 1903 un eccezionale blocco di 2,45 metri di altezza viene inviato a Rodin per il monumento a Puvis, un mese solo dopo l’invio di un altro prezioso blocco di 1,75 di altezza destinato alla scultura di Euridice23. Ma inaspettatamente Rodin rifiuta entrambi i pezzi perché considerati troppo grandi. Sebbene sempre attento a soddisfare le richieste dello scultore, in questa circostanza però Henraux sembra non voler cedere: «Lei sa quanto sia difficile, direi impossibile trovare dei blocchi adattati esattamente al modello ma noi cercheremo ancora…Talvolta lasciamo un po’ più di marmo per essere sicuri che lo scultore possa trovare la sua figura. Faremo il possibile per accontentarla ma non possiamo fare l’impossibile. I suoi saumons misuravano nelle loro più grandi dimensioni: Euridice: 175x146x120 cm, Puvis: 220x96x80 cm. Gli scalpellini vorrebbero che gli si inviassero dei blocchi tagliati al centimetro continuando a far pagare lo stesso prezzo allo scultore con il più gran beneficio. Questo non è il nostro mestiere; noi dobbiamo fornire un blocco nel quale c’entri la figura richiesta cercan-
do di accontentare il più possibile lo scultore. I nostri prezzi sono calcolati a partire dalle dimensioni più grandi dei saumons.»24 E inaspettatamente, per mostrare a Rodin l’ingiustizia della sua reazione, con calma e minuzia, Henraux si lancia in una dimostrazione tecnica, accompagnata da tanto di schema grafico (fig. 5), degna di un trattato di scultura: «[…] Se prendiamo una figura che presenta, immaginiamo, un lato come quello raffigurato nello schizzo qui sotto, lei capisce bene che non possiamo fissare le nostre misure su a-b ma su A-B; altrimenti cosa ne facciamo noi delle parti tagliate? […] Se lei confronta le misure dei saumons con quelle delle fatture vedrà che non c’è nulla da ridire per l’Euridice; per quanto riguarda il Genio sono più grandi. Ma eccone la ragione. Lei aveva molta fretta e questo era il solo blocco che corrispondeva alle sue misure. Quindi l’abbiamo inviato pensando che sarebbe stato felice d’averlo, anche se più grande; ci siamo sbagliati. Tra l’altro, abbiamo autorizzato già da tempo Monsieur Dejaiffe25 a tagliarlo a nostre spese, seguendo le indicazioni del suo scalpellino per ridurlo nelle misure da lei volute. Lei sa quanto siamo felici di vedere i nostri marmi al servizio dei suoi bei pezzi di scultura e che pur di accontentarla siamo pronti a subire anche qualche piccolo sa-
Lettera di Henraux Sancholle a Rodin, 6 novembre 1903, Parigi, Museo Rodin, dossier Henraux
crificio. La prego quindi di recarsi presso Monsieur Dejaiffe e vedrà che con le indicazioni formali che ha già ricevuto per ridurre questo blocco, troverete facilmente un accordo. Mi chiede se avremo presto un altro marmo per il Genio ma questo mi sembra difficile prima di 4 o 5 mesi visto lo stato attuale delle cave. Spero davvero quindi che i due blocchi inviati le daranno soddisfazione […]»26
Ma gli sforzi di Henraux saranno ancora
una volta vani. Gli invii dei blocchi di statuario a Rodin sono documentati durante tutto il 1906 senza però riferimenti specifici ad opere in corso. Finalmente, in una lettera del 3 agosto 1907 si annuncia l’invio allo scalpellino Dominique Mathet di un blocco di statuario per il Monumento a Puvis per il costo considerevole di 5000 fr. Ma il monumento non vedrà mai il giorno27. Solo la figura del Genio troverà una traduzione nel marmo, diventando un’o-
pera completamente autonoma dal monumento (fig. 6). Difficile definire in modo assoluto le ragioni. Forse un dubbio da parte di Rodin sulla natura stessa dell’opera, un assemblaggio alquanto in anticipo sui tempi o sugli alti costi di produzione, o semplicemente l’impossibilità da parte dell’artista di riuscire a «veder emergere» l’opera dal blocco sbagliato.
La dura vita del blocco, prima che diventi scultura.
NOTE
1 Thomas Mann, La legge , 1944.
2 Per una ricostruzione delle vicende legate all’elaborazione dell’opera cfr. L’Enfer selon Rodin , F. Blanchetière (dir.), cat. mostra, Paris, Musée Rodin, Norma, 2016.
3 Per uno studio più completo relativo a queste pratiche si rinvia a: B. Musetti, Gli emigranti del marmo. Scultori apuo versiliesi a Parigi tra la fine XIX e l’inizio del XX secolo, tra arte e socialità , in S. Berresford (dir.), Carrara e il Mercato della Scultura. Storia di Gusto, Cultura dell’Arte e Cultura Materiale attraverso la Produzione Artistica Apuana tra 1870 e 1930 in Italia, Europa e altrove , Milano, Motta Editore, 2007, pp. 212-216.
4 Parigi, archivi del Museo Rodin, dossier Henraux, (d’ora in poi PAMRH).
5 Sulla nascita della società Henraux cfr. A. Tenerini, L’impiego dei marmi dell’Altissimo nella scultura dal 1821 all’inizio del Novecento , in Marmo , 2021, pp. 40-53.
6 Ibid., p. 44.
7 La sede parigina della Henraux si trovava al 22, rue de la Tremoille, nell’VIII arrondissement. A partire dal 1906 la carta intestata della Henraux indica un nuovo indirizzo sito al 21 rue d’Allery, nel XV arrondissement, più vicino al deposito dei marmi e agli ateliers degli scultori. La Henraux forniva marmi statuari, bianco Altissimo, blu fiorito, blu turchino, breccia di Seravezza.
8 Sulla genesi della mostra si veda Rodin en 1900. L’exposition de l’Alma , A. Le NormandRomain (dir.), catalogo della mostra, Parigi, Éditions du Musée Rodin, Réunion des Musées Nationaux, 2001.
9 Come molte giovani scultrici dell’epoca,
Marie Bernières Henraux (1876-1964) fu attratta dalla plastica rodiniana e dal ruolo di pigmalione che lo scultore aveva avuto per numerose donne artiste – in primis Camille Claudel – per le quali l’accesso al mondo della scultura era ancora molto difficile. Benché non fu mai sua allieva diretta, Marie beneficiò tuttavia dei consigli dello scultore, soprattutto dopo il suo matrimonio con Sancholle Henraux. La sua carriera si sviluppò su un arco di tempo di circa vent’anni, partecipando a numerose esposizioni al Salon des Indépendants, al Salon des Tuileries e in varie gallerie parigine. Il suo lavoro, che attende ancora una vera e propria ricognizione critica, è in parte conservato presso il museo municipale di Tours. Cfr. É.-J. René, Dictionnaire des artistes contemporaines 1910-1930 , Paris, Art & Édition, 1930, vol. 1, p. 122.
10 Per uno studio più approfondito sui viaggi italiani di Rodin si rinvia a B. Musetti, Rodin vu d’Italie. Aux origines du mythe rodinien en Italie (1880-1930) , Paris, Mare et Martin, 2017.
11 Ibid., p. 271.
12 PAMRH, lettera di Henraux a Rodin del 17 marzo 1902.
13 PAMRH, lettera di Polet a Rodin del 26 settembre 1906.
14 Idem.
15 PAMRH, lettera di Polet a Rodin del 24 agosto 1907.
16 Tra il 1901 e il 1915 sono documentabili l’acquisto da parte di Rodin alla Henraux di circa una trentina di blocchi di marmo bianco statuario di tipo I, di dimensioni diverse, per la somma considerevole di circa 20.000 fr.
17 PAMRH, lettera di Polet a Rodin del 31 dicembre 1906.
18 I blocchi venivano acquistati dagli scultori a peso, nonostante parte del materiale venisse inevitabilmente scartato dalla lavorazione. Era quindi interesse dell’artista cercare di trovare fin dalla fase iniziale del lavoro blocchi che fossero il più possibile conformi alle dimensioni dell’opera definitiva per ridurre al minimo le perdite. Per questa ragione spesso gli scultori francesi chiedevano di sbozzare in loco i blocchi prima della loro spedizione per via mare o ferroviaria. Riducendo il peso potevano così ridurre i costi di trasporto.
19 Monumento a Puvis de Chavannes , 18991903, modello in gesso, 187x110x76,5 cm, S. 05417, Parigi, Museo Rodin.
20 PAMRH, lettera di Henraux Sancholle a Rodin del 13 marzo 1903.
21 Ibid., lettera del 31 marzo 1903.
22 Ibid., lettera del 11 luglio 1903.
23 Modellata nel 1887, scolpita nel 1893. New York, Metropolitan Museum of Art
24 PAMRH, lettera di Henraux Sancholle a Rodin del 6 novembre 1903.
25 Si tratta di un commerciante in marmi grezzi e lavorati, in particolare il bianco di Seravezza, residente a Parigi, al 56, boulevard Rinarch Lenoir. Vende numerosi blocchi a Rodin. Si associa a Henraux in occasione del progetto per il monumento a Puvis de Chavannes. Cf. V. Mattiussi, Les fournisseurs de marbres et de pierres de Rodin, in Rodin. La chair, le marbre , cat. mostra, sotto la direzione di A. Magnien, Paris, Musée Rodin, Hazan, 2012, p. 52.
26 Id.
27 Esiste tuttavia la figura del Genio realizzata in marmo come opera autonoma.
LIVING MARBLE
DI ELEONORA CARACCIOLO DI TORCHIAROLO FOTO DI NICOLA GNESI
Il nuovo catalogo di Luce di Carrara si muove sul filo di una visione che si è fatta progetto e infine prodotto: offrire soluzioni di rivestimento, di arredo e di complementi, in marmo, in un total look avvolgente da ritrovare in tutti gli spazi della casa. Una visione che si è potuta realizzare anche grazie alla collaborazione di due partner straordinari: RasoParete e Olivari.
Texture/Parete: Quilt in Portofino, design di Attila Veress
Speaker: Beosound A9 courtesy Bang&Olufsen
Texture/Parete: Reverse in Portofino, design di Stefan Scholten Chaise longue: Volute , di Archea Associati
Texture/Parete: Veneziana in Elegant Grey, design di Luce Di Carrara
Maniglia: maniglia in BiancoHX, design di Olivari
Porta: Cover D , design di Rasoparete
“Marmo” non è solo una parola, il marmo non è solo una cosa. Il marmo rappresenta un’estetica e un’etica, un modo di vedere e interpretare il mondo.
Presente tanto in luoghi pubblici quanto in spazi privati, utilizzato per realizzare oggetti comuni come manufatti preziosi, a segnare momenti straordinari e momenti quotidiani, il marmo “rappresenta una permanenza simbolica di carattere antropologico”1 che attraversa le vite di ciascuno di noi in maniera del tutto trasversale. Il materiale lapideo cristallino, prezioso e comune al tempo stesso, non è soltanto espressione di bellezza, ma è talvolta la risposta più esatta a un problema progettuale.
Fin dalla sua nascita, Luce di Carrara, il brand di Henraux che unisce l’avanguardia tecnologica e industriale al mondo degli architetti, dei designer e degli artisti, ha trovato nella capacità del marmo
di raccordare “alto” e “basso”, unicità e senso comune, la chiave per rivoluzionare il mondo dei materiali portando il carattere di versatilità di questa pietra alla sua massima espressione.
Una rivoluzione avvenuta in primo luogo nel modo in cui i materiali venivano ricercati, estratti, analizzati, lavorati e confezionati e che, oggi, si realizza nell’ampliamento della gamma di prodotti, che si è estesa per offrire soluzioni per bagni, zone giorno e sistemi di illuminazione, rivestimenti, outdoor e indoor decoration, utilizzando il materiale per stimolare architetti e designer a introdurlo e implementarlo consapevolmente nelle loro creazioni.
Ne è nata la possibilità di offrire un vero e proprio total look contemporaneo in pietra naturale perseguendo un design elegante e raffinato, da ritrovare, con coerenza, in tutti gli spazi della casa.
La sfida degli interior designer e degli architetti di Luce di Carrara è stata trovare una coerenza che rendesse riconoscibile la cifra stilistica dell’azienda. A guidare le loro ricerche, l’idea di pervenire a quell’elemento che possa rendere i prodotti oggetti senza tempo e, al tempo stesso, contemporanei.
Trasversalità e versatilità sono indubitabilmente caratteristiche straordinarie, ma non ancora sufficienti per gli standard ambiziosi di Luce di Carrara. In un mondo che tende a trasformare gli oggetti che ci circondano in emanazione di sé e che ha fatto della “personalizzazione” la parola d’ordine di molti mercati, il marchio toscano si è voluto spingere a cercare un carattere di unicità.
Lo ha trovato nelle proprie radici: «Il marmo è simbolo dell’italianità – racconta Attila Veress, direttore creativo del brand –. La bellezza del territorio, la storia unica che lo caratterizza, l’inventiva che distingue le persone che lo abitano, sono tutte qualità che appartengono tanto all’Italia, quanto al settore del marmo. Fin dall’inizio, noi di Luce di Carrara abbiamo mirato a tradurre la materia prima del marmo in diverse lingue, trasmettendo emozioni in tutto il mondo in modo personale e unico.»
Luce di Carrara unisce così materia, storie e personalità, grazie all’accurata selezione di ogni singolo pezzo che possiede una sua texture, una sua dimensione, una sua storia, così come ogni committente ha un carattere proprio, progetti personali e sogni.
È del resto una delle forze del marmo quella di non replicarsi in due pezzi uguali per forma, consistenza o colore, ognuno ha la sua storia e la sua estetica. La sfida degli interior designer e degli architetti di Luce di Carrara è stata trovare, in questa stupefacente eterogeneità, una coerenza che rendesse riconoscibile la cifra stilistica dell’azienda.
A guidare le loro ricerche, l’idea di creare pezzi iconici, l’idea, cioè, di pervenire a quell’elemento che possa rendere i prodotti oggetti senza tempo e, al tempo stesso, contemporanei. Che è poi ciò che distingue i grandi classici dagli oggetti effimeri.
In questo, la gloriosa storia del marmo ha, ancora una volta, aiutato poiché è forse, tra i materiali, quello che più frequentemente viene definito “classico”, ma non nella sua accezione di “tradizionale”, piuttosto nel suo non passare mai di moda, ed essere quindi sempre moderno, eternamente contemporaneo.
Guidati da questi punti cardinali – tra-
sversalità, versatilità, unicità, iconicità - il team creativo del marchio versiliese ha curato una selezione di materiali combinando la pietra naturale delle cave apuane con altri materiali speciali provenienti dai quattro angoli del mondo. «La nostra tavolozza combina molteplici sfumature di grigio, marrone, verde e arancione – prosegue Attila Veress – per creare una gamma di colori caldi e avvolgenti, inalterati dal passare del tempo.»
Quando questi materiali vengono utilizzati per i rivestimenti, Luce di Carrara ne fornisce un’ampia varietà, in modo da trovare la giusta tipologia di marmo, in base alle dimensioni da rivestire, allo stile dell’ambiente e ad altri dettagli da tenere in considerazione caso per caso. Ogni pietra ha le sue caratteristiche e dopo la sua selezione viene codificata e organizzata per valorizzare al meglio l’offerta. Ogni pezzo può assumere sembianze diverse a seconda delle combinazioni associate, valorizzando qualsiasi ambiente, aggiungendo dettagli o trasformandolo completamente, creando, appunto, un total look Nella convinzione che gli spazi e le persone modellino i prodotti e che gli oggetti di design creino la storia delle nostre case e, in definitiva, delle nostre vite, in un circolo virtuoso, Luce di Carrara ha cercato dei compagni di viaggio che condividessero tale visione in una proficua condivisione di know-how e che fossero amanti della materia pur in un momento in cui il mondo sembra concentrarsi sull’immaterialità. Da qui, nascono le collaborazioni che caratterizzano il nuovo catalogo del brand.
Con il duplice obiettivo di permettere ad ogni marmo di esprimere al meglio se stesso e le sue caratteristiche, sia esso levigato o arricchito da una texture, e di creare e realizzare rivestimenti in grado di adattarsi a qualunque spazio fondendo perfettamente parete e porta in una copertura senza soluzione di continuità, il partner ideale è stato trovato in RasoParete che con i suoi prodotti ha saputo supportare le lastre da 12 mm di Luce di Carrara, prodotto ancora ineguagliato nel settore.
Spiegano i designer di RasoParete: «Si tratta di un sistema innovativo che incontra le nuove esigenze di design e funzionalità, permettendo il rivestimento delle
Texture/Parete: Quilt in Tirreno, design di Attila Veress Collezione Bagno: design di Federico Peri
Texture/Parete: Peak in Versilys, design di Attila Veress
Porta: Cover D , Rasoparete Maniglia: Bau con maniglia in Versilys, Olivari
A sinistra, Texture/Parete: Column in BiancoHX, design di Attila Veress Libreria: Marmeria , design di Archea Associati
porte anche di quei materiali che fino ad oggi venivano scartati a causa del loro peso troppo importante.»
