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MARIO LANCISI

GINO STRADA Dalla parte delle vittime


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Redazione: Edistudio, Milano

I Edizione 2009 Š 2009 - EDIZIONI PIEMME Spa 20145 Milano - Via Tiziano, 32 info@edizpiemme.it - www.edizpiemme.it Stampa: Mondadori Printing S.p.A. - Stabilimento NSM - Cles (Trento)


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Introduzione

L’IMPORTANZA DI AVERE UN PUNTO DI VISTA

Questo libro non è una biografia di Strada. Si sa, i viventi non amano molto i libri su di loro. Forse per scaramanzia. Forse perché vogliono essere loro a scegliere il biografo. Forse per altre ragioni che mi sfuggono. Di questo libro porto per intero la responsabilità. La vita di Strada non è pertanto raccontata se non per quei cenni biografici ritenuti necessari a inquadrare la tesi che il libro si propone di sostenere. Il centro dell’interesse del libro sono le vittime di guerra e il no all’uso della forza armata senza “se” e senza “ma”. Strada ed Emergency sono i testimoni di un percorso che il libro propone sulla scia della parabola del buon samaritano (si veda il capitolo 2). Gino l’ho sentito due volte, ma prima di questo lavoro. E le due interviste le potete leggere in fondo al libro. Mi sono sempre comportato così anche nei miei precedenti lavori su padre Alex Zanotelli e Adriano Sofri. Ho scritto senza coinvolgere i protagonisti. Senza richiedere autorizzazioni o imbastire accordi. Non è un libro che si colloca al di sopra delle parti e neppure per intero da una sola parte. Ma al di sotto delle parti, là dove si annidano le comuni radici di un’umanità solidale con le vittime e con chi si preoccupa di curarle e rialzarle alla vita. INTRODUZIONE. L’IMPORTANZA DI AVERE UN PUNTO DI VISTA

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È bene che i lettori lo sappiano prima di cominciare il viaggio. Qualcuno, a proposito dei miei precedenti libri, mi ha rimproverato di essere troppo simpatizzante dei protagonisti. Lo trovo inevitabile. Se stai dalla parte delle vittime non puoi essere fintamente neutrale. Ho presente l’invito di don Milani a essere schierati, classisti. Dalla parte dei poveri, degli ultimi, delle vittime. «Il Foglio», in una recensione peraltro benevola del mio libro su Sofri, ha concluso osservando che sono rimasto fermo a Barbiana. Non la considero una critica, ma il riconoscimento dell’impostazione della mia ricerca culturale. È vero: il punto di vista con cui guardo al mondo e ai suoi protagonisti è culturalmente debitore della lezione di don Milani. Un limite? Un’ossessione? O la tenacia di tenere fermo un punto di vista in un mondo che sembra aver smarrito il senso e la necessità di avere punti di vista? A proposito di punti vista. Agli inizi di ogni capitolo una frase tratta dai miei libri precedenti su don Milani, padre Zanotelli e Sofri è stata inserita per indicare un punto di vista – appunto – e l’unitarietà di un percorso nel mondo delle vittime e dei loro samaritani. Cambiano i testimoni, ma i protagonisti sono sempre gli stessi, cioè gli ultimi della terra: gli operai di Calenzano negli anni Cinquanta, i montanari del Mugello, gli impoveriti di Korogocho, i detenuti del Don Bosco di Pisa, i feriti degli ospedali di Emergency. Infine per alleggerire il testo ho preferito, salvo citazioni importanti, eliminare le note e rinviare alla bibliografia. Così come per rendere il viaggio più snello ho preferito capitoli brevi intervallati da interviste. Buona lettura. Firenze, agosto 2009

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INTRODUZIONE. L’IMPORTANZA DI AVERE UN PUNTO DI VISTA


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Capitolo 1

NO ALLA GUERRA Da Barbiana a Kabul Più ci rifletto e più mi convinco che forse Dio non è l’onnipotente che pensiamo. Forse è un Dio debole, che si è autolimitato, che cammina a fianco del suo popolo e che soffre per il nostro dolore. Non c’è nessun deus ex machina che ci salverà: tocca a noi darci da fare, siamo noi responsabili del nostro destino. (Mario Lancisi, Alex Zanotelli. Sfida alla globalizzazione, Piemme, 2003*)

