5
MARMO Rivista annuale Numero 9, 2020 Maggio Direttore responsabile Paolo Carli Direttore Costantino Paolicchi Vice Direttore Aldo Colonetti Coordinamento editoriale Eleonora Caracciolo di Torchiarolo Coordinamento Manuela Della Ducata
6
Edoardo Bonaspetti
16
Grafica Silvia Cucurnia, Thetis Editore Henraux SpA Fotolito e Stampa Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, Pisa
Traduzioni Romina Bicicchi, Daniel Olmos Fotografie Mimmo Capurso, Mauro Crespi, Nicola Gnesi, Angelo Margutti, Lorenzo Palmieri, Miro Zagnoli
Paolo Carli
JENNY HOLZER. TUTTA LA VERITÀ
Redazione Eleonora Caracciolo di Torchiarolo, Nicola Gnesi
Contributors Alessandra Baldini, Roberto Bernabò, Edoardo Bonaspetti, Aldo Colonetti, Alessia Delisi, Turan Duda, Valentina Lonati, Susanna Orlando, Costantino Paolicchi
EDITORIALE
24
Copertina Nicola Gnesi
LOW-KEY LUXURY Valentina Lonati
ROSALDA GILARDI. LA SCULTURA COME SENTIMENTO DEL MONDO Costantino Paolicchi
34
“Stampato sotto gli auspici della Henraux SpA” Registrazione presso il Tribunale di Lucca no 3/2017 del 24/02/2017
44
LA LUNGA STRADA VERSO L’ALTISSIMO Costantino Paolicchi
EXPO DUBAI 2020: PADIGLIONE ITALIANO, METAFORA INFINITA Aldo Colonetti
56 66
ADI DESIGN MUSEUM. AUTOBIOGRAFIA DEL MADE IN ITALY Aldo Colonetti
RENZO MAGGI. POETICAMENTE SCULTORE Roberto Bernabò
76
LA FORMA DEL GUSTO. UNA CONVERSAZIONE CON DAVIDE OLDANI E ATTILA VERESS Alessia Delisi
86 96
MATERICITÀ, MEMORIA, ARTE Turan Duda
ISAMU NOGUCHI, TAJAPIERE Alessandra Baldini
105
NOTIZIARIO
DI PAOLO CARLI PRESIDENTE DI HENRAUX E FONDAZIONE HENRAUX
Questo numero di Marmo vede la luce in un momento complesso, non solo per la redazione che gli ha dato vita insieme a tutto il team di Henraux, ma per l’Italia intera. È stato infatti realizzato nel pieno del lockdown imposto dalla pandemia da Covid19, quindi in una condizione per molti di “smart working” e con l’obbligo di una lontananza fisica che definirei però solo apparente in quanto le teste ed i cuori erano più vicini che mai. Costruito, articolo dopo articolo, con un coinvolgimento speciale sia sul piano professionale sia su quello personale ed emotivo, questo numero di Marmo – quest’anno più che in altri anni –, intende essere un piccolo ma solido contributo al ritrovato orgoglio nazionale che sarà così prezioso nei mesi complessi che ci attendono, ma che ci auguriamo essere anche pieni di un rinnovato entusiasmo e di nuove progettualità. Già dalla copertina abbiamo voluto che il messaggio arrivasse forte con la scelta di riprodurre il tricolore con alcuni dei nostri marmi italiani: il Verde Alpi, il Bianco Statuario Altissimo e il Rosso Verona, sorretti da due mani impolverate, mani ferme, che lavorano. La ripresa da questo momento difficile non può che cominciare da qui: dalla creatività e dal nostro saper fare che sono unici al mondo. Senza retorica ma solo con la consapevolezza di ciò che il Made in Italy è e dovrà tornare ad essere: la base sulla quale appog-
giarsi per trovare la spinta per ripartire con nuovo impeto. Henraux è, in questo, davvero fortunata perché ha nel proprio DNA basi forti quali l’architettura, il design e l’arte. In questo nuovo numero di Marmo ne portiamo esempi eccellenti: nell’architettura, con il progetto del Padiglione Italiano all’Esposizione Universale 2021 di Dubai, che tra visione, natura e artificio, non sarà solo luogo espositivo, ma anche rappresentazione dei migliori talenti italiani; nel design, con la presentazione dell’ADI Design Museum che oltre a raccogliere la preziosa e unica collezione dei Compasso D’Oro, sarà centro internazionale destinato a tutte le attività che ruotano intorno al design; nell’arte, con la riscoperta della figura di un’artista che è molto cara all’Henraux: Rosalda Gilardi, indicata spesso come erede artistica di Henry Moore; e da ultimo nel food, con un progetto di design ideato dallo chef Davide Oldani e dal designer Attila Veress insieme al nostro marchio Luce di Carrara. Nasce in questo numero anche la sezione “I maestri dell’Henraux” che raccoglie approfondimenti e interviste su alcuni dei grandi artisti con cui l’azienda ha avuto il privilegio di lavorare: si inizia con Renzo Maggi che, in un’intensa conversazione con Roberto Bernabò, disegna un proprio ritratto carico di cultura e umanità. Come sempre, e quest’anno più che mai, vi auguro una buona lettura!
5
Portfolio
Exhibition view: Tutta la Verità (The Whole Truth), GAMeC, Palazzo della Ragione, Bergamo, 2019. Ph. Nicola Gnesi
6
Portfolio
JENNY HOLZER. TUTTA LA VERITÀ A CURA DI EDOARDO BONASPETTI
In occasione della mostra alla GAMeC di Bergamo, tenutasi dal 30 maggio al 1° settembre 2019, la Fondazione Henraux, partner del progetto, è stata orgogliosa di produrre nove panchine in marmo, le cui superfici sono state incise con frasi scelte dall’artista, utilizzando la tecnologia e le maestranze dell’azienda.
7
Portfolio Arte
Jenny Holzer, Altra gente, 2019 proiezione digitale. Jenny Holzer, Dormo, 2019 panca in marmo Versilys. Installation view, Tutta la Verità (The Whole Truth), GAMeC, Palazzo della Ragione, Bergamo, 2019. Ph. Lorenzo Palmieri
8
Portfolio Arte
9
Portfolio Arte
Jenny Holzer, La gioia, 2019, panca in marmo Versilys. Installation view, Tutta la Verità (The Whole Truth), GAMeC, Palazzo della Ragione, Bergamo, 2019. Ph. Lorenzo Palmieri
10
Portfolio Arte
11
Portfolio
12
Portfolio Exhibition view: Tutta la Verità (The Whole Truth), GAMeC, Palazzo della Ragione, Bergamo, 2019. Ph. Lorenzo Palmieri
“No need of words just you or rather us.” James Schuyler “Passivo come un uccello che vede tutto, volando, e si porta in cuore nel volo in cielo la coscienza che non perdona.” Pier Paolo Pasolini “Out of suffering power is born Out of power’ suffering is born.” Anna Ś� wirszczyńska
“Gente in fuga davanti ad altra gente.” Wislawa Szymborska Sono alcune delle frasi incise sulle nove panchine che hanno composto l’installazione dell’artista americana per la sua mostra personale “Tutta la verità (The Whole Truth).” Pensieri e versi di poetesse e scrittori rivolti ai visitatori che hanno potuto soffermarsi a leggerle o anche sedercisi sopra, poiché pensate come spazio privilegiato per una pausa o un momento di contemplazione. I lavori disposti in cerchio nella penombra della Sala delle Capriate a Palazzo della Ragione di Bergamo, luogo simbolo in cui si amministrava la giustizia cittadina, erano circondati da scritte luminose proiettate sulle ampie pareti medievali decorate da affreschi rinascimentali. La forza della parola e l’accessibilità al pubblico della sua opera sono tratti caratteristici della ricerca dell’artista dagli anni ’70, siano esse veicolate attraverso una
13
Portfolio
14
Portfolio Jenny Holzer, With you, 2019, panca in marmo Versilys. Courtesy Fondazione Henraux Ph. Nicola Gnesi
panca, una proiezione o un poster. Holzer ha fatto del linguaggio il suo strumento d’emancipazione e riflessione, individuale e collettiva. La mostra curata da Lorenzo Giusti, direttore artistico della GAMeC di Bergamo, e prodotta in collaborazione con Fondazione Henraux, ha intrecciato produzioni visive antiche e contemporanee, temporalità e impegni civili. I versi scelti dall’artista toccano temi quali identità e genere, stimolano riflessioni sull’integrazione e questioni di appartenenza ed esclusione. Prospettive per etiche individuali e collettive che ci pongono di fronte alle nostre fragilità
e contraddizioni. Il primo esercizio utile nell’approcciare il lavoro dell’artista americana è cercare di guardarsi con altri occhi e interrogarsi sulla natura delle nostre contraddizioni, magari immergendoci in territori inesplorati. È bene ricalibrarsi attorno ai nuovi paradigmi e modelli che gli scenari attuali ci impongono. Le grandi migrazioni dovute al cambiamento climatico, il collasso di interi ecosistemi, le economie in crisi, le nostre debolezze e iniquità sono manifestazioni di un mondo che sta mutando e ci mettono di fronte a sfide e scelte che spettano all’individuo, come soggetto e come parte di una comunità.
15
Design
Design
LOW-KEY LUXURY
DI VALENTINA LONATI
A sinistra, Emil Humbert e Christophe Poyet a AD Intérieurs 2019
In collaborazione con Luce di Carrara, lo studio monegasco Humbert & Poyet progetta una sala da bagno dal sapore neoclassico in occasione di AD Intérieurs, l’evento organizzato ogni anno da AD France. Attraverso spazi concepiti con grazia e ricercatezza concretizzano così, anche con questo progetto, la loro idea di lusso discreto.
17
Design
In alto e a destra, doccia in ottone e marmo Verde Alpi e vasca in marmo Verde Alpi, design Humbert & Poyet
18
Ogni processo di metamorfosi presuppone fluidità, che sia essa materica o concettuale. Una danza dal prima al dopo, che nel caso specifico del design si esprime attraverso elementi che portano con sé il concetto di trasformismo. Nel settembre del 2019, AD Intérieurs, l’evento organizzato ogni anno da Architectural Digest France in occasione di Maison&Objet e della Paris Design Week, ha festeggiato la sua decima edizione con una mostra dedicata proprio al tema della metamorfosi, allestita all’interno dell’Hôtel de Coulanges di Parigi. Un tema quasi profetico, se osservato con gli occhi di oggi. Ad architetti e designer, tredici per la precisione, è stato chiesto di interpretare l’immaginario legato alla transizione attraverso la progettazione di ambienti capaci di raccontare l’incontro
– nella sua forma più alta – tra il design e l’artigianato. Tra i partecipanti alla rassegna, il duo Humbert & Poyet, formato dagli architetti Emil Humbert e Christophe Poyet. Il loro sodalizio, nato nel 2008 tra Montecarlo e Parigi, ha dato vita negli anni a quella che definiscono “Low-key luxury architecture.” Spazi disegnati con cura ed eleganza, interpreti di un lusso sussurrato, concepiti per la vita di tutti i giorni. Con un’ambizione: quella di evocare stati d’animo, pensieri, idee. «Durante lo sviluppo dei nostri progetti, il discorso ruota sempre attorno all’applicazione di un’idea. Il modo in cui ci completiamo a vicenda è alla base di tutto quello che facciamo, e ci assicura di creare uno spazio esattamente come l’avevamo immaginato», spiega
Design
19
Design
Vasca in marmo Verde Alpi, design Humbert & Poyet
20
Design
21
Design
A unire i loro progetti è il dialogo costante tra sinuosità e rigore, tra massimalismo e minimalismo, da cui scaturisce un’opulenza contenuta, quasi discreta, che si manifesta nella scelta calibrata della palette cromatica – l’oro, il bronzo, i pastelli, il nero – e dei materiali – l’ottone, il legno, la pietra.
A destra, lavabo in marmo Bianco Macchietta, design Humbert & Poyet
22
Christophe Poyet. Nel loro studio monegasco o nell’ufficio parigino, Emil Humbert e Christophe Poyet disegnano con tratto lieve interni privati, negozi, hotel e ristoranti in tutto il mondo. A unire i loro progetti è il dialogo costante tra sinuosità e rigore, tra massimalismo e minimalismo, da cui scaturisce un’opulenza contenuta, quasi discreta, che si manifesta nella scelta calibrata della palette cromatica – l’oro, il bronzo, i pastelli, il nero – e dei materiali – l’ottone, il legno, la pietra. L’ispirazione maestra è sempre l’Art Déco francese, a cui si aggiungono le citazioni ai grandi designer e architetti del XX secolo, a Le Corbusier, al Bauhaus, a Giò Ponti. Il concetto di tempo, nei loro interni, è evanescente: epoche e riferimenti storici si confondono, dando vita ad ambientazioni eclettiche, estrose. In tutti i casi, però, equilibrate. Lo stesso approccio è stato adottato per l’esposizione AD Intérieurs: qui, Humbert & Poyet hanno concretizzato l’idea di metamorfosi attraverso una sala da bagno dagli accenti neoclassici, ispirata all’architettura delle ville palladiane ma immersa in una dimensione sospesa. La dicotomia tra l’austerità delle geometrie e la rotondità delle linee si materializza nei due elementi centrali dello spazio da loro ideato: la vasca scultorea realizzata da un grande blocco di marmo Verde Alpi, di Luce di Carrara, e la doccia lavorata come una gabbia di bronzo, eretta sulla base marmorea. Se la prima si impone con i suoi volumi pieni e il tono intenso delle venature, la seconda sembra quasi spiccare il volo avvitandosi su se stessa. Due elementi scenici, quasi teatrali,
espressione massima dell’estetica del duo francese. All’origine di entrambi, quel processo metamorfico da cui scaturisce il marmo: la trasformazione delle rocce sedimentarie, la ricristallizzazione del carbonato di calcio, la formazione della calcite cristallina. Si ritorna così al fil rouge della mostra: la metamorfosi, qui rappresentata proprio dal marmo. E si procede oltre: nelle mani di Humbert & Poyet, la pietra diventa materia docile e malleabile, contribuendo alla definizione di un luogo metafisico eppure denso, reale. Un palcoscenico in attesa dell’inizio dello spettacolo. A rafforzare l’idea di simmetricità – centrale nella struttura delle ville palladiane – sono poi le nicchie a forma di arco in cui sono state incastonate le panche rivestite in velluto e il lavabo freestanding in marmo Statuario Altissimo, sempre di Luce di Carrara, un omaggio alle fontane in stile neoclassico. Un marmo puro e compatto, dalla produzione limitata. Nella progettazione dello spazio, il rimando alla pittura metafisica di Giorgio De Chirico è evidente: Humbert & Poyet giocano con la scala, le proporzioni e i riferimenti classici per disegnare una scenografia ai confini della realtà. Anche in questo caso, tutto si fonde e si confonde. «Il nostro obiettivo è quello di tradurre un’atmosfera complessa in uno spazio tridimensionale», dicono. Una tridimensionalità che sembra trascendere il reale per atterrare nell’universo dell’immaginazione, dove la matericità degli elementi – il marmo, il bronzo, il velluto – perde consistenza diventando, come si diceva all’inizio, fluida.
Design
23
Arte
ROSALDA GILARDI.
LA SCULTURA COME SENTIMENTO DEL MONDO DI COSTANTINO PAOLICCHI
Il ritratto di una scultrice, Rosalda Gilardi che giunta all’Henraux per la realizzazione di un’opera, trovò in Versilia il luogo dove poter assecondare le sue esigenze espressive, come la naturale inclinazione per la scultura monumentale e la capacità di cavare dalla pietra la forma del proprio mondo interiore.