Ma se è vero che sono poi i dettagli a fare la differenza, il tocco da maestri per ottenere un completo total look è stato quello di pensare alla presenza del marmo anche nelle maniglie grazie alla creatività visionaria di Olivari.
La maniglia Bau nasce dalla ricerca di due architetti tedeschi, Nina e Valentin. Si sono ispirati alla scuola del Bauhaus e ai valori in esso incarnati, che sono alla base del loro percorso di studi. Elementi solidi, linee geometriche ed essenziali, compenetrazione tra forma e funzione, cura artigianale nelle lavorazioni e ricercatezza dei materiali.
La maniglia è stata scomposta in tre elementi, a seconda delle rispettive funzioni: un perno e una leva, in metallo, a costituire la struttura necessaria a trasmettere lo sforzo e il movimento; un’impugnatura cilindrica in materiale opportuno e inseri-
ta a incastro nella leva, per garantire una presa efficace e stabile. Il tutto modulato e proporzionato per raggiungere un equilibrio complessivo. Dopo svariate prove si è deciso di puntare su tre marmi: il bianco Altissimo, il grigio Versilys, il nero Marquina, che ben si sposano con le finiture dell’ottone: cromo, antracite, oro. «Tra i materiali utilizzabili il marmo era una soluzione interessante perché si può lavorare con precisione e nello stesso tempo è dotato di espressività e unicità. Si concretizza un progetto che Luce di Carrara stava esplorando: realizzare un total look di marmo e, più precisamente, una parete contenente una porta dotata di maniglia, utilizzando sempre e solo lo stesso marmo» commentano i progettisti. Da visione, creatività e tecnica nasce dunque non solo l’opportunità di mostrare la versatilità del marmo, ma anche la ragione per cui esso ha sempre avuto un posto speciale nella storia dell’uomo.
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LA PRESENZA DELLE SCULTRICI ALL’HENRAUX NEGLI ANNI SESSANTA
Il lavoro sulla pietra e la relazione con il marmo possono essere visti come atti politici e di coscienza sociale attuati dalle scultrici a partire dagli anni Sessanta. Ecco le storie di alcune grandi artiste che hanno sradicato il pregiudizio dell’ambiente artistico dell’epoca: dalla ricerca del posizionamento femminile nell’arte astratta, al rapporto con l’apprendimento del mestiere e alle fondamentali relazioni instaurate con gli artigiani locali.
DI LARA CONTE
A sinistra, Maria Papa al lavoro in Henraux, Querceta, 1980
Rostkowski
Nell’ambito degli studi sulla scultura il lavoro delle scultrici necessita di essere collocato in un nuovo discorso critico per mettere a fuoco relazioni, ricerche e modalità operative all’interno dei luoghi di produzione. In relazione a queste considerazioni, si può rileggere il progetto di rilancio della scultura promosso dall’Henraux negli anni Sessanta portando l’attenzione alla presenza delle scultrici nei laboratori dell’azienda. Articoli divulgativi e alcune mostre locali hanno messo in evidenza l’ampia presenza delle scultrici nella zona, a partire dagli anni Sessanta sino alla contemporaneità, ma una ricognizione che intrecci il piano storico con una prospettiva di analisi teorico-femminista è ancora da tracciare. Si può in tal senso iniziare a dissodare una materia di studio e a individuare una nuova prospettiva di analisi, incrociando fonti diverse.
Come è stato ricostruito e studiato, nel corso degli anni Sessanta si moltiplicano le presenze internazionali presso l’Henraux, in gran parte documentate sulla rivista Marmo. Quello che si può sin da subito evidenziare è che l’azienda, grazie soprattutto alla progettualità del critico Giuseppe Marchiori, abbia mostrato una certa attenzione anche al coinvolgimento di scultrici. È appunto attorno all’Henraux che – tra gli anni Sessanta e Settanta – si intrecciano le storie di artiste internazionali come Rosalda Gilardi, Maria Papa, Alicia Penalba, Alina Szapocznikow, ma anche di Louise Bourgeois la quale, tra il 1967 e il 1968 è attiva nei laboratori dell’azienda, prima di avviare la sua duratura collaborazione con Nicoli a Carrara.
Delle donne attive nei laboratori e che più propriamente si dedicano a scolpire la pietra si evidenzia sovente da parte della critica dell’epoca la caparbietà nel lavoro e il pregiudizio divulgato con stereotipi narrativi relativamente alla fatica di affrontare una tecnica considerata maschile rispetto alla terracotta, ovvero alla dimensione del plasmare, che si associa invece alla creatività femminile.
Un convegno tenutosi recentemente a Parigi dedicato a Louise Bourgeois e Alina Szapocznikow1 è stata l’occasione per ripercorrere la relazione di queste due protagoniste cruciali della scultura internazionale, a partire da un effettivo e breve
momento di incontro avvenuto nel territorio apuo-versiliese, tra Carrara e Querceta, nel settembre 1969. Per quanto la loro rete di relazioni e frequentazioni di luoghi potesse far immaginare un loro contatto a Parigi o a New York, è significativo evidenziare che la cornice del loro incontro si collochi proprio nel paesaggio delle cave apuo-versiliesi, dove peraltro entrambe avevano avuto l’occasione di esporre nell’ambito di varie edizioni della Biennale di Carrara2
Nel 1967 Szapocznikow è invitata da Giuseppe Marchiori a realizzare una scultura per la raccolta del Museo Henraux. La sua presenza, come quelle delle altre artiste coinvolte nei laboratori dell’azienda nel corso degli anni Sessanta, è determinata dai rapporti con il critico che nel suo caso risalivano alla fine degli anni Cinquanta, nei vari spostamenti tra Varsavia e Parigi. Nel dicembre 1967 Szapocznikow viene contattata dall’Henraux e in quelle settimane incontra Marchiori a Parigi con il quale concorda l’invio di un modello che la ditta si impegna a realizzare in marmo3. Nella corrispondenza, Szapocznikow fornisce le indicazioni per l’ingrandimento dell’opera e specifica che si sarebbe recata a seguire il lavoro in due tempi, ovvero nel mese di aprile e poi a giugno 1968, per un soggiorno di un mese, in modo da essere partecipe del processo di produzione. L’opera, che confluisce nella raccolta del museo (oggi della Collezione Intesa Sanpaolo), è Grands Ventres, realizzata in marmo Calacatta – un marmo bianco venato di grigio –, quantunque nella corrispondenza con l’azienda l’artista specifichi di voler tradurre la sua scultura in marmo statuario con il quale sarà realizzato un altro esemplare dell’opera, oggi conservato presso il Rijksmuseum Kröller-Müller di Otterlo. Grands Ventres è ideata a partire da un calco del ventre di Ariane Raoul-Auval, allora compagna di Roland Topor, artista, scrittore e cineasta. I due ventri sono ingranditi e sovrapposti creando una forma che ricorda una clessidra, a evocare il tempo che inesorabilmente passa, dalla vita alla morte. Attraverso una ricerca che si situa tra astrazione e surrealismo, il marmo sembra assumere la morbidezza di materiali plastici e delle resine sintetiche che caratterizzano la coeva ricerca scultorea dell’artista4. Una
Maria Papa al lavoro nei laboratori Henraux
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ricerca in cui il corpo femminile diventa strumento di critica e sovversione, veicolo di piacere, liberazione, di malattia e morte, strettamente correlato alla sua autobiografia costellata da eventi drammatici come la deportazione nei campi di sterminio di Auschwitz, Bergen-Belsen e poi a Theresienstadt, e la malattia, la tubercolosi peritoneale, prima, da cui riesce a guarire partecipando a un programma sperimentale sull’uso di antibiotici che la rende però sterile; un cancro al seno, poi, che porrà nel 1973 prematuramente fine alla sua esistenza5
Szapocznikow sarà nuovamente in Versilia nel 1969 dove incontra Louise Bourgeois, anch’ella presente nel comprensorio apuo-versiliese grazie ai consigli di Liptchitz, operativo all’Henraux, come ha ricostruito Hélène Gheysens, che ha altresì analizzato le dinamiche delle relazioni tra
le due scultrici in Versilia e altrove, in una serie di momenti di incontro che convocano all’attenzione nella corrispondenza delle due artiste anche altre scultrici presenti all’Henraux, come ad esempio l’artista polacca Maria Papa6
Papa arriva in Versilia tramite Marchiori che nel 1966 la invita a partecipare al Seminario di Scultura dell’azienda. L’incontro con il marmo diventa per l’artista una via per radicarsi profondamente in Versilia, per esplorare un corpo a corpo con il materiale che dilata la sua geografia e la sua relazione con la scultura determinando una svolta nella sua ricerca. Anch’ella come Szapocznikow aveva vissuto il trauma della guerra, riuscendo a scampare il dramma della deportazione. Dopo la morte del marito, il politico polacco Ludwik Rostkowski, con il quale aveva partecipato alla messa in salvo di molti ebrei del ghet-
Alina Szapocznikow, Grands Ventres , 1968
Collezione Intesa Sanpaolo Foto: Nicola Gnesi
A destra, Rosalda Gilardi, Impossibilità di volare , 1968
Collezione Intesa Sanpaolo Foto: Nicola Gnesi
to, nel 1957 lascia Varsavia e si trasferisce con il figlio Nicolas a Parigi. Lì si lega affettivamente con lo scrittore e editore della rivista XX siècle Gualtieri di San Lazzaro, pseudonimo di Giuseppe Antonio Leandro Papa, dal quale prenderà il cognome di Papa. Orientativamente alla fine degli anni Sessanta, Papa fissa una delle sue residenze in Versilia, con permanenze sempre più durature nella zona. L’allontanamento da Parigi determina anche un progressivo distacco dal compagno Gualtieri di San Lazzaro, dal quale divorzierà in Francia nel 19697
Alcune fotografie ritraggono Papa nei laboratori dell’Henraux al lavoro con il blocco di marmo, a evidenziare il senso della perseveranza e della fatica nell’apprendimento di una tecnica che diventerà la sua modalità di scolpire il marmo, nell’intaglio diretto. In un’intervista rilasciata per
un servizio sulle scultrici in Versilia, Papa parla dei suoi metodi di lavorazione: «Comincio a mano. Accelero con il disco. Non mi impongo alcuna idea o tema. Per prima cosa rimuovo ciò che mi sconvolge di più. Resto all’erta in attesa che le cose diventino ovvie. Finisce un momento di chiaroveggenza, quindi devi agire molto in fretta. Ecco perché devi possedere la tecnica. Complico volontariamente per semplificare in seguito»8. Sauro Lorenzoni, artigiano versiliese che ha lavorato per anni con Maria Papa all’Henraux, ricorda che la scultrice non faceva bozzetti in argilla o in gesso, ma che lavorava direttamente il marmo da cui traeva delle sculture di piccole dimensioni. Quando ne era soddisfatta, dal piccolo marmo faceva fare dai formatori il calco in gesso, da cui poi traeva altre forme in marmo o degli ingrandimenti9.
L’esito della prima stagione del lavoro di
Papa all’Henraux è presentato in due mostre tenutesi a Milano, alla Galleria del Naviglio, nel 1967 e nel 1972. Sono gli anni delle prime battaglie femministe e per quanto Papa non abbia vissuto una militanza femminista, di fatto esprime la propria libertà e la propria visione femminista scegliendo specifici metodi di lavorazione e inserendo nella produzione temi sessuali, trattati ricorrendo al mito e alla dimensione surrealista. Milena Milani negli anni Settanta parla della sua produzione e si sofferma sui temi della sua scultura e sul significato che assumono nella sua ricerca, al di fuori dello stereotipo legato alla creatività femminile, come grazia e leziosità, ma facendo emergere un lato più oscuro e tormentato che in qualche modo induce a riconsiderare la lavorazione del marmo.
Milani, infatti, scrive: «Da una base larga nascevano quei fiori duri, spinosi, appuntiti che non avevano niente di morbido o di elegante. Erano come una sfida. Dappertutto c’erano riferimenti sessuali. Severe teste di guerriero, in marmo nero, puntavano i loro rostri contro donne astratte, che portavano il nome nell’ambito di un processo trasformativo e di presa di coscienza di un’identità, ovvero una modalità di autoaffermazione attraverso il lavoro sulla scultura, mediante una lettura che adotta una prospettiva di analisi femminista di Leda, mentre emblematiche barche, che erano in definitiva veri e propri accoppiamenti, cullavano maschi e femmine avvinghiati, intenti nell’eterno gioco dell’amore. Una Venere di Sade, con tanti seni a grappolo, aveva anch’essa
Courtesy The Estate of Alina Szapocnikow / Piotr Stanislawski / Loevenbruck, Paris Foto: Roger Gain
Per Alina Szapocznikow, Maria Papa, Rosalda Gilardi il lavoro sulla pietra, la relazione con il marmo, diventa emblema di libertà e di autoaffermazione, scelta politica e di coscienza sociale.
Courtesy Documentart Museo dei Bozzetti
“P. Gherardi” presso Biblioteca Comunale
G. Carducci, Pietrasanta
la forza dei fiori spigolosi, specialmente di quelli in travertino, dove la pietra tradiva l’ansia dell’artista»10.
Anche Rosalda Gilardi arriva in Versilia nel 1966, grazie a Marchiori e in zona fissa una delle sue residenze. L’atelier e il luogo di vita diventano per lei parte del processo scultoreo: Gilardi sceglie infatti un luogo dove stabilire il proprio studio in Versilia, dando vita a un progetto di casa-studio e anche immaginando per un periodo un progetto di casa-museo nel giardino della propria villa tra Forte dei Marmi e Querceta. Questa è una modalità per creare una dimensione di spazio privato come spazio politico nel momento in cui altre artiste che lavorano in altri contesti e con altre modalità operative, risignificano lo spazio della casa come spazio di resistenza e autoaffermazione. Si pensi ad esempio a Marisa Merz che nel film La conta (1967) si fa riprendere al tavolo della sua cucina dove realizza anche le sue opere, come le famose Living Sculpture11 Rosalda Gilardi affronta direttamente il marmo, lasciando talvolta il grosso lavoro di sbozzo agli operai per poi intervenire in fase finale direttamente sulla pietra. Scalfire il pregiudizio e costruire dei rapporti autentici con gli artigiani significa costruire uno spazio di fiducia, andando contro allo stereotipo sessista. In un’intervista del 1980, sollecitata a parlare della diffidenza degli operai nei confronti della presenza delle donne nei laboratori e in cava12, Gilardi osserva: «Forse c’era all’inizio una certa diffidenza, quando arrivavo in un posto nuovo, ma poi, quando mi vedevano all’opera, quando si rendevano conto del mio professionismo, lavoravano in maniera totale»13.
Nella sua dimensione di ricerca Gilardi rivolge l’attenzione allo studio di artisti marginali, che hanno vissuto al di fuori delle grandi narrazioni della storia dell’arte. Ad esempio, il soggiorno in Versilia è l’occa-
sione per portare l’attenzione alla biografia e all’opera del pittore versiliese Giuseppe Viner che si era mosso tra ambito macchiaiolo e simbolista portando nella sua pittura temi sociali legati ai cavatori e al paesaggio delle cave14. Per Gilardi questa ricerca diventa possibilità di immergersi ancora più approfonditamente nella storia e nell’identità di un luogo che la affascina per il paesaggio, per la presenza del marmo, della montagna e del mare, in una sollecitazione continua che la conduce a ripensare il rapporto tra centro e periferia, e anche a confrontarsi con un immaginario che individua la Toscana come la culla della cultura italiana ma anche con il tratto più selvaggio di queste regione, in questa propaggine geografica, nel rapporto intenso con la cava. Nella ricerca continua tra storia, modernità e primitivismo, l’artista si immerge nell’identità di questo territorio e alterna soggiorni altrove: nel 1967 soggiorna a Parigi; nel 1974 è in America Latina per studiare le tecniche precolombiane nella lavorazione dell’oro e dell’oreficeria o delle ceramiche. E questa duplice componente la si individua nell’alternare continuamente il marmo con altre pietre come il granito: tra astrazione purista dei marmi geometrici e astrazione magica dei graniti totemici.
Da queste brevi note, può emergere come per Alina Szapocznikow, Maria Papa, Rosalda Gilardi il lavoro sulla pietra, la relazione con il marmo, diventi emblema di libertà e di autoaffermazione, scelta politica e di coscienza sociale, che parte da un posizionamento della loro ricerca nell’ambito dell’arte astratta e che si alimenta di un rapporto con l’apprendimento del mestiere, fatto di relazioni e condivisioni con gli artigiani locali, con i quali Papa e Gilardi costruiranno rapporti autentici e duraturi che proseguiranno negli anni, scalzando i pregiudizi, ciascuna nella direzione specifica del proprio rapporto con la materia e con il lavoro.
Rosalda Gialrdi
NOTE
1 In Between: Louise Bourgeois et Alina Szapocznikow , giornata internazionale di studi organizzata da Université Paris 1 – Panthéon Sorbonne, Université Rennes 2, UR HCA: Histoire e Critique des Arts, HICSA, AWARE, 7-8 ottobre 2022.