Era il 2001, una giornata così, senza qualità, di quelle che scivolano via e non ricordi se non per un particolare, un dettaglio, nel mio caso una telefonata di un signore che poi ho imparato a conoscere e a stimare (si può non stimare chi ti propone di scrivere libri?). «Mi chiamo Diego Manetti», si presentò, «sono editor di Piemme e vorrei proporle di scrivere un libro su don Milani. Un libro agile, di facile lettura, per i giovani». Risposi subito di sì. Così è nato Il segreto di don Milani, uscito nel giugno del 2002. Ne sono seguiti altri. Su Alex Zanotelli. Sfida alla globalizzazione, 2003. Su Il miscredente. Adriano Sofri e la fede di un ateo, 2006. Ho scritto pensando alle vittime. Ho scritto per rendere omaggio alle vittime. Ho scritto sognando un mondo senza più vittime. Con questo libro su Gino Strada prosegue il viaggio attorno a personaggi in cui il filo rosso che cuce le loro vite con ago rapido e incisivo è la morale della prossimità che li porta a vedere il mondo dalla parte delle vit* Da ora in poi: Zanotelli, op. cit. 1. NO ALLA GUERRA

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time: i montanari analfabeti del Mugello, uomini e donne ridotte a discarica umana nella baraccopoli di Korogocho, i prigionieri rinchiusi in celle blindate alla speranza e i feriti e i morti delle numerose guerre disseminate nel pianeta.

Crocifissi Nell’estate del 2004, durante le vacanze, trascorse assieme ai figli degli amici di famiglia, bambini e ragazzi turbati e feriti dalla strage di Beslan e dalla guerra in Iraq, due domande hanno cominciato a ronzarmi dentro. La prima: è possibile fare a meno della guerra? È possibile sradicarla dal vocabolario e trasformarla in un tabù? È possibile un mondo senza più guerre e bambini crocifissi? Ogni generazione ha i suoi maestri e le sue risposte. Per la mia generazione L’obbedienza non è più una virtù di don Milani è stata molte cose insieme: indignazione per un mondo diviso in classi e in patrie, dolore per le vittime delle guerre, luce nel cammino della pace. Molte sono state le nostre omissioni, i colpevoli silenzi, i fallimenti. Bisognava riannodare i fili sospesi, perduti, dimenticati. Chiamai Manetti e gli proposi: «Perché non ripubblichiamo L’obbedienza non è più una virtù con interviste a personaggi che orientano l’opinione pubblica? Da Cacciari a padre Zanotelli». «Ok procedi», mi rispose Manetti. Uscì così nel 2005 No alla guerra. Non ebbe i lettori sperati. Forse nel 2005 il grido «No alla guerra» era ormai desueto. Fuori moda. Inattuale. Il treno della pace era passato e non eravamo riusciti a salirvi sopra. La voce era diventata fioca e gli occhi spenti per gridare e leggere: «No la guerra».

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Il treno era passato e nella notte delle coscienze si udivano lontani i sibili…

Patria Eppure quel libro non mi abbandona. Contiene il testo forse più bello di don Milani: L’obbedienza non è più una virtù. Ogni volta che lo leggo mi vengono i brividi. Ci sono frasi che meritano di essere scolpite sulle porte delle chiese e delle scuole. Dove si prega e si progetta il futuro. «Non discuterò qui l’idea di patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia patria, gli altri i miei stranieri», scrive il priore di Barbiana ai cappellani militari, che nel febbraio del 1963 avevano definito «un’espressione di viltà» l’obiezione di coscienza al servizio militare, per la quale molti giovani finivano in galera. Per difenderli don Milani non si appellò al Vangelo («È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa», osservò), ma alla Carta di tutti: la Costituzione. In particolare all’articolo 11 («L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli»), che sarà la bandiera anche di Strada e di Emergency. E ripercorse con i suoi ragazzi la storia d’Italia per analizzare le guerre che erano state combattute al metro indicato dalla Costituzione all’articolo 11. Risultato? La storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle patrie degli altri. Guerre illegittime, secondo la nostra Costituzione. 1. NO ALLA GUERRA