A destra, Rosalda Gilardi, Presenze, 1967 ca., serpentino, h. 197 cm. Courtesy Fondazione Henraux
24
Arte
25
Arte
Rosalda Gilardi, Vegetale, 1969, marmo rosa del Portogallo. Courtesy Documentart Museo dei Bozzetti, Pietrasanta
26
Quando ho conosciuto la scultrice Rosalda Gilardi, nel 1973, avevo appena 25 anni e lei era una donna ancora bella, con grandi occhi espressivi. Scoprimmo di essere vicini di casa in circostanze fortuite: un torrentello che scorreva nei pressi, il rio Bonazzera, era esondato a seguito di intense piogge allagando la campagna circostante. Così in un mattino grigio ci ritrovammo con la gente del posto per fare la conta dei danni e per sfogare la nostra rabbia nei confronti degli enti pubblici e dei loro consorzi colpevoli di decenni d’incuria. Alcuni centimetri di melma si erano depositati nell’ampio giardino della sua villa lordando le stanze del piano terreno. Men-
tre mi mostrava sgomenta quel disastro ebbi modo di osservare nel parco molte sculture di grande formato, la cui bellezza permaneva imperturbabile al fango ed anzi pareva assumere una valenza nuova, come ad affermare l’assoluta signoria di quelle opere su quei luoghi all’intorno e sul mondo. Divenimmo amici. Andavo spesso a trovarla nel suo studio per vedere i lavori recenti e soprattutto per parlare con lei, perché m’ero reso conto di quanta esperienza era depositaria, dell’intensità dei suoi pensieri e delle sue emozioni. Mi aveva raccontato degli studi di scultura all’Accademia di Torino, delle prime mostre in Italia, della
Arte
Rosalda Gilardi, Ipotesi vegetale, 1986. Courtesy Documentart Museo dei Bozzetti, Pietrasanta
sua vita a Locarno, delle molte collettive a cui aveva partecipato a Lucerna, a Zurigo e in altre città svizzere, delle personali al Museo Moutier e al Museo Neuchâtel. Nel 1962 era stata invitata alla Biennale di Carrara, poi aveva conosciuto e frequentato all’Henraux molti dei più importanti maestri della scultura contemporanea che Erminio Cidonio, amministratore unico dell’azienda, aveva coinvolto nel suo prestigioso progetto museale con la direzione artistica del critico e storico dell’arte Giuseppe Marchiori. Quando nel 1966 giunse a Querceta per realizzare una sua opera negli stabilimenti dell’Henraux, così come era accaduto ad altri artisti, fu conquistata
dal paesaggio senza tempo della Versilia, che dal mare risale fino all’alto marmo. Pur mantenendo stretti rapporti con Locarno, aveva scelto di stabilirsi nella bella casa-studio costruita nel 1967 nella campagna di Querceta. Qui poteva lavorare in un ambiente sereno, a sua misura, poteva avvalersi delle competenze di tanti valenti artigiani e intrattenere fecondi rapporti con scultori di fama internazionale: con Henry Moore, a cui fu legata da devota amicizia, con Branco Ruzic, con Maria Papa, con Alicia Penalba, con Pietro Cascella, con François Stahly che si era formato a Zurigo negli ambienti del Bauhaus. Aveva esposto le sue opere nel 1967 al Salon de
27
Arte
Rosalda Gilardi al lavoro. Courtesy Fondazione Henraux
28
Mai a Parigi, e aveva partecipato a diverse edizioni della Quadriennale di Roma e di Torino, della Permanente di Milano e della Biennale Internazionale del Bronzetto di Padova. Nel 1968 teneva una personale al Museo Civico di Pistoia e l’anno successivo al Museo d’Arte Moderna di Castellanza. Nel 1972 esponeva alla Biennale di Venezia dove Peggy Guggenheim acquistava una sua scultura, destinata al Museo Guggenheim. Nello stesso anno era presente con un’opera all’ampia rassegna della collezione Henraux al Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Nel 1974 aveva intrapreso un viaggio di studio e di lavoro in America Latina durato quattro mesi, visitando il Venezuela, l’Ecuador, l’Argentina e il Perù. Aveva sostato nell’antica capitale dell’impero Inca, Cuzco, l’ombelico del mondo. In calle Hatun Rumiyd, la “pietra dei dodici angoli” le si era rivelata come un’imponente misteriosa scultura di granito. Aveva poi esplorato tutti i luoghi sacri nella valle del rio Huatanay che erano stati indicati dal dio sole oltre 3000 anni fa al popolo Inca alle origini della sua storia. Furono in
particolare le fantastiche architetture della fortezza di Sacsayhuamán a impressionarla, con quelle grandi pietre levigate ad arte, addossate, sovrapposte, incastrate tra loro con millimetrica precisione a formare mura ciclopiche, che avevano resistito alle ingiurie del tempo e dei conquistadores spagnoli. Salì fino alla “Vecchia montagna”, Machu Picchu, a contatto col cielo a oltre duemila metri d’altezza: dove tutto è concepito come un’opera d’arte generata dal seno stesso della natura a formare la città perduta, la piccola città segreta degli imperatori. Rosalda non aveva compiuto quel lungo viaggio come i tanti turisti che ogni anno affollano le rovine incaiche: era andata alla ricerca di sé, per decifrare le ragioni di quel rapporto con la pietra che era divenuto ineludibile esigenza di tradurre, in forme monumentali, le visioni che si agitavano in lei fin dagli anni giovanili dell’accademia. Aveva riportato a casa da quell’esperienza un diario e una serie di splendidi disegni, alcuni raccolti in una cartella litografica presentata da Mario De Micheli, altri pubblicati in una raffinata edizione di cui mi fece dono. Disegni in
Arte
cui Rosalda mostrava un tratto sicuro, elegante, capace di evocare la luce e le forme di quelle pietre antiche. Donna eclettica di vasta e profonda cultura, Rosalda aveva messo in evidenza l’amore che ormai la univa a stretti nodi alla Versilia, al microcosmo di pena e di poesia delle cave e dei cavatori, organizzando ed allestendo nel 1975 alla Galleria d’Arte Moderna di Forte dei Marmi una splendida mostra retrospettiva del pittore Giuseppe Viner.1 Forse proprio la vocazione all’astratto monumentale aveva favorito il suo rapporto con Henry Moore e da più parti si
di interesse e di amore, di sensibilità e di intuizione, propria di chi, come Moore, è “… abituato a cavare dalla pietra e dal legno o a modellare da un mucchio di creta l’immagine ideale del proprio cosmo poetico.”2 Un’affinità che si riscontrava anche nel modo di fare scultura, perché Rosalda lavorava come Moore e Moore – come annotava Giuseppe Marchiori – “… è di quelli che lavorano sodo nella vita, scalpellando, martellando, tagliando: basti vederlo nelle cave dei marmi, nei laboratori, nella marmeria, vicino agli operai, sempre in moto, attento e buon giudice del loro la-
indicava la Gilardi come l’artista destinata a succedergli, quella che avrebbe accolto la sua eredità artistica e spirituale. In realtà non si trattava di un lascito, ma di una predisposizione al monumentale che Rosalda possedeva per istinto, per inclinazione naturale, quasi una derivazione cromosomica che nulla doveva alla genetica ma che mostrava quell’affinità di percezione delle forme della natura, quell’identità
voro; esperto com’è del mestiere….”3 Rosalda ci ha lasciato un affettuoso ricordo dello scultore inglese: “L’incontro con Moore fu subito dettato da molta cordialità, che poi in seguito divenne amicizia. Ammirai subito l’artista e la sua opera e via via conoscendolo, apprezzai l’uomo con le sue profonde doti di sensibilità e di umanità.” La scultrice si era recata molte volte in visita nel suo studio a Forte dei
Forse proprio la vocazione all’astratto monumentale aveva favorito il suo rapporto con Henry Moore e da più parti si indicava la Gilardi come l’artista destinata a succedergli, quella che avrebbe accolto la sua eredità artistica e spirituale.
29
Arte
Marchiori evidenziava la “completa libertà spirituale” di Rosalda, la sua capacità di guardare la realtà e di interpretarla, di stabilire strette relazioni con l’ambiente naturale e con gli spazi antropizzati, con l’architettura del paesaggio trasformato dal lavoro umano.
Marmi, e a distanza di anni ricordava come davanti al tronco di un vecchio albero “rinsecchito e contorto” Moore riuscisse a scoprire infinite immagini. “Sapeva leggere nella natura come nessun’altro e sapeva trarne quegli spunti miracolosi che poi trasparivano dalle sue splendide sculture e dai disegni. In quell’occasione mi disse: «Gli alberi del Forte sono i più espressivi del mondo; anche questi alberi hanno contribuito a trattenermi in Versilia».”4 Sognava di esporre tutta la sua opera al Forte Belvedere a Firenze. Lo manifestò un giorno in cui si trovava con Giancarlo Citi e Rosalda Gilardi ai piedi dell’Altissimo, alla casa Henraux nei pressi della Polla. Voleva misurare le sue sculture con la bellezza e la grandezza dei monumenti di Firenze. Realizzerà quel sogno qualche anno dopo, nel 1972. Del suo rapporto così intenso, così coinvolgente con la Versilia, le cave, gli uomini del marmo, gli artigiani sensibili “traduttori” delle sue opere, il momento più alto, più emozionante, più carico di significati simbolici ed evocativi era senz’altro quello che lo vedeva misurarsi
30
con la terribile grandiosità della montagna di Michelangelo: il Monte Altissimo. Tra i molti critici che si sono occupati dell’opera di Rosalda, credo – senza mancare di rispetto a nessuno di loro – che Giuseppe Marchiori sia quello che più di ogni altro aveva intuito l’autentica vocazione al monumentale di questa scultrice il cui incontro con il marmo “… era stato preparato da quello col granito di Baveno: una pietra dura di un color ferrigno o rosea, buona per chiudere le forme in strutture monumentali dai netti profili. La sua è una vocazione autentica verso la conquista di uno stile severo, scarno, liberato da ogni sovrastruttura che ne alteri il disegno essenziale.”5 Marchiori aveva seguito da vicino, negli studi dell’Henraux, il lavoro di Rosalda. L’aveva osservata mentre aggrediva il marmo e la pietra con la determinazione e la sicurezza di chi esercita con la mente e con le mani un mestiere antico di secoli. Le sue opere mostravano gli esiti di un lungo percorso di ricerca e di sperimentazione: “Oggi la misura è diventata esatta – scrive-
Arte
va nel 1966 – per maturità di visione, costruita di tante esperienze e di tanto lavoro, compiuto di luogo in luogo, nel corso di alcuni anni particolarmente intensi, quasi febbrili. Si trattava di trovare il rapporto giusto fra immagine e spazio: un rapporto difficile, a un tempo interno ed esterno. Quando tale rapporto manca, la scultura non regge, diventa un oggetto qualsiasi. Rosalda ha trovato la vera dimensione lavorando all’aperto, dentro la natura, vicino alle montagne dalle quali si cava il marmo e il granito. L’ambiente le suggerisce quel rapporto, la costringe, se si può dire così, a «vedere» in un modo libero, senza vincoli troppo stretti di cultura.”6 Marchiori evidenziava la “completa libertà spirituale” di Rosalda, la sua capacità di guardare la realtà e di interpretarla, di stabilire strette relazioni con l’ambiente naturale e con gli spazi antropizzati, con l’architettura del paesaggio trasformato dal lavoro umano: la cava, con le sue geometrie di luce che si dilatano in ampi orizzonti, le campagne toscane con le ordinate file di cipressi e le partiture dei vigne-
ti come calligrafie della terra. Per questo nelle sue opere “… i piani sono battuti, scheggiati a punti irregolari, o con scannellature parallele, perché risaltino meglio i valori della materia, attraverso la rustica modellazione, lo schema architettonico della scultura.”7 Anche il suo modo di fare scultura affascinava il critico, così simile a quello dei grandi scultori di ogni tempo, perché Rosalda non si risparmiava, la fatica fisica necessaria per agire direttamente sulla materia era per lei componente essenziale dell’opera di creazione, con la stessa dignità dell’intuizione e dell’idea progettuale: “Rosalda, che picchia sul marmo o sul granito, esercitando la forza dei muscoli, ha forse imparato dal suo maestro Baglioni un «mestiere» da ergastolani? (…) A tutte le domande che ci siamo rivolti, la risposta viene da chi crede nel proprio lavoro, da chi s’impegna fino in fondo, in quella lotta, non retorica, ma vera, che l’artista risolve con esiti diversi, affrontando l’eterno problema della scelta e dell’azione.”8
31
Arte
32
Arte Rosalda i virtuosismi li rifiutò sempre per ricercare, autonomamente e con grande fatica, una “dignità” di stile, un linguaggio che le consentisse di tradurre nelle forme della scultura la ricchezza del proprio mondo interiore.
A sinistra, Rosalda Gilardi, Presenze, Collezione Guggenheim, Venezia Ph. Nicola Gnesi
N OT E Il suo maestro all’Accademia Albertina di Torino era stato il calabrese Umberto Baglioni che ai propri allievi lasciava piena libertà di esprimersi sulla base di un solido mestiere artigianale, ma senza virtuosismi, senza il tecnicismo degli esecutori, che reprime la creatività e la poesia. E Rosalda i virtuosismi li rifiutò sempre per ricercare, autonomamente e con grande fatica, una “dignità” di stile, un linguaggio che le consentisse di tradurre nelle forme della scultura la ricchezza del proprio mondo interiore. “Diciamo subito – dichiarava Marchiori – che la sua vocazione più autentica è per una scultura di carattere monumentale. E che il suo metodo è quello che Michelangelo definiva «per via di togliere.” È il metodo lento o impetuoso di chi sa lavorare il marmo, liberando una forma, di scheggia in scheggia, dal blocco che la contiene, e inventandola, soprattutto senza modello.”9 E nel corso di un’intervista rilasciata a Bruna Corradini, Rosalda confidava: “La scultura è già presente nella mia mente e ho solo bisogno di attuarla nel
concreto… Quando la scultura è nata nella mia mente, è già forma e materia insieme.” Nel 1970 Marchiori tornava a riflettere, a Genova, sull’opera di Rosalda che sembrava proiettata verso nuove strutture e nuove dimensioni creative in un momento particolarmente felice per l’artista: “Ai marmi e alle pietre monumentali – annotava – ornate di un sobrio disegno (tanto sobrio da rasentare l’austerità), e che rappresentano simbolicamente delle «presenze» ideali in uno spazio di meditazione e di silenzio, Rosalda ha opposto, in un rapporto più diretto con lo spirito del tempo, la magia dell’ordine geometrico, l’incanto metafisico delle sculture che si possono ricomporre, di volta in volta, in forme diverse e, in ogni caso, assolute.”10 Sono i cubi, i cilindri, le sfere, le strane architetture componibili di Incontri, in marmo bianco e nero, immagini simboliche dell’eterna lotta della ragione contro il caos che sempre minaccia di oscurarla. Sono “… i veri monumenti della nostra storia senza eroi.”
1 Giuseppe Viner, Catalogo della mostra retrospettiva nel centenario della nascita di Giuseppe Viner, Galleria Comunale d’Arte Moderna di Forte dei Marmi, luglio-agosto 1975. Premessa di Mario De Micheli, testo critico di Rosalda Gilardi. Curatori: Antonio Bernieri, Mario De Micheli, Rosalda Gilardi, Marcello Polacci. 2 G. Marchiori, Pagine di Diario (19691970), in “Marmo 5”, Rebellato Ed., Padova 1971, pp. 168-186. “Querceta, maggio 1970”, p. 171. 3 Ibidem, p. 173. 4 Testimonianza di Rosalda Gilardi in Henry Moore a Forte dei Marmi e in Versilia. L’uomo, l’artista., Giardini Ed., Pisa 1988, pp. 69-73. 5 G. Marchiori, Pagine di Diario (19661970), cit., pp. 128-158, “Querceta, estate 1966”, p. 129. 6 Ibidem, “Querceta, estate 1966”, p. 132. 7 Ibidem, p. 137. 8 Ivi. 9 Ivi. 10 Ibidem, “Genova, maggio 1970”, p. 155 e segg.
