Fernanda Pivano x Andrea Gallo

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Edgar Lee Masters Antologia di Spoon River

Ah, questo Spoon River. Ce l’ho nel cuore dal giorno in cui me l’ha consegnato Cesare Pavese. Mi aveva chiesto cosa stessi facendo e quando ha sentito che mi stavo laureando su un poeta inglese, nientemeno che Shelley, mi aveva fatto la domanda fatale che mi ha trasformato la vita: “Perché non in Letteratura americana?”. Naturalmente gli avevo chiesto che differenza c’era tra le due letterature e lui si era passato la pipa da una parte all’altra della bocca e invece di rispondermi mi aveva lasciato in portineria quattro libri, ognuno avvolto in un foglio di carta da pacchi arancione e il titolo scritto in corsivo con la penna stilografica, come usava allora: Farewell to Arms di Ernest Hemingway, Leaves of Grass di Walt Whitman, l’autobiografia di Sherwood Anderson e questo strano libro di poesie, Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters. Chi lo sa se questo libro l’ho capito. Chi lo sa se ho capito i quasi cinquanta epitaffi che Masters ha scritto per narrare la storia di ciascun abitante di Spoon River sepolto sulla leggendaria collina. Ma non ho mai smesso di amarlo, questo libro, e di pensare che stava cambiando il pensiero dei ragazzi come me, avviandoli verso il pacifismo, verso la libertà, verso la fiducia nei valori morali soffocati da un mondo che cercava di impadronirsi delle nostre anime. Un mondo di illusioni e di gradassate, dove il tono era sempre un po’ troppo alto, un po’ troppo coperto da trombe con l’altissimo, di immagini troppo trionfalistiche di una realtà trasfigurata in un’ansia di potere degenerata spesso in ansietà estranee ai nostri cuori. Ma fascismo o non fascismo io ero una bella bambina mica tanto cretina. Forse Pavese si divertiva a sentire che cosa diventavano quei versi immortali nelle parole di una bella bambina mica tanto cretina. Quello che pensavo e non osavo dirgli avevo cominciato a scriverlo sui quaderni della scuola svizzera, che avevo ancora sul mio tavolo. E insieme avevo cominciato, senza sapere ancora che esistevano i traduttori, a tradurre senza vocabolario poesie che ormai mi presentavano i problemi di un altro modo di vivere. A incantarmi era stata la poesia di Francis Turner, ve la ricordate? Io non potevo correre né giocare Quand’ero ragazzo... Eppure giaccio qui Blandito da un segreto che solo Mary conosce: C’è un giardino di acacie... Là, in quel pomeriggio di giugno Al fianco di Mary Mentre la baciavo con l’anima sulle labbra, L’anima d’improvviso mi fuggì.

Mah. In quel mondo cinico e materialista del tempo l’idea che si potesse ancora morire per un bacio era a dir poco seducente per una bambina che i baci li aveva soltanto sognati. E questa antologia l’avevo letta tutta di seguito nella nuova ansia di riconoscere il dramma di poveri esseri umani travolti da un destino incontrollabile. E per riconoscerli meglio mi sono messa a tradurre questi versi. Ma tutto prevedevo tranne che un giorno Pavese, mio insegnante di Letteratura comparata, prendendo in mano un mio quaderno, lo avrebbe sfogliato e letto. Poi mi aveva guardato con quel suo viso sempre drammatico e mi aveva detto soltanto: “Ah!”. Si era messo il quaderno nella borsa e due giorni dopo era tornato col contratto di Giulio Einaudi, il primo del migliaio di contratti arrivati da lì in poi, dicendomi che voleva leggere quelle poesie via via che le traducevo. Chissà se Pavese si è mai reso conto che in quel momento mi aveva indicato le vie del mio destino, chi lo sa. Però così è stato. Quel suo “Ah!” non me lo sono mai dimenticato. Dell’autore Edgar Lee Masters non si sapeva niente, neanche che per vivere faceva l’avvocato di provincia. Per ottenere l’autorizzazione del Ministero della cultura popolare, Cesare Pavese aveva richiesto il permesso di pubblicare una antologia


col titolo Antologia di S. River. E all’antologia di questo nuovo santo il permesso era stato accordato. Pavese mi aveva scritto: “L’incredibile è avvenuto”. Il libro era uscito in un’edizione ancora non integrale nel marzo 1943: Pavese mi aveva portato la prima copia in un caffè di Torino di fronte alla stazione. Io arrivavo da un paese, lui da un altro. Avevamo tutti e due gli occhi un po’ lucidi, mentre stavamo lì in piedi a guardare quel libretto smilzo che era solo una scelta dell’antologia, con la copertina bianca orlata di verde pallido e la carta un po’ ruvida sotto le mani intirizzite dal freddo. Poi Pavese era ripartito per il suo villaggio, io per il mio; col mio libretto smilzo sotto il cappotto, senza sapere che pochi giorni dopo avrebbe cominciato a circolare con un ritmo da bestseller e molti ragazzi avrebbero potuto accostarsi a queste poesie con la loro speranza, il loro sogno, la loro ostinazione di libertà. Perché per noi che eravamo giovani allora questo libretto smilzo aveva significato molte cose: la schiettezza, la fede per la verità, l’orrore delle sovrastrutture. Forse significava amore per la poesia: certo significava amore per quella poesia. Un amore ispirato a ragioni un po’ politiche, un po’ morali, un po’ estetiche: certo molto diverse da quelle che quasi trent’anni prima lo avevano ispirato in America.


Walt Whitman Foglie d’erba

Nel 1855, in occasione della pubblicazione di Foglie d’erba (Leaves of Grass), la raccolta di dodici poesie tra le quali spiccano le cinquantadue strofe del famosissimo Canto di me stesso (Song of Myself), Ralph Waldo Emerson ha inviato a Walt Whitman il telegramma famoso che diceva: “Ti saluto all’inizio di una lunga carriera”. Una trentina d’anni dopo, ormai settantenne e sopraffatto da discepoli e ammiratori, ormai adorato da se stesso e dagli altri come l’idolo e il messia della nuova letteratura americana, Walt Whitman ha scritto la storia del suo formarsi al mondo della poesia, ma soprattutto del suo formarsi a quella poesia che ha segnato l’origine e le caratteristiche della letteratura americana. E Whitman dice di sé: “Fra i trentuno e i trentatré anni mi sono trovato dominato da un desiderio particolare. Era una sensazione o un’ambizione di articolare ed esprimere fedelmente, in forma letteraria o poetica, e senza compromessi, la mia Personalità fisica, emotiva, morale, intellettuale ed estetica, colta nello spirito e nei fatti significativi di quel momento e dell’America contemporanea; e sviluppare quella Personalità, identificata nel tempo e nello spazio, in un senso più candido e comprensivo di qualsiasi poesia o libro già esistente”. Trasgressivi e ribelli, narcisisti e appassionati, esaltati e contagiosi, gli esplosivi versi di Walt Whitman di Foglie d’erba erano troppo in anticipo sui tempi per poter venire accettati dalla società bigotta e maliziosa contemporanea; e il suo interesse per la frenologia, allora controversa, il suo antischiavismo, che lo ha condotto al licenziamento dal giornale che gli dava da vivere, il suo crescente comunitarismo, che lo ha indotto ad assistere per anni i feriti della Guerra civile, hanno fatto di lui un personaggio “sempre più scomodo”. Un po’ fanfarone, un po’ poseur, un po’ esibizionista, un po’ eccentrico, Walt Whitman si è vestito via via come un dandy, come un bohémien e come un operaio, ma anche da vecchio saggio nella decina d’anni trascorsi a Camden prima di morire, quando venivano a trovarlo da tutto il mondo scrittori famosi e amici entusiasti che alimentavano con la loro stima l’invidia dei suoi moltissimi nemici. I suoi ammiratori amavano di lui perfino l’egocentrismo, ma ad amarlo erano i rivoluzionari e gli intellettuali, che lo idolatravano come padre del verso libero e dell’esuberanza poetica, non gli americani di massa. Sarebbero passati anni prima che quel suo libretto di dodici poesie venisse riconosciuto come la più originale raccolta mai scritta in America, tale da proclamare l’indipendenza letteraria americana dall’Inghilterra e da sancire la nascita di uno “stile” americano. Con questi versi Walt Whitman ha scritto come se la “letteratura” non fosse mai esistita, come se la poesia fosse un grido del cuore, un abbraccio e non un “testo”, come se scaturisse da un linguaggio creato di volta in volta nel passaggio dal messianico al vernacolare, quasi da avventuriero verbale, in uno stile prodotto dall’ascolto dei suoi stessi ritmi; ponendo le basi dell’ambizione anticulturale di molta poesia modernista. Come ha scritto nella prefazione a Foglie d’erba il “candore” è per lui la virtù necessaria di “poeti e oratori a venire”. Su Walt Whitman Cesare Pavese si è laureato; a suo tempo mi ha convinta a chiedere la tesi di laurea su di lui, che uno strano professore ubriaco di alchermes, dopo aver letto il libro che non conosceva, mi ha rifiutato perché “una brava signorina come me” (sono parole sue) non doveva accostarsi a temi così “scabrosi” (sono di nuovo parole sue). Adesso il libro lo conoscono tutti, moltissimi hanno letto questa splendida raccolta revisionata e ampliata a ogni edizione fino alla morte del poeta, e chi non l’ha letta ha di sicuro visto il film L’attimo fuggente che ne evoca l’autore: ormai quasi tutti hanno capito che Walt Whitman “canta la gioia di scoprire pensieri”.


Jack Kerouac Sulla strada

Il 16 settembre 1957 avevo scritto per Mondadori il giudizio editoriale numero 286 dove consigliavo la pubblicazione di On the Road di Jack Kerouac. Il libro era uscito in America il 4 settembre grazie all’intervento di quel profeta letterario che è stato Malcolm Cowley. La prima copia ancora fresca di stampa me l’aveva data Hannah Josephson, la bibliotecaria dell’Accademia americana di Arti e Lettere e soprattutto la mia più cara amica americana, dicendomi: “Vedrai che ne farai qualcosa”. Ed eccolo qui il mio giudizio: Sunto: uno scrittore giovane, Sal Paradise, è molto amico di Dean Moriarty. In realtà dovrebbe essere questo il protagonista del libro: un ex carcerato per furto di automobili, egoista e pazzoide, interessato soltanto al sesso, questo Dean affascina Sal Paradise perché è pieno di vita e non sbadiglia mai. Con lui o per causa sua Sal Paradise attraversa gli Stati Uniti da New York alla California, tre o quattro volte nel corso del libro: con l’autostop o in autobus guadagnando i soldi dei biglietti raccogliendo cotone, o fermandosi qua e là dove qualche nuovo amico o qualche ragazza lo interessa. Per esempio per qualche settimana si ferma in un villaggio dove un amico guardiano lo fa assumere come guardiano: insieme la notte derubano lo spaccio. Intanto Dean sposa Marylou e la tradisce con Camilla; sposa Camilla e la tradisce con Marylou, Camilla fa due figlie e Dean divorzia per sposare Inez, ma appena sposato torna a vivere con Camilla. Il libro è la serie di sbornie e di furtarelli e di avventure e di orge amorose che questi ragazzi e le loro amanti vivono insieme. Giudizio critico: il libro non è forse un capolavoro ed è pieno di difetti. Per esempio il racconto della vita di Sal Paradise è troppo lungo se il protagonista è Dean e spesso pare che Dean sia solo un pretesto, un legame per unire due racconti distinti, entrambi di viaggio. Eppure c’è qualcosa di strano: forse è davvero il libro della nuova generazione, ma certo c’è qualcosa che non si è ancora visto in altri libri nuovi. Il senso della vanità, dello scombinamento, della sconnessione di questa nuova generazione alla James Dean: sporchi, poveri, avidi di emozioni, ignari di leggi morali e così via. Può darsi che questo scrittore trentacinquenne diventi proprio il simbolo della nuova generazione.

Del mio giudizio non si era tenuto conto. Ma l’anno successivo, a una delle sue feste private, avevo detto ad Arnoldo Mondadori: “Presidente, io ho un titolo che le farebbe guadagnare un mucchio di soldi”. Arnoldo aveva aggrottato le sopracciglia e aveva risposto senza sorrisi: “E come mai i miei direttori non l’hanno pubblicato?”. I sorrisi li avevo fatti io, dicendo: “Perché a volte sono un po’ distratti”. Arnoldo aveva preso di tasca uno di quei notes piccolini a quadretti (più o meno come quelli che Kerouac teneva sempre con sé per annotare i fatti e le parole che poi inseriva nei suoi romanzi autobiografici) e mi aveva chiesto: “E come si chiama questo libro? Di chi è?”. Aveva scritto “Keruac”, senza la “o”, e quando il libro era uscito, vorrei dire pochi minuti dopo, la direzione letteraria non voleva credere che Kerouac si scrivesse in realtà con la “o”, visto che il presidente lo aveva scritto senza; nel frontespizio del libro aveva fatto stampare il nome senza la “o”. Se qualcuno ha ancora una copia dell’epoca si divertirà a vederlo. Pochi giorni dopo la pubblicazione di Sulla strada ho mandato alla “Stampa” un articolo che sarebbe stato il primo in Italia su Jack Kerouac. Il direttore mi ha risposto su carta intestata: “Gentile Signora, Le rinvio l’articolo perché non è interessante per i nostri lettori”. Ma era andata molto peggio a Jack Kerouac, che, in patria, si era visto respingere con ostinazione i suoi manoscritti, diventati poi famosi, quello de La città e la metropoli (The Town and the City ) prima e quello di Sulla strada dopo. Il primo è stato pubblicato grazie all’aiuto di Allen Ginsberg nel 1950; ma in quello stesso periodo erano stati pubblicati anche Di là dal fiume e tra gli alberi (Across the River and into the Trees ) di Ernest Hemingway e L’uomo dal braccio d’oro (The Man with the Golden Arm) di Nelson Algren e pochi si erano accorti del libro di Kerouac. Sulla strada era stato rifiutato per sei anni da cinque editori, in una specie di costume a cui aveva partecipato anche Lawrence Ferlinghetti e che aveva portato Jack Kerouac a una profonda disperazione. Il 5 settembre 1957 Joyce Johnson, sua fidanzata, ha accompagnato Jack Kerouac a cercare una copia del “New York Times” in una stazioncina della metropolitana per leggere la recensione di Gilbert Millstein che diceva: “Questa pubblicazione è un’occasione storica... Come Il sole sorge ancora di Hemingway è stato considerato il testamento della Lost generation, la Generazione perduta, sembra certo che Sulla strada sarà riconosciuto come il testamento della Beat Generation”.


Joyce Johnson nelle sue splendide memorie Personaggi minori (Minor Characters) del 1983 ha raccontato che “Kerouac leggendo la recensione non aveva l’aria felice”. Quando gli ha chiesto perché, Kerouac le ha risposto: “Non lo so. Mi pare che non me ne importi niente”.


Charles Bukowski Pulp

Col romanzo Pulp del 1994, Bukowski ha tentato il genere poliziesco mettendo insieme una storia alla Mickey Spillane, padre del genere hard-boiled con Chandler e Hammett; ma la satira e la parodia vi traspaiono naturalmente in ogni riga, dalla scelta dei nomi dei protagonisti a quella delle vicende, meno verosimili di quelle alle quali l’autore ci ha abituati nei suoi libri. Grande protagonista è come sempre l’alcol, questa volta soprattutto il sake, ma anche lo scotch e la vodka; protagonista tradizionale, voglio dire il detective, è Nick Belane. Più che Nick Belane è però continuamente evocato un personaggio che fa quasi da ritornello al libro, la Signora Morte. In questo “giallo” tra il surreale e il postmoderno, il detective a volte compare con il nome Harry Martel; quando non lavora passa il tempo ad acchiappare le mosche, sul suo tavolo ha una rivoltella e alla parete ha appeso un falso Salvador Dalí; arrotola da sé le sigarette, guida una minuscola Volkswagen, canticchia brani dalla Carmen e guarda le donne con un atteggiamento tra la misoginia e la lussuria, giustificando quest’ultima con il fatto che “le gambe sono state la prima cosa che ha visto quando è nato”. È un narcisista poco intellettuale, appena bocciato alle prove scritte dell’esame per la patente automobilistica. Il lavoro per l’ufficio arriva nella persona della Signora Morte, una signora sempre “pronta a uccidere”, che lo incarica di scoprire se un certo Céline, che si aggira per le librerie, è il Louis-Ferdinand Céline che in quel 1994 avrebbe compiuto cento anni. Un altro lavoro arriva quando telefona John Barton, che ha raccomandato il detective alla Signora Morte e a sua volta lo assume per trovare un non meglio identificato Passero Rosso. I lettori di Bukowski riconosceranno qui uno scherzo da intenditori, perché John Martin, che è stato il primo sostenitore di Bukowski, ha fondato per lui la Black Sparrow Press, cioè le Edizioni del Passero Nero, dove sono usciti tutti i libri dello scrittore, tranne le due raccolte pubblicate dalla casa editrice di Lawrence Ferlinghetti. Lo scherzo continua quando il cliente John Barton dice al detective, imitando il modo di parlare dell’editore John Martin: “È un po’ rozzo, ma fa parte del suo charme” (gran parte della parodia in questo romanzo è basata su Bukowski stesso, considerato, a sua volta, una specie di investigatore privato). Arriva poi un terzo cliente nuovo, Jack Bass, che assume Belane per scoprire che cosa sta combinando sua moglie Cindy, nata Cindy Maybell o miss Chili Cook-off del 1990, che sta con Céline. Interviene anche la fantascienza nella persona di Hal Grovers, un imprenditore di pompe funebri, tormentato da una extraterrestre chiamata Jeannie Nitro, una ladra di cadaveri. Finalmente Céline stesso assume Belane per provare se la Signora Morte è davvero ciò che sostiene di essere. Tutti questi “casi” si mescolano insieme con divertimento decrescente in Bukowski, il quale è sempre più assorto nel pensiero della Signora Morte, la signora che nella realtà lo sta uccidendo di leucemia. Questa insistenza sulla morte nel libro, che ha preceduto di pochi mesi la vera scomparsa dell’autore, molto compianto da alcuni di noi, fa pensare al romanzo come a un addio ai lettori; i quali sono stati in qualche modo avvisati delle intenzioni parodistiche del romanzo fin dalla dedica: “Dedicato allo scrivere male”. In realtà, Bukowski era incapace di scrivere male: era quello che si dice uno “scrittore nato”, capace di imbastire un racconto anche nel riferire agli amici il più banale degli avvenimenti che gli erano capitati nella giornata. Questo scrittore-personaggio mi pare resti, con Jack Kerouac, il più autobiografico degli autori americani, basti pensare al romanzo Panino al prosciutto (Ham on Rye) del 1982 in cui racconta la sua infanzia o agli innumerevoli riferimenti personali riscontrabili negli altri romanzi: Post Office del 1971 racconta gli anni centrali dell’impiego alle poste, del matrimonio fallito e della paternità, Factotum del 1975 il periodo giovanile della vita nomade passata tra un impiego e l’altro, Donne (Women) del 1978 gli anni della maturità in cui compare finalmente lo scrittore. In tutti i suoi romanzi l’alcol è grande protagonista. Ma forse, come ha analizzato Tom Dardis nel suo studio The Thirsty Muse (La musa assetata), dobbiamo rassegnarci al fatto che l’alcol è stato il grande protagonista della vita di moltissimi geni letterari americani. Chissà, forse li ha aiutati a liberarsi dalla minaccia di quella che Mr Papa chiamava l’“eterna puta”.


Allen Ginsberg Jukebox all’idrogeno

Quando nel 1965 Mondadori ha pubblicato Jukebox all’idrogeno, la prima raccolta di poesie di Allen Ginsberg in Italia, il problema era quello della censura. La prima poesia presentata nel volume è Urlo (Howl), pubblicata nel 1956: era stato Jack Kerouac a ispirarne il titolo originale ed era subito diventata popolarissima tra i giovani, che spesso la sapevano a memoria. Ma in questa prima pubblicazione italiana, Urlo era cosparsa di puntini per nascondere descrizioni di rapporti sessuali o di organi genitali maschili e femminili. La richiesta dell’autore, “Togliete le serrature dalle porte! Togliete anche le porte dai cardini!”, che apre il libro, non era stata ascoltata. C’erano voluti mesi e mesi di corrispondenza indimenticabile per convincere Allen Ginsberg ad accettare quei puntini: gli unici che aveva messo di proposito riguardavano l’incubo del suo rapporto con la madre, mai avvenuto in realtà. Poi l’editore italiano ha messo in commercio un’edizione senza puntini e Allen Ginsberg, che intanto aveva vinto un processo in America ottenendo la pubblicazione integrale della poesia, ha smesso di protestare. Il primo in Italia a mostrare rispetto per questo libro è stato Angelo Pezzana che aveva esposto decine di copie di Jukebox all’idrogeno nella vetrina della sua libreria Hellas di via Bertola a Torino. Ma la repressione nei confronti di Ginsberg era ricominciata clamorosa nel 1967 a Spoleto: nel corso del Festival dei Due Mondi il poeta aveva letto Con chi essere gentile (Who Be Kind to), uscita in Italia sulla rivista “Pianeta fresco”, ed era stato arrestato per oscenità; il brano che descrive “un’orgia di tenerezza” era stato considerato pornografico da un vigile urbano perché conteneva le parole “uccello”, “vagina” e “culo”, non per avere “offeso la Madonna” come è stato scritto. Ne era seguito un processo italiano che aveva ritardato la pubblicazione della seconda raccolta mondadoriana, Mantra del Re di Maggio, che infatti uscì soltanto nel 1973, senza puntini e senza omissioni. La pornografia dilagante nel cinema, nel teatro, nella televisione, nella pubblicità e, insomma, in ogni forma espressiva aveva reso ridicolo quel processo, come aveva reso ridicolo quello americano. Ma le accuse contro Urlo non erano ancora finite: nel 1988 la sua lettura era stata programmata in una serie di trasmissioni americane dedicate alla censura e intitolate Orecchie aperte/Menti aperte: le cinque stazioni della rete radiofonica Pacifica, di cui faceva parte la WBAI di New York, però, non avrebbero potuto trasmettere la lettura del poema a causa di un recente regolamento del senatore repubblicano del North Carolina Jesse Helmes e stabilito dalla Commissione federale delle comunicazioni che proibiva la messa in onda di trasmissioni televisive e radiofoniche contenenti testi considerati “indecenti”. Nel rispetto di questa legge era stata vietata la trasmissione di Urlo, nonostante fosse già tradotto in venticinque lingue. “La censura mi sarebbe stata revocata se avessi acconsentito a eliminare due paragrafi: questo episodio fa parte di una campagna rivolta alle riviste, alle fotografie, alla musica rap e al rock’n’roll. Mentre la Glasnost sta allargando l’apertura nell’Europa Centrale, sembra che in America ci sia una chiusura della comunicazione” aveva commentato Allen Ginsberg a questo proposito. La lettura della poesia venne poi sostituita dalla stazione di New York e da altre sessanta stazioni con un’intervista ad Allen Ginsberg dal titolo Perché non possiamo trasmettere “Urlo”; i discorsi del poeta giravano sempre intorno a qualche ingiustizia perpetrata da questo o quel governo. Negli anni successivi Ginsberg però non ha voluto essere incapsulato in Urlo. Infatti nei suoi molti reading ha preferito leggere le poesie legate alla politica internazionale e alla protesta contro le offese dei diritti civili da parte dei bianchi. Ma, censura o non censura, Allen Ginsberg è responsabile di aver rivelato a tutti noi una nuova generazione di uomini costretti a vivere in una società anonima, nella quale non riescono a credere e che ritengono incapace di rispondere alle loro domande. Una generazione di uomini che vive in piccole bande più o meno segrete, secondo un codice primordiale basato sulla inviolabilità dell’amicizia e delle confidenze. Una generazione fatta di silenzi, di inquietudini, di diffidenze, di ironie e di incomprensioni. Una generazione disperata per il senso di solitudine e di sconfitta, che ha rotto il sentiero stabilito per seguire il proprio e che ha amato la vita fino a consumarla: la Generazione beat.


Jerome David Salinger Il giovane Holden

Il giovane Holden (The Catcher in the Rye) è un ritratto fin troppo accurato delle inquietudini non trasgressive di giovani che hanno dovuto affrontare il secondo dopoguerra. È la storia di Holden, un tipico ragazzo di famiglia borghese, che viene espulso dal college e non riesce a trovare un proprio spazio nel mondo degli adulti. Jerome David Salinger ha prestato servizio in guerra fino a prendere parte alla tragica offensiva delle Ardenne a seguito della quale ha subito un crollo nervoso che lo ha condotto in un ospedale psichiatrico di Norimberga. Di lì il 27 luglio 1945 ha scritto a Ernest Hemingway (era andato a trovarlo a Parigi all’Hotel Ritz il 25 agosto 1944) dicendogli che si era fatto ricoverare in ospedale nella speranza di trovare un’infermiera come la Catherine Barkley di Addio alle armi, aggiungendo altre adulazioni e dichiarando tra l’altro di essere il “presidente nazionale del club dei fan di Hemingway”; ma facendo poi dire nel romanzo al suo alter ego Holden che Addio alle armi è un libro phoney, fasullo, il peggior insulto, la peggiore ossessione nello slang del giovane Holden. Proprio la crisi spirituale generata dall’esperienza della guerra ha dato forma a Holden, non ribelle né contestatario, ma disperato “per come vanno le cose” in una realtà dove non c’è abbastanza amore, col desiderio di fare del bene, immerso nella noia, frustrazione, angoscia e nell’orrore del mondo, schifato dalle armi: un non conformista etichettato come disadattato, peggio ancora, sconfitto da un’alienazione dall’esistenza contemporanea così profonda da procurargli, giovane incompreso, veri e propri conati di vomito. Al ritorno dalla guerra, nel 1946, lo scrittore doveva inventare un linguaggio per questa patata bollente che gli bruciava le mani e forse l’anima. È andato a vivere a Park Avenue, nella casa lussuosa del padre, ricco importatore di prosciutti e formaggio, aiutandolo di giorno nel suo business ma andando la sera al bar dell’Hotel Barbizon nel Village ad ascoltare e annotare, senza neanche nascondersi, la parlata, il gergo, il dialogo degli adolescenti, uniti lì nel loro luogo di ritrovo, inconsapevoli di fare da modello al romanzo più seduttorio del decennio. Il giovane Holden è uscito il 16 luglio 1951 ed è stato santificato nel 1961 dalla pubblicazione del viso di Salinger sulla copertina di “Time”. Per il contenuto lo ha aggredito la cultura ufficiale, per il linguaggio, che mescola il tono scolastico con uno slang di accatto, lo ha aggredito, per esempio, la critica letteraria Mary McCarthy, che ha definito il tono del libro “falso” e “carino” e ha detto che la prima persona usata dalla voce narrante è come la recita di un ventriloquo; ma anche il collega Maxwell Geismar lo ha attaccato dicendo che Holden è soltanto un piccolo nevrotico triste. Soltanto il “New Yorker”, del quale Salinger era collaboratore, gli ha pubblicato l’11 agosto 1951 una lode di cinque pagine; attraverso questa celebrazione, la sua prosa, così palesemente ricalcata su un linguaggio estraneo alla realtà dell’autore, è stata accettata dall’establishment letterario. Il successo, forse imprevedibile, certo favoloso, che ha accolto il romanzo, diventato subito l’inno, l’epopea e il manifesto degli adolescenti “offesi dalle brutture del mondo”, ha creato in Salinger un’altra crisi, che ha alimentato la sua tendenza alla solitudine. Il suo interesse di scrittore è sempre stato profondamente legato a problemi psicologici o poetici e non si è mai spostato verso quelli politici, rendendolo vagamente obsoleto negli anni Sessanta, quando i giovani si sono lasciati coinvolgere dall’attivismo politico. A lui sono rimasti legati soprattutto i giovani degli anni Cinquanta, quelli della generazione silenziosa che si è trovata a subire il materialismo di Dwight Eisenhower e di Joseph McCarthy e che si è identificata dolorosamente con Holden Caulfield. Salinger rimane il genio capace di personificare in letteratura l’alienazione della gioventù del decennio ’50-60 ed è diventato il portavoce degli adolescenti alienati d’America e del mondo; nonché il guru che ha suscitato in loro l’interesse per una cultura asiatica in grado di offrire una difesa, un rifugio, forse inconscio, attraverso le sue spiegazioni colloquiali, alla phoniness della cultura materialistica di allora. Per questo merito credo si possa dire che il valore spirituale o storico o letterario di Salinger resterà sempre una fiaccola inimitabile per gli adolescenti del suo tempo.


Michael Cunningham Le ore

Il suo libro più popolare è Le ore (The Hours), uscito in America nel 1998; parte della sua fama è certo dovuta al film realizzato in Inghilterra da Stephen Daldry con Meryl Streep, Julianne Moore e Nicole Kidman. Ma, considerati i premi ricevuti, Le ore non è solo il suo libro più popolare, è anche il più stimato: tra tutti ricordo il Premio Pulitzer. È la storia di tre donne che vivono in luoghi e periodi diversi, ma tutte e tre sono legate dal romanzo di Virginia Woolf La signora Dalloway (Mrs Dalloway), che in origine si sarebbe dovuto chiamare proprio Le ore. La prima protagonista è Virginia Woolf stessa, raccontata nei momenti più tristi della depressione che l’ha portata a togliersi la vita; la seconda è Laura Brown, una madre di famiglia che nell’America degli anni Cinquanta, anche grazie alla lettura del libro della Woolf, ha avuto il coraggio di cambiare vita; e infine c’è Clarissa Vaughan, un’intellettuale newyorkese che, dai tempi del college, vive col nomignolo di Dalloway per la sua somiglianza col personaggio creato dalla scrittrice inglese. Non c’è da stupirsi per questa insistenza. Cunningham, nato nel 1952 in Ohio, a Cincinnati, si considera poco meno che un miracolato di Virginia Woolf. Racconta che ha letto La signora Dalloway quando era un ragazzino quindicenne amante dello skateboard e voleva diventare una rockstar: ne è rimasto soggiogato perché non immaginava prima di allora che una lingua potesse avere tanta complessità e tanta musicalità; in quel momento aveva pensato che Virginia Woolf faceva esattamente quello che Jimi Hendrix faceva con la chitarra e gli è venuta voglia di scrivere. Virginia Woolf è presente già nel suo primo libro pubblicato nel 1990 e intitolato Una casa alla fine del mondo (A Home at the End of the World ). Anche questo romanzo è stato ridotto in film ed è stato scritto col metodo che la scrittrice chiamava digging cave: scavare gallerie dietro ai personaggi in modo da scoprire tutto quello che c’è da sapere sulla vita di quelle anime nate dalle parole, ascoltandole parlare della loro vita presente. Virginia Woolf è presente anche nella seconda opera di Cunningham, pubblicata nel 1995 e intitolata Carne e sangue (Flesh and Blood), ed è definitivamente esplosa in Mr Brother del 2002, un volume in cui l’autore ha inserito un intero saggio composto in suo onore. Ma a partire dal 2005 Michael Cunningham ha spostato il suo interesse, letterario oltre che sociale, verso Walt Whitman, l’eroe della democrazia americana, l’eroe che neppure l’incomprensione e l’ostilità da cui per tanti anni è stato amareggiato sono riusciti a distogliere dall’amore per il suo “favoleggiato” Paese. Cunningham è un americano vero, di quelli cari alle nostre memorie di Franklin Delano Roosevelt e del suo magico discorso del 1941 sulle quattro libertà, con quella “quarta libertà” dalla paura che ha fatto sognare la fine della dittatura alle generazioni che hanno preceduto la guerra in Iraq. È questa sua ideologia che, in piena era Bush, l’ha portato a dire che i tempi americani sono duri per chi non è bianco e non è ricco, che il problema è “una presenza alla Casa Bianca che sembra un brutto sogno”. Sentire questi pensieri da uno degli scrittori più brillanti d’America ha fatto rinascere in alcuni di noi il coraggio e la speranza. Nel 2005 è stato commovente sentirgli dire: “Negli Stati Uniti abbiamo il peggior governo che io abbia mai visto, e forse dell’intera storia americana. Vorrei vivere in un Paese che non pretenda di dominare il mondo a colpi di bomba, che non calpesti i diritti civili, che non favorisca i ricchi”. Con le sue parole Michael Cunningham ci ha permesso di rifugiarci nel ricordo dei poeti americani che ci hanno fatto pensare alla libertà, ci ha suggerito i suoi timori intellettuali o sociali o sentimentali; e molti di noi lo hanno ascoltato come messaggero, finalmente, di proposte di pace. Mi è sembrato davvero di riandare al 1941 e sognare che l’America tornasse a essere distributrice di cioccolata e di sicurezza, e ci permettesse di credere nel nostro antichissimo messaggio di “pace e amore”.


Francis Scott Fitzgerald Il grande Gatsby

A un convegno a Palermo del maggio 1986, il giovane Jay McInerney ha voluto spiegare le origini della letteratura americana: una rottura con l’Inghilterra da intendere come un parricidio che conduce l’America e i suoi scrittori a “ricominciare sempre da capo”. Idea riassunta nel paragrafo finale de Il grande Gatsby (The Great Gatsby), che lo stesso McInerney in quell’occasione ha recitato a memoria per la commozione di chi era presente e aveva letto il libro. I tratti caratteristici di Francis Scott Fitzgerald sono la critica alla società neomaterialista, egoista e brutale, nata dal grande boom economico che ha preceduto la crisi del 1929, e lo stile, che in questo romanzo raggiunge una concentrazione e un’intensità difficilmente eguagliabili. Il grande Gatsby è un intreccio di amori e di tragedie ambientato nell’estate 1922: Gatsby è un gangster raffinato di gusti e romantico di temperamento che organizza feste favolose nella sua villa di Long Island per impressionare la sua ex fidanzata Daisy, sposata ora a un miliardario che ha una relazione con la moglie di un garagista. Come in quasi tutti i libri di Fitzgerald, anche ne Il grande Gatsby ricorre il tema dell’ottusità immaginativa, della volgarità morale e della brutalità cinica dei ricchi in contrapposizione alla libertà e alla raffinatezza della loro vita. È un tema che Fitzgerald svolge con un misto di sfiducia e di ammirazione, di perplessità e di invidia: intorno alla ricchezza lo scrittore ha creato una mitologia che ha finito per investire la sua vita privata. Allo stesso modo di Gatsby, diventato gangster per raggiungere la ricchezza e conquistare Daisy, Fitzgerald si è piegato a scrivere brutti racconti per compiacere il gusto del lusso diviso con la moglie Zelda, sposata nel 1920, pochi giorni dopo l’uscita del romanzo Di qua dal paradiso (This Side of Paradise), che l’ha proiettato nel firmamento della letteratura americana a soli ventitré anni. Un romanzo acclamato dai giovani frequentatori dei petting party. Della loro esistenza i genitori si erano resi conto tardissimo, quando ormai era normale che una ragazza della buona società avesse “pomiciato” con ventine di ragazzi prima di sposare un coetaneo. Fitzgerald fu tacciato di impostura, ma gli adolescenti reagirono rispondendo ai genitori di smetterla di fare gli ipocriti. Grazie a questo romanzo, Fitzgerald si risollevò dalla rassegnazione al fallimento della sua carriera letteraria e, in quel primo anno di matrimonio, Francis Scott e Zelda furono considerati i sovrani incontrastati di New York: il programma di Zelda era fare quello che voleva, quando voleva e dove voleva. Fitzgerald lo realizzò. Le feste descritte ne Il grande Gatsby sono state ricalcate da quelle che i Fitzgerald organizzavano nella loro villa di Great Neck a Long Island, il quartiere dei ricchi di allora dove Scott, Zelda e Scottie, la figlia appena nata, si erano trasferiti nel 1922, dopo una lunga serie di viaggi in Europa. Dopo un paio d’anni i Fitzgerald non erano più in grado di sostenere quella vita, basata su una felicità disordinata, che aveva costruito intorno a loro la leggenda di eroi dei Roaring Twenties, i ruggenti anni Venti, e dell’Età del Jazz: si trasferirono perciò sulla Riviera francese, dove Zelda si invaghì di un aviatore. È la prima grossa incrinatura nella serenità affettiva della coppia, e lascerà un segno profondo. A differenza di Zelda, infatti, Francis Scott Fitzgerald non partecipava della libertà sessuale in voga in quegli anni. E infatti in tutti i suoi romanzi Fitzgerald non parla di sesso. Parla di amore. Daisy è il ritratto di Zelda: a completarlo è una frase notoriamente pronunciata da Zelda al momento della nascita di Scottie e attribuita da Fitzgerald al suo personaggio nel momento del parto: “Sono contenta che sia una bambina. E spero che sarà stupida: è la miglior cosa che una donna possa essere in questo mondo, una bella piccola stupida”. Fitzgerald ha iniziato a scrivere Il grande Gatsby nell’estate 1923, quando era ancora in America, terminandolo nell’autunno 1924, ormai in Europa da diversi mesi. Il romanzo è stato pubblicato nell’aprile 1925, e se la situazione delle vendite era incerta, le recensioni sono state da subito eccellenti. Ma è stato solo con la vendita dei diritti del romanzo a Hollywood che le difficoltà economiche di Fitzgerald si sono risolte. Se tutte queste notizie biografiche possono servire a capire più a fondo la struttura del libro, non vorrei che il lettore venisse distratto dalla qualità di questo romanzo brevissimo e tanto complesso. Le pagine de Il grande Gatsby sono preziose e pure come diamanti: descrivono la storia badando soprattutto alla verità dei personaggi e all’onestà dell’immaginazione di Francis Scott Fitzgerald.