2 Alina Szapocznikow espone alla Biennale di Carrara per la prima volta nel 1965 e anche questa manifestazione è un’occasione espositiva significativa per ricostruire le presenze delle scultrici internazionali nel comprensorio apuo-versiliese tra gli anni Sessanta e Settanta e più ampiamente per compiere una ricognizione sulle scultrici impegnate a scolpire la pietra negli anni Sessanta. Il Premio internazionale di scultura città di Carrara era nato nel 1957, nel clima della ricostruzione postbellica, nell’ambito di una politica culturale tesa al rilancio del marmo in scultura come motore strategico per il superamento della crisi del settore lapideo e altresì in un’ottica di promozione turistica del comprensorio apuano. Con l’edizione del 1965, la manifestazione cambia il proprio statuto e inaugura con il titolo IV biennale internazionale di scultura città di Carrara . L’obiettivo è quello di dar vita a un’ampia ricognizione storica della scultura contemporanea internazionale, con
un nucleo non scontato per le rassegne dell’epoca di presenze femminili. Sono difatti coinvolte scultrici internazionali come Barbara Hepwort, Alicia Penalba, Emy Roeder, Alina Szapocznikow e l’italiana Isa Pizzoni. Questa visione prosegue anche in edizioni successive, come ad esempio quella del 1969. Numerose sono infatti le scultrici presentate: alcune oggi quasi dimenticate e alcune grandi protagoniste della scultura internazionale. In quell’edizione partecipano Maria Papa e Rosalda Gilardi, Cordelia Von Den Stein, ed è presente anche Louise Bourgeois con l’opera Cumul , realizzata nel comprensorio apuo-versiliese nei primi anni della sua frequentazione della zona.
3 Cfr. la corrispondenza dell’artista con l’azienda conservata presso l’Archivio Storico Henraux, Querceta, Seravezza.
4 Sulla rivista “Elle” è pubblicato un articolo che ritrae l’artista nei laboratori dell’Henraux. In quell’occasione fu realizzato un servizio fotografico da Roger Gain. J. Monteaux, Alina sculpteses ventres dans le marbre de MichelAnge , in “Elle”, 1968
5 Cfr. C. Sylos Calò, Personificare la malattia.
I tumori di Alina Szapocznikow , in “Horti Hesperidum”, a. VI, n. 2, 2016, pp. 323-342.
6 H. Gheysens, Mémoire fragmentaire. Alina Szapocznikow et Louise Bourgeois , 19691973, in “Les Cahiers du Mnam”, 144, estate 2018, pp. 68-83.
7 Cfr. L.P. Nicoletti, Maria Papa. Un destino europeo , Cortina Arte Milano, Orenda Art International, Milano - Parigi 2009.
8 M. Papa, in Carrare, le marbre dompté par les femmes , in “Express”, s.d., ritaglio stampa conservato presso la biblioteca del Museo dei Bozzetti, Pietrasanta.
9 Da una conversazione con l’autrice e Nicolas Rostkowski, Pietrasanta, 29 settembre 2022.
10 M. Milani, La baguette del desiderio, in Oggetto sessuale , Rusconi, Milano 1977, pp. 183-188.
11 L. Conte, Marisa Merz: sperimentazioni scultoree e filmiche in cucina , in L. Conte e F. Gallo (a cura di), Artiste italiane e immagini in movimento. Identità, sguardi, sperimentazioni, Mimesis, Milano 2021, pp. 11-24.
12 «Lei ha cominciato a scolpire vent’anni fa, a frequentare fonderie e soprattutto cave. Come veniva accettata questa giovane donna-scultrice? […] Non c’era almeno un po’ di diffidenza verso quest’essere “debole” che andava a cimentarsi con cose tanto più grandi?» B. Corradini, Cronaca di un incontro , in Rosalda Gilardi , estratto da “Prospettive d’Arte”, n. 39, ottobre 1980.
13 R. Gilardi, in B. Corradini, cit.
14 L’omaggio di Rosalda Gilardi a Viner e alla sua terra di Versilia , in Rosalda Gilardi , estratto da “Prospettive d’Arte”, cit.
IL PROGETTO AIRSIDE SECONDO IL GRUPPO IDEATORE NAN FUNG
DI EUGENIO VENEZIA COURTESY NAN FUNG GROUP
Un complesso commerciale all’avanguardia che vuole abbracciare tutte le esigenze della vita urbana, dallo shopping alla cultura, dal lavoro al benessere, in completa connessione con la natura. Più che un distretto, una visione: andiamo alla scoperta di AIRSIDE
Uno schizzo della hall di Airside
Nan Fung Group ha annunciato il progetto per AIRSIDE, un complesso commerciale ad uso misto di 176.000 m² nell’area di Kai Tak a Hong Kong. Il progetto principale, che nel 2017 ha vinto la gara d’appalto con un record di 24,6 miliardi di dollari di Hong Kong, è composto da un edificio ad uso misto di 47 piani che comprende uffici di grado A per oltre 30 piani e un centro commerciale su più livelli collegato a una via dello shopping
sotterranea. L’investimento totale del progetto raggiungerà i 32 miliardi di dollari di Hong Kong. AIRSIDE abbraccia un nuovo concetto di “completezza” per quanto riguarda lo stile di vita urbano, proponendo all’intera comunità uno spazio in cui riunirsi e poter essere sé stessi, in connessione con gli altri e con la natura. Il complesso rappresenta bene il metabolismo urbano contemporaneo di Hong Kong, attraver-
Alcuni dettagli del progetto preliminare per la hall di Airside
A destra e nelle pagine seguenti, una veduta della hall di Airside
Grazie alla sua posizione privilegiata, offre ai locatari internazionali una rete leader a livello mondiale, oltre a fornire spazi ricettivi e commerciali e un ambiente di lavoro diversificato. Il quartiere verticale collegherà leader di pensiero e persone affini che qui potranno condividere il lavoro, la vita privata e momenti di vero benessere.
so un nuovo retail esperienziale e spazi per il tempo libero, mentre dall’attico le imprese potranno espandere i loro orizzonti e osservare l’ambiente circostante, facendo network e creando innovazioni. Il nuovo paesaggio urbano ospiterà anche una serie di eventi culturali e di intrattenimento, offrendo così alle persone un momento per rallentare e prendersi una pausa, consentendo lo sviluppo di nuove prospettive nel contesto di vita cittadino di tutti i giorni.
Un luogo per il benessere, un nuovo punto di riferimento per la città
AIRSIDE è situato nel cuore dell’ex aeroporto di Kai Tak, ora distretto commerciale e finanziario centrale (CBD 2.0) di Hong Kong. Sarà l’edificio più alto di Kai Tak e offrirà una vista mozzafiato sul Victoria Harbour e su tutta l’area circostante. La torre, alta 200 metri, ospita uffici di grado A per una superficie di oltre 110.000 m².
AIRSIDE è un importante punto di sviluppo commerciale nel distretto di Kai Tak. Grazie alla sua posizione privilegiata, offre ai locatari internazionali una rete leader a livello mondiale, oltre a fornire spazi ricettivi e commerciali e un ambiente di lavoro diversificato. Il quartiere verticale collegherà leader di pensiero e persone affini che qui potranno condividere il lavoro, la vita privata e momenti di vero benessere. AIRSIDE diventerà un catalizzatore di collaborazioni che porteranno opportunità di business illimitate.
dei validi presupposti utili a incentivare uno sviluppo sociale e sostenibile della nostra comunità e della città attraverso AIRSIDE».
Situato sull’infrastruttura di un hub
Nella posizione privilegiata della rete infrastrutturale di Kowloon East e su un interscambio di trasporto pubblico per il CBD 2.0, AIRSIDE è l’ hub nato per connettere persone vicine e lontane. È comodamente collegato alla stazione metropolitana di Kai Tak, a soli due minuti a piedi da Kai Tak Station Square. I visitatori potranno anche passeggiare lungo l’Underground Shopping Street, la via dello shopping che conduce ad AIRSIDE. Tutte le principali strutture nelle vicinanze sono facilmente raggiungibili a piedi attraverso una rete di ponti e passaggi sopraelevati. Con la Shatin-Central Line e la Tuen-Ma Line appena completate, la stazione centrale è a soli 15 minuti di distanza e l’aeroporto internazionale di Hong Kong e il confine di Shenzhen a soli 40 minuti di distanza.
Ridefinire la vita urbana
A sinistra, schizzi del progetto Airside
Steven Au, vicedirettore generale del gruppo Nan Fung, ha dichiarato: «Forti dell’eredità lasciata dall’ex aeroporto internazionale di Kai Tak, i nuovi progetti puntano a trasformare Kai Tak in uno tra i più vivaci e accattivanti centri con destinazione d’uso commerciale, residenziale, sportiva e turistica. Il gruppo Nan Fung ha saputo cogliere le opportunità e le competenze trasversali con i soggetti chiave della zona per stabilire
Il concetto di “completezza” comprende una vasta gamma di attività, interessi, arte, intrattenimento e ristorazione in costante equilibrio, in un ambiente verde e sostenibile che regala una sensazione di benessere. I 66.000 m² di centro commerciale offrono un’estrema cura nel retail esperienziale, cucina di alto livello ed esperienze di qualità per il tempo libero e lo svago. Vegetazione a cascata, un rooftop a cielo aperto, terrazze e giardini pensili costituiranno un terzo della superficie di AIRSIDE. Il giardino sul tetto e il muro verde verticale concedono un autentico momento di fuga in grado di riempire il cuore e lenire l’anima. AIRSIDE è anche un hub culturale con un’ampia scelta di programmi formativi per incoraggiare l’impegno interpersonale e lo scambio di idee e opinioni all’interno della comunità.
Gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite sono stati adottati come linee guida per il progetto AIRSIDE.
Ogni dettaglio di design sostenibile è stato accuratamente realizzato in accordo con queste direttive per rendere AIRSIDE il primo edificio di Hong Kong a ricevere le cinque più alte certificazioni di bioedilizia.
Meraviglie architettoniche
Il complesso è stato realizzato da Snøhetta, uno studio di architettura e design di fama internazionale conosciuto per la sua concezione unica di architettura e di paesaggio. Il progetto è stato ispirato dalla fusione di elementi naturali, strutture storiche e spazi urbani contemporanei presenti a Hong Kong. AIRSIDE riflette tutto questo cercando di portare la natura all’interno dell’edificio, e collegandosi senza soluzione di continuità ad alcune delle principali caratteristiche dell’ambiente circostante, tra cui il Parco Kai Tak e il fiume Kai Tak. Il focus del progetto consiste in una facciata delicatamente curva composta da vetro scanalato che evoca la lavorazione del tessuto prodotto dalla storica industria del Nan Fung Group, ed è presente in tutto il progetto, dalla facciata agli interni, dalle piazze esterne ai giardini pensili.
In questa visione, il marmo ha contribuito a vestire la hall principale dell’edificio. Questa risulta essere alta e ampia come una cattedrale, conferendo un carattere elegante, ma non freddo, alla struttura dotata di una certa morbidezza. La scelta da parte dei progettisti, per le pareti, è ricaduta sul marmo Versilys, una pietra naturale caratterizzata da un fondo animato da un mix di grigi delicati e un caratteristico pattern tendente al dorato, a contrasto con la pavimentazione che è stata realizzata utilizzando un esclusivo marmo bianco che dà profondità all’ambiente. Amalgamate in modo spontaneo e vivace, le tonalità grigie del marmo Versilys, offrono a questo speciale marmo carattere e peculiarità.
A enfatizzare il dinamismo che già contraddistingue il materiale, il rivestimento del corpo centrale è stato realizzato a ricordare delle lesene aggettanti che si alternano a nicchie valorizzate da punti luce, generando un insolito succedersi di chiaro-scuri.
Una visione sostenibile
Il progetto si propone di perseguire l’o -
biettivo di Nan Fung, la Sustainability
Vision “Do Well By Do Good”, e si basa sull’idea di interdipendenza tra tutte le parti interessate nella società, aspetto fondamentale per creare valore condiviso e prosperità per tutti, al fine di generare rendimenti sostenibili per tutti gli azionisti. Tale visione consente di integrare elementi sociali e ambientali nella catena di valori, che vanno dal finanziamento e dall’allocazione degli investimenti alla gestione della supply chain e degli approvvigionamenti, dall’organizzazione delle operazioni al talent development , in modo da creare prodotti e soluzioni sostenibili, massimizzando i benefici per l’umanità e riducendo al minimo gli impatti negativi sulle risorse naturali e sul pianeta.
Il progetto “SEWit” si basa su quattro pilastri fondamentali che contribuiscono a questa visione di sostenibilità: coesione sociale, ambiente, benessere, innovazione e tecnologia.
AIRSIDE rappresenta uno stile di vita ecologico e sostenibile, reso possibile da infrastrutture uniche nel loro genere, come il primo parcheggio automatico per biciclette di Hong Kong, nato per incoraggiare la green mobility ; l’agricoltura verticale; lo smistamento e lo stoccaggio automatizzato dei rifiuti; una strategia per il risparmio idrico con una gestione oculata dell’acqua piovana; un’efficiente ventilazione naturale e depurazione dell’aria interna che ne faranno uno dei punti di riferimento più ecologici della città.
Gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite sono stati adottati come linee guida per il progetto AIRSIDE. Ogni dettaglio di design sostenibile è stato accuratamente realizzato in accordo con queste direttive per rendere AIRSIDE il primo edificio di Hong Kong a ricevere le cinque più alte certificazioni di bioedilizia. Nan Fung si sta impegnando a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, in linea con il piano d’azione per il clima definito dal governo di Hong Kong (Climate Action Plan 2050).
Trasformare la comunità urbana Nan Fung nutre un grande rispetto per la storia di Hong Kong e per la memoria di Kai Tak. A questo proposito sta sostenendo lo sviluppo di AIRSIDE non solo come un importante distretto finanziario (CBD 2.0), ma anche come un hub culturale di primo piano a Kowloon East. A partire dalla fine del 2020, sono state
avviate una serie di attività per il coinvolgimento e l’integrazione della comunità con lo sviluppo dell’area più ampia lungo il fiume Kai Tak, tra cui San Po Kong e Kowloon City, per riscoprire il patrimonio culturale e la storia della zona ed esplorare un nuovo stile di vita per Hong Kong.
Schizzi del progetto Airside
LA QUINTA EDIZIONE DEL PREMIO INTERNAZIONALE
DI SCULTURA HENRAUX
DI EDOARDO BONASPETTI FOTO DI NICOLA GNESI
Come presidente della giuria, Edoardo Bonaspetti ci racconta il nuovo impianto di selezione degli artisti del Premio Internazionale di Scultura Henraux e cosa ha portato il comitato a premiare Nikita Gale, Lorenza Longhi e Himali Singh Soin. A vincere, i temi centrali del nostro tempo: dalle urgenze ambientali alle dinamiche produttive, dalle riflessioni sull’opera d’arte ai temi di responsabilità sociale e individuale.
Lorenza Longhi alla cava delle Cervaiole, Monte Altissimo, Seravezza (LU), estate 2022
Originalità delle ricerche, sintesi di linguaggi espressivi e ripensamento delle logiche di produzione in un’ottica più sostenibile sono i tratti che hanno caratterizzato la quinta edizione del Premio Internazionale di Scultura Henraux. L’evento, dedicato ad artisti under 40, è rivolto ad ambiti di pensiero e di creazione innovativi con l’obiettivo di supportare alcune delle pratiche oggi più vive e attuali. Questo impegno è stato favorito da un nuovo impianto di selezione degli artisti che ha visto il coinvolgimento di un comitato curatoriale (Lorenzo Giusti, Fatima Hellberg, João Laia, Luca Lo Pinto, Lucia Pietroiusti, Yasmil Raymond e Zoé Whitley), i cui membri hanno presentato ciascuno una
candidatura. La giuria con cui ho avuto l’onore di collaborare (Vincenzo de Bellis, Letizia Ragaglia, Eike Schmidt e Roberta Tenconi) ha premiato, dopo un appassionante confronto, le proposte di Nikita Gale, Lorenza Longhi e Himali Singh Soin. I tre progetti si sono distinti per il significativo grado di sperimentazione artistica e tecnologica, e per la capacità di affrontare temi centrali del nostro presente. Le artiste hanno esplorato un campo di ricerca che spazia dalle urgenze ambientali alle dinamiche produttive, da riflessioni sull’opera d’arte a temi di responsabilità sociale e individuale.
L’opera di Nikita Gale ha invertito l’idea tradizionale del marmo come metafora
Nikita Gale in Henraux, estate 2022
di solidità e permanenza. Dopo aver registrato i rumori di processi di estrazione e lavorazione, l’artista ha realizzato una composizione sonora che alterna arrangiamenti ritmici a sequenze ambientali
quasi non editate. Le tracce sono state poi montate su musicassette, un supporto tecnologico ormai in disuso, e prodotte con un materiale versatile e duttile come la polvere di marmo.
Nikita Gale, Marm i, 2022
L’approccio di Lorenza Longhi ha ripensato le funzioni e i processi di lavorazione del marmo in stretta collaborazione con i reparti dell’azienda Henraux. L’artista, dopo un attento studio delle applicazioni
nell’architettura e nell’interior design, ha scelto di impiegare elementi inutilizzati o di scarto per testare nuove finalità, in un processo contraddistinto da procedure e combinazioni di materiali inedite.
