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ae-review Rivista semestrale Publisher :AMBIENTE + ENERGIA Registrato al Tribunale di Genova n. 21/09

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L’ACQUA, UN BENE COMUNE GESTITO DA PRIVATI IL

PIANETA RIMARRÀ PROBABILMENTE A SECCO, PECCATO CHE CE NE SIAMO ACCORTI TROPPO TARDI. PER COLPA DELL’INQUINAMENTO E DELLA CRESCITA DEMOGRAFICA LE RISORSE IDRICHE PRO CAPITE NEGLI ULTIMI TRENT'ANNI SI SONO RIDOTTE DEL 40 PER CENTO E NEL 2020 TRE MILIARDI DI PERSONE NON SAPRANNO PIÙ COSA BERE.

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L'acqua non oppone resistenza. L'acqua scorre. Quando immergi una mano nell'acqua senti solo una carezza. L'acqua non è un muro, non può fermarti. Va dove vuole andare e niente le si può opporre. L'acqua è paziente. L'acqua che gocciola consuma una pietra. Ricordatelo, bambina mia. Ricordati che per metà tu sei acqua. Se non puoi superare un ostacolo, giragli intorno. Come fa l'acqua. (Margaret Atwood)

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AE-REVIEW ae-review Rivista semestrale di ricerca, d'innovazione edilizia e di indirizzo tecnico-scientifico nell'ambito della sostenibilità e dell'energie rinnovabili.

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RIVISTA SEMESTRALE NUMERO 1 GENNAIO 2011

Fondata nel 2009 dall'Associazione Ambiente + Energia Registrata al Tribunale di Genova al n. 21/2009 del 20/11/2009

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ISSN 2037-3511

DIRETTORE RESPONSABILE Matteo dell'Antico

COORDINATORE DI REDAZIONE

SOMMARIO EDITORIALE

Simona Magioncalda REDAZIONE Antonella Silipigni Corrado Campana Federico Morchio Marco Cuomo Maria Grazia Capra Mario Ponte Matteo dell'Antico Roberto Olivieri Simona Magioncalda

- L'acqua, un bene comune gestito da privati di Matteo Dell'Antico

LO STATO DELL'ARTE - L'acqua, risorsa a termine di Fedrico Morchio - Le microalghe di Fabio Barbato - L'acqua, sistemi trattamento domestico di Marco Cuomo

GRAFICA E IMPAGINAZIONE ASSOCIAZIONE AMBIENTE + ENERGIA

RESPONSABILE MARKETING & PUBBLICITA' Antonella Silipigni Corrado Campana WEB MASTER Marco Cuomo

EMERGENZE - Piattaforme petrolifere, cancro del mare di Simona Magioncalda

DOSSIER - Acqua, risorsa o calamità? di Simona Lanza

IDEE PROGETTUALI RECUPERO

LA RIVISTA www.ae-review.it nasce dall’idea dell’Associazione Ambiente + Energia, che vede quali soci fondatori alcuni architetti ed esperti nell’ambito delle tematiche ambientali, nel realizzare una rivista digitale open access la quale tratti le tematiche della sostenibilità ambientale e delle energie rinnovabili. Il primo scopo, che persegue ae-review è di affrontare riflessioni e scenari operativi, ma trattati sempre con semplicità per poter divulgare ed informare il più ampio pubblico, non solo quello specialistico

- Il Baluardo, architetture & tecnologie marine di Marco Cuomo Eco-designer - La fontana sorgente di sostenibilità urbana di Barbara Baldasso

TECNOLOGIA - L'ecomuseo a filo d'acqua di Marco Cuomo

AUTORI - Renzo Piano, la forma dell'acqua di Marco Cuomo Recensione & pillole - Centralità del progetto di Giorgio Cirilli

EVENTI - Il salone nautico di Genova, quale futuro? di Matteo Dell'Antico

PROSSIMO NUMERO - Aria

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EDITORIALE L'ACQUA, UN BENE COMUNE GESTITO DA PRIVATI di Matteo Dell'Antico Il pianeta rimarrà probabilmente a secco, peccato che ce ne siamo accorti troppo tardi. Per colpa dell’inquinamento e della crescita demografica le risorse idriche pro capite negli ultimi trent'anni si sono ridotte del 40 per cento e nel 2020 tre miliardi di persone non sapranno più cosa bere. "Il whisky è per bere, l'acqua per combattersi", diceva Mark Twain e tra qualche tempo le guerre per l’ “oro blu” potrebbero essere molto più comuni di quanto non si possa oggi immaginare. Ma il problema della privatizzazione dell’acqua non riguarda solamente le zone più aride e povere del pianeta dove la questione idrica è sempre servita ad alimentare la propaganda di regimi nazionalisti. I conflitti per il dominio sull’acqua esistono anche negli stati industrialmente più sviluppati, Europa compresa, dove in questi tempi di crisi gli stati non riescono più a sopportare le spese e la tendenza generalizzata è quella di privatizzare. Se andiamo avanti di questo passo il risultato sarà molto semplice: oggi il pubblico non ce la fa più a sopportare i costi di gestione e di conseguenza è costretto a cedere al privato che però, causa i prezzi alle stelle, rischia di mettere in ginocchio i cittadini. Gli enti locali hanno ormai aperto definitivamente le porte di questo nuovo mercato ai privati mantenendo la proprietà dell'acqua ma affidandone a terzi la gestione industriale. Nel nostro Paese cadono in media 296 miliardi di metri cubi all'anno di pioggia (per il 42% al nord) cifra che ci mette al sesto posto nel continente dietro Francia (485), Norvegia (470), Spagna (346) e vicini a Svezia (313) e Germania (307). Al netto dell'evaporazione e dei deflussi abbiamo accesso a 157 miliardi di metri cubi (3mila l'anno per abitante). Un tesoro dal valore inestimabile sul quale non solo tutti cercano di mettere le mani ma che nello stesso tempo nessuno riesce ad amministrare correttamente visto che la maggior parte dell’acqua non riesce ad essere raccolta e si perde nei fiumi del sottosuolo. Senza contare poi che molti dei litri che vengono condotti nei tubi degli acquedotti vengono poi dispersi senza mai uscire dai nostri rubinetti. E’ stata calcolato in maniera ottimista che in una città del nord Italia di media grandezza vengono persi ben undici litri su cento. Da tutti questi ragionamenti si può facilmente capire come l’acqua oggi venga definita l’“oro blu” del nuovo millennio, un patrimonio indispensabile per la vita futura e sul quale tutti cercano di mettere le mani con il rischio di innescare un processo di conflitti per il quale, fino ad ora, in molti stanno già pagando.

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LO STATO DELL'ARTE L’ACQUA, RISORSA A TERMINE di Federico Morchio

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proposito di comportamenti attinenti la sostenibilità spesso si pensa, per prima cosa, allo sfruttamento delle risorse non rinnovabili o all’uso delle rinnovabili come il sole o il vento. Solo in un secondo momento il pensiero va all’acqua, elemento naturale che troppo spesso, specie in Italia, è stato, ed è ancora, sottovalutato per importanza (non solo ambientale), per qualità, per quantità utilizzata e, purtroppo, per quantità sprecata. Non parleremo, in questa sede, di come adoperare l’acqua -che è a tutti gli effetti, perlomeno nei climi temperati, un’importante risorsa rinnovabile- per generare energia.. Osserveremo invece alcuni aspetti dei nostri comportamenti -attinenti al postulato dello “sviluppo sostenibile” e comuni alla maggioranza delle persone nella pratica quotidiana- che riguardano atteggiamenti utili per adoperarla meglio, con attenzione, oculatezza e, soprattutto, con maggiore consapevolezza della ricchezza che essa rappresenta.

E’ importante indicare la normativa di riferimento, nazionale e comunitaria. In Italia il testo più recente cui fare riferimento è costituito dal Decreto Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio del 12 Giugno 2003, n. 185 “Regolamento recante norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue in attuazione dell'articolo 26, comma 2, del Decreto Legislativo 11 maggio 1999, n. 152" in accoglimento delle direttive CEE 91/271 e 91/676 che trattano del riutilizzo delle risorse idriche. Il Decreto regola e disciplina (riportiamo uno stralcio dell’art. 1) «[…] le norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue domestiche, urbane ed industriali attraverso la regolamentazione delle destinazioni d'uso e dei relativi requisiti di qualità, ai fini della tutela qualitativa e quantitativa delle risorse idriche, limitando il prelievo delle acque superficiali e sotterranee, riducendo l'impatto degli scarichi sui corpi idrici recettori e favorendo il risparmio idrico mediante l'utilizzo multiplo delle acque reflue[…].» e sottolinea che «[…] Il riutilizzo deve avvenire in condizioni di sicurezza ambientale, evitando alterazioni agli ecosistemi, al suolo ed alle colture, nonché rischi igienico-sanitari per la popolazione esposta […]».

Storicamente l’acqua è sempre stata considerata un bene prezioso e l’uomo, già a partire da tempi remotissimi, si è ingegnato in molteplici maniere per raccoglierla, depurarla e smaltirla al termine del ciclo di tutti i suoi possibili ri-utilizzi. Troviamo riferimenti e consigli precisi sulla raccolta, sulla distribuzione e sulla determinazione della sua purezza nell’opera di Vitruvio, i romani furono abili costruttori di acquedotti, taluni ancora in attività, così come sappiamo che la civiltà araba ha sviluppato intelligenti congegni di captazione e stoccaggio, con interessanti sistemi di ventilazione naturale delle cisterne capaci di garantirne la conservazione con sufficiente grado di purezza per scongiurare pericoli di malattie dovute alla stagnazione ed alla formazione di batteri nocivi. L’Italia è tra i paesi al mondo che consumano più acqua potabile (talune fonti ci indicano, anzi, come il maggiore consumatore in senso assoluto) compresi ovviamente gli usi industriali e agricoli. Il nostro consumo pro-capite (stimato intorno ai 220 litri per abitante al giorno) è superiore anche a quello di nazioni che hanno un più alto tenore di vita (che si attestano al di sotto dei 200 litri/giorno). Per contro il prezzo della nostra acqua potabile è tra i più bassi: dati dell’inizio del XXI sec. lo indicavano pari ad ¼ di quello tedesco, ⅓ di quello svedese ed ½ di quello inglese; solo questo potrebbe rappresentare, insieme ad altre concause, uno dei motivi per cui nel nostro paese non si è sviluppata una cultura del risparmio e del rispetto per questa risorsa. Le cause dell’eccessivo consumo d’acqua sono molteplici; tralasciando in questa sede quelle che riguardano gli usi

nell’industria e nell’agricoltura, possiamo concentrarci sugli aspetti di vita quotidiana (o quasi), non meno importanti di quelli produttivi, nei confronti dei quali ognuno di noi può, nel suo piccolo, fare qualcosa solamente assumendo comportamenti più maturi e ambientalmente consapevoli (in una parola: sostenibili) nell’uso dell’acqua. L’argomento va approfondito cercando di comprendere quali siano i fattori e comportamenti che possono consentire, in adesione al principio internazionale di sviluppo sostenibile, di continuare ad utilizzare questa importante risorsa rinnovabile per i nostri fabbisogni attuali senza precludere o diminuire il suo possibile uso alle generazioni future. Vediamo quali siano i modi ed i sistemi più interessanti e, relativamente, semplici per contribuire a farne utile tesoro senza, tuttavia, rinunciare alle comodità civilmente acquisite.

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pensare di riutilizzare l’acqua recuperata per provvedere al lavaggio dei pavimenti e, spingendoci ancora più avanti nell’istanza di recupero, per la rete di alimentazione delle lavatrici. Tutto sarà possibile in relazione alla volontà/possibilità etico-economica personale, alla superficie di raccolta ed alle capacità di stoccaggio e trattamento. E’ ovvio comprendere come per le tipologie di recupero più spinte sia necessario procedere a più accurati procedimenti di dimensionamento e progettazione che devono essere fatti da persone qualificate ed attente (meglio se progettisti esperti nel settore della cultura e della tecnica della progettazione sostenibili).