33
Architettura
EXPO DUBAI 2021: PADIGLIONE ITALIANO, METAFORA INFINITA DI ALDO COLONETTI
All’esposizione universale 2021 dal titolo “Connecting Minds, Creating the Future”, l’Italia è presente con un progetto di Italo Rota e Carlo Ratti, con F&M Ingegneria e Matteo Gatto&Associati. Un padiglione che non sarà solo luogo espositivo, ma anche rappresentazione dei migliori talenti italiani. Tra visione, natura e artificio.
34
Architettura
35
Architettura
A destra, Expo Dubai 2021, Padiglione Italia, render
I grandi appuntamenti espositivi rappresentano uno straordinario laboratorio per tutte quelle discipline che concorrono alla realizzazione di spazi e di architetture destinati a vivere un determinato periodo di tempo e, forse proprio per questa ragione, costituiscono modelli progettuali unici e irripetibili. Così è accaduto per l’EXPO 2015 di Milano, dedicato a “Nutrire il pianeta, energia per la vita.” Il prossimo anno, a Dubai, dal 1° ottobre 2021 al 31 marzo 2022 (la manifestazione è stata spostata di un anno a causa della pandemia), l’Expo sarà dedicato a “Connecting Minds, Creating the Future”, e il padiglione italiano avrà un titolo “La bellezza unisce le persone” che già di per sé è una sorta di autobiografia del nostro Paese. È un tema solo apparentemente facile, fondato sulla nostra tradizione artistica e culturale, anche se nel caso di un evento destinato a decine di milioni di persone, provenienti da culture diverse, la difficoltà è sempre quella di rendere spettacolare e “visitabile fisicamente” una serie di concetti e di parole d’ordine che devono trasformarsi in un’architettura, capace di parlare immediatamente, senza mediazioni intellettualistiche.
36
Il concorso internazionale di progettazione per il padiglione italiano ha visto la partecipazione di diciannove proposte e si è concluso con un vincitore costituito da un raggruppamento temporaneo d’imprese formato da CRA-Carlo Ratti Associati, Italo Rota Building Office, F&M Ingegneria, Matteo Gatto&Associati. Ha collaborato alla definizione dei contenuti Davide Rampello e il suo studio. Il risultato è un’architettura inattesa che ha una serie di riferimenti culturali, in particolare la Walking City di Archigram degli anni ’60 con “il tema degli edifici intelligenti”, come sottolinea lo stesso Ratti. 3500 metri quadrati, alto 25 metri, avvolta da una pellicola trasparente, si tratta di una struttura architettonica che è il risultato di una grande immaginazione, non solo poetica, “la cui copertura, costituita da due scafi di 40 metri e uno di 60, realizzati e donati da Fincantieri, potesse partire dall’Italia per raggiungere Dubai via mare. Una volta arrivate, le carene verranno rovesciate e utilizzate come tetto del padiglione”, precisa Italo Rota. Dall’alto, ma anche frontalmente, i tre scafi avranno l’aspetto di tre petali che costituiscono i colori della bandiera italiana;
Architettura
come precisa Paolo Glisenti, Commissario Generale dell’Italia per Expo 2021 Dubai: “Il progetto ci permette di realizzare uno spazio non solo espositivo, ma soprattutto rappresentativo del migliore ingegno italiano, offrendo ai visitatori un’esperienza estetica unica, mostrando al mondo competenze, talenti e qualità multidisciplinari che a loro volta potrebbero diventare promotori di nuove opportunità formative, professionali e imprenditoriali.” Italo Rota è un architetto visionario, capace di dare alle parole e alle suggestioni, anche le più astratte e “poetiche”, una rap-
presentazione corrispondente, utilizzando tutti quei passaggi simbolici che i linguaggi progettuali oggi consentono. In questo come in altri suoi interventi, il riferimento alla storia e al contesto, come al repertorio espressivo delle arti applicate, rappresenta il perimetro nel quale vengono condensati infiniti significati che poi sta a noi riconoscere e recuperare. La sua architettura è il risultato di una semiosi senza fine, illimitata, ricca di rimandi e di relazioni sempre aperte: “In questa architettura le barche ricordano anche le esplorazioni dei Fenici e dei Romani che, attraversando il Medi-
37
Architettura
In alto e a destra, Expo Dubai 2021, Padiglione Italia, render
38
Architettura
39
Architettura
Expo Dubai 2021, Padiglione Italia, render
40
Architettura
I materiali utilizzati, oltre all’acciaio che è facilmente riciclabile, fanno riferimento a nuove sperimentazioni come i derivati del caffè, delle arance, della canapa e del micelio, un composto organico a base di funghi stabilizzati che nasce dalla natura per poi tornare in natura.
terraneo, hanno favorito gli scambi fra i popoli. Il progetto del nostro gruppo di lavoro ha lavorato su tanti fronti; lo scafo rovesciato, ad esempio, veniva usato dagli antichi navigatori come prima dimora quando raggiungevano una nuova terra. Ma anche la “nave” intesa come parola sta alla base del termine “navata”, il luogo dove le persone si ritrovano e si riconoscono attraverso un pensiero comune.” Infatti, nell’architettura sacra, le diverse forme delle navate identificano il rito, lo spazio, le relazioni. Sullo sfondo, centrale è il riferimento all’economia circolare; ecco allora entrare in campo il ruolo e le competenze di un progettista come Carlo Ratti, rispetto al tema del rapporto tra natura e artificio,
che sta alla base delle sue ricerche come direttore del Senseable City Lab del MIT di Boston. “Rota ed io ci siamo sempre ritrovati progettualmente, pur partendo da punti di vista apparentemente diversi, nel rapporto tra naturale e artificiale. Per noi le opere non sono edifici immutabili; siamo noi, gli interpreti, a farli vivere e a trasformarli, anche fisicamente. Lontano da noi ogni formalismo e ossessione stilistica.” In primo luogo, i materiali utilizzati, oltre all’acciaio che è facilmente riciclabile, fanno riferimento a nuove sperimentazioni come i derivati del caffè, delle arance, della canapa e del micelio, un composto organico a base di funghi stabilizzati che nasce dalla natura per poi tornare in natura. In secondo luogo, viaggiare all’interno di
41
Architettura
In alto e a destra, Expo Dubai 2021, Padiglione Italia, render
42
Architettura
Visitare il padiglione italiano di Dubai Expo sarà un’esperienza unica perché chiederà a tutti noi non soltanto un semplice ruolo di ospite curioso e attento; il suo significato si completerà, giorno dopo giorno, attraverso le relazioni soggettive con uno spazio che solo apparentemente appartiene agli autori.
questo spazio, dove ad ogni passo corrisponde un punto di vista imprevedibile, una sorta di dietro l’angolo sempre nuovo e originale, vuol dire mettere al centro dell’esperienza la persona, intesa come soggetto pensante che trasforma e modella lo spazio a sua immagine e somiglianza. “Lo spazio è un’estensione della mente umana che segue il corpo nel suo movimento. Non c’è più niente di fisso e la grande questione, per noi architetti, riguarda la modalità con cui si possono mettere in movimento le architetture. L’obbiettivo dei prossimi anni sarà quello di disegnare delle walking city”, afferma Rota.
Visitare il padiglione italiano di Dubai Expo sarà un’esperienza unica perché chiederà a tutti noi non soltanto un semplice ruolo di ospite curioso e attento; il suo significato si completerà, giorno dopo giorno, attraverso le relazioni soggettive con uno spazio che solo apparentemente appartiene agli autori. È un’opera aperta che, senz’altro, sarebbe piaciuta per il suo sistema compositivo labirintico, a Umberto Eco; è un’architettura sospesa tra pensiero e realtà, tra tecnologie e materiali tra i più avanzati al mondo e il sottile confine di una composizione poetica che è sempre una metafora infinita.
43
Arte
LA LUNGA STRADA VERSO L’ALTISSIMO DI COSTANTINO PAOLICCHI FOTO DI NICOLA GNESI
Con dovizia di particolari e meticoloso studio della documentazione esistente, l’autore ricostruisce gli accadimenti che portarono all’attivazione delle cave del Monte Altissimo, a opera di Marco Borrini. Un momento storico che nel giro di pochi anni avrebbe reso possibile lo sviluppo economico e culturale di un territorio privo di altre risorse.
44
Arte
La vetta del Monte Altissimo, Versilia, Mar Tirreno e Corsica sullo sfondo
45
Arte
Dopo la breve esperienza di Michelangelo (1518-1520) e l’avvio delle escavazioni all’Altissimo voluto da Cosimo I Medici nel 1568, le attività estrattive andarono progressivamente indebolendosi nel corso del Seicento e del Settecento. Nel 1740 le escavazioni sul Monte Altissimo risultavano del tutto cessate.
A destra, Cava Tacca Bianca
46
Duecento anni fa, nel 1820, Marco Borrini acquistava la parte meridionale del Monte Altissimo e si apriva per la Versilia un’era di grande progresso. Stava per nascere l’industria del marmo che avrebbe consentito il fiorire di attività e di commerci in tutto il comprensorio, lo sviluppo di opifici, laboratori, studi di scultura, avrebbe favorito l’occupazione e l’affermarsi di nuove professionalità tecniche e imprenditoriali. Nel successivo anno 1821 si costituì la Società Borrini-Henraux, e con il nome “Henraux” è giunta fino ai giorni odierni un’azienda leader del settore lapideo, conosciuta e apprezzata in tutto il mondo. La privativa granducale sulle cave del Capitanato di Pietrasanta, conseguente alla donazione degli agri marmiferi deliberata dalle Comunità di Seravezza e di Cappella il 18 maggio 1515 a favore della Signoria di Firenze, aveva impedito o quanto meno limitato di fatto l’espansione dell’industria e del commercio dei marmi mediante la libera iniziativa. Dopo la breve esperienza di Michelangelo (1518-1520) e l’avvio delle escavazioni all’Altissimo voluto da Cosimo I Medici nel 1568, le attività estrattive andarono progressivamente indebolendosi nel corso del Seicento e del Settecento. Nel 1740 le escavazioni sul Monte Altissimo risultavano del tutto cessate. Ritroviamo notizia dei giacimenti marmiferi dell’Altissimo nell’Analisi del conte Francesco Campana: “Nel Monte Altissimo in luogo detto Vincarella e la Costa dei Cani ci è il marmo statuario. (...) Dette cave – scriveva intorno al 1767 – (...) furono lasciate in abbandono perché l’infelice situazione delle medesime rendeva troppo dispendioso il lavorarvi. Ed infatti venticinque anni fa circa in occasione che rovinò la suddetta cava del Polvaccio di Carrara, in tale opportunità alcuni mercanti di Seravezza apersero nuovamente le dette cave di statuario, vi spesero non poco ma presto le abbandonarono.”1 Il Campana, tra l’altro, auspicava di incrementare l’escavazione modificando il sistema delle Privative, di incoraggiare la manifattura e il commercio del marmo e di introdurre la statuaria. Dello stato di abbandono delle cave dell’Altissimo si lamentava anche il Targioni Tozzetti nelle sue Relazioni pubblicate nel 1773: “È stata certamente una gran vergogna per noi Toscani, che non fia mai pensato efficacemente ad aprire la Cava di Marmo Statuario dell’Altissimo; poiché dai tempi del Granduca Cosimo infino al giorno presente, sono state portate tante migliaia di pezzi di Marmo di Carrara nello Stato Granducale, che importano un Tesoro, il quale poteva circolare in mano dei nostri Consudditi, oltre a tante migliaia di pezzi, che se ne sarebbero potuti mandare fuori dello Stato, come fanno tutto giorno a Carrara.”2 Il Targioni riportava una lettera del 26 gennaio 1744 di Francesco Antonio Fortini, a lui indirizzata, scritta quando il Fortini, commerciante di Seravezza, chiese al Granduca la privativa sull’escavazione di marmi all’Altissimo: “Il Monte Altissimo è ripieno di Marmi in tutte le parti, che ve n’è da cavare fino al giorno del Giudizio, ancorché vi lavorassero centinaia di persone: anzi quant’è più persone vi lavorassero, vi sarebbe sempre più da levare de’ Marmi, perché i Bianchi non sono come i Marmi Misti, che sono nella superficie, e con internarsi si perde la Vena, ma i Bianchi quanto più uno s’interna, maggiormente cresce la Vena.”3 L’Ottocento preparava “… tempi più propizi (...) alle intraprese industriali – osservava il Repetti – ed una delle tante che con più o meno fortuna hanno avuto luogo in Toscana è stata la riattivazione delle cave di marmo statuario nel M. Altissimo. Fu nel 1820, quando il cavalier Marco Borrini caldo di amore per la sua patria, sulla scorta storica delle vicende testé accennate tentò di ripristinare quelle obliate lapidicine. Che questo zelante cittadino vi sia riescito lo dichiara la relazione favorevole del 19 ottobre 1820 fatta al governo granducale dal celebre Giovanni Fabroni stato incaricato di recarsi sul M. Altissimo per esaminare e riferire sulla impresa Borrini; per
Arte
47
Arte
cui in conseguenza di quel rapporto vennero forniti a quell’intraprenditore coraggioso dalla R. Depositerìa diversi incoraggiamenti per l’opera incominciata, cui né la difficoltà dei luoghi, né gli scavi fatti tre secoli prima, né l’antico credito e concorrenza della vicina Carrara furono capaci di raffrenare o interrompere la difficile intrapresa. Quindi la costanza del Cav. Borrini è giunta a tale intento che ha scoperto nei fianchi del Monte Altissimo marmi i più candidi, i più pastosi e nel tempo stesso i più solidi che abbiano mai avuto sotto lo scalpello gli artisti. (...) Però fra le cave del M. Altissimo quelle di Falcovaja danno un marmo forse il più fine e il più candido di quanti finora ne lavorò l’antica e la moderna statuaria. Entrano nel novero delle cave nuove di statuarj attualmente attivate nel M. Altissimo, a levante quelle del fianco meridionale poste sopra il canale di Falcovaja fra il Vasajone che l’avvicina a ponente e le cave della Polla e del canale detto della Vincarella situate al suo levante. Una sola via carreggiabile conduce a piè del monte, e termina in un piazzale, dove scendono dai tre canali, della Polla, di Falcovaja e della Vincarella, i marmi che costà si caricano per trasportarli alla marina lungi di là non più di sette miglia.”4 Con la reintegrazione del potere assoluto degli antichi regimi, conseguente alla caduta di Napoleone e alla fine della dominazione francese in Italia, il territorio della Vicaria di Pietrasanta fu nuovamente assegnato al Granducato di Toscana. Negli anni successivi si registrò una grave carestia alimentare; per creare posti di lavoro e aiutare gli indigenti, il granduca Ferdinando III nel 1816 approvò il finanziamento del restauro della Via di Marina sino a Stazzema e la ricostruzione del Ponte di Tavole.
48
Arte
Restavano disponibili grandi appezzamenti di terreno “marmoreo” e pascolativo, e il Granduca consentì alla Comunità di Seravezza di venderli ai privati che ne avessero fatto richiesta, previa autorizzazione granducale. Tra i primi ad approfittare di questa favorevole opportunità fu il dott. Marco Borrini.