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Disubbidienza Don Milani fu denunciato e processato per quella lettera scandalosa nell’Italia dei primi anni Sessanta. Malato di tumore – morirà nel 1967 – non poté recarsi in aula, a Roma, nel 1966. Così scrisse una Lettera ai giudici che, assieme alla Lettera ai cappellani, fu pubblicata in un libretto dal titolo, appunto, L’obbedienza non è più una virtù. In essa don Milani sostenne la legittimità dell’obiezione di coscienza perché nessuna guerra, argomentò, è giusta in quanto i conflitti moderni sono aggressioni alle patrie altrui. Con la forza del profeta e del maestro il priore di Barbiana pose per primo il problema di ogni guerra: le vittime. Donne e bambini, soprattutto. Per questo, scrisse, che occorre «avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto». Don Milani fu assolto in primo grado e condannato in appello. La straordinaria attualità della lettera consiste soprattutto nel rifiuto della guerra in nome e per conto delle vittime, nel primato assegnato alla coscienza e nel dovere della disubbidienza davanti a ordini sbagliati e criminali. Don Milani concluse assicurando che anche in caso di condanna avrebbe seguitato a insegnare ai ragazzi «che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura». Gino Strada Quaranta anni dopo L’obbedienza non è più una virtù ho posto ad alcuni personaggi della vita pubblica italiana, sensibili al tema della pace e alla figura di don Milani, la

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domanda cruciale: è d’accordo con il priore di Barbiana sul fatto che non è più possibile una guerra giusta? Le risposte meritano di essere riprese in mano perché offrono lo sfondo alle pagine che seguiranno. Strada raccontò di aver letto L’obbedienza non è più una virtù a vent’anni. Affrontammo varie questioni. Due mi preme qui richiamare (il resto lo potrete leggere in Appendice). Una riguarda quella bellissima frase di don Milani sulla patria in cui il priore di Barbiana dichiarò di dividere il mondo non in stranieri e italiani, ma in «diseredati e oppressi». «È una frase che purtroppo si attaglia anche alla situazione di oggi. Basta pensare alla guerra in Iraq. La maggior parte dei soldati americani appartengono alle classi più povere ed è sempre stato così» spiegò Gino. In tutte le guerre a morire sono soprattutto i figli dei poveri. Le classi dominanti le proclamano per «ragioni di conquista o di rapina» mentre le classi subalterne le combattono. «Ad ammazzare e a farsi ammazzare ci si manda gli strati più deboli. Non ho visto molte facce da bostoniano tra i marines che ho incontrato in Iraq», sostenne il fondatore di Emergency. Infine chiesi a Strada l’influenza esercitata da don Milani sul movimento della pace. «Credo che ci sia stata una staffetta naturale tra chi ha letto e conosciuto il pensiero di don Milani e le nuove generazioni perché credo sia insopprimibile all’interno della persona il desiderio di affrontare i valori di solidarietà», rispose. C’è un filo rosso che collega don Milani a Strada, Barbiana a Kabul. Lo capiremo rileggendo nel prossimo capitolo la parabola del buon samaritano… Massimo Cacciari «Quello di don Milani non è né un discorso politico né un’utopia. È piuttosto un imperativo categorico e come 1. NO ALLA GUERRA

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tutti gli imperativi categorici sono idee regolative e possono svolgere anche una grande funzione politica, ma è evidente che finché ci sarà il mondo, ci saranno guerre e che il regno di Dio non è di questo mondo. Come si fa a definire la guerra giusta? La guerra giusta è qualcosa di assolutamente indefinibile», rispose il filosofo Massimo Cacciari. Una risposta che non offre spazio alla speranza, ma si fonda sulla convinzione che la guerra sia inestricabilmente connessa alla storia umana. Così il movimento per la pace sconta un utopismo improduttivo: «Il limite del movimento per la pace? L’enorme difficoltà a elaborare proposte vere di organizzazione degli equilibri internazionali. Una debolezza politica, di programma politico, non tanto etica o di testimonianza personale», osservò Cacciari. Risposte, quelle del filosofo veneziano, che fornite dopo il grande movimento pacifista del 2002-2003, riflettono, pare di capire, il senso della sconfitta della pace.