Uno tra i primi sistemi a cui viene da pensare è rappresentato dal recupero delle acque piovane che cadono gratuitamente sui tetti delle nostre case. Si tratta di una soluzione economicamente interessante sia sotto il profilo del rapporto costi/benefici (soprattutto se rapportata nel tempo prolungato di uso) sia sotto il profilo ambientale. La via più semplice e fattibile per realizzarla consiste nel posizionare una vasca nel giardino (privato o condominiale) entro cui convogliare tutti i terminali dei pluviali che scendono dal tetto. L’acqua raccolta potrà essere usata in estate (massima siccità) per innaffiare orti o giardini, soprattutto quando le ordinanze sindacali vietano espressamente il prelievo dal pubblico acquedotto per tali scopi. I dimensionamenti della vasca e dell’impianto vanno eseguiti in relazione alle superfici di raccolta ed alle effettive necessità di riuso. Questo accorgimento consente un duplice risparmio: riduce la spesa per l’acqua attinta dalla rete ed evita al giardino danni da essiccamento. Ma questo è un primo passo e si può fare di più. Possiamo recuperare le acque da percorsi e piazzali asfaltati (o in luoghi suscettibili di elevato inquinamento). Anche in queste situazioni è possibile e a questo punto possiamo dire doveroso, recuperare le acque piovane, ma diventa necessario ricorrere al loro pre-trattamento finalizzato a depurarle dalle sostanze più inquinanti. In questo caso si deve prevedere il trattamento delle acque di prima pioggia, ovvero di quelle cadute sulla superficie di riferimento per un’altezza di 5 millimetri nei primi 15 minuti di eventi meteorologici distanziati tra loro di 4/8 giorni. Va ricordato altresì che la normativa italiana vieta che le acque di prima pioggia siano scaricate direttamente in superficie (sul terreno e nei corsi d’acqua) o nel sottosuolo per il rischio che finiscano in falda, inquinandola e obbliga il loro scarico in fogna (o il citato pre-trattamento antecedente al riuso o allo scarico in dispersione sul suolo) prevedendo sanzioni economiche significative per chi non rispetta tale prescrizione. L’acqua, recuperata e trattata con opportuni impianti di filtraggio, può altresì essere utilizzata non più solo per uso irriguo domestico ma, a questo punto, si può prendere in considerazione l’idea di ipotizzarne altri impieghi. Tra questi quello forse più immediato (e diffuso) è rappresentato dalla realizzazione di un circuito di alimentazione per le vasche degli sciacquoni di scarico dei w.c.; ma si potrà adoperare anche per il lavaggio delle auto, dei vetri e per i mille altri usi che si fanno, quotidianamente, dell’acqua.

Infine vale la pena ricordare che con i seguenti semplici accorgimenti si può ottenere un sensibile risparmio di consumo: - inserendo i riduttori/regolatori di flusso. nei rubinetti di casa (congegni da applicare in luogo del normale frangigetto che frammentano il flusso e lo miscelano con aria, mantenendo confortevole il volume complessivo (del getto aria+acqua), costante la pressione ma riducendo (fino al 50%) la quantità di acqua erogata e quindi consumata. Quando la pressione oltrepassa un certo valore (definito in fase di taratura), l’azione del congegno diviene anche di regolazione stabilizzatrice della portata limitando i disagi e diminuendo i rischi di rotture nell’impianto di distribuzione;

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adottando cassette di scarico per WC a doppio tasto (si riduce il consumo del 50% di acqua); adottando sistemi di erogazione differenziati in funzione della quantità di acqua necessaria; preferendo la doccia al bagno (si risparmia almeno il 20% di acqua); riparando tempestivamente i rubinetti che gocciolano; usando lavatrici e lavastoviglie a pieno carico (e di notte); innaffiando i giardini e le piante di sera in modo da ridurre le perdita di acqua per evaporazione.

Potenziando il sistema di depurazione (meglio se con criteri naturali, limitando cioè l’uso di prodotti chimici) potremmo Tutto il materiale in questo sito è copyright dell'Associazione Ambiente + Energia. E' vietata la riproduzione anche parziale dei contenuti. EDITORE - Associazione Ambiente + Energia "AE" - C.F. 95127630101

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riporta valori di produzione di biodiesel da microalghe per unità di superficie fino a 16 volte maggiori rispetto alla migliore pianta terrestre, ovvero la palma da olio.

LE MICROALGHE di Fabio Barbato Le microalghe sono organismi vegetali unicellulari acquatici la cui crescita, opportunamente favorita da sali nutritivi, luce e anidride carbonica, può essere notevolmente più rapida di quella delle piante terrestri. Ciò rende le microalghe particolarmente idonee per l’assorbimento di CO2 atmosferica, per la produzione di biocombustibili, per la depurazione di reflui civili e agro-zootecnici e per la produzione di biomolecole. Microalghe di varie specie vengono già prodotte a livello commerciale in vari Paesi e utilizzate per la produzione di integratori alimentari, mangimi, pigmenti, acidi grassi ω3, biomasse per acquacoltura e per il trattamento di reflui. La coltivazione avviene in bacini, vasche, fotobioreattori e fermentatori con tecniche e volumi diversi secondo la specie coltivata e le particolari applicazioni. Ancora in fase sperimentale sono le coltivazioni di specie per il risanamento di reflui contaminati da xenobiotici e metalli pesanti e per la produzione di biodiesel e idrogeno. Le ricerche in tal senso sono volte a conseguire elevati volumi di produzione con rendimenti prevedibili e programmabili, tali da incidere significativamente sui fabbisogni di carburanti per velivoli. Lo stato delle ricerche, peraltro in costante e rapida evoluzione, non consente ancora di fornire stime precise circa la produttività di coltivazioni destinate alla produzione di biodiesel, l’applicazione attualmente ritenuta più interessante. Le prestazioni variano infatti in funzione della specie microalgale, della localizzazione dell’impianto, delle tecniche colturali e di trattamento della biomassa. A titolo indicativo, produzioni sperimentali (non commerciali) di microalga marina Nannochloropsis, a latitudini temperate e su superfici molto inferiori all’ettaro, possono fornire circa 20 t/ha/anno di olio, con 220-250 giorni produttivi per anno (Tredici, 2008). Ai fini della fissazione della CO2, Benemann (2003) cita un rapporto in peso fra biomassa microalgale secca e CO2 fissata pari a circa 1:1.65. Altri autori (Van Harmelen e Onk, 2006), tenendo conto anche dei necessari processi produttivi e dei relativi costi energetici, suggeriscono un rapporto finale di 1:1. Uno studio (Meisner, 2007) con orizzonte temporale 2015 suggerisce potenziali valori di mercato per i prodotti derivati da microalghe dell’ordine di $1000/t per gli integratori alimentari, di $600/t per il biodiesel e di $30/t per produzioni destinate all’assorbimento di CO2, che sarebbero comunque integrate con le due produzioni precedenti. Per quanto riguarda la comparazione con piante terrestri, uno studio (Chisti., 2007)

II maggior potenziale di sviluppo per le coltivazioni di microalghe appare legato alla produzione di biodiesel, che consente una netta riduzione delle emissioni di CO2 rispetto all’uso di combustibili fossili, senza sottrarre risorse alle coltivazioni terrestri per fini alimentari. Dopo l’estrazione di biocombustibile, la biomassa microalgale residua può ancora essere impiegata per l’estrazione di biomolecole di interesse commerciale o per la produzione di biogas. La depurazione di reflui agricoli o civili da sostanze quali nitrati, fosfati e metalli pesanti è un ulteriore settore di sviluppo. Secondo Meisner (2007), nel 2015 i prodotti ricavati da microalghe potrebbero avere un mercato potenziale a livello mondiale dell’ordine di 2550 miliardi di dollari all’anno, dominato dalla produzione di biodiesel (50%), dall’assorbimento della CO2 e dalla produzione di integratori alimentari. La produzione di microalghe su grande scala deve tener conto dell’impatto sulle risorse idriche e sul territorio, mitigabile utilizzando colture in acque marine o salmastre e aree costiere marginali. Per ottenere inoltre bilanci economici, energetici ed emissivi vantaggiosi, in particolare nella produzione di biodiesel, occorre che l’intero ciclo di produzione sia basato su processi a basso costo e fonti energetiche rinnovabili o con ridotte emissioni. Per ottenere bilanci economici, energetici ed emissivi vantaggiosi, in particolare nella produzione di biodiesel, occorre che l’intero ciclo di produzione sia basato su processi con ridotti consumi energetici e moderati costi di impianto. Sarebbe auspicabile integrare i sistemi di coltivazione con sistemi energetici basati su fonti rinnovabili (eolico, fotovoltaico, geotermico ecc.). Per quanto riguarda l’assorbimento della CO2, occorre valutare attentamente l’opzione dell’allestimento di sistemi ad hoc di insufflazione del gas, che hanno un costo a fronte di un possibile piccolo incremento in produttività, piuttosto che contare sul naturale assorbimento della CO2 atmosferica da parte delle microalghe, a costo zero. Bibliografia per saperne di più - Van Harmelen T. and Onk H., 2006 – Microalgal biofixation process: applications and potential contributions to greenhouse gas mitigation options. Report for BiofixationInternational Microalgae Network (IEA): pp. 47; - Benemann J., 2003. Biofixation of CO2 and greenhouse abatement with microalgae – technology roadmap. Final report for U.S. Department of Energy: pp. 30; - Chisti, 2007. Biodiesel from microalgae. Biotech Advances 25:294306; - Meisner A., 2007. Contributo al 7th European Workshop on Biotechnology of Microalgae. June 11-13, 2007, Nuthetal, Germany; - Tredici M., 2007. Colture massive di microalghe: calamità o risorsa?. Da “Coltura massiva delle microalghe: il contributo della scuola fiorentina” - Accademia dei Georgofili, Firenze, 30.11.2006: pp. 13; - Tredici M., 2008. Presentazione orale al Workshop Bioenergy World Europe, Verona 8/2/2008.

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DI

di Marco Cuomo

L’Italia è uno dei pochi paesi che ha adottato una legge per quanto riguarda i sistemi di trattamento delle acque potabili. Il D.M. 443/90 prescrive una serie di norme a tutela del consumatore e indica per le diverse tipologie di sistemi delle linee guida, è vero anche che la legge presenta ancora alcune lacune, facilmente superabili, oltre ad essere in attesa dello strumento attuativo. Comunque, già oggi, ogni impianto è obbligatoriamente progettato e realizzato seguendo i parametri prestazionali con le relative specifiche tecniche, i generici “purificatori d’acqua“ presenti sul mercato sono ingannevoli e non conformi alla normativa cogente; infatti la presenza del manuale d’uso e di manutenzione per la governace della vita utile per ogni installazione avvenuta con l’obbligatorietà di comunicazione all’ASL di riferimento garantisce il controllo della qualità e la conformità dell’impianto nel tempo. È fondamentale che i sistemi di trattamento siano dotati di valvole di non ritorno e di un conta litri con la multifiltrazioni basata su carboni attivi e validata dal Ministero della Salute. I sistemi ad osmosi inversa si implementano obbligatoriamente di sistema battericida con clorazione o Lampada U.V., quando utilizzano un

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accumulo d’acqua. Il tenore salino dell’acqua non deve scendere sotto una soglia determinata.