Superati quei difficili momenti anche l’industria del marmo si riattivò, dal momento che la situazione politica dell’Europa restaurata appariva favorevole alla ripresa delle esportazioni. Per incentivare le escavazioni di marmo, si rese necessario verificare la situazione delle proprietà pubbliche, delle concessioni e delle occupazioni illegittime nelle aree marmifere. Nel 1820 la Comunità di Seravezza dispose accurati controlli attraverso il Magistrato comunitativo; varie allivellazioni erano state effettuate verso la fine del Settecento, ma molti risultavano gli usurpatori, coloro cioè che avevano esercitato attività estrattive nelle cave di proprietà granducale senza corrispondere nessun canone o indennizzo. Il Granduca autorizzò la Comunità di Seravezza a stabilire un accomodamento per sanare quegli abusi, che furono condonati mediante un regolare atto d’acquisto. Restavano disponibili grandi appezzamenti di terreno “marmoreo” e pascolativo, e il Granduca consentì alla Comunità di Seravezza di venderli ai privati che ne avessero fatto richiesta, previa autorizzazione granducale. Tra i primi ad approfittare di questa favorevole opportunità fu il dott. Marco Borrini. Di antica e agiata famiglia d’origine ligure da lungo tempo residente in Seravezza, ricoprì diverse cariche pubbliche, tra cui quella di Gonfaloniere dal 1832 al 1837. Ben introdotto alla Corte granducale ottenne importanti onorificenze e in particolare, nel 1836, la Decorazione del Merito Industriale di Prima Classe, quale “promotore della escavazione dei marmi di Monte Altissimo.” Borrini era consapevole delle ricchezze minerarie che si potevano estrarre da quella montagna che Michelangelo aveva esplorato verso il 1518 e dove Cosimo I Medici aveva avviato l’escavazione di marmi statuari nel 1568.
Cava Mossa e Vincarella, dove arrivò Michelangelo. A sinistra, Cava Cervaiole
49
Arte
In data 12 giugno 1820, con contratto rogato dal notaio Candido del fu Luca Baschieri di Fucecchio Cancelliere Comunitativo di Pietrasanta e Notaro Pubblico residente a Pietrasanta, alla presenza dei testimoni e in esecuzione del Sovrano Rescritto del 30 aprile 1820, Marco Borrini acquistava dalla Comunità di Seravezza tutta la parte meridionale del monte Altissimo.
50
La Comunità di Seravezza, con propria deliberazione del 28 febbraio 1820, stabiliva di vendere a Marco Borrini, un “appezzamento di terra spogliata e massosa nel Monte Altissimo” di staia 275 e 8/10 per L. 275, 16, 00 più un aumento del 10% a scanso di subaste: in tutto L. 303, 07, 08.5 Nel testo della deliberazione si indicano i confini dell’appezzamento posto in vendita, sulla base della relazione del perito comunale Carlo Polini: “Veduta la Relazione del loro Perito comunitativo in data de 10 gennaio decorso dalla quale rilevasi che detto appezzamento acquapende verso il fiume, e confina a Levante con la Costa dei Cani, Don Stefano Salini, e Strada, a Mezzogiorno col Fiume dell’Altissimo e Piscinacchio, a Ponente col Bosco Comunale di Col di Monte e Borra della Greppia, a Tramontana con la Sommità e crine del Monte, se ne fa ascendere la quantità a staia duecentosettantacinque e otto decimi, ed essendo suolo affatto nudo e incapace d’alcun prodotto, eccetto qualche poco di fieno, se ne fa ascendere la stima a lire duecentosettantacinque e soldi sedici.” Vi è compreso tutto il versante meridionale del Monte Altissimo dove insistono le cave aperte dalla Società Borrini-Henraux, quelle successivamente aperte e coltivate dalla Società del Monte Altissimo, e quelle successivamente aperte e coltivate dagli Henraux fino all’attuale gestione aziendale, come dimostrano le “piante dimostrative” esistenti nell’archivio Henraux, tra cui la pianta – copia dell’originale allegato al contratto di vendita – disegnata dal perito Polini il 23 aprile 1819 e dallo stesso autenticata il 29 maggio 1869.6 Il 2 marzo 1820 la Cancelleria Comunitativa di Pietrasanta pubblicò l’avviso di rilascio dei beni suddetti al Borrini.7 Il 30 aprile 1820 il Granduca approvò quella vendita. L’approvazione sovrana fu comunicata al Cancelliere Comunitativo di Pietrasanta con lettera del Direttore dell’I. e R. Uffizio dei Fossi di Pisa del 4 maggio 1820, che disponeva di depositare subito il prezzo della vendita nel Monte Pio “… secondo gli ordini.”8 In data 12 giugno 1820, con contratto rogato dal notaio Candido del fu Luca Baschieri di Fucecchio Cancelliere Comunitativo di Pietrasanta e Notaro Pubblico residente a Pietrasanta, alla presenza dei testimoni e in esecuzione del Sovrano Rescritto del 30 aprile 1820, Marco Borrini acquistava dalla Comunità di Seravezza tutta la parte meridionale del monte Altissimo. Sull’iniziativa di Marco Borrini per la riapertura delle cave di Monte Altissimo, Ranieri Barbacciani Fedeli esprimeva grande apprezzamento: “Risorta la scultura al sorgere dell’immortale Canova – egli scriveva – ed aumentatosi l’uso dei marmi per le pubbliche e private opere, parve al Cav. Marco Borrini che fosse giunto il momento favorevole di riaprire quelle cave. Era dunque al di lui coraggio speculativo, al di lui caldissimo amore per le arti belle, riserbato l’impegno di riassumere l’escavazione de’ marmi, comunque lo ravvisasse di troppo superiore alle forze di un privato cittadino. Finalmente, dopo lunghe e dispendiose fatiche, superati gli ostacoli, che da maligne persone frapponevansi al di lui intraprendimento, proseguì coraggiosamente nell’o-
Arte
pera, e trionfò de’ suoi nemici, mercé la possente coadiuvazione dell’I. e R. Governo Toscano, che, per favoreggiare ogni maniera di nazionale industria, accordò pur’anche la franchigia doganale ai marmi di Seravezza. Nel progetto e nella decisa intenzione di ritentare le antiche speculazioni, il Cav. Borrini si fece dall’acquistare in compra dal Comune l’appennino del monte Altissimo per il tratto di staia 2000 circa, e fino dal luglio 1821 applicò l’animo a far risorgere sulle rovine della vecchia, la nuova strada, e dopo due anni di fatiche, e di enormi spese, giunse ad aprire nel fianco orientale del monte una roccia di bellissimo marmo statuario, ed assicurossi con esperimenti, che la miniera di questo carbonato si estendeva per quasi tutto quel terreno. Allora fu ch’egli tornò a rivolgere le sue preci all’I. e R. Governo, onde lo soccorresse nel proseguimento dell’opera intrapresa, da cui dovea resultarne immensi vantaggi allo Stato. Accolse il provvido Governo Toscano le istanze del Cav. Borrini, e previe le informazioni assunte dal Tribunale di Pietrasanta, al quale io presiedea, commise al sig. Giovanni Fabbroni, Direttore della R. Zecca e Commissario delle miniere dello Stato di verificare le cave, e le qualità de’ marmi (…). Fu in grado l’incaricato Sig. Fabbroni di ben rilevarne tutta la fisica costruzione, e di riferirne con particolare amore ed interesse all’I. e R. nostro Governo essere questo monte copioso di un nobil marmo statuario, e per le arti il più pregievole.”9 Le condizioni della strada che Cosimo I Medici aveva condotto nel 1567 fino ai piedi della montagna lungo la valle del Serra apparivano pessime, tanto che in certi tratti questa risultava franata o fortemente lesionata. Per il ripristino occorrevano notevoli finanziamenti che il Borrini si affrettò a richiedere al granduca di Toscana, confidando nelle sue buone relazioni con la burocrazia governativa. A seguito di tale istanza, il granduca affidò il compito di istruire la pratica al Vicario Regio in Pietrasanta che all’epoca era Ranieri Barbacciani Fedeli e successivamente a Giovanni Fabbroni. Giovanni Fabbroni, Direttore della R. Zecca e Commissario delle miniere dello Stato, già Soprintendente ai Ponti e Strade nel Monte Bianco, nel Dipartimento di Montenotte e in quello di Genova, era stato incaricato con dispaccio della Reale Segreteria di Finanze del 22 settembre 1820 di effettuare un sopralluogo alle cave del Monte Altissimo che Marco Borrini intendeva riaprire, e alla strada dei marmi che doveva essere ripristinata con il contributo del governo granducale. La relazione era indirizzata al Commendator Leonardo Frullani, Consigliere di Stato e Direttore delle R.R. Finanze. Secondo il Fabbroni l’impresa del Monte Altissimo era destinata a un sicuro successo. Il giacimento, pressoché inesauribile, era ubicato in posizione favorevole anche per la soluzione di un problema comune a tutti i luoghi di lunghe escavazioni: quello della discarica dei detriti. Occorreva costruire una casa “per magazzino d’arnesi e ricovero di lavoranti”, quindi “una via per calare i marmi; via che i Francesi chiamano d’Exploitation.” Oltre a ripristinare e migliorare la strada di accesso alle cave, che Fabbroni ebbe modo di visitare.
51
Arte
Il Monte Altissimo visto dalla Versilia
52
Arte
53
Arte
54
Arte
A sinistra, Cava Cervaiole
N OT E Il parere favorevole espresso dal Fabbroni nella sua relazione fu determinante ai fini della concessione del contributo richiesto da Marco Borrini al governo granducale per il ripristino della strada dell’Altissimo. Quest’ultimo si recò in ispezione sull’Altissimo conducendo con sé Jean Baptiste Alexandre Henraux, “Soprintendente Regio alla scelta ed acquisto dei marmi bianchi e statuarj di Carrara per i monumenti pubblici di Francia”, secondo la definizione dello stesso Fabbroni che lo volle al suo fianco come esperto, insieme ad un capo cava e a due scultori inglesi. Nella relazione di quel sopralluogo, che reca la data del 19 ottobre 1820,10 Fabbroni annotò d’aver “… messo a profitto la presenza del Capo Cava del sig. Henraux, il quale, anco per propria curiosità, è andato tentando con aiuto di guide e corde, gran tratto di quella faccia del Monte, recando mostre; e concluse con me, che il tutto è formato del medesimo statuario bellissimo, sotto una crosta nerastra e lacera che lo ricopre.” Ne restaron tutti sorpresi – sosteneva il Fabbroni – compreso l’Henraux. L’esito di quella ricognizione fu del tutto favorevole all’impresa, tanto che il Fabbroni non nascose il proprio entusiasmo: “Pare che sia da credere che il Marmo di Monte Altissimo non avendo maggior trasporto e niun dazio, vinceranno in economia, in saldezza ed in più schietto candore quello delle attuali cave di Carrara; attireranno le Commissioni dell’Universo; alletteranno gli Artisti or stabiliti a Carrara, a formare i loro studi a Seravezza, come già lo annunzia il sig. Henraux; e Seravezza diverrà l’Emporio della materia per i pubblici Monumenti, che si vorranno fare da tutte le Nazioni; Seravezza così subentrerà a Carrara; si convertiranno in oro i suoi Marmi; ed un nuovo ramo di commercio si aprirà per facilitare vieppiù la Toscana, aggiungendo alla presente ricchezza nazionale.” Il parere favorevole espresso dal Fabbroni nella sua relazione fu determinante ai fini della concessione del contributo richiesto da Marco Borrini al Governo granducale per il ripristino della strada dell’Altissimo. In totale Borrini ottenne dal Governo uno stanziamento di 24.000 lire, una somma davvero cospicua per l’epoca, di cui 10.000 come contributo a fondo perduto e 14.000 in prestito fruttifero. Non v’è dubbio che l’impegno assunto dal Borrini per la ricostruzione della strada costituiva il vero prezzo d’acquisto dell’Altissimo, mentre la somma pagata alla stipula del contratto risultava poco più che simbolica. Ma da quella vendita sarebbe scaturita una nuova economia, si sarebbe sviluppata finalmente quell’industria del marmo vagheggiata da Leone X, dalla Signoria di Firenze e da Cosimo I Medici e che nel volgere di pochi decenni avrebbe creato migliaia di posti di lavoro e modificato in profondità l’assetto di un territorio endemicamente povero.
1 F. Campana, Analisi storica politica economica sulla Versilia granducale del Settecento, a cura di F. Giannini, voll. 3, Massarosa 1968, vol. II, pp. 81-82. 2 G. Targioni Tozzetti, Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, Firenze 176879, p. 203. 3 Ibidem, p. 205. 4 E. Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, voll. 6, Firenze 1833-46, vol. V, pp. 264-265. 5 Archivio Storico del Comune di Seravezza, Partiti dal 1816 al 1825, Libro 14, ff. 91-92. Verbale della riunione del 28 febbraio 1820: il Gonfaloniere e i Priori della Comunità di Seravezza deliberano la vendita al dott. Marco Borrini di un appezzamento di terreno posto nel monte Altissimo; copia in Archivio Storico Henraux, Patrimoniale XIII, 32, fasc. 2. La misura ovvero quantità del bene venduto, “fatta ascendere” a 275 staia e otto decimi, darà origine quarant’anni più tardi ad accese dispute, non ancora sopite ai giorni nostri. In realtà – e questo è il nostro parere supportato da numerosi documenti – al momento della vendita si quantificò e si stimò (seppure a un tenue prezzo, pressoché simbolico) solo una parte del tutto venduto, ossia quella ritenuta produttiva, mentre la parte restante veniva ceduta gratuitamente come area di rispetto delle cave, in massima parte improduttiva e comunque non accessibile ad altri che non fossero gli addetti ai lavori, per l’impiego frequente di mine e la caduta di massi che rendevano pericolosa l’area. Così è avvenuto, poco dopo, anche per la vendita effettuata dal Comune di Seravezza a privati delle cave di Cappella, Giustagnana e Trambiserra. 6 Archivio Storico Henraux, Patrimoniale, XIII, 32, fasc. 2. 7 Archivio Storico del Comune di Seravezza, Partiti, cit., Libro 14, f. 94. 8 Archivio Storico del Comune di Pietrasanta, Lettere dell’I. e R. Uffizio dei Fossi di Pisa dal 1816 al 1822, Filza C 46. c. 1149; copia in Archivio Storico Henraux, Patrimoniale XIII, 32, fasc. 2. 9 R. Barbacciani Fedeli, Saggio storico politico agrario e commerciale dell’antica e moderna Versilia, Firenze 1845, pp. 256-257. 10 Relazione di Giovanni Fabbroni a Leonardo Frullani, Consigliere di Stato, Direttore delle RR. Finanze del Granducato di Toscana, sull’ispezione ai giacimenti di Monte Altissimo, datata 19 ottobre 1820. Archivio di Stato di Firenze, posizione n. 11 del Protocollo Straordinario degli Affari del Dipartimento di Finanze, risoluti da Sua A.I. e Reale dal 1 al 31 gennaio 1821, attinente all’archivio della Segreteria di Finanze.
55
Design
Il cantiere dell’ADI Design Museum a Milano. Ph. Miro Zagnoli
56
Design
ADI DESIGN MUSEUM. AUTOBIOGRAFIA DEL MADE IN ITALY DI ALDO COLONETTI
Nasce a Milano l’ADI Design Museum - Compasso d’Oro, centro internazionale destinato a tutte le attività – creative, professionali, sociali – che ruotano intorno al design. Sarà uno dei maggiori musei d’Europa dedicati alla cultura del progetto, con un’esposizione permanente di oltre duemila pezzi, mostre temporanee e spazi di lavoro e di riflessione. 57
Design
Un nuovo museo, quando nasce, possiede già una collezione alla quale far riferimento dal punto di vista progettuale, perché contenitore e contenuto devono essere pensati, pur all’interno di una parziale autonomia espressiva, come il risultato di una visione omogenea e coerente. Non sempre questo accade nell’architettura contemporanea, soprattutto per il ruolo sempre più protagonista dell’architetto, inteso spesse volte come un artista capace di dare forma a uno spazio espositivo, al di là della sua funzione e delle necessità museali. È un fenomeno degli ultimi decenni; si potrebbe farlo risalire al movimento postmoderno, in particolare al famoso testo di Robert Venturi “Imparando da Las Vegas” (1972), e in seguito alla Biennale di Architettura di Venezia del 1980, curata da Paolo Portoghesi “La presenza del passato”, con la quale si ripensa completamente il rapporto con la continuità storica, mettendo quindi in crisi la relazione fondamentale tra “forma e contenuto.”