Franco Cardini «Quel che non riesco ad accettare, di don Milani, è il “mai guerra”. Continuo a credere che la Chiesa faccia bene a sostenere la possibilità, per il cristiano, di andare in guerra senza per questo commettere peccato», sostenne Franco Cardini, medioevalista di fama internazionale e intellettuale cattolico che, pur muovendosi da posizioni e radici di destra, esprime posizioni non facilmente riconducibili a una determinata area culturale e politica. Come già per Cacciari, anche per lo storico fiorentino la pace è una nobile utopia: «Oggi non si può davvero sperare nella pace. Auspicarla, certo. Ma pretendere una

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pace che non è quella del Cristo (“Vi lascio la pace, vi do la mia pace: non quella che dà il mondo”) bensì quella fondata sul mantenimento d’uno status quo ch’è quello dei violenti, dei prevaricatori, degli sfruttatori, questo credo sia impossibile». E la ragione del pessimismo di Cardini sta nel disordine internazionale che non è affatto pacifico: «Dalla Cecenia alla Palestina all’Africa e all’America Latina, non si può pretendere che i popoli accettino “in pace” una situazione d’ingiustizia che li condanna alla fame e alla miseria per far crescere i profitti delle multinazionali», osservò. Pertanto, concluse lo storico Cardini: «Se i popoli vittime d’ingiustizia prendono le armi per difendere i loro diritti o per conquistarsi una posizione più giusta al mondo, non me la sento di condannarli nel nome della pace. Lo status quo mondiale è una pace che non è pace».

Gad Lerner Nel 2003 si schierò contro la guerra anglo-americana all’Iraq, però lo scrittore e giornalista Gad Lerner non escluse a priori il ricorso alle armi. Posizione che giudicò abbastanza coincidente con quella del priore di Barbiana, la cui durezza nell’obiezione alla guerra non lo portò «a rinnegare la necessaria dimensione del conflitto. Oggi diremmo che don Milani non è un pacifista assoluto», sostenne Lerner. Che collocò il priore di Barbiana nel filone di figure del monto cattolico come don Giuseppe Dossetti, padre Ernesto Balducci e padre David Turoldo, che sono sì «un punto di riferimento del movimento pacifista», senza però essere «figure gandhiane», in quanto immerse «nella storia patria», alcuni di loro furono persino ex partigiani. 1. NO ALLA GUERRA

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Lerner si disse convinto che «oggi don Milani non si limiterebbe a una generica predicazione di pace» in quanto «la sua obiezione alle guerre sbagliate mosse da eserciti agguerriti solo tecnologicamente, non si fermerebbe lì». Secondo Lerner don Milani andrebbe oltre nella sua analisi ed esaminerebbe il fatto nuovo rappresentato dal totalitarismo islamico. «Don Milani amava troppo i poveri per sopportare che dei terroristi se ne arrogassero la rappresentanza», concluse Lerner. Come si sarebbe comportato il priore di Barbiana con il terrorismo islamico è impossibile saperlo. Si sa invece che amò Gandhi e la non violenza.

Adriano Sofri Sofri, intervistato nel carcere di Pisa, il 3 novembre 2005, mi spiegò di non condividere il «mai più guerra». Per realismo politico, non come anelito personale. «Per dire “mai più guerra” bisogna porsi il problema di un uso legittimo e proporzionato della forza. Dire “mai più guerra” e poi voltare la testa dall’altra parte rispetto alle guerre che sono in corso rischia di diventare una posizione di complicità», spiegò. La sua proposta, varie volte ripetuta, prevede la creazione di una sorta di polizia internazionale per far fronte ai conflitti internazionali: «Diciamo mai più guerra e poi in Ruanda abbiamo lasciato trucidare nel giro di un paio di mesi un’intera popolazioni a colpi di machete» esemplificò Sofri. «In situazioni come quella del Ruanda cosa facciamo? Io penso che o ci si pone il problema di intervenire per salvare quelle persone e per impedire la vergogna di una umiliazione di tutti i diritti o ci si rende complici di quel massacro».

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Chiesi infine a Sofri in che misura, a suo giudizio, don Milani avesse influenzato il pacifismo? «Quella del priore di Barbiana era un’utopia concreta, quella di una parte del pacifismo è invece molto sloganistica, quando ad esempio esalta principi quali il “senza se e senza ma”. Io trovo che poche cose siano così insopportabili sul piano educativo come questo slogan. Bisogna invece fare un monumento ai “se” e ai “ma”. Dopodiché verrà il momento di dire “sì” e “no” ma prima uno deve passare anche attraverso i “se” e i “ma”», concluse.