È altresì vero che la questione sulla durezza residua minima obbligatoria non ha senso, sia perché in alcune zone l’acqua di rete è di per sé già al di sotto di tale soglia, sia perché è fuorviante paragonare alle acque minerali caratterizzate da ridotti livelli di durezza. Pertanto è necessaria una nuova normativa di riferimento, che revisioni i parametri e vada a implementare i contenuti del D.Lgs. 31 del 2001 (e successive modifice D.Lgs. 27 del 2002), al fine di stabilire adeguati parametri di potabilità che sono adozione della direttiva europea 98/83 CE. L’installazione di questi impianti deve essere affidata ad installatori capaci di rispettare i dettami della normativa e di rilasciare la dichiarazione di conformità obbligatoria. Le norme UNI supportano esaustivamente le procedure di regola d’arte a cui il tecnico installatore deve attenersi. Inoltre gli apparecchi installati in ambiente domestico sono a tutti gli effetti degli elettrodomestici e devono seguire la direttiva CE. La normativa a difesa del consumatore D.Lvs 24/2002 (privato cittadino, non soggetto con partita IVA) in fatto di

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garanzia prevede un periodo di 24 mesi di totale copertura sia per i costi di manodopera e sia per le parti di ricambio (sono escluse le parti di consumo). Inoltre, se l’impianto viene venduto comprensivo di installazione, l’utente privato ha il diritto all’assistenza totalmente gratuita in loco. Ulteriore tutela del consumatore viene fornita dal D.Lvs. 181 del 2003, che rende obbligatoria la comunicazione al cliente sull’origine dell’acqua servita con la precisa frase “acqua potabile trattata/e gasata” all’interno dei locali pubblici.

Il trattamento di alta qualità dell’acqua domestica, se diffusa, consentirà un ulteriore passo avanti nel soddisfare i parametri della sostenibilità, infatti non sarà più necessario movimentare acque minerali in bottiglie o boccioni che ad oggi incidono fortemente sull’emissione di CO2 e sull’uso delle materie prime ancora parzialmente riciclate

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EMERGENZE PIATTAFORME

PETROLIFERE, CANCRO DEL MARE di Simona Magioncalda

Navigando in internet è possibile tracciare pochi episodi in merito agli incidenti occorsi a piattaforme petrolifere; la cronaca internazionale si occupa principalmente di registrare gli avvenimenti che abbiano causato ingenti perdite umane e consistenti sversamenti in mare di greggio. Potrebbe quindi essere sufficiente il basso numero di gravi incidenti registrati a fronte di oltre un migliaio di piattaforme attive, per considerare il metodo di estrazione offshore sicuro ed incentivabile. Questo poteva essere valido fino all’aprile di quest’anno quando, a causa di un’esplosione occorsa alla piattaforma Deepwater Horizon, si creò una copiosa fuoriuscita di greggio che ha compromesso l’ecosistema marino ed ha inquinato le coste della Louisiana, del Mississippi, dell’Alabama e della Florida. La realizzazione della Deepwater Horizon (piattaforma capace di scavare pozzi molto profondi) rientra infatti nella strategia di ricerca e di sfruttamento di nuovi giacimenti petroliferi offshore. La Deepwater Horizon era un piattaforma semisommergibile di perforazione di proprietà della Transocean, una società di servizi per il mondo petrolifero (con i principali uffici in Svizzera, negli Usa ed alle Isole Cayman), sotto contratto con la compagnia inglese British Petroleum. La costruzione della piattaforma iniziò nel 1998 e, costata 560 milioni di dollari, fu completata nel 2001 da una industria Sud Coreana. Le principali perforazioni eseguite dalla Deepwater Horizon avvennero nei campi petroliferi Atlantis (it. Atlantide) e Thunder Horse. Nel settembre 2009 terminò la perforazione di un pozzo nel campo Tiber, realizzando il più profondo pozzo di gas e petrolio mai perforato; la profondità misurata sulla verticale del pozzo fu di 10680 metri e la distanza tra la linea di galleggiamento della piattaforma ed il fondale fu di 1259 metri. Questi illustri precedenti, di una piattaforma capace di operare su fondali profondi fino a 3000 metri, stridono se confrontati con le condizioni in cui operava prima del grave incidente nel Golfo del Messico. Ma una diversa lettura dei fatti può essere effettuata se l’incidente si contestualizza con una serie di incidenti (incendi e sversamenti in mare) registrati dalla US Coast Guard tra il 2000 ed il 2010 oltre al manifestarsi di chiari segnali di allarme nelle ore antecedenti l’esplosione. Il 20 aprile 2010, mentre la trivella della Deepwater Horizon stava completando il Pozzo Macondo ad oltre 1500 mt di profondità al largo della Louisiana, un'esplosione sulla

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piattaforma fece innescare un violentissimo incendio; il bilancio fu di 11 persone scomparse e 17 lavoratori feriti. In seguito all'incendio la flotta della BP tentò invano di spegnere le fiamme, oltre a recuperare i superstiti; due giorni dopo la piattaforma si rovesciò, affondando e depositandosi sul fondale. Il malfunzionamento delle valvole di sicurezza presenti all'imboccatura del pozzo sul fondale marino e la formazione di falle nella tubazione causò il versamento massivo ed incontrollato del petrolio che si protrasse per 106 giorni, fino al 4 agosto 2010, con milioni di barili di petrolio dispersi in una vasta area del fondale e, in sospensione nelle acque di fronte a Luisiana, Mississippi, Alabama e Florida. Impressionanti sono le immagini riprese dal satellite e che dimostrano quanto ampia sia stata l’area marina e costiera interessata dall’inquinamento. I primi interventi hanno riguardato lo spargimento di solventi per diluire il petrolio, poi l’innesco di incendi controllati per bruciare il greggio; successivamente, con l’ausilio di robot, la BP ha prima individuato due falle e successivamente cercato di interrompere la fuoriuscita in mare azionando una valvola di sicurezza, ma le pessime condizioni del mare hanno intralciato le operazioni. Infatti, un altro dato da considerare è la peculiarità che il Golfo del Messico è stagionalmente interessato da tempeste tropicali ed uragani anche di forte intensità (es. uragano Katrina). L’incidente ha inoltre messo in luce una grave criticità: le prime operazioni per la chiusura delle falle sono state ostacolate anche dalle difficoltà insite in un intervento subacqueo da effettuare a 1500 mt. di profondità; rimangono delle forti perplessità su come avrebbero potuto intervenire qualora l’incidente fosse avvenuto con il pozzo situato ad una profondità maggiore. La stessa BP si è dichiarata impreparata ad una situazione così particolare ed imprevedibile, ma è stata smentita dalla pubblicazione di un esperimento datato 2000, il "DeepSpill Joint Industry Project", effettuato al largo delle coste norvegesi per valutare gli effetti di una fuoriuscita di petrolio in acque profonde. Dopo circa un mese dal disastro si tentò di applicare, senza successo, una

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gigantesca cupola in cemento ed acciaio per chiudere le perdite e recuperare il greggio. Fu poi installato un imbuto rovesciato per intercettare il combustibile e venne presa la decisione di testare un secondo tappo mentre si procedeva con la trivellazione di due pozzi sussidiari di emergenza per la chiusura della falla con il versamento di fango e cemento. La fuoriuscita di greggio pare ormai eliminata dai primi di agosto del 2010, ma le criticità e i danni sono lontani dall’essere risolti. I danni agli ecosistemi ed agli ambienti marini e costieri sono incalcolabili, il greggio ed i solventi utilizzati inquinano ed inquineranno per un tempo non definito l’ambiente, oltre ad entrare nella catena alimentare di tutti gli organismi, uomo compreso. Le economie legate alla pesca nel mare del Golfo ed al turismo anche di aree ad alta protezione ambientale hanno subito un danno irreparabile. Per quanto riguarda l’Europa anche nel mare del nord e nel mediterraneo non mancano gli incidenti e i versamenti di greggio; nonostante nei bacini del mediterraneo/mar nero vi siano circa 140 piattaforme di estrazione sono tuttavia sufficienti ad innalzare la percentuale di catrame presente nell’acqua in quantità decine di volte maggiori che nel Golfo del Messico (dove sono più di 2000 gli impianti attivi). Nonostante le immagini del disastro siano Società inglese, la Cairn Energy, al largo della Groenlandia nel Mar Artico.

9 ancora fresche nella memoria di ognuno ed un altro incidente abbia interessato ai primi di settembre una piattaforma di estrazione del greggio nel Golfo del Messico pare si stiano affievolendo le voci di chi voleva regolamentare e rendere più sicure le estrazioni di greggio su piattaforme offshore. E, in mancanza di una compatta presa di posizione a livello internazionale per scongiurare catastrofi di portata sempre maggiore, l’industria estrattiva sta nel frattempo valutando lo sfruttamento di oceani con problematiche maggiori del Golfo del Messico. E’ infatti recente la notizia delle esplorazioni di una

S.I.M. s.r.l. Nasce nel 1986 su iniziativa dei Signori Fabbri Mauro e Ponte Mario, si occupa di manutenzione di impianti industriali e di produzione, specializzandosi nella riparazione e nella installazione delle macchine utensili.

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STUDIO REBOLIA Lo Studio Rebolia opera in tutti i settori dell'attività professionale, tra cui: - Consulenza ed assistenza fiscale a privati, liberi professionisti e piccole - medie imprese; - Consulenza ed assistenza a società di persone, di capitali, nonchè ad associazioni e ad operatori del III settore in genere ....

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Dossier ACQUA, RISORSA CALAMITÀ?

O

Esempio di metodologia per la stima della vulnerabilità del patrimonio storicoarchitettonico nei confronti del rischio idraulico e idrologico e di proposta di mitigazione dello stesso

di Simona Lanza Premessa Quando i fenomeni naturali assumono caratteristiche distruttive nei confronti delle comunità umane, ed in particolare degli insediamenti e delle attività produttive, vengono denominati – seguendo un approccio affatto antropocentrico – disastri o catastrofi naturali. Esiste inoltre una tendenza ad accomunare questi fenomeni ad altri eventi distruttivi che spesso hanno invece poco di naturale, come ad esempio gli incendi. I disastri naturali propriamente detti contribuiscono a minacciare le emergenze storico architettoniche attraverso dinamiche talvolta lente o graduali (erosione, scivolamenti, subsidenza, ecc.), in altri casi evidenti ed improvvise (terremoti, frane, alluvioni, ecc.). In Italia i rischi predominanti sono senza dubbio associati in primo luogo a fenomeni di natura sismica ma numerosi sono anche i siti soggetti a franamenti, scivolamenti o subsidenze. La vulnerabilità dell’ingente patrimonio storico-architettonico presente in Italia nei confronti dei fenomeni naturali costituisce, insieme ai furti, al degrado di origine ambientale ed ai collassi strutturali, uno dei principali fattori distruttivi che ne minano l’integrità. L’effetto dei fenomeni naturali, inoltre, è influenzato dalla presenza di manufatti o strutture di origine antropica che ne esaltano, oppure ne riducono, il potenziale distruttivo. Quasi sempre, un’attenta progettazione di soluzioni specifiche volte alla salvaguardia del bene storico-architettonico in esame consente di limitare non solo l’effetto aggiuntivo prodotto dallo sviluppo delle attività umane, ma anche il carattere distruttivo delle forze naturali, contribuendo pertanto ad una prolungata sopravvivenza storica del bene per la fruizione comune. Per quanto riguarda il rischio idraulico, l’evento che ha portato definitivamente alla luce la notevole suscettività del patrimonio culturale, storico ed architettonico del nostro Paese nei confronti delle inondazioni è stato senza dubbio l’alluvione di Firenze del Novembre 1966 (Figg. 1-2). Sono ormai parte della memoria comune le immagini del Crocifisso del Cimabue (danneggiato per 4/5), e degli affreschi di Paolo Uccello e del Botticelli, solo per citare gli esempi più emblematici di un evento che ha danneggiato 1400 opere del Museo della Chiesa di Santa Croce e 1500 della Biblioteca Nazionale, per non citare i 18 morti, i 200.000 senzatetto e i 116 miliardi di danni causati al settore produttivo.