Raymond Chandler Il grande sonno

Più vecchio di sei anni di Dashiell Hammett e suo collaboratore alla rivista “Black Mask” dal 1933, Raymond Chandler era diventato noto al pubblico solo nel 1939 a cinquantun anni, quando aveva pubblicato il suo primo romanzo Il grande sonno (The Big Sleep), il primo di una lunga serie con il celebre Philip Marlowe protagonista. Nel 1946 il libro era stato ridotto nel film famoso per l’interpretazione di Humphrey Bogart e Lauren Bacall, giovani, bellissimi e fascinosi nella regia di Howard Hawks e la sceneggiatura nientemeno che di William Faulkner; nel 1978 è stato realizzato un rifacimento cinematografico del libro, Marlowe indaga, da Michael Winner. Il grande sonno in realtà era una sintesi molto abile di quattro racconti “pulp”, che Raymond Chandler aveva destinato a riviste popolari di massa, e aveva presentato non pochi problemi ai riduttori cinematografici sia per la necessità di eludere il codice della censura allora in vigore, sia per certe contraddizioni nella trama che la sceneggiatura aveva reso evidenti: è celebre un aneddoto secondo il quale Humphrey Bogart aveva chiesto al regista chi avesse ucciso un personaggio minore, e il regista lo aveva chiesto a William Faulkner, e tutti insieme lo avevano chiesto telegraficamente a Raymond Chandler che aveva risposto: “Non lo so”. Protagonista del libro e del film era Philip Marlowe, l’investigatore che Chandler aveva inventato sulla scia dello Sam Spade creato da Dashiell Hammett ne Il falcone maltese (The Maltese Falcon): il suo creatore gli aveva fatto bere centinaia di whisky e soda e conquistare ragazze bellissime e adoranti con sparatorie, appostamenti, agguati, avventure di ogni genere. Sarcastico, cinico, arrogante, manesco, Philip Marlowe è un “duro” ideale, di quelli che non vanno troppo per il sottile nella scelta dei mezzi pur di raggiungere un fine; ma è un cavaliere senza macchia e senza paura in abiti moderni, caratterizzato da onestà e rigore morale. La popolarità di Marlowe lo ha reso famoso come un grande letterato e innovatore capace di frugare nella depravazione umana degli anni in cui i delinquenti potevano ancora comperare la protezione di poliziotti e politicanti. Raymond Chandler ha dato al racconto poliziesco creato da Dashiell Hammett le sue caratteristiche più moderne, trasformandolo in un vero e proprio romanzo realista ambientato nei bassifondi e quindi caratterizzato da violenze e brutalità; con loro il genere hard-boiled era stato codificato dando le mosse a mille imitatori, che però avevano limitato i propri libri alle levature del “giallo” popolare senza le pretese stilistiche di Hammett o moraleggianti di Chandler. Questa tipologia di romanzo è facile da falsificare, ma la brutalità non è forza, l’insolenza non è spirito, l’amoreggiamento con bionde promiscue può essere roba molto noiosa se è descritto da giovanotti lascivi. Di questa roba ce n’è stata talmente tanta che se un personaggio in un poliziesco dice: “Yeah” il suo autore viene considerato automaticamente un imitatore di Hammett o di Chandler. La novità di Raymond Chandler, la cui scrittura evocativa e il cui disincanto vagamente hemingwaiano lo rendono uno scrittore raffinato, elegante e affascinante, sta nella convinzione che nel romanzo il delitto non è così importante come gli effetti da esso prodotti sui personaggi e, soprattutto, che il racconto è creato dalle reazioni della gente al delitto. E Chandler racconta il delitto in un mondo in cui i gangster dominano città e governano Paesi. È il mondo nel quale viviamo ancora oggi.


Dashiell Hammett L’uomo ombra

Gli anni Trenta erano gli anni in cui gli uomini si immaginavano inflessibili e teneri, forti e segretamente sentimentali: i torrenti di film western con personaggi come John Wayne sottolineavano gli ideali maschili di quel decennio, ma il vero esempio di quei valori è stato rappresentato da Clark Gable, Humphrey Bogart e Robert Mitchum. In letteratura il portavoce di quegli ideali era Dashiell Hammett, che aveva inventato un nuovo genere letterario in bilico fra la narrativa e il poliziesco. Il suo romanzo Il falcone maltese (The Maltese Falcon) del 1930, infatti, non era stato considerato un giallo, ma un esempio importante della narrativa americana nata sulle orme di Hemingway. È grazie a L’uomo ombra (The Thin Man), nel 1934, e soprattutto alla sua fortunatissima versione cinematografica con Myrna Loy e William Powell nelle vesti dei protagonisti, che Hammett ottiene una popolarità vastissima e la qualifica di giallista. Il suo romanzo è la storia di Nick Charles, un ex investigatore privato in vacanza a New York con sua moglie Nora, che è costretto, pur contro la propria volontà, a indagare su un caso di omicidio. Il suo libro era così famoso che quando, nel 1934, a Gertrude Stein, impegnata con Alice B. Toklas in un ciclo di conferenze nelle università americane, hanno chiesto quali personalità volesse incontrare, con una delle sue sempre imprevedibili risposte ha detto: “Voglio incontrare l’‘uomo ombra’”. Dashiell Hammett, ex investigatore dell’Agenzia Pinkerton, aveva sostituito all’immagine dell’investigatore classico ben vestito e più o meno aristocratico un investigatore privato, da lui chiamato private eye, un occhio privato. In questo come negli altri suoi libri, i delitti non si svolgono più in castelli isolati e lussuosi ma negli strati più bassi della malavita, dove l’investigatore protagonista è disposto a incontrare i delinquenti nel loro stesso campo di violenza e usare i loro stessi metodi spregiudicati e brutali: Dashiell Hammett ha restituito il delitto al mondo al quale esso appartiene, togliendolo da quello fittizio in cui gli scrittori di polizieschi lo avevano ambientato fino ad allora, popolato di protagonisti detective che giungono alla soluzione degli enigmi senza alzarsi dalla scrivania. La reazione del pubblico all’uscita de L’uomo ombra era stata furibonda a causa di una battuta che descriveva lo stimolo sessuale provocato in un uomo dalla lotta con una donna. L’editore ha dovuto pubblicare un articolo sul “New York Times” per difenderlo. Ma, al di là delle battute a sfondo sessuale che, soprattutto se paragonate al costume di adesso, risultano persino garbate, è più interessante constatare che Hammett, inventore del romanzo hard-boiled, ha avuto il suo maggior successo di critica e di denaro proprio con questo protagonista garbato, ricco e alcolizzato. Tutti sapevano che Nora, la protagonista de L’uomo ombra era ricalcata su Lillian Hellman, compagna di Hammett, in procinto di diventare celebre con la sua commedia La calunnia (The Children’s Hour ). I due erano legati nella vita da una splendida comunanza di idee sia politiche sia letterarie e da una dedizione che ha condotto la donna ad aiutare Hammett nella sua lotta all’alcolismo fino ad assisterlo nell’ultimo delirium tremens causato dalla tubercolosi. Hammett ha scritto questo libro in un albergo diretto da Nathanael West; la Hellman ne ha descritto l’isolamento totale e l’intensità e la mancanza di qualsiasi interruzione nel lavoro fino a quando il libro non è stato compiuto. L’ultimo dei suoi romanzi. In seguito è stato presente nella vita americana soprattutto per il suo coinvolgimento col Partito comunista. Famosa la sua frase, pronunciata il 23 febbraio 1955 davanti a un comitato investigativo: “Per me ‘comunismo’ non è una parola sporca. Se si lavora per il progresso dell’umanità non ci si preoccupa se una persona è comunista”. Quattro anni prima si era fatto imprigionare per sei mesi, scontati dal luglio al dicembre 1951, per essersi rifiutato di denunciare quattro amici comunisti. Al funerale di Hammett, nel 1961, Lillian Hellman lo ha commemorato così: “Non ha mai mentito, non ha mai ingannato, non si è mai degradato... Credo che fosse un grand’uomo”.


John Irving Il mondo secondo Garp

Un libro che considero stupendo è Il mondo secondo Garp (The World According to Garp). Intriso di uno humour disperato, scritto con quella velocità che mi ha fatto amare la narrativa americana, questo libro di John Irving è stato la grande rivelazione degli anni Ottanta: oltre tre milioni di copie vendute, magliette e sticker con la scritta GARP , e così via. Scritto nel 1978, da un trentaseienne con gli occhi brucianti su un viso più bello di quanto risultasse dalle fotografie di repertorio, il corpo minuscolo che era visibilmente un fascio di muscoli a forza di fare ginnastica e lotta libera, a suo agio in abiti colorati e scarpe “da corsa”, il libro è stato subito ridotto in film da George Roy Hill, quello de La stangata, con protagonisti Robin Williams e Glenn Close e sceneggiatore Steve Tesich. Ormai diventato superstar, John Irving stesso ha avuto un piccolo ruolo come attore nella parte dell’arbitro in una gara di lotta vicino ai suoi due figli, anche loro interpreti, Colin e Brendan, ai quali è dedicato il romanzo. “Garp è un documento sociale” diceva Irving con la sua parlata lenta e chiara di ex professore. “Parla di Garp e di sua madre Jenny, due individui che vogliono vivere individualisticamente, lei creando un figlio senza legami di famiglia, lui formandosi una famiglia e scrivendo libri fuori della società. Entrambi vengono però respinti dal mondo in questa loro aspirazione e inglobati dalla società fino al loro assassinio per mano di fanatici; la prima metà del libro rappresenta i loro sogni, quello che desiderano e che si avvera, la seconda i loro incubi, che si avverano anch’essi.” John Irving ha sempre dichiarato di non essere limitato dalla propria autobiografia quando scrive perché i romanzi autobiografici sono noiosi. E dalle accuse di violenza rivolte alle sue trame si è difeso dicendo che ce n’è molta di più nei titoli dei giornali o dei notiziari televisivi: “I miei libri sono perfino troppo dolci, indulgenti, in confronto alla realtà” ha detto. Quello che lo interessa è la paura della violenza. Infatti ha affermato che la violenza “è presente in noi sia che l’abbiamo provata sia che ne sentiamo parlare. Non tutti abbiamo avuto una rivoltella puntata addosso, non tutti siamo stati rapinati, ma tutti o quasi abbiamo immaginato che avrebbe potuto succederci, quasi tutti abbiamo avuto paura che ci succedesse. Sarebbe un errore concludere che nel mondo moderno c’è più violenza che in quello del diciannovesimo secolo, ma noi ne siamo molto più consapevoli; quando accade qualcosa di violento lo veniamo a sapere, e questo è relativamente moderno”. Paragonandosi agli scrittori del diciannovesimo secolo, che avevano la comodità di poter fare morire i loro personaggi di malattie misteriose, Irving afferma che con la medicina moderna l’equivalente delle scene di morte sono gli incidenti “perché tutti conosciamo gli incidenti, non c’è famiglia che non ne abbia avuto almeno uno, di macchina, di aereo; in una famiglia di quattro persone di due generazioni almeno a una è toccato un incidente: questo è vero secondo le statistiche. E se conduciamo una vita riparata, siamo esposti ogni giorno alle notizie degli incidenti”. Il suo astro si è offuscato con la morte per attacco cardiaco nel 1979 del suo editor Henry Robbins, che conteneva la sua scrittura, in realtà fluviale, nella misura che mi riusciva così seducente e che lo metteva in guardia dalla lentezza e stimolava il suo humour nero, ridimensionando il suo senso del macabro. Il nuovo John Irving non è più stato contenuto dal momento che si è abbandonato ai suoi sogni ottocenteschi, che hanno ispirato Hotel New Hampshire del 1981, Le regole della casa del sidro (The Cider House Rules) del 1985 (per la sceneggiatura del film tratto da questo suo romanzo ha vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale nel 2000) e Preghiera per un amico (A Prayer for Owen Meany) del 1989.


Tennessee Williams Lo zoo di vetro

Tennessee (che poi non si chiamava Tennessee, ma Thomas Lanier) Williams aveva il tipico atteggiamento dello scrittore che aveva patito la fame prima di riuscire: qualcosa che stava tra la timidezza, il disprezzo e il rancore, e si fondeva in uno strano miscuglio di complesso di inferiorità e insieme di superiorità. Si sapeva da “Life” che la sua nevrosi derivava dalla grave povertà in cui era vissuto prima che il successo, più ancora che la critica, lo decretasse il più grande commediografo (io direi di tutti i tempi) d’America. Prima della celebrità, Tennessee, figlio di un commesso viaggiatore di calzature, viveva col nonno materno, rettore di una chiesa episcopale a Columbus, Mississippi. Senza rendersene conto, Tennessee apparteneva alla noblesse del luogo, fatto di cui si sarebbe accorto poco dopo, quando nel 1918 si era trasferito a St Louis con il padre, scoprendo per la prima volta, ora che i ricchi lo consideravano povero, che esisteva una differenza tra poveri e ricchi. La scoperta aveva segnato per sempre la sua personalità con quel senso di ribellione che ha costituito uno degli elementi fondamentali della sua opera. La camera della sorella dava su uno scantinato cupo, dove la notte cani randagi andavano a sbranare gatti randagi. Tennessee lo aveva battezzato “la valle della morte”, ed evadeva da quella realtà dipingendo di bianco i mobili della stanza, fissando tende bianche alle finestre e disponendo sugli scaffali innumerevoli animali di vetro. In questo periodo era nata l’idea de Lo zoo di vetro (The Glass Menagerie) che avrebbe poi composto nel 1944. È la pièce teatrale con protagonisti Amanda e i suoi due figli, Tom e Laura; quest’ultima colleziona animaletti di vetro, suo personalissimo rifugio per sottrarsi al confronto con il mondo esterno. Williams aveva spiegato più tardi: “Gli animali sono giunti a rappresentare nella mia memoria tutte le emozioni più tenere che appartenevano ai ricordi del passato. Il ‘sottosuolo’ dove venivano sbranati i gatti era una cosa, le tende bianche di mia sorella e il minuscolo serraglio di vetro un’altra. Tra di esse c’era il mondo in cui si viveva”. La sua era una genialità torbida, un po’ neogotica, un po’ morbosa, tipica degli scrittori del Sud, come per esempio Truman Capote, che infatti era suo intimo amico. Questo suo amalgama di realismo e di simbologia, di violenza (anche sessuale) e di poesia ha affascinato e a volte indignato per l’audacia un pubblico che non si stancava di affollare in quegli anni i “suoi” teatri: Lo zoo di vetro è rimasto in cartellone a Broadway per due anni, Un tram che si chiama Desiderio (A Streetcar Named Desire – Premio Pulitzer) per ottocentocinquantacinque rappresentazioni, La gatta sul tetto che scotta (Cat on a Hot Tin Roof – secondo Premio Pulitzer) per novecentosessantaquattro, Estate e fumo (Summer and Smoke) per centotré, con orgoglio della scrittrice Carson McCullers alla quale la commedia era stata dedicata e che è stata forse la migliore amica di Williams. Considerato l’enorme successo riscosso dalle sue opere, il drammaturgo avrebbe dovuto sentirsi tranquillo, e invece era diventato più infelice che mai. Aveva scritto sul “New York Times”: “La vita precedente al successo richiedeva sopportazione, una vita tirata con le unghie e coi denti su una parete di ghiaccio... Non mi sono reso conto dell’energia che avevo impiegato in quella lotta finché la lotta fu finita. Mi trovai su un altopiano con le braccia ancora affannate e i polmoni ancora ansanti, in cerca di un’aria che non opponesse più resistenza. Era la sicurezza, finalmente... Ma la sicurezza è una specie di morte e può piombare addosso in una tempesta di biglietti da mille accanto a una piscina di Beverly Hills o in qualsiasi luogo che non sia quello che ha reso artisti”. Per una decina d’anni la sua esistenza è stata splendida, poi alcol, droga e promiscuità sessuale lo hanno tradito. Camino Real, del 1953, per esempio mi è parso più che altro un pastiche in costume, tra l’allegorico e il surreale, di quelli che si scrivono da ragazzi per la recita annuale del liceo. Naturalmente rivela tutta l’abilità tecnica di Williams e forse segna una svolta nella sua opera, staccandolo definitivamente da quanto restava in lui del realismo; certo le allegorie populiste di questa commedia fanno rimpiangere le belle risse di popolani ubriachi che animavano i lavori precedenti. La sua è stata una decadenza inesorabile, lentissima, costellata dall’ipocondria e dalla depressione fino all’involontario suicidio con quei barbiturici che lo uccisero con più crudeltà di quanta fosse toccata a qualsiasi personaggio del suo tragico Sud.


Sherwood Anderson I racconti dell’Ohio

È stato proprio Sherwood Anderson a definire l’America come un sogno in dimensione. Nella sua autobiografia ha detto: “La mia fabbrica aveva certe dimensioni: ma più tardi avrei costruito una fabbrica grande e poi una più grande e un’altra più grande. Da vero americano, pensavo in dimensione”. E poco prima: “A quell’epoca pareva che in America ci fosse una sola direzione: dovevano darsi tutti, anima e corpo, al progresso materiale e industriale”. E più avanti: “Mentre stavamo costruendo in fretta e furia le nostre grosse città, creando il nostro grande sistema industriale, diventando sempre più enormi e floridi, prendevamo sul serio ciò che ci pareva di fare”. È significativo che sia stato proprio lui, il papà della narrativa moderna americana, a individuare il nucleo originario dell’energia del suo Paese. Eppure tutti gli scrittori successivi hanno avuto il problema di liberarsi dalla sua influenza. Ernest Hemingway ha preso ispirazione dal mondo di Anderson per molti dei suoi racconti: ha assorbito così bene la forma e i contenuti di Sherwood Anderson che in Torrenti di primavera (The Torrents of Spring ), uno dei suoi romanzi più brutti, lo ha offeso facendone un ritratto grottesco nel modo di parlare e nelle abitudini. Anderson aveva sofferto molto per questo libro che era stato presentato come una satira di Riso nero (Dark Laughter), il suo unico bestseller, uscito nel settembre 1925 e scritto mentre si trovava a New Orleans con la terza moglie Elizabeth Prall (sposata in aprile dopo il divorzio da Tennessee Mitchell). Anderson era uno dei più vistosi personaggi di Le Vieux Carré, il quartiere francese di New Orleans: un po’ esibizionista, un po’ ottimista, girava con un bastoncino nero e camicie sgargianti, con un fazzoletto nel taschino e un anello, leggermente ingrassato, per lo più diretto alle corse di cavalli dove passava i pomeriggi o al molo dove andava a passeggiare. Era sempre circondato da amici o da ammiratori o da postulanti o comunque da persone che lo ascoltavano incantate per ore raccontare le sue storie con la voce affascinante che sapeva modulare come un attore. Hemingway lo aveva conosciuto a Chicago nel 1921: Anderson aveva quarantacinque anni ed era internazionalmente famoso come autore de I racconti dell’Ohio (Winesburg, Ohio ), uscito nel maggio 1919 e da tutti considerato il suo capolavoro. Anderson aveva affascinato Hemingway coi suoi temi tipici (il villaggio americano con un’atmosfera carica di repressione e di umanità, il danno recato dall’avidità del successo materiale, le tensioni prodotte dalla “forza del sesso”) e con la sua abilità a frugare “sotto la superficie della vita”, usando un linguaggio semplice e apparentemente fortuito per rivelare la “vita sepolta” degli individui. I racconti dell’Ohio hanno offerto un ritratto autentico di una certa fetta della vita americana e hanno creato una nuova forma di narrativa che era una continua evasione dalla formula del racconto tradizionale. Di lui, infatti, è stato detto: “Anderson spesso suggerisce più che descrivere, rispetta l’immaginazione del lettore rifiutandosi di essere esplicito, è impreciso e provocatorio piuttosto che esatto ed esplicativo”. Ognuno di questi ventidue racconti presenta un abitante della città di Winesburg ed è basato su una combinazione di realismo e simbolismo; con questo stile personalissimo lo scrittore ha descritto gli ambienti del suo Midwest sottolineando la crisi in cui la spinta dell’industrializzazione faceva precipitare i superstiti di una civiltà ancora rurale, ma anche la repressione sessuale della tradizione. Tutti i racconti sono legati tra loro da Tom Willard, il giovane cronista dell’unico giornale locale. Winesburg, la città in cui sono ambientati, è chiaramente modellata su Clyde, Ohio, dove Anderson aveva passato gli anni formativi dal 1884 al 1896 coi suoi quattro fratelli. Anche William Faulkner ha imparato a conoscere bene, in prima persona, lo stile di Anderson, il suo manierismo, la sua cadenza di medio-occidentale. E come Hemingway anche lui se ne è servito in modo crudele. Nel 1926, mentre usciva il suo primo romanzo La paga del soldato (The Soldier’s Pay) – che Anderson aveva fatto pubblicare (a condizione di non doverlo leggere) dal suo editore –, Faulkner scriveva Zanzare (Mosquitoes), dove faceva la caricatura di una crociera organizzata da Anderson nel luglio 1925, quando lo scrittore aveva affittato uno yacht e aveva invitato una decina di amici a fare la traversata del lago Pontchartrain, nel corso della quale era accaduto ogni genere di incidente. Anderson veniva descritto, col nome di Dawson Fairchild, un po’ gigione, sempre intento a parlare circondato da ammiratori e a ripetere frasi che probabilmente Faulkner ricordava di avergli sentito dire. Ma, a differenza di Hemingway, William Faulkner si è fatto perdonare durante una famosa lezione universitaria


dichiarando: “Non gli è mai stato dato il giusto posto nella storia della letteratura americana. Secondo me è il padre di tutta la mia generazione”. Mi piace concludere questo pezzo con le parole di Malcolm Cowley, che considero il più grande critico americano: Anderson “è stato l’unico narratore della sua generazione a lasciare il segno sullo stile e l’immaginario della generazione successiva. Hemingway, Faulkner, Wolfe, Steinbeck, Caldwell, Saroyan, Henry Miller hanno tutti un inconfondibile debito con lui”.


Henry David Thoreau Walden ovvero la vita nei boschi

A Walden ovvero la vita nei boschi di Henry David Thoreau è toccata la splendida sorte di essere un libro di culto per intere generazioni, da quella trascendentalista dell’Ottocento a quella libertaria degli anni Sessanta; e da questa prosa rotonda, sonora, un po’ magniloquente, spesso sentenziosa e a volte profetica, hanno tratto ispirazione i pacifisti di tutti i tempi a partire dal Mahatma Gandhi per arrivare alla fine degli anni Sessanta ai cultori della disobbedienza civile non violenta, dell’ecologia, della resistenza passiva, dell’anticonsumismo, dell’anticonformismo borghese, dell’individualismo spinto fino all’anarchia, della scoperta del misticismo indiano. Thoreau è stato un personaggio scomodo, scontroso, ribelle, irriducibile, che ha messo la sua genialità al servizio della natura, quella dei boschi e dell’anima, nel tentativo di svincolarsi dalle remore borghesi e dal conformismo politico. Il suo magnetismo gli ha dato la fortuna di catalizzare scoperte non tutte fatte da lui: per esempio, prima di lui il riformista (anch’egli trascendentalista) Amos Bronson Alcott aveva rifiutato di pagare le tasse perché considerava corrotto lo Stato che le esigeva e prima di Thoreau si era costruito una baracca sul lago Flint, per vivere in economia, con il suo amico grecista Charles Stearns Wheeler; eppure questi due personaggi sono noti solo agli eruditi, mentre Thoreau è diventato un eroe letterario e civile caro a tutti i contestatori. Ha impiegato quarantaquattro anni della sua breve vita a realizzare così compiutamente se stesso e le sue idee, lui che era considerato un vagabondo perdigiorno: quando è morto, il 6 maggio 1862, l’annotazione anagrafica recitava: “Quarantaquattro anni, nove mesi, ventiquattro giorni, naturalista”. La qualifica di naturalista ritorna su tutte le biografie; ed effettivamente non era facile definire questo personaggio che lavorava più o meno saltuariamente col padre nella sua fabbrica di matite, era considerato uno scrittore fallito e viveva in casa del filosofo trascendentalista Ralph Waldo Emerson facendo piccoli lavori per sdebitarsi, in un sodalizio che si era interrotto quando la tendenza di Thoreau a trasformare ogni cosa in regole pratiche lo aveva distaccato anche attraverso l’uso della filosofia orientale dall’astrattismo di Emerson. Col distacco da Ralph Waldo Emerson era nata l’esperienza di Walden: Walden era un lago a pochi chilometri dalla cittadina di Concord, nel Massachusetts, dove sono vissuti in quegli anni i grandi autori dell’“età dell’oro letteraria” americana. Sulle rive del lago, Henry David Thoreau si era costruito una capanna e vi era rimasto dal 1845 al 1847, scrivendo il resoconto di questi due anni in un libro che era stato stampato nel 1854 in duemila copie, di cui ne erano state vendute duecentocinquantasei il primo anno e trecentoquarantaquattro il secondo, esaurendosi nel 1856. La seconda edizione era stata pubblicata qualche settimana dopo la morte dell’autore. Il libro è pieno di massime, come si usava in quegli anni; ma le massime erano sempre rivoluzionarie, anche se a volte, a leggerle ora, sembrano un po’ datate, per esempio: “Un cane vivo vale più di un leone morto”. O: “Dovrebbe uno andarsi a impiccare perché appartiene alla razza dei Pigmei, e non, invece, cercare di essere il più grande Pigmeo possibile? Che ognuno pensi ai fatti suoi e cerchi di essere quello che è”. Questo paragrafo fa parte dell’ultimo capitolo intitolato “Conclusione” ed è inframmezzato di parabole sempre a sfondo individualista e sempre polemiche; per esempio: “L’interesse e la conversazione sono rivolti soprattutto alle belle maniere e ai vestiti; ma l’oca sarà sempre oca, comunque la si vesta... Datemi la verità, invece che amore, denaro o fama. Sedetti a una tavola imbandita ... alla quale mancavano la sincerità e la verità; partii affamato”. Si potrebbe continuare, ma consiglio ancora oggi a tutti di andare a scoprire da sé gli innumerevoli esempi di integrità morale, di utopistica speranza, di ingenua fiducia presenti in questo libro; proprio quegli esempi che per decenni hanno fatto sognare gli utopisti moderni.


Grace Paley Piccoli contrattempi del vivere

Mentre Jerome David Salinger chiudeva in un bunker inaccessibile il suo leggendario successo, Grace Paley, grandissima anarchica, pacifista e attivista politica ha accettato riconoscimenti e onori fino a essere nominata, nel 1988, “scrittore di Stato”: il suo Piccoli contrattempi del vivere (The Little Disturbances of Man) del 1959 ha influenzato gli scrittori cosiddetti minimalisti fino a essere considerata loro precorritrice per il modo di raccontare storie quotidiane. I suoi racconti sono sempre brevi, a volte brevissimi: nelle interviste l’autrice ha spiegato che quando ha cominciato a scrivere i suoi figli erano piccoli e non le permettevano lunghi periodi di distrazione. Lo stile è ricalcato sulla parlata delle donne della piccola borghesia che la scrittrice ha ascoltato nei giardini pubblici dell’East Bronx di New York mentre, come lei, sorvegliavano i figli intenti a giocare e rispondevano alle loro domande. L’amore della scrittrice per la gente e la sua incredibile capacità di ascolto dei discorsi quotidiani spiegano i soggetti dei suoi racconti divertenti e tristi, sentimentali e amari, sarcastici e candidi, che le hanno attirato le lodi di scrittori contemporanei d’America importanti come Susan Sontag e Donald Barthelme, Philip Roth e Herbert Gold fino a far dire a qualcuno (non a me che la stimo molto più di loro) che la si poteva considerare una specie di Israel Singer o Bernard Malamud donna. Come questi due scrittori, anche la Paley era ebrea: è nata nel dicembre 1922 a New York da genitori russi scampati alla prigionia in Siberia per un’amnistia concessa da Nicola II alla nascita di un figlio. Il padre, fuggito a New York, era diventato medico ma era rimasto socialista. Il suo attivismo politico ha quindi origini lontane: si riflette nei racconti e nel suo straordinario orecchio per le lingue dell’infanzia, il russo e l’yiddish imparato in casa, e le parlate delle minoranze etniche che abitavano nel suo quartiere, quelle degli afroamericani, degli irlandesi, dei portoricani e dei cinesi. Servendosi di questo orecchio Grace Paley ha raccontato le sue brevi storie senza trama che hanno per protagonisti personaggi e vicende della vita di ogni giorno – per lo più in prima persona –, uomini e donne quasi sempre ebrei che ritornano nelle varie raccolte, a volte con gli stessi nomi (per esempio la giovane madre e figlia Faith) che, nonostante la scrittrice lo negasse, sembrano il suo alter ego ma invecchiati dagli anni intercorsi tra una raccolta e l’altra. Dalle sue pagine rimbalzano minuscoli ritratti di donne sole, sempre divorziate e sempre intente ad allevare bambini, con le loro frustrazioni, delusioni, la loro povertà, l’incalzare della vecchiaia. In un racconto, Un interesse nella vita (An Interest in Life), la protagonista Ginny spiega il titolo della raccolta Piccoli contrattempi del vivere: Ginny è abbandonata dal marito coi figli e fa un elenco dei suoi guai per presentarlo in una trasmissione televisiva, ma qualcuno le dice con scherno che ci sono ascoltatori vittime di alluvioni e altre “catastrofi di Dio”, mentre il suo elenco consiste soltanto di “piccoli contrattempi del vivere”. Sono racconti, specialmente quelli degli anni Ottanta, senza intreccio perché, aveva detto una volta l’autrice, “l’intreccio toglie ogni speranza. Invece tutti, reali o inventati, meritano l’aperto destino della vita”. Aveva aggiunto anche che le sue storie sono brevi “perché l’arte è troppo lunga e la vita troppo corta”. Qualcuno ha definito Grace Paley una scrittrice “spontanea”, suscitando le sue proteste perché in realtà il suo lavoro era lentissimo e faticoso, basato su revisioni infinite nel tentativo di rendere i suoi periodi sempre più chiari. Il suo humour, il suo calore, la sua pietà, la sua comprensione, la sua preoccupazione per gli altri, la sua schiettezza, le hanno fatto conquistare rispetto, stima e amore di quanti l’hanno conosciuta.


Jay McInerney Le mille luci di New York

Il nome di Jay McInerney è esploso in America nel 1984 quando è uscito Le mille luci di New York (Bright Lights, Big City) e se ne sono vendute centocinquantamila copie nel primo mese. Da allora è stato tradotto in sedici Paesi e ne è stato tratto un film diretto da James Bridges e interpretato da Michael J. Fox e Kiefer Sutherland. Il libro narra la storia, in parte autobiografica, di un giovane che vive a New York, lavora nella redazione di un settimanale famoso (nel quale è facile ravvisare “The New Yorker”) e sembra destinato al migliore dei successi. Ma improvvisamente la vicenda prende una piega crudele; la bellissima moglie che lui stesso ha contribuito a far diventare una modella famosa lo abbandona, lui cade in depressione, la rivista lo licenzia e il fratello, ignaro di tutto, viene a cercarlo per rimproverarlo di aver trascurato la famiglia e condurlo a commemorare la morte della madre uccisa dal cancro l’anno prima. Il protagonista passa da una sniffata e una sbronza all’altra e da un bar all’altro, sprofondando sempre di più nel disastro. Potrebbe anche sembrare un inno alla dissolutezza; ma in un’esplosione di tenerezza McInerney conclude il libro appoggiandosi a un tema idillico ricorrente: alla fine di una scorribanda notturna il protagonista si ritrova davanti a un camion dove viene caricato il pane appena sfornato e si inginocchia ad annusarne il profumo e a mangiarne qualche boccone dopo essere tornato con un flashback alla vita con la madre. “Si deve andare adagio” dice. “Si deve ricominciare da capo a imparare tutto.” Questo messaggio conclude una storia dove i personaggi vivono circondati dai simboli della nuova generazione, la cocaina che ha sostituito gli spinelli dei beat, la cucina raffinata delle ragazze che non rinunciano alla pasta fresca, al pane europeo e alle spezie internazionali, gli specchietti onnipresenti per “tagliare le linee”: un ritratto generazionale che ha fatto definire McInerney portavoce degli yuppie. È una definizione tuttavia che lo scrittore respinge: in realtà nel suo libro ha seguito una vena di satira sociale. McInerney dice che ha investito il protagonista di una bancarotta morale e di un vuoto assoluto prodotto dalle sue mete insignificanti; lo stesso vuoto che Fitzgerald (uno dei “suoi” autori) vedeva nell’America e quello che Hemingway (forse il “suo” autore più di ogni altro) cercava di redimere con la concentrazione e la purezza della visione. Le mille luci di New York è un libro che ha avuto il prezioso destino di segnare una svolta nella narrativa contemporanea. Come Jay McInerney stesso ha affermato: “D’improvviso a nessuno importava niente di niente... Non c’era più accordo culturale, politico o morale a cui aggrapparsi. Si era in una zona veramente morta della nostra recente storia culturale”. Laureatosi nel 1976, Jay McInerney si è adattato a questa zona morta accettando quelli che sarebbero diventati i simboli dei primi anni Ottanta: un cucchiaino di platino appeso al collo come la forcella che i beat portavano per allungare i joint, gli specchietti onnipresenti per “tagliare le piste” di cocaina, lo champagne e il vino europeo coi quali ubriacarsi a turno. Le mille luci di New York lo ha rivelato maestro indiscusso e indiscutibile di un dialogo che rientra nella più limpida tradizione americana, la cui bravura è sottolineata dall’idea (di cui è stato forse pioniere Frederick Barthelme, fratello di Donald, in Moon Deluxe del 1983) di usare la seconda persona invece della prima o della terza per narrare la storia. È uno stratagemma che produce effetti efficaci e interessanti: permette un distacco meno violento di quello che sarebbe prodotto dall’uso della terza persona e meno coinvolgente dell’uso della prima persona, senza togliere comunque il sapore di autobiografia che ricorre insistente in ogni pagina del libro. Dipanandosi con la narrazione in seconda persona la storia, che l’autore conduce con occhio attento e raffinatissimo per i particolari descrittivi e con un orecchio quasi sofisticato per il dialogo, rivela il suo protagonista-antieroe dilaniato dalle incertezze della sua condizione esistenziale. McInerney, da grandissimo scrittore, ci ha offerto così un romanzo che è soprattutto una satira a chiave, una specie di commentario ironico della vita contemporanea, ma basato su un’appassionata partecipazione alla redenzione del protagonista che va molto al di là del semplice reportage di costume: proprio come era successo coi romanzi di Francis Scott Fitzgerald.


Philip K. Dick Confessioni di un artista di merda

Philip Kindred Dick è considerato il “poeta maledetto della fantascienza” e nel 1987 il suo volto è uscito sulla copertina della rivista “Time” come “uomo dell’anno”; ma nella sua breve vita ha provato esperienze terribili con la droga e molto più conturbanti con pratiche che appartenevano già alla parapsicologia, aiutato da vastissime letture esoteriche e da una piega naturale che lo ha condotto a diventare psicopatico, tanto da essere ricoverato tre volte in case di cura. Dick è emerso verso la metà degli anni Cinquanta, come ci ha raccontato così bene Goffredo Fofi nell’introduzione a Ubik, considerato il suo capolavoro. La sua popolarità è diventata enorme col romanzo Il cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?), reso visivamente esplosivo nel 1982 dalla riduzione nel film straordinario di Ridley Scott, Blade Runner (ma anche altre pellicole di successo continuano a essere ispirate alle opere dello scrittore). Le sue decine di romanzi e il centinaio di racconti vengono fatti rientrare di solito nella New Wave della fantascienza degli anni Ottanta. Questo filone è partito dal Manifesto di James G. Ballard, ammiratore se non seguace di William Burroughs, pubblicato nel 1962. Il documento auspicava una nuova scuola letteraria che avrebbe reso obsoleta la fantascienza storica e suggeriva che a essere esplorato non doveva più essere lo spazio ma l’inner space, lo spazio interno dell’uomo, perché “l’unico pianeta alieno è la Terra”. Il romanzo di Dick partiva da tutt’altra ispirazione: era in voga in quegli anni la parola “cibernetica”, lanciata dal matematico Norbert Wiener per introdurre il problema se una macchina potesse pensare come un uomo: il dibattito era tra la posizione materialista che lo riteneva possibile e quella spiritualista di parere contrario, che difendeva così l’esistenza dell’anima. Dick ha scelto la prima, dopo aver scoperto un saggio del matematico inglese Alan Turing, uno degli inventori dell’informatica moderna. Da queste premesse sono nati gli androidi del libro, destinati a essere uccisi dai blade runner, cioè cacciatori, funzionari specializzati, una volta superata l’età in cui potevano essere in grado di sviluppare emozioni proprie e avere coscienza di sé. Prima del successo Philip Dick aveva già scritto un romanzo autobiografico, Confessioni di un artista di merda (Confessions of a Crap Artist). Nella splendida introduzione al libro, il critico della rivista “Rolling Stone” Paul Williams, che sarebbe poi diventato suo esecutore letterario, ci avverte che Dick vi ha lavorato sedici anni. Cominciato nel 1959, il libro è uscito nel 1975. Dice Williams che questo è almeno uno degli undici “romanzi sperimentali non di genere”, secondo la definizione di Dick stesso, scritti durante i suoi primi dieci anni di professione: chi lo leggesse senza conoscere gli abissi di ansie e di nozioni esoteriche, di letture messianiche, insomma di quello che nell’autobiografia Dick ha definito “un armamentario”, lo prenderebbe per una storia quasi realistica. Dick considerava Confessioni il più bello dei suoi libri non fantascientifici ed è costituito da venti capitoli narrati di volta in volta dai quattro protagonisti: è la storia di quattro persone che vivono e percepiscono universi molto differenti ma le cui vite si mescolano. L’“artista di merda” del titolo è Jack Isidore, alter ego di Dick, un’anima perduta e ingenua, incapace di distinguere la realtà dalla fantasia, che vede il mondo come una esperienza bizzarra. Dick ha scritto in una lettera del 19 gennaio 1975: “Quando scrissi Confessioni avevo l’idea di creare un protagonista idiota, ignorante e privo di buon senso ... un rifiuto della nostra società ... una persona schizoide ... un uomo capace di valutare senza pregiudizi le azioni degli uomini e per me è una specie di eroe romantico... Il mio alter ego, più altruista di me”. Gli altri tre personaggi sono Fay, la sorella di Jack, sposata a Charley, proprietario di una piccola fabbrica, e Nathan, un intellettuale al quale è legata Fay. Con dialoghi come sempre bellissimi, Dick mostra un’altra volta la sua maggiore abilità che è quella di descrivere le reazioni dei personaggi gli uni con gli altri; e ancora una volta dà prova del suo umorismo. Ma dà prova anche di una indefinita, enorme disperazione che conduce lo scrittore a partecipare ai problemi dei suoi personaggi coinvolgendoci nell’orrore al quale ci ha abituato: ma l’orrore è per il mondo pazzo e crudele che ci circonda.