Giancarlo Caselli Giancarlo Caselli, noto magistrato torinese, cattolico, alla domande se condividesse il «mai più guerra» del priore di Barbiana, rispose affermativamente e precisò che eticamente può essere accettata solo un’eventuale possibilità di difesa, non il “costruire” la guerra. Per sua natura la guerra è sempre “offesa”, non difesa. «Quel mai deve, di conseguenza, diventare obiettivo e valore, senza troppi giri di parole. Don Milani lo ha evidenziato con la vita e con l’insegnamento», argomentò Caselli. «Se non vuole limitarsi a essere una petizione di principio, il no alla guerra deve però legarsi,» aggiunse, «a un’opera di contrasto politico, economico e culturale all’ingiustizia. Senza se e senza ma». Da magistrato e da fine giurista, Caselli aggiunse che non c’è solo don Milani a ricordarci con le sue opere e la sua vita il no alla guerra senza condizioni e subordinate. C’è soprattutto la Costituzione e il suo famoso articolo 11: «Tra i tanti verbi che si sarebbero potuti usare (rifiuta, respinge, disconosce, rinnega, sconfessa…) la Costituente ha scelto “ripudia”: il massimo dei massimi per 1. NO ALLA GUERRA

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esprimere un totale distacco, un vero e proprio abisso fra noi e la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», concluse Caselli.

Don Luigi Ciotti Don Ciotti sostenne che non solo il «mai più guerra» di don Milani continua a essere valido, ma introdusse un concetto molto caro a Strada. Che il no va esteso dalla guerra ai tentativi un po’ odiosi e truffaldini di renderla accettabile, cioè alla guerra preventiva e umanitaria. «Oggi non mancano quanti tentano di giustificare la necessità degli interventi militari in situazioni di conflitto, denominandoli con espressioni tipo “guerra giusta”, “umanitaria”, per “legittima difesa”, “preventiva”… Nessuna acrobazia linguistica può però trasformare strumenti al servizio della morte in operazioni di pace e di vita», spiegò il prete torinese. Don Ciotti andò oltre e aggiunse, anche qui in sintonia con Strada, che la prima vittima delle guerre è sempre la verità e che il primo vincitore è il profitto: «I veri motivi di quasi tutti i conflitti internazionali sono e restano interessi economici così prepotenti da inquinare la stessa vita politica», sostenne don Ciotti. Che concluse sostenendo che spetta alla politica dirimere i conflitti tra gli Stati, e non alle armi.

Padre Alex Zanotelli «Don Milani era tra coloro che avevano percepito come dopo il lampo di Hiroshima non ci poteva essere più una guerra giusta. È in questo contesto atomico che Milani rafforza il suo giudizio deciso contro la guerra. E non solo perché la guerra colpisce i civili ma soprattutto

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perché è intrinsecamente immorale. La guerra deve diventare un tabù come l’incesto, ad esempio». Esordì così padre Alex Zanotelli, missionario comboniano, nell’intervista che mi concesse, nel 2004. Fu un esordio fulminante: l’atomica, l’incesto, il tabù… Ne trassi la forza per una domanda per me cruciale: perché la Chiesa è ancora così titubante, incerta e non ha la forza per gridare, come fece Paolo VI all’Onu, «Mai più guerra»? Padre Alex non tentò facili vie di fuga. Rispose che l’ambiguità della Chiesa deriva dal suo essere una “religione civile”, in cui il Vaticano è Stato e il papa un capo di Stato, e tutto «mette in moto una serie di trappole, la diplomazia, ecc.». Come se ne esce, padre Alex? «Il magistero della Chiesa deve avere il coraggio di proclamare come dogma di fede il fatto che è stato Gesù di Nazareth a inventare la non violenza attiva. Se la Chiesa ha il coraggio di proclamare questo apertamente, produrrà nel cuore della gente una rivoluzione enorme», rispose convinto padre Zanotelli.