Tuttavia eventi alluvionali di minore entità hanno colpito e minacciano di colpire il patrimonio storico architettonico in molte altre località italiane, come si evince dalla catalogazione e dalla conseguente redazione della carta del rischio condotta dal CNR attraverso il progetto AVI (1). Anche in Liguria i maggiori rischi naturali sono costituiti da terremoti, frane e alluvioni ma il complesso scenario idrologico della regione consente di identificare il fenomeno alluvionale quale la più frequente e grave calamità che colpisce il territorio ligure sul quale si sono osservati storicamente, con una certa regolarità di accadimento, numerosi fenomeni di inondazione. Tra il 1900 e il 1992 settantotto eventi meteo-pluviometrici hanno dato origine a 195 fenomeni di esondazione relativi a 84 corsi d’acqua diversi che hanno vulnerato 100 località appartenenti a circa il 30% dei comuni della regione. Complessivamente, i comuni colpiti almeno una volta da una calamità geologica e/o idraulica sono stati il 73%. Esaminando poi la distribuzione spaziale delle località colpite, quella di Genova risulta la provincia statisticamente più vulnerata, con una concentrazione nel periodo autunnale della maggior parte degli eventi calamitosi. Come nel caso dell’alluvione di Firenze, la cui rilevanza ormai simbolica nasce dalla sua eccezionalità e dalla rilevanza delle emergenze artistico culturali colpite, la storica alluvione di Genova nell’Ottobre del 1970 ha causato 19 morti, 500 senzatetto e 133 miliardi di danni al settore produttivo. L’evento ha coinvolto l’intera città, dal ponente al centro, al levante e alle delegazioni più interne (Mele, Acquasanta e Masone, ecc.). I dodici torrenti, Leira, Polcevera, Ruscarolo, Chiaravagna, Torbella, Secca, Bisagno, Scrivia, Stura, Cerusa, Acquasanta e Vezzulla, che hanno rotto gli argini ed invaso le zone circostanti hanno provocando evidentemente danni ingentissimi. L’eccezionalità della situazione ha messo in luce la suscettività del patrimonio architettonico della città nei confronti del rischio di inondazione e ha dato inizio allo sviluppo, sia nell’opinione pubblica sia nelle Amministrazioni Locali, di una particolare sensibilizzazione alle nuove ed urgenti problematiche ambientali in ambito urbano. Nel caso specifico della gestione del ciclo dell’acqua, l’obiettivo è quello di sviluppare strategie sostenibili, integrate con gli aspetti ambientali, al fine di ridurre entro livelli accettabili il rischio di inondazione ed allagamento delle aree cittadine. In particolare, nell’area metropolitana di Genova, i principali soggetti amministrativi ed operativi sul territorio sono impegnati nell’individuazione di regole e procedure atte a far fronte alle numerose emergenze di carattere idrologico e idraulico che si verificano con elevata frequenza sull’area urbana. L’intensa antropizzazione del territorio si ripercuote, infatti, sulla riduzione dell’infiltrazione e dei tempi di risposta dei sottobacini urbani con l’inevitabile conseguenza che i sistemi di drenaggio

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AE-REVIEW esistenti sono soggetti al transito di maggiori portate idriche ed a sollecitazioni idraulico-strutturali rilevanti anche per eventi meteorici di modesta entità.

Più di altre città italiane, Genova presenta nella varietà del suo territorio notevoli problemi e carenze dei sistemi di controllo del deflusso urbano amplificate dalla peculiarità di essere una città “senza territorio” la cui espansione urbana ed industriale del XX secolo si è estesa proprio nelle aree idraulicamente più sensibili, ovvero lungo le poche ed anguste piane alluvionali dei torrenti e dei fiumi che il costruito storico aveva sapientemente evitato nei secoli precedenti. Definizione di rischio In termini antropocentrici, può definirsi rischio ambientale "(...) quella classe di probabili danni (…) che (…) potranno avere effetto sull'uomo, con conseguenze più o meno gravi per la sua vita o la sua salute”(1). Un’ulteriore definizione può desumersi da quanto già proposto nel 1979 dall'United Nations Disaster Research Co-ord, secondo cui il rischio è la combinazione tra la sollecitazione cui un sistema è soggetto e la vulnerabilità dello stesso, laddove quest’ultima rappresenta la stima del livello di danno associato a una particolare minaccia, o pericolo, o fonte di un potenziale evento quale una inondazione, un terremoto, ecc. (2): ne consegue come il rischio possa desumersi dal prodotto fra il pericolo e la vulnerabilità (ovvero dal livello stimato del probabile danno, a fronte di una particolare minaccia in relazione a determinate circostanze fisiche e al tempo). Procedure di valutazione del rischio comportano la necessità di considerare sia la minaccia che la vulnerabilità, che i valori sociali rispetto ai quali ponderare la gravità delle prime due; parimenti importante è l’assunzione dei rapporti intercorrenti fra elementi sollecitati e sollecitanti, ossia individuando come l’evento si esplica spazialmente e temporalmente in un determinato contesto (territoriale, sociale ed economico). Conseguentemente, ai fattori relativi alla definizione di rischio dell'United Nations Disaster Research Coord (quale combinazione tra agente sollecitante e vulnerabilità del sistema colpito) si aggiunge anche l’esposizione (umana ed economica), intesa in funzione sia del numero di persone coinvolgibili, che dei beni economici presenti nel territorio (3). La teoria del rischio include la vulnerabilità, definendola come “(...) grado di capacità (o incapacità) di un sistema di far fronte e superare una sollecitazione esterna” (4): i caratteri di quest’ultima appaiono dunque determinanti nella definizione della vulnerabilità che, pur funzione del sistema sollecitato, viene misurata tramite una soglia di severità dell’agente sollecitante (a sua volta costituita dall’intensità, dall’estensione spaziale e dalla frequenza temporale di esplicazione dell’evento). Può intendersi quindi, per vulnerabilità, quella soglia di severità oltre la quale il sistema non è più in grado di far fronte alla sollecitazione.

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Così il rischio (R), inteso come l’entità del danno atteso in un’area e in un intervallo di tempo a seguito di un evento calamitoso, può stimarsi, per un dato elemento, attraverso: - la pericolosità (H), come probabilità di occorrenza dell’evento in un certo intervallo di tempo e in un’area, tale da influenzare l’elemento a rischio; - la vulnerabilità (V), ovvero il grado di perdita, espresso in una scala 0-1 (nessun danno - perdita completa), prodotto su un certo elemento esposto a rischio, e risultante dal verificarsi dell’evento temuto; - il valore dell’elemento a rischio (E), ovvero le potenziali perdite umane e il valore di beni, attività economiche, ecc., che risultino a rischio in un’ area. Sotto determinate ipotesi, e in forma semplificata, il rischio risulterebbe dalla seguente espressione (equazione del rischio): R=H•V•E La sua mitigazione può attuarsi, secondo i casi, intervenendo nei confronti della pericolosità, della vulnerabilità, o del valore degli elementi coinvolgibili. Sia la valutazione, che la mitigazione del rischio, necessitano quindi di informazioni di carattere ambientale, territoriale e socio-economico, relativamente alle aree in esame. Note 1) Menoni S., Pianificazione e incertezza. Elementi per la valutazione e la gestione dei rischi territoriali, F.Angeli Ed., Milano, 1997 2) Stovel H., Risk preparedness: a management manual for world cultural heritage, ICCROM, Roma, 1998 3) In effetti, non sussisterebbe alcun rischio laddove non vi fosse alcunché esposto a un pericolo, o sussisterebbe un rischio molto ridotto qualora i sistemi esposti presentassero una vulnerabilità pressoché nulla. In generale, si considera il fattore esposizione qualora si intenda ottenere una stima del danno atteso in un’area, ossia laddove si voglia quantificare il patrimonio esposto ed effettivamente vulnerabile. L’esposizione è dunque un indice quantitativo, avulso dalla variabilità delle risposte all’evento e dalla loro eterogeneità (come riscontrabile tra aree differenti e/o nell’ambito di una stessa). 4) Menoni, op. cit. Il rischio idraulico ed idrologico Nei contesti antropizzati, i fenomeni di natura idraulicoidrologica potenzialmente pericolosi variano essenzialmente a seconda che il deflusso canalizzato delle precipitazioni meteoriche avvenga sotto forma di corsi d’acqua naturali, o mediante convogliamento in reti di drenaggio artificiale (fognature). Nel primo caso, la inidoneità delle opere di contenimento causa fenomeni di inondazione delle aree circostanti (a seguito dell’esondazione del corso d’acqua), nel secondo, fallanze nei sistemi di canalizzazione provocano allagamenti. La propagazione delle acque nelle aree circostanti è differente nei due casi, con diversa velocità e forza e con diversa induzione di danni; in entrambi tuttavia, si distingue tra

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AE-REVIEW rischio idrologico e idraulico. Si fa normalmente riferimento al primo per indicare la probabilità che in una data sezione di un corso d’acqua naturale (o di una rete di drenaggio artificiale) si produca, a seguito di precipitazioni intense e a particolari condizioni del bacino di alimentazione, una portata idrica critica, ossia superiore a un valore prefissato; in termini statistici, il rischio idrologico può essere caratterizzato attraverso il concetto di periodo di ritorno, inteso come l’intervallo di tempo (T) mediamente intercorrente tra due occorrenze successive della portata critica.(5) Si parla di rischio idraulico per indicare la probabilità che in una data sezione di un corso d’acqua le opere di contenimento o la particolare conformazione dell’alveo risultino insufficienti a consentire il deflusso regolare delle portate transitanti (anche in questo caso, il rischio può essere espresso in termini statistici, associando alla particolare sezione idraulica il tempo di ritorno della portata che risulti non contenibile dalla struttura stessa). Due sezioni di due corsi d’acqua differenti possono dunque essere soggette allo stesso grado di rischio idrologico (con una determinata portata T-ennale), ma a un rischio idraulico molto diverso. Tale diversità dipende ovviamente dalla differente configurazione morfologica dell’alveo nelle sezioni considerate, e/o in relazione alle opere idrauliche interagenti con il corso d’acqua. La definizione della pericolosità idraulica per quanto riguarda il rischio di inondazione viene effettuata mediante mappatura delle cosiddette aree inondate ed inondabili. Le prime corrispondono alle zone per le quali si dispone di informazioni storiche di inondazione, ovvero quelle che sono state effettivamente inondate nel passato. Le seconde sono invece le aree potenzialmente inondabili con un assegnato livello di rischio, indipendentemente dal fatto che siano state effettivamente inondate o meno nel passato. La pericolosità stimata attraverso la definizione delle aree inondate si basa sull’ipotesi di poter confondere la frequenza osservata degli eventi critici con la probabilità. Tale ipotesi è valida solo al limite per un numero di osservazioni che tende all’infinito e pertanto viene a costituire una soluzione di prima approssimazione. Nel caso del rischio di inondazione è tuttavia difficile disporre di una serie di osservazioni estesa nel passato per un sufficiente numero di anni, tale da rendere giustificabile la stima della pericolosità in relazione a tempi di ritorno dell’ordine dei 50-200 anni. La pericolosità stimata sulla base delle aree inondabili si basa invece su lunghe serie di osservazione delle precipitazioni atmosferiche e sulla successiva simulazione delle portate conseguenti nel corso d’acqua mediante opportuna modellistica afflussi-deflussi. A tale modellistica deve anche essere abbinata una modellazione del fenomeno di propagazione dell’inondazione sul territorio. Nonostante la stima delle probabilità degli eventi estremi risulti molto più affidabile, anche in questo caso permangono rilevanti incertezze dovute al modello matematico assunto per effettuare la