Sinclair Lewis Babbitt

Babbitt, lanciato dal critico Henry Louis Mencken, è uscito nel 1922 e ha suscitato abbastanza clamore da far entrare il nome del suo protagonista nei vocabolari per indicare un tipico americano conformista e materialista, quale si delineava in quegli anni di trionfalismo economico: il quarantottenne grassoccio signor George Follansbee Babbitt, del quale l’autore narra due anni di vita. Questo Babbitt è uscito da noi la prima volta nel 1929 mentre l’America era travolta dalla sua terribile Grande crisi; ma quando l’ha scritto la crisi era ancora lontana e imprevedibile in America e il libro è diventato subito un bestseller come già lo era diventato Strada maestra (Main Street), altro successo di Lewis, uscito nel 1920. L’intento di Sinclair Lewis, diviso fra la satira e il documento sociale, è rivelato fin dalle prime pagine, che descrivono il risveglio del fortunato businessman, mentre discute con la moglie quale vestito e cravatta indossare, e poi dà consigli ai tre figli ansiosi di emanciparsi; scontento e irritabile, litigioso e contraddittorio, insoddisfatto nonostante abbia tutto il desiderabile secondo i canoni di allora: una famiglia, una casa, una automobile, un business fiorente, la virtù. Si dichiara contrario all’alcol ma beve troppo, si proclama ligio alle leggi del traffico ma le contravviene, esalta l’onestà ma imbroglia negli affari e nella pubblicità, ha giurato fedeltà alla moglie ma la tradisce con una manicure. In lui tutto è ipocrita e sono quelli come lui, dice Mencken, a originare e propagare l’illusione nazionale dell’integerrimo presbiteriano: bravo marito, padre amoroso, imbroglione fortunato e imbattibile. Questo archetipo di finta rettitudine e di americanismo, membro del Rotary Club, delle leghe del buon cittadino e delle varie associazioni morali, oratore ai banchetti e sostenitore di tutte le forme della cristianità, comincia a stancarsi di questa vita dedicata al sogno americano e cerca di uscirne anche grazie all’aiuto di un vecchio amico socialista. Ma la satira che fa da sottofondo al libro non permette a Lewis di portare a termine la ribellione di Babbitt riducendola a una specie di beffa: l’uomo tornerà dalla moglie e ricomincerà la sua vita di archetipo del perbenismo, né la moglie protesterà per quella che si è chiamata per secoli una innocente “scappatella”. Sinclair Lewis è il primo Premio Nobel statunitense per la Letteratura, nel 1930 a quarantacinque anni. Dopo un apprendistato difficile, l’autore non ha smesso di passare da un bestseller all’altro e ha dimenticato presto i tempi in cui ha lasciato il Minnesota, dove è nato, per andare a Yale, dove si è laureato, e in Inghilterra, e poi, nell’ottobre 1906, nella comunità socialista di Upton Sinclair a Elicon Hall, dove è rimasto un mese. Di lì è passato a New York dove ha campato alla meglio (scrivendo tra l’altro, a pagamento, gli intrecci per i racconti di Jack London, abilissimo a svolgerli ma pigro a inventarli), e poi a Panama e quindi nello Iowa e finalmente in California, ma sempre conservando nel suo mondo poetico la civiltà e il costume dell’America medio occidentale che non ha mai dimenticato nel suo girovagare per quaranta Stati d’America, quattordici d’Europa e tre del Sudamerica. Non aveva un buon carattere e il troppo alcol certo non lo migliorava. Quando Strada maestra è uscito si aspettava di ricevere il Premio Pulitzer, che invece è stato assegnato a Edith Wharton per L’età dell’innocenza (The Age of Innocence): Babbitt è dedicato a lei; di nuovo ci contava quando è uscito Babbitt, ma il premio è stato assegnato a Willa Cather per Uno dei nostri (One of Ours). Lewis si è offeso, e quando finalmente glielo hanno offerto per il romanzo Il dottor Arrowsmith (Arrowsmith), nel 1926, lo ha rifiutato, scrivendo una lettera sgradevole che ha pubblicato sui giornali senza però farne cenno nel discorso di accettazione del Premio Nobel, per la verità abbastanza rozzo. Non ha mai voluto essere definito satirista e col tempo neppure realista ma “sperimentatore”, e forse aveva ragione, forse era semplicemente un romantico deluso. Lavorava otto ore al giorno tutti i giorni: era severo e ligio come aveva imparato dal padre medico. È morto a Roma, in una clinica, assistito soltanto dal suo medico e dalle infermiere, alle quali ripeteva: “Sono felice, Dio vi benedica”. Il necrologio del “Time” del 22 gennaio 1951 riportava: “Non era un grande scrittore: ma ha colpito l’America nel suo plesso solare, ha immortalato un personaggio nazionale e ha aggiunto molte parole dell’uso casalingo al linguaggio americano”.


Hunter Stockton Thompson Paura e disgusto a Las Vegas

Hunter Stockton Thompson è stato uno dei più famosi sperimentatori di droghe e uno degli ultimi “poeti maledetti”. È diventato un autore leggendario nel 1967, con la pubblicazione di Hell’s Angels , la storia dei motociclisti fuorilegge che terrorizzavano le placide cittadine degli sconfinati Stati americani, basata su un anno di frequentazione del gruppo. Forse da loro ha imparato quella che oggi sembra “malavita”, e stimolato da loro ha cominciato a svolgere la professione di giornalista a New York, a San Juan e a Rio de Janeiro, diventando corrispondente dalla spiaggia di Copacabana finché l’ameba lo ha costretto a una vita meno spericolata conducendolo a vivere in Colorado, ad allevare cani dobermann, sposarsi, avere un figlio, leggere e bere con pari avidità, e sparare con rivoltelle pregiate. Tradotta da Sandro Veronesi e presentata in Italia come “una Divina Commedia alla mescalina” solo nel 1996, l’avventura trasgressiva e fantastica narrata in Paura e disgusto a Las Vegas (Fear and Loathing in Las Vegas ) è quasi il resoconto di un viaggio realmente effettuato nel 1971, quando Thompson, con trecento dollari in tasca e un’automobile rossa, è partito col suo avvocato samoano per fare il reportage di una famosa gara di motociclette nel deserto. Le prime pagine si possono anche leggere come una serie di esperienze sulle droghe, le più pesanti e problematiche di allora: dall’etere (che fa perdere l’abilità motoria e produce l’interruzione di ogni rapporto tra il corpo e il cervello, mentre quest’ultimo continua a funzionare più o meno normalmente) alla mescalina – presa mentre l’etere stava svanendo e l’LSD aveva finito il suo effetto –, in attesa che quest’ultima, dopo un’ora e mezzo, producesse “intensità diabolica, strane vampate, vibrazioni”. Ma non è rendere onore al libro presentarlo come un breviario per drogati. Esso, infatti, è una straordinaria esplosione di vitalità, proprio di quell’energia vitale che veniva cantata fin negli anni Sessanta, e nell’esplosione di questa energia vitale mostra la trasgressività molto più che irriverente tipica di quegli anni e che qualcuno ha definito della controcultura americana. Il conformismo americano, qui esasperato da perversione e malaffare, conduce i due protagonisti in un mondo malavitoso, esaltato in queste pagine da uno stile magistrale e da dialoghi inimitabili. Con un talento simile Hunter S. Thompson avrebbe potuto scrivere la “grande storia” di quegli anni; il breve spaccato che ce ne ha offerto ci conduce a rivivere l’assurdità e l’orrore di avventure del tutto inutili sul piano logico ma esempio di come in quegli anni e in quelle circostanze si poteva distruggere un’esistenza nel tentativo stesso di renderla esaltante e fuori dal controllo intellettuale. Così i due protagonisti del libro si aggirano tra motel di super lusso e ritrovati tecnologici, fra addebiti che non verranno mai pagati e bagni nell’oceano sotto mescalina, tra allucinazioni di rettili e pipistrelli e ricordi nostalgici degli anni Sessanta coi loro omicidi e la realtà che ne era derivata, immersa in un conformismo che nessuna trasgressione riusciva a smuovere. Tutto il libro è assurdo mentre scorrono queste avventure iperrealiste. Nel 1998 Terry Gilliam ha diretto una riduzione cinematografica del libro rendendolo ancora più famoso. Oggi la situazione è cambiata: la droga è diventata un mercato assassino, chi la prende è troppo devastato per avere slanci vitali. Mi chiedo, perciò, come i ragazzi di adesso possano accostarsi alla realtà, sia pure un po’ dilatata, di quegli anni. Possono viverla come una favola: la favola ambigua e inafferrabile di una generazione bruciata dall’ansia di esperienze traditrici.


Jack London Martin Eden

La voga di Jack London, lo scrittore che da ragazzi ci ha fatto sognare una vita di lealtà basata sul coraggio e di sfortuna basata sull’onestà, coi suoi cani eroici e i suoi eroi primitivi, le sue distese di neve e di mare, le sue avventure quasi romanzesche come le sue realtà e i suoi sogni rosati quanto era drammatica la sua vita, è una voga che non accenna a diminuire. Il suo romanzo autobiografico Martin Eden è un libro scritto durante una crociera sullo Snark, un battello progettato e costruito da lui stesso, alla quale ha preso parte anche la seconda moglie Charmian Kittredge sposata nel 1905 (si era separato dalla prima moglie Bessie Maddern, sposata nel 1900, fin dal 1903). La crociera era partita il 23 aprile 1907 da San Francisco ed era diretta alle Hawaii e alle isole dei Mari del Sud. Ma i fatti narrati nella storia London li aveva vissuti molto prima, intorno al 1896, quando aveva vent’anni. In quegli anni il futuro scrittore era stato presentato da Frank Applegarth, un compagno della “Henry Clay”, società dove si riunivano giovani di varie tendenze politiche, alla sorella di lui, Mabel, una di quelle che a quei tempi si chiamavano fanciulle: una ragazza con ambizioni intellettuali che gli ha fatto da pigmalione in gonnella e della quale London si è innamorato almeno tanto quanto dell’elegante ambiente borghese nel quale si muoveva. Mabel era orfana di padre ed era soggiogata da una madre egoista e perpetuamente bisognosa di assistenza, che ha imposto la sua presenza nel ménage quando lo scrittore, diventato finalmente famoso, avrebbe potuto sposare la fidanzata fino ad allora recalcitrante. La pretesa della madre di Mabel ha segnato la fine del sogno d’amore di London: il fidanzamento si è rotto e Mabel si è avviata verso il suo futuro di zitella e di figlia amorosa mentre London continuava il suo cammino che doveva condurlo verso sregolatezze economiche, successi leggendari e il suicidio. Ma di questo futuro Martin Eden non parla. Parla solo profeticamente di un suicidio che nella realtà ha avuto basi simili a quelle del romanzo: la delusione politica, il ritrovarsi solo quando il sogno socialista gli si è infranto fra le mani. Sogno che non è stato elemento da poco nel puzzle della vita di London: per due volte lo scrittore si è presentato candidato a Oakland e ha fondato con Upton Sinclair e altri scrittori socialisti la Lega per la democrazia industriale dalla quale è derivato negli anni Sessanta il gruppo degli Studenti per la società democratica che è diventato famoso con la sigla SDS tra gli esponenti del dissenso universitario. Del sogno socialista parla diffusamente l’autore in Martin Eden, descrivendo i comizi ai quali ha partecipato il giovane marinaio selvaggio mentre si stava addomesticando nella casa della fanciulla borghese: comizi che sono stati causa di una prima rottura con lei, scandalizzata sia dall’attivismo politico così male impiegato (secondo la famiglia della ragazza), sia dall’ostinazione a voler fare lo scrittore invece di impiegarsi magari in una banca, sia dalla passione con la quale il giovane seguiva le teorie evoluzionistiche allora rivoluzionarie di Spencer e Darwin. Specialmente Spencer era al fondo dei pensieri di ragazzo di London e in Martin Eden viene citato spesso nel racconto della formazione del giovane che in tre anni da marinaio “buon selvaggio” alla Rosseau e “belva bionda” alla Nietzsche è diventato scrittore di successo. Nella realtà, più romanzesca che romanzata, il successo è stato abbastanza clamoroso. Martin Eden è uscito sei anni dopo Il richiamo della foresta (The Call of the Wild) e ha venduto subito duecentocinquantamila copie in edizione rilegata. È stato accolto male dalla critica che l’ha considerato un documento socialista o una glorificazione dell’individualismo, con grande amarezza dell’autore, che ha affermato di avere in realtà voluto scrivere un libro di denuncia della filosofia nietzschiana, del superuomo. Lo ha sempre ritenuto il suo libro migliore: il successo ininterrotto del pubblico non lo ha tradito. Il cinema si è impadronito del libro nel 1942, quando il regista Sidney Salkow lo ha fatto interpretare da Glenn Ford e Claire Trevor. Che le sue storie riguardassero uomini o cani, non cambiava la tesi della lotta per la sopravvivenza, dove a tentare di sopraffare il debole (il povero) è sempre uno più forte (il ricco).


Tom Robbins Uno zoo lungo la strada

Forse il nome di Tom Robbins è diventato familiare ad alcuni solo nel 1993 grazie al film con Uma Thurman e Keanu Reeves che Gus Van Sant ha tratto dal suo Il nuovo sesso: cowgirl (Even Cowgirls Get the Blues), ma molti altri hanno scoperto le straordinarie potenzialità dello scrittore già con Uno zoo lungo la strada (Another Roadside Attraction), lanciato, grazie all’idea di due funzionari del suo editore, Luther Nichols e il suo geniale capo San Vaughan, in edizione tascabile pochi mesi dopo la prima edizione del 1971: il tascabile ha venduto seicentomila copie in poche settimane e Tom Robbins è diventato uno scrittore di culto fra i giovani. Robbins è un ex figlio dei fiori nato nel 1936 a Blowing Rock, nel North Carolina; sua madre era una scrittrice per l’infanzia, e lui, precocissimo, già a cinque anni le dettava racconti di fantasia insolita. Una fantasia simile trovava pochi riscontri nel villaggio poverissimo in cui viveva, che però diventava un centro balneare di gran lusso nei mesi estivi: “Mi mostrò come delle cose mediocri possono improvvisamente diventare straordinarie” ha raccontato più tardi a proposito di questo luogo. La sua fantasia ha trovato nuovo alimento verso la metà degli anni Quaranta, quando la famiglia si è trasferita a Warsaw in Virginia e Tom, ancora bambino, ha visto il suo primo circo restando affascinato dalla magia. Ha detto in un’occasione: “Il circo rappresentava le ultime vestigia delle celebrazioni pagane”. Da allora ha condotto un’esistenza nomadica, facendo l’autostop attraverso gli Stati Uniti per una decina d’anni e raccogliendo esperienze che lo hanno aiutato a sviluppare la sua voce di scrittore. A nemmeno vent’anni si è arruolato nell’Aeronautica ed è stato “destinato” in Corea del Sud, con scarsi risultati per la sua formazione morale: passava la maggior parte del tempo a fare il mercato nero di sigarette, sapone e dentifrici. Qualche anno dopo ha cominciato a sperimentare l’LSD e altre droghe psichedeliche. Tutto ha avuto inizio il 16 luglio 1963: “Le droghe psichedeliche mi hanno lasciato meno rigido, sia intellettualmente, sia emotivamente... I confini tra la cosiddetta realtà e la cosiddetta fantasia, tra il sogno e la veglia, non erano più così precisi e mi sono servito nei miei libri della scoperta di questa mobilità”. Al Greenwich Village di New York ha incontrato Timothy Leary e i due scrittori sono diventati amici: “Un giorno in un mercato Leary mi ha chiesto come facevo a riconoscere i cavolini di Bruxelles buoni da quelli cattivi e io gli ho detto che sceglievo quelli che sorridono”. Trasferitosi a Seattle, Tom Robbins ha iniziato a curare una rubrica di critica d’arte per una rivista e ha lavorato come disc-jockey per una radio. È stato allora che ha cominciato a fare ricerche sulla storia delle origini della cristianità e ha pensato di scrivere un romanzo con l’idea di evocare lo spirito della rivoluzione psichedelica e divulgare l’idea che la religione organizzata impedisce ai suoi fedeli di vivere una vita veramente spirituale. Uno zoo lungo la strada è nato così. È la storia di Amanda, di suo figlio Thor e di John Paul, un mago che viaggia accompagnato da un babbuino. I tre allestiscono una specie di bancarella di hot dog ai bordi di una strada e, lì accanto, un piccolo zoo: l’interesse per l’occulto, per l’eros orientale e per la natura fanno da sfondo allo svolgimento del libro, nel corso del quale viene rubata la mummia di Gesù Cristo dalle catacombe del Vaticano, e trasportata nello Stato di Washington. È un intreccio non certo basato sul realismo: l’idea di Robbins è stata fin dal principio quella di mostrare che il vero significato della vita si può ritrovare scegliendo “la gioia nonostante tutto”. Questa massima è svolta in tutto il libro con uno stile e una struttura che fanno sembrare sbiaditi, si fa per dire, i libri di Kurt Vonnegut. In un’intervista Robbins ha detto: “Sono stato molto coinvolto nella rivoluzione psichedelica e ho visto che gli scrittori la descrivevano in modo giornalistico più che evocarla per riprodurne l’essenza. Ho basato Uno zoo lungo la strada su un modello psichedelico. Qualcuno si è lamentato dicendo che il libro non ha struttura, ma invece ha una struttura molto accurata (ho passato due anni a crearla) anche se non è una struttura consueta. Credo che non ci sia mai stato un libro così, né per il contenuto né per la forma: può darsi che non sia granché, ma è decisamente un libro a sé stante. La sua struttura si irradia in molte direzioni piuttosto che continuare gradatamente su uno stesso piano inclinato, come la maggior parte dei romanzi. Ci sono molti lampi di illuminazione legati insieme come i chicchi di una collana: alcuni illuminano la trama, altri illuminano il lettore”.


Una qualità eccezionale di Tom Robbins è la sua abilità a essere serio e divertente allo stesso tempo ma, ha precisato lui stesso, va fatta distinzione tra lo humour importante che è liberatorio e quello non importante. Quello importante è sempre inappropriato e causa un moto nella coscienza che libera lo spirito umano. Non c’è dubbio che Uno zoo lungo la strada si confronta con lo humour inappropriato. Lo scopo di Tom Robbins è portare il lettore a divertirsi con qualunque cosa, anche con la divinità di Cristo. Ma, ha precisato, “nello scherzo deve esserci rispetto per la vita, in tutte le sue manifestazioni pazze”.


Edna St Vincent Millay L’amore non è cieco

Per fortuna l’editore Crocetti ha pubblicato questo volumetto di quarantacinque pagine a cura di Silvio Raffo. È dal 1951, quando una delle due sorelle della Millay ha fatto uscire un librettino con una minuscola raccolta della poetessa morta l’anno prima a cinquantotto anni, che scongiuro inutilmente gli editori italiani di pubblicare almeno una scelta delle poesie che sono state pagine di culto dei giovani degli anni Venti. Sono riuscita solo a convincere Marsilio a pubblicare la biografia scritta da Gaia de Beaumont su questa poetessa che i familiari hanno sempre chiamato Vincent, grande eroina della trasgressione sessuale di quegli anni e considerata regina del Greenwich Village, di cui i giovani ripetevano a memoria i versi, alcuni famosi anche adesso tra i poveri pazzi che continuano a leggere poesia. La sua quartina “La mia candela brucia ai due lati; / Non durerà la notte; / Ma ah, nemici, e oh, miei amici – / Dà una bella luce!” è ormai radicata nella coscienza americana. La vita di Edna St Vincent Millay è cosparsa di amanti, di notti intere di feste nel Village o sulla Rive Gauche, di qualche permanenza in prigione per proteste politiche, di coinvolgimenti per i diritti della donna, di momenti di estasi specialmente ai concerti di musiche di Beethoven: attività che non le impedivano di soffrire di orribili emicranie dalle quali si difendeva suonando il piano. Ma Edna St Vincent Millay ha assistito anche al passaggio dal realismo ottimistico di Mark Twain al naturalismo di Stephen Crane, Frank Norris e Theodore Dreiser; e assisteva alla metamorfosi della poesia, compiuta all’inizio del 1912 dalla rivista di Harriett Monroe “Poetry: A Magazine of Verse”, che intendeva liberare il pubblico americano dal sentimentalismo di Henry Wadsworth Longfellow e Oliver Wendell Holmes, appartenenti all’élite letteraria di Boston del XIX secolo, ricca di influenze europee. Erano momenti magici per la poesia. Mentre Harriett Monroe proibiva la dizione poetica, i riferimenti classici e i sonetti, Ezra Pound introduceva nella rivista gli imagisti, incoraggiando il verso libero, le immagini precise e la totale libertà di argomenti. Queste metamorfosi avvenivano con controversie violente tra gli sperimentalismi e i tradizionalisti. In questa atmosfera ricca di trasgressioni, la Millay era diventata un simbolo vivente della libertà e dell’edonismo del Village. Malcolm Cowley ha scritto che molti uomini nel Village erano innamorati della Millay mentre Cowley stesso e il critico letterario Kenneth Burke lo erano della sorella di Edna, Norma; e lo scrittore Edmund Wilson, che ha convissuto con la poetessa, ha specificato che i suoi ammiratori formavano un’associazione: non aveva bisogno di suggerire che l’associazione si basava sulla leggenda della sua bellezza, del suo genio e del suo edonismo. La Prima guerra mondiale ha sconquassato la situazione e dopo i suoi anni di vita scapestrata nel Village la Millay ha deciso di sposarsi con il mercante Eugen Jan Boissevain, secondo le tradizioni. Anche se i due sposi si consideravano quella che oggi si chiamerebbe una coppia aperta, i tempi del Village erano finiti: insieme al Village e alla sua vita indipendente la Millay aveva perduto la spontaneità poetica, forse a causa dell’influenza del marito, che per assisterla faceva tutti i lavori di casa perché era difficile trovare domestici per la grande casa a Steepleton, dove erano andati a vivere. Col matrimonio aveva smesso di essere la poetessa confessionale, intensamente “personale”, del Village iniziando a occuparsi di problemi sociali, ma la religione di Edna Millay era l’amore e non parlando più d’amore aveva smesso di parlare con l’universo. Quando il marito è morto, nel 1949, Edna Millay ha continuato a vivere sola nella loro casa isolata in campagna. Il 18 ottobre 1950 ha lavorato tutto il giorno e poi ha continuato di notte a leggere le bozze di una traduzione dell’Eneide di Rolfe Humphries; all’alba si è versata un bicchiere di vino alsaziano e si è avviata sulle scale per ritirarsi in camera. Ma probabilmente ha avuto un mancamento e si è seduta sul primo gradino, con il bicchiere di vino in una mano e una pagina di poesia nell’altra. Così Edna St Vincent Millay è morta in silenzio, forse di infarto.


Flannery O’Connor Tutti i racconti

Quando si scrive non si deve aver paura di sporcarsi le mani e si deve anzi tuffarle in ogni genere di realtà. Questa è una delle più famose metafore di Flannery O’Connor, un’autrice che ha il triste primato di vantare forse più saggi e monografie usciti su di lei che anni di vita: ha scritto soltanto due romanzi e trentadue racconti. Si è ammalata a venticinque anni di lupus. La sua vita è stata sommessa, conformista, silenziosa e divisa con severità tra la devozione cattolica e gli impegni letterari: a ribollire sono stati i suoi libri. Aveva uno humour sardonico che, a proposito del pellegrinaggio a Lourdes fatto nel 1958, l’ha portata a dire agli amici: “Avevo le più belle stampelle d’Europa”. La malattia non le ha mai dato tregua: è stata alleviata solo dalle cure della madre, dall’attenzione degli ammiratori, dall’interesse dei colleghi e dall’amicizia epistolare durata nove anni con una signora che voleva restare anonima. Allevata nel cuore del fondamentalismo protestante non si è mai lasciata smuovere dal suo cattolicesimo anche se i cattolici non erano molti nella campagna della sua Georgia. In un saggio del 1957 ha affermato: “Vedo le cose dal punto di vista dell’ortodossia cristiana. Questo significa che per me il significato della vita è accentrato nella nostra Redenzione attraverso il corpo di Cristo e quello che vedo nel mondo lo vedo in rapporto a questo”. Il suo primo romanzo, iniziato a ventidue anni, è stato La saggezza nel sangue (Wise Blood), la storia di Hazel Motes, un giovane reduce di guerra che predica la “Chiesa della verità senza Gesù Cristo Crocifisso”, da lei stessa definito “un romanzo comico che tratta di un cristiano suo malgrado e, in quanto tale, serissimo, perché tutti i romanzi comici d’un qualche valore debbono trattare questioni di vita o di morte”. Sudista fino in fondo, dei suoi libri si apprezzano, per esempio, la visione grottesca o il rifacimento del tradizionale linguaggio del Sud: assassinii e incendi, accecamenti e violenze, situazioni grottesche e comiche fino a essere ripugnanti. I suoi racconti sono usciti sulle riviste più “intelligenti” d’America: “The Kenyon Review”, “The Sewanee Review”, “Harper’s Bazaar”, “Partisan Review” di cui la O’Connor era collaboratrice abituale. Sono racconti ambientati nel Sud, piuttosto belli e avvincenti. Non so come sintetizzarli, il sunto sarebbe stupido e non potrebbe rendere il sarcasmo, il senso di fatalità, la consapevolezza dello squallore del ceto a cui appartengono i personaggi. Per esempio, in un racconto una famiglia esce dalla strada principale durante una gita e viene sterminata da un assassino che si trova a passare di lì con i suoi due bravi. Ma la truculenza del massacro è completamente inghiottita dallo stupore dei massacrati e comunque l’atto in sé non è affatto descritto. È un racconto che molti scrittori vorrebbero poter firmare, credo. I protagonisti sono i poveri contadini del Sud, ma si cercherebbe invano traccia del mondo letterario americano. I personaggi sono molto moderni; il taglio del racconto anche. La chiave dell’autrice è il rapporto tra la credulità e la stupidità attribuita convenzionalmente ai contadini e la malvagità che si nasconde sotto le prime inattese spoglie. Nelle sue numerose lettere Flannery O’Connor parla molto delle sue ansie esistenziali, che per lei erano costituite dal problema religioso. In esse, infatti, le dichiarazioni di ortodossia ritornano frequenti e non sono soltanto teoretiche, come quando chiede a un sacerdote il permesso di leggere André Gide, da alcuni considerato immorale. Nelle sue lettere parla molto anche delle sue ansie organizzative a proposito della pubblicazione dei suoi libri e delle recensioni che avrebbero potuto ottenere, forse spinta da un inconscio desiderio di lasciare un segno su un mondo che avrebbe abbandonato così presto. Forse nei suoi romanzi e nei suoi racconti trovava la libertà che non aveva nella vita.


Alice B. Toklas Il libro di cucina

Per spiegare come sia venuto in mente ad Alice Babette Toklas di scrivere un libro di ricette è sufficiente leggere la spiegazione che ne dà l’autrice nella premessa al libro intitolata “Una parola con la cuoca”: “Da cuoca a cuoca devo confidarvi che questo libro, col suo miscuglio di ricette e di ricordi, è stato composto durante i primi tre mesi di un attacco di itterizia. Probabilmente è stato scritto, almeno in parte, come un’evasione dalla dieta rigorosa e dalla monotonia della malattia”. Per un’intenditrice raffinata come la Toklas la dieta in bianco dev’essere stata davvero un fastidio crudele; non perché Alice fosse una buongustaia, ma perché la sua esperienza da cosmopolita le ha dato modo di conoscere cibi a volte strani perfino nel Paese d’origine. Il pollo all’arancia o il gelato di riso o le uova ripiene che gli amici si sono visti offrire alla sua tavola hanno finito per aggiungere la reputazione di cuoca abilissima a quella di grande intenditrice; e alla fine gli editori se ne sono serviti per vincere la sua ritrosia e costringerla a lasciare un segno della sua personalità anche per iscritto. Perché la Toklas non aveva mai voluto scrivere: ed è facilmente immaginabile la quantità di inviti che le sono stati rivolti in questo senso, dato il patrimonio di conoscenze e di esperienze da lei raccolto durante gli anni di vita in comune con Gertrude Stein. Basta pensare che Sherwood Anderson ed Ernest Hemingway avevano cenato spesso alla loro tavola ospitale, come pure Pablo Picasso e Henri Matisse, per i quali un pasto rappresentava un problema assai più complesso che l’esecuzione di un quadro. E queste cene erano preparate da Alice la quale, ce lo racconta lei stessa, una volta aveva inventato in onore di Picasso la decorazione di un certo pesce (a base di maionese, pomodoro, uova sode tritate, tartufi ed erbette), e il pittore ne era rimasto ammirato, anche se di fronte a quella combinazione di colori aveva concluso che sarebbe stato più giusto considerarlo in onore di Matisse. Episodi come questi sono stati collezionati a migliaia in un’esistenza che potrebbe facilmente concretarsi nell’aneddotica più cosmopolita della storia letteraria; ma Alice non voleva scrivere. Aveva accettato di fare questo libro perché era convinta che un libro di cucina non avesse niente a che fare con lo scrivere, ed era inutile contraddirla, ma è certo che queste pagine fanno pensare ben poco a un ricettario. La trovata della Toklas è stata di descrivere le varie ricette dopo l’episodio che gliele aveva fatte conoscere, l’esempio tipico si trova durante la rievocazione del viaggio in America: “A Nuova Orleans incontrammo di nuovo Sherwood Anderson che ci condusse a colazione da Antoine, dove per la prima volta mangiammo le Ostriche Rockefeller”; al che segue la ricetta delle Ostriche Rockefeller. Ma se è capitato a molte signore di comprare il libro per avere ricette esotiche, a volte un tantino afrodisiache, a volte soltanto complicate, ma sempre raffinatissime e tali da far sbalordire gli ospiti più esigenti, penso che a molte altre è capitato di leggere quasi con impazienza le ricette per cercare episodi e fatti che completino cronologicamente e spiritualmente i libri di ricordi della Stein, come Autobiografia di tutti o Autobiografia di Alice Toklas . Perché il tono generale del libro di Alice è sostanzialmente rievocativo: come una conversazione tra Alice e Gertrude. Tra l’uno e l’altro dei tanti ricordi si svolge il libro, nel suo tentativo di confrontare cibi francesi e spagnoli e americani e perfino cinesi, fino alla girandola finale delle “Ricette di amici”, che raccoglie indicazioni culinarie da tutte le parti del mondo, dal pesto alla genovese alle frittelle di formaggio viennesi. Alice si era limitata a copiarle a macchina fidandosi degli amici e scegliendo quelle che le parevano più insolite, e si era cacciata in un guaio. Un amico che viveva a Tangeri le aveva mandato la ricetta, ormai diventata famosa, di un hashish fudge, una specie di marmellata di hashish; Alice, pensando che il titolo fosse uno scherzo, aveva incluso la ricetta nella lista. Ma quando era uscita l’edizione inglese, dove si spiegava come “scacciare il freddo in un’umida giornata d’inverno”, nessuno aveva sospettato che Alice ignorasse totalmente che la cannabis sativa fosse l’assai più famosa marijuana; un settimanale americano a grande tiratura aveva attaccato con violenza il libro e l’autrice, scrivendo tra l’altro che non c’era da stupirsi che Gertrude Stein scrivesse a quel modo, se Alice le somministrava un simile cibo. L’editore americano, intimorito, aveva deciso di eliminare la ricetta. Questo spiega la maggior diffusione dell’edizione inglese. Alice, scopertasi eroina di questo scandalo imprevisto, aveva ritrovato per affrontarlo il giggle, la risatina, e l’energia con cui aveva dominato in gioventù situazioni ben più difficili e clamorose.


Se le ricette del libro fanno pensare con umiltà alla nostra inesperienza di cuoche, il libro in sé fa pensare a un’umiltà più grande: quella di una narratrice che nel momento stesso in cui si affermava artista di grandissimo gusto e tecnicamente abilissima, si rifiutava di considerarsi scrittrice in omaggio alla grande compagna perduta.


Anne Tyler Ristorante nostalgia

“Non è necessario l’uso dell’intelletto. Da usare soltanto nelle eterne crisi del cuore” è una delle tante accuse che la critica ha inferto alla narrativa di Anne Tyler. Insieme a Raymond Carver, è la scrittrice che più di ogni altra si è allontanata dalla letteratura importante per una narrativa che si muove in una “sezione privata”. Una scelta che riporta alla memoria le parole di Don DeLillo: “La società contemporanea americana è il peggior nemico che l’umanità umana abbia mai avuto” e quelle di Ralph Waldo Emerson: “La società americana è una compagnia unita nella cospirazione contro ogni membro dell’umanità”. Le critiche non hanno comunque impedito al suo Turista per caso (The Accidental Tourist ) di diventare un bestseller dal quale è stata tratta la riduzione cinematografica interpretata da William Hurt, Kathleen Turner e Geena Davis e diretta da Lawrence Kasdan, lo stesso che nel 1983 ha diretto Il grande freddo. Forse il romanzo più impegnato di Anne Tyler, nata a Minneapolis, Minnesota, nel 1941, è Ristorante nostalgia (Dinner at the Homesick Restaurant). Il titolo ricorda vagamente quello della compianta Carson McCullers, Ballata del caffè triste (The Ballad of the Sad Café), ma il ristorante del nostro romanzo è molto più triste di quel caffè. Un ristorante dove Ezra, uno dei protagonisti, cerca invano di organizzare “cene di famiglia” per riunire la madre, il fratello e la sorella. I tentativi si susseguono nel corso del romanzo ma per una ragione o per l’altra le cene vengono sempre interrotte da bisticci o liti o equivoci. Quello della famiglia, del resto, è il tema preferito della scrittrice, che lo ha svolto anche negli altri suoi romanzi. In un’intervista ha detto: “Ho l’impressione di popolare una città”. L’impressione non è sbagliata perché il libro è gremito di personaggi, sempre a tutto tondo, descritti nei minimi particolari fisici e psicologici secondo il costume dei romanzi ottocenteschi. Il personaggio principale è “la madre”, che apre il libro sul suo letto di morte e lo chiude col suo funerale. Il primo capitolo racconta la sua storia di giovane donna abbandonata dal marito con tre figli alla vigilia della guerra e indurita dall’arduo compito di allevarli e educarli guadagnando la vita per sé e per loro come cassiera in una drogheria. I figli crescono anche loro induriti e chiusi in un involucro di egoismo volto alla sopravvivenza e di incomunicabilità con la madre troppo severa: il maggiore, cattivo e irresponsabile come il padre, la figlia bellissima e presto sfiorita con una tribù di figli, il terzo troppo buono e gentile che lavora in un ristorante con tanto zelo da ereditarlo, deludendo la madre che avrebbe voluto vedergli fare il professore. Narratrice esperta e sapiente, la Tyler si destreggia fra tutti questi ritratti e queste storie dentro la storia con estrema abilità mantenendo salde le redini e gli equilibri, pilotando accortamente gli odi e le invidie, le nostalgie e gli amori, le frustrazioni e gli inutili sogni che danno vita e morte ai sentimenti di tutte le famiglie. In particolare in questa famiglia la frustrazione è lì, sempre presente e minacciosa, fino a colpire la madre protagonista addirittura sul letto di morte: “Aveva sempre creduto che ci sarebbe stato un lampo di luce in cui improvvisamente scoprisse il segreto; ma non era accaduto... Aveva creduto che sul letto di morte avrebbe avuto qualcosa di definitivo da dire ai suoi figli... Ma nulla era definitivo. Non aveva niente da dire”. Questa della rassegnazione è senza dubbio la molla che fa da stimolo ad Anne Tyler. Anche negli altri suoi romanzi i personaggi sono quasi sempre intenti a svolgere professioni diverse da quelle sognate in gioventù o alle quali si sono dovuti adattare a causa di circostanze di famiglia più o meno crudeli. Le svolgono con dignità e rispetto ma, appunto, con rassegnazione, e talmente tanta da non avere neanche più rimpianti, per lo più adagiati nella mediocrità economica e spirituale che fa da base alla grande massa dei conformisti d’America.


James Branch Cabell Jurgen

Non c’è dubbio che nella giostra americana degli autori sconcertanti James Branch Cabell occupa un posto notevole. Da François Rabelais ai surrealisti non c’è letterato o mito letterario che non venga scomodato per spiegarlo; è una specie di gioco di pazienza. Quando James Branch Cabell ha pubblicato il suo primo libro, The Eagle’s Shadow, a venticinque anni, era il 1904. Quello che è considerato il suo capolavoro, Jurgen, è uscito nel 1919. Sono le due date che possono fare da limiti alla grande rivoluzione letteraria americana nel processo di emancipazione dall’Europa. Tanto per cambiare, Jurgen è un libro che all’epoca della sua uscita aveva fatto scandalo, era stato censurato, sequestrato e così via. Naturalmente a Cabell è toccato quello che ancora oggi capita alla maggior parte degli autori incompresi: essere considerato un autore pornografico. In questa specie di parodia del viaggio di Dante, Jurgen è un giovane intelligentissimo che per fare soldi e poter sposare donna Lisa apre una bottega da usuraio. Un giorno donna Lisa scompare e Jurgen va a cercarla. Accompagnato dal centauro Nesso si spinge nell’altro mondo, dove dimentica donna Lisa e flirta con una quantità di signore importanti, tra cui Elena di Troia. Di avventura in avventura finisce all’inferno, dove l’ombra del padre lo rinsavisce; e rinsavito, ritrova donna Lisa. A raccontarla, sembra una storietta piuttosto scema. Ma c’è in Jurgen un significato allegorico che fa muovere il libro in un ambito moraleggiante. È questo a dare sapore, se non senso, alla storia e a conferirle un carattere di originalità. Prima di scrivere Jurgen, Cabell deve aver pensato qualcosa come: “Va bene i bassifondi, va bene i cavalieri d’industria, va bene le prostitute, va bene che la colpa di tutto sia l’industrializzazione; ma noi scrittori non possiamo risolvere la situazione: l’unica cosa che possiamo tentare è di crearci un mondo, un nostro mondo immaginario; sarà insieme la rivolta al realismo e la rivolta al puritanesimo e la soluzione del neorealismo. Perché si ha un bel rappresentare la vita così com’è nella realtà, anche nei suoi aspetti dolorosi e non soltanto nei suoi aspetti rosei; la si rappresenterebbe sempre trasformata dalla nostra visione, dalla nostra personalità. Tanto vale evadere in un mondo fantastico”. Insomma, Cabell aveva reagito alla voga dei bassifondi e dei cavalieri d’industria sostenuti dal Muckraking Movement (il movimento di protesta che si è sviluppato in America dal 1902 al 1906 tra i giornalisti desiderosi di divulgare le verità politiche, economiche e giudiziarie) e si era difeso creandosi un suo mondo, che rappresentava insieme la rivolta al realismo, la rivolta al puritanesimo e la soluzione del neorealismo. In Jurgen il mondo fantastico di Cabell è dominato da un dio che è al di sopra di tutti i beni e di tutti i mali e ha fatto le cose così come sono. È un mondo dove si uccide, si ama, si tradisce fra incantamenti ariosteschi e angosce sfocate dal ricordo: è un mondo dove regna l’anarchia morale. Quella di Cabell non è una pura creazione poetica: è un sistema morale definito all’interno di un sentimento anarchico. Quando Cabell insiste tanto sull’importanza del sogno come unico scopo e unica realtà dell’esistenza, o quando addirittura a volte si tuffa nell’allegoria fastidiosa di ricordi liceali, quel sogno e quell’allegoria non sono fini a se stessi, ma sono gli elementi o i limiti di quel sistema. Si capisce che un sistema morale espresso allegoricamente risulta molto strano, ma una volta che abbiamo stabilito che la vera realtà è il sogno e la legge morale di questa realtà è l’anarchia, tutto appare più chiaro. Di James Branch Cabell me ne sono occupata moltissimi anni fa, quando per sopravvivere alla guerra insegnavo ad Arona. Per arrivare a casa prima di mezzanotte aspettavo in una stazioncina in cui non era ancora stata ricostruita la sala d’aspetto la coincidenza di un treno secondario, di quelli col corridoio fra i sedili e le lampadine da dieci candele. La favole di Cabell mi hanno aiutato molto a vivere, in quei mesi.