Lorenza Longhi, Business Card(s) , 2022
A destra, Lorenza Longhi alla cava delle Cervaiole, Monte Altissimo, Seravezza (LU), estate 2022
Lorenza Longhi, Business Card(s) , 2022
Infine, la pluriennale ricerca sui ghiacci polari di Himali Singh Soin si è concretizzata in un progetto in due tempi che interessa gli antipodi terrestri. L’artista ha eseguito una riproduzione marmorea dell’isola Deception, ex stazione baleniera dell’arcipelago subantartico delle Shetland ora desolata, la cui forma è simile a un ens ō , il cerchio Zen, e, durante l’inaugurazione della mostra presso la segheria storica Henraux a Querceta di Seravezza, ha ricreato l’isola artica post-coloniale,
Blomstrandhalvøya, o Ny-London. Attraverso l’utilizzo di polvere di marmo all’interno di una lunga cerimonia performativa ispirata ai mandala tibetani, Singh Soin è stata accompagnata dal percussionista e compositore David Soin Tappeser. L’opera si focalizza così su un processo di cura e riparazione dalle conseguenze del colonialismo e del pensiero antropocentrico, invitando a riflettere sulla profondità del tempo, la transitorietà e l’impermanenza.
Himali Singh Soin, Too Much and Not Enough , 2022
A sinistra, Himali Singh Soin, Too Much and Not Enough , 2022 (performance)
IL BELLO È OVUNQUE, SE LO SGUARDO È LIBERO
DI ALDO COLONETTI
Essere consapevoli che la possibilità di cogliere la dimensione estetica delle cose dipende da noi e non solo dall’opera che guardiamo.
Ciò che ci permette di vedere l’Arte è la libertà che conserviamo nel nostro approccio al mondo.
Senza la relazione libera tra la persona e la “cosa” non potrebbero esistere il design, la moda, l’architettura e l’arte.
Marcel Duchamp con alcune sue opere
È la libertà che sta alla base di ogni attività artistica e progettuale, anche là dove appaiono determinanti le condizioni politiche ed economiche insieme ai materiali e agli strumenti necessari per portare a termine un’opera.
ADA è un acronimo inventato da Paolo Carli, presidente di Henraux, che rappresenta “Arte Design Architettura”, ovvero riconoscere la primogenitura della dimensione estetica rispetto a tutti gli altri valori messi in campo dalle discipline progettuali.
Estetica dovunque è il titolo del primo volume delle opere complete di Gillo Dorfles, uscito da Bompiani nel 2022, a cura di chi scrive con l’introduzione di Massimo Cacciari. In particolare, Cacciari sottolinea che: «L’importanza del suo pensiero è ormai qualcosa di saldamente acquisito a livello internazionale: l’estetica non può limitarsi a una “teoria generale”, ma deve misurarsi con la concretezza del prodotto artistico e mettersi alla prova nella sua capacità di giudicarlo non secondo astratti metri di valori, ma nel suo farsi, nel suo costruirsi».
Esistono discipline che implicano calcoli e regole da memorizzare, oppure saperi e percorsi conoscitivi, come “la scienza del bello”, dove le regole sono da imparare, via via con la propria esperienza e la propria soggettività. L’arte ha questa capacità di andare oltre il fatto empirico per trarne un significato in sintonia con ciascuno di noi.
Diversamente, uno scienziato può spiegare dettagliatamente la nascita di un arcobaleno, ma non di certo i ricordi che in noi ne derivano, perché legati alla nostra soggettività e alla nostra libertà.
non solo dall’opera – la possibilità di cogliere la dimensione estetica delle cose, sempre e in ogni esperienza, anche quella apparentemente più marginale rispetto a un’immagine sacrale e museale dell’arte. Immanuel Kant, il filosofo tedesco che nella seconda metà del ‘700 ha fondato l’estetica moderna come parte della filosofia, scrive nella sua opera fondamentale Critica del Giudizio (1790) che: «Alla pittura in senso largo io attribuirei anche la decorazione delle stanze con tappezzerie, e ogni bel mobile, che serva unicamente alla vista; così l’arte del vestire con gusto, anelli, tabacchiere. Perché un’aiuola di diverse specie di fiori, una stanza con molti ornamenti, compreso l’abbigliamento delle signore, costituiscono una specie di quadro che, come i quadri propriamente detti, stanno lì per mantenere l’immaginazione in un libero gioco con le idee ed occupare il Giudizio Estetico senza alcun scopo determinato.»
Il Monte Altissimo, Seravezza Foto: Nicola Gnesi
Arte e libertà rappresentano, infatti, la prima condizione per esprimere un giudizio estetico, ovvero: davanti a una scultura di Michelangelo non nasciamo “imparati”, ma siamo in grado di cogliere l’universalità anche in una sola particolarità, in un’intuizione che lega un particolare ricordo e una specifica sensazione a una determinata forma che sembra venire da lontano. Ma poi, se alziamo lo sguardo rivolto al Monte Altissimo dove il nostro artista andava a cercare il marmo migliore, allora comprendiamo meglio cosa significa dare forma a un’idea attraverso, certamente, una determinata sensibilità che non avrebbe mai trovato la sua “concretezza” se non avesse trovato il materiale e gli strumenti adatti per portare a termine l’opera. Arte dovunque e in ogni luogo significa essere consapevoli che dipende da noi – e
È la libertà che sta alla base di ogni attività artistica e progettuale, anche là dove appaiono determinanti le condizioni politiche ed economiche insieme ai materiali e agli strumenti necessari per portare a termine un’opera. Resta valida l’idea che non è sufficiente “produrre bene” un oggetto, badando solo alle sue determinanti specificità (funzionali per ottenere un prodotto in grado di mantenere nel tempo tutti quei valori, simbolici ed estetici che lo rendono unico). L’esperienza estetica delle cose è altro rispetto alle funzionalità pratiche di uno specifico strumento. Essa deve essere in grado di mettere in azione una serie di effetti simbolici, rituali e mitici, che non si esauriscono e quindi non si consumano nelle pratiche quotidiane di carattere ripetitivo. Se non c’è una relazione libera tra la persona e la “cosa”, in una sorta di dialogo infinito e senza tempo, non potrebbero esistere il design, la moda, l’architettura e – ovviamente – l’arte.
Il design ci fa riscoprire il piacere del “bello funzionale”, come la moda è capace di reinventare gli anfibi militari o lo zaino mostrandoli da un altro punto di vista –ovvero la loro dimensione estetica e simbolica – all’interno di una ritualità che è in grado di far rivivere – in modo diverso e completamente originale – un oggetto “banale” e di tutti i giorni.
A sinistra, unità di abitazione a Marsiglia
Foto: Yana Marudova
Basti pensare alla rivoluzione estetica di Elio Fiorucci e alla comunicazione dei suoi prodotti realizzata – insieme al grande fotografo Oliviero Toscani – negli anni ’70 e ’80: portare nella moda la strada e i suoi comportamenti anonimi, i materiali e le forme che provenivano da altri ambiti tecnologici e produttivi, come ad esempio la plastica. Non è un caso che Fiorucci collaborò con Montedison in quanto il colosso chimico aveva intuito che la ricerca di nuovi materiali avrebbe potuto svilupparsi partendo da un nuovo sguardo sul mondo, completamente originale rispetto ai tradizionali atteggiamenti degli specialisti. Come scrive Walter Gropius, fondatore della Bauhaus – la più importante scuola di progettazione del mondo non a caso chiusa dal nazismo –: «Gli specialisti sono persone che ripetono sempre gli stessi errori.» Al centro di questa esperienza pedagogica e progettuale, c’era l’arte e alcuni dei protagonisti delle ricerche artistiche più avanzate di quegli anni come Paul Klee, Piet Mondrian, Vassilij Kandisky. Il design – dalla Bauhaus ai giorni nostri – ci ha fatto scoprire il piacere del “bello funzionale”, così come Marcel Duchamp ci ha fatto riscoprire il significato misterio-
so anche delle cose più semplici e anonime, ad esempio una ruota di bicicletta, una vecchia macchina da scrivere o il water. Oggetti dove è sempre presente un valore estetico e simbolico che supera la semplice e banale funzionalità del prodotto. Duchamp compie un’azione che ciascuno di noi avrebbe potuto fare: sceglie un oggetto con cui tutti hanno un rapporto strumentale e utilitaristico, lo sposta di contesto e lo dichiara un’opera d’arte. Ci costringe a guardare l’oggetto con un altro sguardo e con un diverso meccanismo mentale, mettendo parzialmente da parte la sua utilità e pensandolo come oggetto in sé.
Immaginiamo, solo come esempio, quanti possibili Duchamp potremmo avere se pensassimo ai grandi volumi geometrici di marmi diversi – posizionati nel grande piazzale di Henraux – non come materiali per l’architettura, il design o la scultura, ma in quanto opere che hanno in sé un valore estetico, non solo potenzialmente, ma in quanto tale.
Come a dire che ciascuno di noi è un artista e basta mettere in moto una nuova e più libera relazione con le cose. Allora è il pensiero a disegnare la realtà: Fare è pensare1
Marcel Duchamp, Fontana , 1917, ready-made
L’arte, in sostanza, coincide con la nostra propensione verso la libertà svincolata dalle cose del mondo; è un percorso conoscitivo, e quindi per nulla accademico, ristretto solo a coloro i quali conoscono la storia dell’arte. Il grande filosofo tedesco Hegel lo diceva con chiarezza in quello straordinario “romanzo” che è una delle opere più importanti per comprendere il mondo, ovvero La fenomenologia dello spirito (1807).
Per Hegel l’arte, come la religione e la filosofia, si pone come un atteggiamento conoscitivo verso il mondo nel segno della libertà; ovvero tentare di andare oltre il finito, anche un semplice pezzo di marmo, per cogliere l’infinito, la dimensione estetica e simbolica che risiede nello sguardo di un nuovo modo di vedere e conoscere il mondo, al di là dell’apparenza. Allora una pipa non è solo una pipa, ma anche una riflessione intorno al rapporto tra disegno e realtà come ci ha insegnato Magritte; una scultura di Michelangelo non è solo una scultura in quanto ci riporta alla natura da cui essa proviene, agli strumenti con i quali l’artista cerca di dare una forma
concreta a un’idea di bellezza. Ma ancora, un cavatappi non è solo uno strumento ma una storia di una persona, come nel caso di Alessandro Mendini e il suo cavatappi Anna G.
Infine, un’architettura non è solo un contenitore, un riparo dalle intemperie naturali o una difesa dal nemico ma rappresenta sé stessa in quanto opera assoluta e autonoma. Si potrebbe affermare questo? Certamente, solo nel caso di essere di fronte a un progetto come quello dell’architetto designer Mies van der Rohe e la Neue Nationalgalerie di Berlino che – dal 1968 – ci guarda, ospitale ma austera, autosufficiente sul piano estetico, in grado di ospitare qualsiasi espressione artistica e, contemporaneamente, assolutamente perfetta e autonoma nella sua composizione e nei suoi materiali.
Come se fosse un oggetto pensante e autonomo e non solo un prodotto dell’uomo. Qui risiede il significato ultimo di qualsiasi opera dell’uomo, ma tutto dipende dall’essere in grado di pensare liberamente le cose del mondo. Arte e libertà stanno alla base del progetto contemporaneo.
NOTE
1 A. Colonetti e S. Massironi, Fare è pensare. Conversazioni per un nuovo Bauhaus , Electa Editore, 2023
I blocchi di marmo nel piazzale dello stabilimento Henraux, Querceta Foto: Nicola Gnesi
A sinistra, l’interno della Neue Nationalgalerie, Berlino Foto: Birk Enwald
LO STEMMA HENRAUX SULLA FACCIATA DEL DUOMO
DI FIRENZE
DI COSTANTINO PAOLICCHI
FOTO DI RICCARDO BENASSI
Ripercorriamo l’affascinante e e contrastata storia della facciata del duomo di Firenze, finita tre secoli dopo lo smantellamento della decorazione medievale di Arnolfo di Cambio che diede inizio ai lavori. Sulla facciata di Santa Maria del Fiore è presente lo stemma gentilizio degli Henraux ottenuto come riconoscimento della generosità e dei sempre più stretti legami tra la città del giglio e Seravezza.
Lo stemma Henraux sulla facciata del duomo di Firenze
Alcuni dettagli della facciata di Santa Maria del Fiore, Firenze
Papa Leone X (al secolo Giovanni de’ Medici), in occasione della prima visita da pontefice alla propria città il 30 novembre del 1515, manifestò il desiderio che si mettesse mano alla facciata del duomo di Santa Maria del Fiore, alla cui decorazione Arnolfo di Cambio aveva dato inizio alla fine del Duecento e che era proseguita fino al Quattrocento, rimanendo tuttavia incompiuta. Era rimasto particolarmente colpito dalla facciata posticcia che era stata realizzata in legno sagomato e dipinto da vari legnaioli fiorentini, come gli archi trionfali e altre effimere scenografie innalzate a Firenze per quell’evento.
Nella seconda metà del Cinquecento il granduca Francesco I de’ Medici ordinò di smantellare la vecchia decorazione. L’intenzione del sovrano era quella di dotare il maggior tempio fiorentino di una nuova facciata stilisticamente adeguata al gusto moderno, ma non si andò oltre le intenzioni e alla distruzione dell’antico non seguì la creazione di un nuovo fronte. Alla fine del Seicento il granduca Cosimo III, in occasione delle nozze del figlio, decise di restituire decoro a questo monumento facendo realizzare un grande dipinto murale raffigurante un finto fronte architettonico. Questa decorazione sopravvisse per un secolo e mezzo e la si può ancora individuare, benché ormai fortemente degradata, nelle fotografie del primo Ottocento.
Sotto il governo di Ferdinando III la questione della decorazione della facciata del duomo tornò d’attualità per iniziativa di Giovanni degli Alessandri, presidente dell’Accademia di Belle Arti e direttore degli Uffizi. L’architetto Giovanni Battista Silvestri fu il primo a presentare un progetto per una facciata in stile neogotico, che però rimase inattuato. Fu disattesa anche la proposta formulata nel 1831 dall’architetto Gaetano Baccani, responsabile dell’ammodernamento della fabbrica.
Un decisivo passo in avanti fu compiuto nel 1842 quando fu creata l’Associazione per la Facciata del Duomo che si preoccupò anche del reperimento dei finanziamenti necessari alla realizzazione dell’impresa. A stimolare il dibattito intorno all’iniziativa contribuì la realiz-
zazione della facciata in stile neogotico della Basilica di Santa Croce, su disegno dell’architetto Niccolò Matas. Lo stesso Matas elaborò una proposta architettonica per la cattedrale che ebbe come effetto quello di estendere il dibattito al di là dei confini regionali: è in quegli anni che giunsero a Firenze i disegni dell’architetto svizzero Johann Georg Müller (1822 -1849) che proponevano sei ipotesi di facciata in stile neogotico, ispirate sia alle cattedrali d’oltralpe che al duomo di Orvieto. Negli anni 1842-44 il Müller aveva accompagnato Rudolf Merian, un ricco basilese, in un viaggio in Italia durante il quale visitò i monumenti della Toscana, di Roma e della Sicilia. Fu un’esperienza fondamentale che lo portò a confrontarsi con questioni di teoria dell’arte. In quegli anni nacque anche il suo interesse per il progetto di completamento della facciata del duomo di Firenze che lo occupò fino alla sua morte prematura.
L’interesse progettuale subì un’interruzione per effetto dei moti risorgimentali e riprese nel 1859, quando l’Associazione rinacque con il nome di Deputazione promotrice. L’anno successivo Vittorio Emanuele II pose la prima pietra con una cerimonia puramente simbolica: la facciata sarebbe stata realizzata soltanto molti anni più tardi. Nel 1861 fu indetto un concorso al quale parteciparono numerosi architetti italiani e stranieri, che proposero soluzioni ispirate per lo più a edifici sacri medievali. I progetti furono esaminati da un’apposita commissione di esperti, ma non si giunse mai a proclamare un vincitore.
Negli Archivi dell’Opera del duomo di Firenze è conservata un’ampia collezione dei disegni architettonici inviati alle varie commissioni nel corso dei decenni, e una parte di essi è esposta nell’apposita sezione del Museo dell’Opera.
Nel 1864 fu indetto un nuovo concorso che produsse più di quaranta progetti: le proposte architettoniche suggerivano sostanzialmente lo stile delle facciate gotiche delle cattedrali francesi, altre si rifacevano alle basiliche italiane e altre ancora erano di gusto eclettico. Tra i quindici progetti che furono selezionati vinse quello dell’architetto fiorentino Emilio De Fabris, che immaginò una
Maria del Fiore e il Battistero di San Giovanni, Firenze Foto: Sofia Dalle Luche
Santa
facciata neogotica, ispirata al duomo di Siena e a quello di Orvieto, sormontata a coronamento da tre cuspidi. Intorno a questa soluzione sorse però un’accesa discussione che riguardava in particolare lo stile del coronamento. Il tipo cuspidato, infatti, veniva sentito nell’Italia post-risorgimentale come meno “italico” rispetto a quello basilicale. Il concorso si chiuse con un nulla di fatto. Fu bandito allora un ennesimo concorso, al quale furono invitati dieci partecipanti della precedente prova e furono ammessi ventinove nuovi concorrenti. I disegni che furono sottoposti all’esame della commissione erano ancora ispirati all’architettura medievale, ma suddivisi in due categorie: con coronamento cuspidato o basilicale.