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trasformazione afflussi-deflussi e per stimare la propagazione delle acque di inondazione. Si tratta comunque dello strumento idraulico/idrologico più affidabile ad oggi disponibile per la determinazione delle aree inondabili con assegnato periodo di ritorno. In particolare, quindi, nel caso del rischio idraulico ed idrologico la pericolosità è definita come la probabilità che un evento critico di inondazione di una certa magnitudine possa colpire un’area ove sono localizzati uno o più elementi sensibili (nel caso in esame beni storico-architettonici). Usualmente la pericolosità viene quantificata attraverso il cosiddetto “periodo di ritorno”, termine statistico che consente di esprimere la frequenza attesa di un assegnato evento critico. La vulnerabilità è invece definita come il grado di danneggiamento potenzialmente subito dal bene in esame a seguito dell’evento critico di inondazione una volta che questo si sia verificato nell’area in esame. Il rischio effettivo è costituito dal prodotto di tali parametri e può essere ridotto operando su di uno o l’altro di essi, o entrambi. Una metodologia per la stima della vulnerabilità del patrimonio storico-architettonico nei confronti del rischio idraulico e idrologico L’azione dell’acqua e le principali tipologie di danno L’aspetto fondamentale che caratterizza un evento idraulico/idrologico è l’azione che l’acqua esercita sul patrimonio costruito (pressione idrostatica, velocità del flusso, ecc.) in quanto essa coinvolge l’intera area investita dall’evento ed è, in particolare, la prima fonte di danneggiamento del costruito. Inoltre, entra in gioco la capacità delle strutture di interagire con l’alluvione/allagamento in modo tale da equilibrare le tensioni e tollerare le deformazioni indotte. Simili prerogative dipendono dalla qualità costruttiva, dalla qualità dei materiali e dalle condizioni geologiche del sito di costruzione. La forte intensità con la quale si verificano i fenomeni di alluvione/allagamento fa sì che il degrado che ne deriva sia prima di tutto di carattere meccanico e connesso con l’alterazione delle condizioni di equilibrio originali dell’edificio. La forza d’urto prodotta su un edificio dalla massa d’acqua produce sollecitazioni di elevata intensità le cui componenti orizzontali producono sforzi di trazione a cui, in genere, gli edifici antichi non sono in grado di opporre adeguata resistenza. La minore forza di impatto di un evento di allagamento rispetto a quello di inondazione, o ancora di più rispetto ad altri fenomeni naturali quali i terremoti, viene ampiamente compensato dal fattore chimico provocato dalla presenza di acqua, aggravato ulteriormente dalla presenza degli elementi inquinanti presenti nelle aree urbane o dai sali delle zone costiere. Giocano ancora un ruolo essenziale le interazioni tra le acque di inondazione di origine fluviale e il tessuto urbano, quindi con le reti di drenaggio urbano. Nel caso specifico del centro storico di Genova questo aspetto assume una rilevanza particolare in quanto, come si evince dall’indagine storica, è principalmente l’inefficienza del sistema di drenaggio artificiale urbano a causare le maggiori situazioni di rischio. La struttura del drenaggio superficiale, costituita dal reticolo delle strade e

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AE-REVIEW vincolata alla morfologia del territorio urbano, è interconnessa al sistema di drenaggio sotterraneo delle acque meteoriche, costituito dalle tubazioni di fognatura. Il collegamento tra i due sistemi avviene tramite un certo numero di caditoie previste e progettate per il drenaggio di aree predefinite. Durante eventi meteorologici estremi il sistema può rilevarsi localmente inefficiente: se le caditoie sono forzate a drenare aree a monte di estensione maggiore a quelle di progetto sui verificano fenomeni locali di crisi anche per eventi di precipitazione di intensità inferiore a quelle di progetto. Inoltre, se – come nel caso del centro storico di Genova – la rete di drenaggio è connessa alla rete idrografica naturale, il sistema fognario rappresenta poi il veicolo di trasporto delle acque di piena sul territorio urbano. Il primo passo è quello di classificare il tipo di azione che l’acqua esercita sul patrimonio costruito e di individuare gli elementi degli edifici stessi che possono essere soggetti ai maggiori danni, definendo alcuni parametri e caratteristiche del fenomeno di inondazione/allagamento. I principali parametri individuati ed in rapporto ai quali si verificano danni alle strutture di tipo diverso sono i seguenti: - velocità del flusso; - altezza dell’acqua raggiunta all’interno della struttura; - tempo di permanenza dell’acqua all’interno della struttura; - fattore chimico provocato dalla presenza dell’acqua; - quantità e granulometria del materiale trasportato dalla corrente. La velocità del flusso può provocare, ad esempio, gravi danni all’edificio e può causare cedimenti della struttura legati all’erosione del terreno attorno alle fondazioni. Il materiale solido trasportato al fondo o in sospensione dalla corrente contribuisce in modo cospicuo al danno strutturale, provocando inoltre l’erosione diretta sui pilastri e sulle pareti della costruzione e il deposito di fango. L’altezza che l’acqua raggiunge in corrispondenza della costruzione ed il tempo di permanenza contribuiscono non solo al danno diretto per bagnamento ma anche alla successiva permanenza di umidità. Quest’ultima, ed in particolare quella di risalita, è funzione sia del tempo di permanenza dell’acqua a contatto della struttura sia delle caratteristiche chimico-fisiche del materiale di costruzione. Vulnerabilità e scala di danno dei patrimoni storicoarchitettonici Nel caso del rischio idraulico e idrologico relativo al patrimonio culturale l’operazione più complessa risulta essere in pratica la stima della vulnerabilità. Quest’ultima può essere suddivisa in due operazioni fondamentali, costituite in primo luogo dalla determinazione degli elementi a rischio e successivamente dalla valutazione della vulnerabilità in senso stretto di ogni singolo elemento. Per quanto riguarda la prima operazione, questa si basa inizialmente sulla determinazione della consistenza del patrimonio culturale e della sua corretta

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georeferenziazione. Il secondo passo è costituito dal confronto della distribuzione geografica del patrimonio con la mappatura della pericolosità idraulica. Infine, risulta necessario procedere ad una schedatura di dettaglio che consenta di valutare, sulla base della consistenza materia e strutturale di ciascun elemento, il danno prevedibile a seguito dei fenomenio alluvionali previsti e stimarne, se ed ove possibile, il relativo valore monetario. Un primo studio relativo alla vulnerabilità del patrimonio architettonico e culturale del centro storico della città di Genova è stato realizzato dall’autore a partire dalla catalogazione disponibile, estendendo la ricerca ad una diversa scala di osservazione. A partire dai dati contenuti nel “Progetto AVI”(6) e al fine di determinare quale fosse il livello di rischio per la città di Genova dal punto di vista degli eventi alluvionali dovuti a fenomeni idrologici o idraulici è stata condotta una prima ricognizione sulle fonti bibliografiche. Analizzando un gran numero di documenti (costituiti soprattutto da articoli di giornale) che coprono il periodo di tempo dall’anno 1900 al 1998, la singola strada ed in qualche caso la singola opera d’arte o monumento sono stati considerati, registrando il verificarsi e l’eventuale ripetersi di fenomeni di inondazione per tutti i siti di rilevante interesse e costituendo con essi un nuovo archivio informativo di dettaglio. L’arco temporale scelto per l’indagine storica ha coperto solo gli ultimi cento anni a causa della difficoltà di reperire informazioni confrontabili anche per i periodi precedenti. I dati reperiti negli archivi cittadini, infatti, riportano solo indicazioni di massima quali “nel 1843 una piena riesce ad intasare il condotto principale tra l’antica porta della darsena e l’arco reale - nel 1845 allagamenti in piazza Caricamento - nel 1853 le abbondanti piogge causano ingenti danni agli edifici della darsena”. Tutti i dati che è stato possibile georeferenziare ed associare a siti specifici nell’ambito dell’area di studio sono stati rappresentati su di una mappa della città a scala 1:5000 ed inseriti nella struttura di un GIS (Geographic Information System) dedicato, insieme ad altre informazioni aggiuntive, quali la topografia dell’area ed i reticoli di drenaggio naturale ed artificiale. La realizzazione di tale carta delle inondazione storiche ha costituito un primo scenario di riferimento essenziale sul quale pianificare ogni procedura volta a salvaguardare i beni architettonici. L’analisi storica, infatti, fornisce informazioni determinanti per formulare una prima gerarchizzazione delle diverse situazioni a rischio, soprattutto nel caso delle calamità idrauliche che sono contraddistinte da elevate caratteristiche di ripetititvità spaziale, temporale e tipologica. In prima approssimazione la carta delle aree a rischio è stata ragionevolmente assunta coincidente con quella delle aree storicamente inondate. Quest’ultima informazione è stata valutata in funzione della frequenza con cui i diversi siti sono stati oggetto di allagamento

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AE-REVIEW nel periodo investigato, rappresentando quindi il livello di rischio in termini statistici molto semplificati. La sovrapposizione di questi dati con quelli derivati dalle carte dell’uso del suolo nelle aree a rischio e della densità di immobili “storici” ha consentito di mettere a punto strategie di difesa sia a scala urbana (progettazione urbanistica) sia alla scala del singolo manufatto con l’identificazione di tecnologie di difesa specifiche per le singole situazioni. Ad esempio, l’identificazione degli edifici sottoposti a tutela in base al D.Lgs. 490/99 consente di ottenere un’immediata lettura della vulnerabilità del patrimonio culturale e di costruire una carta del rischio per gli immobili soggetti a vincolo monumentale. La sovrapposizione e la lettura incrociata dell’indagine storicoretrospettiva degli eventi alluvionali con le altre fonti ha permesso di creare una base conoscitiva (carte, database, ecc.) su cui elaborare ipotesi di lavoro per una definizione di possibili tecnologie di difesa o di strategie per la riduzione del rischio di allagamento nelle aree del centro storico. Questa prima base di conoscenza riveste una particolare importanza proprio nella scala di definizione in quanto fino ad oggi gli eventi alluvionali o di inondazione sono stati affrontati prevalentemente alla scala di bacino o urbana. La mappatura delle aree inondate ottenuta sulla base di eventi che sono stati osservati in un periodo sufficientemente esteso di tempo nel passato costituisce solamente il primo passo nel processo di valutazione del rischio nei confronti del patrimonio culturale. Prima di tutto tale informazione è teoricamente incompleta dal momento che comprende soltanto eventi che sono stati realmente osservati, piuttosto che tutti gli eventi temibili. Infatti, la procedura rigorosa richiede a questo punto una stima delle aree potenzialmente inondabili, sulla base di considerazioni idrologiche ed idrauliche e di metodi statistici e modelli di simulazione. Tuttavia, le aree storicamente inondate sono state utilizzate in questo lavoro come surrogato delle aree potenzialmente inondabili nel centro storico di Genova – almeno in prima approssimazione. L’ipotesi è accettabile quando le serie storiche utilizzate sono sufficientemente estese nel passato da assicurare una buona significatività statistica, e si assume qui che 100 anni possano essere considerati un periodo sufficientemente esteso per gli scopi del lavoro. Sulla base di tali ipotesi il passo successivo è stato quello di tenere in conto l’effettiva vulnerabilità dell’area di studio, ovvero rilevare i monumenti e le opere d’arte che si trovano in area inondabile.L’obiettivo che può risultare eccessivamente ambizioso nel caso in cui debbano essere considerati i singoli monumenti e le opere d’arte a scala molto fine, può essere affrontato più facilmente, almeno in prima approssimazione, alla scala dell’intera area di studio. Nell’ambito del lavoro si è intrapresa questa seconda soluzione e l’obiettivo è stato raggiunto tenendo in conto la distribuzione dei monumenti e dei siti che sono attualmente vincolati dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria. Ovviamente alla base della validità di questa scelta si sono poste due ipotesi principali, la prima relativa alla scala di risoluzione o al grado di completezza del vincolo imposto dalla Soprintendenza – che viene qui assunto piuttosto completo in