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Capitolo 2

DA GERUSALEMME A GERICO Viaggio nel mondo delle vittime Un dottore della legge s’era alzato per metterlo alla prova. Aveva chiesto a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù disse: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricandolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno». (Luca 10, 29-35)

La seconda domanda che mi ha assillato, in quell’estate del 2004, ha riguardato Gino Strada ed Emergency. Perché tante prese di distanza, anche a sinistra, da parte di chi fino a qualche anno prima lo aveva esaltato, corteggiato, quasi idolatrato? Perché il segretario del maggiore partito della sinistra, Piero Fassino, aveva coniato, in un senso non certo positivo, l’espressione «pacifismo alla Gino Strada»? Perché intellettuali raffinati e progressisti come Sofri, Mafai e Merlo lo criticavano? Forse non avevano ragione, i critici, a denunciare il radicalismo di Gino e quei suoi giudizi branditi come clave? E di fronte ai macelli internazionali di etnie contro

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le altre, armate con il machete, non è forse opportuna una pulizia internazionale che intervenga chirurgicamente con le armi? Per cercare di dare qualche risposta a queste domande ho deciso di scrivere questo libro. Che è – come ho già detto – dichiaratamente di parte. Dalla parte di Gino e delle sue vittime. Pur tenendo conto delle opinioni contrarie. Una scelta di campo che ho maturato rileggendo la parabola di Luca sul buon samaritano. Dove Gesù si mette nei panni della vittima. Come hanno fatto – a loro modo e nel contesto in cui hanno operato – Strada ed Emergency. Mossi da storie e valori diversi don Milani, padre Zanotelli, Sofri e Strada, due preti e due miscredenti, hanno capito che la morale della prossimità implica la centralità dell’uomo.

Professionisti di Dio La parabola del Vangelo di Luca ci presenta quattro personaggi: un uomo ferito ai bordi di una strada, un sacerdote, un levita e un samaritano. Dell’uomo ferito Gesù non offre descrizioni identitarie. Lo presenta solo nella sua accezione di “uomo”, che mentre scendeva da Gerusalemme verso Gerico, un viaggio di 27 chilometri, venne assalito, derubato e abbandonato mezzo morto al lato della strada. Evidentemente a Gesù non importava chi fosse, ma che cosa rappresentasse in quel momento: una vittima. Il sacerdote era invece considerato santo, cioè particolarmente dedito alla divinità: possedeva la “conoscenza” di Dio, della cui volontà era interprete, mentre il levita aveva il compito di sorvegliare il tabernacolo e il tempio. Due figure cardine della religione ebraica. Due maestri 2. DA GERUSALEMME A GERICO

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della morale e dell’ortodossia religiosa. «Due professionisti di Dio», li definisce Sofri, in Chi è il mio prossimo, edito da Sellerio nel 2007. Infine il samaritano: un meticcio dal punto di vista etnico, considerato un pagano dai settori ortodossi della religione ebraica. Nella parabola Gesù ci mostra dunque il comportamento di un levita, di un sacerdote e di un samaritano di fronte all’“altro” della parabola, cioè alla vittima, centro del racconto, metro di misura morale. Il sacerdote e il levita passano oltre: sono i maestri di una morale astratta. La legge rabbinica li giustifica. Sono convinti di far bene, di essere nel giusto. Il samaritano invece, l’uomo non ligio alla morale codificata, si ferma a soccorrere la vittima.

Nei panni delle vittime Sofri pone un problema interpretativo della parabola che rovescia, mi è parso di capire, la centralità del samaritano a vantaggio della vittima. «Un riflesso comprensibilmente condizionato fa scivolare il soggetto dalla vittima dell’agguato al soccorritore efficace. Se ci intervistano sulla pena di morte, rispondiamo come chi sia favorevole o contrario a comminarla e magari – raccapriccio – a eseguirla: non ci viene fatto di rispondere come chi immagini di trovarsi nei panni del condannato e del giustiziato», osserva Sofri. Il prossimo non va genericamente confuso con l’altro: «Sono indotto a dire che non è mio prossimo quello che, potendo aiutarmi, non l’ha fatto», sostiene Sofri. Un doppio passaggio suggerisce la parabola. Dall’«immaginarsi vittima bisognosa d’aiuto all’immaginarsi soccorritore generoso». Dai «panni insanguinati del tale ai

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panni che il samaritano non teme di sporcare sollevandolo e medicandolo», osserva Sofri. Vittima e samaritano insieme, in un doppio passo di speranza (la speranza della vittima) e di carità (la solidarietà del samaritano). Immaginarsi vittima. Vedere il mondo con gli occhi di chi è condannato a morte. Di chi è stato ferito in un agguato di guerra. Di chi ha solo un euro al giorno per vivere. Solo così si possono capire anche i linguaggi radicali e le appassionate denunce politiche di coloro che concretamente hanno provato a calarsi nei panni delle vittime.