58
Architettura museale e contenuti artistici desiderano parlare due linguaggi autonomi e paralleli; sta al visitatore trovare quelle relazioni in grado di arricchire il significato di un’opera contestualizzata in uno spazio che esprime, a sua volta, una forte, e il più delle volte dissonante, dimensione estetica rispetto al contenuto. Altro discorso progettuale è in atto quando il tema di un nuovo museo non è dato totalmente “chiavi in mano”, come la somma precisa di alcune opere di una determinata epoca e di una specifica ricerca estetica, ma è il risultato di un processo, certamente storico, all’interno del quale però le variabili sono più numerose delle costanti. Ovvero, quando si deve mettere in mostra una delle dimensioni culturali tipiche del nostro tempo, quale il design industriale, entrano in campo particolari necessità costruttive che, forse, come accade per il nostro caso, sono più facilmente rintracciabili nell’archeologia industriale del ’900 piuttosto che in un’architettura autonoma e “orgogliosa” della propria identità espressiva.
Quando si deve mettere in mostra una delle dimensioni culturali tipiche del nostro tempo, quale il design industriale, entrano in campo necessità costruttive che sono più facilmente rintracciabili nell’archeologia industriale del ‘900 piuttosto che in un’architettura “orgogliosa” della propria identità espressiva.
Il cantiere dell’ADI Design Museum a Milano. Foto in alto di Angelo Margutti
Design
59
Design
Sedia in ferro, lamiera e gommapiuma DU 30, design Gastone Rinaldi per RIMA, Compasso d’Oro 1954. Restaurata nel 2011 a cura del Centro Conservazione e Restauro “La Venaria reale” di Torino. Ph. Mimmo Capurso / Archivio fotografico Fondazione ADI Collezione Compasso d’Oro
60
Design
61
Design
62
Design
L’ADI Design Museum rappresenta un modello unico nel panorama internazionale: in primo luogo, è una collezione che crescerà nel tempo, perché dovrà accogliere – accanto ai 2300 oggetti che fanno già parte del patrimonio culturale che le diverse giurie internazionali dal 1954, prima ogni tre anni ora ogni due, hanno individuato nella produzione industriale italiana – il futuro dei prossimi decenni che non conosciamo ancora; in secondo luogo, rappresenta una straordinaria messa in scena delle oscillazioni del gusto, dove protagonisti sono i più importanti architetti e designer del mondo, un vero termometro del nostro tempo. Infine, tutto questo viene messo in scena, in modo dinamico e aperto, all’interno di una sorta di piccola città, insediata in alcuni vecchi edifici industriali dove per tutto il ’900 hanno operato un deposito di tram e in seguito un impianto di distribuzione elettrica Enel. Siamo in un quartiere centrale di Milano, tra la Fondazione Feltrinelli di Herzog & De Meuron e il
nascente Museo della Resistenza, a poche centinaia di metri da Brera. Complessivamente, quasi 5000 metri quadri, tra museo, magazzini, uffici, ristorante; il progetto di ristrutturazione, di grande qualità ingegneristica e soprattutto dialogante con tutte le sue trasparenze con la città intorno, è di Giancarlo Perotta, guidato da Aldo Bottini e Carlo Valtolina. L’allestimento espositivo è dello studio Migliore+Servetto e, soprattutto, il nuovo simbolo è stato ideato da Italo Lupi: come sempre in tutti i suoi lavori, la memoria storica dialoga con la possibilità di essere facilmente veicolato dalle nuove tecnologie. Project Manager dell’ADI Design Museum è Andrea Cancellato che dal 2002 al 2018 è stato direttore della Triennale, e, tra il 1994 e il 2007, come responsabile del Clac, ha fatto conoscere in tutto il mondo la collezione del Compasso d’Oro. L’ADI (Associazione per il Disegno Industriale), nata nel 1957, fondata da
Macchina da scrivere portatile Lettera 22, design di Marcello Nizzoli per Olivetti, Compasso d’Oro 1954. Ph. Mimmo Capurso / Archivio fotografico Fondazione ADI Collezione Compasso d’Oro
63
Design
È la prima volta che è possibile vedere rappresentati in uno spazio istituzionale, attraverso gli oggetti quotidiani, i cambiamenti della nostra vita quotidiana, in modo chiaro, svelando centinaia di autori che, spesse volte, sono rimasti dietro le quinte.
Ventilatore Zerowatt V.E. 505, design di Enzo Pirali per Fabbriche Elettriche Riunite, Compasso d’Oro 1954. Ph. Mimmo Capurso / Archivio fotografico Fondazione ADI Collezione Compasso d’Oro A destra, il cantiere dell’ADI Design Museum a Milano
64
progettisti e intellettuali come Ernesto Nathan Rogers, Giò Ponti, Alberto Rosselli, Marco Zanuso, Gillo Dorfles, Augusto Morello è l’unica associazione al mondo dove sono presenti designer, architetti, aziende, teorici e storici: un osservatorio “militante” che attraverso il design monitora il Made in Italy e tutti i suoi prodotti, dalla casa al lavoro, dalla moda al cibo, dall’automotive alle tecnologie produttive. Per questa ragione è un museo unico al mondo; certamente una grande autobiografia del nostro paese, ma non solo, perché è un insieme di storie di uomini, di territori, di ricerca, di tecnologie, di nuovi e vecchi materiali al cui centro è sempre, comunque, la “persona”: una concezione umanistica delle grandi rivoluzioni industriali di ieri, oggi e domani.
Come è stato detto in occasione della presentazione del progetto, da parte di Luciano Galimberti, Presidente ADI, e di Umberto Cabin, Presidente Fondazione Compasso d’Oro: “È la prima volta che è possibile vedere rappresentati in uno spazio istituzionale, attraverso gli oggetti quotidiani, i cambiamenti della nostra vita quotidiana, in modo chiaro, svelando centinaia di autori che, spesse volte, sono rimasti dietro le quinte.” Tutti siamo, insieme, autori e consumatori, progettisti e cittadini, come scriveva Rogers negli anni ’50, “dal cucchiaio alla città.” Un nuovo museo in uno spazio del secolo scorso, riletto alla luce delle nuove tecnologie: si entrerà senza biglietto fisico, ma utilizzando una app.
Design
65
IArte maestri dell’Henraux
RENZO MAGGI.
POETICAMENTE SCULTORE DI ROBERTO BERNABÒ FOTO DI NICOLA GNESI
Si apre con la figura di Renzo Maggi la serie di interviste e di approfondimenti dedicati ai maestri che hanno collaborato con l’Henraux nel corso degli anni. Nella sua conversazione con Roberto Bernabò, Maggi ci racconta della sua formazione, delle sue collaborazioni, ma anche della politica e del suo rapporto con il marmo, fatto di pathos e poesia.
66
I maestri dell’Henraux Arte
67
I maestri dell’Henraux
Renzo Maggi oggi nei suoi 76 anni vissuti nella campagna di Querceta è un uomo che ama la vita, che sogna. Illuminato dall’amore di Elena [...], trasmette passione, luce, calore.
68
Quando ci vediamo – via Skype, nel modo in cui la pandemia ci ha costretto a gestire le relazioni sociali – Renzo Maggi mi accende la memoria. È un flash folgorante. Quel volto scolpito dai segni forti che esaltano i diversi elementi, lo rivedo lì, in un quadro di Virio Bresciani che ho appeso nel salotto. Virio era un pittore pietrasantino, introverso e solitario, indagatore delle profondità dell’anima umana, che ci ha lasciato nel 1990. Forse l’affinità finisce qui, dentro quel ritratto, perché Renzo Maggi oggi nei suoi 76 anni vissuti nella campagna di Querceta è un uomo che ama la vita, che sogna. Che cerca nella pietra nuovi racconti dell’umanità. Illuminato dall’amore di Elena – “è tutto nella mia vita, mi ha dedicato intelligenza, bellezza, dedizione; se non avessi avuto una persona che amasse l’arte e mi spronasse nei momenti duri non so cosa
sarei oggi” – trasmette passione, luce, calore. Ma mi vien da pensare, via via che parliamo, che anche lui ha dovuto faticare per conquistarsi nella sua terra la dimensione di artista che gli compete. Perché Pietrasanta e la Versilia, nella loro provincialità, finiscono per inchinarsi alla dimensione artistica del forestiero piuttosto che a quella di chi nasce nel proprio grembo. Forse perché scalpellini, ornatisti, scultori – come si dividevano, semplificando, in una sorta di scala sociale delle competenze – hanno sempre dato mani e sapienza tecnica all’artista, ma pensandosi come altro, escludendo in fondo la creatività dall’orizzonte del proprio mestiere. Così ritrovo un tratto che torna a unire non solo nel quadro ma nella vita Virio e Renzo. Il viaggio nell’arte con Renzo Maggi non
I maestri dell’Henraux Arte
può che partire dal ragazzino che respira marmo e bellezza da sempre. Dalle sue radici in questa terra che da Michelangelo è cave e arte. Una matrice che per qualche decennio, nel secolo scorso, si è smarrita inseguendo la produzione industriale. E oggi ha ritrovato un equilibrio intrecciando la tecnologia con le nuove espressioni della cultura. Roberto Bernabò: Quando ha sentito dentro di sé che avrebbe voluto fare l’artista? C’è un inizio dentro una vita con tante facce come la sua? Renzo Maggi: Mio nonno materno era capoguardia sulle cave dell’Henraux; quello paterno aveva affittato una cava sopra Massa. Mio padre invece era uno scalpellino specializzato. Il suo sogno era di avere tre figli maschi e che uno facesse lo scultore. Istituto d’arte e Accademia erano lo sblocco di classe e il
sogno. Io a 5-6 anni aiutavo a lucidare con la pomice i vasetti di marmo o le lettere sul tavolo di cucina. Questa era la mia infanzia in un mondo di forti sentimenti e uno stile di vita sobrio. Un mondo potente che ti formava nella dignità del lavoro. R.B.: La storia della sua formazione è un cammino nel mestiere che prosegue con gli studi e poi la vita nella bottega artigiana. Quanto è stata importante? R.M.: È stato tutto. A 15 anni, mentre frequentavo l’Istituto d’arte, su consiglio del professor Franco Miozzo in estate mi presentai allo studio dello scultore Leonida Parma, Leò. Ecco, quello è stato il luogo della mia formazione: professionale, culturale e politica. Sono stato tre anni a modellare l’argilla. Facevo copie dei grandi del passato, studiavo l’anatomia. Ma è stato molto di più: mi sono
69
I maestri dell’Henraux Arte
70
I maestri dell’Henraux
Come un pianista che per eseguire Chopin deve suonare dieci ore al giorno, io ho appreso la tecnica e oggi posso scolpire in diretta. Traccio con il carbone un disegno sulla pietra e mi lascio andare ai sogni.
preso ciò che rimaneva dell’atmosfera delle botteghe rinascimentali. Eravamo concentrati sulla bellezza e io “frustavo” i libri, Leopardi, Foscolo, Dante. Ascoltavo Rachmaninov, andavo a vedere i film che mi consigliavano. E passavo il tempo con Romano Cosci, l’aiutante principale di Leonida: aveva sei anni più di me e sarebbe diventato uno scultore famoso. R.B.: Crescere nella bottega, diventare grandi presto e avere il coraggio di andarsene da Pietrasanta a 19 anni. R.M.: Sì, lo scultore Vincenzo Gasperetti cercava per il suo laboratorio a Milano una persona per modellare per il conio del Brasile medaglie che celebravano grandi pittori fiamminghi. Si modellavano su plastilina. Era un lavoro bellissimo ed ero ben pagato. Milano è stata una scuola, io ero un ragazzo magro di provincia e, senza mitizzare, pensai: “Accidenti, che bei giri.” R.B.: Questa esperienza milanese la porta in Svizzera a modellare manichini. Mi racconti quel lavoro. R.M.: Vado a realizzare manichini d’alta moda per la fabbrica Schläppi AG, in contatto con le riviste di moda. Lavoravo con modelle dai corpi bellissimi. Ma, per carità, io con le donne non ci capivo niente. Sono stati quindici anni in cui sono stato tutto concentrato sulla bellezza. Facevo il modello in creta e poi venivano riprodotti quasi come pezzi unici. Era la tradizione dei manichini da vetrina che si era diffusa in Francia nella seconda metà dell’Ottocento. E li facevamo per le vetrine dei grandi magazzini in Germania, Francia, Usa.
Un ritratto di Renzo Maggi esposto nel suo studio
R.B.: Questo lavoro ha segnato di sicuro il suo rapporto con il corpo umano e con la bellezza. Ma la Svizzera, grazie alla politica, è stata molto di più nel cammino della sua formazione. R.M.: Lì ho conosciuto l’estetica sublime del nudo che mi ha contraddistinto sempre. Io non concepisco la bellezza femminile in modo carnale, ma come le antiche Veneri preistoriche è per me la grande madre. Poi mi sono arricchito visitando i grandi musei, conoscendo l’arte.
La Svizzera è stata anche impegno politico. Mi iscrivo al Partito comunista di Zurigo insieme a molti italiani. È l’epoca dell’eurocomunismo. Divento segretario della sezione e direttore, dal 1977 al 1981, del quindicinale “Realtà Nuova.” La politica mi appassiona con il sogno di un socialismo dell’uguaglianza. Io ero un riformista contro le dittature. E anche contro gli schematismi nell’arte. Quel partito non era oscurantista ma ispirato dalla speranza. La passione politica nasceva dagli anni nella bottega di Leonida e poi dal confronto al tempo di Milano con lo scultore Gigi Supino che mi ha fatto leggere da Tolstoj a Dostoevskij. In Svizzera, da emigrante di lusso, mi sono invece innamorato della poesia russa, di quella francese e di Shakespeare. E oggi, quando leggo i contemporanei avverto subito un altro spessore e me ne sto lontano. Ecco, questa era la mia Svizzera e la vita a Zurigo. Poi nel 1992 torno a Pietrasanta con Elena e con mio figlio Ariele di un anno. Faccio il consulente di un’azienda svizzera di design. Dopo cinque anni finisce tutto e allora definitivamente scelgo la strada della scultura. Faccio arte funeraria, riprendo a fare volti, a incidere. Acquisisco una conoscenza tecnica profonda degli attrezzi che mi ha poi consentito una straordinaria libertà di espressione. Come un pianista che per eseguire Chopin deve suonare dieci ore al giorno, io ho appreso la tecnica e oggi posso scolpire in diretta. Traccio con il carbone un disegno sulla pietra e mi lascio andare ai sogni. Insomma, riprendo con forza e ostinazione un cammino che avevo iniziato molti anni prima. A Zurigo avevo già scolpito parecchio. Avevo un piccolo studio in centro, conoscevo gente, ero un personaggio. Sono tornato qui, nella mia Versilia, ad essere un anonimo scultore. R.B.: L’incontro con l’Henraux, che è la storia del marmo e che vive una stagione nuova, mi pare rappresenti un’altra fase della sua vita. Come nasce questa relazione feconda? R.M.: Nel 2003 Paolo Carli diventa l’azionista di riferimento di Henraux. Io
71
I maestri dell’Henraux Arte
72
I maestri dell’Henraux
73
I maestri dell’Henraux
Il modello ti limita. Picasso diceva: io non cerco, io trovo. Se quando scolpisci hai già un modello precostituito arrivi dove sei partito. Pensiamo alla poesia: è il momento della scrittura che fa esplodere la mente. Così è per me con la scultura: io voglio essere poeticamente scultore.