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tale area – e la seconda relativa al fatto che le aree inondate contengano beni artistici e/o evidenze architettoniche che siano state effettivamente danneggiate o meno nel passato. Infatti, nel caso in cui questa seconda ipotesi non dovesse essere vera, una semplice mappa dei siti danneggiati sarebbe sufficiente da sola a delineare il rischio di inondazione nei confronti del patrimonio culturale. La predisposizione di un’opportuna struttura informativa su base GIS per l’intero lavoro ha quindi consentito di delineare la mappa della vulnerabilità del patrimonio artistico ed architettonicoper il centro storico di Genova nei confronti del rischio idraulico. Ciò ha consentito di evidenziare gli edifici di valore storico-architettonico che risultano effettivamente esposti al rischio di inondazione nell’area del centro storico della città. Il periodo di ritorno (T) viene spesso utilizzato per definire la probabilità che si verifichi un fenomeno di una data intensità, e anche per individuare la pericolosità idraulica (basandosi sull’assunto secondo cui un evento di inondazione sia tanto più pericoloso quanto più è frequente). Il suo impiego non è tuttavia sufficiente a conseguire una puntuale determinazione della vulnerabilità; come già si dispone anche in alcuni strumenti legislativi regionali infatti,(7) occorre introdurre ulteriori parametri quali il tirante idrico e la velocità di scorrimento dell’acqua.(8) Il criterio si fonda sulla determinazione di soglie idrodinamiche di pericolosità, basate a loro volta sul concetto di spinta tollerabile condizionata all’energia specifica (che tiene conto dell’azione meccanica esercitata dal flusso di acqua in termini di spinta e di energia): così, in base alla valutazione della spinta orizzontale unitaria (per unità di larghezza) su una parete verticale piana indefinita investita da una corrente uniforme (caratterizzata da un tirante h e una velocità U) si determina l’andamento della relazione tra tirante idrico e velocità della corrente nel caso di assegnata spinta S ed energia specifica costante; associando poi al criterio di soglia (basato sulla spinta tollerabile) il criterio del carico specifico ammissibile, si assume, come soglia h = h (U), il minimo valore di h, per ogni valore di U; in questo modo, si definisce la relazione tra il tirante idrico e la velocità dell’acqua, associata a una spinta assegnata e condizionata dall’energia specifica. Il criterio suesposto viene inoltre implementato individuando le soglie di pericolosità relativa come definite dall’entità del tirante idrico (funzione della velocità U), condizionato dalla pendenza delle aree inondabili.(9) Informazioni desumibili dagli effetti causati da eventi pregressi, metodi statistici, e altri parametri di natura empirica, consentono poi di definire classi di edifici (in base ai materiali impiegati, alle caratteristiche strutturali e alle tecniche

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AE-REVIEW costruttive) in modo da individuare, per ogni classe, le correlazioni sussistenti tra l’evento e i danni subiti (ed espressi sottoforma di curve della vulnerabilità, o matrici della probabilità di danno). Al fine di identificare la severità di un evento idraulico-idrologico, è necessario definire una misura dell’effetto prodotto su ogni categoria di entità sollecitata: per questo, può utilizzarsi una scala convenzionale basata su una descrizione qualitativa del danno (e solo parzialmente quantitativa) che assegna all’evento in esame un valore discreto di intensità. Un’ulteriore ipotesi di scala convenzionale può essere sviluppata in maniera analoga a quanto già esperito per il rischio sismico, e assumendo fondamentalmente un parametro identificativo delle diverse tipologie strutturali degli edifici (con particolare riferimento ai materiali e alle caratteristiche costruttive che possono influenzarne il comportamento rispetto agli eventi idraulici), e un parametro che, definite alcune classi di vulnerabilità, associ a ciascuna un insieme di edifici non necessariamente appartenenti alla stessa classe tipologica (come già definita, in relazione ai materiali impiegati, alle caratteristiche strutturali, ecc.), ma che presentano lo stesso comportamento nei confronti degli eventi idraulici. Così, edifici di una stessa classe tipologica possono essere ascritti a classi di vulnerabilità diverse, anche a fronte di fattori quali lo stato di conservazione, la presenza o l’assenza di elementi e/o presidi volti alla difesa-mitigazione degli effetti di un dato evento idraulico, ecc. La relazione tra classi di vulnerabilità e classi tipologiche può anche essere studiata in termini probabilistici, in modo da desumere range di vulnerabilità per ognuna delle seconde, assunta la non diretta corrispondenza fra ciascuna di queste ultime e ciascuna delle prime. I danni agli edifici cominciano a manifestarsi oltre un certo livello di intensità dell’evento e vengono espressi, in relazione alle diverse classi di vulnerabilità, in termini di entità e di quantità di manufatti colpiti. I danni fisici si rappresentano in forma discreta, ricorrendo a livelli associati a una sintetica descrizione degli effetti. Può ipotizzarsi per esempio, in forma semplificata, la seguente scala di valori: 0 nessun danno; 1 danno leggero (assenza di danni strutturali, danni non strutturali leggeri quali presenza di umidità con manifestazioni di efflorescenze o crescita di microrganismi); 2 danno moderato (assenza di danni strutturali, danni non strutturali moderati quali rigonfiamenti localizzati e/o distacchi di intonaco); 3 danno grave (danni strutturali leggeri, danni non strutturali gravi quali crepe sottili in molte pareti e/o disgregazioni di materiali);

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4 danno molto grave (danni strutturali gravi, danni non strutturali molto gravi quali disgregazioni di materiali con conseguente perdita delle capacità prestazionali, crepe larghe ed estese nella maggior parte delle pareti, cedimenti localizzati o crolli parziali); 5 danno distruttivo (danni strutturali molto gravi quali collasso totale o quasi totale del manufatto). Coerentemente con quando già esposto inoltre, si individuano classi (o gruppi) di edifici con comportamenti strutturali mediamente omogenei nei confronti di un evento idraulicoidrologico. Quindi, onde definire quei caratteri del patrimonio storico-architettonico che (anche con parziali variazioni circa le risposte mediamente attese) influiscano sulla determinazione dei tipi di danno in rapporto alle caratteristiche degli eventi, si considera una prima serie di parametri (o modificatori di comportamento), quali le tecnologie costruttive e i materiali impiegati, le peculiarità tipologiche (casa isolata, con due lati di aggregazione, ecc.) e di morfologia strutturale (scatola muraria, ecc.), ma anche la localizzazione territoriale, lo stato di conservazione, la frequenza di attività manutentive, e altro. I notevoli alea degli eventi idraulico-idrologici rendono estremamente complessa la definizione di parametri ottimali per la stima della vulnerabilità del patrimonio.(10) A tale considerazione si aggiunge inoltre il problema di come, oltre a quello culturale, debba anche assumersi l’aspetto economico dei danni al patrimonio edilizio, rilevandosi quindi necessaria l’ottimizzazione di indici che definiscano le relazioni tra costi di ripristino e valori degli edifici (riconosciuti e riconoscibili). In tal senso, è possibile esprimere i danni tramite una curva di vulnerabilità, intesa come relazione tra il livello del danno e la severità dell’evento: a ogni specifico valore dell’indice di vulnerabilità, può infatti associarsi una curva rappresentativa del comportamento variabile di un insieme di edifici che, seppure eterogenei per caratteristiche strutturali, tecnicocostruttive, ecc., assumono analogo grado di vulnerabilità. Così, rilevandosi comportamenti (e livelli di danno) differenziati in manufatti pure contraddistinti da analoga vulnerabilità (e peraltro attribuendo ai modificatori di comportamento l’eterogeneità degli effetti dannosi prodotti) si può poi procedere a relazionare i costi previsti di ripristino con i valori (culturali ed economici) delle preesistenze. Le opportunità costo-benefici circa i possibili ripristini potrebbero pertanto desumersi, oltre che da politiche generali di recupero, validazioni di valori, ecc., dall’affidabilità già manifestata dagli organismi nelle riposte agli eventi pregressi, grazie agli effetti positivi prodotti dai modificatori di comportamento, dunque da validare e migliorare. Per quei modificatori che invece influiscano negativamente sulle risposte attese, e che tuttavia assumano carattere connotativo dei valori di insediamenti e manufatti (peculiarità di tipologie edilizie, strutturali, ecc.), si tratta di valutarne rapporti costo-benefici, secondo considerazioni orientate a necessità-opportunità di tutele culturali. Una proposta di mitigazione del rischio idraulico/idrologico Genova, più di altre città italiane, presenta nella varietà del suo territorio notevoli problemi e carenze dei sistemi di controllo del deflusso urbano. Le cause sono molteplici: città dal tessuto

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AE-REVIEW storico denso e compatto, sopravvissuto alle successive trasformazioni urbanistiche, con un insediamento ipertrofico rispetto all’esiguità dell’area su cui incide, e che ha misurato nell’ultimo cinquantennio una rapida crescita con conseguente esaltazione delle criticità ambientali tipiche di tutte le grandi città, il tutto in aggiunta alle problematiche peculiari dell’essere una città “senza territorio”. In particolare il Centro Storico, adattandosi alla topografia naturale del terreno, si è dovuto necessariamente sviluppare in una situazione morfologica singolare con un’espansione collinare che ha drammaticamente aumentato le pendenze del sistema di drenaggio. Genova risulta quindi una città a forte rischio idraulico: benché non esistano torrenti di grandi dimensioni in grado di inondare completamente le aree in esame, tuttavia gli otto rivi naturali che attraversavano il Centro Storico della città, sono stati progressivamente tombinati nel corso dei secoli, e totalmente assorbiti nell’attuale tessuto urbano, tanto che per alcuni di questi non è oggi facilmente individuabile il percorso. In molti casi, inoltre, l’efficienza del drenaggio urbano risulta compromessa, nella sua funzionalità, dalla costruzione all’interno degli antichi condotti di manufatti dimensionati senza adeguati criteri idraulici. Infine la presenza di connessioni non controllate tra la rete di fognatura bianca e quella nera, l’ostruzione degli specchi dovuta ad una scarsa manutenzione, ed un collettore costiero e canali secondari che, anche in caso di fenomeni idrologici non particolarmente eccezionali, risultano insufficienti e inadeguati, completano il quadro delle emergenze attuali. Nella situazione odierna il sistema di drenaggio è divenuto parte integrante del tessuto urbano esistente, di carattere storico, compatto e pertanto non modificabile drasticamente. Gli interventi ottimali non sono pertanto di tipo locale, ma piuttosto estensivo, in un certo senso “distribuiti” sull’area urbana, e tali da non richiedere ingenti opere di tipo strutturale o infrastrutturale. Nonostante ciò dovranno garantire la funzionalità e l’efficienza idraulica nel ridurre sensibilmente il rischio di fallanza del sistema di drenaggio urbano, e di conseguenza gli allagamenti nelle aree più vulnerabili. Il sistema tradizionale di intervento per la minimizzazione delle fallanze in reti di drenaggio urbano è costituito dalla realizzazione di vasche di laminazione, o “vasche volano”, che consentono di controllare le portate idriche in eccesso attraverso, appunto, il processo di laminazione. Il risultato di tale operazione è quello di modificare l’evoluzione della piena nel tempo, riducendone il picco. Una prima valutazione di massima dell’efficienza di tale soluzione è stata effettuata grazie alla collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria Ambientale della Facoltà di Ingegneria mediante simulazione con opportune modellistiche idrologiche ed idrauliche. Nel caso del complesso reticolo di drenaggio del centro storico genovese, una sufficiente riduzione del rischio di fallanza richiede la realizzazione di un certo numero di vasche, opportunamente distribuite in diverse sezioni dei rivi minori. La localizzazione delle vasche, in termini di reperimento dei volumi liberi e strutturalmente adattabili a tale scopo, non è immediatamente perseguibile dovendo escludere a priori ogni tipo di intervento di rilievo nell’area in esame.