Scandaloso Gino La scomodità di un personaggio come Gino Strada nasce, a mio avviso, da questo rovesciamento della parabola del buon samaritano. Quando ad esempio nel conflitto iracheno pone sullo stesso piano Bush e Saddam, quando stabilisce scandalose equazioni tra paesi dell’Occidente e paesi dell’Oriente e quando infine non sembra distinguere – nel sì italiano alla guerra di Kabul – tra Prodi e Berlusconi, il fondatore di Emergency giudica con il metro e lo sguardo delle vittime. Proviamo per un attimo a metterci nei panni di un cittadino afghano cui una mina ha maciullato le gambe o una bomba ha ucciso i figli. Pensate onestamente che il suo punto di vista sulla guerra e il mondo sappia e possa distinguere tra Bush e Bin Laden? Forse il mondo – questo mondo – non è governabile a partire dal giudizio delle vittime. Forse l’azzardo è troppo. Forse è saggio e realistico distinguere. Gesù però non lo fa. Non usa compromessi e mezze 2. DA GERUSALEMME A GERICO

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misure. Il suo Magnificat è la politica dell’azzardo. L’azzardo di un mondo in cui gli ultimi sono i primi. Che non è un rovesciamento di posizioni, ma di governo del mondo: a guidarci come punti di riferimento devono essere gli ultimi, le vittime, le pietre scartate. Giustamente Sofri collega la parabola del buon samaritano a quella del giovane ricco, al quale Gesù ordinò: «Vuoi seguirmi? Bene, vendi tutto e dallo ai poveri. Ma il giovane se ne andò via cupo e rattristato perché “era molto ricco”». Iniziato nel 2002 a Barbiana il viaggio nel mondo delle vittime e dei loro Samaritani di turno prosegue con la storia di Strada. L’obiettivo del libro è quello di analizzare il caso-Strada, cioè di un chirurgo che dà vita a un’esperienza straordinaria come Emergency ma che nel contempo diventa uno “scandalo” politico per il suo approccio radicale al tema della guerra. Singolare caso, quello di Strada. In testa nella hit parade degli uomini più apprezzati. In odore di premio Nobel. Votato in parlamento addirittura alla carica di Capo dello Stato. Amato e idolatrato. E tuttavia anche molto discusso. E criticato. A destra come a sinistra. Berlusconi ma anche Fassino che, da segretario dei Ds, criticò il pacifismo «alla Gino Strada». Cioè un pacifismo estremista, radicale, unilaterale. Che è contro ogni guerra. Senza “se” e senza “ma”. Dove sta la radice del caso e dello scandalo se non proprio nell’aver assunto le vittime a metro di giudizio etico e politico? È successo a tutti i personaggi dei miei libri. A don Milani. A padre Zanotelli. E anche a Sofri. A loro modo, con il timbro particolare della loro umanità e della loro storia, lo scandalo trae alimento dalla decisione di mettersi nei panni delle vittime. Nella nostra società le vittime si possono anche soccorrere. Raro che ci si immedesimi in loro.