Eugene O’Neill Lunga giornata verso la notte

Quando Eugene Gladstone O’Neill, nato a New York nel 1888, ha scritto il dramma Lunga giornata verso la notte (Long Day’s Journey into Night ) ha chiesto che non venisse pubblicato né realizzato scenicamente per almeno venticinque anni. Era la prima volta che il grande commediografo americano formulava un simile desiderio, nonostante la sua produzione vastissima comprendesse una cinquantina di opere: in realtà voleva soltanto assicurarsi che il dramma non venisse divulgato prima della sua morte. Per questa ragione la moglie, che lo ha ricevuto in dono nel dodicesimo anniversario di matrimonio, lo ha dato alle stampe nel 1956, tre anni dopo la scomparsa del marito. È una pièce teatrale in cui i quattro componenti della famiglia Tyrone, riuniti nella propria casa al mare in Connecticut, si confrontano in una conversazione che si muove dall’ambizione e dalla sete di denaro all’affetto e ai legami di sangue. Eugene O’Neill l’aveva scritta nel 1940, pochi anni dopo aver ricevuto il Premio Nobel, quando ormai viveva ritirato nella villa Tao House in California, già afflitto dal suo male inesorabile e intento a comporre Un racconto di spodestati, il ciclo di nove commedie con cui intendeva narrare la storia di una famiglia americana dal 1754 al 1932. La sua vita si svolgeva relativamente serena, in quegli anni: era sposato con l’attrice Carlotta Monterey, già si era tolto il capriccio di condurre con lei un’“esistenza semiselvaggia” su un’isola di fronte alla costa della Georgia, passando metà della giornata a scrivere e l’altra metà in barca o a giocare a tennis; e la bella villa in California gli consentiva di trascorrere la maggior parte del tempo all’aria aperta e insieme di ricevere quelle cure di cui era ormai sempre più bisognoso. Il morbo di Parkinson lo tormentava impedendogli per lunghi tratti di tempo qualsiasi attività, compresa quella di riempire della sua calligrafia microscopica, che si può decifrare soltanto con una lente di ingrandimento, fogli e fogli di carta che la moglie avrebbe poi pazientemente trascritto e che ora sono depositati presso la biblioteca di Yale. Era stata l’Università di Yale, infatti, a dargli la laurea honoris causa: Eugene O’Neill aveva già vinto due dei quattro Premi Pulitzer ricevuti nel corso della sua carriera, ed erano passati giusto vent’anni da quando l’Università di Princeton l’aveva espulso perché il ragazzo aveva gettato troppo intempestivamente dalla finestra una bottiglia di birra. Suo padre, un attore popolarissimo, non era stato molto contento: lo aveva sgridato, ma lui, invece di suicidarsi secondo una recentissima moda, aveva sposato una bella ragazza, Kathleen Jenkins, e se ne era andato con lei nell’Honduras a cercare l’oro. Quando si era deciso a tornare in patria, oro non ne aveva di certo; in compenso aveva un figlio e la malaria. Il padre aveva cercato di farlo assumere come amministratore nella sua compagnia; ma Eugene non aveva resistito a lungo: aveva letto troppo Joseph Conrad e troppo Herman Melville e troppo Jack London ed era scappato a fare il marinaio. Era questo il periodo in cui aveva frequentato Jimmy the Priest, il barbiere che gli avrebbe ispirato Arriva l’uomo del ghiaccio (The Iceman Cometh), e girato nei bassifondi dei porti che gli avrebbero ispirato i suoi capolavori teatrali. Ma il suo flirt col mare non era durato a lungo: due anni dopo era stato bruscamente interrotto da un attacco di tubercolosi che lo aveva costretto in un sanatorio e gli aveva offerto l’occasione di leggere August Strindberg e Henrik Ibsen, di divorziare dalla prima moglie e di scrivere i primi drammi in un atto. Naturalmente non aveva trovato editori, e glieli aveva pubblicati il padre a sue spese; naturalmente non aveva trovato impresari disposti a realizzarli, e se li era dovuti realizzare da sé con un gruppo di amici; ma dopo otto anni, nel 1918, Oltre l’orizzonte (Beyond the Horizon) gli aveva fatto vincere il primo Pulitzer, al quale era seguito il secondo due anni dopo con Anna Christie e il terzo dopo altri otto anni con Strano interludio (Strange Interlude). In quegli anni aveva vissuto a Bermuda, con la seconda moglie Agnes Boulton, dalla quale aveva avuto il figlio Shane e la figlia Oona, poi moglie di Charlie Chaplin; ed era stato dopo il terzo Pulitzer che aveva di nuovo divorziato e aveva sposato Carlotta Monterey, dalla quale non si sarebbe più separato e che ha raccolto le sue ultime parole quando lo scrittore è morto a Boston di broncopolmonite. Era stato con lei che O’Neill aveva iniziato la terza fase della sua produzione: alla prima, realistica e tragica (quella dei drammi marini), era seguito un periodo quasi simbolista e vagamente mistico; ma dopo il terzo Premio Pulitzer aveva subito una nuova trasformazione e aveva affrontato appunto il problema di rifare la storia di una famiglia americana intesa come tragedia ironica del materialismo moderno. In questo periodo, siamo negli anni Quaranta, aveva istituito l’uso di interrompere l’esecuzione del dramma per permettere al pubblico di pranzare; e a questo periodo appartiene Lunga giornata verso la notte, al quale era stato assegnato ancora una volta il Premio Pulitzer, il quarto.


Susan Minot Scimmie

Nata nel 1956 a Manchester, coi suoi grandi occhi azzurri, la figurina minuscola e i capelli biondi appartiene all’America bene, quella WASP (White Anglo-Saxon Protestant – Protestante bianco anglosassone): sua sorella era compagna di scuola di una Kennedy, lei era protetta da Morgan Entrekin, l’editore e editor che aveva praticamente costretto Bret Easton Ellis a scrivere giovanissimo Meno di zero e sedici anni dopo il diciassettenne Nick McDonell a scrivere il delizioso (vorrei poterlo definire deliziosissimo) Twelve. Scimmie (Monkeys) è un volumetto smilzo, pubblicato nel 1986, definito romanzo ma costituito in realtà da nove racconti. Forse dietro suggerimento di Morgan Entrekin, Seymour Lawrence della casa editrice Dutton ha offerto a Susan Minot un contratto senza prendere in considerazione il manoscritto, purché si trattasse di un romanzo. Per accontentarlo, Susan Minot, che fino ad allora aveva scritto solo racconti (molti per la verità pubblicati su riviste prestigiose come “New Yorker” o “Grand Street”), ne ha scelti alcuni tra quelli ambientati negli stessi luoghi e con gli stessi personaggi di modo che diventassero il ritratto di una famiglia. Il mondo esterno non conta: “Ho voluto proprio descrivere l’esistenza di sette bambini e dei loro genitori all’interno della loro casa mostrandoli via via che crescevano, tra il 1966 e il 1979”. Sembra dunque che il tema del libro rientri negli schemi della narrativa minimalista. Ritorna l’attenzione cara ai suoi coetanei per particolari minimi dell’ambiente in cui si muovono i personaggi, per le loro piccole manie, le crisi adolescenziali, gli stupori, le fragili aggressività, ma fuori del minimalismo ci sono nei racconti intensi cedimenti verso il sentimentale, il nostalgico, l’idillico, sempre concentrati intorno alla figura della madre, chiaramente autobiografica, con la sua amorosa pazienza e la tragedia che l’ha stroncata in un incidente d’auto a trentanove anni. Il romanzo è scritto dal punto di vista dei bambini. Sono bambini molto privilegiati, proprio come è stata privilegiata lei, secondogenita di sette figli con un padre banchiere e agente di cambio e una madre cattolica e tradizionalista di cui ha preso il posto in seguito alla tragedia interrompendo gli studi per tornare a casa ad allevare la sorellina più piccola. La voce narrante di Scimmie pensa a volte al suicidio, al punto che la madre si fa promettere da lei, bambina, che non si suiciderà almeno finché non avrà compiuto i diciotto anni. Sono racconti di un’autrice in grado di presentare con garbo il modo di parlare dei bambini e il dialogo degli adulti. Innocenza e maturità, ingenuità e perplessità, passione e dolore si intrecciano in uno stile puro e diretto nello spazio che divide il chiasso dei bambini dai silenzi degli adulti. Nel 1996 Susan Minot è entrata nella storia del cinema curando la sceneggiatura del film Io ballo da sola del nostro Bernardo Bertolucci. Nel 2007 poi Lajos Koltai ha ridotto il suo romanzo Incantamento (Evening) del 1999 in un film il cui titolo è stato tradotto, all’italiana, Un amore senza tempo, di cui lei stessa ha scritto la sceneggiatura insieme a Michael Cunningham, interpretato da Vanessa Redgrave, Natasha Richardson, Toni Collette, Glenn Close e Meryl Streep.


Saul Bellow Le avventure di Augie March

Saul Bellow coi suoi capelli d’argento, i suoi grandi occhi a mandorla, il suo fisico asciutto e la postura affascinante, ha ricevuto talmente tanti premi internazionali e lauree ad honorem che è impossibile farne un elenco definitivo: solo per citarne alcuni, un Premio Pulitzer, tre National Book Award e, nel 1976, il Premio Nobel. Nato nel 1915, si è presentato alla ribalta letteraria nel 1944 con L’uomo in bilico (Dangling Man) al quale è seguito tre anni dopo La vittima (The Victim), ma è stato col terzo libro, Le avventure di Augie March (The Adventures of Augie March ) che nel 1953 si è imposto all’attenzione e ha meritato il primo dei suoi premi. Le avventure di Augie March è un bell’esempio di romanzo picaresco, bohémien, forse ispirato alla voga d’inizio anni Cinquanta quando tutto il mondo è stato inondato da bohémien: “La borghesia ha subito la conversione bohémien. I beat ne sono stati la più vistosa manifestazione, ma anche il Movimento studentesco è stato un movimento bohémien” ha detto. La sua irrimediabile, invincibile melanconia era forse il più irresistibile dei suoi charme, nata nel vuoto creato dalla lunga separazione dalla famiglia che lo ha accompagnato per tutta la vita e gli ha fatto conoscere la precarietà della condizione umana. Forse per sfuggire a questa precarietà, il bambino ha cominciato presto a leggere, a studiare l’ebraico coi suoi genitori, originari di San Pietroburgo, che parlavano in russo e in yiddish, con lui e i suoi tre fratelli che parlavano yiddish in casa, francese per le strade di Montreal, dove erano immigrati, e inglese a scuola; la malattia che a otto anni lo ha tenuto bloccato in un ospedale per sei mesi fa dire a un personaggio de Il dono di Humboldt (Humboldt’s Gift ) del 1975, anche questo autobiografico: “A causa della tubercolosi associavo il respiro con la gioia”. Insieme alla sua guarigione erano arrivate in famiglia gravi difficoltà economiche, finché un cugino di Chicago del padre che aveva fatto abbastanza fortuna da comprare una panetteria in quella città, aveva invitato quest’ultimo a raggiungerlo: il padre di Saul Bellow dormiva su una branda nella cucina del cugino, ma dopo sei mesi, nel 1924, si era fatto raggiungere dalla famiglia, che aveva attraversato clandestinamente il confine, insieme a un baule caro ai racconti di Saul Bellow. E così era cominciata la storia di Chicago, dove lo scrittore trascorre parte dell’infanzia e tutta l’adolescenza coi personaggi che costituivano il mondo de Le avventure di Augie March . È questo il libro che mi ha avvicinato a Saul Bellow quando anch’io ero molto giovane. Non ho mai dimenticato il suo inizio: “Sono americano, nato a Chicago, e affronto le cose come dico io, in stile libero, e racconterò la storia a modo mio: primo a bussare, primo a entrare”. È la storia di Augie dalla sua infanzia alla sua maturità e del suo passare da una situazione all’altra a volte per volontà propria e a volte per caso. I suoi libri sembrano commedie degli errori, basati sulla follia umana che sospinge i personaggi contro valori mal riposti e mete impossibili. Bellow è spesso considerato uno scrittore di libri comici. Però diceva di non avere un metodo comico “perché un metodo implica una premeditazione e le mie storie non sono prodotte da premeditazione più di quanto lo siano le mie impronte digitali. Vengono, semplicemente, da sé”. Nel suo discorso di accettazione del Premio Nobel ha parlato di due mondi, uno di oggetti e uno dal quale vengono le vere impressioni. E in un certo senso i suoi libri vengono dall’inconscio, dall’io permanente. Saul Bellow infatti ha fatto distinzione tra l’io permanente e l’io transeunte, che è presuntuoso, avido, crudele o superficiale. L’io permanente è, secondo Bellow, l’unico degno di rispetto, perché è involontario, è originale. Ma vorrei ricordare una delle civetterie più aperte di questo scrittore Premio Nobel e tutto il resto; per prima cosa quando veniva presentato diceva: “Io sono ebreo, ma ho il naso diritto”. Caro Saul, era bellissimo e lo sapeva.


Jack Kerouac I sotterranei

Se Urlo è considerato il ritratto in poesia della Beat generation, I sotterranei (The Subterraneans) di Jack Kerouac ne è il ritratto in prosa. Come in Sulla strada sono di nuovo i suoi amici a farvi da protagonisti: Gregory Corso nella figura di Yuri Gligoric, Allen Ginsberg in quella di Adam Moorad, William Burroughs in quella di Frank Carmody, Alan Ansen in quella di Thomberg e naturalmente Kerouac stesso in quella di Leo Percepied. L’editore ha suggerito di spostare l’ambientazione del romanzo da New York a San Francisco, che, al momento della pubblicazione del libro, era diventata molto di moda come sede dei beat anche se in realtà quello dei beat è un fenomeno newyorkese. A San Francisco se ne era sentito parlare solo quando Ginsberg si era trasferito laggiù per tre anni e insieme a Kerouac, che spesso si tratteneva da lui tra un viaggio e l’altro, aveva conquistato alla “causa” il poeta Lawrence Ferlinghetti, che dirigeva una libreria ed era diventato presto l’editore ufficiale del gruppo. Nel romanzo è ritratto nella figura di Larry O’Hara. Da allora questi poeti-scrittori dal non essere quasi considerati dalla società come se fossero dei “sotterranei” sono diventati così famosi che i critici, passando da un estremo di rifiuto a un estremo di classificazione, li hanno definiti nientemeno che Scuola di San Francisco. La caratteristica principale degli eroi della Beat generation ormai la conoscono tutti; ciò che li legava era l’essere costretti a vivere in una società di massa nella quale non riuscivano a credere, che ritenevano incapace di rispondere alle loro domande, che spesso sfuggivano creandosi una società autonoma e vivendo in piccole bande più o meno segrete secondo un codice primordiale, basato sull’inviolabilità dell’amicizia. I personaggi de I sotterranei compiono, uno dietro l’altro, tutti i gesti che i genitori darebbero la vita per non vedere compiere ai loro figli. Vivono come vagabondi, si ubriacano di alcol e di droga, sfogano la loro energia, la loro avidità di vita, la loro ansia, con una intensità spesso apparentemente senza ragione. Forse la frase che li rappresenta meglio l’ha inventata Jack Kerouac stesso: “Questo è beat, amare la vita fino a consumarla”. I critici superficiali hanno definito le loro corse affannose verso una meta poco definibile come una fuga; ma è chiaro che in realtà era soltanto una ricerca. Il dramma più disperato della Beat generation è stato quello di cercare una realtà trascendente in cui poter credere, tale da soppiantare la realtà terrena ormai superata dalla scienza moderna e in cui non possono credere più. Questi drogati, questi alcolizzati, questi edonisti, spesso appena adolescenti, erano in realtà dei mistici che lottavano contro le spiegazioni offerte loro dagli adulti ritenute inadeguate a colmare la spaccatura fra il mondo passato e il mondo futuro, per trovare una giustificazione alla loro vita di uomini e una ragione alla loro capacità intellettuale. È il loro misticismo a creare la grande differenza fra la Beat e la Lost generation, la Generazione perduta. Gli scrittori del primo dopoguerra come Dos Passos ed Hemingway erano scrittori di denuncia; quelli del secondo dopoguerra, nati in un mondo ormai denunciato, condannato a morte e in procinto di essere giustiziato, cercavano di ricostruire i pezzi di una realtà frantumata. Non ci sono riusciti, ma questa era la loro ragione d’essere. Mentre i campioni della Generazione perduta svelavano alle madri inorridite che spesso le cosiddette fanciulle al momento del matrimonio avevano avuto esperienze sessuali più cospicue di quelle materne, i campioni della Beat generation rivelavano gli aspetti più segreti della misteriosa vita di adolescenti sempre più lontani, sempre più sconosciuti ai genitori. A chi ancora si chiede che cosa è rimasto della Beat generation, c’è chi risponde con un sorriso: “La liberazione sessuale. La legalizzazione della marijuana. Il Trattato antinucleare. Il Movimento di liberazione della donna e quello degli omosessuali. La deposizione di un presidente”. Dove sono, oggi, questi poeti?


Ernest Hemingway I quarantanove racconti

Durante un’intervista Truman Capote ha detto: “Fra cento anni Hemingway – qualunque sia la mia opinione su di lui – sarà ricordato, ma per i racconti, non per i romanzi”. I racconti di Mr Papa, come si faceva chiamare Ernest Hemingway, sono così drammatici, tremanti di umanità, struggenti nella semplicità dello stile da suggerire il pensiero che corrispondano nella sua bibliografia a veri e propri gioielli: alludo per esempio a Le nevi del Kilimangiaro (The Snows of Kilimanjaro), e a La breve vita felice di Francis Macomber (The Short Happy Life of Francis Macomber). Raccolti ne I quarantanove racconti (The First Forty-nine Stories), sono entrambi stati scritti nella primavera del 1936: il primo è uscito in agosto su “Esquire”, il secondo in settembre su “Cosmopolitan”. Tutti e due sono nati da esperienze da lui realmente vissute. Le nevi del Kilimangiaro ha preso spunto da un attacco di infezione amebica che lo aveva colpito durante un safari; Hemingway aveva continuato a cacciare, un giorno sì e uno no, finché si era aggravato al punto da far ritenere indispensabile una vera cura. Il 16 gennaio 1936 un aeroplano a due posti era venuto a prenderlo e lo aveva condotto in una clinica a Nairobi, sorvolando il Kilimangiaro. La breve vita felice di Francis Macomber, invece, nasce da un inseguimento di un leone ruggente ma invisibile in un campo coperto di cespugli. Il tema fondamentale di entrambi i racconti è la morte. Non è strano che durante la degenza nell’ospedale di Nairobi, con la testa dolente e ronzante, Hemingway sia stato dominato dal pensiero di che cosa sia la morte per uno scrittore che non abbia ancora compiuto la sua opera fino in fondo. E d’altra parte, da quel giorno a Fossalta, quando durante il suo servizio in guerra non ancora diciannovenne era stato investito dalla morte con tale violenza da credere per un momento di non essere più vivo, questa era rimasta per Hemingway la brutta iena puzzolente che disturba safari e belve, amore e avventura, cielo e montagne. C’è una sua lettera dalla quale risulta lo sviluppo del suo, come dire, rapporto con la morte: “Prima paura della morte, poi interesse e curiosità per la morte, poi rispetto per la morte (il recarla e il riceverla), infine il disprezzo, e l’estrema antipatia per la morte”. Non è strano; tanto più che come tutti i veri anarchici e i veri nichilisti, Hemingway era innamorato della vita e sperava in essa con l’entusiasmo di un ragazzo. Ma della vita lo attirava il pericolo: la sua esistenza era un’eterna partita di caccia, un eterno safari dove le cose del mondo sono la selvaggina e dove la morte sovrasta in agguato. Il suo corpo, che recava le tracce di tante ferite – la frattura del naso o la vista compromessa da ragazzo in un incidente automobilistico che quasi gli era costato un braccio e in uno motociclistico, il cui ricordo era ancora visibile sulla fronte, l’incidente di caccia nel Veneto che gli aveva procurato un’erisipela gravissima qualche anno prima, per non parlare degli orribili ricordi lasciatigli al ginocchio e alla caviglia dalla guerra – era il documento più valido del suo atteggiamento di fronte alla vita. Ecco perché la protagonista segreta di tutti i suoi libri è la morte. Nella sua raccolta I quarantanove racconti c’è anche quello che è considerato il capolavoro di Hemingway, Il grande fiume dai due cuori (Big Two-Hearted River). In una biografia di Truman Capote a cura di Lawrence Grobel è curioso leggere come Capote stesso, di cui è nota l’antipatia nei confronti di Hemingway, abbia risposto con difficoltà quando gli è stato chiesto un parere su questo racconto. “Domanda: ‘Secondo te Il grande fiume dai due cuori di Hemingway è il più bel racconto americano?’. Risposta: ‘(risata) Deve esserci qualcosa che non va nel tuo cervello’. Domanda: ‘L’affermazione è stata attribuita a te’. Risposta: ‘Ho detto che Hemingway ha scritto una decina di bellissimi racconti e Il grande fiume dai due cuori era uno di questi... Non credo a nulla fatto da Hemingway che sia il meglio di nulla. Era un brutto tipo’.” Per capire che tipo era in realtà Hemingway credo non ci sia modo migliore che leggere i suoi libri.


LIBERTÀ SESSUALE


Henry Miller Tropico del Cancro

Il molto frainteso Tropico del Cancro (Tropic of Cancer ), pubblicato nel 1934 a Parigi, incomincia più o meno così: “Sono senza denaro, senza risorse, senza speranze. Sono l’uomo più felice del mondo. Un anno fa, sei mesi fa, pensavo di essere un artista. Ora non lo penso più, lo sono. Tutto ciò che era letteratura mi è caduto di dosso. ... Io canterò per voi, un po’ stonato forse, ma canterò”. Come dice Anaïs Nin nella prefazione al libro, in Tropico del Cancro c’è amarezza. “Ma c’è anche una incontenibile ricchezza, una folle gaiezza, una verve, un gusto, a volte quasi un delirio, una continua oscillazione fra gli estremi... Le umiliazioni e le sconfitte, descritte con onestà primitiva, non si concludono nella frustrazione, nella disperazione o nella futilità, ma in un’estetica, divorante avidità per la vita.” Questo libro è il racconto autobiografico delle imprese parigine dell’autore e dei suoi amici nel 1930, e allo stesso modo nei suoi altri romanzi, sembra proprio che il tema fondamentale della sua poetica sia stato il suo straripante e incontrollabile amore per l’esistenza. Di cui amava tutto, il bello e il brutto, il sordido e il meraviglioso, in un’aderenza senza riserve a quel flusso vitale che secondo lui era l’unica realtà valida dell’uomo. La sua anarchia, il suo nichilismo, la brutalità di certe descrizioni hanno creato infiniti equivoci nella definizione della sua poetica: eppure per lui quella brutalità era un’esaltazione della realtà; quel nichilismo non si basava sul pessimismo né sulla sfiducia in possibilità migliori; quell’anarchia non era la negazione ma l’accettazione della natura umana contro le sovrastrutture di uomini asserviti a fini privi di vero significato. Come la sua gioia di vivere tradotta in narrativa sia stata scambiata per pornografia e oscenità resterà forse uno dei grossi equivoci della storia letteraria: se è vero che pornografia significa “servirsi di concetti e di immagini per suscitare desideri carnali”, sembra curioso che venissero considerate pornografiche le sue esaltate descrizioni degli orrori fisici più segreti. Questa denuncia brutale del corpo reale giungeva in una civiltà fasulla e arbitraria (dove pareva che gli uomini avessero perduto la capacità di vivere e di comunicare e dove il condizionamento del pensiero aveva raggiunto livelli grotteschi) come un flusso di sangue vitale. Henry Miller ha sempre parlato di sesso non per ragioni di lucro ma per esprimere il suo mondo poetico: “La ragione per cui ho parlato tanto del perverso, del brutto, dell’immorale e del crudele è che volevo si sapesse quanto importanti siano queste cose: importanti almeno quanto il bene. In realtà non ho fatto che riprendere l’idea dell’accettazione sostenuta da Walt Whitman”. Se l’aspetto critico e intellettualizzato di Henry Miller è rivelato solo nelle sue opere di saggistica e l’aspetto viscerale e poetico è tipico di tutte le sue opere narrative, il suo amore per la vita e per il mondo permea tutti i suoi libri. Per stabilire la differenza tra oscenità e pornografia Henry Miller ha scritto un saggio, ammettendo di essere stato qualche volta osceno ma negando di essere mai stato un pornografo. I critici non erano d’accordo con lui su questo punto: Tropico del Cancro, coi suoi apocalittici quindici capitoli aneddotici collegati tra loro da metafore e dal flusso incalzante delle descrizioni, è stato proibito negli Stati Uniti fino al 1964. A dire il vero, era stato pubblicato il 24 giugno 1961 dalla Grove Press e se ne erano vendute settantottomila copie in una settimana (e un milione di copie nell’edizione tascabile in un anno) nonostante il libro avesse già ventisette anni di vita, ma parecchi librai sono stati arrestati per averlo venduto e sono incominciati i processi contro l’editore americano. Centonovantotto scrittori americani hanno firmato una dichiarazione per sostenere Miller nei processi, da Saul Bellow a John Dos Passos, da Lillian Hellman ad Alfred Kazin, da Norman Mailer a Bernard Malamud, da William Styron a Edmund Wilson. Pensare che Henry Miller aveva dovuto riscrivere Tropico del Cancro tre volte per compiacere l’editore Jack Kahane, fondatore della Obelisk Press di Parigi, riducendolo a un terzo della sua mole originaria. E che a pagarne le spese di pubblicazione era stata Anaïs Nin.


Anaïs Nin Henry & June

In tutti i suoi libri, Anaïs Nin è straordinaria nella capacità di far passare ogni cosa attraverso il suo sguardo di donna. L’interpretazione della donna amante come una fusione di madre e marito, poi, è caratteristica di quante non si siano rassegnate alla posizione tradizionale della ménagère (e che la Nin non sia mai stata una ménagère credo sia un dato acquisito). Figlia del celebre pianista Joaquin Nin e della cantante danese Rosa Culmell, Anaïs viveva lussuosamente scrivendo romanzi molto audaci, poetici e in parte autobiografici. Le pagine più belle dei suoi libri sono sempre state quelle in cui si autoritrae. Checché ne dicano i critici, solo una donna può descrivere certe vibrazioni psicologiche perché solo una donna le conosce. Queste vibrazioni femminili sono descritte soprattutto nel suo colossale Diario, dove rivela la crisi nata dalla separazione dei genitori quando aveva undici anni. Questo Diario, che Anaïs stessa ha definito la sua droga e il suo vizio, in Italia è stato pubblicato in sei volumi solo per la parte che ricopre gli anni dal 1931 al 1966. Ma la scrittrice ha continuato a scriverlo fino alla morte, nel 1977. I brani più interessanti sono quelli scritti tra la fine del 1931 e tutto il 1932, quando la scrittrice ha incontrato Henry Miller e la moglie June Smith a Parigi e ha vissuto una burrascosa relazione erotica con entrambi. Questi brani erano stati inizialmente tagliati dal Diario ufficiale di Anaïs Nin, per essere pubblicati in Italia da Bompiani solo nel 1986 con il titolo Henry & June. Descrivere le pulsioni e gli atti sessuali con naturalezza e precisione, senza compiacenze e senza spacconate, è tra le ambizioni più alte della scrittrice; in queste pagine traboccanti di felicità sessuale e di angosce esistenziali, Anaïs attribuisce a Henry e a June la sua vera iniziazione erotica; nonostante gli otto anni di matrimonio gentile e poetico con il banchiere innamorato Hugh Parker Guiler. Davanti a June, che faceva l’entraîneuse in una sala da ballo, sia Anaïs che Henry perdevano ogni resistenza. Anaïs le regalava orecchini di corallo, anelli di turchese, vestiti e mantelli che la maliarda fingeva di desiderare “per ricordarsi di lei”; e denaro, che June si faceva dare da lei dicendole che ne aveva bisogno per Henry e che invece usava per comprare profumo a una sua amante. Di June Anaïs rivela tutto quello che ha torturato Miller: la civetteria e la bugiarderia, il fascino e la durezza, l’imprevedibilità e la crudeltà. Quello tra Anaïs Nin, Henry Miller e June Smith è stato di sicuro il più celebre e ribaldo triangolo amoroso della storia letteraria americana. Giorno per giorno la Nin ha confessato su questo Diario le tensioni, le ansie, le incertezze che hanno travolto lei, bella, inquieta e ingenua non ancora trentenne cattolica, quando ha incontrato il prorompente ribelle ipersessuale diventato poi il suo pigmalione erotico. Per qualche tempo Anaïs resta aggrappata al marito, poi se ne stacca gradualmente mentre penetra sempre più a fondo nella vita dei due nuovi amici; finché i tradimenti di Henry Miller le fanno dire che “non lo vuole come marito” e che non lascerebbe quest’ultimo per lui. Quando June parte per New York, i due amanti si accorgono di essere ossessionati dalla sua figura e vivono in una specie di incubo. È inevitabile che il rientro a Parigi di June segni la fine di questo triangolo. Anaïs racconta il ritorno di June con la frase “e così Henry verrà oggi pomeriggio, e domani io uscirò con June”. Interrotta la relazione sessuale con entrambi, Anaïs Nin scrive sul diario il 23 luglio di quel tempestoso 1932: “Henry è destinato a far parte della mia esistenza per molti anni, anche se è stato il mio amante solo per pochi mesi”.


Edith Wharton L’età dell’innocenza

Tipica scrittrice genteel, è stata la prima donna, nel 1923, a ricevere una laurea ad honorem dall’Università di Yale e, nel 1921, il Premio Pulitzer per il romanzo L’età dell’innocenza (The Age of Innocence), uscito nel 1920; è stata amica, discepola e in parte imitatrice di Henry James, idolatrata da Sinclair Lewis che le ha dedicato nel 1922 il suo famoso Babbitt, e colpevole di non aver capito Francis Scott Fitzgerald, che lei stessa nel diario ha definito awful, orribile, a causa dell’amore dello scrittore per l’alcol; ha ricevuto la Legion d’Onore per i suoi meriti durante la Prima guerra mondiale, e ha legato indissolubilmente il suo nome a personaggi delineati alla perfezione, a uno stile limpido e preciso, a uno humour instancabile, a descrizioni preziose in tempi che hanno preceduto la fotografia e il cinema, dove tutto è così fastoso e succulento, elegante e raffinato da far sembrare barbariche le cene della nostra borghesia contemporanea più o meno nostalgica di questi tempi sommersi. È stata una grande ritrattista del suo tempo e ha descritto in modo magistrale la società borghese e aristocratica americana di New York della quale faceva parte per nascita. L’età dell’innocenza è un romanzo ambientato nei salotti newyorkesi fin de siècle ed è stato ridotto in un film diretto da Martin Scorsese con l’interpretazione di Michelle Pfeiffer, Daniel Day-Lewis, Winona Ryder e Geraldine Chaplin. È la storia di Newland, un giovane avvocato che si innamora dell’anticonformista Ellen, ma decide di non sottrarsi alla promessa di matrimonio fatta in precedenza a May. Edith Wharton non aveva fatto studi regolari perché alla fine dell’Ottocento erano più o meno preclusi alle donne, ma le sue qualità mondane erano a dir poco eccezionali. Nata nel 1862, un’educazione ricevuta da precettori e istitutrici e rivolta alla cultura europea, era una esperta arredatrice e pur se autodidatta una profonda conoscitrice d’arte. A ventitré anni ha sposato un bostoniano, pare senza mai avere rapporti sessuali, il che ci spiegherebbe Estate (Summer), il libretto quasi pornografico che la Wharton ha scritto a cinquantacinque anni supervietato perché si diceva che rasentasse l’incesto della scrittrice supervittoriana con il padre. Credo che Francis Scott Fitzgerald, da lei sbeffeggiato per il suo parlare di amore libero, si sarebbe divertito un sacco se non a sentire, per lo meno a leggere l’incontro tra questa signorina un po’ noiosa e il padre. In questo libro, nel bilancio dell’opera della Wharton, a essere innovatore è l’ambiente: come in Ethan Frome (1911), l’autrice si è allontanata dai personaggi del jet set che ha descritto con drammatica poesia nella maggior parte dei suoi romanzi, e ha ritratto la Nuova Inghilterra rurale, conosciuta all’inizio del secolo quando vi aveva vissuto col marito in una grande casa di campagna dove andava a trovarla Henry James, che lei accompagnava in automobile a visitare i dintorni. La Wharton aveva scritto questo libretto di sorprendente vivacità pornografica che descriveva appunto un incesto consumato molto avanti negli anni. È un’opera che la scrittrice ha etichettato come “impubblicabile”, ed è stata inclusa solo successivamente in appendice a una delle sue biografie o forse a una raccolta di racconti. La scrittrice si è comunque sempre svelata capace di passioni e di turbamenti un po’ in anticipo sui tempi. Ha cominciato a scrivere quando era convinta che il suo matrimonio non fosse ben assortito, su consiglio di uno specialista di nevrosi femminili, e a trentasette anni ha pubblicato il suo primo libro di narrativa, compensando la “solitudine morale” della vita coniugale con la creazione di un mondo di sua immaginazione. Si può dire che da allora Edith Wharton non ha mai smesso di scrivere.


Philip Roth Lamento di Portnoy

A differenza di Saul Bellow, Philip Roth, Premio Pulitzer per Pastorale americana (American Pastoral), ha giocato spesso sulle sue tradizioni ebree per conquistare i lettori. Nella sua autobiografia I fatti: autobiografia di un romanziere (The Facts. A Novelist’s Autobiography ), c’è un passo in cui l’autore narra di una tavola rotonda alla quale è stato invitato nel 1962 dall’Università Yeshiva di New York con Ralph Ellison e Pietro Di Donato per parlare del suo romanzo Addio, Columbus (Goodbye, Columbus). Roth afferma che quando si è presentato alla tavola rotonda si considerava “una autorità nella vita quotidiana ebrea, con una tendenza all’autosatira e alla commedia iperbolica” e non si aspettava di essere aggredito dal pubblico dell’università, che alla fine del suo intervento gli ha chiesto: “Signor Roth, avrebbe scritto gli stessi racconti che ha scritto se avesse vissuto nella Germania nazista?”; una domanda che, dice Philip Roth, “ricomparve vent’anni dopo ne Lo scrittore fantasma (The Ghost Writer) del 1979 rivolta a Nathan Zuckerman, il protagonista, dal giudice Leopold Wapter”. La domanda ha scatenato un pandemonio durato mezz’ora, finché Roth è letteralmente fuggito gridando, sono parole sue: “Lasciatemi passare, me ne vado” mentre qualcuno gli agitava un pugno in faccia urlando: “Lei è cresciuto in mezzo alla letteratura antisemita”. Se questa è stata la reazione della comunità ebraica a un libro blando come Addio, Columbus è facile immaginare qual è stata la reazione alla comparsa di Lamento di Portnoy (Portnoy’s Complaint ) nel 1969, il terzo romanzo e quarto libro di Philip Roth, che consiste in un monologo preparatorio a una terapia di psicoanalisi pronunciato dal trentatreenne Alexander Portnoy, uomo affermato professionalmente che lotta per liberarsi dal dispotismo tradizionale dei genitori ebrei. È una lotta che l’alter ego di Philip Roth conduce con una maestria insuperata nell’uso dell’idioma letterario ebraico e si svolge in pagine bizzarre, inflazionate, viscerali, profane ed enormemente buffe, che collocano il libro tra i capolavori di scrittori ebrei americani come Saul Bellow, Bernard Malamud, Jerome David Salinger, Joseph Heller, Allen Ginsberg, e l’elenco potrebbe continuare. Il dispotismo dal quale Alex cerca di liberarsi sul lettino dello psicoanalista è un dispotismo fatto di troppo amore, quello di una madre iperprotettiva e castrante e quello di un padre esempio di onestà e di laboriosità. Alexander dice al dottor Spielvogel: “Un uomo ebreo con i genitori in vita è per la metà del tempo un infante imbelle! ... Mi faccia uscire dal mio ruolo di figlio represso in una barzelletta sugli ebrei!”. Questo avviene mentre Alex è già un uomo; quando era ragazzo era ossessionato dal sesso e lo risolveva chiuso a chiave nel bagno masturbandosi angosciato dall’attesa che qualcuno bussasse alla porta e chiedesse: “Che cosa fai lì dentro?”. In pagine difficili da citare perché rasentano la pornografia Alexander riversa le sue ansie sessuali sull’analista chiedendogli: “Perché mai dovrei vergognarmi tanto di essere, come lo si chiamava onorevolmente anni fa, uno scapolo? In fondo si riduce tutto a questo; celibato. Qual è il delitto? La libertà sessuale?”. Che Roth/Alexander non considera la libertà sessuale un delitto lo dimostra con una serie di episodi che lo conducono dall’iniziazione eterosessuale alla virilità. Una virilità che non gli crea mai problemi con varie ragazze, alle quali invece di assegnare nomi comuni assegna attributi simbolici, per esempio “la scimmia”. Un sunto particolareggiato guasterebbe la lettura di questo monologo indiavolato, che forse proprio grazie alle polemiche ha fatto guadagnare un milione di dollari all’autore con la sola prima edizione offrendo in cambio pagine intense e incisive, scene comiche e satiriche, linguaggio e immagini incredibilmente audaci per quel tempo; e insieme una fetta indimenticabile di vita americana contemporanea.