Di nuovo vinse il De Fabris, che nel 1870 ottenne finalmente l’incarico per la costruzione della facciata. Ciononostante, le polemiche intorno alla questione del coronamento non si placarono e De Fabris dovette elaborare varie soluzioni tenendo conto di entrambe le tipologie. Alla fine, anche a seguito di un referendum cittadino, fu accettata la modalità basilicale.
Per la decorazione scultorea e musiva della facciata, De Fabris si rivolse al filosofo Augusto Conti: questi congegnò una grandiosa celebrazione di Maria e del Salvatore che era, insieme, anche una glorificazione della storia di Firenze. Numerosi furono gli artisti coinvolti, tutti di altissimo profilo e più di settanta le figure scolpite o mosaicate. La tradizione romanica e gotica della decorazione con l’uso dei marmi rosso, bianco e verde acquistò nella facciata una valenza di celebrazione patriottica, richiamando i colori della bandiera italiana.
La costruzione fu avviata nel 1876 ma il De Fabris, morto nel 1883, non poté vederne la conclusione. Fu Luigi Del Moro, subentrato nella direzione del cantiere, a portare a compimento l’opera e la facciata fu inaugurata ufficialmente il 12 maggio 1887: esattamente 3 secoli dopo
lo smantellamento della decorazione medievale di Arnolfo.
I nomi e gli stemmi delle importanti famiglie che parteciparono al finanziamento dell’impresa furono riportati nelle cornici inferiori, in modo che fossero ben visibili. Ubaldino Peruzzi, prima di diventare sindaco di Firenze dal 1871 al 1878, era stato ministro degli interni e aveva risposto all’appello in difesa degli interessi della popolazione di Seravezza, occupata per intero nell’industria marmifera e dei proprietari di cave e si era occupato del fallimento della società che gestiva le cave dell’Altissimo prima che queste passassero nella proprietà esclusiva di Bernardo Sancholle Henraux, nipote ed erede universale di Jean Baptiste Alexandre Henraux, fondatore nel 1821 della Società Borrini-Henraux per l’escavazione e il commercio dei marmi del Monte Altissimo.
Bernardo, dopo aver offerto nel 1865 il materiale per il monumento a Dante elevato in piazza Santa Croce a Firenze, scolpito in marmo dell’Altissimo e inaugurato dal re Vittorio Emanuele II, donò, nel 1880, il marmo destinato alla facciata del duomo e ad alcuni ponti di Firenze, ed ebbe in riconoscimento di tale generosità e dei sempre più stretti legami tra la città del giglio e Seravezza, l’apposizione del proprio stemma gentilizio sulla facciata di S. Maria del Fiore. È costituito da uno scudo esagonale che reca in alto tre scalpelli, in basso il profilo del monte Altissimo e la testa di un bue, che simboleggiano l’estrazione, la lavorazione e il trasporto del marmo, ovvero l’importante attività industriale svolta dagli Henraux a Seravezza a partire dal 1821. È collocato nel pilone di sinistra che fiancheggia la porta maggiore, dove si trova anche lo stemma del Peruzzi. Il Comitato esecutivo deliberò che le armi ed i nomi dei sottoscrittori alla costruzione della facciata del Duomo fossero divise in tre categorie a seconda di quanto avevano of-
Lo stemma è costituito da uno scudo esagonale che reca in alto tre scalpelli, in basso il profilo del monte Altissimo e la testa di un bue, che simboleggiano l’estrazione, la lavorazione e il trasporto del marmo, ovvero l’importante attività industriale svolta dagli Henraux a Seravezza a partire dal 1821.
Bibliografia essenziale:
Opera Magazine, La facciata neogotica del duomo di Firenze. Breve storia dell’ultima grande impresa artistica per Santa Maria del Fiore , 10/02/2022.
ferto: gli oblatori che offrirono più di lire 5000 avevano diritto all’arme ed al nome negli scudi posti tra i piloni e le porte, e nelle bifore dei piloni stessi.
Bernardo moriva la sera del 28 aprile 1881 nella sua casa di Firenze a causa di una forte polmonite. Le esequie si svolsero due giorni dopo con il corteo funebre che – dalla casa del defunto in via Magenta numero 9, per Porta a Prato –accompagnò la salma fino alla chiesa di Santa Lucia, interamente listata a lutto. Lasciava in eredità al figlio Roger e alla figlia Marguerite, sposata a Lucien Delatre, una solida azienda.
Fu sepolto nella cappella di famiglia situata all’interno del cimitero delle Porte Sante, nella sezione oggi denominata
“Cantiere” che fu eretta su commissione della famiglia Henraux nel 1880-1881, proprio in occasione della morte di Bernardo. Si fece ampio ricorso al marmo per la sua costruzione, ma a ricordare le origini francesi della famiglia si chiamò a progettare l’edificio l’ormai affermato architetto parigino Charles Garnier, in questo caso affiancato dal suo allievo Joseph Cassien-Bernard. Ispiratosi come in altre sue realizzazioni all’architettura greco romana, Garnier propose l’edificio sotto forma di un piccolo tempio antico, segnato sul fronte da due colonne ioniche e da un timpano caratterizzato al centro da una croce e coronato da una lanterna accesa.
A.Tenerini, Frammenti di arte francese in Versilia. I monumenti Henraux nella cappella del Rosario del duomo di Seravezza , Viareggio 2019, p. 10 e segg.
Ricordi di Architettura. Raccolta di ricordi d’arte antica e moderna e di misurazione di monumenti , IV, 1881, fasc. XII, tav. II-III, Sepoltura della famiglia Henraux. Cimitero di S. Miniato al Monte.
Gli stemmi di Isabella Magnani Gerini e di Gian Bernando Henraux sulla facciata del duomo di Firenze
La mostra Collezione Henraux 1960–1970 , a cura di Edoardo Bonaspetti, si è svolta nell’estate 2022 per celebrare i 200 anni dell’azienda. Nata dalla collaborazione tra la Fondazione Henraux e le Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo, ha riunito per la prima volta e a distanza di cinquant’anni, un corposo nucleo di sculture, in parte appartenenti alla collezione Intesa Sanpaolo e in parte all’Henraux, riportandole negli stessi luoghi in cui furono realizzate.
Il percorso espositivo si è snodato in due spazi: il nuovo showroom di Luce di Carrara, recentemente oggetto di un consistente restauro firmato da Archea Associati, dove sono stati presentati documenti, foto d’archivio, modelli e riproduzioni organizzati in gruppi tematici che raccontano il vitale contesto in cui le sculture sono state create e la storia della Collezione; e la storica segheria di Henraux, il cui impianto architettonico risale agli inizi dell’Ottocento, che ha ospitato le sculture, allestite in ordine cronologico di realizzazione, in dialogo con i progetti vincitori della quinta edizione del Premio Internazionale di Scultura Henraux.
L’allestimento, realizzato dallo studio 2050+, ha voluto richiamare i processi di lavorazione del marmo, l’estetica industriale e l’esempio straordinario di cultura d’impresa dato dall’azienda.
Nel corso di più di 200 anni di attività, Henraux è stata protagonista di innumerevoli progetti e collaborazioni nella cultura visiva internazionale. A partire dalla partecipazione alla ricostruzione dell’Abbazia di Montecassino (1945 –1962) e passando per la realizzazione del pavimento di marmi policromi per il sagrato della basilica di San Pietro in Vaticano (1962), nel Secondo Dopoguerra Henraux allaccia un rapporto straordinario con le arti visive grazie alla lungimirante direzione di Erminio Cidonio. In particolare, l’incontro nel 1957 con lo scultore britannico Henry Moore favorisce questo slancio e contribuisce a dar vita a un fiorente periodo di innovazione e ricerca artistica. In pochi anni Jean (Hans) Arp, Pietro Cascella, Nino Cassani, Rosalda Gilardi Bernocco, Émile Gilioli, Joan Miro, Isamu Noguchi, Maria Papa Rostkowska, Giò Pomodoro, Antoine Poncet, Branko Ružić, Giannetto Salotti, Francois Stahly, Alina Szapocznikow, Georges Vantongerloo e molti altri si recano a Querceta di Seravezza e realizzano le loro opere con le maestranze e i marmi di Henraux, contribuendo a un più ampio rilancio culturale dell’azienda e del suo territorio. Produzioni d’arte, imprenditorialità e circolazione di idee accelerano una politica d’impresa unica, alimentata da competenze e visione. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, il vigore di questa eccezionale esperienza inizia ad affievolirsi per mutate strategie aziendali e, poco dopo essere stata esposta nel 1972 presso il Cortile d’Onore di Palazzo dei Diamanti a Ferrara, la collezione si disperde. Nel 1973, venticinque opere vengono acquisite dall’allora Banca Commerciale Italiana, al tempo azionista di Henraux, per poi confluire in quella che oggi è la raccolta d’arte moderna e contemporanea di Intesa Sanpaolo.
DESIGN DEI SENSI.
LA CIOCCOLATERIA ALLÉNO & RIVOIRE A PARIGI
A CURA DI MANUELA DELLA DUCATA FOTO DI SEBASTIAN MITTERMEIER
Educare il palato e l’occhio, ricercare il raffinato equilibrio tra l’elegante gourmet senza zucchero che utilizzi la rivoluzionaria acqua di betulla. Lo chef Yannick Alléno, il maestro pasticcere Aurélien Rivoire e la designer Laurence Bonnel raccontano il loro laboratorio di cioccolato.
L’interno della cioccolateria Alléno & Rivoire, Parigi
Situato a pochi passi dal quartiere parigino di Rue Cler, tra la Torre Eiffel e Les Invalides, il laboratorio di Alléno & Rivoire rispecchia tutto ciò che lo circonda: raffinatezza, discrezione e accoglienza.
La cioccolateria Alléno & Rivoire nasce dall’incontro di due maestrie, la cucina e la pasticceria, che hanno dato vita a una collezione unica nel suo genere. La sua unicità si deve al fatto di aver saputo creare nuovi modi di gustare il cioccolato: una collezione sorprendente che moltiplica le possibilità di abbinamento e di accordi perfetti e si trasforma in una tavolozza di colori per sconvolgere le nostre abitudini e i nostri sensi.
Per Yannick Alléno e Aurélien Rivoire, questa collezione è il riflesso delle loro idee: il tentativo di creare un cioccolato più sano, buono per l’essere umano e per il pianeta.
Questo anche grazie all’acqua di betulla che irrora tutta la loro filosofia, secondo la loro ferma convinzione che i palati e le coscienze di domani si educhino oggi.
«Il mio obiettivo è quello di lavorare in modo creativo un cioccolato sano e che faccia bene alla salute – afferma Aurélien Rivoire –. Voglio eliminare il più possibile lo zucchero e sostituirlo con un prodotto in grado di rivoluzionare il nostro approccio: l’acqua di betulla. Le sue virtù sono immense e oggi abbiamo la fortuna di poter scegliere questo cioccolato di pregio, ovvero un cioccolato che ci fa bene e che si preoccupa per l’ambiente. Lavorare al fianco di Yannick Alléno in questa avventura significa allo stesso tempo richiamare la cucina nelle nostre creazioni e sviluppare sempre di più la nostra creatività.»
L’atmosfera del negozio, progettato da Laurence Bonnel, doveva far sì che chiunque entrasse venisse coinvolto dall’idea di trovarsi, da un lato, in un luogo caldo e goloso, dall’altro, lussuoso ed esclusivo. Texture e colori sono stati
scelti in funzione di questo concept. Si è partiti da un’ispirazione classica, ovvero la vecchia bottega di pasticceria tradizionale, ma con una visione moderna, per dare vita a un’esperienza unica come unici sono i cioccolatini che vi si trovano all’interno. La scelta di un marmo speciale come il Calacatta Viola – fornito e lavorato dall’Henraux – ha permesso di ottenere questo effetto classico ma caldo, rafforzato dalle arcate che accolgono il cioccolato in esposizione. La scelta del marmo è stata fatta dopo diverse visite, inizialmente “emozionali” e poi sempre più “tecniche”, alla ricerca del materiale che meglio si prestasse a realizzare il sogno di Bonnel, Alléno e Rivoire.
Manuela Della Ducata: M.me Bonnel, cosa l’ha colpita di più del materiale che ha scelto?
Laurence Bonnel: Ho scelto tra diversi blocchi, il colore era fondamentale: avevo bisogno di una tonalità molto calda, con un bel contrasto tra la pietra e le venature, e che avesse una “geometria” morbida, se così posso dire. Venature forti, ma non troppo. Era tutta una questione di equilibrio. Il blocco che ho scelto aveva tutto quello che desideravo.
M.D.D.: Perché ha scelto il marmo (un marmo italiano poi!) e non un altro materiale come il legno o il vetro?
L.B.: Fin dall’inizio del progetto ho subito pensato al marmo Calacatta Viola, perché rappresenta il lusso e l’atmosfera calda che volevo per il negozio. Inoltre, mi sembrava interessante anche perché ricorda le sfumature del cioccolato. A volte il marmo può sembrare freddo, ma questo Calacatta Viola ci avvolge in una morbidezza che rimanda a un luogo lussuoso ma rassicurante, caldo e goloso. Ho preferito questo marmo al legno perché le sue venature, e la pietra in generale, tra-
L’interno della cioccolateria
Alléno & Rivoire, Parigi
L’interno della cioccolateria Alléno & Rivoire, Parigi
«Credo che il nostro negozio sia un po’ magico: è una parentesi che, per un momento, offre la possibilità di staccare la spina, di allontanarsi dalla realtà, dal tumulto parigino e dallo stress quotidiano, di togliersi uno sfizio goloso.»
L’esterno della cioccolateria
Alléno & Rivoire, Parigi
smettono un’energia particolare. Per le nicchie avevo in mente qualcosa di antico, e questo marmo si sposa perfettamente con gli archi.
M.D.D.: M. Alléno, perché una cioccolateria e perché insieme a M. Rivoire?
Yannick Alléno: Amo le sfide, è ciò che mi anima. Non sapevo quasi nulla di cioccolato e oggi penso che proprio questo sia stato il nostro punto forte. Proprio perché dovevamo imparare tutto, siamo riusciti a proporre qualcosa di diverso: creare cioccolatini senza zucchero, ma altrettanto deliziosi, più sani per noi e per l’ambiente.
Il laboratorio di cioccolato Alléno & Rivoire è in continuità con la mia Cucina Moderna: una Pasticceria Moderna con confetture di frutta senza zucchero, lavorate con acqua di betulla che concentra il gusto e sublima la consistenza di ogni frutto. Vi è continuità anche nella lavorazione delle creme che troviamo in diversi prodotti come il trifoglio o i baccelli di vaniglia.
Con Aurélien abbiamo lavorato su creme moderne al cioccolato. Io e lui abbiamo in comune la formazione come pasticceri, gelatai e cioccolatai. Abbiamo lavorato insieme per molto tempo, era il mio pasticcere al Pavillon Ledoyen, condividiamo la stessa filosofia.
M.D.D.: Oltre alla scelta del materiale italiano, ci sono altri progetti che coinvolgeranno l’Italia nel suo futuro?
Y.A.: L’Italia ce l’ho nel sangue, nel cuore. Come c’è stato il vino nel marmo (l’annata Fuori Marmo), ci saranno altri progetti con questo Paese a cui sono molto affezionato.
M.D.D.: M. Rivoire, cosa “sente” quando entra in negozio e cosa pensa che i suoi clienti percepiscano?
Aurélien Rivoire: Ogni mattina provo un profondo senso di orgoglio e soddisfazione quando entro in negozio. È il risultato di dieci anni di lavoro con lo chef Yannick Alléno!
È un negozio molto speciale, perché pur combinando i codici del lusso (design in marmo, cioccolato di alta qualità) è allo stesso tempo molto accessibile. Si respira un’atmosfera colma di calore e cordialità, anche grazie all’accoglienza molto attenta e affabile del personale.
Volevo che i clienti percepissero il mio desiderio di trasmettere e condividere con loro la mia passione. Credo che il nostro negozio sia un po’ magico: è una parentesi che, per un momento, offre la possibilità di staccare la spina, di allontanarsi dalla realtà, dal tumulto parigino e dallo stress quotidiano, di togliersi uno sfizio goloso.
M.D.D.: Secondo lei l’attenzione che rivolge alla salute e al rispetto per l’ambiente è percepita e apprezzata dai clienti?
A.R.: Tutto il lavoro intorno all’acqua di betulla ha suscitato la curiosità dei nostri clienti. Da diversi anni, infatti, sono sempre più attenti a ciò che consumano, e in fin dei conti siamo cresciuti insieme, perché il nostro lavoro sui prodotti sugar-free è iniziato quasi quattro anni fa. È stata una grande prova lavorare su un cioccolato gourmet senza zucchero, ma noi abbiamo raccolto la sfida senza esitare.