mi presentai a una festa sulle cave con il primo catalogo di una mostra del 1999 a Populonia. Parlammo e fu amore a prima vista. Da lì iniziammo a collaborare, sperimentando ad esempio la produzione delle complesse sculture di Tony Cragg quando ancora non c’era la robotica. Lui voleva far crescere l’Henraux con il mito di Erminio Cidonio, di quegli anni Sessanta in cui l’azienda fu un polo internazionale della scultura contemporanea. L’idea insomma di una fabbrica che è anche un cuore pulsante della cultura di un territorio. Accanto alla lavorazione tradizionale del marmo, Carli ha chiara la necessità del collegamento con l’arte. Sa cosa il marmo può dire, ne conosce la potenza espressiva. Mentre negli anni era stato oltraggiato, con le marmette lucidate, venduto a meno della ceramica. Quella materia che è la storia dell’umanità! Dal Partenone e dalle sculture dell’Egitto parte la cultura mediterranea con Lisippo, Fidia, uomini che hanno plasmato il nostro mondo. R.B.: La lavorazione del marmo che non è solo tecnica, ma è cultura, è respiro del tempo. Che innova nella tecnologia ma ha un’anima, impasto di storia e di presente. Ecco, direi che Maggi dentro questo contesto industriale è il soffio di pensiero che mantiene uniti i mondi. R.M.: Mi fa piacere la definizione. Vede, da un decennio è arrivata la robotica sempre più sviluppata. E Carli ha investito su robot e ingegneri che conoscono la possibilità di queste macchine. Ma al tempo stesso ha creduto negli scultori che arrivano da tutto il mondo; ha cre-
74
ato il Premio Henraux, la Fondazione, la rivista. E il fondamentale collegamento con il design che si respira nello showroom. Così, il marmo torna materia pregiata e la bellezza il valore assoluto. Oggi l’Henraux mi ha superato: macchine nuove, tecniche sofisticate, razionalità, ordine, pulizia. Mi sento dentro un mondo nuovo che faccio fatica a penetrare. Perché io rimango uno scultore che lavora con le mani. Ma l’uomo è immortale perché ha il pensiero. E io mi alzo ogni giorno e penso, invento. La mia giovinezza è nella capacità di sognare. R.B.: Il pensiero, il sogno, la creazione. Capirne i percorsi ha un grande fascino. Il suo lavoro è fatto di aggressione diretta della materia. Perché? R.M.: Perché il modello ti limita. Picasso diceva: io non cerco, io trovo. Se quando scolpisci hai già un modello precostituito arrivi al punto da cui sei partito. Pensiamo alla poesia: è il momento della scrittura che fa esplodere la mente. Così è per me con la scultura: io voglio essere poeticamente scultore. Perciò sono molto critico con l’arte contemporanea che non scolpisce. Mi pare più design, arredo urbano. Anche con certa critica d’arte lo sono: scrivere di un’opera non è descriverla ma esplorare il processo di genesi. I grandi critici del passato studiavano profondamente, molti oggi fanno i protagonisti in tv. R.B.: Torniamo al marmo, alla sua forza, alla sua poesia. Qual è il collegamento tra la materia che sceglie e il sogno a cui dar corpo?
I maestri dell’Henraux Arte
Lo studio di Renzo Maggi
R.M.: All’inizio non amavo il marmo bianco, lo trovavo algido, freddo. Poi sulle Cervaiole, nella “cava di Russia” dove a fine Ottocento estrassero il marmo per la chiesa di Sant’Isacco a San Pietroburgo, scopro questo bianco candido ma carnicino, di una trasparenza e un cristallo unico. I greci davano alle cose un senso: marmaros vuol dire luccicante, trasparente. In quel marmo lassù ho trovato scaglie stupende e ho fatto sculture dolci, carnali. Mi sono accorto che questo era il marmo greco, come quello di Paros. E solo quello delle Cervaiole ha questa possibilità poetica. Ma non ti regala nulla. Non puoi saltare
neanche un piccolo scalino oppure il risultato è negato. R.B.: E cosa la spinge a volte verso altri materiali? R.M.: La sorpresa. La pietra è più facile da lavorare. È più dolce, meno sovraumana. Con una subbiata, scoppiando o lasciandola grezza, già racconta la sua vita con il colore. Il marmo bianco no, se non gli dai la forma fino in fondo, se non lo spolpi, non si dà. E poi la velocità: con il travertino in un giorno tiri fuori un busto femminile. Con il marmo per arrivare in Paradiso devi passare dall’Inferno, come Dante.
75
Design
LA FORMA DEL GUSTO.
UNA CONVERSAZIONE CON DAVIDE OLDANI E ATTILA VERESS DI ALESSIA DELISI
La relazione tra il design e il cibo si arricchisce di un nuovo progetto che mette insieme il brand Luce di Carrara, lo chef Davide Oldani – con il sous chef Alessandro Procopio – e il designer Attila Veress. Due piccoli piatti realizzati in pregiato marmo nero marquina che danno al gesto antico e semplice di mettere l’olio sul pane la forma inedita di un candelabro.
76
Davide Oldani. Ph. Mauro Crespi
Design
Attila Veress
77
Design
Piatto A.P., marmo nero marquina, design di Attila Veress in collaborazione con Luce di Carrara. Ph. Mauro Crespi
Alessia Delisi: Nel 1963 Bruno Munari scriveva Good Design, un gioiello di acume e ironico rigore che trattava un’arancia come un buon prodotto industriale, un esempio di good design appunto, “un oggetto quasi perfetto dove si riscontra l’assoluta coerenza tra forma, funzione e consumo.” Mi pare che il vostro progetto per Luce di Carrara – il Piatto A.P. e il Piatto Pane – nasca proprio a partire dalla volontà di rendere funzionale, e quindi fruibile, la bellezza di prodotti naturali come il pane e l’olio e la sapienza del loro accostamento. Davide Oldani: Proprio così. Il punto di partenza del progetto è infatti un’idea di cibo, la possibilità cioè di rendere solido un prodotto che normalmente è liquido, ovvero l’olio. Ma è anche il gesto semplice di mettere l’olio sul pane. Da qui siamo partiti, perché, come dico sempre, le grandi idee nascono dal cibo, il quale naturalmente deve essere disposto in un certo modo e messo nella condizione di potersi esprimere al meglio. In questo caso l’idea l’ha data Alessandro Procopio, il mio sous chef. Alessandro Procopio: Da tempo al D’O usiamo la cera d’api, abbiamo esordito qualche anno fa con un filetto alla Wel-
78
lington che veniva immerso nella cera d’api – a formare un involucro dal gusto vanigliato – per poi essere cotto. Quello che cercavamo ora era invece un aperitivo semplice da offrire all’ospite. E cosa c’è di meglio di pane e olio? Così, aggiungendo una piccola quantità di cera d’api all’olio extravergine di oliva, a quello di coriandolo, di armellina o di altri semi molto profumati, abbiamo creato una candela totalmente edibile che viene portata al tavolo, accesa e degustata con il nostro pane. Per una cena d’effetto. D.O.: Ma anche impeccabile dal punto di vista estetico. Il mio contributo infatti è stato scegliere un prodotto italiano come uno dei marmi di Luce di Carrara per formare un candelabro dalle linee morbide, minimale. A.D.: E qua entra in gioco il design di Attila Veress… Attila Veress: Davide mi aveva mostrato dei prototipi, da lì ha preso il via la nostra conversazione. A volte può essere difficile immaginare un oggetto senza averlo mai visto, ma lo chef aveva già le idee chiare anche a livello grafico e sapeva quale segno fosse meglio dare al prodotto. Devo dire poi che, avendo sviluppato altri
Design
79
Design
Piatto A.P., schizzi
80
Design
81
Design
progetti con Oldani e Luce di Carrara, è stato tutto piuttosto facile, divertente anche: prima infatti l’azienda ha realizzato dei prototipi in marmo che ha via via perfezionato seguendo le nostre indicazioni – il bello del marmo è che lo si può fresare, non sempre si rende necessaria la stampa 3D – successivamente gli artigiani hanno inciso le api e le olive. D.O.: E il logo, A.P., che è il nome del piatto, ma anche l’acronimo di Alessandro Procopio. A.V.: Del quale fino all’ultimo Alessandro non ha saputo niente… D.O.: È stato un regalo pensato da me e realizzato da Attila per il mio sous chef, una cosa divertente, perché con le sue iniziali abbiamo creato una parola che lo rappresenta mentre racconta il piatto. Credo fermamente nel fatto di essere una squadra, con me, da un lato, che sostengo l’idea di Alessandro e con Attila, dall’altro, che ricompone in maniera precisa e tecnologicamente perfetta il progetto del cibo e il suo valore estetico. Ultimo, ma non per importanza, il contributo di Luce di Carrara che ci ha permesso di giocare
82
con il marmo, scegliendo un nero marquina – profondo, solcato da segni bianchi sottili e decisi – per creare un oggetto unico, in linea con l’ambiente del ristorante. A.D.: Tutto è progetto quindi, anche, e soprattutto, il cibo… D.O.: Assolutamente, il punto di partenza, come dicevo, è sempre il cibo, il quale ha bisogno di contenitori che lo valorizzino. E siccome non sempre riesco a trovarne che assecondino la mia idea, il più delle volte li faccio realizzare appositamente, come in questo caso. A.D.: Che mi dite poi dell’elemento decorativo rappresentato dal segno delle api e delle olive? Solo un semplice abbellimento? D.O.: È comunicazione, un modo, in altri termini, per far sapere al cliente cosa sta mangiando. Lo stesso candelabro, il suo profilo ondulato, non è solo bello, ma utile ad appoggiare il cucchiaio. A.V.: La forma quindi non si limita alla semplice funzione, ma assume anche un valore decorativo.
Design Ciò che più mi piace delle persone giovani – mi riferisco ad Attila, ma anche ad Alessandro Procopio – è l’energia che mettono nelle cose quando le si lascia libere di esprimersi. Stando con loro sento anch’io di poter crescere.
A.D.: Voi due sembrate conoscervi piuttosto bene, quando vi siete incontrati? Avevate già sentito parlare l’uno del lavoro dell’altro? D.O.: È stato circa otto o nove anni fa, cercavo qualcuno che fosse in grado di mettere nero su bianco le mie idee. Così chiesi al direttore dello IED di allora che mi fece il nome di Attila. Ricordo l’ottima impressione la prima volta che lo incontrai, per cui da subito cominciammo a lavorare insieme. Devo dire che ne abbiamo condivisi di progetti in tutto questo tempo. Ciò che più mi piace delle persone giovani – mi riferisco ad Attila, ma anche ad Alessandro Procopio – è l’energia che mettono nelle cose quando le si lascia libere di esprimersi. Stando con loro sento anch’io di poter crescere. Alla base però non c’è solo stima reciproca, ma anche un profondo rapporto umano. A.V.: Conoscevo poco il mondo di Davide quando mi capitò questa opportunità che ha stravolto positivamente la mia vita e soprattutto la mia relazione con il cibo. Casualmente infatti, una settimana prima di incontrarci, avevo assistito a una con-
ferenza in cui lui parlava della sua idea di cucina. Mi colpì a tal punto che subito dopo andai a fare la spesa ragionando in un modo completamente diverso dal solito. È vero, la nostra è una collaborazione lavorativa, nel tempo però è sfociata in un’amicizia. Senza contare che, conoscendoci ormai da così tanto tempo, mi bastano poche parole per capire quello che ha in testa. Il nostro feeling è tale che a volte mi prendo la libertà di disegnare in autonomia, basandomi anche su poche informazioni. D.O.: In questo caso per esempio gli avevo mostrato qualche prototipo e due o tre foto prese da internet che rappresentavano quello che non volevo… A.D.: Come è nata invece la vostra collaborazione con il brand di Henraux, Luce di Carrara? D.O.: Da tempo conoscevo il presidente di Henraux, Paolo Carli, ciò che conoscevo meno era il mondo del marmo. Sono state le competenze di Paolo, la sua professionalità, gli input che ha cominciato a darmi – oltre naturalmente
83
Design
Piatto A.P., marmo nero marquina, design di Attila Veress in collaborazione con Luce di Carrara. Ph. Mauro Crespi
84
Design Io credo che per vivere bene ci sia bisogno anche del “grande cibo.” Il design accompagnerà questo prodotto che dovrà essere “coccolato” da un contenitore capace di dargli ancora più valore. Il contenuto infatti è l’anima, la forma è importante se dà valore al contenuto.
alla straordinarietà dei prodotti realizzati dall’azienda – a far sì che io scegliessi di affidarmi a Luce di Carrara per la realizzazione del Piatto A.P. e del Piatto Pane. A.D.: Oggi che le antiche tradizioni culinarie sono entrate di diritto nella sfera di competenza del design, ci si domanda quale forma avrà il cibo del futuro, a quali provocazioni e ardite sperimentazioni assisteremo… D.O.: Credo che il cibo del futuro avrà una forma irregolare. Immagino questo seguendo le poche stagioni che rimarranno e il loro cambiamento. Attingeremo al cibo, lasciandolo però nella sua forma naturale. D’altra parte, accanto all’irregolarità dei prodotti, mi figuro l’uguaglianza delle pillole, concentrati di proteine, vitamine e carboidrati che, da qui ai prossimi venti, trenta, se non addirittu-
ra quarant’anni, si alterneranno al tempo che sempre più dedicheremo alla cucina – perché io credo che per vivere bene ci sia bisogno anche del “grande cibo.” Il design accompagnerà questo prodotto che dovrà essere “coccolato” da un contenitore capace di dargli ancora più valore. Il contenuto infatti è l’anima, la forma è importante se dà valore al contenuto: ecco il mio claim. A.V.: Sono anni che io e Davide affrontiamo questi argomenti e devo dire che siamo in perfetta sintonia. D.O.: Aggiungo che il design nasce per un fine, per conservare un prodotto ad esempio, o per servirlo, per renderne più elegante la sua presentazione. Il design per me deve essere utile, pratico. A.V.: E qua torniamo all’arancia di Munari…
85
Architettura
Dimensional Place, Charlotte, North Carolina, esterni
86
Architettura
MATERICITÀ, MEMORIA, ARTE DI TURAN DUDA
È dalla qualità tattile dei materiali e dal fascino conferito dallo stratificarsi del tempo che l’architetto Turan Duda ha tratto ispirazione per il suo progetto a Charlotte, nella Carolina del Nord: un edificio moderno in un luogo storico dove trova spazio anche l’arte.
87
Architettura
Il fascino di ogni disegno si rivela anche nei vari utilizzi che, nel corso di centinaia di anni, sono stati fatti del marmo, e nei modi e nei particolari strumenti impiegati dall’uomo per estrarlo. Si tratta di segni grezzi, screziati e casuali con una storia tutta loro.