David Leavitt La lingua perduta delle gru

David Leavitt è uno dei più acuti osservatori degli anni Ottanta, sia dal punto di vista dell’esame sociologico sia da quello della critica letteraria. In un saggio pubblicato nel 1985 sulla rivista “Esquire” col titolo The New Lost Generation David Leavitt ha descritto la sua infanzia e la sua adolescenza e la società nella quale è cresciuto: una società delusa, sfiduciata, dilaniata dai divorzi e dalla frustrazione, proprio come quella in cui si erano trovati a vivere i beat del dopoguerra. “I ragazzi di questa generazione” dice Leavitt “hanno reagito in modo opposto ai beat”: mentre i giovani degli anni Cinquanta e Sessanta volevano e cercavano soprattutto la libertà, quelli della generazione di Leavitt hanno cercato e cercano soltanto la sicurezza, la stabilità, la solidità. Per loro i tempi della rivoluzione sessuale sono lontani e superati; conquistata la libertà sessuale ora vogliono usarla in una vita di coppia, magari omosessuale, che li difenda dalla fragilità e dall’inconsistenza del volubile passare da un’esperienza sessuale all’altra. In contrasto coi cosiddetti beat gli yuppie vogliono vivere in belle case ordinate, fare carriera, guadagnare denaro, avere stabilità. Da ragazzo Leavitt ha vissuto agiatamente con la famiglia a Palo Alto, in California, nel campus di Stanford, dove il padre insegnava all’università; il fratello e la sorella appartenevano alla generazione precedente, quella che voleva viaggiare, esplorare il mondo, essere libera: quella dei figli dei fiori. “Sono stato un figlio dei fiori anch’io quando avevo nove anni” ha detto Leavitt, che è nato a Pittsburgh nel 1961, “ma quando ne ho avuti diciassette era tutto finito e la vita culturale non esisteva più.” Leavitt è andato a cercare questa vita culturale a New York e a vent’anni aveva già pubblicato racconti sul “New Yorker”, fino a quando nel 1984 ha pubblicato Ballo di famiglia (Family Dancing), una raccolta di racconti che in pochi giorni ha venduto quindicimila copie. Nel 1986 è uscito il suo primo romanzo, La lingua perduta delle gru (The Lost Language of Cranes), che prende il titolo da un caso clinico di un bambino che trascorre la sua esistenza nell’imitare i movimenti e i rumori delle gru usate nel cantiere edile vicino al casamento popolare nel quale abita. Come ho scritto anche nell’introduzione al romanzo, Leavitt commenta questo caso con una delle frasi più belle e significative di tutto il libro: “Ciascuno, a suo modo, trova ciò che deve amare, e lo ama; la finestra diventa uno specchio; qualunque sia la cosa che amiamo, è quello che noi siamo”. Questo fatto è solo un intermezzo alla drammatica storia di una famiglia disintegrata dall’omosessualità. La lingua perduta delle gru, infatti, è un libro sul coming out di Philip e la reazione che questo provoca in sua madre Rose e suo padre Owen, omosessuale in clandestinità. Proprio i problemi legati all’omosessualità hanno fatto da centro a quasi tutte le sue opere. Leavitt si considera uno scrittore molto tradizionale, lontano dagli sperimentalismi. La sua scrittrice preferita è Grace Paley. Forse la Paley affascina Leavitt per le sue ricerche linguistiche che fanno scoprire parole antiche in ambienti inaspettati, con un linguaggio agile e colloquiale. L’altra scrittrice alla quale si rifà Leavitt è George Eliot col suo romanzo Middlemarch, che gli ha ispirato lo stile e la tecnica di questo La lingua perduta delle gru. Leavitt ha detto: “Avevo in mente di scrivere un romanzo sull’America contemporanea con uno stile molto antiquato, molto britannico. Non so se leggendo il romanzo qualcuno si accorgerà di quello che ho tentato di fare”. Quel che è certo è che questo dramma familiare è narrato con uno stile dimesso, comunque Leavitt lo voglia definire, che è sempre stato la sua caratteristica.


Erica Jong Paura di volare

“Mi chiamano la porno Erica, la bella fica, è una reazione che non mi sorprende perché l’ho avuta per tanto tempo in tutto il mondo. Quello che mi scandalizza è che niente sia cambiato per la donna. Per vent’anni si sono scritti articoli che avrebbero dovuto cambiare l’atteggiamento verso le donne, ma non è successo niente. La gente ha paura della sessualità femminile e reagisce gridando contro la pornografia. I critici si sentono a loro agio con la letteratura di enigmi postmoderni, ma si sentono a disagio di fronte alla vita reale e soprattutto alla vita reale vista da un’angolazione femminile” mi ha detto Erica Jong un giorno in cui mi parlava delle reazioni al suo bestseller del 1973 Paura di volare (Fear of Flying), il romanzo che rivela gli sforzi delle donne per realizzare e affermare la loro identità. Polemico, confessionale, audace, scanzonato, pieno di riferimenti letterari, con capitoli scioccanti sugli amori della protagonista Isadora Wing (assai ricalcata sull’autrice), per esempio a Firenze con un venditore di souvenir di cuoio davanti alla Galleria degli Uffizi o a New York, Paura di volare è nato dalla questione della liberazione sessuale, incalzante negli anni Settanta, e ha segnato una rottura nella letteratura femminile esistente. Coi suoi cinque milioni di copie vendute in pochi mesi ha decretato la solidarietà delle donne giovani e vecchie, che si sono riconosciute nelle ansie liberatorie della protagonista Isadora Wing. All’uscita del libro, Erica Jong aveva poco più di trent’anni e per tre anni aveva insegnato al City College di New York, tenendo corsi su Chaucer, Alexander Pope e William Shakespeare. Forse da quest’esperienza accademica le è rimasta l’abitudine alle citazioni che alcuni critici sbrigativi hanno definito liceali: le è rimasta anche una vaga nostalgia per l’erudizione della quale si è liberata scrivendo Fanny, il romanzo storico che ha dedicato alla figlia Molly. Di precorritore, nei suoi corsi universitari, i suoi ex studenti ricordano l’abitudine della Jong di leggere forte in classe passi erotici, frequenti in Chaucer, e la sua partecipazione alle assemblee studentesche che trattavano della liberazione sessuale. Chi ha letto i suoi libri senza pregiudizi ha accettato il suo metodo di ridefinire gli stereotipi femminili capovolgendo i miti della sessualità umana; e il suo linguaggio, a volte così spinto in scene così audaci da sembrare parodie della pornografia contemporanea, ha raggiunto limiti impensabili, ma sempre ingentiliti da una fantasia tenera; sto pensando per esempio alla frase famosa: “Quando vi avvicinate, le cerniere lampo cadono come petali di rose” o, parlando di Alexander Pope: “Come la sua schiena è deforme così la sua appendice maschile deve essere gotica e strana”. Nel lodare Erica sul “New York Times” Henry Miller ha detto che Paura di volare era un “Tropico del Cancro al femminile” e John Updike ha scritto sul “New Yorker”: “Si sente che Paura di volare è vincente. Ha classe e sapore, intelligenza e mordente”. Ma il romanzo descrive anche, attraverso l’alter ego di Erica, il riconoscimento della sua nascita ebraica, un fatto di cui la scrittrice ha preso coscienza mentre viveva in Germania col marito cinese: prima non sapeva lo yiddish e non conosceva l’orrore della campagna antiebraica, mentre allora ha scoperto libri che rivelano la verità sullo sterminio degli ebrei. Così questa figlia di artisti (la madre di Erica disegnava oggetti di ceramica, il nonno era un pittore che la rimproverava perché non scriveva come Ivan Sergeevič Turgenev), laureata nel 1963 al Barnard College della Columbia University, insegnante di inglese al City College di New York, ha cercato nella psicoanalisi di controllare il suo risentimento per essere un’ebrea in Germania e per essere una donna in un mondo dominato dagli uomini; propositi che nei libri hanno preso forme troppo spesso considerate solo in base alla loro sensazionale prepotenza, basta pensare alla scena in cui l’amante, alter ego del marito “cattivo”, le addenta un tampax intriso di sangue. Come ha detto lei stessa un giorno in una vecchia intervista su “Playboy”, con Paura di volare ha voluto “scrivere un romanzo satirico su una donna in cerca della sua identità”: una ricerca che in molte pagine si svolge in chiave picaresca.


James Baldwin La stanza di Giovanni

“Un nero che si infuria di essere nero tanto vale che si ammazzi.” Così James Baldwin, il più dolce e meno aggressivo degli scrittori afroamericani, diceva dei tanti autori neri che si erano lasciati prendere dalla rabbia contro i bianchi, come per esempio Richard Wright. Ma nonostante il loro taglio narrativo fosse tutto diverso, è stato lo stesso James Baldwin a cercare Richard Wright, perché ritrovava nei personaggi e nelle situazioni da lui descritti elementi che aveva conosciuto di persona. “Credo che fosse orgoglioso di me” ha detto una volta Richard Wright; e Baldwin ha ribattuto: “Credo che mi trovasse molto divertente, è sempre stato molto tenero, molto amico”. Questo non si può certo dire per il leader delle Pantere Nere Eldridge Cleaver, che ha attaccato Baldwin furiosamente in Anima in ghiaccio (Soul on Ice) senza averlo mai conosciuto di persona. Forse lo ha attaccato perché in un’intervista James Baldwin aveva detto che non esistevano più militanti neri perché erano stati uccisi tutti, o forse perché in un’altra occasione aveva detto che la cosa più difficile della sua vita era stato il fatto di essere nato nero e “di essere stato costretto perciò a compiere una specie di armistizio con questa realtà”. E, dentro o fuori da questo armistizio, Baldwin ha continuato a scrivere romanzi tra il sentimentale e il sensazionale. Si era affacciato sulla scena letteraria a ventun anni, subito dopo la guerra, scrivendo sulle riviste dell’intellighenzia bianca. La sua idea era di scrivere storie di neri come un bianco, e si era conquistato la stima dei grossi nomi dell’establishment letterario di allora: i critici Lionel Trilling, Randall Jarrell, Irving Howe; con la sua celebre umiltà diceva che da loro aveva imparato molto. Nel 1953 James Baldwin ha pubblicato Gridalo forte (Go Tell It on the Mountain ), diventato un bestseller; nel 1955 il saggio Mio padre doveva essere bellissimo (Notes of a Native Son), ripubblicato in Italia nel 2007 con il titolo Appunti americani, e nel 1956 La stanza di Giovanni (Giovanni’s Room ), forse il più memorabile dei suoi libri: una storia precorritrice di intrighi omosessuali, in cui David, un americano che abita a Parigi, non sa scegliere tra l’amore di Hellie, americana espatriata con lui, e quello di Giovanni, un giovane italiano. Baldwin aveva voluto scrivere un libro dove affrontava, invece del tema della minoranza nera, o ebraica, o musulmana, o euroasiatica, quello di una minoranza sessuale. È negli episodi tra uomini che in tutti i suoi romanzi emerge la sua vena di scrittore di primissima qualità. Sono scene cariche di intensità e di tensione che si fanno rimpiangere quando affronta personaggi femminili, che sfiorano lo stereotipo. Lo stesso si può dire per le descrizioni di vita familiare: sembra un’oleografia, come se si muovesse per sentito dire. Quando torna a parlare delle cose che conosce, si muove magistralmente. Da La stanza di Giovanni in poi, l’autore ha continuato a scrivere un libro dopo l’altro alternando romanzi e saggi e presto drammi e commedie. I suoi saggi sono molto aggiornati ai tempi; i suoi romanzi a volte, invece, sembrano intrisi di parrocchialismo. Forse è a causa della scomunica che McCarthy aveva sentenziato su autori come Ernest Hemingway e Sherwood Anderson se Baldwin ha spesso rappresentato uomini neri intenti a essere virtuosi; voleva mostrare una nuova via al romanzo nero, di accostamento umano: sanguigno, ma non polemico. Purtroppo nelle traduzioni italiane sono state inevitabilmente perdute la lingua e la sintassi che caratterizzano la scrittura nera, preziosi esempi di estrema abilità, senza un minuto di lentezza o di stanchezza. Le influenze da lui riconosciute sono “la Bibbia, la retorica della Chiesa, qualcosa di ironico e violento e continuamente sommesso nella parlata nera e qualcosa dell’amore di Charles Dickens per la bravura”. Dell’enorme influenza esercitata su di lui da Ellison, Baldwin ha parlato in questi termini: “Ellison è il primo romanziere nero da me letto che abbia utilizzato brillantemente nel linguaggio un po’ dell’ambiguità e dell’ironia della vita nera”. E l’ambiguità e l’ironia sono ben presenti ne La stanza di Giovanni dove il fine, a differenza del sistema sociale americano dell’epoca, non è moraleggiante e il lettore resta a chiedersi cosa deve fare un uomo in quella situazione.


John Hawkes Seconda pelle

John Hawkes è tutto tranne che uno scrittore facile: a volte sembra che le storie dei suoi romanzi potrebbero essere tutte diverse, perché è chiaro che non gliene importa niente della trama. John Hawkes è uno scrittore surrealista che da una prima fase puramente surrealista è passato a una fase gotica (forse a lui sarebbe piaciuto che si dicesse romanzo suspense). La narrativa di Hawkes respinge le convenzioni del romanzo tradizionale e, a misura che si svolgono, i suoi libri diventano psicologicamente sempre più complicati e tesi fino a diventare allucinati. Lui stesso in un’intervista ha detto: “Ho cominciato a scrivere con la convinzione che i veri nemici del romanzo erano la trama, il personaggio, l’ambiente e il tema”. In America è stato lanciato dal poeta e editore James Laughlin ed è considerato il capostipite della narrativa postmoderna (o metanarrativa, quella cara al nostro Italo Calvino), così definita dal critico Ihab Hassan. Hawkes ha sempre fatto il professore universitario di inglese e la sua vita ha avuto l’unico intermezzo di un’estate passata con una borsa di studio nell’isola Grenada delle Antille, che ha fatto da ambiente (si fa per dire) a Seconda pelle (Second Skin) del 1964, il suo quarto romanzo che racconta la storia, narrata in prima persona, di un ex marinaio chiamato Skipper, una storia non priva di rapporti incestuosi e omosessuali. Il protagonista, quasi sessantenne, grasso e calvo, vive in un’isola paradisiaca con la negra Catalina e il suo amante Sonny, ex dipendente di Skipper: non si sa chi dei due l’abbia resa madre. La vita sull’isola è intrisa di gioia e di amore e tutta tesa al futuro; mentre il passato di Skipper si è svolto su un’altra isola altrettanto immaginaria ma intrisa di orrore e tesa alla morte: il padre, la moglie e la figlia di Skipper sono morti suicidi e il genero è stato assassinato. L’orrore e la gioia della prima e della seconda vita sono trattati da Hawkes con grande stile, senza astrazioni e senza concessioni sentimentali ma con descrizioni liriche e un linguaggio e un’immaginazione tali da rendere accessibile un romanzo violentemente sperimentale, che non tiene conto delle unità di tempo e d’azione né delle leggi di causa e di effetto. Romanzo in cui la chiave consiste nel diluvio di passaggi poetici, nelle allitterazioni, nelle ricerche di linguaggio e nelle descrizioni erotiche. In un’intervista John Hawkes aveva detto: “In Seconda pelle ho voluto di proposito scrivere un romanzo che venisse considerato senza possibile dubbio un romanzo comico. Volevo esporre con chiarezza il punto centrale dei miei sforzi narrativi che di solito sono stati fraintesi”. E in un’altra intervista: “Ho sempre pensato che la mia narrativa, per quanto diabolica, sia comica ... ma non è mai stata considerata molto comica. Hanno detto che è costituita da visioni nere e oscene dell’orrore della vita e a volte l’hanno respinta, e a volte come tale l’hanno molto lodata”. Altrove aveva indicato in Djuna Barnes, Joseph Heller, Flannery O’Connor e Nathanael West altri narratori comici che descrivono un’estrema violenza. Diversi anni dopo Susan Sontag in una recensione ha definito John Hawkes “maestro di un linguaggio immensamente artistico” e ha messo l’accento sul suo virtuosismo stilistico, spinto al punto che “lo stile in realtà è la storia”; e Robert Coover, l’altro grande scrittore postmoderno, che ha celebrato i postmoderni e il ritiro di John Hawkes dalla Brown University dopo più di vent’anni di insegnamento in un convegno tenuto a Providence col titolo “Pratiche non verbalizzabili”, ha scritto per la fascetta dell’edizione italiana un delizioso commento che dice fra l’altro: “I primi anni Sessanta vedono la nascita di una nuova generazione di scrittori americani ... caratterizzati da un comune spirito iconoclasta e innovativo. Seconda pelle con la sua forza, la sua genialità e il bagliore della sua lingua divenne una specie di punto di riferimento per quella generazione, segnando l’inizio della tendenza che in seguito sarebbe stata definita postmodernismo o metaletteratura”.


Susan Sontag Note su “Camp” in Contro l’interpretazione

Contro l’interpretazione (Against Interpretation and Other Essays) è una collezione di saggi pubblicata nel 1966. Il più famoso è Note su “Camp”. Questo saggio è uscito nel 1964 su una rivista della ex avanguardia letteraria d’America e ha fatto diventare famosa dall’oggi al domani la giovane scrittrice, nata a New York nel 1933, reduce dal matrimonio con un sociologo e da un periodo di insegnamento all’Università di Harvard, presente a tutte le riunioni di intellettuali dove valesse la pena esserlo, leader della contestazione in grande voga in quegli anni sui quotidiani dell’establishment, già impegnata con la Sinistra secondo la moda del momento (lo sarebbe rimasta sempre, anche dopo aver più o meno inventato il termine quasi rivoluzionario “fascismo rosso”) e già amica dei futuri eroi della nuova cultura d’America parecchi anni prima che pubblicassero la loro “opera prima”. Il tema del saggio era popolare in quel momento in America più o meno come la Nuova Sinistra durante la guerra in Vietnam; eppure la Sontag è stata infastidita dalla scelta di inserire il suo studio nella raccolta Contro l’interpretazione: “Era soltanto uno di una quarantina di saggi che avevo pubblicato” diceva. I cinquantotto punti che lo costituiscono spiegano i vari aspetti della parola: dopo aver definito “Camp” “un modo estetico non in termini di bellezza, ma in termini di artificio e di stilizzazione”, dopo aver precisato che consiste essenzialmente in un gusto, un modo di guardare le cose, la Sontag ha proposto una carrellata storica per rintracciarne le origini, che possono risalire alla fine del XVII secolo (coi decori “preziosi” di Francia) e sicuramente alla fine del XVIII secolo (coi romanzi gotici, le cineserie, le rovine artificiali); e dopo aver suggerito che il gusto “Camp” non è necessariamente un gusto omosessuale pur costituendone gli omosessuali l’avanguardia, che il “Camp” si può confrontare alla Pop Art e si basa comunque sull’amore riposto in oggetti e in stili personali appariscenti, ha concluso che è la presenza di questo amore a fare la differenza tra il “Camp” snobistico e il kitsch volgare. Nonostante i suoi articoli, le sue recensioni, le sue introduzioni l’abbiano fatta diventare il campione della gioventù, del radicalismo, dello sperimentalismo, delle alterazioni della consapevolezza d’America e nonostante i titoli dei suoi saggi siano una specie di sommario degli scrittori, personaggi, problemi più scottanti e più in anticipo sui tempi nei quali i saggi sono stati scritti, anni dopo ha preferito essere considerata una scrittrice di narrativa, non di critica. Morta nel 2004, le sue idee, spesso in contrasto con le idee correnti, erano basate sul suo attivismo nelle cause dei diritti umani, che venivano divulgate sia dalla sua assidua presenza in tutte le città del mondo quando c’erano dei problemi politici sia dalla sua straordinaria abilità nel fare ritratti di personaggi controversi. In un’apparente contraddizione con questa sua attenzione per le tragedie del mondo, con la maturità la Sontag ha preferito vivere in una specie di isolamento, rifiutandosi agli intervistatori e sottraendosi al codice della pubblicità. “Le sole risposte interessanti sono quelle che distruggono le domande” ha fatto dire a uno dei suoi personaggi; e sicuramente lo diceva lei, negandosi comunque alle domande. In realtà in Italia non sono in molti a essersi interessati al suo saggio del “Camp” negli anni Sessanta: la sua grande popolarità da noi sarebbe arrivata qualche anno dopo, quando si è improvvisata regista nientemeno che di Luigi Pirandello. Da allora non c’è italiano che non l’abbia ammirata almeno una volta in qualche fotografia con la sua grande ciocca di capelli bianchi in mezzo a quelli neri, vestita con un gusto un po’ mascolinizzato e con l’aria di essere sempre più sicura di sé via via che il successo la accompagnava grazie anche all’efficacia delle sue massime; come Henry James diceva: “Non esiste una mia ultima parola su niente”.


Donald Barthelme Biancaneve

Confesso che ho sempre fatto molta fatica ad accettare l’assurdità logica sostenuta dal gruppo di scrittori definiti postmoderni, cioè basati sull’assurdo, dal primo di loro che era stato John Hawkes col suo The Cannibal del 1949 a John Barth col suo L’opera galleggiante (The Floating Opera) del 1956, a Thomas Pynchon col suo L’arcobaleno della gravità (Gravity’s Rainbow) del 1973, a Robert Coover col suo La festa di Gerald (Gerald’s Party ) del 1986, perché mi ero abituata ai cosiddetti minimalisti, che avevano reagito alle loro improbabilità con la drammatica esaltazione della minuta realtà quotidiana, come Raymond Carver col suo Cattedrale (Cathedral) del 1983 e Anne Tyler col suo Turista per caso (The Accidental Tourist) del 1985. Ma il mio scarso entusiasmo non giustificherebbe una mancanza di attenzione verso le loro opere. Tra loro viene normalmente inserito anche Donald Barthelme, già collaboratore regolare del settimanale “New Yorker” dove aveva pubblicato il suo primo racconto Biancaneve (Snow White), nel 1965 (uscito poi in forma di romanzo breve nel 1967): Barthelme aveva trasformato la fiaba classica di Biancaneve in una storia postmoderna, cioè basata sull’assurdo e sui temi della controcultura degli anni Sessanta. La Biancaneve di Barthelme è una donna che vive con sette uomini in una specie di libera comune popolata di personaggi più assurdi che reali. Come è intuibile, è molto diversa dalla Biancaneve di Walt Disney. La recensione della “New York Times Book Review” di Biancaneve diceva, come conclusione: “In una parola, è il completo libro pop” e quella di “Life”: “Biancaneve ha tutto, compreso i cut up di Burroughs, parole usate come dipinti, ribaldo commentario sociale, pazzi esperimenti estetici”. Il primo libro di Barthelme è stato Ritorna, dottor Caligari (Come back, Dr Caligari), una raccolta di quattordici racconti senza trama che hanno indicato già nel 1964 il suo gusto per una scrittura sempre sperimentale, definita da alcuni “pop” e da molti postmoderna per il suo modo tipico di oscillare tra l’immaginazione surrealista e l’espressione dell’assurdo. Chiave espressiva delle sue non-storie è la parodia: una parodia di tutto, dalle favole alla società, ma soprattutto del linguaggio dei media. Il suo terzo volume (quindici racconti) Atti innaturali, pratiche innominabili (Unspeakable Practices, Unnatural Acts) del 1968 presenta ritmi sconnessi, senza legami logici, e il quarto, Vita di città (City Life) del 1970 tratta i suoi quattordici racconti come “oggetti verbali” e conduce una parodia dello stile ottocentesco. È in questa raccolta che si trova il racconto La montagna di vetro (The Glass Mountain), che consiste in cento frasi numerate slegate l’una dall’altra. Non a torto per definire la sua tecnica si è parlato di frammenti che vogliono essere ribellioni metafisiche contro il caos e la follia che descrivono. Tecnica e stile non cambiano nel sesto volume di sedici racconti Tristezza (Sadness) del 1972 dove c’è la storia di un personaggio che invece di guidare una mandria di mucche guida un gruppo di belle ragazze, fermate da un drappello di gesuiti (Barthelme è nato cattolico) che subito cominciano a confessarle. Alcuni hanno definito Barthelme un “celebrante della non ragione, del caos, della distruzione inesorabile” e hanno detto che la sua ricerca più importante è consistita nell’uso di una lingua corrotta dalla pubblicità e dalla politica, la sua più felice realizzazione è stata quella di un assurdo che sembra realistico con un linguaggio apparentemente logico alla maniera di Samuel Beckett. E come scrittore dell’assurdo, come stilista, come innovatore linguistico si è conquistato il suo posto tra quanti considerano la narrativa un puro artificio nel quale descrivere personaggi e situazioni riconoscibili. Donald Barthelme, che ha avuto il suo momento di popolarità tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, si è dunque affermato come narratore sperimentale, consapevole delle proprie ricerche, antirealista, intento alla natura intellettualistica dell’arte.


Lillian Hellman Una donna incompiuta

Minuscola e dall’aspetto fragile, autrice di prosa e teatro, Lillian Hellman è stata in realtà un prototipo di donna tough, di donna dura all’americana, una specie di Humphrey Bogart al femminile: grande bevitrice e fumatrice, pronta a tutte le esperienze, energica nel successo come nella cattiva sorte. La sua commedia più famosa è Piccole volpi (The Little Foxes), interpretata da Elizabeth Taylor nel 1981 a Broadway, quarantadue anni dopo il debutto della pièce nel 1939 al quale sono seguite una riduzione cinematografica interpretata da Bette Davis nel 1941 e una riduzione operistica intitolata Regina con musica di Marc Blitzstein nel 1949. La commedia, ispirata (a quanto risulta dalle memorie dell’autrice) al comportamento della famiglia materna, ha mostrato per quattrocentodieci rappresentazioni consecutive la denuncia di egoismo e ipocrisia di una famiglia sudista quale Lillian Hellman aveva conosciuto nell’infanzia trascorsa a New Orleans, dove è nata nel 1905. A far diventare famosa Lillian Hellman non è stata tuttavia Piccole volpi ma la sua prima commedia, La calunnia (The Children’s Hour ), che nel 1934 è stata replicata seicentonovantuno volte a New York prima di cominciare una trionfale tournée in America. La pièce, di cui si sono avute due riduzioni cinematografiche, una nel 1936 con lo stesso titolo e una nel 1961 col titolo Quelle due, protagoniste Audrey Hepburn e Shirley MacLaine, ha gettato Lillian Hellman al centro di una colossale attenzione per la scabrosità dell’argomento: la storia di due direttrici scolastiche accusate di lesbismo, a torto, da un’allieva e dello scandalo che ne segue, culminato col suicidio di una delle due protagoniste. A suggerire alla scrittrice l’argomento, riprendendolo da un processo avvenuto in Scozia nell’Ottocento, è stato Dashiell Hammett, al quale Lillian Hellman è stata sentimentalmente legata dal 1932 al 1961. La vicinanza di Hammett l’aveva introdotta anche nel mondo del radicalismo politico: e l’attività radicale l’aveva portata a essere messa all’indice dall’industria di Hollywood. La morte di Dashiell Hammett prima, nel 1961, e quella di Dorothy Parker (alla quale era legata da una profonda amicizia), nel 1967, l’hanno condotta a ripiegarsi su se stessa e a diventare una memorialista: scrivendo le sue memorie ha incontrato lo stesso successo che aveva incontrato come commediografa e i suoi libri sono diventati bestseller come lo erano diventate le sue commedie. Una donna incompiuta (An Unfinished Woman ) nel 1970 ha vinto il National Book Award e contiene uno dei più importanti ritratti scritti finora di Dorothy Parker. Ai tempi di Una donna incompiuta il suo salotto di New York raccoglieva scrittori e artisti giovani e vecchi ma pur sempre famosi: Lillian Hellman faceva gli onori di casa in abiti lunghi molto chic, coi capelli biondi pettinati alla paggio e modi tra il tough e l’aggraziato. La scrittrice presentava tutti a tutti con ferma consapevolezza del suo ruolo di leader culturale e tutti parlavano dei suoi molti premi e delle sue lauree ad honorem. Il critico Pritchett, riferendosi a Una donna incompiuta, ha detto: “È stato il teatro a insegnarle a spezzare le memorie in brevi, forti scene e a presentare se stessa con notevole precisione”. “Stilista levigata”, “incalzante e meravigliosa da leggere”, “scrive con abilità e grazia”, “ha grande coraggio”, “scrive con sicurezza”, “poiché scrive sempre con candore le sue memorie risuonano di una fresca integrità”, “ha colto non solo i particolari ma lo spirito di due generazioni”: sono alcuni commenti su di lei scelti a caso tra innumerevoli. Da bambina si era ripromessa di diventare una letterata famosa: sembra che oltre a diventare una scrittrice famosa sia diventata anche una brava, bravissima scrittrice.


Paul Bowles Il tè nel deserto

Paul Bowles nel 1949 era ormai un compositore famoso, autore di numerose musiche da camera, due opere e innumerevoli colonne sonore: quell’anno la sua affermazione di scrittore con Il tè nel deserto (The Sheltering Sky) aveva colto tutti di sorpresa. L’autore non fece nulla per aiutarlo a diventare un successo commerciale, e il romanzo, distaccato e altero, è rimasto una gemma vagamente hemingwaiana per intenditori. Una seconda edizione del romanzo è stata presentata nel 1977, ma è solo nel 1990, con la riduzione cinematografica di Bernardo Bertolucci da nove premi Oscar, che Il tè nel deserto ha avuto un lancio leggendario. Paul Bowles aveva cominciato a scrivere poesie già mentre studiava musica. Qualcuna l’aveva addirittura pubblicata sulla rivista parigina d’avanguardia “Transition” e fatta vedere a Gertrude Stein. Ma, come lui stesso racconta nella sua autobiografia Senza mai fermarsi (Without Stopping) del 1972, alla Stein non erano riuscite congeniali. Bowles non ha mai smesso di scrivere romanzi e racconti; alcuni sono stati definiti da Gore Vidal “tra i migliori scritti da un americano... A parte Edgar Allan Poe, non derivano dalla solita tradizione angloamericana ma da quella di scrittori esotici come Paul Valéry, André Gide e naturalmente l’espatriata miss Gertrude Stein”. Non derivano neanche dalla tradizione del folklore messicano e magrebino pur essendone profondamente intrisi, radicati come sono nel mondo in cui Paul Bowles ha scelto di trascorrere la sua lunga vita. Convalescente da una febbre tifoide che lo ha trattenuto più di un mese a Parigi nell’ospedale americano di Neuilly, Bowles era salpato per Algeri a metà dicembre del 1932, stimolato dai racconti del Sahara che gli aveva fatto a Monte-Carlo il compositore americano George Antheil, amico di Virgil Thomson, altro musicista americano. L’anno prima era già stato in Marocco con Aaron Kopland, suo maestro e amico, su suggerimento di Gertrude Stein: la conoscenza di quel mondo aveva reso più seducenti le esortazioni di George Antheil. Bowles era rimasto nel deserto pochi mesi, ma le impressioni che ne aveva ricavato furono abbastanza dense per fare da sfondo al “romanzo della morte”, come lui stesso definiva Il tè nel deserto. Mentre scriveva le pagine del delirio del protagonista ritraendovi scene di quello vissuto in prima persona nell’ospedale a Neuilly, lo scrittore scoprì il majoun, una specie di marmellata di frutta secca, spezie e marijuana che gli esaltò l’immaginazione: “Mi fornì soluzioni del tutto diverse da quelle che avrei trovato senza usarlo” disse più tardi. Nel romanzo Bowles racconta il viaggio di tre americani nel Sahara; Kit e Port, moglie e marito, e George, loro amico. I tre sono destinati a dividersi. Pagina dopo pagina si alternano descrizioni di corpi verminosi e di latrine orribili, del cadavere di un neonato abbandonato sanguinolento in un angolo e di un coltello conficcato in un tavolo su uno scarafaggio, di uno scorpione che punge sulla nuca una ragazza addormentata e di penne di pollo tenute insieme da sangue rappreso; e le avventure passano da postriboli a passaporti rubati e venduti ai soldati della Legione Straniera, da avvelenamenti a febbri tifoidi o epidemie di meningite. Allo stesso modo di Lascia che accada (Let It Come Down) del 1952, Il tè nel deserto è un libro sanguigno e denso. Le descrizioni delle scene anche drammatiche sono chiare ma mai urtanti. Non sta in questo, comunque, il senso del libro. Quando lo ha scritto, Bowles conosceva bene gli esistenzialisti francesi, specialmente Albert Camus e Jean-Paul Sartre. I suoi viaggi irrefrenabili nel deserto, infatti, non sono stimolati da un interesse turistico ma dall’esigenza di ritrovare se stesso, cercando in un mondo ancestrale, ma non primitivo, quella civiltà che si andava disintegrando nel costume occidentale. Il viaggio che gli fornì ulteriore materiale per il libro avvenne nel 1947 con Gordon Sanger, un amico conosciuto in Messico. Il 1° luglio di quello stesso anno Paul Bowles partì per Casablanca e di lì proseguì per Fez, dove cominciò a scrivere il romanzo. Visse da nomade nel Sahara, fino a quando ritornò a Tangeri, comperò una piccola casa e incontrò casualmente ma ripetutamente la coppia dei Perrins, che nel romanzo diventarono i Lyle, la madre odiosa e il figlio mascalzone, considerati sempre dallo scrittore il punto debole del libro: “Danno un senso di realtà ma sono dipinti con una tavolozza diversa”. Jane Auer, l’eccentrica, geniale e sfortunata autrice di Due signore perbene (Two Serious Ladies) che Paul Bowles ha sposato nel 1938, lo raggiunse a Tangeri il 3 febbraio 1948, forse seduta al posto del secondo pilota nella carlinga di un minuscolo aereo partito da Gibilterra; come farà la protagonista del romanzo.


Neal Cassady I vagabondi

Allen Ginsberg ha descritto questo libro come “un’autobiografia che illuminò Buddha”. Neal Cassady ha fatto da modello a Dean Moriarty, protagonista di Sulla strada di Kerouac, ed era considerato poco meno che il santo del Movimento beat: per definirlo gli amici avevano coniato il termine angel, ispirato al vocabolario di Shelley. Per la generazione che aveva respinto senza conoscerla una parte allora affascinante (ora diventata importante) della letteratura contemporanea, la letteratura beat, questa autobiografia di Neal Cassady era passata inosservata; per quella dei sacchi a pelo e dei joint era l’autobiografia di un eroe libero da ogni pregiudizio che sembrava l’incarnazione del calore sessuale: non c’era ragazza capace di resistergli e lui di certo non si tirava indietro. Neal Cassady era nato a Denver, Colorado, nel 1926, a dieci anni gli era morta la madre, aveva vissuto con il padre in un ospizio, aveva fatto una serie di mestieri all’americana (come vendere i giornali, portare telegrammi a domicilio, parcheggiare le automobili) finché a quattordici anni aveva cominciato uno dei suoi mestieri fondamentali, quello di riparare le gomme delle automobili parcheggiate: cosa che aveva continuato a fare finché era scoppiata la guerra. Fra una gomma e l’altra aveva sposato una ragazza quindicenne, incominciato tre anni di liceo senza finirli e rubato cinquecento automobili, mai per rivenderle ma soltanto per il piacere di fare un giro in macchina. Le sue buone intenzioni non gli avevano impedito di ritrovarsi a diciassette anni chiuso in un riformatorio; dal quale era uscito durante la guerra, che aveva schivato grazie a un certificato fasullo di licenza liceale col quale era riuscito a entrare alla Columbia University. E alla Columbia University aveva conosciuto Jack Kerouac, Allen Ginsberg e William Burroughs. Ma a New York era rimasto soltanto un anno, sempre facendo il parcheggiatore; poi la moglie LuAnne era scappata a Denver con un altro e Neal Cassady era ritornato a Denver per riprendersela. Lì aveva conosciuto la dolcissima Carolyn, che vendeva dischi o comunque aveva a che fare con i dischi e che sarebbe stata la sua compagna, con alterne vicende, per molti anni, e con lei era rimasto due mesi, finché Allen Ginsberg, intimamente legato a lui, era venuto a Denver a prenderlo per portarlo a fare una visita a William Burroughs, che coltivava marijuana in una minuscola piantagione nei dintorni del penitenziario di Huntsfield nella Bayou della Louisiana. Quando Carolyn, che intanto si era trasferita a San Francisco, gli aveva mandato un po’ di soldi per il viaggio, Neal l’aveva raggiunta, ma qui erano stati raggiunti a loro volta da LuAnne; così si era ritrovato a San Francisco con due mogli e si era impiegato come frenatore in una compagnia ferroviaria, nonostante in realtà la sua aspirazione fosse di imbarcarsi su una petroliera diretta in Arabia. In seguito alle elezioni Dewey-Truman del 1948, il personale della compagnia ferroviaria era stato ridotto a un frenatore ogni cinque vagoni, perciò Neal era ritornato a New York a fare il parcheggiatore e aveva lasciato Carolyn, sposata dopo l’annullamento delle nozze con LuAnne e ormai madre di tre bambini. Era stato più o meno allora che aveva fatto il celebre viaggio coast to coast in autostop raccontato in Sulla strada. Poi era ritornato a San Francisco a fare il frenatore. I vagabondi (The First Third and Other Writings ) è il racconto di un personaggio famoso, di una specie di messaggero di amore e schiettezza, soprattutto di una specie di campione di energia vitale. La scrittura di Neal Cassady rivela il suo modo di parlare ansioso, ardente, sincopato, le sue immagini sempre aderenti alle cose belle o brutte, povere o splendide della realtà spicciola, la sua totale incapacità di astrazione e di generalizzazione, il suo essere completamente, irriducibilmente un uomo sempre intento a respirare col fiato corto ogni attimo della sua esistenza. Tutte caratteristiche che gli avevano creato attorno un’atmosfera un po’ misteriosa, come se Cassady fosse l’angelo che i giovani aspettavano a indicare la strada della libertà.