La ricompensa più bella è vedere i clienti sorpresi dall’assenza di zucchero, perché in bocca non si sente. Spesso mi dicono che sono felici di poter gustare un cioccolato senza sentirsi in colpa!
Sauro Lorenzoni.
Il marmo, compagno di vita
DI ROBERTO BERNABÒ FOTO DI NICOLA GNESI
Sauro Lorenzoni racconta a Roberto Bernabò la storia che lo lega indissolubilmente al marmo e all’azienda Henraux. Attraverso il suo vissuto, prima di artigiano e poi di artista, ci porta nel cuore di una quotidianità fatta di uomini e incontri straordinari e segnata dal lavoro e dall’arte.
destra, Sauro Lorenzoni
A
Sauro Lorenzoni, Senza titolo , 2015 cm 45x30x35
Sauro Lorenzoni accanto all’opera Femme Paysage di Jean (Hans) Arp durante la mostra Collezione Henraux 1960-1970 , Querceta
Una storia, dentro l’Henraux, particolare, tra tutte quelle che sono state raccontate, perché Sauro Lorenzoni è anche uno dei pochi artigiani che ha superato costantemente il confine tra l’artigiano e l’artista.
Abbiamo incontrato Sauro Lorenzoni, artigiano del marmo. Una storia, dentro l’Henraux, particolare, tra tutte quelle che sono state raccontate, del mondo degli artigiani che hanno fatto la storia di questa azienda, perché Sauro Lorenzoni è anche uno dei pochi artigiani che ha superato costantemente il confine tra l’artigiano e l’artista, facendo entrambe le attività nella sua lunga carriera.
Roberto Bernabò: Come si nasce artigiani in Versilia nel periodo in cui ha iniziato lei? Perché allora c’erano le Apuane, che vediamo ancora qua davanti, con la storia che raccontano, e c’erano poi anche tutte le botteghe nel centro di Pietrasanta e non solo, e quindi era soprattutto il luogo a fare in qualche modo il destino di questo mestiere. O no?
Sauro Lorenzoni: Sì, infatti a 16 anni quando ho iniziato in uno studio di Pietra-
santa, sull’Aurelia, alla Madonnina (una zona del comune di Pietrasanta, ndr), eravamo in quattro o cinque ragazzi, perché a quel tempo tutti lavoravano nel marmo. Poi, magari, su dieci, continuavano quattro o tre, alla fine, perché era facile stancarsi e lasciare, per andare a fare un’altra cosa. Io invece, chissà perché, ho resistito. Dopo Pietrasanta, sono tornato a Querceta, in via Biagioni, nello studio di due fratelli provenienti da Forte dei Marmi, i fratelli Menchetti. Quando sono entrato io eravamo in tre, dopo sono arrivati altri ragazzi e io sono rimasto lì fino a che non sono partito per il servizio militare. Finita la leva, sono andato in Francia per circa un anno, prima a Strasburgo e poi a Dijon. Lavoravo per un signore che aveva un atelier a Parigi che prendeva lavori fuori città. Dopodiché sono tornato in Italia, ho lavorato in diversi laboratori di Pietrasanta e di Querceta per poi approdare all’Henraux.
R.B.: In che anno siamo?
S.L.: Siamo nel ’68. E da lì inizia tutta la storia, durata venticinque anni.
R.B.: Che poi è la storia dell’Henraux, l’illustre storia dell’azienda, con la presenza dei grandi artisti che lavoravano e lavorano qua.
S.L.: Sì, praticamente lavoravano tutti qua. Ogni momento ne arrivava uno nuovo, dei grandi di allora. C’erano Marino Marini, Henry Moore, poi arrivavano dall’America, dall’Olanda, dalla Germania, dalla Francia, erano tutti qua, gli artisti.
R.B.: Il suo ruolo era quello di smodellatore, no?
S.L.: Sì, si cominciava come smodellatori lavorando prevalentemente sul figurativo, ma piano piano, specialmente con l’arrivo di Henry Moore, il modo di lavorare
cambiò. Iniziammo a lavorare su forme più astratte e meno figurative. Tutti noi poi iniziammo, sotto l’influenza di questi artisti contemporanei, a fare le nostre ricerche artistiche non più basate sul figurativo.
R.B.: E com’era il rapporto con gli artisti?
S.L.: Dipende da artista ad artista. Moore, per esempio, non parlava italiano ed era un po’ schivo: la maggior parte del tempo che passava qua lo passava con il fotografo. Si chiudevano in una stanza, quella che allora chiamavano “la stanza di Moore”, e lì dentro facevano foto su foto, anche per ore intere. Facevano mille riprese, poi veniva da noi, rimaneva venti minuti, un’ora o due e poi se ne tornava via. Quando ci portava i modelli, veniva con una scatola da scarpe, piena di bozzetti molto piccoli. A questo punto ci comunicava le misure delle sculture in marmo da riprodurre in
I maestri dell’Henraux
Sauro Lorenzoni e Paolo Carli
scala, noi eseguivamo ed era un divertimento. Non era una cosa semplice traslare una figura dal piccolo al grande, ma per noi non era difficile, eravamo esperti del mestiere. Moore, in ogni caso era così bravo che azzeccava sempre le proporzioni. La sua grandezza, la sua forza, a sentire anche quello che dicevano gli altri scultori, era proprio quella: di sapere esattamente le proporzioni.
R.B.: Spesso la gente comune, quando scopre che dietro le opere dei grandi artisti contemporanei c’è tanto lavoro degli artigiani, che di fatto realizzano l’opera finale,
R.B.: Moore è stato sicuramente un grande punto di riferimento. Oltre a lui, chi sono stati gli altri maestri con i quali è stato bello lavorare?
«Quando veniva il critico Giuseppe Marchiori, arrivavano tutti gli artisti. Era un vero momento di confronto, di discussione. A parte i più grandi, per gli altri poter parlare ed essere lì nel momento in cui c’era Marchiori era il massimo.»
si chiede dove stia la bravura dell’artista, visto che materialmente l’ha fatta qualcun altro. Essendo uno che le ha fatte queste opere, cosa ne pensa? Dove sta la bravura dell’artista?
S.L.: La bravura dell’artista sta proprio lì, nell’idea e nella capacità di vedere in grande. Una volta, Gino Cosentino, uno scultore siciliano che ha lavorato per un periodo in Henraux, quando vide Moore, per cui impazziva, disse: «Ora capisco perché fa bene queste cose: perché ha gli occhi giusti... perché lui vede anche dietro l’opera».
S.L.: Quella con Marino Marini è stata una esperienza interessante. Anche lui veniva non più di un paio d’ore, ma con lui si lavorava davvero bene. Poi c’è stato Émile Gilioli, che era molto comunicativo, davvero molto in gamba. Ma alla fine erano tutti qua. Quando veniva il critico Giuseppe Marchiori, arrivavano tutti gli artisti. Era un vero momento di confronto, di discussione. A parte i più grandi, tipo Marini o Moore, per gli altri poter parlare ed essere lì nel momento in cui c’era Marchiori era il massimo.
Tutti aspettavano che scrivesse qualcosa su di loro. C’erano artisti che gli facevano una corte tremenda. Di aneddoti in generale potrei raccontarne tanti, di episodi particolari ce ne sono stati molti. Pensi che Moore fece fare una piccola scultura a Carrara, e non era ancora finita che lui la fece portare qua e la fece distruggere. Chissà perché la fece distruggere, non l’ho mai capito, perché a me sembrava giusta... eppure la fece a pezzi.
«Io, gli strumenti che usavo venti, trent’anni fa, li uso ancora. Non ho mai cambiato. La tecnologia non è entrata in me. Alla fine, si sente con le mani.»
R.B.: E poi è arrivata anche tutta la generazione dall’Oriente, come gli artisti coreani, giapponesi, no?
S.L.: Certo. Addirittura, abitavano alle cave. In sette o otto tedeschi, con un professore, dormivano, mangiavano e lavoravano lassù. Era un periodo d’oro.
R.B.: Quindi lei inizia, a quel tempo, anche a fare l’artista.
S.L.: Sì, trovai una scultura abbozzata e lasciata a metà da uno dei ragazzi che lavorava qui, ma che se n’era andato. Perché c’era chi veniva, chi tornava ma anche chi non ritornava. Allora la presi, pensando: «Mah, è già cominciata...». Ci lavorai e la vendetti subito a una signora di Lucca. Da lì mi venne la voglia e continuai. Già prima c’erano i grandi artisti, ma il periodo d’oro per noi fu con l’amministrazione Lavaggi. Io alle otto di mattina ero già a lavorare e a volte sentivo dei passi arrivare. Era il signor Lavaggi che faceva il giro. A volte era già notte, mi guardava, scambiava due parole e poi se ne andava via. Io poi restavo ancora un po’. I marmi io non li compravo: era tutta roba di recupero, avanzi delle grandi sculture che si facevano e che venivano buttati. Se mi piacevano li mettevo da parte e ci facevo qualcosa.
R.B.: Che strumenti usava?
S.L.: Io, gli strumenti che usavo venti, trent’anni fa, li uso ancora. Non ho mai cambiato. La tecnologia non è entrata in me. Per esempio, questi giovani coreani hanno tutti queste piccole macchinette, velocissime e molto pratiche ma quando lavoro con questi strumenti poi devo tornarci a lavorare a mano. Alla fine, si sente con le mani.
R.B.: Parlavamo prima di alcuni aneddoti dei grandi scultori. Per esempio uno su tutti Marino Marini...
S.L.: Con Marino Marini una volta dovevamo fare due grandi sculture, così iniziammo il lavoro. Quando lui arrivò e il lavoro era già abbozzato, disse: «No, non lavorate più, basta così». Qualche giorno dopo è arrivato con un barattolo di vernice, un pennello grande e ha iniziato a fare dei segni su queste sculture abbozzate che ora sono a Firenze. Alla
fine, le ha lasciate così. Il lavoro, quindi, non era nemmeno a metà, ma lui non disse «pago meno» o «non pago», niente da fare, quello che era stabilito ormai era stabilito. L’unica cosa che fece furono due M grandi col cerone nella base, e mi disse che le voleva incise, così io gliele incisi.
R.B.: Di tutti questi artisti chi era il più bravo a lavorare il marmo?
S.L.: Forse Gilioli. Gilioli si impegnava, si sporcava, altri no. Venivano col carbone, col cerone, segnavano tutto, anche Vivarelli veniva spesso col cerone, ma mai che abbia provato a lavorare. Segnavano dove bisognava togliere e basta. Qui fuori si fece un Cristo grande per uno scultore romano, Lorenzo Ferri, un artista figurativo bravo, bravissimo. Mandò un modello grande, sarà stato 4 metri, ma non stava insieme. Lo aveva fatto fare ai suoi studenti, ma in poche parole era fatto male. Insomma, lui si metteva lì a sedere davanti a quel Cristo, perché era già molto anziano, sul palco così, segnava i punti e io e un altro artigiano lavoravamo: quel Cristo venne un capolavoro.
R.B.: Come sono ora le giornate di Sauro Lorenzoni?
S.L.: La mattina mi alzo molto presto, alle 6.30 parto da casa e vado allo studio in Pescarella (zona di Pietrasanta ancora ricca di laboratori di marmo, ndr), da solo, apro e lavoro fino alle 11. Poi torno a casa, faccio la doccia e ci torno la mattina successiva.
R.B.: Cosa guida la scelta per le sue opere? Vedo che alcune sono in marmo bianco, altre in nero, altre ancora in altri materiali...
S.L.: Dipende dalla disponibilità. Il nero ora no, una volta mi piaceva molto, ora mi piace meno. Il bianco... il bianco quello bello, però. Con l’ultimo pezzetto ci ho fatto una scultura per me, è un pezzo che mi aveva regalato Paolo Carli, un pezzo grande che ho fatto a pezzi... l’ultimo pezzetto, delle Cervaiole, l’ho finito ora. Quando dalla cava delle Cervaiole viene fuori il pezzo bello, è davvero bello e si lavora bene.
R.B.: In che senso “si lavora bene”?
S.L.: Non nel senso che è “morbido”, la facilità di lavorazione non sta nella morbidezza o nella durezza... nel senso che il ferro dello scalpello lo taglia bene. Esso reagisce molto bene e lascia il colore così com’è. C’è del marmo che lavorandolo non dice niente, non rende, come dicevano gli antichi. Invece questo no, questo è marmo buono. Anche dopo la lucidatura, che lo cambia molto, prende quel colore carnicino, che non è bianco accecante, prende il colore della pelle, è bello, davvero bello.
R.B.: Un’ultima cosa: in tutte le foto c’è questo bellissimo cappello che avete sempre usato voi artigiani del marmo, ma... da sempre! Quindi la prima cosa che doveva imparare uno appena entrava il primo giorno nel laboratorio...
S.L.: … doveva imparare a farsi il cappello! C’è il Tirreno, per esempio, è della misura giusta, davvero eh! La Nazione non mi torna, ugualmente se prendo un altro giornale. Con il Tirreno invece posso farlo a occhi chiusi.
Sauro Lorenzoni, Paolo Carli e Manuela Della Ducata in Henraux
50 HUDSON YARDS, NEW YORK
A CURA DELLA REDAZIONE
50 Hudson Yards è un edificio per uffici di 78 piani, progettato dallo studio Foster + Partners. Elemento caratteristico della città, la torre occupa un intero isolato, collocandosi sapientemente all’interno della griglia urbana di New York. L’edificio rappresenta una via d’accesso al nuovo e vibrante quartiere newyorchese – Hudson Yards, appunto – offrendo un collegamento diretto con l’adiacente stazione della metropolitana. La torre, premiata con la certificazione Gold LEED che attesta l’eccellente sostenibilità dell’edificio, è parte integrante del distretto di Hudson Yards.
La lobby, rivestita con lastre di marmo Versilys Gold lavorate a “S”, restituisce alla città nuovi negozi, ristoranti, parcheggi per biciclette e collegamenti stradali per una superficie complessiva di 280 mila m 2
L’esuberante hall d’ingresso è animata da due grandi opere d’arte di Frank Stella che celebrano il patrimonio creativo della città attirando le persone all’interno dell’edificio.
La torre offre viste panoramiche su Manhattan, con il fiume Hudson a ovest e l’Empire State Building a est. Uno spazio condiviso al 32° piano dispone di un’area per riunioni ed eventi. La parte superiore della torre presenta un impianto di illuminazione a cupola in acciaio inossidabile, progettato in collaborazione con Jamie Carpenter, che cattura la luce durante il giorno e illumina l’edificio di notte.
UOMO TEMPO SCULTURA
Ricordo dello scultore
Luigi Mormorelli
DI COSTANTINO PAOLICCHI
La vita di Luigi Mormorelli raccontata attraverso lo sguardo di un amico. Un ricordo intimo e carico di stima che ci avvicina a una figura colta e solida. La scoperta folgorante della scultura e del marmo, il rinnovamento personale e professionale dello scultore, l’amore smisurato per la Versilia e per gli uomini che lo hanno aiutato a trasformare le sue visioni in scultura.
Il gruppo di Quattro figure bianche 1972 dello scultore Luigi Mormorelli esposte nel giardino dell’Hotel Royal a Viareggio nel 1973
Mormorelli sentiva l’urgenza di seguire un suo sogno di bellezza, voleva rivelare la capacità di esprimere il proprio mondo interiore con una prova “di sangue e di mano”, come ebbe a definire una sua raccolta di poesie pubblicata nel 1990.
Lo scultore Luigi Mormorelli nel giardino dell’Hotel Royal
Tra tutti coloro che hanno avuto un ruolo importante nel mio percorso umano e professionale, che hanno a vario titolo contribuito alla mia formazione culturale, Luigi Mormorelli è la persona che più di ogni altra ricordo con gratitudine, con affetto e con nostalgia.
Nostalgia delle sere in cui ci si incontrava nella sua modesta casa tra gli olivi a Strettoia, per riprendere ogni volta il nostro cammino di riflessioni e di idee a confronto, che seguiva nel tempo una sorta di filo di Arianna e ci consentiva di avanzare insieme – a poco a poco – nel vasto mistero dell’esistenza.
Lui era più anziano di me di diversi anni e tanto più saggio per le prove sostenute nel corso di una vita non sempre facile ma per molti aspetti straordinaria. Parlavamo per ore e ore, fino a notte fonda concedendoci un po’ di vino come nei convivi platonici, in compagnia di un fuoco vigilato da molta cenere nel caminetto.
Luigi Mormorelli aveva una cultura vasta, solida, di impronta umanistica per gli studi compiuti e per vocazione. Aveva letto di tutto, di filosofia e di storia, di letteratura e di poesia. Parlava un ottimo francese, amava la lingua latina, conosceva il greco. Aveva studiato musica all’Accademia Chigiana di Siena. Era ingegnere. Gran parte dei suoi anni giovanili li aveva spesi a costruire macchine per l’industria alimentare da lui stesso progettate, brevettate e installate ovunque in Italia e in Europa. A Parma aveva avuto un’azienda con oltre duecento operai; era stato presidente dell’Associazione Industriali. Parlava di quel periodo come di un’esperienza importante ma che apparteneva a un passato remoto, più in senso mentale che cronologico.