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Ai confini del Pakistan Nella parabola di Luca il buon samaritano viene presentato in una condizione di viaggio: stava andando da Gerusalemme a Gerico. Condizione fondamentale per incontrare le vittime e decidere di cambiare vita. Anche se il cammino da solo non basta. La parabola aggiunge infatti che il samaritano «vide la vittima, n’ebbe compassione e si prese cura di lui». Viaggiare, vedere, avere compassione, prendersi cura… Si parte dal viaggio. Le pagine della Bibbia sono popolate di personaggi chiamati da Dio a uscire dalle fortezze sicure per intraprendere sentieri nuovi. A mettersi in cammino. A cominciare da Abramo, il patriarca della nostra storia. Così è successo anche a Strada. Era il 1988. Gino aveva 40 anni. Da dieci era laureato, faceva il chirurgo, poteva fare carriera, guadagnare molti soldi, ma non era soddisfatto. Uno strano anelito lo agitava dentro: «il bisogno di scoprire l’altra faccia del mondo». Decise di parlarne con Teresa, la moglie. Le espose l’intenzione per sei mesi di andare a svolgere la professione di chirurgo di guerra al seguito della Croce Rossa. Destinazione il Pakistan: c’era bisogno di medici al confine con l’Afghanistan. Cecilia, la figlia, aveva solo nove anni, ma Gino partì lo stesso. «Da quel giorno, praticamente, non è tornato più», racconta Teresa. D’altra parte questo tipo di viaggi – da Gerusalemme a Gerico – sono di solo andata. Quando uno decide di indossare i panni delle vittime volta pagina in modo deciso, radicale. Si converte: letteralmente cambia la direzione della propria vita. Gesù nella parabola infatti invita non tanto alle opere buone, ma alla “metanoia”, al cambio di mentalità. 2. DA GERUSALEMME A GERICO

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Nelle prigioni turche Non era la prima volta che Gino prendeva l’aereo, anche se da ragazzo, lui figlio di una famiglia modesta di Sesto San Giovanni, non si poteva permettere viaggi lontani. Il mondo fu costretto a conoscerlo attraverso le pagine di Verne, Kipling e Salgari. Da giovane al massimo era andato in Cinquecento in Sicilia o sul Gargano, riferisce Caterina Pasolini (edizione milanese di «Repubblica», 8 settembre 2001). La prima uscita oltre confine Gino l’ha fatta con Teresa nel viaggio di nozze, destinazione Turchia, 1978. Finì dietro le sbarre di una prigione turca per un incidente stradale: «Mia moglie scriveva cartoline vaghe e rassicuranti ai parenti, che già mi consideravano un avanzo di galera perché di sinistra, mentre io curavo i malanni dei secondini», racconta Strada. Episodio premonitore: Gino deve aver capito che non sarebbe diventato mai un turista, ma un viaggiatore del tipo che propone Gesù con la figura del samaritano. Arrivato in Pakistan, in un ospedale dove giungevano i feriti di guerra dall’Afghanistan, Gino vide l’effetto dei proiettili, delle mine anti-uomo: bambini senza le mani per giocare e le gambe per camminare. «Per la prima volta guardi il mondo dall’altra parte del cielo e quello di qui ti sembra sempre meno reale. Niente può più essere come prima», osserva il fondatore di Emergency.

L’uomo e il tempio Luogo, situazione e valori di partenza sono diversi, forse persino agli antipodi, tra il fondatore di Emergency e i personaggi precedenti dei miei libri. Ognuno ha la sua

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Gerusalemme. E anche la sua Gerico. Li accomuna però la morale della prossimità che comporta una sorta di rivoluzione copernicana: il mettere cioè al centro l’uomo, non il tempio o la legge o l’ideologia politica. Il compiere in definitiva il passaggio dalla morale dell’identità a quello della relazione umana. Un giorno don Milani mostrò a Francuccio Gesualdi, uno dei suoi allievi prediletti, che allora aveva nove anni, una fotografia in cui si vedeva un uomo legato e un altro uomo che gli puntava la pistola contro. «Per chi sei te di questi due?», gli chiese don Lorenzo. «Per questo», rispose il bambino, indicando l’uomo in ginocchio a tiro di proiettile. L’uomo legato poteva essere il più ricco e potente del mondo, ma in quella condizione diventava il più indifeso. La parabola milaniana è fin troppo chiara: non è il ceto sociale ciò che distingue il debole dal forte e che determina la gerarchia sociale e la prossimità evangelica, ma la condizione storica concreta e mutevole. Mi pare che questo tratto non ideologico, ma relazionale, accomuni don Milani a Strada, padre Zanotelli a Sofri. Personaggi per i quali il prossimo sono i poveri, i prigionieri, gli ultimi, le pietre scartate dai costruttori e non certo le ideologie dominanti, le appartenenze etniche, le fedi religiose o le tessere partitiche.

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