LIBERTÀ DI PAROLA


Truman Capote Musica per camaleonti

Quando nel 1948 è uscito Altre voci, altre stanze (Other Voices, Other Rooms ) di Truman Capote, il suo primo romanzo, è circolata la storiella che a New York si soffocava dal fumo dei falò coi quali gli scrittori del Sud bruciavano le loro opere, spinti al gesto dalla sfiducia disperata di non poter mai gareggiare con la decadenza ritratta nel libro. Non credo che questa storiella abbia fatto piacere a Truman Capote, anche perché ha detto più volte di non essersi mai sentito uno “scrittore del Sud”. Questa definizione nasce però spontanea dal momento che è nato a New Orleans e dopo il divorzio dei genitori ha passato gran parte dell’infanzia in Alabama presso le zie. Al di là delle possibili definizioni, quel che è certo è che Truman Capote è diventato davvero un grande scrittore, dotato di enorme abilità e di sensibilità raffinatissima. Forse il suo romanzo più famoso è A sangue freddo (In Cold Blood), ma vorrei parlare della sua raccolta di racconti Musica per camaleonti (Music for Chameleons). Capote ha raccontato di aver cominciato a scrivere questo libro a otto anni, per cinque ore al giorno, senza maestri, di nascosto, facendo credere che faceva i compiti di scuola: “Osservazioni quotidiane, descrizioni di vicini di casa, resoconti di conversazioni ascoltate, pettegolezzi locali, una specie di cronaca, un modo di vedere e sentire che in seguito mi avrebbe fortemente influenzato”. Per ritrovare notizie dell’infanzia bisogna saltare a un racconto della raccolta, Barbagli, scritto con lucidissimo distacco, capacità affinata, dice l’autore, nella compilazione di A sangue freddo, “ricostruendo in modo rigoroso, minuzioso, conversazioni banali con persone qualsiasi, il custode della mia casa, un massaggiatore della palestra, un vecchio compagno di scuola, il dentista”. Con lo stile costruito attraverso queste esercitazioni ha raccontato un fosco episodio della sua infanzia, quando a otto anni era tormentato dalla scoperta di essere “diverso” e di voler essere una bambina dal momento che non aveva mai sentito parlare di qualcuno tormentato dalle sue stesse pulsioni. Si era confidato con una lavandaia, che si diceva avesse “poteri magici”, sperando che lo aiutasse a risolvere il suo “mistero”. La donna gli aveva promesso aiuto a condizione che il bambino rubasse alla nonna una sua collana e gliela portasse. Il piccolo era così tormentato che le aveva obbedito, ma quando le aveva portato la collana la donna gli aveva riso in faccia e, quasi lo volesse ipnotizzare, gli aveva agitato davanti agli occhi la collana rubata, provocandogli un trauma dal quale lo scrittore non si è liberato più per tutta la vita. Forse l’umiliazione subita in quell’occasione contribuisce a spiegare la tendenza di Capote a difendersi con atteggiamenti esibizionistici ed eccentrici, a volte megalomani, e anche la sua abitudine ad analizzarsi da sé senza correre il rischio di altre mortificazioni che gli potevano venire da confidenti carismatici ma forse cialtroni come la lavandaia della sua infanzia; tutto questo lo condusse a scrivere pagine che lo hanno collocato tra gli immortali di tutti i tempi. Nella sua prefazione a Musica per camaleonti spiega Capote: “Nel 1979 ho cominciato a lavorare a quest’opera scrivendo innanzitutto l’ultimo capitolo... poi il primo, Mostri non rovinati, poi il quinto, Una grave offesa al cervello, quindi il settimo, La côte basque”. È stato quest’ultimo racconto a provocare un disastro nella vita professionale e privata dello scrittore. La Côte basque era un locale di New York molto alla moda negli anni Sessanta, frequentato dal jet set mondano e dai protagonisti dell’alta finanza d’America. Capote riferisce le conversazioni e i pettegolezzi che vi tenevano gli illustri clienti; ma questi, riconosciutisi sulle pagine di “Esquire”, dove il racconto era stato pubblicato, non avevano perdonato allo scrittore loro beniamino di avere tradito intimità e confidenze. Di lì erano cominciate le cause per diffamazione, anche se non si riferivano all’articolo-racconto pubblicato su “Esquire”; e per la prima volta i critici gli si erano dimostrati ostili, non tanto per il valore letterario dei racconti quanto per l’indiscrezione dell’autore. A noi, che non abbiamo familiarità coi protagonisti dei pettegolezzi, l’articolo-racconto interessa più che altro perché rivela l’abilità di Capote nel descrivere e riferire con la sua perversa ironia le chiacchiere malevole delle belle e privilegiate signore. Che queste fossero ritratti della realtà è dimostrato da una lettera autografa che precisava i nomi reali accanto a quelli fittizi. Nell’elenco risultava anche il nome di Ann Woodward, moglie del magnate dell’editoria, che in seguito alle rivelazioni di Capote aveva tentato il suicidio. L’ostracismo fatto allo scrittore dagli amici e dai critici lo ha gettato in un grande sconforto: allora erano cominciati i suoi


eccessi con l’alcol e la droga ed era iniziato il suo declino. Pare che Gore Vidal abbia definito la sua morte “una saggia scelta professionale”.


Paul Auster Trilogia di New York

Questa è l’opera che ha fatto acclamare Paul Auster come uno fra gli scrittori più innovatori d’America. Trilogia di New York (New York Trilogy) è costituita da: Città di vetro (City of Glass), Fantasmi (Ghosts) e La stanza chiusa (The Locked Room), pubblicati tra il 1985 e il 1987. Su questa opera Don DeLillo ha scritto: “Paul Auster svolge meravigliosi misteri di identità e scomparsa... La persona smarrita, l’indagine, la crisi della mente e del cuore, è tutto ispirato dagli aleggianti fantasmi di Hawthorne, Melville e Poe... Alla fine siamo tutti detective che scrutano nelle nostre stanze chiuse. Questo è uno scrittore la cui opera brilla per intelligenza e originalità”. DeLillo alludeva in particolare al terzo volume della trilogia, ma Auster ha affermato che i tre libri narrano la stessa storia svolta in tre luoghi diversi, una storia che potrebbe apparire poliziesca ma in realtà è una ricerca poetica nell’ambiguo mondo di identità perdute, da ritrovare e ritrovate. Mentre viveva solo a Brooklyn, una sera era suonato il telefono e una voce gli aveva chiesto se parlava l’agenzia dell’investigatore privato Pinkerton: Paul Auster l’aveva negato ma la telefonata si è ripetuta nei giorni seguenti fino a quando lui si è chiesto cosa sarebbe successo se avesse ammesso di essere Pinkerton; così ha cominciato a lavorare a Città di vetro, il cui titolo, ha affermato l’autore, rappresenta “la natura trasparente di questi testi e allo stesso tempo la fragilità delle storie che vi si narrano”: inizia con un’andatura alla Charles Dickens, sfiora il terrore metafisico del colore bianco caro a Herman Melville (scrittore prediletto di Paul Auster), continua in uno stile derivato da Edgar Allan Poe (da un suo racconto è anche ricavato il nome William Wilson, pseudonimo del protagonista) ed echeggia una città che ricorda quella di Signorina cuorinfranti (Miss Lonelyhearts) di Nathanael West. Il secondo volume della trilogia è ambientato nelle Brooklyn Heights, in quella Orange Street dove, viene ricordato in una citazione, Walt Whitman ha composto a mano Foglie d’erba e Henry Ward Beecher “ha condannato fieramente la schiavitù dal pulpito della sua chiesa in mattoni rossi” ascoltato da Abraham Lincoln: i “fantasmi” che danno il titolo al libro. Il terzo volume è ricco di citazioni della letteratura americana classica giocando perfino coi nomi: la moglie di Fanshawe, amico del protagonista, si chiama Sofia come la moglie di Nathaniel Hawthorne. In questa costante eco di scrittori della tradizione si svolge la vicenda dei tre romanzi che solo nelle ultime pagine della trilogia viene rivelata come un’unica storia: “Queste tre storie sono in fin dei conti una storia sola, ma ognuna rappresenta un grado diverso della mia consapevolezza” dice il narratore protagonista senza nome. Paul Auster ha spiegato che l’intera opera consiste “nell’imparare a vivere con ambiguità”. La sua tecnica di gettare tutto nel dubbio, compresa l’identità dell’autore, lo rende narratore sperimentale di una ambiguità in cui le esistenze dei vari personaggi si isolano e insieme si sdoppiano e si specchiano l’una nell’altra tendendo al massimo la possibilità dell’intrigo e del suo lucido spessore. Paul Auster è diventato forse ancora più famoso scrivendo la sceneggiatura di due film culto degli anni Novanta: Smoke e Blue in the Face, interpretati dai personaggi americani più à la page: Lou Reed, Jim Jarmusch, Madonna, Harvey Keitel, William Hurt, Lily Tomlin, Mira Sorvino, Roseanne Barr e Michael J. Fox. Lo humour, l’ironia, la comicità caratteristici di ogni opera di Paul Auster sono esplosi in queste due sceneggiature dove le star si presentano con grazia e intensità, mentre i personaggi realistici diventano fragili per lasciare il posto al vero dominio di Auster: quello dell’impalpabile, dell’ambiguo, del non detto. Del mistero che ha legato tutta la trilogia.


Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore

Nel gran parlare che si è sempre fatto di questo scrittore venuto alla ribalta sulla scia del successo dei suoi discepoli (tra tutti ricordo Jay McInerney), la sua figura emerge sempre più solidamente come quella del caposcuola di un’intera generazione: la generazione che con fastidio di tutti e per primi degli interessati è stata definita “minimalista”. Di sicuro il suo nome va riallacciato alla essenzialità stilistica di Hemingway, un autore che Carver aveva conosciuto bene fin da ragazzo perché nei momenti liberi dal lavoro leggeva tutto quello che gli capitava fino a trovarsi un giorno, ha raccontato in seguito nelle interviste, davanti all’alternativa se restare un lettore o se diventare uno scrittore. Nella sua produzione quantitativamente limitata i giovani scrittori hanno scoperto lo stile asciutto e muscoloso, la scabra immediatezza di una scrittura che portava alle estreme conseguenze gli ideali stilistici cari ad Anton Čechov, di “non scrivere di gente straordinaria che compie azioni straordinarie”, e a Ernest Hemingway, di “scrivere cose semplici nel modo più semplice” e “soltanto ciò che si conosce bene”. La gente che Carver conosceva bene erano i poveri diavoli come suo padre e i compagni di lavoro che aveva incontrato nei momenti difficili della sua vita: autisti e manovali, amministratori di motel e disoccupati, contabili in pensione e così via. Il mondo descritto nei suoi racconti è quello della vita quotidiana di questi personaggi modesti e umili, a volte nevrotici, per lo più rassegnati: i loro sono avvenimenti fragili che diventano drammatici per l’abilità della sua scrittura scarnificata e per la ineluttabilità kafkiana che li conduce in situazioni inafferrabili, immerse in un’incomunicabilità senza speranza. Ubriaconi o falliti, divorziati o sul punto di separarsi, alla ricerca infruttuosa di calore umano o rassegnati alla solitudine: questi personaggi rivelano anime dolenti che Raymond Carver scava con la sua prosa parca di parole e con la sua ricerca traboccante di umanità. Il suo è un mondo privo di sentimentalismo dove incalzano problemi economici, rapporti personali difficili e disoccupazione. I suoi racconti narrano le tragedie disadorne di gente modesta che guarda la TV, ascolta musica popolare, legge romanzi di massa e a volte beve molto, con un realismo che investe il cuore della vita contemporanea ma è così stilizzato e allo stesso tempo particolareggiato, così intriso di inquietante ironia, da far sembrare barocchi i romanzi realistici tradizionali. Una delle sue opere più accattivanti è la raccolta di diciassette racconti uscita nel 1981 col titolo Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (What We Talk About When We Talk About Love). Il libro riprende il tema della solitudine e dell’incomunicabilità che ha affascinato e continua ad affascinare tanti giovani nonostante la riprovazione di critici che non hanno mai sopportato lo stile scabro e disossato (“Io non scavo fino alle ossa, scavo fino al midollo” diceva Carver) con cui l’autore reagiva ai libri apocalittici e surreali degli scrittori postmoderni, riportando l’attenzione del lettore sui piccoli fatti della vita quotidiana. Ma i racconti accompagnati, come dire, cullati da questo stile che sembra l’unico possibile per narrarli hanno strutture che sono già da sé nidi di disperazione, di vuoti incolmabili, di mutismo interiore. Il racconto più famoso della raccolta è Il bagno (The Bath): è una tipica storia da anima dolente nella quale due genitori ordinano un dolce per il compleanno del figlio ma il figlio viene investito da un’automobile ed entra in coma. La sera ai genitori disperati arriva una telefonata: “C’è qui un dolce che non è stato ritirato... Sedici dollari”. È stato solo con la sua raccolta di racconti Cattedrale (Cathedral) del 1983 che il suo stile si è un po’ addolcito, forse per le migliori condizioni di vita raggiunte grazie alla sua attività di scrittore, ma questo non ha evitato che alcuni critici li definissero “la storia di gente senza colore che si muove in una vita senza colore”. Credo che le parole migliori per fissare Raymond Carver nel cuore di tutti noi siano quelle di David Foster Wallace: “Carver non era un minimalista: era un artista”.


Jonathan Safran Foer Ogni cosa è illuminata

Jonathan Safran Foer ha scritto questo libro quando aveva poco più di vent’anni, grazie al meraviglioso costume americano che offre rispetto ai giovani nel momento in cui la loro fantasia, il loro entusiasmo, la loro fiducia nel mondo sono al massimo livello possibile. Jonathan Safran Foer ha avuto anche la fortuna di aver affrontato la vita come figlio di un avvocato imprenditore e educatore, di una madre presidente di un gruppo internazionale di public relation, e come fratello di un vicedirettore di un grande quotidiano e di uno che scrive su un altro giornale; di averla affrontata, cioè, in un clima di attivismo culturale e di comunicativa sociale, forse ispirato dallo status di discendente pacifista dell’Olocausto, forse alimentato dal privilegio intellettuale che lo circondava, forse arricchito dalla serietà di fondo che gli era ispirata dal suo ambiente. Ma mi piace pensare che tutti questi privilegi non sarebbero bastati a creare la sua genialità. Mi piace pensare da vecchia romantica che nei mesi successivi alla tragedia delle Torri Gemelle di New York solo un genio così giovane poteva pubblicare un libro che affronta un mondo devastato da violenza, totalitarismi ed eccidi umani o naturali con ironia e meravigliosa umiltà basata su insolubili dubbi morali e sociali. L’ironia aveva già offerto una via d’uscita agli scrittori della fine del Novecento; ma questo eroe letterario del secolo nuovo se ne serve anche per affrontare quello che sembra delinearsi come il tema dell’inizio del terzo millennio: il ripensamento, l’attenzione, l’indagine sulla storia della propria famiglia. Che sia una famiglia dilaniata dalle guerre o dai soprusi o dall’ingiustizia rende anche più patetica la passione con cui il giovane scrittore ha cercato di ricostruirne con intatta umanità. L’ironia di Foer, nato nel 1977, è passata attraverso gli studi di filosofia, in cui si è laureato all’Università di Princeton, ed è passata attraverso le figurazioni dell’artista Joseph Cornell. Perciò è un’ironia impastata dal dubbio filosofico, quella che gli fa dire per esempio che la risposta finale a una domanda è la domanda stessa, che se deve spiegare che cosa vuol fare della sua vita risponde che cerca di capire che cos’è la sua vita, che se non sa se i problemi ebraici lo interessano questo non saperlo è una prova della sua natura. Ogni cosa è illuminata (Everything Is Illuminated) è un’indagine sulle radici della sua famiglia. Con una fotografia sbiadita tra le mani, uno studente chiamato Jonathan visita il paese ucraino di Trachimbrod, vicino al confine con la Polonia. Il suo scopo è trovare Augustine, la donna che potrebbe aver salvato suo nonno dai nazisti. Lo accompagna un coetaneo ucraino, Alex, che lavora per una agenzia di viaggi familiare. Foer racconta la storia di questo villaggio, cominciando già nel secondo capitolo del libro, a partire dal 1791, quando il rabbino protagonista “fu bloccato, o non lo fu”, dal suo carro contro il letto del fiume. “Fu bloccato, o non lo fu” dice Foer, introducendo la sua dichiarazione di insicurezza e insieme facendo sorridere davanti alla pseudo-realtà di un naufragio. Il suo humour, la sua sorpresa, la sua consapevolezza dell’impotenza umana lo hanno spinto a scrivere il libro nel 1999, subito dopo aver passato cinque giorni nel villaggio del nonno in Ucraina: rifugiatosi a Praga, infatti, ha immediatamente cominciato a scrivere la sua storia, senza riuscire a dominarla per dieci giorni. Poi, dopo dieci giorni, ha rinunciato al racconto realistico e ha scritto senza più interruzioni, uscendo dalla storia ed entrando nell’immaginazione, cioè accettando il dubbio, accettando la propria figura di ventenne. Ha scritto il romanzo in un’estate, ma ha passato tre anni a rivederlo; senza far cambiamenti, perché ha voluto che restasse un documento dei suoi vent’anni. Ecco perché considero questo libro un grande “esempio letterario” del nuovo secolo.


Don DeLillo Rumore bianco

Il nome di Don DeLillo viene accostato di solito a quelli di Donald Barthelme, John Barth, Robert Coover e soprattutto Kurt Vonnegut e Thomas Pynchon. Don DeLillo però ha sempre negato di esser stato influenzato da altri scrittori e ha invece dichiarato che la sua sensibilità è stata formata in parte dal cinema: “Federico Fellini e Michelangelo Antonioni hanno influenzato e influenzano tutto quello che scrivo; Ingmar Bergman e Jean-Luc Godard hanno influenzato il mio modo di vedere le cose, di sentirle”. Qualsiasi siano i suoi riferimenti, è nota la sua eccezionale bravura nell’usare linguaggi specializzati e tecnicamente corretti. Ma è risaputo anche che i personaggi dei suoi libri parlano come la gente comune: “Non penso al linguaggio in modo teorico. Lo accosto a livello di strada. Voglio dire, ascolto attentamente il modo in cui parla la gente”. Attraverso questa articolazione della scrittura tra linguaggio tecnico e linguaggio quotidiano Don DeLillo immerge il lettore nella permanente ambiguità del suo humour tragico e descrive la sua visione secondo cui “viviamo in una specie di sistema circolare con un numero sempre maggiore di anelli che si intersecano”. È grazie a questa struttura articolata che Don DeLillo è in grado di raggiungere una frattura della realtà capace di avvolgere i suoi racconti in un senso di mistero. Questo senso di mistero si può constatare con chiarezza leggendo Rumore bianco (White Noise), il suo romanzo del 1985 che qualcuno ha detto essere una versione addomesticata delle apocalittiche storie di Pynchon e che io invece preferisco ricordare per aver meritato l’American Book Award. Lo stile di Don DeLillo è chiaro, preciso, elegante: senza tracce di accademismo. Nato nel Bronx il 20 novembre 1936, Don DeLillo non ha mai insegnato, né letteratura né creative writing. Chissà, forse sono stati il bel viso asciutto, la figura giovanile dovuta al jogging quotidiano sottolineata dagli abiti sportivi vestiti senza ricercatezza, i capelli non molto corti, la parlata lenta e spontanea con un leggero accento newyorkese a renderlo estraneo al mondo accademico. La sua diffidenza per il mondo accademico è chiara proprio in Rumore bianco, dove il protagonista è Jack Gladney, un professore universitario che pur non parlando il tedesco è famoso per essere stato il primo a studiare la figura di Adolf Hitler in modo approfondito. La sua vita trascorre tranquilla fino a quando, a causa di un incidente, da un vagone ferroviario esce del materiale chimico che provoca una nuvola tossica. Da quel momento in avanti, il professore vivrà con la paura di aver respirato il gas. Oltre alla denuncia ambientale, Rumore bianco diventa una riflessione su come conviviamo nella terribile consapevolezza che dobbiamo morire e di come creiamo la realtà in base alla paura straordinaria che ognuno di noi avverte e contemporaneamente cerca di dimenticare. In realtà questo è un tema ricorrente in tutti i libri di Don DeLillo, come per esempio nella sua commedia del 1987 La stanza bianca (The Day Room). In questa commedia ambientata in un ospedale psichiatrico l’ossessione della morte è però complicata da un problema di identità tra pazienti e medici. E in End Zone, il suo secondo romanzo del 1972 e mai pubblicato in Italia, Don DeLillo fa riferimento alla lingua che si parla e si ascolta quando si muore. Il titolo che Don DeLillo voleva dare inizialmente a Rumore bianco era Il libro americano dei morti (The American Book of the Dead) facendo riferimento al Libro tibetano dei morti e al Libro egiziano dei morti. Poi avrebbe voluto intitolarlo anche Panasonic per indicare i raggi dei suoni che avvolgono la vita umana; il gruppo giapponese proprietario del marchio omonimo non gli ha però concesso i diritti e così Don DeLillo ha scelto di chiamarlo con l’espressione “rumore bianco” che in elettronica definisce il miscuglio casuale di onde sonore. Forse è la sua ossessione per la morte il dato caratteriale che l’ha quasi sempre portato a rimanere chiuso nella propria solitudine con la moglie texana Barbara. Per molti anni Don DeLillo è stato considerato uno di quegli scrittori definiti “perduti” perché non si lasciano intervistare e si rifiutano di parlare della loro vita privata: gli altri erano Thomas Pynchon, Jerome David Salinger e William Gaddis. Un giorno, dopo che aveva superato questa sua ritrosia, gli ho chiesto che differenza c’è per lui tra scrivere una commedia e scrivere un romanzo. “Scrivendo un romanzo si scompare profondamente in se stessi” mi ha risposto “gli scrittori bevono molto perché si è troppo soli coi pensieri più profondi che si possono avere e questo fa pagare un prezzo: scrivere è come una malattia. Nella commedia si esce dalla propria stanza, si dipende da altra gente e questo è una cura della malattia: si esce


dalla trappola della propria anima.�


John Fante Chiedi alla polvere

Questo scrittore italoamericano di origine abruzzese è stato a lungo sottovalutato dalla critica ufficiale. Deve la sua fama a Charles Bukowski, che alla fine degli anni Settanta nella biblioteca pubblica di Los Angeles ha scoperto Chiedi alla polvere (Ask the Dust), uscito in America nel 1939 e in Italia nel 1941, tradotto da Vittorini col titolo Il cammino nella polvere. In quegli anni Settanta John Fante viveva scrivendo sceneggiature molto ben retribuite per il cinema di Hollywood: se ne conoscono undici e un suo biografo ha detto che gli rendevano uno stipendio settimanale di “quattro cifre”, forse millecinquecento dollari di allora. Bukowski è riuscito a convincere il suo editore John Martin a ripubblicare nella sua piccola ma ormai famosa Black Sparrow Press l’intera opera di John Fante: Chiedi alla polvere fa parte di una tetralogia che ha come protagonista Arturo Bandini e comprende La strada per Los Angeles (The Road to Los Angeles), scritto nel 1936 ma pubblicato postumo nel 1985, Aspetta primavera, Bandini (Wait Until Spring) del 1937 e Sogni di Bunker Hill (Dreams from Bunker Hill) del 1982. Sono libri deliziosi, e deliziosa è la prefazione che Charles Bukowski ha scritto per Chiedi alla polvere: “Un giorno ho preso un libro... con l’aria di uno che ha trovato l’oro nell’immondezzaio cittadino... Ecco finalmente uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati fra loro con straordinaria semplicità... I suoi libri erano libri scritti con le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore”. Forse quelle individuate da Bukowski sono proprio le ragioni per le quali John Fante non è stato apprezzato negli anni di quel Decennio rosa di Franklin Delano Roosevelt, cioè il decennio degli anni Trenta, in cui in America trionfavano i colossi della cosiddetta Narrativa proletaria prodotta dalla Depressione (Nelson Algren, John Steinbeck, Erskine Caldwell, James T. Farrell, Richard Wright); forse nel suo mancato riconoscimento ha avuto qualche parte anche il vago razzismo anti-italiano dell’epoca. Chiedi alla polvere è un racconto neorealista, di quelli che si leggono senza complicazioni, dove il protagonista sogna vanamente di possedere bellissime ragazze messicane e vive la sua irresponsabilità senza troppe amarezze. In questo romanzo, probabilmente autobiografico, Arturo è uno scrittore squattrinato di Los Angeles che comincia a pubblicare i primi racconti e si innamora di una cameriera; che non riesce ad avere rapporti con una prostituta lasciandole tuttavia i dieci dollari che si era fatto prestare con fatica dalla madre; che alla vendita del primo racconto si compera vestiti e scarpe nuovi ma si trova più a suo agio indossando quelli vecchi; che va a fare il bagno nell’oceano con l’innamorata senza riuscire ad avere rapporti con lei e che invece i rapporti li ha con una donna vecchia e brutta. In questa storia c’è molta pietà, un sicuro piglio narrativo e perfino un po’ di poesia. Non c’è il diluvio di alcol, sesso e vomito, di orrore pubblico e privato, di sanguigna denuncia che hanno fatto diventare un bestseller il suo ammiratore Bukowski. Eppure Chiedi alla polvere rimane un libro drammatico e divertente, crudele e romantico; è un libro in cui ritorna il tema della gioventù, base di tutta l’opera di John Fante. Per fortuna Bukowski è riuscito a invogliare un pubblico sempre più vasto a leggere queste storie piene di grazia, di fascino, di freschezza, storie scritte con uno stile semplicissimo in anticipo sui tempi, insolito, strano, gaio, delicato, storie che in modo poetico e tenerissimo, molto accattivante, ripetono descrizioni o azioni o atmosfere come in piccoli ritornelli alla Sherwood Anderson, di cui l’autore era ammiratore. Fante è stato un grande scrittore che ha conosciuto miseria e ricchezza, fatica e gloria prima di morire a settantaquattro anni di diabete, terribile malattia che gli ha fatto amputare le due gambe e diventare cieco.


Ezra Pound I Cantos

“Ma che cosa stavate leggendo?” ho chiesto a Patti Smith un giorno che l’ho incontrata al Teatro del Porto di Genova per un suo concerto. E lei, senza altre domande, mi ha risposto: “I Cantos di Ezra Pound, coi commenti scritti a mano da Allen”. Perché Patti Smith ha passato gli ultimi due giorni e le ultime due notti di vita di Allen Ginsberg accanto al suo letto aspettando che morisse; e nei momenti in cui i medici lo costringevano a dormire e una trentina di monaci buddhisti pregavano in silenzio, Patti Smith seduta con Gregory Corso su una stessa sedia cercava di decifrare insieme a lui i commenti scritti a mano da Allen, tutto intorno a I Cantos di Ezra Pound. Controverso e geniale, Pound è stato accompagnato da ostilità atroci e da devozioni incrollabili. Robert Frost ha scritto di lui, dopo averlo incontrato in Inghilterra nel 1913: “Pound è un incredibile somaro”; ma Ford Madox Ford lo ha accolto a Londra nella sua cerchia di letterati e lo ha accettato con le sue bizzarrie e il suo esibizionismo, le sue pose e la sua genialità, seguendolo nelle innovazioni, perdonandogli l’abbigliamento (girava nello smog di Londra coi calzoni verde biliardo, la giacca rosa, la camicia azzurra, il sombrero bianco e un unico orecchino di turchesi; e durante un pranzo di pieno establishment ha mangiato i tulipani disposti nel centro tavola). Mentre gli inglesi inorriditi lo qualificavano come un ciarlatano, Ezra Pound ha “creato” l’immagine dei poeti seguaci di Ford Madox Ford e li ha definiti “modernisti”, imponendosi con la sua critica inesorabile ma infallibile fino a impressionare il grande poeta William Butler Yeats, che si è considerato un suo discepolo. Generoso e instancabile, ha scoperto talenti ancora sconosciuti, come Thomas Stearns Eliot, facendolo pubblicare sulla rivista “Poetry” della quale era stato nominato “direttore per gli esteri” dalla fondatrice Harriet Monroe, si è servito della rivista per divulgare la dottrina dell’“Imagismo” di cui era esponente la poetessa Hilda Doolittle (che è stata anche una sua specie di fidanzata), ha sostenuto e ha fatto pubblicare James Joyce, ha fondato il Movimento “vorticista” di breve ma intensa esistenza, ha emanato manifesti, ha tradotto la poesia provenzale e la poesia cinese, ha “insegnato a scrivere a Ernest Hemingway” (la definizione è di Hemingway stesso) e ha lavorato con energia indomita da un lato ai suoi Cantos e dall’altro per giornali e riviste, dove nel 1918 è stato presente centodiciassette volte, e centottantanove nel 1919. La sua è stata dunque un’attività prodigiosa di poeta, di critico e di impresario letterario, ma non gli è valso il riconoscimento che gli era dovuto. Forse perché, come sostiene lui, la storia del mondo era costituita da occulte manipolazioni economiche al centro delle quali stavano gli interessi bancari. Ne I Cantos (per esempio nel Canto LXXI) aveva citato una lettera di John Adams, dove il secondo presidente americano aveva detto: “Ogni banca di sconto è totale corruzione, perché agisce tassando il pubblico per l’interesse di privati”. Nel 1933, dopo essersi stabilito quasi definitivamente in Italia fin dal 1924, il poeta si era fatto ricevere da Mussolini per esporgli le sue teorie e proporgli di tradurre in italiano le opere di John Adams e di Thomas Jefferson, convinto che una migliore comprensione tra l’Italia e l’America avrebbe evitato la guerra; nell’aprile 1939 era andato a New York con la speranza di farsi ricevere da Roosevelt e indurre anche lui a evitare la guerra, descrivendogli un Paese che gli pareva di conoscere meglio dei governanti americani, dato che vi aveva vissuto a lungo. Pochi mesi dopo, quando Roosevelt si era rifiutato di incontrarlo, Pound era tornato in Italia deluso, e aveva ripreso il suo lavoro di poeta, di critico, di musicologo e di traduttore: aveva incominciato allora a lavorare per la radio italiana, tentando nelle sue trasmissioni all’America di riuscire dove aveva fallito durante la visita negli Stati Uniti; diceva: “Un cittadino responsabile deve fare tutto ciò che è in suo potere per impedire al proprio Paese di entrare in una guerra ingiusta”. Sappiamo come è andata a finire, ma vorrei concludere questa pagina con il passaggio finale dei suoi Cantos: “Che gli Dèi perdonino ciò che ho fatto / Che coloro che amo cerchino di perdonarmi ciò che ho fatto”.


William Burroughs Pasto nudo

La base di tutte le opere di William Burroughs è la denuncia contro il totalitarismo, il capitalismo, l’omofobia, la guerra nucleare, la tossicodipendenza, la dominante tecnologica quasi fantascientifica e il lavaggio mentale esercitato del potere incarnato in governo, stampa, scuola o chiesa. Forse il libro di William Burroughs dove questa denuncia è più palese è Pasto nudo (Naked Lunch). Il romanzo è stato scritto tra il dicembre 1953 e il 1957. In un primo momento è stato respinto dalla Olympia Press, la stessa Olympia Press che nel 1959 avrebbe invitato William Burroughs a riordinare in quindici giorni il migliaio di pagine di appunti e a consegnare il volume nella forma definitiva, quella presentata poi al pubblico. Burroughs aveva da poco terminato a Londra la cura disintossicante di apomorfina proposta dal dottor John Yerbury Dent. Il titolo Pasto nudo era stato suggerito da Jack Kerouac che con questa espressione alludeva all’attimo nel quale si vede, come scrive William Burroughs, “cosa c’è sulla punta di ogni forchetta”; Kerouac aveva aiutato Burroughs a copiarlo a macchina, Ginsberg a riordinare gli appunti; ma Kerouac aveva frainteso la calligrafia di Burroughs, che aveva scritto originariamente Naked Lust (Lussuria nuda). Alla fine Burroughs aveva preferito il titolo “frainteso” di Kerouac. Forse l’idea fondamentale del libro è che il monopolio della droga, così come il suo consumo, è uno dei maggiori problemi sanitari del mondo d’oggi; ma questa denuncia si svolge parallela ad altre, scottanti, del mondo contemporaneo. Vale la pena di ricordare che uno dei problemi che hanno sempre incalzato William Burroughs, per esempio, è quello del controllo esercitato sul pensiero dalla stampa quotidiana, dove le immagini e le parole sono in realtà strumenti di cui coloro che esercitano il controllo si servono per manipolare il pensiero di chi il controllo lo subisce. In Pasto nudo William Burroughs ha raccolto le fantasie, le ossessioni, le provocazioni, le denunce che lo avevano animato fin da adolescente quando sognava di diventare scrittore perché gli scrittori di cui leggeva le biografie fumavano oppio, tiravano cocaina e si univano a ragazzi esotici, suggerendogli l’idea dell’artista come fuorilegge e avventuriero. Aveva seguito presto il loro esempio e la rivolta alla vita conformista della sua illustre famiglia WASP era cominciata già nel 1944, a trent’anni, quando Burroughs si era ritrovato morfinomane e senza fatica era entrato nel mondo degli hipster o dell’“esistenzialismo americano”, quale nel 1957 Norman Mailer lo aveva descritto ne Il negro bianco (The White Negro). Pasto nudo è uno dei libri più leggibili tra le prose illeggibili di questo autore, perché è davvero difficile trovare tra le sue una storia con un principio, un centro e una fine, per non dire un’unità di tempo, di spazio e di azione. Le sue vicende sono senza trama: stati d’animo, situazioni, momenti, sono tipici della narrativa di Burroughs. In più non è un autore per educande (quali erano almeno le educande nell’Ottocento). Per esempio, Il biglietto che esplose (The Ticket that Exploded) del 1962, in cui i protagonisti si muovono in uno spazio cosmico dal clima postatomico, sembra uno dei suoi libri più comprensibili perché il surrealismo lascia molto spazio alla descrizione e alla tecnica dei cut up (dei “ritagli”, dei taglia e incolla, scelti da un unico testo in base al criterio fondamentale dell’ironia e ricomposti secondo un preciso criterio formale di ritmo) si presenta solo di rado, più che altro per creare effetti verbali; ma mentre Pasto nudo e La scimmia sulla schiena (Junky) del 1953 sono accentrati su due storie che possono venire intese come propaganda contro la droga, qui non c’è nessuna possibilità di “giustificare” il contenuto dal punto di vista della moralità conformista. Come lo stesso William Burroughs ha detto in un’intervista rilasciata a un giornalista della “Paris Review”, le droghe “creano una confusa bramosia di immagini” ed è proprio questa bramosia che muove il fluttuare delle sequenze nei suoi libri. Ma nonostante le sue esperienze con le droghe, tra tutti gli hipster eroi della Beat Generation William Burroughs è l’unico ad aver raggiunto ottantatré anni.


Edgar Allan Poe Racconti del grottesco e dell’arabesco

Edgar Allan Poe ha indicato al simbolismo francese le vie precorritrici forse del surrealismo, certo della scrittura metafisica; ha inventato il romanzo poliziesco e quello pseudoscientifico; ha creato la tradizione del romanzo gotico (dopo gli esperimenti rozzi ed europeizzanti di Brockden Brown) frugando nell’orrore di strati mentali morbosi e avviando una certa narrativa che poi si è radicata negli Stati Uniti del Sud. Edgar Allan Poe, nato a Boston nel 1809, aveva cercato di costruirsi addosso l’appartenenza all’aristocrazia del Sud inventandosi un nonno generale a Baltimore, ostentando l’infanzia agiata che gli consentiva di essere campione di boxe e di nuoto, e vantandosi di studi universitari che il patrigno non gli ha consentito di portare a termine. Proprio per stare alla pari con i compagni aristocratici del Sud, si è abituato alla dissolutezza, a bere troppo, a fare debiti di gioco. Nei quarant’anni della sua esistenza drammatica è entrato nella storia letteraria dei suoi contemporanei (Hawthorne, Emerson, Thoreau, Melville, Whitman) da emarginato, non tanto per il suo alcolismo o l’uso di oppio, quanto per la creatività innovativa e dissacrante delle forme letterarie che gli si stavano formando attorno: solo ventisei anni dopo la morte gli hanno dedicato una lapide e l’unico compagno di strada presente era Walt Whitman; a scrivere per lui un sonetto famoso è stato Mallarmé, non un americano. Il primo a costringere l’Europa al rispetto di Edgar Allan Poe è stato Charles Baudelaire. Anche l’America ha cominciato a rispettarlo attraverso Baudelaire, che lo ha definito “il Byron smarrito in un mondo perverso”. Fin dalle sue prime opere Poe non si è limitato a narrare una storia ma vi ha svolto un’idea: quando ha cominciato a scrivere racconti divertenti, il suo humour si è piegato a ispirare dei burleschi, storie che erano “metà beffa metà satira” o che erano già racconti dell’orrore, come Berenice, nel 1835, dove il protagonista ruba la dentiera a un cadavere. Manoscritto trovato in una bottiglia (Ms Found in a Bottle) invece non è una storia dell’orrore ma di quello che oggi si chiamerebbe suspense, o, per seguire la definizione di Poe, dello “spaventoso” e dello “strano” e gli ha fruttato nel 1835 la collaborazione a un giornale di Richmond di cui è diventato direttore. Nell’anno che è rimasto a Baltimore ha scritto innumerevoli recensioni per il suo giornale, lunghe come saggi; ha guadagnato solo ottocento dollari ma si è conquistato una reputazione nazionale di grande critico letterario. Nel 1837 si è trasferito a New York dove, l’anno successivo, ha prodotto Le avventure di Gordon Pym (The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket), il suo brano più lungo, ispirato dall’orrore per il bianco provato dai protagonisti mentre si avvicinano all’Antartide; un orrore che ricorda quello per l’albatross di Coleridge o per la balena di Herman Melville: i suoi sforzi per esprimere l’inesprimibile e la sua immersione negli stati di ansia, di impalpabile terrore, di metafisica tensione erano ormai delineati. Pochi mesi dopo si è trasferito a Philadelphia dove è rimasto sei anni in una povertà che è diventata leggenda, nonostante abbia scritto le storie che insieme ad alcune precedenti hanno formato i venticinque racconti pubblicati nel 1840 col titolo Racconti del grottesco e dell’arabesco (Tales of the Grotesque and Arabesque ), che in tre anni hanno venduto solo settecentocinquanta copie. La popolarità è arrivata nel 1845 con la pubblicazione della poesia Il corvo (The Raven), con fastidio di Poe che in La filosofia della composizione (The Phylosophy of Composition) ha rivelato l’artificiosità della poesia costruita a freddo per “accontentare sia il gusto popolare sia quello della critica”. Più tardi ha scritto: “Per me la poesia non ha uno scopo, è solo passione”. Forse i racconti di Racconti del grottesco e dell’arabesco sono quelli più famosi e più belli; ma di quel volume si sono vendute pochissime copie, “the sale was nil” dicono le biografie, la vendita nulla, secondo il destino comune a chi è troppo in anticipo sui tempi. I tempi sono stati poi raggiunti e da allora Edgar Allan Poe, tra biografie, riduzioni televisive, cinematografiche e radiofoniche, per non parlare delle tesi di laurea, non ha proprio pace, da morto come da vivo, quando il tormento invece che dalla troppa gloria gli veniva dalla mancanza di soldi e di riconoscimento.