In alto, schizzo del progetto A destra, Dimensional Place, esterno
88
L’arte e la scienza dell’architettura offrono molte fonti di ispirazione. Possiamo indugiare nel regno della progettazione, della funzionalità, della praticabilità, della teoria o di qualsiasi altro meccanismo coinvolto nel processo creativo. Probabilmente quello più gratificante e viscerale è l’utilizzo che si fa della matericità e della memoria: le qualità tattili e sensoriali dei materiali, infatti, hanno il potere di evocare sensazioni e connessioni molto forti. Quando mi è stato chiesto di inserire un’architettura moderna in uno splendido e storico quartiere industriale di Charlotte, nella Carolina del Nord, ho prima dato un’occhiata alle dimensioni e alle condizioni materiali delle strutture esistenti vicino al luogo in cui avrei dovuto costruire. Avevo già affrontato sfide simili in altre città in crescita degli Stati Uniti, dove le strutture abbandonate di un passato industriale avevano dovuto accogliere lavori e stili di vita moderni. Con Tim Hendricks, il cliente di questo progetto, c’è da molto tempo una proficua collaborazione nel creare architettura. Mi ha sfidato a catturare l’aspetto storico di questo quartiere tanto amato, ma in un modo che riuscisse a far coesistere il passato con le esigenze di una moderna sede aziendale. Quando sono arrivato sul luogo del progetto, ho notato che i muri in mattoni di una fabbrica nelle vicinanze erano usurati e rovinati dal passare degli anni. Sono stati
proprio quei muri l’ispirazione che mi ha portato alle cave del Monte Altissimo. Ho ricordi molto nitidi di ogni viaggio alle cave, dei processi di taglio, di scalpellatura e di levigatura della pietra. Allo stesso modo, riesco ancora a vedere i manufatti di tutta quella procedura: i blocchi grezzi contro il pavimento della cava, il reticolo di segni fatti dagli strumenti sulle pareti, i bordi non lavorati e la trama irregolare lasciata sui muri dopo l’estrazione del materiale. Ogni trama contrassegna in modo unico una specifica impresa, un particolare intervento, e la visione del suo artefice nell’uso che ha fatto della pietra. Secondo me, il fascino di ogni disegno si rivela anche nei vari utilizzi che, nel corso di centinaia di anni, sono stati fatti del marmo, e nei modi e nei particolari strumenti impiegati dall’uomo per estrarlo. Si tratta di segni grezzi, screziati e casuali con una storia tutta loro. Altrettanto meravigliose sono le antiche mura di pietra delle città italiane, che mostrano lo schema e le dinamiche di trasformazione nel corso del tempo. Questi muri ci parlano della loro storia mentre vengono forati, trasformati, restaurati, riempiti, aperti e chiusi di nuovo. I muri di mattoni di quella fabbrica di Charlotte sono stati segnati dal ciclo di crescita, declino e rinascita della città. Io e il mio cliente la pensiamo allo stesso modo: in ogni edificio da noi creato dovremmo offrire al pubblico un aspetto
Architettura
89
Architettura
90
Architettura
Per mia esperienza, Henraux ha sempre trovato la tecnologia adatta ad esaltare la personalità della pietra. L’ottima finitura raggiunta con l’altissima pressione del taglio a getto d’acqua (“taglio waterjet”) ha prodotto esattamente ciò che volevamo.
In alto e a sinistra, Dimensional Place, esterni
dell’arte, sia come costruttore sia come architetto. Pertanto, abbiamo condiviso la stessa idea che questo nuovo edificio, e il design scelto per il suo ingresso e per il piano terra, fosse allo stesso tempo un’opera d’arte ma anche un invito per l’installazione di altre opere d’arte. Il fatto che lo spazio dell’atrio fosse trasparente, e quindi connesso con i pedoni che passavano lungo la strada, è stato essenziale per l’architettura complessiva – poiché l’edificio a più piani si allontana dalla strada – per dare forma a tre punti nodali dell’attività pubblica e commerciale grazie alla sede triangolare dell’edificio. Un angolo della piazza serve da ingresso nel grande atrio alto nove metri, che è diventato il fulcro della nostra collaborazione nel marmo. Il processo che ci ha portato a combinare questi punti di ispirazione, infatti, è iniziato
scegliendo il marmo con in mano un bozzetto fatto sull’aereo per l’Italia. Le lastre di Travertino Titanium hanno fornito la composizione ideale, il tratto inconfondibile, il colore e la vivacità ottimale che si prestavano a essere incise. Tuttavia, la superficie liscia del travertino levigato mancava di quell’aspetto usurato dal tempo che stavamo cercando. Per mia esperienza, Henraux ha sempre trovato la tecnologia adatta per esaltare la personalità della pietra. L’ottima finitura raggiunta con l’altissima pressione del taglio a getto d’acqua (“taglio waterjet”) ha prodotto esattamente ciò che volevamo. Ho cercato anche di creare profondità – rifacendomi alle spesse pareti in muratura del passato piuttosto che alle moderne impiallacciature delle strutture in acciaio che si fanno oggi – e di dar voce al significato
91
Architettura
Dimensional Place, interni
92
Architettura
93
Architettura
94
Architettura
In alto, un dettaglio di una parete interna e un dettaglio della parete di una cava In basso, schizzo del progetto A sinistra, Turan Duda
del materiale che è stato estratto e lavorato a mano nel corso dei secoli. Il risultato è un’imponente parete irregolare nell’atrio, estremamente ricca nella texture, nella forma e nel colore. Si tratta allo stesso tempo di un’opera d’arte e di uno sfondo per i pieni dei volumi materici introdotti con l’installazione di due elementi architettonici dalle forme sinuose: la seduta in listelli di legno naturale e il tavolo ad essa corrispondente, che emergono come un serpente dal pavimento della hall. Tali elementi, così leggeri, delicati e organici, sono in contra-
sto con la forza e la struttura delle pareti in pietra. Sopra si articola una torre curvilinea in vetro, con pinne verticali nei toni della terra e intelaiature di metallo lungo le facciate dell’edificio principale. La forma affilata esprime il desiderio di un profilo forte ma decisamente contemporaneo, per evidenziare una moderna porta d’accesso al futuro per lo storico quartiere di South End di Charlotte. In contrapposizione, la scoperta di un ipotetico passato si trova proprio al centro della hall dell’edificio.
95
Arte
ISAMU NOGUCHI,
TAJAPIERE DI ALESSANDRA BALDINI
Isamu Noguchi è tra gli artisti straordinari che hanno lavorato all’Henraux e se ne sono innamorati. Un amore rivolto non solo all’eccellenza dei materiali lapidei, ma anche a un saper fare pieno di passione e competenza e a una qualità unica delle relazioni che qui ha potuto intrecciare e che legherà per sempre l’artista al territorio versiliese.
96
Arte
Isamu Noguchi all’Henraux. Courtesy Archivio Henraux
97
Arte
Marchiori evoca l’artista “curvo, nelle pose più faticose, sui pezzi di marmo scelti qua e là, secondo criteri probabilmente empirici, e per ore e ore l’infaticabile operaio scavava e tagliava coi mezzi meccanici e coi mezzi manuali degli antichi «tajapiere».”
In alto e a destra, Isamu Noguchi al lavoro all’Henraux. Courtesy Archivio Henraux
98
Versilia mon amour: in un’intervista del 1986 in occasione del viaggio “in gondola verso la Biennale di Venezia” della monumentale scultura-gioco Slide Mantra, Isamu Noguchi evoca la sua pluridecennale relazione con la regione tra le Apuane e il mare: “Avevo saputo di voi vivendo a Parigi e così volli visitare la Versilia dove fui attratto dalle vostre montagne e dal marmo stupendo che avevo già conosciuto nei miei lavori ma che non avevo mai visto da vicino. Ho vissuto purtroppo mezzo secolo senza mai conoscervi personalmente”, disse a “Versilia Oggi” lo scultore americano-giapponese a proposito del suo primo viaggio alle cave del 1954, in compagnia della moglie Yoshiko (Shirley) Yamaguchi. Noguchi tornò poi in modo più “operativo” quattro anni dopo, attirato dai modi ospitali del Presidente di Henraux Erminio Cidonio: “Addirittura mi aprì la sua casa, mi fece conoscere dei magnifici operai come Giulio Cardini, Ugo Giannini e Giorgio Angeli”, proseguì l’artista, spiegando di aver continuato a venire nella zona anche dopo la fine dell’“era Cidonio” almeno per un mese all’anno: “L’altra metà dell’anno la vivo a New York e il resto in Giappone. Insomma, ho tre amori: l’America, il Giappone e la Versilia.” Prima della Toscana, Noguchi era andato a cercare il marmo per le sue creazioni in Grecia, “nella terra dei miti che gli aveva fatto conoscere la madre Leonie Gilmour”, ci spiega Nizette Brennan, artista di Washington attiva a Pietrasanta negli anni Settanta e che in quel periodo ha lavorato con lui in Versilia e a New York. A dirottare lo scultore sulle Apuane era stato un altro gigante dell’arte del ’900, Henry Moore, con cui Noguchi aveva lavorato sul Giardino della Pace dell’UNESCO e che proprio all’Henraux nel 1957 aveva realizzato la grande Reclining Figure in travertino installata l’anno dopo vicino al nuovo edificio a Y di Place de Fontenoy. Moore era innamorato della Versilia: nel 1965 comprò un villino su via Civitali a Vittoria Apuana nel cui giardino un buco nella siepe incorniciava l’Altissimo e la cava di Miche-
Arte
langelo: “Ero come un bambino davanti alla vetrina di una pasticceria”, disse una volta lo scultore britannico a proposito della sua prima visita sulla montagna. La stessa sensazione che deve aver provato Noguchi al suo primo approccio all’Altissimo: “La montagna di Michelangelo – si legge in appunti del 1964 – e il suo spirito ancora permeano la campagna.” E poi, in una lettera all’amica Priscilla Morgan, “questo è un paradiso per gli scultori”, o ancora in una ironica intervista al “Times” del 1968, in occasione della sua prima personale londinese da Gimbels Fils dopo una nuova stagione di lavoro all’Henraux, “un paradiso degli scultori anziani, ma ci vanno anche i giovani come me.” Noguchi aveva allora 64 anni “ma ne dimostra meno di 50, sottile, atletico, e dà l’impressione di una energia creativa senza tregua”, scriveva il quotidiano britannico. Con cadenza semestrale, letteralmente fino a neanche un mese dalla morte nel dicembre 1988, Noguchi tornò regolarmente alle cave, rinnovando l’amore per il marmo che aveva imparato a rispettare durante l’apprendistato parigino con Constantin Brancusi. “La zona gli piaceva, così come la gente con cui lavorava, le macchine che erano a disposizione e la stessa montagna”, rievoca Hayden Herrera nella biografia del 2016 Listening to Stone in cui cita un passo dell’autobiografia dello stesso Noguchi A Sculpture World: “È eccezionale trovare un’azienda che si dedica a promuovere il moderno uso del marmo.” Noguchi comincia ad essere veramente assiduo a Querceta in coincidenza con i seminari di scultura organizzati a partire dal 1963 all’Henraux. Scrivendo sul terzo numero della rivista “Marmo”, il critico Giuseppe Marchiori descrive lo scultore americano-nipponico al lavoro nell’atelier “con l’assiduità e l’impegno di un operaio impegnato nel proprio «mestiere».” Noguchi si è fatto “marmoraro” (il più attuale dei “marmorari”, capace di suggerire agli architetti temi e soluzioni anche di tipo ornamentale) con pazienza giapponese. E sempre Marchiori evoca l’artista “curvo, nelle pose più faticose, sui pezzi di
99
Arte
In alto, Isamu Noguchi, Khmer, 1962-66. A destra, Isamu Noguchi, Billy Rose Sculpture Garden, The Israel Museum, Gerusalemme. Courtesy Archivio Henraux
100
Arte
101
Arte
102
Arte A sinistra, vedute del giardino Henraux progettato da Noguchi
marmo scelti qua e là, secondo criteri probabilmente empirici, e per ore e ore l’infaticabile operaio scavava e tagliava coi mezzi meccanici e coi mezzi manuali degli antichi «tajapiere». Noguchi, col volto imbiancato dalla polvere di marmo, si sollevava appena, rivolgendosi per un attimo a chi lo interrogava.” Quell’anno Noguchi lasciò all’Henraux “un prezioso progetto di giardino” dove sarebbero state collocate le sculture del museo che l’Henraux stava organizzando davanti ai contrafforti dell’Altissimo: il piano prevedeva di affiancare le migliori sculture uscite dai seminari a opere di grandi artisti internazionali come Émile Gilioli, Alicia Penalba, Henri-Georges Adam, Jean Arp, Georges Vantongerloo, Moore, lo stesso Noguchi, Pietro Cascella e Costantino Nivola. Racconta lo scultore: “Erminio Cidonio mi aveva chiesto di disegnare un piccolo recinto all’Henraux per mettere in mostra le sculture degli artisti che ci avevano lavorato. Euripedes fu fatto a quell’epoca. Le pietre scelte, la loro superficie lavorata col tempo, erano state scavate dall’Altissimo.” Quello del giardino è un progetto che non decolla. Nel 1971, sempre su “Marmo”, si legge che “i marmi scolpiti sono disposti un po’ dappertutto: negli spazi intorno ai fabbricati e ai depositi”, anche se la loro vera sede avrebbe dovuto essere il “recinto ideato da Noguchi per le sculture più belle realizzate all’Henraux”: quelle che poi, dopo la mostra a Palazzo dei Diamanti a Ferrara, finirono nelle collezioni della Banca Commerciale Italiana, oggi Banca Intesa. Di questo “recinto” ci parla Walter Dusenbery, un altro artista americano che lavorò con Noguchi in Versilia negli anni Settanta e Ottanta, parte di una nuova generazione approdata nell’area tra le Apuane e il mare per lavorare con gli scalpellini e le fonderie. “C’era un piccolo «sculpture garden» all’Henraux per cui Noguchi aveva disegnato le basi delle sculture, l’intero spazio era di circa 230 metri quadri con da sei a otto spazi per singole sculture. Ricordo chiaramente un uccello di Arp”, dice Dusenbery: “So che Cidonio avrebbe voluto che Noguchi disegnasse un giardino vero e proprio ma non credo che sia mai stato realizzato. Noguchi di solito condivideva con me i suoi progetti.” Dusenbery aveva conosciuto Noguchi in Giappone: “Isamu mi invitò ad accompagnarlo in Italia. Diceva che l’esperienza avrebbe allargato la mia comprensione della scultura.” Nel 1971 Cidonio aveva ancora grande influenza sull’Henraux nonostante le difficoltà finanziarie dell’azienda che nel 1968 l’avevano portato alle dimissioni. “Mi diedero uno studio in un angolo del vasto parco delle pietre. All’epoca gli altri studi erano occupati da Henry Moore, Marino Marini, Noguchi e Maria Papa. Avevamo un’area di lavoro in comune e all’aperto circondata dai nostri studi privati.” Noguchi, che all’inizio aveva affittato una stanza a un paio di chilometri da Querceta sulle Apuane, veniva ospitato a casa di Cidonio in via dello Stivale a Pietrasanta e lì l’industriale offrì a lui e a Carla Lavatelli uno studio. Ogni anno Noguchi passava tre o quattro mesi in Giappone poi andava in Italia passando dall’India e di lì a New York. Dopo la morte di Cidonio nel 1971 cominciò a fermarsi all’Augustus: “Mi disse una volta che si meritava e poteva permettersi di pagare il prezzo esorbitante della stanza.” Giorgio Angeli, che era stato l’assistente di Noguchi all’Henraux, gli mise a disposizione uno studio nella fattoria dei genitori che lo scultore usò fino alla morte.