Alla fine degli anni Cinquanta aveva deciso di imprimere una svolta radicale alla propria vita. Dopo aver venduto l’azienda, andò ad abitare al Colle di Buggiano nell’antica casa materna, dedicandosi allo studio e alla ricerca nel campo delle arti figurative. Quella decisione era certamente maturata dopo una lunga e sofferta riflessione: Mormorelli sentiva l’urgenza di seguire un suo sogno di bellezza, voleva rivelare – a sé stesso innanzitutto – la capacità di esprimere il proprio mondo interiore con una prova “di sangue e di mano”, come ebbe a definire una sua raccolta di poesie pubblicata nel 1990. Si indirizzò all’inizio verso la pittura; nel 1961 aprì uno studio sui Lungarni a Firenze. Dopo l’alluvione del 1966 si trasferì a Parigi. A Firenze aveva conosciuto Soffici, Luzi, Bigongiari; a Bologna aveva incontrato e frequentato Giorgio Morandi. A Parigi conoscerà Moravia, Piero Giani, Dino Buzzati. Dopo aver esposto i suoi dipinti in prestigiose gallerie, alla fine degli anni Sessanta Mormorelli comprende che nella scultura può trovare linguaggi formali a lui più congeniali. La scultura è tridimensionale, richiede una manualità più complessa, più articolata e un impegno che coinvolge soggetti e professionalità diverse. Fin dal 1966 Mormorelli aveva avviato le sue ricerche plastiche e pochi anni dopo, nel 1969, le sue
Il gruppo di Quattro figure bianche, 1972, marmo bardiglietto della cava del Balzello di Arni, cm. 550x200x200
sculture (di terracotta, di bronzo, di tufo, di gesso) mostravano già caratteri distintivi e autonomi, segno di un intenso lavoro e di una rapida maturazione.
È in quello stesso anno 1969 che Mormorelli compie un lungo viaggio in America Latina per approfondire lo studio delle civiltà precolombiane che tanto lo affascinavano. Poi è il marmo che inevitabilmente lo attrae e così la Versilia, Pietrasanta e Seravezza diventeranno, a partire dalla fine degli anni Sessanta, i luoghi deputati a fornire stimoli e collaborazioni, oltre il necessario materiale per il suo lavoro. Andò a vivere a Strettoia con Emanuela Bini, “Signora del labirinto”, che aveva sposato nel settembre del 1970, dalla quale avrà una figlia, Margherita, e la serenità indispensabile per sostenere una nuova grande avventura.
La Versilia, il marmo e gli artigiani del marmo sono i riferimenti di un processo di rinnovamento spirituale e creativo che Mormorelli va sperimentando in quegli anni. Frequenta gli studi di scultura dell’Henraux a Querceta, dove conosce Giuseppe Marchiori, Gillo Dorfles, Pietro Cascella, Henry Moore, Jean Arp e gli altri scultori che – sulla spinta dell’iniziativa del responsabile dell’azienda, Erminio Cidonio – avevano dato vita ad un progetto volto a costituire presso la stessa Henraux un centro internazionale ed un museo della scultura contemporanea. Tra le attività di maggior rilievo, la pubblicazione della rivista Marmo diretta da Bruno Alfieri e la grande mostra del 1972 al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, dove l’Henraux esporrà le opere già acquisite nella propria collezione, realizzate negli studi di Querceta dai maestri (tra cui lo stesso Mormorelli) che avevano aderito all’operazione voluta da Cidonio destinata ad imprimere un nuovo corso alla lavorazione artistica del marmo in Versilia negli anni seguenti. Dopo quell’esperienza, Mormorelli tenne importanti mostre personali: nel 1973 di nuovo al Palazzo dei Diamanti, l’anno dopo al Salon de Mai a Parigi, poi alla Galleria Ada Zunino a Milano, a Montecatini, alla Rotonda di via Besana a Milano, a Monte Verità di Ascona, al Centro Culturale Olivetti di Ivrea, a Lugano, a Campione d’Italia, a Palazzo Mediceo di Seravezza, a San Miniato. Un curriculum professionale, il suo, di assoluto rispetto e documentato dai numerosi cataloghi e dalle monografie dove compaiono le firme di noti critici e storici dell’arte quali Argan, Apollonio, Marsan, Munari, Segato, Solmi ecc.
Giorgio Segato, introducendo l’ampio catalogo critico della mostra di Campione del 1982, rilevava come Mormorelli fosse giunto «…per decisione lungamente meditata e contemplata alla grande misura, al granito nero d’Africa, al marmo bardiglio, a opere caratterizzate da fortissime istanze di inserimento urbanistico.» Superata l’urgenza del modellare, l’espressione immediata della manualità, si era aperto «…allo spazio, alla scultura più vera, quella che fonde gli elementi decorativi nell’architettura, armonizza materia e spazio e definisce con un segnale o richiamo estetico l’ambiente.»
Tutte le sue sculture di marmo, pietra e bronzo sono state realizzate negli studi dell’Henraux a Querceta e poi a Pietrasanta, in particolare nel laboratorio di Sem Ghelardini e presso la fonderia Da Prato. Mormorelli, come Moore, come Arp, come Noguchi, aveva scoperto la grande tradizione di mestiere e cultura – da oltre un secolo – degli artigiani versiliesi, che il direttore della rivista Marmo, Alfieri, non esitava a definire “maestri”.
È proprio il rapporto speciale che si instaurò tra Mormorelli e gli artigiani della scultura, tra Mormorelli e i depositari della cultura del marmo, che vorrei richiamare in questo mio ricordo dell’amico scomparso. La nostra amicizia nacque quasi per caso sul finire degli anni Settanta. Luigi stava preparando un seminario che avrebbe tenuto nel 1979 presso il Centro Culturale Olivetti a Ivrea, strutturato in tre lezioni su Il lavoro dello scultore. Voleva mostrare, in quell’occasione, alcuni degli strumenti tradizionali di lavoro dei cavatori e degli scultori. Cercava una “stampetta”, detta anche “fioretto”, una speciale barra d’acciaio che veniva adoperata nelle cave per predisporre i fori per le mine. Qualcuno gli fece il mio nome, perché a quell’epoca avevo già raccolto diversi materiali destinati al Museo Etnografico, oggi allestito a Palazzo Mediceo di Seravezza. Fu allora che lo conobbi e quando ebbi modo di leggere il testo che aveva curato per quel seminario, rimasi colpito dalla descrizione della Versilia così come lui l’aveva vista, sentita, intuita pur nei pochi anni di frequentazione, rivelando una sensibilità che mai avevo in precedenza riscontrato se non in alcuni degli scrittori versiliesi a me più cari, come Enrico Pea e Sirio Giannini. Luigi Mormorelli mostrava di aver compreso le verità più intime, più profonde, più rappresentative della grande cultura della Versilia, della sua storia lontana e recente che dal marmo ha sempre tratto le ragioni fondamentali del suo esistere e del suo divenire.
Luigi parlava della Versilia come di un luogo di eminente dignità, formata da tre “nazioni” e da tre distinte civiltà con peculiari culture: quella del mare e l’altra della montagna, alle quali si era aggiunta nel corso dell’Ottocento una terza “nazione”, quella del marmo: «Il marmo – scrisse – ha unificato le prime due e ne è divenuto corpo, ipòstasi e sostanza. Il marmo è lo spirito che fa da tramite e percorso tra terra e acqua».
Da questo sentimento derivava il rispetto, l’attaccamento, l’amicizia di Mormorelli per gli uomini del marmo, per gli artigiani che lo aiutavano a concretizzare nel marmo e nella pietra le sue visioni, che lo consigliavano e lo sostenevano, come Sem con cui amava confidarsi ogni volta che doveva intraprendere una nuova opera.
Luigi Mormorelli in apparenza mostrava un carattere scontroso e burbero che adombrava tuttavia sensibilità e generosità, compassione per i dolori del mondo. Al tempo stesso era sempre disponibile al confronto e al dialogo, e così ha cercato e trovato i propri amici e collaboratori nelle persone semplici e pratiche degli studi di scultura di Pietrasanta, che sono stati i veri artefici della notorietà internazionale della cittadina versiliese. Non sopportava di essere indicato come “artista” o come “maestro”: io faccio lo scultore, diceva, e il mio è soltanto un lavoro. Credo che questo aiuti a meglio comprendere la sua dedizione al mestiere di scultore che aveva scelto, consapevole di rinunciare ad una vita facile, agli agi dell’imprenditore quale fu un tempo. E la libertà di pensiero, che lo ha tenuto lontano dal compromesso e lo ha escluso dai vantaggi che se ne possono trarre, costituiva il suo orgoglio e la sua consolazione nelle prove difficili degli ultimi anni.
Quattro figure bianche, 1972, particolare
In alto, Guerriero , figura in tufo versiliese, 1972
In basso, La Veneziana , 1973, stele in granito nero impala, Palazzo dei Diamanti, Ferrara
A destra, la stele in lavorazione nello studio di Sem Ghelardini a Pietrasanta, 1972
Nel 1990 usciva, nella collana Mediterranea dell’editore Mauro Baroni, la raccolta di poesie che aveva scritto negli anni dal 1979 al 1989. L’aveva intitolata Strettoie, non solo in quanto composta a Strettoia nella sua casa tra gli olivi, ma soprattutto perché quelle poesie erano espressione di una sofferta condizione imposta dagli anni e acuita dal suo progressivo isolarsi. E tuttavia erano colme di umanità, pervase da una volontà di partecipazione al comune destino di pena che grava sugli uomini, aperte alla speranza che attingeva dalla fede cristiana: «Credo nel sicuro amore di Cristo/ – affermava in uno degli ultimi componimenti – chirurgo stereobate sonante, mente senza interprete,/ altura, pietra murata, crocchia stretta…».
Strettoie, «… là dove l’anima costretta, ogni tanto s’allarga in poesia non scritta», doveva rappresentare il testamento spirituale di un uomo e di un artista (anche se lui non voleva essere chiamato così!) la cui esperienza ha attraversato gran parte del Novecento e che va collocato tra i maggiori esponenti della scultura internazionale di fine millennio.
Dineo Seshee Bopape, “ Born in the first light of the morning [moswara’marapo]” , veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022
Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano.
Foto: Agostino Osio
TRATTENERE LA POLVERE, SINTONIZZARSI CON LA NATURA
Dineo Seshee Bopape in conversazione con Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli
Nel 2022 la Fondazione e l’azienda Henraux hanno collaborato con l’artista sudafricana Dineo Seshee Bopape in occasione delle mostre al TBA21 di Venezia e al Pirelli HangarBicocca di Milano.
Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano
Foto: Agostino Osio
A destra, Dineo Seshee Bopape
Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano
Foto: Lorenzo Palmieri
La conversazione qui riportata condensa una serie di incontri e dialoghi avvenuti durante la realizzazione della mostra Born in the first light of the morning [moswara’marapo] , presentata in Pirelli HangarBicocca dal 6 ottobre 2022 al 29 gennaio 2023 e curata da Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli, e nei giorni immediatamente successivi alla sua inaugurazione.
Questo testo è un estratto dell’omonima conversazione inclusa nel catalogo Dineo Seshee Bopape: Born in the first light of the morning [moswara’marapo] , pubblicato da Pirelli HangarBicocca e Marsilio Editori, 2022.
Fiammetta Griccioli: Nel tuo lavoro, incontriamo materiali come il carbone, la cenere e l’argilla utilizzati per rimandare a momenti effimeri e rituali, evocando
eventi passati e presenti. Questo ci fa pensare alle diverse forme di materia presenti in mostra, e in particolare alla polvere di marmo che porta la voce della montagna. Mothabeng è un luogo di contemplazione intimo e meditativo. All’interno di una cupola di terra, viene riprodotta una registrazione audio creata in una cava di marmo nelle Alpi Apuane. Il brano combina suoni provenienti da fonti diverse: vibrazioni ambientali e del terreno. In quest’opera si può sperimentare un viaggio nelle profondità della terra. Che cosa hai provato quando hai visto la cava per la prima volta?
Dineo Seshee Bopape: Quando sono arrivata alla montagna, ho provato sensazioni intense nell’osservare quelle che sembravano delle cicatrici. Mentre ero lì, mi sono chiesta cosa provasse la montagna per tutte le azioni che subisce all’esterno e all’interno, e poi anche quale fosse la
Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca Foto: Agostino Osio
In alto e in basso a sinistra, Dineo Seshee Bopape, Lerole: footnotes (The struggle of memory against forgetting) , 2017
Installation view at Pirelli HangarBicocca, Milan, 2022
Courtesy the artist, Sfeir-Semler Gallery, Beirut/ Hamburg and Pirelli HangarBicocca, Milan
Foto: Agostino Osio
In basso a destra, Dineo Seshee Bopape, Mabu, mubu, mmu, sa_ _ke lerole, (sa lerole ke_ _) , 2022 (detail)
Installation view at Pirelli HangarBicocca, Milan, 2022
Courtesy the artist and Pirelli HangarBicocca, Milan
Foto: Agostino Osio
«Mothabeng significa “della montagna”, e pensavo alla filosofia/ cosmologia continentale africana...alle montagne... e a come conservano i ricordi, le ossa della terra, il sedimento primordiale che comunica attraverso la montagna, con la polvere e la terra-roccia, questo viaggio ha cambiato ancora una volta le mie idee sugli oggetti in marmo-pietra.»
sua relazione con le altre montagne del mondo. Cosa c’è nella polvere?
Lucia Aspesi: La visita è stata molto intensa. Con i nostri sensi è stato possibile esperire i volumi, i vuoti e le superfici delle rocce. Si è percepita l’umidità della cava e il riflesso accecante della luce sul marmo. Dopo quella visita, è stato evidente che sarebbe stata la dimensione acustica l’oggetto dell’indagine e che ci avrebbe riportato al sito un anno dopo.
D.S.B.: Sì, avevamo trovato dei vecchi tunnel in cui sperimentare era una gioia. Abbiamo fatto un viaggio per realizzare delle registrazioni sulle Alpi… abbiamo registrato mentre “scrivevamo” sulla montagna, abbiamo delineato varie forme, forme che si ritrovano in svariate culture a livello globale fin dai primi tempi in cui abbiamo iniziato a fare scarabocchi. Mothabeng , infatti significa “della montagna”, e pensavo alla filosofia/cosmologia continentale africana... alle montagne... e a come conservano i ricordi, le ossa della terra, il sedimento primordiale che comunica attraverso la montagna, con la polvere e la terra-roccia, questo viaggio ha cambiato ancora una volta le mie idee sugli oggetti in marmo-pietra.
F.G.: Nel tuo lavoro ti basi su diverse cronologie: le ere geologiche dei minerali, le costellazioni e le fasi lunari, e le storie sociali a cui si ispira anche il titolo della mostra.
D.S.B.: Born in the first light of the morning [moswara’marapo] [Nato alla prima luce del giorno] : appena prima che sorga il sole, la separazione (in
realtà, l’intervallo) tra la notte e il mattino (successivo), quindi quello “spazio intermedio”, transitorio quasi come una sala d’attesa (attraverso il tempo), ma anche così breve, così corto, dove avviene la magia. Moswara’marapo è un’espressione, una frase sepedi che significa “maestro di cerimonie”, ma è anche letteralmente “il possessore di ossa”. Le ossa sono il minerale che custodisce la memoria del corpo, del sé e si riferisce anche ad altre “ossa” presenti in mostra. L.A.: Anche la mostra si sviluppa come uno spazio transitorio, con la luce naturale che modella i volumi dalla mattina al tramonto.
D.S.B.: Sì, questo si verifica anche nel rapporto tra la luce e gli oggetti: quanto velocemente un oggetto esce dal campo visivo; anche la relazione tra il modo in cui la luce descrive il punto in cui l’oggetto appare per la prima volta nella sua posizione e l’oggetto stesso rappresenta un evento nel tempo, quanto dura (persiste) la memoria di qualcosa, il periodo transitorio tra l’attimo in cui la cosa è (era) e gli effetti successivi, quando questi si verificano. Quindi questo processo potrebbe essere considerato simile, appartenente a una famiglia analoga, allo stesso gruppo WhatsApp, del momento del crepuscolo o dell’alba. E anche per quanto riguarda il modo in cui avviene la transizione tra le diverse opere e i loro rapporti reciproci: quando e come il suono di un’opera entra in quella successiva, il punto di incontro, l’emorragia del suono o l’emorragia degli odori (nello stesso campo visivo).
DISEGNI IN MARMO BIANCO ALTISSIMO*
DI LUCIEN KAYSER FOTO DI STUDIO VESOTSKY
Oltre 400 metri di linee in marmo con texture diverse, provenienti dall’Henraux, nate dalla creatività di Bruno Baltzer e Leonora Bisagno, allietano l’occhio e l’animo tra il campo sportivo e la sede del Lycée de l’Athénée de Luxembourg. Un prezioso lavoro di intarsio e un intervento apparentemente minimalista da cui emerge la rilevanza culturale del gesto ludico.