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L’ipotesi che è stata avanzata e verificata, sotto i diversi aspetti idraulici, di recupero, ed urbanistici, è quella di utilizzare come vasche di laminazione alcune delle antiche cisterne che ancora oggi costellano il sottosuolo della parte più antica della città. Questa scelta si basa sulle seguenti considerazioni: dal punto di vista idraulico forniscono grandi volumi sotterranei, particolarmente indicati per l’uso in termini di laminazione delle portate idriche e la loro connessione alla rete di drenaggio risulta semplificata; - dal punto di vista del recupero restituiscono alle strutture esistenti un uso molto simile a quello per il quale le cisterne sono state realizzate nel passato, associando così al recupero della struttura e dell’architettura, anche il recupero della funzione e della fruizione da parte del cittadino; dal punto di vista urbanistico consentono di pensare l’intervento a scala urbana, poiché la loro ampia distribuzione nell’ambito del tessuto urbano esistente ne consente una visione complessiva; - dal punto di vista strutturale sfruttano volumi esistenti e richiedono pertanto interventi limitati e poco invasivi rispetto alle strutture vicine ed al tessuto urbano superficiale. E’ chiaro tuttavia che l’eventuale sfruttamento di tali cisterne presenta altresì diverse problematiche che rimangono ancora aperte. Per quanto riguarda l’aspetto idraulico, l’efficacia dell’intervento risulta ora vincolata all’effettiva disponibilità dei volumi esistenti (le cisterne), e la valutazione degli effetti di laminazione non può più essere limitata alla singola vasca ma estendersi all’insieme delle vasche possibili. Gli interventi quindi, seppure possano risultare non ottimali localmente, devono essere progettati per garantire la massima efficacia a scala complessiva, concretizzandosi quindi in una rete di vasche di laminazione piuttosto che in una singola vasca. E’ stata quindi ipotizzata una proposta di recupero di antiche strutture ipogee anche di valore storico-artistico (cisterne, rifugi, canali, ecc.), facilmente collegabili alla rete idrica esistente, quali vasche di laminazione o vasche di prima pioggia. La proposta costituisce una soluzione di “buon senso”, che ha il pregio di conciliare obiettivi di per sé distinti ma potenzialmente integrabili, in un approccio di carattere multidisciplinare, tra i quali si evidenziano i seguenti aspetti: - il recupero di strutture ipogee di valore storico-architettonico per l’ottimizzazione delle infrastrutture odierne con un uso che ben si accosta a quello per cui tali strutture sono state realizzate nel passato; - la difesa del rischio idraulico utilizzando tali strutture come vasche di laminazione (ovvero per la ritenzione temporanea di

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AE-REVIEW opportuni volumi d’acqua durante la fase critica degli eventi meteorici con conseguente riduzione del picco di portata in rete); - l’ottimizzazione del processo di depurazione e la protezione del corpo idrico ricettore utilizzando alcune di tali strutture come vasche di prima pioggia; una potenziale alternativa agli interventi di carattere tradizionale maggiormente invasivi e di grande impatto sulla viabilità con soluzioni che, anche a fronte della Direttiva Pdcm 3/3/99,(11) limitano tale impatto e di conseguenza i disagi imposti alla cittadinanza. Il recupero delle strutture ipogee ad un uso che bene si accosta a quello per cui sono state concepite e realizzate in passato si basa prima di tutto sulla necessaria conoscenza della loro rilevanza numerica, della loro localizzazione all’interno della città, nonché della loro consistenza fisica. Dalla constatazione di come, purtroppo, le antiche cisterne il più delle volte negli interventi di recupero vengano compromesse o addirittura distrutte, l’indispensabile fase di conoscenza si pone, quindi, come base di partenza sulla quale impostare i progetti di recupero che si configurino come “miglior compromesso” tra le esigenze espresse dall’utenza (in questo caso idrauliche) e le prestazioni ancora offerte dai manufatti oggetto d’intervento. Queste analisi devono essere svolte per individuare le prime linee d’intervento, ma anche per identificare quelle strutture che per loro caratteristiche architettoniche o per gli alti costi previsti non risultino in pratica recuperabili. I volumi non utilizzabili a fini idraulici o che comunque abbiano un particolare pregio possono, infatti, essere oggetto di possibili soluzioni di recupero alternative. Possono essere quindi studiate soluzioni di recupero per questi manufatti che prevedano una possibile fruizione anche solo culturale per il pubblico (esistono per altro già alcuni esempi di riutilizzo di antiche cisterne quali locali pubblici, ristoranti, bar, etc.). Da queste considerazioni emergono ulteriori problematiche legate alla fruibilità di tali strutture ipogee, ad esigenze di sicurezza per la futura utenza e alla necessità di rispettare le rigide normative di settore, come quelle relative alle barriere architettoniche, alle norme antincendio e all’adeguamento degli impianti.

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consentito di identificare, censire e schedare l’esistenza di potenziali volumi ipogei, quali cisterne, pozzi, infrastrutture militari ed idrauliche, ecc., conoscendone epoca di realizzazione, materiali impiegati e tecniche costruttive adottate. Questa importante fase conoscitiva è stata resa possibile dalla stretta collaborazione con il Centro Studi Sotterranei di Genova, che da tempo svolge un’intensa attività di documentazione, ricerca e sopralluogo delle strutture ipogee della città. A partire dalla localizzazione, dal sopralluogo e dal rilievo dei documenti si è cominciato, quindi, a costruire un database che dovrà essere aggiornato ed approfondito con ulteriori informazioni tecniche. Lo studio dei manufatti, così individuati, non ha potuto prescindere da una preliminare comprensione del sistema di approvvigionamento idrico, dalla raccolta allo scarico delle acque, di cui tali volumi costituiscono, in epoca medioevale, parte integrante, nonchè dall’analisi degli atti notarili nei quali sono indicati sia le tecniche costruttive sia i materiali da impiegare nella realizzazione di questi vani. La proposta presentata, lasciando aperti numerosi spunti di riflessione, apre la possibilità di utilizzare le metodologie applicate anche ad altre città che abbiano un tessuto storico simile e che siano afflitte dalle medesime problematiche, ma che al contempo godano anche di risorse attualmente inutilizzate quali strutture ipogee preesistenti, mediante recupero tecnologico. In Italia è nota ad esempio l’esistenza di cisterne per l’approvvigionamento idrico nel sottosuolo di diverse città tra cui Perugia, Treviso, Todi, Chiusi, S. Giminiano, Napoli, Cagliari e Palermo. In queste città infatti si ritrova un sottosuolo urbano inutilizzato e molto spesso inesplorato, potenziale risorsa da poter sfruttare sia per risolvere eventuali problematiche urbane sia per migliorare comunque la vivibiltà e il recupero delle città.

La ricerca storica condotta presso gli archivi cittadini, coadiuvata da una complementare ricerca bibliografica, ha Note 5) Così, un periodo di ritorno di 100 anni per esempio indica una portata che si verifica mediamente ogni 100 anni. La portata T-ennale, parametro di riferimento per il dimensionamento di una rete di drenaggio, di un arginatura, ecc. (una volta assegnato un opportuno valore di T), non è, tuttavia, necessariamente causa di esondazioni o di danni nella sezione in esame, qualora tale dimensionamento risulti idoneo a mitigazioni coerenti con la portata T-ennale attesa. Alle considerazioni idrologiche subentrano pertanto valutazioni di carattere idraulico (relative alle opere che interagiscono con il corso d’acqua nella sezione considerata). 6) Cipolla, op. cit.

7) Cfr. per esempio Criteri per la Redazione dei Piani di Bacino (Regione Liguria Autorità di Bacino di Rilievo Regionale, 2003). 8) Il tirante (o battente) idrico è semplicemente l’altezza dell'acqua al di sopra di un certo livello di riferimento, generalmente una soglia o il fondo del corso d'acqua o del terreno (in caso di inondazione). 9) Con riferimento alla letteratura di settore, la valutazione della spinta tollerabile di riferimento può essere così determinata: - i valori della forza, che definiscano la soglia minimale (ove il rischio possa considerarsi basso) e quella massima (corrispondente a un rischio alto), equivalgono rispettivamente a 1500 N/m e a 2500 N/m;

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AE-REVIEW - sono considerate molto pericolose sia le condizioni idrauliche in cui la velocità della corrente è maggiore di 2 m/s (come da studi pregressi inerenti la stabilità degli edifici), sia quelle in cui il prodotto tra la velocità e l’altezza dell’acqua è indicato nel 2002 dall’American Regulation FEMA - Federal Emergency Management Agency). 10) Soprattutto nelle aree densamente urbanizzate, a causa degli ulteriori fattori di variabilità (usi intensivi del territorio, diffuse e frequenti attività modificative, ecc.), risultano particolarmente difficili la definizione delle modalità idrodinamiche di propagazione delle inondazioni e i conseguenti effetti sui patrimonio esistenti. 11) Direttiva Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento delle Aree Urbane, 3 marzo 1999, “Razionale sistemazione del sottosuolo degli impianti

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architettonico presente in realtà costruite complesse, quale è quella marittima.

ECO-DESIGNER RECUPERO

LA FONTANA SORGENTE DI SOSTENIBILITÀ URBANA

Il baluardo, architetture e tecnologie marine

di Barbara Baldasso

GENOVA, PORTO ANTICO VISTA DEL BALUARDO DA PORTA SIBERIA

L'intervento di riqualificazione dei giardini storici di Imperia sopra la stazione ferroviaria di porto Maurizio e di corso Roosevelt pone in evidenza l'opera di recupero della fontana storica a due putti, oggi adeguatamente illuminata, consolidata e restaurata. L’incremento dell’illuminazione ambientale con pali a “torcia” di altezze differenziate e la piantumazione di fioriture ottimizza la fruizione del giardino e consente un armonioso connubio tra l’arte e la natura. La fontana è costituita da due vasche circolari di dimensioni pari a un diametro esterno di mt. 9.30 e interno mt. 8.30 per la grande e di mt. 2.80 di diametro esterno, mt. 2.00 diametro interno per la più piccola gettate in opera. Il gioco d’acqua è a caduta: riempiendo la vasca soprastante posizionata in altezza superiore, ricade nella sottostante formando un film che viene illuminato da luci subacquee esaltando un tipico modello architettonico del giardino all'italiana. Nell’area circostante la fontana è pavimentata con ghiaino di marmo che permette di non alterare la naturalezza del giardino storico di tipologia ligure. Infatti, il progetto è stato realizzato dopo una attenta analisi dei disegni originali di Ludovico Winter commissionati nel 1888 dal “Comune di Porto Maurizio”, attraverso la lettura delle immagini storiche dei due giardini e anche grazie al costante apporto collaborativo della Soprintendenza Ligure sia per i Beni Artistici, per la fontana, che per quelli Architettonici e Ambientali per il profilo paesaggistico.

di Marco Cuomo

La penisola del molo, uno dei primi insediamenti urbani della Genova medioevale, confinante all’area dell’expò del 1992, presenta il Baluardo tra gli interventi edilizi di recupero più interessanti realizzati negli ultimi decenni nell’ambito portuale. Il fabbricato è costituito da vari e differenti elementi tecnologici, che lo rendono senza dubbio un edificio complesso; infatti la struttura resistente si sviluppa in articolati corpi, che costituiscono l’odierno perimetro dell’organismo edilizio il quale coincide con lo spessore delle mura cittadine del 1553 e del successivo ampliamento del 1700. L’intervento di recupero a firma dell’arch. G. Veneziani è rispettoso delle caratteristiche costruttive di ogni componente edilizio della fabbrica, le soluzioni tecnologiche adottate hanno l’obiettivo primario di neutralizzare le azioni particolarmente aggressive provenienti dal mare, dove i processi fisico-chimici del cloruro di sodio facilitano e accelerano le patologie di carattere morboso. L’uso di malte specifiche, capaci di bloccare il processo di cristallizzazione degenerante il quale porterebbe in tempi brevi al rigonfiamento e alla caduta dell’intonaco, ha consentito il superamento di fenomeni di degrado particolarmente aggressivi. Il contatto diretto delle fondazioni con il mare ha richiesto la modifica dello strato funzionale del solaio poggiato su muretti di mattoni pieni, imponendo così un posizionamento aggiuntivo di una guaina d’impermeabilizzazione su tutto il piano di sezione orizzontale, al fine di bloccare il flusso ascendente dell’acqua. La restituzione di finestrature intercluse da materiali di riporto ha consentito il ripristino delle originali geometrie compositive, e allo stesso tempo si sono introdotti elementi di rinforzo statico quali architravi sotto le piattabande in mattoni. Genova, porto antico vista aerea del baluardo e area expò (Bigo) Il recupero delle finestre storiche inoltre è stato completato attraverso il posizionamento del modello originario delle inferiate in ferro le quali erano realizzate senza saldature. Anche l’uso dei puntoni metallici quale soluzione tecnologica per consolidare le mensole degli archetti del camminamento risulta essere efficace e non invasivo. Questo esempio di recupero edilizio, oltre ad avere un fascino singolare per la molteplicità dei contenuti compositivi, si dimostra di particolare interesse per gli accorgimenti tecnologici addottati rispetto al contesto ambientale marino. Infatti, l’auspicio è che tali interventi non siano fatti episodici, ma una buona consuetudine di restauro del patrimonio storico-

La contestualizzazione del molumento "fontana" nei giardini attribuisce all'intervento una forte valenza storica-simbolica, ma allo stesso tempo esprime una qualità urbana di indirizzo fortemente sostenibile. Altrettanto significativa è l’opera sull’area del “belvedere” la quale comprende la sistemazione ludicoricreativa con il posizionamento di strutture per il gioco, di arredo e relativo completamento a verde, che abbia sia una funzione di delimitazione e barriera di sicurezza e sia una soluzione esteticafunzionale. Il rispetto dei principi ecologici è caratterizzato della scelta e posa di una pavimentazione che prevede l’uso di un legante epossidico e di inerti selezionati il cui prodotto trasparente è privo di solventi. Dunque, la messa in opera di una pavimentazione drenante, elastica e traspirante consente un completamento a raso degli alberi sull’apparato radicale senza richiedere la creazione di tornelli protettivi. Non ultimo, questo tipo di intervento ha permesso una ripresa vegetativa per quanto riguarda il patrimonio storico costituito dal “bosco di lecci”, che risultava a rischio a causa dell'azione soffocante dell’asfalto. Oltre alle peculiarità sopra descritte questo innovativo materiale per la pavimentazione è ottimale per le aree adibite a giochi per

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bambini in quanto riduce lo shock da caduta essendo pestazionalmente elastico e di facile e rapida manutenzione con costi estremamente contenuti. L’area per il posizionamento dei giochi risulta essere una piattaforma non delimitata se non nelle parte a mare dove è indispensabile una gradonata e a monte protetta da un aiuola a siepe verso la via Aurelia. Ai lati delle gradonate sono state realizzate aiuole a vasca piantumate con roseti a cespuglio al fine di creare una barriera sui salti di quota oltre ad alloggiare le panchine. Infine è fondamentale il contributo illuminotecnico realizzato attraverso vari corpi morfologicamente studiati per l’ottimizzazione della quantità di luce notturna.