Lawrence Ferlinghetti Una Coney Island della mente

Lawrence Ferlinghetti è famoso in tutto il mondo per essere l’editore dei beat ed essere andato in prigione per il coraggio che lo ha spinto a pubblicare, tra le altre, la poesia Urlo di Allen Ginsberg. La prima volta che Ferlinghetti ha sentito questa poesia è stata anche la prima volta che Allen Ginsberg l’ha letta in pubblico. Era il 13 ottobre 1955 e il reading è diventato famoso prendendo il nome dalla galleria che lo ospitava, la Six Gallery. Quella stessa sera Ferlinghetti ha mandato a Ginsberg un telegramma ricalcato su quello di Ralph Emerson a Walt Whitman quando era uscito Foglie d’erba: “Ti saluto all’inizio di una lunga carriera”. E aveva aggiunto: “Quando mi dai il manoscritto?”. È vero anche, però, che quando Jack Kerouac gli ha portato il manoscritto di Sulla strada, lui l’ha rifiutato. La sua City Lights nata nel 1953 è comunque una delle librerie e case editrici più rivoluzionarie di San Francisco. Credo che nel seminterrato, al quale si giungeva da una scala di legno sovrastata da una bacheca dove venivano conservate le lettere destinate agli amici fuori città, siano ancora esposte le prime riviste underground e i manifesti precorritori coi simboli antinucleari che allora si trovavano soltanto nella sede della War Resisters’ League. In una grande cesta vicino alla porta si trovavano quei bottoni nati come simbolo della Campagna per il disarmo nucleare e poi diventati simbolo della pace. In un angolo Lawrence Ferlinghetti aveva sistemato un tavolo con una macchina per scrivere, sommerso in un cumulo caotico di carte, lettere, buste, giornali, fogli ciclostilati, annunci di reading e di marce. Quell’angolo veniva chiamato senza alcuna ironia “l’ufficio”, e di lì si mandava avanti una delle librerie più famose del mondo e si organizzavano, anni prima che cominciasse la Guerra del Vietnam, le prime marce dimostrative pacifiste. La casa editrice aveva un ufficio a parte: Ferlinghetti l’aveva sistemato nello studio-soffitta ricavato dal terzo piano della sua casa di legno alla periferia di San Francisco. Era uno studio vasto, con i suoi quadri e i suoi disegni, i suoi dischi e i suoi libri, e su un tavolo una comune scatola da scarpe che conteneva l’intero archivio della corrispondenza. “Le lettere non servono” mi aveva detto un giorno lui, cool e sorridente. “Se si vuole imbrogliare qualcuno, lo si imbroglia sempre, qualsiasi lettera sia stata scritta.” Ma Lawrence Ferlinghetti è anche un poeta. Quando nel 1958 grazie a James Laughlin ha pubblicato la sua seconda raccolta di poesie intitolata Una Coney Island della mente (A Coney Island of the Mind), aveva già trovato una via personalissima di offrire nella sua poesia una rappresentazione visiva di scene che gli si svolgevano attorno o nelle quali si svolgeva la sua vita. Una Coney Island della mente era diventata subito un bestseller: in poche settimane se ne erano vendute cinquecentomila copie. La raccolta conteneva quarantotto poesie, delle quali tredici, dietro suggerimento di Laughlin stesso, erano ricavate da Pictures of the Gone World , la sua prima raccolta del 1955 e, nella seconda parte, la famosa Autobiografia (Autobiography) alla quale molti suoi critici hanno attinto. Proprio in quel periodo Ferlinghetti ha pubblicato sulla “Chicago Review” una specie di testimonianza sulla poesia di San Francisco definendola “Poesia della strada”, per dire che “il poeta aveva abbandonato le aule scolastiche per uscire sulla strada e fare una poesia parlata, basata sugli occhi e sulle orecchie”. Spiegava il suo stile definendolo claritas, chiarezza, e con la calma ironica che è sempre stato uno dei suoi tratti più personali aggiungeva che la chiarezza è fuori moda soprattutto perché è pericolosa: “A volte a essere chiari si rivela che non c’è molto da rivelare”. Molti anni dopo ha preferito essere definito soltanto “poeta lirico e politico”. Il nome di Lawrence Ferlinghetti è conosciuto in Italia grazie anche alle sue origini lombarde. È di pochi anni fa la notizia di quando ha voluto essere accompagnato a Brescia per rivedere la casa dei genitori. Ma nessuno l’ha riconosciuto ed è stato arrestato addirittura come un qualsiasi immigrato irregolare. Chi lo sa cosa deve fare un uomo per ottenere un po’ di rispetto.


Stephen Crane Il segno rosso del coraggio

Questo libro è del 1895. Non è per fare gli eruditi, ma se si dimentica che questo libro è del 1895 e si pensa, siccome Crane è americano, di leggere qualcosa simile a Per chi suona la campana (For Whom the Bell Tolls ) di Ernest Hemingway o Luce d’agosto (Light in August) di William Faulkner, si può anche restare delusi. Quando questo libro è stato scritto il Novecento non era ancora incominciato, la Guerra mondiale era lontana e il naturalismo europeo era in America qualcosa di davvero oltreoceanico. Non è che le scoperte europee fossero ignote, ma all’America letteraria erano ignoti la miseria, il contrasto tra ricco e povero, la lotta di classe. Tutti erano buoni, tutti erano belli e amavano sentirselo dire. C’è un aneddoto su Stephen Crane: quando, ancora ragazzo, aiutava il fratello giornalista a raccogliere notizie, gli è accaduto di fare il resoconto di una dimostrazione di operai. Il giovane Stephen ha avuto l’intuizione e l’ingenuità di descrivere l’avvenimento facendo risaltare il contrasto tra i lavoratori che sfilavano e gli oziosi eleganti che li stavano a guardare. Il resoconto, pubblicato su “The New York Tribune”, ha aiutato il proprietario del giornale, Whitelaw Reid, a non essere eletto vicepresidente della Repubblica; ed è costato il posto a Crane stesso. Può darsi che sia solo un aneddoto, ma è significativo. L’anno successivo, il futuro scrittore nazionale ha presentato al “Century Magazine” Maggie (Maggie: a Girl of the Streets) e si è trovato di fronte un editore scandalizzato dalla crudezza del libro. Nessun editore, in quel Paese e in quell’epoca, poteva accettare questo primo tentativo americano di ambientazione nei bassifondi. Crane ha dovuto pubblicarlo a sue spese e sotto uno pseudonimo; e questo non è un aneddoto. È stato un insuccesso, naturalmente; ma è valso all’autore l’amicizia e l’ammirazione di William Dean Howells, dittatore incontrastato della scena letteraria di quel momento, e, soprattutto, ha mostrato a Crane la sua via. Nel dicembre 1894 Crane si è presentato all’editore Daniel Appleton mostrandogli due novelle: le novelle hanno fatto impressione ed è stato chiesto all’autore se non aveva pronto qualcosa di abbastanza lungo da essere presentato in forma di libro. Crane ha risposto che aveva scritto un racconto piuttosto lungo, che usciva a puntate su alcuni quotidiani. Invitato a mandarlo subito, ha fatto arrivare all’editore un pacco di ritagli di giornali: era Il segno rosso del coraggio (The Red Badge of Courage), la storia di una giovane recluta della Guerra civile americana che vuole vincere la paura della battaglia ed essere un eroe. Il lavoro è stato accettato; era diverso rispetto all’edizione a puntate perché era completato dai molti pezzi tagliati per esigenze giornalistiche. Nel burrascoso periodo in cui ha composto il libro, pare dieci giorni per una scommessa, Crane ha scritto: “Ho deciso che quanto più un artista si accosta alla vita, tanto più si realizza come artista... Sono sempre stato un isolato... Di tutte le condizioni umane, per un essere sensibile, quella dell’isolato in letteratura o nel giornalismo è, credo, la più scoraggiante. È stato durante questo periodo che ho scritto Il segno rosso del coraggio. È stato uno sforzo nato dal dolore, quasi dalla disperazione; e credo che questo abbia reso l’opera migliore di quanto sarebbe stata altrimenti. Pare un peccato che l’arte debba essere figlia del dolore, ma così è”. Questa disperazione mi pare faccia da fulcro al libro, quasi fosse il segno del risveglio dalla narcosi di benessere in cui l’America si era cullata. Come non c’era stato tempo né posto per la miseria, da questo momento in America non c’è più stato tempo né posto per le illusioni. Con Il segno rosso del coraggio la letteratura americana ha dichiarato che non tutti sono belli, non tutti sono buoni.


William Gibson Neuromante

Il romanzo Neuromante (Neuromancer) del 1984 è il suo secondo libro: il primo, pubblicato però soltanto nel 1986, è stato la raccolta di racconti La notte che bruciammo Chrome (Burning Chrome), della quale fa parte il famoso Johnny Mnemonic, scritto già nel 1980. Queste di Gibson sono storie di fantascienza, ma tali da far diventare scipita una grossa fetta della narrativa contemporanea di fantascienza o meno: la sua popolarità è esplosa nel 1984, sia per la pubblicazione di Neuromante, sia per la sua eccezionale disponibilità nel concedere interviste che riescono a chiarire le sue scoperte a dir poco sconcertanti in questo nostro mondo tecnologico in rapidissima trasformazione. Gibson è considerato per esempio l’inventore del cyberpunk, un neologismo che indica la New Wave della fantascienza di quegli anni Ottanta e che lui disapprova: lo considera un termine “giornalistico”, sensazionalistico, reso “stupido” dal disco di Billy Idol del 1993. La popolarità di questo genere si è affievolita negli anni, ma Gibson l’ha rianimata poco dopo con la voga della realtà virtuale grazie alla pubblicazione del suo romanzo Luce virtuale (Virtual Light) e alla devozione degli hacker, i pirati dei computer, che lo considerano il loro profeta. Nella realtà virtuale, cioè nel cyberspace, si muovono i protagonisti di William Gibson, che sono personaggi della strada, come avveniva nei romanzi di Dashiell Hammett, magnaccia e prostitute, ladri e artisti tatuati, ciclisti e, secondo la definizione inventata da lui, computer cowboy, incapaci di controllare il mondo di intelligenze artificiali che li circonda. Mentre il cyberspace si “interfaccia” tra cervello umano e computer, Gibson cerca di creare la “consensuale allucinazione virtuale” da cui è nato Internet, cioè l’idea di uno spazio libero e accessibile alla conoscenza e alla comunicazione, ma che nessun potere centrale possa controllare, perché Internet è transnazionale e il cyberspace non ha confini. Neuromante comincia tra la malavita di Tokyo e il protagonista, che si chiama Case, è un ex “cowboy cyberpunk” bravissimo a rubare i software delle corporazioni per conto di ladri più ricchi di loro, ma quando cerca di rubare qualcosa per sé per punirlo gli bruciano il sistema nervoso e lo riducono talmente male che non può più lavorare. Da quel momento Case diventa un sociopatico tossicomane il cui pancreas può esplodere da un momento all’altro, un antieroe solitario che usa le sue conoscenze nella malavita per riconquistare le capacità lavorative e poter ritornare a muoversi nel cyberspace. L’idea del romanzo, ha detto Gibson, era di indicare un nuovo mondo cibernetico, come quello del film Blade Runner inventato da Philip Dick, altro grande trasformatore della fantascienza già nel suo libro Il cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?). Gibson ha detto che quando ha visto Blade Runner, di cui Dick aveva scritto il soggetto, è scappato dal cinema disperato pensando che già qualcun altro si era accaparrato il suo incubo del futuro: poi ha capito che erano state realizzate le scene di strada ma non il paesaggio mentale, non l’universo alternativo della “Rete”, un universo in cui la realtà era costituita dalle banche dati e dalle reti del computer. Per questo Case, il protagonista di Neuromante, perdendo il suo status sulle reti del computer aveva perso la sola realtà che gli importasse. Dice Gibson: “Per lui che aveva vissuto nella incorporea esultanza del cyberspace questa era la caduta nella prigione della carne”. Così questo eroe da computer ha offerto una letteratura per una tecnologia che aveva appena cominciato a venire inventata o, in altre parole, “la fantascienza è diventata consapevole del nostro presente come passato di un futuro imprevisto”. Lo scrittore nelle interviste ha insistito molto sulla carica di comicità e di ironia presente nei suoi libri. L’immissione fresca di humour addolcisce la serietà del testo e delle sue cupe idee, destabilizzandone l’intera struttura. Per esempio Luce virtuale presenta la previsione di un capitalismo totale. Già da anni è visibile su Internet il tentativo di imporre una sorta di proprietà privata e ricavare denaro da quello che dovrebbe essere un cyberspace pubblico. Gibson ha denunciato il pericolo e ha detto: “I miei personaggi vivono tra le fessure di questo sistema. E ci saranno sempre i falliti, quelli che non vogliono essere consumatori”.


Erskine Caldwell La via del tabacco

La via del tabacco (Tobacco Road ) è la storia di una famiglia di contadini della Georgia il cui capofamiglia, invece di affrontare la miseria della Grande crisi trasferendosi in una città e lavorare in una fabbrica, si ostina a coltivare il cotone del proprio campo. Il libro è uscito nel 1932 e, a dir la verità, appena pubblicato è passato quasi inosservato. L’anno seguente, la riduzione teatrale di Jack Kirkland al Masque Theater di New York ha suscitato un diluvio di reazioni e di commenti tale che i deputati sudisti si sono scagliati in massa contro l’autore. Se Caldwell non aveva lasciato niente di intentato per spiegare qual era la vera situazione dei “poveri bianchi” del Sud, gli esponenti della “rispettabilità sociale” americana avevano lasciato ben poco di intentato per costringerlo a tacere. È stata chiesta la soppressione della commedia a New York, ne è stata vietata la rappresentazione in alcune province; la stampa del Sud ha urlato alla calunnia. In quel decennio che specialmente fra gli intellettuali aveva visto l’apogeo del socialismo americano, è riuscito facile inghiottire anche Caldwell nei simpatizzanti. Anche se lui non si è mai considerato tale, Caldwell era ormai stato definito uno “scrittore di protesta”. Ma lui non si è scomposto e la sua unica azione è stata pubblicare Il piccolo campo (God’s Little Acre ). Quarantacinque scrittori americani hanno firmato una lettera in difesa di Caldwell impedendo l’istituzione di un processo per oltraggio al pudore da parte dei deputati conservatori, che non avevano potuto accettare la drammatica denuncia della situazione agricola vessatoria dei mezzadri (o “poveri bianchi”) della Georgia contenuta nel libro. Ma in tutta risposta Caldwell ha presentato la terza delle sue accuse contro l’ignavia dei sudisti, Il predicatore vagante (Journeyman). L’editore, temendo di vedersi sequestrare l’edizione, ne ha fatte pubblicare solo millequattrocentosettantacinque copie. Se questa non è stata sequestrata è solo perché il libro ha attirato ancora di più l’attenzione sulla riduzione teatrale de La via del tabacco, le cui repliche continuavano da più di due anni battendo tutti i primati teatrali americani raggiunti fino ad allora. Nel 1936 il deputato della Georgia Braswell Dean è entrato nella storia letteraria dichiarando che La via del tabacco era un libro inesatto, ingiusto e privo di dignità e di scopo. Ma ormai il romanzo aveva venduto milioni di copie. Caldwell è sembrato accorgersi della tempesta solo allora, decidendosi a reagire sul “New York Times” con un articolo un po’ patetico, in cui dichiarava che non per odio né per disprezzo, ma soltanto per amore della sua cara terra infelice, aveva attirato l’attenzione dell’America sulla situazione della Georgia e dei suoi mezzadri. Lo scrittore proveniva da uno strato sociale “alto” della Georgia, perché era figlio di un ministro presbiteriano e di una professoressa di lettere classiche; i viaggi del padre gli avevano dato la possibilità di conoscere da vicino gli ambienti dei poveri, altrettanto “chiusi” di quelli dei ricchi. Aveva fatto i soliti mestieri all’americana: manovale in Georgia, cameriere e macchinista a Philadelphia, cuoco, calciatore professionista ad Allentown, e intanto aveva frequentato l’università in Virginia studiando scienze sociali. A ventisei anni era riuscito a far pubblicare il suo primo romanzo, Il bastardo (The Bastard), ma ne è stata subito vietata la diffusione, anche se molto probabilmente le copie del libro sono state sequestrate dalle autorità solo a causa del titolo. Per anni in Italia non si è saputo quasi niente di lui. Quando, nel dicembre 1945, al Teatro Olimpia di Milano c’è stata la prima della sua commedia con la regia di Luchino Visconti e l’interpretazione di Ernesto Calindri, Vittorio Gassman, Laura Adani e Tino Carraro, i critici hanno parlato di realismo esasperato, di fregola e di foia: si ostinavano a dire che Erskine Caldwell era stato influenzato dai romanzi di Giuseppe Verga. L’interesse di Erskine Caldwell per la lettura era piuttosto scarso e per far fronte a questo limite si era imposto, forse spinto da una delle sue mogli, di leggere un libro all’anno; ogni anno di un Paese diverso. “Ma” mi ha detto un giorno durante un’intervista a Milano “questo Verga non lo conosco proprio.”


Gertrude Stein Autobiografia di Alice Toklas

Nella prima metà del secolo scorso, la letteratura americana era ancora molto giovane: questo vuol dire che per l’America la cultura non era un peso morto di tradizioni imprescindibili. Le tradizioni le conosceva; ma siccome erano acquisite, ne tratteneva quanto scopriva di vitale e il resto non aveva da sentirselo circolare nel sangue. L’esempio, classico, di questo superamento delle costrizioni della tradizione è l’opera di Gertrude Stein che poteva passare dall’ambiente parigino e internazionale dell’Autobiografia di tutti (Everybody’s Autobiography ) a quello chiuso e indigeno di Tre esistenze (Three Lives) senza apprezzabili salti di stile. Ma con Gertrude Stein, è noto, lo stile ha bruciato ogni addentellato decorativo. Il suo libro più famoso è Autobiografia di Alice Toklas (The Autobiography of Alice B. Toklas). Quella di Gertrude Stein e Alice Toklas è stata una delle relazioni più chiacchierate della storia letteraria. L’idea di scrivere Autobiografia di Alice Toklas le è venuta dopo essere passata dall’analisi critica della propria formazione e della propria opera a quella della propria vita. Seppur scritto per gioco, questo libro è un’autobiografia. Infatti questo è stato il libro in cui le si è presentato il problema di dare al passato un’esistenza presente, problema risolto col trucco di costruire il personaggio di se stessa come riflesso delle parole di Alice B. Toklas. E Gertrude Stein si è divertita a rifare lo stile di Alice Toklas, fuori dal suo tipico “steinismo”: insistenza, magia del suono, presente continuo, problemi che l’avevano tormentata nei suoi anni di vita letteraria, in questa specie di diario sono presenti quasi come aneddoti, tanto che potrebbe essere composto dal più accademico degli scrittori naturalistici. Caratteristica della Stein è rimasta solo l’incantevole confusione cronologica. Ma il libro è molto di più; la chiusa: “Gertrude Stein mi dice: Non mi sembra che abbiate nessuna intenzione di scrivere quell’autobiografia. Sapete quel che faccio? La scriverò per voi... E così fece” dimostra tutta l’adorabile ambiguità dello stile della Stein. Autobiografia di Alice Toklas è stato un vero bestseller e una volta pubblicato nel 1933 ha permesso alla Stein di dire: “Mi comprai una nuova Ford 8 cilindri e la pelliccia più cara di Hermès fatta su misura per Basket, il caniche bianco, e due collari per Basket. Non avevo mai guadagnato tanto in vita mia ed ero straordinariamente elettrizzata”. E peggio per chi si ostina a ignorare l’indefinibile, squisito humour della Stein, se si vorranno prendere queste dichiarazioni troppo sul serio. Non si dimentichi che la Stein aveva visto Henri Matisse fare la raccolta di uccelli colorati e ricevere gli intervistatori indossando guanti bianchi; e se fosse vissuta abbastanza avrebbe visto Pablo Picasso, altro famoso frequentatore del suo salotto, farsi fotografare seminudo con una colomba in mano. Gertrude Stein è forse tra le più ribelli e allo stesso tempo tra le più coerenti figure della storia letteraria di tutti i tempi: sgretola ogni forma della letteratura tradizionale e contemporaneamente difende la borghesia dalla quale è nata. Col suo caratteristico humour tra l’ingenuo e lo spietato ha detto: “Nessuno dei miei amici ammette di far parte della borghesia: qui bisogna essere o democratici o aristocratici, perché la borghesia è terra terra, materiale, senza desideri, senza illusioni, sempre monotona, sempre presente, sempre a ripetersi... Eppure affermo che una borghesia materiale, cosciente di sé, controllata dal solido legame della famiglia, è la sola cosa sempre umana, creatrice e degna di quella ripetizione eterna e monotona che è la vita”.


Abbie Hoffman Ruba questo libro

Hoffman è stato uno dei protagonisti della Sinistra radicale americana. La sua storia rimane una delle più strane, drammatiche e passionali. Ex organizzatore del Black Power nel Mississippi, collaboratore nella campagna elettorale di Henry Stuart Hughes candidato a governatore del Massachusetts, digger (uno di quegli attori diventati attivisti sociali) che aveva distribuito il cibo ai neri durante la rivolta di New York, morto suicida nel 1989, a cinquantatré anni, con un’intelligenza eccezionale come la sua chissà cosa avrebbe potuto fare per realizzare la non violenza. Forse è stato anche la presenza che ha aiutato a pilotare la trasformazione dell’East Village di New York dalla scena dei figli dei fiori del 1967 alla scena del 1968 dominata dai PTA (Protestors, Terrorists, Anarchists). Per i media Hoffman è stato l’autore di una serie di gesti da “teatro di strada”, da quando ha partecipato all’impresa di piantare un albero in mezzo a St Mark’s Place, giustificando lo scarso successo conseguito con un cartello che diceva: SOLTANTO DIO PUÒ CREARE UN ALBERO , a quando è riuscito a salire sulla balconata interna della Borsa di New York e a gettare sugli agenti di cambio esterrefatti dollari strappati in pezzi andando poi a bruciarne altri sulla porta d’ingresso dell’edificio, a quando si è presentato a “discolparsi” alla HUAC (House Unamerican Activities Committee), la vecchia organizzazione fondata nel 1938 che si occupava di investigare sulle attività antiamericane, passata attraverso fasi di assopimento o di virulenza a seconda del momento politico, indossando una camicia ricavata da una bandiera americana e soffiandosi il naso in un fazzoletto ricavato da un ritaglio della stessa bandiera. Così è diventato per i media “quello vestito di bandiera”, in una moda che si è presto trasformata in un grosso business: il produttore Steve Goldberg ha venduto trentaseimila “camicie di bandiera” in un anno distribuendole da Manhattan in tutti gli Stati; e i fabbricanti di bandiere hanno raddoppiato la loro produzione, facendole arrivare anche a Mosca dove le “camicie americane” sono diventate di gran moda tra i giovani nei bar del centro. Credo che Abbie Hoffman indossasse la sua camicia di bandiera quando ha preso parte alla Marcia della pace sul Pentagono a Washington il 21 ottobre 1967 con Allen Ginsberg, William Burroughs e Jean Genet che guidavano la marcia salmodiando OM. Nel dicembre di quell’anno aveva organizzato con Jerry Rubin lo YIP , lo Youth International Party, che aveva raccolto i cosiddetti hippie politicizzati ribattezzandoli yippie. Gli yippie hanno preso parte ai Festival della Vita di Chicago, durante la Convenzione del Partito Democratico il 25-30 agosto 1968, trecento crani rivoluzionari spaccati dalla polizia; poi, Abbie Hoffman e Jerry Rubin, dopo la condanna a cinque anni di prigione e a cinquemila dollari di multa per incitamento ai disordini, hanno accostato il loro Youth International Party al Partito delle Pantere Bianche in una coalizione politicorivoluzionaria. In Ruba questo libro (Steal This Book) del 1970 Abbie Hoffman sostiene che i libri dovrebbero essere gratuiti e che il suo dovrebbe essere letto da milioni di persone perché è un manuale per la guerriglia negli Stati Uniti con istruzioni per improvvisare i pronto soccorso durante i combattimenti, per coltivare la marijuana, per costruire una bomba. Non sono mai riuscita ad accettare tutti i punti difesi da Hoffman, ma i suoi ideali hanno cambiato il corso della storia americana e la sua determinazione gli ha fatto superare il rifiuto di pubblicare il suo libro da parte di almeno trenta editori. Lo scrittore definiva affettuosamente e aggressivamente l’America, che scriveva con la k, l’“Impero dei Porci”. Voleva creare un essere umano rivoluzionario: la sua accusa rientrava nel quadro generale del momento e consisteva nell’attaccare più di tutti gli altri gli esponenti delle ideologie radicali.


Dorothy Parker Il mio mondo è qui

Dorothy Parker è stata così importante nella storia della letteratura e del costume americani che spesso viene citata anche nel cinema: nel 1994, per esempio, il regista Robert Altman ha deciso di produrre il film intitolato Mrs Parker e il circolo vizioso (Mrs Parker and the Vicious Circle). Mrs Parker è la scrittrice/poetessa/sceneggiatrice/commediografa/giornalista americana militante degli anni Venti e il “circolo vizioso” è composto da alcuni amici che quasi ogni sera dal febbraio 1920 si riuniscono al ristorante dell’Hotel Algonquin tra la Quinta e la Sesta Strada di Manhattan, costituendo il nucleo della intellighenzia giornalistica di New York di quel tempo. Dorothy Parker è nata il 22 agosto 1893 a Long Branch, New Jersey, ed è cresciuta nell’Upper West Side di New York. La grazia, lo humour, la disperazione della sua prosa l’hanno portata a essere uno dei membri del Pantheon dei geni letterari d’America. Della sua modestia a dir poco esagerata esiste un’intera aneddotica, della sua straziante infelicità esistono tre tentativi di suicidio, delle sue ansie sociali esiste la messa al bando ai tempi della caccia alle streghe maccartista, del suo impegno antidiscriminatorio esiste il testamento che ha lasciato suo erede universale Martin Luther King e, dopo la morte di quest’ultimo, la National Association for the Advancement of Coloured People (Associazione nazionale per la promozione della gente di colore), della sua audacia restano la partecipazione pubblica al dramma di Sacco e Vanzetti e alla propaganda per i lealisti della Guerra di Spagna. Riconosciuta come un’esponente della Flaming Youth cara a Francis Scott Fitzgerald, le sue esperienze politiche sono fondamentali per capire le sue trasgressioni, il suo umorismo e i suoi versi. Forse la sua poesia più conosciuta è Résumé in cui è riuscita a scherzare anche sui suoi gesti intrisi di disperazione: I rasoi fanno male; I fiumi sono umidi; Gli acidi lasciano tracce; E le pillole danno i crampi. I fucili non sono legali; I nodi scorsoi non tengono; Il gas ha una puzza orrenda; Tanto vale vivere.

Il suo umorismo e le sue battute amare le hanno procurato la reputazione di donna più spiritosa di New York: erano commenti che smantellavano la pedanteria, la petulanza o l’ipocrisia, caratterizzati sempre da un’eleganza, una leggerezza, una poesia tali da rendere l’irriverenza solo un trucco per indurre la presa di coscienza dell’egoismo dei cosiddetti “ricchi”. Le protagoniste dei suoi racconti sono sempre donne che per trovare una via di fuga dal loro destino segnato dalla mancanza di speranza si aggrappano all’esuberanza della vita. Sono donne che ricordano da vicino la Parker stessa, che superava i disastri della propria vita con lo humour. Come ho avuto modo di raccontare nella lunga introduzione a Il mio mondo è qui (Here Lies), la raccolta di racconti pubblicata per la prima volta in America nel 1939 e tradotta in Italia da Eugenio Montale per Bompiani, quando l’Istituto nazionale americano di Arti e di Lettere nel 1958 le ha assegnato un premio di mille dollari destinato a “un anziano che abbia continuato a praticare la sua arte con integrità” e Dorothy Parker è andata sul palco a stringere la mano del presidente Malcolm Cowley, tutti i membri dell’Istituto e dell’Accademia si sono alzati in piedi in segno di omaggio: è stata la prima volta che un fatto del genere avveniva nella storia dell’Istituto. Hannah Josephson, bibliotecaria dell’Accademia americana di Arti e Lettere, lo ha fatto notare alla Parker e la scrittrice ha detto: “Oh, si sono alzati per me? Credevo che si fossero alzati per andarsene!”.


Joan Didion Democracy

Joan Didion è una scrittrice californiana nata il 5 dicembre 1934. Il suo primo romanzo è Run, River, pubblicato nel 1963. Dopo qualche anno sono usciti due romanzi che erano diventati bestseller, nel 1970 Prendila come viene (Play It as It Lays) e sette anni dopo Diglielo da parte mia (A Book of Common Prayer), oltre a due splendide raccolte di saggi, nel 1968 Verso Betlemme (Slouching towards Bethlehem) e undici anni dopo Il libro bianco (The White Album). Democracy, pubblicato nel 1984 e il cui titolo ricalca quello dell’omonimo volume ottocentesco di Henry Adams, è il più ambizioso dei suoi libri. Una recensione di Mary McCarthy lo definisce “un romanzo poliziesco ambientato a Honolulu”, un’affermazione che sembra un po’ riduttiva perché Joan Didion è fuori da qualsiasi etichetta, ma che è stata ripresa da altri critici che hanno accostato il romanzo a Un americano tranquillo (The Quiet American) di Graham Greene. La protagonista, Inez, è la figlia di una famiglia ricca nelle Hawaii ed è sposata a un senatore liberale americano che ha rasentato la nomina presidenziale, Harry. Da lui, che vagamente ricalca i personaggi kennediani, ha avuto un figlio che ha troppi incidenti di macchina e una figlia che è troppo drogata e che fugge in Vietnam durante la guerra. Inez ha avuto a diciassette anni un flirt con un ufficiale, Jack Lovett, poi diventato membro della CIA e torbido affarista nei luoghi della guerra; questo flirt non si è mai spento, tanto che a quarant’anni Inez abbandona il marito e fugge con lui che riesce a recuperarle la figlia a Saigon per poi morire annegato in una piscina, lasciando Inez al suo destino di solitudine e alla sua scelta di vivere in Birmania per dirigere un ospedale di rifugiati. È una storia un po’ melodrammatica e vagamente granguignolesca, di quelle che ricorrono anche negli altri romanzi della Didion; ma le ricerche di stile e di struttura narrativa di questa scrittrice sono tali che i suoi intrecci sembrano passare in secondo piano. Il meccanismo più vistoso nella costruzione del libro è la totale assenza delle unità aristoteliche di tempo e di azione. La storia è del tutto sgretolata in brandelli minuscoli che poi vengono ricostruiti da un narratore, in questo caso la Didion stessa, che dopo poche pagine si introduce con la frase melvilliana “chiamatemi l’autore”. La ricostruzione è realizzata dal narratore col metodo della ripetizione e della struttura paratattica di coordinate svincolate da qualsiasi subordinata, struttura cara a Hemingway (dal quale infatti la Didion ammette di essere stata molto influenzata) e, o così pare, a Gertrude Stein. Il metodo compare già nella prima pagina: “Le disse. / Jack Lovett disse a Inez Victor. / Inez Victor nata Inez Christian. / Disse...”; e, due pagine dopo: “Le disse. / Jack Lovett disse a Inez Victor (nata Inez Christian) nella primavera del 1975. / Ma le esplosioni del Pacifico, disse Jack Lovett. / Quelle intorno al 1952, 1953. / Cristo, com’erano dolci”. Con questa veste di stilista la Didion mostra, sotto le sue ricerche espressive, una caparbia aderenza alla realtà, che va dagli orari delle compagnie aeree specialmente del Pacifico (che infatti ingombrano il suo tavolo durante la preparazione dei libri) alla insistenza sulle date di avvenimenti sia di peso internazionale sia soltanto privati, tale da far pensare all’antica affermazione dello scrittore americano William Carlos Williams: “Ci sono idee soltanto nelle cose”; e infatti la Didion ha detto, mi pare nel saggio Perché scrivo (Why I Write) del 1976: “La mia attenzione era sempre concentrata su ciò che vedevo e assaporavo e toccavo”. Tuttavia quella realtà è lontana da una scrittura realista o naturalista: le immagini della Didion sono sempre vagamente visionarie, le cose descritte sono come baluginanti, quasi da visione psichedelica, e le battute dei dialoghi si intersecano senza che un personaggio ascolti o tenga conto di quello che dice l’altro. La protagonista non “dice” ma “si sente dire” e il “narratore” stesso descrive questa situazione ricordando che Inez parlava sempre come se “perfino i dettagli più chiari di luogo e di tempo fossero intrinsecamente inconoscibili, aperti a diverse letture”: “Credo che fossimo a Giacarta” diceva Inez, oppure “diciamo che fosse maggio”. Queste battute volutamente vaghe si intrecciano con battute crudamente colloquiali, che fanno pensare a una profonda influenza esercitata sulla Didion dal cinematografo di cui è stata e continua a essere protagonista come sceneggiatrice; e forse dal cinematografo le deriva anche una straordinaria capacità di suspense nel suo personalissimo modo di anticipare scene che vengono svolte poi molte pagine dopo. Forse è anche dal cinematografo che le viene un suo modo inimitabile di inframmezzare i dialoghi con continui flashback collegati da ripetizioni insistenti, se si vuole fino al manierismo. In un’intervista rilasciata a Sarah Davidson la Didion ha


spiegato queste ripetizioni con motivazioni che mi confermano nella mia idea di un’influenza esercitata su di lei dalla Stein: “Mi sembrava necessario ricordare al lettore certe connessioni. Tecnicamente è quasi una salmodia. Si possono leggere come un tentativo di creare un incantesimo o di scendere a patti con certi demoni contemporanei. Non saprei dire quali siano questi demoni ma ce ne sono molti: la politica, il sesso”. Joan Didion canta il vuoto del sogno americano: i suoi personaggi si muovono come in un inferno privato, indifferenti al dolore degli altri.


James T. Farrell La vita di Studs Lonigan

Una delle prime cose che Ernest Hemingway mi ha detto a Cortina nel 1948, quando l’ho incontrato per la prima volta, è che il più grosso problema della sua generazione di scrittori era stato liberarsi dall’influenza di Sherwood Anderson. La stessa frase me l’ha ripetuta William Faulkner quando l’ho incontrato a Parigi nel 1952. Nel 1927 James T. Farrell ha letto Tar: a Midwest Childhood di Sherwood Anderson, credo mai tradotto in Italia, in una stazione di rifornimento a Chicago. Più tardi ha scritto che quel libro gli aveva dato la forza di riaffermare se stesso: aveva consolidato la sua ambizione di scrivere. Anderson è stato “uno dei semi che ha condotto a La vita di Studs Lonigan”, la trilogia considerata tra i capolavori della cosiddetta Scuola di Chicago formata da Studs Lonigan ragazzo (Young Lonigan ) del 1932, La giovinezza di Studs Lonigan (The Young Manhood of Studs Lonigan ) del 1934 e Il giorno del giudizio (Judgment Day) del 1935. In Italia è stata pubblicata in due volumi da Einaudi. James T. Farrell è nato a Chicago da genitori molto poveri ed è stata la nonna a occuparsi della sua educazione: dall’ambiente della povertà operaia era così passato a quello di una piccolissima borghesia irlandese-americana cattolica fino al bigottismo. Il sogno della sua infanzia era stato diventare giocatore di baseball; dopo il liceo, dove si era interessato più allo sport che agli studi, la morte del padre lo aveva costretto a lavorare per aiutare la madre e i fratellini. Si era impiegato nella ditta dove aveva lavorato il padre, ma intanto si era iscritto all’Università di Chicago nella facoltà di Scienze Sociali. La reazione violenta di Farrell al bigottismo era forse alimentata da un ambiente dove il cattivo gusto più che l’ignoranza e il tradizionalismo più che la povertà impedivano all’intelligenza di farsi strada. Uno dei suoi interrogativi irrisolti era come fosse possibile mantenere l’integrità nella pratica politica rivoluzionaria. Il suo era un ambiente così rigidamente classista da autodistinguersi in quattro fasi: la fase shanty (poverissima, quasi da slum), la fase stove heat (che chiamerei da cucina economica), la fase lace curtain (da tendine di pizzo) e la fase gentleman, dei “signori”. Alla seconda fase appartenevano i genitori di Farrell e alla terza lo zio e la nonna che lo hanno allevato. Ma da dietro le loro tendine di pizzo care alla gente modesta in ascesa, lo zio e la nonna non avevano visto che il ragazzo James prima di rientrare a casa dalle scuole elementari cattoliche di Sant’Anselmo, e più tardi dal Liceo cattolico St Cyril, passava lunghe ore agli angoli delle strade a chiacchierare con coetanei che appartenevano al suo stesso strato sociale ma erano agitati da problemi sessuali e morali molto lontani dalla rispettabilità predicata nelle loro scuole e nelle loro case. Una volta deciso di scrivere un libro, Farrell aveva raccontato la storia di quei ragazzi e di quei discorsi. Di quei turbamenti da adolescenti di cui parlavano a non finire all’ombra nera e pesante della ferrovia sopraelevata. Il libro si era chiamato Young Lonigan dal nome del protagonista; ma le storie tra adolescenti erano così “spinte” che l’editore aveva deciso di attirare l’attenzione sull’aspetto sociale del problema: un’introduzione al libro che ne aveva sviato l’intento e stampigliato Farrell, schietto discendente del romanzo psicologico, con la scomoda etichetta di “scrittore sociale”. Ancora oggi Farrell viene considerato il caposcuola della narrativa sociale americana tra le due guerre; e l’accento viene sempre messo su questo aspetto della sua opera più che sulle decine e decine di processi per oscenità provocati dai suoi vari libri, quasi tutti messi all’indice negli Stati Uniti. Il suo stile è rimasto negli anni, e nei suoi numerosi romanzi, estremamente scorrevole, di piacevole lettura, non sofisticato. Quasi a non voler distrarre il lettore dal significato: è uno stile volutamente dimesso che rende il senso della vita quotidiana dei personaggi ritratti con grandissima abilità. La costruzione, il taglio, lo svolgimento dei suoi scritti sono sempre stati eccellenti: la sua capacità di mantenere l’equilibrio e la continuità dei volumi con i protagonisti che spesso si susseguono senza mai un’incertezza è straordinaria. James T. Farrell è considerato il più importante naturalista americano.