*Articolo uscito sulla rivista “Land”, l’8 luglio 2022
Si potrebbe parlare di paradosso dello sport, dal momento che si confonde con i sempre più complessi percorsi della competizione, andando al di là dell’attività ricreativa. Eppure, nel suo Homo Ludens, pubblicato nel 1938, l’olandese Huizinga vedeva le cose in modo diverso, sostenendo che la cultura nasce nel gioco e come gioco. C’è da dire inoltre che, sia nel gioco che nello sport, servono regole, e che il più delle volte si parte da un’area ben definita, per esempio un campo da calcio o una pista di atletica. In questo secondo caso, l’atleta, durante uno sprint o una staffetta, deve fare attenzione a non toccare la linea della sua corsia, poiché verrebbe subito squalificato.
Questi vincoli, questo corsetto che impedisce una condotta sfrenata, garantiscono l’equità, l’imparzialità e, grazie al fair play, l’accettazione leale delle regole. L’arte invece se ne frega, dato che ciò che ama di più è proprio la sregolatezza. Di conseguenza si dà alla pazza gioia, scambia i gol a calcio, aumenta i palloni a basket, fa giocare in costumi creati da stilisti italiani. Devia e trabocca in tutti i sensi. Qui ci troviamo tra un campo sportivo e un edificio scolastico, l'Athénée de Luxembourg, boulevard Pierre-Dupong. Nel mezzo, come via di passaggio, uno spazio vuoto con qualche albero e un accesso ai diversi luoghi, indispensabile ai vigili del fuoco in caso di necessità. Sì, avete indovinato: per un intervento artistico qui non resta che il terreno. La coppia Baltzer & Bisagno l’ha capito perfettamente, e questo spazio, oggi, allieta l’occhio e diletta l’animo.
Sono sette le linee che giù intorno al campo delimitano le corsie dei corridori. E come se fossero saltate in aria, come se fossero evase dal loro disegno troppo rigido all’interno di un ovale, eccole di colpo in alto, pronte a ogni sorta di fuga e facezia. A volte avanzano dritte, decise a raggiungere il più velocemente possibile qualche punto che si fa fatica a individuare, altre volte si fanno sinuose, se non circolari, serpentine che esitano a procedere o che addirittura
si dilettano lungo il percorso. Spetta a noi seguirle, siamo noi che scegliamo se fermarci quando loro si fermano o proseguire prolungandole grazie a un pizzico di immaginazione. Non siate poi così sicuri di vederle tornare tanto presto alla loro reclusione, una volta che hanno assaporato tutta questa libertà.
Queste linee, colte da una follia infusa dagli artisti, sono di varie lunghezze: corte meno di dieci metri e lunghe più di cento. In tutto fanno 415,50 metri, suddivisi in 446 unità di quasi un metro. Decorazioni di un bianco candido sul pavimento grigio realizzate in marmo Bianco Altissimo, creano texture diverse, prodotte grazie a un prezioso lavoro di intarsio ben conosciuto nell’arte dell’ebanisteria.
Bruno Baltzer e Leonora Bisagno sono frequentatori abituali delle cave apuo versiliesi. Ricordiamo l’enorme blocco che avevano fatto tagliare per competere con Mussolini che, nel 1928, fece estrarre il più grande monolito per un monumento romano che inneggiava alla sua gloria.
Ma Baltzer & Bisagno sono modesti, appartengono all’arte minimalista (nel senso di interventi minimi che sortiscono sempre un certo effetto). Il loro monolito, che avevano tagliato in pezzi (cinque segmenti in tutto), alla fine divenne una panchina a più posti: la Panchina di Luis Simon (avrete riconosciuto l’anagramma) è sempre a disposizione delle persone per sedercisi.
Con Baltzer & Bisagno, riprendendo il discorso iniziale, ritroviamo oggi in Arabesque il lato ludico del gesto, ma come il gioco anche l’arte è seria: in questo modo si riconducono le cose, proprio come con i simboli troppo enfatizzati, a misura d’uomo, dando loro una dimensione o un significato sociale. Il caso vuole poi (o forse non è un caso) che le sette lineeche sono anche partenze - rimandino al numero di anni trascorsi normalmente nella scuola superiore in questione. Sulla linea di partenza, dunque, e che sia un cammino proficuo e positivo.
LA VOCE
DEGLI ARTISTI: BALTZER & BISAGNO
L’opera Arabesque nasce dalla voglia di progettare i luoghi in cui viviamo in una continuità visiva e di significato, grazie all’integrazione armonica degli spazi e delle loro intersezioni.
Il Lycée de l’Athénée Luxembourg, istituto dedicato all’istruzione scolastica dei giovani – i cui apprendistati coniugano il senso del rigore e la realizzazione – propone forme evolutive, in particolare nei principali luoghi di passaggio e di accesso alle diverse zone della struttura.
Arabesque prende come riferimento le linee perfettamente calibrate della pista di atletica adiacente che, a causa di un’inaspettata irregolarità, superano i limiti della forma classica adottata fin dall’antica Grecia e si liberano sul passaggio verso l’ala
sud del liceo. I corridoi rettilinei, con un sorprendente salto dell’immaginazione, si affrancano così dai loro stessi confini per diventare tracciati sinuosi e creativi che propongono percorsi insoliti. Attraverso l’iscrizione permanente, ma mai noiosa, attraverso varie prospettive, linee curve o rette, tracciati geometrici o serpentini, è possibile seguire una traiettoria o abbandonarla per imboccarne un’altra, come accade nel meraviglioso movimento della mente quando seguiamo i fili del pensiero. Senza bordi, senza limiti, senza un senso di marcia, senza traguardo, ognuno può seguire il proprio percorso, assecondando il proprio ritmo, lasciandosi trascinare dalle note di una melodia o dalle figure di un arabesco. Così le sette linee, come i sette
L’area del Lycée de l’Athénée de Luxembourg prima (in alto) e dopo (in basso e a destra) l’intervento di Baltzer & Bisagno
L’opera permette una percezione multipla e modulata a seconda dei diversi punti di osservazione: uno sguardo ravvicinato, una prospettiva aerea, un piano rialzato e infine una vista laterale.
anni dell’istruzione superiore, rendono un quadro dei percorsi personali e collegiali che anche il Datzemisch (scultura figurativa di un allievo all’entrata dell’Athénée) potrebbe intraprendere.
Arabesque esprime così, con un gesto ludico e diretto altrove, la magia della traccia, atto principale della rappresentazione di sé e del mondo. Mescolando linee quasi matematiche, forme spontanee come scarabocchi liberati su una pagina bianca, che
questo luogo, che è quella di un passaggio che collega le diverse zone del liceo, dà accesso ai siti contigui. L’opera permette una percezione multipla e modulata a seconda dei diversi punti di osservazione: uno sguardo ravvicinato se si cammina sul luogo stesso o stando seduti su uno dei banchi, una prospettiva aerea dai diversi piani dell’edificio, un piano rialzato dalla terrazza dell’ala nord, infine una vista laterale dal balcone che si trova all’estremità
ricordano la poetica surrealista o geoglifi immaginari, il disegno rivela la linea come linguaggio comune alla scienza e alle arti. Arabesque si presenta come una sorta di intarsio sul terreno, grazie all’inserto di marmo bianco come prolungamento cromatico delle linee della pista, che illumina la superficie monocromatica punteggiata da aree circolari alberate. L’installazione, rispettando la funzione fondamentale di dell’ampia zona del sagrato dell’Ateneo. Arabesque si basa sulla pietra di carbonato di calcio, il prezioso marmo Bianco Altissimo, il cui utilizzo classico e monumentale viene qui trasfigurato per realizzare un’installazione leggera e complessa che, interagendo con lo spazio circostante ed essendo integrata in esso, dà vita a una scenografia urbana ben riuscita.
Notiziario
HENRAUX REALIZZA
IL GRANDE MAX DI SANDRO GORRA
IN BIANCO ALTISSIMO
DELLE CERVAIOLE
Henraux ha partecipato alla realizzazione della mostra Sandro Gorra.
L’arte dell’attimo con la produzione in marmo Bianco Altissimo del Grande Max, la scultura monumentale che è stata esposta in piazza a Pietrasanta dal 6 marzo al 5 giugno 2022.
L’opera nasce dalla stretta collaborazione tra Henraux e Sandro Gorra che per la prima volta si misura con il marmo nel territorio che storicamente è sinonimo stesso di scultura. Il risultato è composto da una giraffa adulta e un cucciolo di giraffa rannicchiato mentre accoglie il gesto fortemente simbolico di cui è fatto oggetto: il passaggio delle macchie che il Grande Max poggia delicatamente sul piccolo spogliando sé stesso del suo caratteristico mantello.
Un gesto protettivo, una prima investitura di vita, il senso profondo e generoso del donare la conoscenza e l’esperienza, qui simbolicamente tramutate nelle parti che l’adulto cede al piccolo accovacciato davanti a lui. È intrinseca la purezza del messaggio
del Grande Max: è l’essenza che divide la terra tra grandi uomini e uomini, tra chi sa donare e chi no.
La realizzazione di questa imponente scultura per la mostra pietrasantina è, inoltre, l’anello di congiunzione tra l’artista e il territorio che si esprime sia nell’utilizzo del marmo delle cave Cervaiole sia nella collaborazione con Henraux che, da sempre, ha collaborato e ospitato grandi maestri dell’arte contemporanea e del passato invitandoli a cimentarsi con i pregiatissimi materiali lapidei delle sue cave negli storici laboratori di scultura all’interno degli stabilimenti di Querceta (LU).
Il Bianco Altissimo, uno statuario di straordinaria bellezza, plasticità e preziosità, è il materiale scelto per la realizzazione del Grande Max, dal peso di quattro tonnellate per tre metri di larghezza e oltre due metri di altezza.
L’opera che nasce per volontà del collezionista Attilio Bindi è stata commissionata ad Henraux dal noto imprenditore che l’ha data in prestito al
Comune di Pietrasanta per la mostra di Gorra. Attilio Bindi ha instaurato con Henraux e con il suo presidente Paolo Carli una fattiva collaborazione su una serie di progetti che vedono protagonista l’imprenditore milanese in Versilia.
Sandro Gorra è rimasto particolarmente impressionato dallo stabilimento di Henraux, vissuto dall’artista come una sorta di città immaginaria composta da grandi solidi, i blocchi di marmo. Non da meno l’entusiasmo dell’artista durante la lavorazione della scultura, come egli stesso ha dichiarato: «È stato fantastico vedere nascere la mia prima scultura in marmo grazie ad Henraux, ai suoi tecnici e alle sue maestranze. Il mondo della scultura è ai piedi del Grande Max che nasce con un’identità molto forte, possente, simbolica. Una scultura che mi ha fortemente emozionato e mi ha permesso di scoprire il mondo del marmo e vedere la nascita della grande giraffa bianca.»
Durante la lavorazione della scultura si
DI ROSI FONTANA
è creato un forte legame tra l’artista e l’azienda ed è nato, in particolare, un rapporto di grande stima tra Sandro Gorra e il Presidente di Henraux, Paolo Carli che, attraverso questa nuova collaborazione, vede il riaffermarsi dell’eredità lasciata da Erminio Cidonio, la cui ampia visione del ruolo dell’azienda a sostegno degli artisti continua a caratterizzare il ruolo di Henraux nell’ambito della scultura e dei rapporti con i maestri dell’arte. La mostra di Sandro Gorra, a cura di Gianluca Marziani, che ha ospitato il Grande Max, composta da 42 ope-
re complessive, organizzata con il Comune di Pietrasanta, in collaborazione con la galleria Laura Tartarelli Contemporary Art, con il patrocinio della Regione Toscana e della Provincia di Lucca, e grazie al sostegno di Monini S.p.A., Attilio Bindi ed Henraux
S.p.A, ha interessato, nel suo percorso espositivo, Pietrasanta e Marina di Pietrasanta e in particolare la Piazza del Duomo e il Centro Storico, la Chiesa e il Chiostro di Sant’Agostino, la galleria Laura Tartarelli Contemporary Art e Piazza Leonetto Amadei antistante al Pontile di Marina.
IL NUOVO SHOWROOM LASTRE 2
La Società Henraux, per adeguarsi alle proprie esigenze produttive determinate da crescenti richieste di mercato e in riferimento a nuovi programmi e nuove strategie di sviluppo commerciale, ha completato la realizzazione di un importante progetto aziendale che consisteva nella ristrutturazione e nell’ampliamento di un fabbricato preesistente, un vasto capannone realizzato nel 1976 e che nel corso degli anni ha subito diverse modifiche.
Si trattava di un opificio industriale di forma rettangolare con copertura a volta, in origine utilizzato per la seconda trasformazione del marmo, lucidatura e imballaggio dei prodotti finiti, di circa 1.500 mq.
L’intervento fa parte del piano di riorganizzazione, riqualificazione e potenziamento del vasto complesso industriale societario in Querceta, avviato dal presidente Paolo Carli nei primi anni Duemila e che ha già trasformato in profondità la storica azienda per renderla maggiormente competitiva e in grado di affrontare le
grandi sfide dei mercati internazionali. Il progetto, predisposto dall’architetto Enrico Carli, è stato concepito conciliando le più moderne tecnologie costruttive con le esigenze estetiche che Henraux ha imposto in altre strutture del proprio complesso industriale: nello showroom di recente realizzazione per la linea di prodotti di design in marmo del marchio Luce di Carrara, nella ristrutturazione della vecchia segheria destinata alle attività della Fondazione Henraux e nella edificazione della nuova mensa aziendale. È stato quindi realizzato un edificio monopiano di 3.810 mq, una struttura di grande senso estetico composta da due campate di circa 2.300 mq, il vero e proprio showroom lastre, e da una campata centrale di mq 1.510 che assolve alla funzione di area di pre-posa. Completano la struttura un’area dedicata ai laboratori di scultura (circa 170 mq), un’area espositiva, direzionale e servizio disposta su tre livelli (circa 540 mq) ancora in fase di completamento.
INCONTRI IN FONDAZIONE
HENRAUX: L’ARCHITETTURA, IL DESIGN, L’ARTE
La Fondazione Henraux ha ospitato –presso la propria sede di Querceta di Seravezza (LU) – due appuntamenti culturali dedicati al mondo dell’architettura, del design e dell’arte.
I due incontri hanno avuto luogo negli spazi della Fondazione dove si trova la parte più antica dell’Henraux: è stata infatti l’ottocentesca segheria – suggestivo impianto di archeologia industriale – a completare la già splendida cornice dell’evento (che vedeva ancora aperte al pubblico le due mostre che hanno onorato i festeggiamenti per i 200 anni della collezione).
Il calendario – 3 e 10 settembre scorsi – ha visto la presenza di importanti figure nazionali e internazionali del mondo dell’arte, dell’architettura e del design, che hanno dialogato e si sono confrontate in interessanti dibattiti, anche con il pubblico presente.
I protagonisti del primo appuntamento sono stati Marco Casamonti e Laura
Andreini, architetti e co-fondatori di Archea Associati, Attila Veress, designer e giovanissimo Direttore Artistico del brand di design Luce di Carrara e Marva Griffin Wilshire, fondatrice e curatrice del SaloneSatellite e International Press Director del Salone del Mobile di Milano. A condurre è stato il filosofo e storico del design di fama internazionale Aldo Colonetti. Sempre all’interno della sede di Querceta di Seravezza, la Fondazione Henraux ha ospitato il secondo appuntamento dedicato all’arte moderna e contemporanea.
Paolo Carli, Presidente di Henraux e Fondazione Henraux, la cui visione è sempre stata quella di aprire l’azienda e la Fondazione ai giovani talenti – che ha preso parte ed entrambi gli incontri –, era accanto a Michele Coppola, Executive Director Arte, Cultura e Beni Storici Intesa Sanpaolo, ente bancario che ha permesso la
realizzazione della mostra Collezione Henraux 1960-1970, sia alle Gallerie d’Italia di Milano, sia in Fondazione.
In qualità di esperti poi Luca Beatrice, critico d’arte, storico del cinema, curatore e accademico italiano, Edoardo Bonaspetti, Direttore Artistico della Fondazione Henraux e Costantino Paolicchi, scrittore e storico della Versilia. Roberto Bernabò, Vicedirettore Il Sole 24 Ore, ha condotto l’incontro del 10 settembre.
Il marmo, come elemento fondamentale e imprescindibile del territorio, trova in Henraux un’applicazione che poche realtà riescono a mettere insieme: architettura, design e arte rappresentano infatti il DNA di una storia lunga duecento anni che ha sullo sfondo competenza e passione, unite alla capacità di lungimiranti e importanti investimenti e ad uno sguardo sempre aperto a discipline e linguaggi diversi tra loro ma uniti dallo stesso materiale. Questi incontri hanno rappresentato delle occasioni uniche per ascoltare e dialogare di cultura del marmo, di storia dell’architettura e del design, di orientamento al futuro per i giovani e di quei temi che hanno fatto del territorio e dell’Henraux uno dei principali messaggeri del Made in Italy nel mondo.
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Progetto grafico e impaginazione Silvia Cucurnia, Thetis Srl Via Oliveti 110 • 54100 Massa
Finito di stampare nel mese di aprile 2023 presso Grafiche G7 sas, Genova