TECNOLOGIA L'ECOMUSEO A FILO D'ACQUA di Marco Cuomo Il sommergibile Nazario Sauro S-518 di memoria verniana, capostipite della omonima classe, con i suoi 64 metri di lunghezza, dal peso di oltre 1400 tonnellate di acciaio, è parte integrante di uno degli spazi più suggestivi del Porto Antico di Genova, la Vecchia Darsena, specchio acqueo a diretto contatto con la città di Genova sul quale si affacciano il Galata Museo del Mare ed il quartiere Cembalo. Ad oggi in Italia esistono due esempi (Milano e Venezia) di sommergibili ad essere convertiti in organismi architettonici attraverso trasformazioni tecnologiche, che ne consentono l’uso collettivo quale è quello di un eco-museo. L’intervento genovese si distingue rispetto ai casi esistenti di musealizzazione per aver introdotto un approccio innovativo, ovvero l’opera mantiene la struttura di sottomarino nel suo elemento naturale, l’acqua, che interpreta così l’esigenze attese di un progetto eco-sostenibile. Infatti l’arch. Roberto Bajano, progettista, evidenzia che le caratteristiche tecnologiche della struttura non sono state modificate, ma salvaguardate nel rispetto degli elementi tecnici al fine di soddisfare le logiche e le funzioni costruttive originarie. Inoltre la committenza (MuMA) ha chiesto all’architetto genovese di creare uno spazio narrativo di collegamento, capace di far affiorare la storia dei secoli passati della Darsena fino ai più recenti cambiamenti dell’intero Porto Antico, in cui “genius loci” è inteso nel suo mutevole evolversi nei tempi attraverso le trasformazioni tecnologiche. Dunque, gli accessi pedonali al sottomarino si ispirano alle più semplici soluzioni ergo tecniche delle strutture portuali per l’accesso ai natanti, invece gli scalandroni, pur rivisti nelle dimensioni per garantire la sicurezza dei visitatori, rispecchiano per necessità di sicurezza le tipologie di quelli comunemente utilizzati dalla Marina Militare Italiana.

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Le opere di rigenerazione del sottomarino Sauro, affidati alla stessa azienda che l’ha costruito negli anni 70, la Fincantieri (allora Italcantieri), hanno coinvolto in una prima fase le opere esterne dell’involucro e successivamente hanno completato il delicato lavoro di restauro degli interni congiuntamente al cablaggio degli impianti. Da segnalare è la proposta avanzata nel prevedere delle coperture leggere poste sopra i nuovi varchi di ingresso del eco-museo. Infatti l’elemento tecnologico ideato elabora il sistema costruttivo delle gru storicamente presenti nel porto genovese, tra l’altro tale soluzione è già stata presa a modello da Renzo Piano nell’intervento di recupero del porto 20 antico. Dunque, lo spazio museale al suo interno si articola in un suggestivo e interessante percorso didattico il quale offre al visitatore le principali tappe dell’uomo nella scoperta degli abissi marini. A conclusione di questa analisi è appropriato citare la frase pronunciata da Mariapaola Profumo presidentessa del MuMA, che in occasione della firma di accordo tra Comune di Genova, Museo Galata e Fincantieri, disse: (...) musealizzare un sottomarino militare oggi, è segno che siamo in tempo di pace (...).

AUTORI RENZO PIANO, LA FORMA DELL'ACQUA di Marco Cuomo Parlare dell’acqua in architettura non si può fare a meno di pensare a Renzo Piano, che attraverso questo elemento ha creato, a dirla alla Camilleri, forme d’architettura in cui l’elemento acqua è il deus ex machina capace di trasformare le opere in geniali capolavori. L’intervento dell’expò di Genova è uno degli esempi maggiormente riusciti voluto dall’architetto genovese; infatti la scommessa lanciata alcuni anni fa, dove si prevedeva la rigenerazione della città della lanterna attraverso un porto aperto al mare è stata vinta pienamente. La natura del luogo è disegnata dal Molo, che prende forma grazie all’elemento acqua e questo dialogo tra la città e il mare è il filo conduttore costante della magia genovese di Piano, si può dire che Genova sta al mare come Matera sta ai sassi. Dunque, il tema caro e ricorrente all’architetto del Beaubourg è il mare, l’acqua e sono ormai numerosissime le opere realizzate, dove la capacità alchemica nel manipolare questo elemento attraverso soluzioni tecnologiche innovative e tradizionali trasformano l’ordinario in straordinario. Il Moby Dick ideato e rappresentato dal amico Vittorio Gassman, mandato in scena in occasione dell’inaugurazione del Porto Antico, è l’enfatizzazione semantica di usare l’acqua quale materia non più inconsapevole, ma quale forma di una realtà spaziale a misura d’uomo.

Genova, vista esterna del sottomarino Sauro Tutto il materiale in questo sito è copyright dell'Associazione Ambiente + Energia. E' vietata la riproduzione anche parziale dei contenuti. EDITORE - Associazione Ambiente + Energia "AE" - C.F. 95127630101


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AE-REVIEW RECENSIONE & PILLOLE CENTRALITÀ DEL PROGETTO di Giorgio Cirilli

Rinviando ad analisi successiva l’argomento delle numerose riforme degli studi in Architettura apriamo invece al tema della didattica “laboratoriale”. Superando le antiche prassi delle lezioni dalla “cattedra” come tenute dai vecchi baroni ormai scomparsi, da alcuni anni il “core” dell’insegnamento si basa sullo svolgimento del “laboratorio di progettazione”. Semplificando i Laboratori sono in numero di quattro nell’arco del quinquennio di studio, in genere posti nel primo quadriennio; nel 5°anno c’è il Laboratorio di sintesi finale (o la tesi di laurea che, se progettuale, completa il ciclo). Andiamo ad analizzare come funziona il Laboratorio che si ispira nella terminologia adottata alla pratica dl lavoro d’atelier, invero un po’ datata! Il corso, della durata annuale di 120 ore, le concentra, mediamente 6, in una sola giornata. In qualche caso è stata introdotta la semestralizzazione che si concentra nel 2° semestre dell’ A.A. Il numero degli studenti ammessi per corso è al massimo di 50 a cui si chiede una frequenza obbligatoria per almeno il 75% delle ore svolte, altrimenti non è possibile l’ammissione all’esame. Quindi l’apprendimento, nel corso annuale, si concentra in circa 20 giornate esclusi … imprevisti. Il modo in cui sono articolate le 6 ore è liberamente stabilito dal Docente titolare che può modulare tradizionali lezioni ex cathedra con lavori collettivi in aula per piccoli gruppi svolti sotto il suo controllo o di suoi eventuali collaboratori. I gruppi periodicamente si confrontano e alla fine d’anno l’esame può assumere la forma del workshop. All’inizio tali corsi laboratoriali erano “agganciati” con moduli specialistici integrativi, di qualche decina di ore, per altre specificità (urbanistiche, tecnologiche, ecc); sono stati sempre molto poco funzionali e sostanzialmente abbandonati. A varie riprese si è cercato di avviare una continuità funzionale tra i vari anni cercando di fissare dei contenuti minimi dell’apprendimento conseguito, con una successione, nei 4 anni, di livelli “in progress” di complessità dei progetti da sviluppare. Il monte ore di lezione dello studente, durante l’A.A., assomma a circa 900 per cui si può affermare che è sempre “sotto pressione”. In genere per ogni anno sono previsti 8 esami. Stante questo quadro la richiesta da parte del mondo della professione di una più marcata formazione professionalizzante appare problematica. Il contatto diretto docente/allievo è assai ridotto in quasi tutti gli anni di corso, è di tutta evidenza che le elaborazioni progettuali al primo anno siano meno complesse di quanto non accada negli anni successivi ma l’impianto didattico è sostanzialmente identico, non evolve, chiuso in una serie di compartimenti stagni. Il “progetto” nel senso più compiuto del termine, fino allo sviluppo

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esecutivo, non è al centro della scena e difficilmente documenta la capacità a progettare compiutamente da parte dell’allievo. Lo studente dedica mediamente circa il 10% del suo tempo complessivo alla “progettazione” (90 ore su 900) ben difficilmente potrà prepararsi per uno sviluppo completo del “progetto” che salvo “effetti speciali” il più delle volte appare di livello “metaprogettuale” in quanto non è in grado di controllare il processo. Questo vale per tutti gli anni e l’impegno ed il contributo, anche volenteroso dei Docenti, non produce effetti evidenti. Quando, una volta laureati, cominciano a frequentare uno studio professionale le difficoltà sono molte, di qui le critiche dei professionisti sulla scadente preparazione dei laureati. Certo nell’ordinamento c’è anche la mancanza del tirocinio; forse la sua introduzione non sarebbe sufficiente a modificare il quadro. Una ulteriore considerazione potrebbe riguardare la sequenza del 3+2 introdotta dall’ultima riforma, adottata da molte sedi universitarie. La possibilità di acquisire nel primo triennio competenze che una volta meglio definite come “diploma” sono state poi nobilitate come “laurea di 1°livello”(Architetto junior) con cui si sarebbe potuti entrare nel “mondo del lavoro” non ha certo funzionato. Una preparazione più tecnica, più operativa, di cantiere, nel triennio di fatto poi on esiste, anche perché forse non c’è una docenza attrezzata a tale funzione. La quasi obbligata scelta di continuare nel +2, fatta poi dai più, non gli permetterà quella maturazione alla progettazione. Ormai solo assillati dall’imperativo “uscire” dopo, mediamente, 8 anni di facoltà universitaria! Toccare, sfiorare la superficie di un muro, di una pietra da rivestimento, di un marmo sono esperienze tattili che emozionano, quando mai capita? eppure sono anche queste le sicurezze per un Architetto. La facoltà di Ingegneria ha storicamente risolto il problema. Ad un biennio propedeutico con sbarramento seguiva il triennio di specializzazione. Non c’è mai stata necessità di test d’ammissione o di numero programmato. Dalla sua fondazione la facoltà di Architettura che dovrebbe avere un po’ di quel DNA d’Ingegneria non ha mai avuto la determinazione per una tale scelta. Se ne vedono le conseguenze. Non può essere giustificazione l’assurda politica: “più studenti più finanziamento dal Ministero”. Se ne vedono le conseguenze. Serve uno sforzo comune per immaginare una possibile nuova articolazione che riporti la Progettazione al centro della didattica per la formazione dell’Architetto.

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