103
Arte
Isamu Noguchi, Slide Mantra, 1986 Courtesy Studio di scultura d’arte Giorgio Angeli
104
Noguchi si impolverava affrontando di petto il marmo dell’Altissimo: “Mangia la pietra e assaggiane il sapore”, aveva scritto a proposito della creazione di Euripedes. Gli artisti venuti da tutto il mondo, anche loro coperti di polvere di marmo, erano intanto diventati una piccola colonia in Versilia e Noguchi era particolarmente legato a due franco-canadesi, Daniel Couvreur e Esther LaPointe, quest’ultima morta tragicamente in un incidente stradale in Versilia. “I locali ci chiamavano «i polverosi», soprattutto dopo l’arrivo dei tedeschi con le loro macchine”, dice la Brennan rievocando quella fase a metà anni Settanta: “Americani, europei, asiatici, abitavamo nella zona e lavoravamo nei laboratori a Carrara, Pietrasanta, Querceta. Il luogo risuonava di martelli: una musica straordinaria.” Nei ricordi di Nizette, Noguchi era “un viaggiatore esperto e rilassato”, riconosciuto e apprezzato dalla comunità internazionale. “Aveva amici italiani e una volta lo accompagnai a cena in una casa della zona Marina di Petrasanta/Forte dei Marmi. La conversazione era animata e a tutto campo, c’era molto vino e si rideva molto: a Isamu non piacevano le chiacchiere inutili.” L’epilogo è Slide Mantra, l’ultima opera monumentale completata due anni prima di morire e realizzata da otto blocchi di marmo interamente da Giorgio Angeli. “Lo scivolo è una sorta di omaggio all’Italia, un apprezzamento a come le cose vengono fatte qui”, spiega Noguchi nello statement “What is Sculpture?” conservato nell’archivio del Noguchi Museum di New York: “È la mia avventura, un’avventura in cui l’Italia continua ad essere profondamente coinvolta.”
otiziario
Notiziario
1
ALCHIMIE IN HENRAUX
A CURA DELLA REDAZIONE, TESTO DI SUSANNA ORLANDO
I progetti che vedono coinvolta Henraux sono perlopiù internazionali. Da Oriente a Occidente, i marmi e il saper fare dell’azienda viaggiano senza confini. Ma l’attenzione al “locale” non viene mai meno e l’amore per il territorio si manifesta in molteplici modi. È il caso, per esempio, del progetto realizzato in collaborazione con l’artista Roberta Busato e la Galleria Susanna Orlando: nato da un primario interesse di Paolo Carli per il lavoro dell’artista scoperta durante un’esposizione presso la galleria pietrasantina, proseguito in una collaborazione fatta di condivisione di mezzi e know-how e poi sfociato nella realizzazione dell’opera Il profeta guerriero. Abbiamo chiesto alla gallerista Susanna Orlando di raccontarci com’è andata. Susanna Orlando: Durante l’inaugurazione della mostra “dal Nero all’Ocra”, presso la galleria di Pietrasanta nel di-
106
cembre 2018, notai che uno dei nostri graditi ospiti, il signor Paolo Carli, osservava attentamente le opere in terra cruda e paglia di Roberta Busato, e siccome ormai so riconoscere le attitudini e le posture di chi è seriamente attratto da un’opera d’arte, mi sono chiesta come mai il Presidente di Henraux lo fosse. La scultura fatta con quel materiale – la terra – era infatti agli antipodi del suo “cibo quotidiano.” Nella storica azienda che con entusiasmo presiede, si passeggia infatti tra blocchi e lastre di marmo, uomini bianchi, carri-ponte e fresatrici, luoghi dove si sentono ancora le voci di grandi maestri della scultura come Henry Moore e Giò Pomodoro, mentre nell’elegante showroom si ammirano sculture imponenti e bozzetti di ogni tipo, ma sempre in quel preziosissimo materiale che è sua maestà il Marmo. Perché l’amico Paolo era così rapito dalle terre crude di Roberta?
Secondo me, la semplicità e al tempo stesso la potenza del poetico manufatto unito al suo desiderio di offrire alla giovane scultrice la possibilità di usufruire della nuova tecnologia robotica, hanno creato una magica alchimia. Roberta ha accettato con curiosità, e non senza qualche timore, questa sfida, affidando ad un computer l’opera madre e seguendo passo dopo passo l’evoluzione della nuova creazione. Così dopo pochi mesi tramite questa nuova “alchimia robotica” è stata creata una bella testa in marmo statuario e poi a seguire una in onice. Le tre teste della Busato (la madre e le due figlie) sono ora ben collocate nel magnifico showroom a parlare di sé e delle nuove tecnologie messe a disposizione dell’arte; tecnologie che comunque hanno sempre bisogno dello sguardo amorevole dell’artista e della sua carezza finale.
Notiziario
Dall’alto, in senso orario, tre momenti della realizzazione dell’opera Il profeta guerriero con l’artista Roberta Busato A sinistra, Roberta Busato, Il profeta guerriero, 2018-19, nelle tre versioni in marmo statuario, terra cruda e paglia, onice, 45x25x30 cm cad.
107
Notiziario
2
JON RAFMAN. NEW AGE DEMANDED (PRINCE ARTHUR)
La Fondazione Henraux è felice di annunciare la collaborazione con l’artista canadese Jon Rafman e la città di Montreal per la realizzazione di due sculture in marmo. Con il progetto New Age Demanded (Prince Arthur) Rafman è vincitore del concorso per un’opera d’arte pubblica nell’ambito della riqualificazione di Rue Prince Arthur East, nell’arrondissement Plateau-Mont-Royal, in occa-
sione del 375° anniversario di Montreal. L’opera, ispirata alla poesia di Ezra Pound Hugh Selwyn Mauberley, fa parte di una riflessione avviata dall’artista nella serie di busti New Age Demanded che mette in discussione la rappresentazione artistica nell’epoca contemporanea. Pound viene citato nel sito dedicato newagedemanded.com:
L’epoca esigeva un’immagine per la sua smorfia accelerata, qualcosa adatto al palcoscenico del tempo, non, in ogni caso, una grazia Attica; (...) “L’epoca esigeva” proprio un calco in gesso, fatto in quattro e quattr’otto, un Kinema in prosa, non, assolutamente non, alabastro o la “scultura” della rima.
108
Notiziario
Jon Rafman, New Age Demanded (Prince Arthur), render
109
Notiziario
Jon Rafman, New Age Demanded (Prince Arthur), render
110
Notiziario
L’artista moltiplica ancora una volta i piani narrativi, riportando le sue rappresentazioni, nate in ambito digitale, sotto forma scultorea, tangibile e fruibile nella quotidianità di una strada cittadina, azzerando la distinzione tra il mondo virtuale e quello analogico, tra realtà e rappresentazione.
Per realizzare le due sculture, come in alcuni precedenti lavori sia digitali che analogici, Rafman si appropria delle forme moderniste dell’arte non figurativa degli anni ’50 e ’60 di Joan Miró, Henry Moore, Jean (Hans) Arp – la stessa statuaria conservata nella Collezione Henraux – attraverso l’uso di software di modellazione 3D per la creazione di render virtuali. Le immagini create sono poi state convertite in vere e proprie sculture marmoree grazie a macchinari d’avanguardia a controllo numerico. L’artista moltiplica ancora una volta i piani narrativi, riportando le sue rappresentazioni, nate in ambito digitale, sotto forma scultorea, tangibile e fruibile nella quotidianità di una strada cittadina, azzerando la distinzione tra il mondo virtuale e quello analogico, tra realtà e rappresentazione. Con questo progetto, la Fondazione Henraux conferma il suo impegno a sostegno di progetti culturali e artistici innovativi nel campo della sperimentazione tecnologica. Riconosciuto internazionalmente per la sua appassionante ricerca sui media e sugli effetti del loro impatto sulla società, tra le opere più note di Rafman ricordiamo il sito web 9-eyes.com, una raccolta di immagini scattate dalle telecamere delle automobili Street View di Google, Kool-Aid Man (2008-11), progetto per il quale Rafman frequen-
ta per tre anni la piattaforma virtuale Second Life, dando vita a un avatar per dimostrare come la tecnologia possa creare nuove rappresentazioni di se stessi in spazi virtuali, plasmando nuove identità, e i video Betamale Trilogy (2013-15), in cui l’artista si serve di Internet come un infinito database d’immagini, in un montaggio che diventa ritratto, al contempo seduttivo e repellente, delle comunità digitali che popolano la rete. Nato nel 1981 a Montreal, dove vive e lavora, dopo gli studi in Lettere e Filosofia alla McGill University, Jon Rafman si diploma in Film, Video e New Media presso la School of the Art Institute di Chicago. Rafman ha esposto in molte istituzioni e musei internazionali, tra cui: La 58. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia (2019); Fondazione Fotografia Modena e Galleria Civica di Modena (2018-19); Museum of Contemporary Art, Chicago (2018); Musée d’art contemporain de Montréal (2018); Museum of Contemporary Art Kiasma, Helsinki (2017-18); Stedelijk Museum, Amsterdam (2016); Westfälischer Kunstverein, Münster (2016) Manifesta 11, Zurigo (2016); Zabludowicz Collection, Londra (2015). È in preparazione per l’autunno 2020 una sua mostra personale presso l’Hirshhorn Museum and Sculpture Garden di Washington D.C.
111
Notiziario
3
TIMELESS.
IL TAVOLO DELLE DODICI ECCELLENZE
È stato presentato durante il Salone del Mobile 2019, Timeless, il tavolo che rappresenta il punto di incontro e di fusione di dodici eccellenze italiane unite in un unico progetto, cui Henraux ha partecipato con l’entusiasmo di chi vede la realizzazione di un’iniziativa unica nel suo genere. “Timeless è il risultato di un’architettura composta dalla summa di gesti straordinari condotti da eccellentissime maestranze – dichiara il Presidente Henraux Paolo Carli – dove si intersecano materiali e lavorazioni molto diversi fra loro, alcuni di essi armonizzati per la prima volta, come il marmo e l’acciaio, e che donano al tavolo una bellezza inedita.” Timeless si fa portavoce ed espressione di un messaggio importante: unirsi e aggregarsi rappresenta una svolta per quelle realtà che ogni giorno rappresentano il Made in Italy nel mondo. Non importa il settore merceologico di appartenenza, quello che conta è l’italianità e il suo saper fare. “Fare rete”, queste dovrebbero essere le parole chiave. L’unicità del progetto emerge già dalla sua base, firmata dall’artista di fama internazionale Helidon Xhixha. Esso nasce dall’idea di fondere passato e presente concependo una base che vede uniti due materiali eterni e senza tempo: il marmo, materiale che nei secoli ha saputo raccontare la storia dell’arte attraverso i grandi artisti che lo hanno scolpito, e l’acciaio inossidabile, materiale contemporaneo appartenente all’universo tecnologico e industriale.
112
Tra i due materiali corre internamente una fascia luminosa a LED in grado di illuminare e far risaltare ancora di più la base, creando un effetto di luce dirompente tra marmo e acciaio. Il piano di Timeless vede Riva 1920 esprimere se stessa in modo sublime attraverso un piano in Kauri, legno millenario della Nuova Zelanda, della lunghezza di 5 metri e con inserti in resina. Circa 50.000 anni fa, alla fine dell’ultima era glaciale, una serie di cataclismi ancora oggi inspiegati hanno abbattuto intere foreste di Kauri sommergendole di acqua e di fango. Le particolari caratteristiche di tale fango e la mancanza assoluta di ossigeno hanno permesso a queste piante, rimaste intrappolate nelle paludi per decine di migliaia di anni, di sfidare i processi chimici di decomposizione e di pietrificazione per arrivare intatte fino ai nostri giorni. Scavando nel terreno si incontrano vere e proprie “miniere di legno”; l’eccezionalità sta nel fatto che nonostante la permanenza millenaria sotto il fango questi tronchi risultano perfettamente conservati e presentano le stesse caratteristiche di un legno appena tagliato. Il tavolo Timeless racchiude poi al suo interno un orologio esclusivo ed innovativo realizzato da La Vallée, frutto di diversi anni di ricerca e sviluppo. Il meccanismo M30TP di cui è dotato è completamente a vista ed incorpora un calendario perpetuo progettato con una meccanica che rivoluziona i canoni dell’orologeria tradizionale. La
sua architettura appositamente concepita fonde insieme per la prima volta struttura portante e meccanismo. Tutte le informazioni del calendario perpetuo sono visualizzate su grandi dischi a scatto con velocità controllata magneticamente che ruotano all’interno di componenti della struttura disposta su più livelli. L’innovativo design di questo orologio permette di visualizzare tutte le informazioni incluse quelle delle ore e dei minuti, da entrambi i lati del tavolo. Questa realizzazione esclusiva vanta ben dodici innovativi dispositivi in attesa di brevetto tra cui: un bilanciere con compensazione termica regolabile, un’indicazione di carica completamente integrata nel bariletto e un calendario a ridotto numero di componenti e regolazione bidirezionale. Questo capolavoro di meccanica mostra in posizione centrale, un grande scappamento tourbillon “volante” privo di gabbia e ponti che può oscillare alla stessa frequenza del battito cardiaco del suo possessore. Completa il progetto, una seduta in vetro di Murano disegnata dall’architetto Marco Piva e realizzata da Massimiliano Schiavon Art Team dal nome Blow, lavorata nel rispetto dell’antica arte dei soffiatori veneziani. Tutti i protagonisti insieme a Henraux: Riva 1920, La Vallée, Helidon Xhixha, Marco Piva, Massimiliano Schiavon Art Team, Davide Oldani, Rilegno, Cantine Ferrari, Eataly, SCM GROUP, Conterno Giacomo.
Notiziario
Alcuni dettagli del tavolo Timeless
113
Notiziario
Il tavolo Timeless
114
Notiziario
115
Notiziario
4
IL NUOVO SHOWROOM HENRAUX
La Società Henraux spa, per adeguarsi alle proprie esigenze produttive determinate da crescenti richieste di mercato e in riferimento a nuovi programmi e nuove strategie di sviluppo commerciale, è felice di annunciare la realizzazione di un importante progetto aziendale che consiste nella ristrutturazione e nell’ampliamento di un fabbricato preesistente, un vasto capannone realizzato nel 1973 e che nel corso degli anni ha subito diverse modifiche. Si tratta di un opificio industriale di forma rettangolare con copertura a volta, in origine utilizzato per la seconda trasformazione del marmo, lucidatura e imballaggio dei prodotti finiti. L’intervento rientra nel piano di riorganizzazione, qualificazione e potenziamento del vasto complesso industriale societario in Querceta, avviato dal presidente Paolo Carli nei primi
116
anni Duemila e che ha già trasformato in profondità la storica azienda per renderla maggiormente competitiva e in grado di affrontare le grandi sfide dei mercati internazionali. Il progetto, predisposto dall’architetto Enrico Carli, prevede la costruzione di un laboratorio artigianale ad uso rifinitura, pre-posa di prodotti finiti e imballaggio, dotato di uffici, showroom, servizi e spogliatoi per le maestranze. Le caratteristiche tecniche del fabbricato di progetto, che conta una superficie di oltre 1500 mq, sono state concepite per conciliare le più moderne tecnologie costruttive con le esigenze estetiche che Henraux ha imposto in altre strutture del proprio complesso industriale: nello showroom di recente realizzazione per la linea di prodotti di design in marmo del marchio Luce di Carrara, nella ristrutturazione della vecchia segheria destinata alle attività
della Fondazione Henraux, nella edificazione della nuova mensa aziendale. Il progetto prevede inoltre la realizzazione di un nuovo capannone di circa 2.300 mq adiacente, sul lato sud/ est di quello esistente, ad un edificio monopiano a due campate. Sarà una struttura di grande senso estetico all’interno del quale è prevista l’esposizione dei prodotti lavorati. Sempre aderente al fabbricato esistente, sul lato nord/ovest, verrà aggiunto un edificio pluripiano. Il piano terra sarà composto da una parte centrale, lo showroom, che si svilupperà su tre livelli, oltre a uno spazio libero che assolverà alla funzione di sala espositiva e di zona filtro per il collegamento con i locali a uso ufficio. Sul lato opposto sarà collocato infine un laboratorio, di circa 720 mq, destinato alle attività di scultura e alla rifinitura dei prodotti.
Notiziario
Render del nuovo showroom Henraux
117
Notiziario
Render del nuovo showroom Henraux
118
Notiziario
119
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o trasmessa, in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, senza il permesso dell’editore. Ogni sforzo è stato speso per rintracciare i detentori dei diritti delle immagini e/o delle fonti citate. L’editore resta a disposizione degli eventuali aventi diritto che non è stato possibile rintracciare. Progetto grafico e impaginazione Thetis Srl Via Oliveti 110 • 54100 Massa Finito di stampare nel mese di Giugno 2020 presso Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, Pisa
ISBN 9788894350234