Malcolm Cowley Il ritorno degli esuli

Già mentre frequentava l’Università di Harvard, Malcolm Cowley aveva sognato di scrivere la storia della letteratura americana, materia che ancora non esisteva. Ma la guerra gli aveva fatto abbandonare l’idea; e anche l’università. Era andato in Francia a guidare le ambulanze come Ernest Hemingway, John Dos Passos, Edward E. Cummings, Julian Green e tanti altri scrittori, ma in realtà gli avevano fatto condurre camion carichi di munizioni. Prima di ritornare in America, poi, aveva visto Parigi, avvicinato i poeti e la cultura francese. Quando questi ex autisti-scrittori avevano cominciato a emigrare a Parigi per approfittare di un cambio estremamente favorevole, Cowley, ritornato ad Harvard per laurearsi, aveva ottenuto una borsa di studio per vivere in Francia due anni ed era andato a sistemarsi in provincia passando i weekend a Parigi. Era diventato amico di Hemingway e di Pound, aveva frequentato il salotto della Stein e i dadaisti tra cui Tristan Tzara e i surrealisti tra cui Louis Aragon, si era avvicinato a Paul Valéry che lo aveva profondamente influenzato. Aveva fatto parte della Generazione Perduta, il gruppo di autori americani che, in alcuni casi dopo aver combattuto nella Prima guerra mondiale, si stabilirono in Europa, soprattutto a Parigi; l’esperienza francese aveva distrutto per sempre i preconcetti letterari assorbiti a Pittsburgh, dove era cresciuto, e a Harvard e avevano distrutto per lui lo stile di vita americano insegnandogli a frequentare i caffè, a chiacchierare tutta la notte, a discutere il proprio lavoro coi compagni. Al suo rientro era ormai deciso a “controbilanciare” il provincialismo della vita americana creando una letteratura cosmopolita, aggiornata, spiritosa e aristocratica: una letteratura che trattasse altri tempi o Paesi e l’America ma soltanto con garbata ironia e stile molto raffinato. Era la tendenza rappresentata da James Branch Cabell e dalla poetessa Elinor Hoyt Wylie. Il mondo e la storia dei suoi anni parigini avevano fatto da protagonisti ne Il ritorno degli esuli (Exile’s Return ), il libro che aveva pubblicato nel 1934, quando già si era affermato in America come esponente della letteratura d’avanguardia cosmopolita del dopoguerra grazie ai suoi articoli che sostenevano la “nuova” narrativa americana cara a tutti i critici progressisti (tra i quali Edmund Wilson e Lewis Mumford) in contrapposizione ai critici conservatori che difendevano la narrativa tradizionale definendosi new humanist. Quando questa polemica, la più importante che abbia agitato la storia letteraria americana, si era incanalata nella inevitabile soluzione, Cowley aveva iniziato una delle sue attività più brillanti: quella di curatore di antologie, che gli permetteva di divulgare le sue idee. È grazie a lui se negli Stati Uniti è nato un interesse capillare per la letteratura nazionale. Il metodo di Cowley era chiaro: il critico esaminava i libri americani e ne scriveva come fosse il primo ad averli letti. Aveva cominciato dagli scrittori più vicini a lui, poi aveva lavorato su Walt Whitman, Sherwood Anderson, Scott Fitzgerald, finché il “New York Times” lo aveva definito iniziatore del Movimento degli studi americani (praticamente l’iniziatore della autoctonia letteraria americana). Era fanatico della scrittura chiara e scriveva in modo semplice e diretto; era soprattutto interessato a spiegare ai lettori che cosa rendeva bravo uno scrittore: la sua critica era anche giornalismo, nel senso che riferiva notizie. La sua opera era storica, biografica, psicologica, sociologica ed etica, spesso tutte queste cose insieme: voleva rapportare l’opera degli autori alla loro vita, illuminarla dando luce alle circostanze e agli scopi che ne avevano determinato la creazione. Di frequente scriveva su di loro tanto quanto sulla loro opera: era affascinato dalle personalità anche se spesso le metteva in discussione; il fatto di conoscerle personalmente aiutava i suoi sforzi e dava colore alle sue descrizioni. Ma non cadeva mai nell’aneddotica. Talvolta cercava di collocare l’opera dello scrittore confrontandola con la letteratura di altri tempi. Leggendo Cowley si ha sempre la sensazione di ascoltare un racconto. Il suo senso della narrazione è componente fondamentale del suo stile. La maggior parte dei suoi saggi critici si adattano alle convenzioni dei racconti: c’è un inizio, un centro e una fine. Più o meno a quarantacinque anni era diventato consulente della Viking Press, dove aveva fatto pubblicare i due portable, le due antologie, di Hemingway e di Faulkner, e sulla rivista “Life” aveva pubblicato il primo ritratto autorizzato di Hemingway, che si fidava di lui perché erano stati compagni nella vita di espatriati a Parigi; l’idea dei portable era stata di Alexander Woollcott che li chiamava “ a jeep of a book” perché dovevano essere “fatti come una jeep: compatti, efficienti e versatili” e li destinava ai soldati americani in guerra.


Nel 1951 aveva pubblicato una edizione de Il ritorno degli esuli rivista e ampliata rispetto alla precedente, con inoltre un prologo che spiega il senso della Generazione Perduta e un epilogo che ne riassume la storia in quattro stadi e ne condensa l’esperienza culturale e programmatica. Insomma, Cowley scriveva “di ciò che conosceva”, proprio come Anton Čechov, ispiratore di Ernest Hemingway e di Raymond Carver. Anche lui come Hemingway sosteneva di dover “cominciare con le cose più semplici per arrivare a creare un mondo nuovo in un modo nuovo”.


Thomas Wolfe La ragnatela e la roccia

Thomas Wolfe non è mai stato molto conosciuto in Italia; tuttavia in America è considerato il massimo esponente letterario degli anni Trenta. La ragnatela e la roccia (The Web and the Rock ) è stato pubblicato postumo, nel 1939, un anno dopo la morte precoce dell’autore nel corso di un intervento chirurgico. Lo ha ricavato Edward C. Aswell, il revisore succeduto a Maxwell Perkins, da un manoscritto colossale che è stato trovato in casa dello scrittore. L’attesa che circondava il manoscritto era resa più viva dalle ripetute dichiarazioni fatte nel corso degli anni da Wolfe, dalle quali pareva che non avrebbe mai più scritto ispirandosi alla propria biografia: il giovane autore era stato colpito amaramente dallo scandalo suscitato dalla comparsa del suo primo libro Angelo, guarda il passato (Look Homeward, Angel. A Story of the Buried Life), che era uscito nel 1929 e aveva fatto ribollire di sdegno gli abitanti di Asheville, la sua città natale del North Carolina, per aver rivelato alcuni loro segreti. Quando il revisore, superata l’affermazione scritta da Thomas Wolfe nella nota prefazionale, “questo è il romanzo più obiettivo che io abbia mai scritto”, ha scorso il fluviale manoscritto, si è accorto che in realtà Wolfe aveva raccontato da capo la storia della sua vita. Nonostante alcuni lievi mutamenti la prima metà del libro pareva una rielaborazione dei romanzi precedenti: quello già citato e Il fiume e il tempo (Of Time and the River. A Legend of Man’s Hunger in His Youth ) pubblicato nel 1935, nei quali Wolfe aveva narrato la storia della propria fanciullezza e dei propri studi; ma la seconda metà narrava una storia nuova. Le avventure del protagonista venivano riprese dal punto in cui le aveva lasciate ne Il fiume e il tempo. E qui il protagonista è travolto dalla scoperta di New York: della leggendaria roccia di Manhattan “splendente, gloriosa, infaticabile, immortale” e della rete di ipocrisie che l’avvolge. Da questo libro risulta chiaro che sono i giovani del Sud a vedere New York come un castello fatato, una roccaforte di splendori e di felicità segrete. Manhattan in realtà si compone di una favoleggiata immagine creata da anni di sogni e di attese e insieme dalla New York degli intellettuali un po’ arrivisti e po’ intriganti che affollavano, come hanno sempre fatto e probabilmente faranno sempre, i cenacoli e i ritrovi letterari. Basandosi sulle date di pubblicazione dei suoi libri, Wolfe è sempre stato raggruppato tra gli scrittori sociali del decennio tra il 1930 e il 1940. Ma Wolfe appartiene in realtà alla generazione precedente. Non è un caso se ha raccontato di essere stato influenzato da James Joyce: il suo Ulisse, censurato e venduto alla borsa nera in America, è stato una delle fiaccole dei rivoltosi morali del decennio tra il 1920 e il 1930. Quando, negli anni della Depressione, Wolfe è andato a vivere nel quartiere assiro di Brooklyn in attesa della gloria lontana e degli assegni materni fortunatamente più puntuali, la povertà che lo circondava non lo ha spinto verso il Greenwich Village e nemmeno a scrivere pagine di critica sociale, ma lo ha riportato alle vaste, serene vallate verdeggianti del suo North Carolina e ai dolci fiumi azzurri delle sue montagne. Che proprio a lui fosse toccato di essere il cantore “dell’individuo” americano era stato lo scherzo curioso di una sorte che aveva dato la più normale, scorrevole e scialba vita possibile a un uomo che fisicamente e intellettualmente covava vulcani di violenza e di disordine. Da questi vulcani scaturiva la sua traboccante capacità creativa, ma le sue storie scaturivano dalla vita. Nel 1958 la scrittrice Ketti Frings si è presa il compito di ridurre il suo romanzo Angelo, guarda il passato in commedia; il lavoro era immane e di certo la povera Ketti non ce l’ha fatta: le soluzioni della commedia sono troppo sbrigative, i personaggi pedantemente stereotipati. Dopotutto i difetti dei romanzi di Thomas Wolfe sono quasi sempre gli stessi: eccessiva lunghezza, a volte roboanza e retorica. Ma in tutti è presente anche una grande ansietà e avidità e sensibilità alle cose e alle persone. Jack Kerouac, quando nel 1950 ha pubblicato La città e la metropoli (The Town and the City ), è stato definito il continuatore di Thomas Wolfe; forse per la verbosità o forse proprio per aver narrato la vita.


William Saroyan Che ve ne sembra dell’America?

“Ah, questi americani: che popolo giovane!” ho detto il giorno in cui ho letto Il trapezio volante (The Daring Young Man on the Flying Trapeze), il racconto di William Saroyan pubblicato per la prima volta sulla rivista “Story” nel 1934 e giunto in Italia qualche anno più tardi. Prima di arrivare a me, quel racconto aveva attirato su di lui l’attenzione del pubblico e della critica americani, procurandogli un successo che aveva dato allo scrittore una popolarità quasi immediata. Dalla pubblicazione de Il trapezio volante, William Saroyan aveva continuato a far uscire un racconto dopo l’altro e già nel 1935 aveva pubblicato una raccolta di ventisei racconti che prendeva titolo dallo stesso fortunato brano e che in un anno aveva condotto lo scrittore a diventare una delle più discusse stelle letterarie del suo tempo. Ad attirare su di lui la simpatia della nuova generazione di lettori erano state la freschezza e l’originalità dello stile, l’apparente ingenuità e la sincerità dell’autobiografismo, la straordinaria sensazione di vita che emanava dalle sue pagine, l’intensità della protesta sociale che rientrava nella corrente contemporanea della narrativa americana, insieme alle dichiarazioni di indipendenza stilistica e letteraria contenute in una prefazione che era una specie di manifesto contro l’intellettualismo e la sofisticazione dei “letterati” tradizionali. La vaga ironia, la melanconia che rasenta le lacrime come quella di un protagonista di un suo racconto che dice: “Cercate di essere vivi, sarete morti fin troppo presto”, lo stoico distacco espresso spesso per mezzo del monologo interiore in uno stile tra il discorsivo e l’impressionista avevano suscitato un entusiasmo che in quegli anni, in cui gli americani cercavano di tornare a galla col New Deal di Franklin Delano Roosevelt dal disastro della Grande crisi del 1929, era apparso più che giustificato. A Il trapezio volante erano seguiti Inhale and Exhale e Three Times Three , e nel 1937 Little Children: era stato da questi volumi che Elio Vittorini aveva fatto la selezione per Che ve ne sembra dell’America?, uscito in Italia nel 1940, una raccolta di racconti brevi che narrano San Francisco e i suoi immigrati da tutte le parti del mondo attraverso gli occhi di un piccolo armeno. Il nome di William Saroyan qui da noi era legato indissolubilmente a quello di Elio Vittorini, che ce lo aveva presentato in una lingua che non si capiva dove finiva di essere sua e dove cominciava a essere di William Saroyan, una simbiosi felicissima e intrisa di poesia. Di Saroyan piaceva a Elio Vittorini il sentimentalismo tipico degli anni Trenta, ma forse ancora di più quel modo di scrivere fra il melodico, il confidenziale e quello che pareva l’antiletterario, elemento entrato in blocco nel suo stile. Col tempo Vittorini ha rinunciato a questa influenza, ma intanto William Saroyan era, come si dice, diventato di moda, specialmente presso i giovani, alle prese col mito libertario americano e ancora ostili al New Criticism, la scuola critica americana che sul finire degli anni Trenta aveva spostato l’attenzione dall’ambiente del libro alla forma letteraria: proprio ciò contro cui avevano preso posizione gli scrittori del decennio precedente. Da quegli scrittori derivava William Saroyan. Prima di diventare fortunato sceneggiatore a Hollywood e commediografo di successo a Broadway aveva letto molto nella biblioteca pubblica di Fresno, in California, dove abitava con la sua famiglia di origine armena, dal momento che non aveva i soldi per comperarsi i libri. Sicuramente aveva imparato la lezione di Ernest Hemingway e di Walt Whitman, ma soprattutto quella di Sherwood Anderson con la sua indifferenza per l’intreccio, il suo accento messo sulla spontaneità, il suo giocare a rimpiattino con la tecnica stilistica, la sua scelta di personaggi reietti e strani, il suo garbo nelle scene sessuali, la sua sensibilità per il dramma della solitudine.


William Styron Un letto di tenebre

Questo libro pubblicato a New York dall’editore Bobbs-Merrill nel 1951 e qui in Italia nel 1958 da Sugar (nonostante l’avessi raccomandato a Mondadori già nel marzo 1952) è il documento definitivo di come l’età augustea americana della Generazione Perduta fosse ormai un fatto: personaggi alla Francis Scott Fitzgerald, dialoghi alla Ernest Hemingway e più spesso alla Gertrude Stein, atmosfera alla Tom Wolfe, taglio alla John Dos Passos e soprattutto idee alla William Faulkner, che hanno portato William Styron a riscrivere due volte la prima parte del romanzo per evitarne le somiglianze eccessive. Ne risulta un Faulkner deliziosamente addomesticato – disciplinato, divertente e gentile – in una spezzatura cronologica abbastanza ammaestrata da far sentire molto, molto intelligenti; così intelligenti da capire la trama nonostante la spezzatura e soprattutto da capire che quest’ultima c’è. Non è strano che il libro sia stato un bestseller in America, come del resto qui in Italia. Il suo successo ha dimostrato come gli autori citati prima fossero definitivamente assimilati dalla massa dei lettori, disposti oramai ad applaudire chi sapesse sfruttarne le formule con garbo e senza troppe complicazioni. D’altronde il libro è fatto con una abilità diabolica, senza un minuto di sosta (tranne forse un paio di episodi: il disegno del personaggio del prete e un altro verso la fine). Il trucco è il solito, quello che fa ancora andare in bestia i nostri critici umanistici: le descrizioni sono sempre di fatti, mai di stati. I personaggi del libro non vengono mai descritti, ma risultano dalle loro azioni, dalle loro avventure, dai loro gesti; e da questo deriva un insolito senso di aderenza alla vita: quell’aderenza alla vita caratteristica della narrativa americana. E in questo romanzo i fatti sono sempre così mutevoli e rapidi che, anche quando i personaggi non emergono chiaramente, resta una vivacità ininterrotta di episodi che si snodano ricchi di vita, molto più vicini al documento che all’invenzione psicologica. È la storia dei figli della Generazione Perduta. Mostra padri che bevono più per “disperazione” che per “ira”. E figlie che bevono non per “dolore” ma per “ira” e “impotenza” e “rimpianto”. Le parole sono del libro e ne costituiscono l’ossatura, come se la Generazione Perduta in realtà non fosse perduta ma si fosse limitata a perdere i suoi figli. William Styron è nato nel 1925 in Virginia, nel vecchio Sud, e ha trascorso la maggior parte della giovinezza in guerra, nei Marine. Il suo mentore è stato Hiram Haydn, di cui è stato allievo a New York, dopo aver studiato nel Sud con William Blackburn, suo “scopritore”. William Styron voleva scrivere la storia del negro ribelle Nat Turner, capo della rivolta degli schiavi avvenuta in Virginia nel 1871, ma proprio Haydn l’ha consigliato di aspettare di raggiungere una maturità maggiore. E per il momento raccontare qualcosa più connesso alle proprie esperienze personali. William Styron ha seguito il consiglio e ha scritto questo Un letto di tenebre (Lie Down in Darkness), storia di una famiglia dilaniata dall’alcolismo e dalla follia ambientata nel suo Sud di tradizione antica (i nonni avevano posseduto schiavi). Le confessioni di Nat Turner (The Confessions of Nat Turner) è uscito solo nel 1967, maturo al punto di meritare il Premio Pulitzer, provocare un processo di diffamazione intentato dalle associazioni afroamericane (lo ha difeso James Baldwin, scrittore discendente di schiavi, che gli aveva fatto da consulente nella stesura del libro) e suscitare ammirazione per la sua abilità nel raccontare la storia dal punto di vista del protagonista nero. Un procedimento che è stato ispirato dalla lettura, nel 1962, de Lo straniero (L’Etranger) di Albert Camus. Le ricerche e gli studi svolti durante la preparazione del libro lo hanno trasformato in un esperto del problema della minoranza nera, tanto che è stato invitato da Bob Kennedy a collaborare al suo discorso fondamentale per i diritti civili del 1964. William Styron ha risposto all’invito suggerendo le parole chiave del messaggio: “La nostra inesauribile ricerca di giustizia”. Sposato con la devota e diletta Rose Burgender, William Styron ha vissuto secondo una massima di Gustave Flaubert stampata accanto al suo tavolo di lavoro: “Siate regolari e ordinati nella vita come un bravo borghese, in modo da poter essere violento e originale nel vostro lavoro”.


Nelson Algren Mai venga il mattino

Nelson Algren è famoso nel mondo per due ragioni di gran lunga inferiori alla sua eccezionale qualità letteraria: la sua storia d’amore con Simone de Beauvoir e il film del 1955 ricavato dal suo romanzo L’uomo dal braccio d’oro (The Man with the Golden Arm) interpretato da Frank Sinatra e Kim Novak. Della decina di libri suoi rimasti nel silenzio esoterico degli specialisti, delle esperienze drammatiche, delle amarezze frustranti e della fine più tragica di qualsiasi suo racconto si è parlato poco, davvero troppo poco, in un’ingiustizia letteraria e umana che non ha tenuto conto di quanta parte ha avuto nella formazione della Scuola di Chicago (Theodore Dreiser, Frank Norris, Upton Sinclair, Edgar Lee Masters, Sherwood Anderson, Carl Sandburg) e della cosiddetta Narrativa proletaria (James T. Farrell, Richard Wright, Erskine Caldwell, John Steinbeck, James Cain), e di quanto ha inciso nel costume dell’inquieto dopoguerra d’America. In alcuni romanzi Nelson Algren ha presentato scene truculente e rivoltanti, ma, al di là dei miei gusti personali, trovo più interessante citare Malcolm Cowley che in una lungimirante recensione a Mai venga il mattino (Never Come Morning) del 1942 ha scritto di Algren che “non è un romanziere di istinto. È il poeta degli slums di Chicago”. La sua profondissima umanità lo rendeva partecipe della tragedia e l’orrore, l’ingiustizia e l’inesorabilità che dominavano il mondo dei reietti. Con distacco da sociologo, angolazione da comunista e insieme con passione da poeta ha descritto e cantato questi ambienti nella chiave severamente neorealista di quel tempo americano e soprattutto degli scrittori della Scuola di Chicago. Tra questi avrei la tentazione di aggiungere Hemingway, che ha definito Mai venga il mattino “il miglior libro uscito da Chicago”, se Hemingway stesso non avesse scritto nella sua copia di L’uomo dal braccio d’oro : “Ok, ragazzo, hai battuto Dostoevskij. Non ti combatterò mai a Chicago. Mai. Ma ti farò fuori nelle città che io conosco e che tu non conosci”. Il metodo di lavoro di Nelson Algren non si basava su scalette o trame predisposte ma sulle sue sensazioni, le reazioni alla visione del disastro: nell’estate 1940 aveva già scritto duecentosessantatré pagine di Mai venga il mattino – storia dell’amore e dei sogni di due ragazzi del ghetto polacco di Chicago, Steffi, una prostituta, e Bruno, un pugile – ma non aveva ancora deciso come si sarebbe conclusa la storia. Quando finalmente nel 1942 il libro è stato pubblicato, Nelson Algren si è ritrovato a trentatré anni autore di uno studio sulla psicologia dei criminali e degli sfruttati, dove ha presentato le prostitute come esseri devastati dalla società e dove, per dirla con le parole di Richard Wright: “Ha fatto per i polacchi di Chicago ciò che William Faulkner faceva per i poveri bianchi del Mississippi”. La felicità procurata ad Algren da queste lodi dura poco: alla metà di maggio 1942 cominciano a piovere sui giornali polacchi d’America le richieste di togliere il libro dalle biblioteche pubbliche e insieme arrivano lettere di protesta all’editore da parte della Chiesa cattolica polacca; il furore è placato dal sindaco di Chicago, che promette di togliere il libro dalla circolazione, nonostante le proteste di Algren, convinto che le condizioni disastrose descritte nel libro non vadano imputate alla nazionalità polacca ma alla situazione sociale. Ancora nel 1962 Mai venga il mattino era escluso dalla Biblioteca pubblica di Chicago. Algren era considerato, infatti, un autore rischioso, non tanto per la retorica marxista della sua prima opera Somebody in Boots ma per la firma apposta nel giugno 1940 sulla petizione della Lega degli scrittori americani contro l’ingresso in guerra; una firma che aveva attirato l’attenzione di John Edgar Hoover, uno dei più severi direttori che l’ FBI abbia mai avuto: sotto di lui sono stati inquisiti trentottomila cittadini ritenuti simpatizzanti comunisti. Nelson Algren ha dovuto aspettare il 1981 per essere finalmente eletto membro dell’Accademia americana di Arti e Lettere, proposto dallo scrittore postmoderno Donald Barthelme e da Malcolm Cowley. Per celebrare la nomina ha deciso di dare una festa. La vigilia della festa ha raccontato a un intervistatore, invitandolo, che aveva già comperato il vino. Ma quel vino non lo ha bevuto mai. L’indomani i primi ospiti lo hanno trovato disteso a terra, stroncato da un infarto.


James Thurber La notte degli spiriti e altri racconti

Con i suoi racconti e i suoi fumetti irresistibili, James Thurber, detto Jamie o Jim dagli amici, ha regalato tanta gioia e tanto senso di colpa a intere generazioni americane. Walter Mitty, il suo personaggio più famoso, apparso per la prima volta nel racconto The Secret Life of Walter Mitty pubblicato sul numero del “New Yorker” del 18 marzo 1939, impersona la versione classica dell’uomo creato da Thurber: lo sconfitto, l’antieroe, narrato in un miscuglio di comicità, disastro, caos, bizzarria e contrapposto alla parodia degli uomini efficienti e pedanti. Questo personaggio era però nato molti anni prima. Nel febbraio 1927 James Thurber era finalmente riuscito a farsi accettare un racconto dal “New Yorker”. Da allora era diventato amico di Elwyn Brooks White, collaboratore influente della rivista, tanto da arrivare a scrivere a quattro mani con lui il libro humour È necessario il sesso? (Is Sex Necessary?), uscito nel 1929 dopo il crollo della Borsa e già basato sul suo mondo poetico piuttosto autobiografico: la “lotta” tra uomini e donne, i guai del matrimonio, il caos della vita erotica. Due anni dopo, nel 1931, il libro è uscito in una edizione illustrata dai disegni dello stesso Thurber. White è riuscito allora a convincere Harald Ross, direttore del “New Yorker”, a pubblicare alcuni disegni di James Thurber anche sulle pagine della rivista: il 30 gennaio 1932 è così comparso il disegno che mostrava il suo solito omino calvo e grassoccio che cerca di dormire nel letto matrimoniale mentre la moglie brutta e bisbetica brontola, non creduta, di sentire una foca abbaiare. Il marito le dice esasperato: “E va bene, pensa come ti pare: hai sentito abbaiare una foca”, mentre una foca è distesa sulla testiera alle loro spalle, nella stessa posizione in cui molti anni dopo il disegnatore Charles Schultz ci ha mostrato il suo Snoopy. La foca è diventata così famosa da dare il titolo alla seconda raccolta di disegni, uscita dopo The Owl in the Attic and Other Perplexities del 1931, intitolata La foca nella camera da letto (The Seal in the Bedroom and Other Predicaments ), uscita sempre in quel 1932 con una introduzione di Dorothy Parker che diceva: “La strana gente di James Thurber sembra divisa in tre classi: i giocosi, gli sconfitti e i feroci. Tutti hanno l’aspetto esteriore di dolcetti non cotti”. Tra i suoi libri illustrati, quello che ha preferito è rimasto fino alla fine L’ultimo fiore (The Last Flower) pubblicato nel 1939: una favola dedicata alla figlia Rosemary, allora di otto anni, e ispirata all’invasione tedesca della Polonia che l’autore stesso ha definito “una parabola illustrata”. La favola inizia durante la Dodicesima guerra mondiale, che distrugge città e foreste lasciando incolume solo un fiore. I pochi esseri umani superstiti trovano il fiore e lo coltivano; ma il ciclo distruttivo ricomincia: la Tredicesima guerra mondiale abbatte tutto tranne un uomo, una donna e un fiore. L’antifascismo di Thurber si è ripresentato nella forma dell’antimaccartismo ne Il magnifico O (The Wonderful O), illustrato questa volta da Marc Simont, del 1957, una favola che narra di un pirata di nome Nero che approda in cerca di gioielli all’isola di Ooroo. Ma Nero detesta la lettera O e dopo essersi impadronito dell’isola cancella tutte le O, nelle parole e nelle forme; finché un poeta, grazie al potere dell’amore, degli affetti, delle memorie e dei ricordi riesce a sconfiggere Nero e a restituire la libertà all’isola. Questo libro però non è uno dei suoi più famosi: il suo bestseller (cinquantamila copie nella prima edizione) è stato La notte degli spiriti del 1945, il cui titolo americano è The Thurber Carnival, una raccolta di racconti. L’anno prima della sua morte, nel 1960, La notte degli spiriti è stato rappresentato in una riduzione teatrale di sedici sketch nella sua città natale e a New York, dove Thurber ha recitato di persona in ottantotto repliche nello sketch File and Forget. Malcolm Cowley ha detto che i racconti del libro “a volte sono assolutamente seri negli effetti e nelle intenzioni e altre oscillano tra la farsa e il disastro... Molti si muovono nel delitto e nella morte, o nei sogni di uccidere e venire uccisi... Ma metà della scelta è basata su incubi, allucinazioni o scherzi crudeli. Entrare nel mondo borghese di Thurber è come aggirarsi in una corsia psichiatrica senza sapere per certo se si è i visitatori o i pazienti”. Nonostante il successo di critica e di pubblico la sua vita è stata costellata di disgrazie, da quando a sei anni, nel 1901, voltatosi a guardare il fratello giocare a Guglielmo Tell, una freccia l’ha colpito a un occhio generando un’infermità che lo ha condotto alla completa cecità tra il 1947 e il 1951. La sua fine è stata orribile, troppo orribile perché la possa descrivere. Preferisco pensare e far pensare alla grazia, alla


melanconia, alla sfortuna di questo genio che, invalido com’era, è riuscito a scavalcare la crisi della Grande Depressione e quella sanguinosa della Seconda grande guerra rivelando agli uomini le loro debolezze, i loro errori, la loro presunzione e insieme la loro assurdità, così buffa da ridurla in satira o in parodia. Preferisco ricordare con onore e pietà un uomo distrutto dalla fragilità del suo corpo e reso immortale dall’inalienabilità dell’ingegno: un uomo che si è considerato sconfitto nelle sue pagine e ha indicato nell’autocritica la via che conduce all’immortalità.


Ralph Waldo Ellison Uomo invisibile

Questo romanzo del 1953, senza dubbio il più conosciuto tra quelli di Ellison, è stato subito diffuso nelle edizioni tascabili e tradotto in una decina di Paesi che ne hanno acquistato i diritti: Ralph Ellison si è trovato di colpo famoso e ha realizzato il suo grande sogno di viaggiare e di conoscere il mondo. Durante la guerra era stato cuoco su una nave e aveva accumulato esperienze così drammatiche da non riuscire a descriverle in nessun libro: non aveva trovato un “tono” che rendesse l’emozione e la tensione di quei giorni e aveva preferito rinunciare all’impresa. Ma un avvelenamento contratto bevendo dell’acqua inquinata sulla nave lo aveva costretto a riposo e lo aveva condotto ospite da un amico in Vermont. Lì, nella tranquillità della campagna, si era trovato quasi inconsciamente a scrivere la frase “sono un uomo invisibile”. Da allora aveva cercato di scoprire il significato di questa sua affermazione e aveva continuato a farlo per anni, fino a quando le sue conclusioni erano state pubblicate col titolo Uomo invisibile (Invisible Man). Il libro, di difficile lettura per la sua corazza di immagini e simbolismi, è la cronaca dell’educazione accademica e politica di un giovane nero che attraversa l’America dal Sud fino al Nord e finisce per trasformare la sua innocenza e ignoranza in esperienza e cultura. Il giovane nero, voce narrante senza nome, vive molti avvenimenti più o meno autobiografici e il suo viaggio si può considerare una specie di storia della vita nera in America; ma il suo nucleo centrale è che nella società americana un nero è come se non esistesse, è invisibile, appunto. Il libro passa attraverso una rassegna di orrori, ma ciò che colpisce è la freddezza con cui sono raccontate le atrocità della vicenda. Spesso lo stimolo razziale disturba la narrazione; ma impressiona anch’esso per la lucida obiettività con cui è trattato: non c’è più traccia della passione che ha per esempio trascinato Richard Wright a partecipare con angoscia tormentata ai gesti dei suoi personaggi. La sua teoria dell’invisibilità è stata immediatamente accolta anche per il tono tragicomico e patetico dell’opera: ha meritato il National Book Award con la motivazione seguente: “Ralph Ellison si è liberato dalle convenzioni, dai modelli del romanzo ‘ben fatto’”. Nel 1955, durante un convegno tenutosi a New York per discutere sul tema “Cosa c’è che non va nel romanzo americano?”, Ellison, già abbastanza maturo da teorizzare la sua posizione di scrittore, aveva detto che suo proposito era di scoprire e descrivere “le zone di esperienza familiari non ancora narrate”, e specialmente quelle che riguardavano la contraddizione tra il mondo caotico individuale e quello ordinato della società che lo racchiudeva. Questa contraddizione aveva fatto da sfondo al romanzo ed Ellison l’aveva svolta da uomo di cultura più ancora che da polemista e sociologo. Ellison era un chirurgo, manipolatore chimico di turgide storie sanguigne, più che creatore partecipe; e forse proprio in questo si può trovare la sua poesia. Una poesia che nasce dal contrasto tra la freddezza dell’osservazione e il ribollire e la tragicità degli avvenimenti. Pare che i nuovi scrittori di quell’epoca non volessero più pagare di persona per le loro scoperte. I nuovi scrittori si erano psicoanalizzati: volevano scrivere, magari di chi soffriva, ma non volevano più soffrire. Il cosiddetto neoromanticismo americano si era stancato delle delusioni e si era corazzato. Anche se la corazza era appoggiata sulla carne viva.


Mark Leyner Mio cugino, il mio gastroenterologo

Leyner è nato e cresciuto a Jersey City nel New Jersey, è stato studente della Brandeis University, ha vinto una borsa di studio e si è laureato alla University of Colorado, nel 1982 si è sistemato a Hoboken nel New Jersey come pubblicitario, e sposato nel 1983 con una psicoterapista, è stato collaboratore di riviste come “Esquire” e “George” dal 1986. Da questo momento sono cominciati i suoi reading nelle università, dove lo scrittore con il suo linguaggio imprevedibile ha conquistato un pubblico di giovani già addomesticati dagli sperimentalismi di William Burroughs, ma soprattutto da David Foster Wallace. Mio cugino, il mio gastroenterologo (My Cousin, My Gastroenterologist ) è il suo secondo libro. Già il primo, del 1983, Sento odore di Esther Williams (I Smell Esther Williams and Other Stories), introduceva la figura di questo cugino gastroenterologo, Larry Werther, che stavolta vola a Londra per essere incoronato re della musica folk. Gli altri personaggi del libro sono se possibile ancora più assurdi, come il giovane che rimane vedovo della moglie ottantenne e mangiagalline o lo scoiattolo gigante conduttore televisivo per bambini che viene iniziato all’arte del kung fu da un mercenario palestinese. Mio cugino, il mio gastroenterologo ha venduto centinaia di migliaia di copie e ha diffuso anche fuori dai campus la poetica di Leyner, che a suo tempo era sunteggiata sulla fascetta dell’edizione americana del romanzo: “Fantascienza da cyberpunk, polizieschi hard-boiled, cultura popolare americana, tutto quello che si è dimenticato dal liceo è mescolato in una narrazione analoga alla miglior droga che abbiate mai preso”. La fascetta diceva anche che il libro era uno dei più divertenti e audaci apparsi negli ultimi anni. E lo era grazie a un linguaggio e a un ritmo indiavolato: quando ha presentato il volume l’autore lo ha definito il primo esempio letterario per la generazione del post-Vietnam, computerizzata, svezzata dalla televisione e definita dal rock. Il libro è costituito da diciassette capitoli, se così si possono chiamare, a volte datati 1988 e perfino 1985 e ripresi dalle riviste sulle quali erano stati in parte pubblicati, ma in realtà sarebbe fatica vana cercare una “trama” che li unisca, tanto da far venire voglia di considerarli diciassette racconti separati. A unirli è soltanto, casomai, questa straordinaria invenzione del linguaggio, basato sulle sue esperienze di pubblicitario di farmaceutici che presupponevano la perfetta conoscenza di termini medici e biochimici. Ricavo dal primo capitolo una frase brevissima, tanto per dare un’idea: “Chiesi alla cameriera quale fosse la soup du jour e lei mi rispose zuppa primordiale: ammoniaca e metano mixati con acqua d’oceano fulminata dal temporale”. Poco dopo continua: “Kikugoro lo rimprovera: ‘Questo non è un Makudonarudo’. Prende un cilindro di cristalli di arseniuro di gallio e ne taglia una fetta sottile che gli serve con salsa di soia, wasabi, zenzero sciroppato e daikon. Conduce gli elettroni dieci volte più del silicio... è buono, gaucho san, mangia”. Un giorno gli ho chiesto da dove nascesse il suo linguaggio così imprevedibile e lui mi ha risposto: “Sono sempre stato affascinato dal numero di linguaggi diversi che esistono nella nostra società e anche da come i vari linguaggi sono separati fra loro, quello che usiamo coi nostri amanti, quello che usiamo coi nostri dottori, quello usato dai dottori quando parlano di noi ad altri dottori. Quando ero adolescente ero affascinato dai media e quando ho cominciato a pensare a che genere di scrittore avrei voluto essere decisi di usare tutti i diversi linguaggi della tecnologia, dell’amore, della politica, della pubblicità, per fare un tipo di scrittura completamente nuova. E poi mi sono sempre interessato al corpo perché non voglio morire, il mondo è così bello. Così sono affascinato dalla medicina, come un mezzo, forse, per tentare l’immortalità. Il loro strano linguaggio è il linguaggio delle nostre malattie, ma nessuno lo sa parlare, i dottori lo tengono nascosto per avere più potere su di noi... Anche per gli americani c’è un nuovo impero ed è l’impero dei media: se vogliamo tenere viva la letteratura, dobbiamo affrontare l’impero con libri costituiti da tutti i linguaggi. Io sono un prodotto del mondo dei media. Amo la cultura popolare come un figlio ama i genitori anche se sono orribili”. Quando poi gli ho chiesto quali scrittori lo abbiano influenzato, ha risposto: “Nessuno. A influenzarmi sono i film e quando ero ragazzo mi influenzavano i cartoni animati. Mi interessa mescolare il linguaggio del mondo reale con quello dell’immaginazione”. Gli ho chiesto infine dove trova la sua ispirazione. Ha detto: “I poeti romantici prima di scrivere guardavano dalla finestra il lago o il cielo. Ora prima di scrivere si guardano i giornali e le riviste e la tivù: le nostre finestre”.


Harold Brodkey Storie in un modo quasi classico

Aaron Roy Weintraub (Brodkey è l’abbreviazione del nome russo di sua madre, Bezborodko) aveva diciassette mesi quando la madre si è ammalata forse a causa di un aborto e in seguito è morta, provocando nel bambino un trauma senza rimedio che si è espresso in un primo momento nel rifiuto a camminare, a mangiare e a parlare. Si erano presi cura di lui il padre e un’infermiera, entrambi alcolizzati, che probabilmente lo picchiavano, finché era stato adottato dai cugini Doris e Joseph Brodkey, che pare lo abbiano raccolto coperto di cicatrici e di ferite. Erano passati due anni prima che cominciasse a parlare. Ha trascorso l’infanzia in un sobborgo di St Louis nel Missouri: i genitori borghesi che gli volevano bene ma “un bene” ha detto in seguito lo scrittore “che era conquistato, non era geneticamente mio”. La sua incertezza psicologica lo aveva condotto a sei anni a una serie di collassi nervosi, ma sottoposto a dei test psicologici era stato definito un genio. A questo punto il vero padre ha cercato di riaverlo con sé provocandogli nuovi collassi nervosi, in una adolescenza torturata dal fatto che il padre adottivo era stato colpito da una trombosi e la madre adottiva si era ammalata di cancro, riducendo il ragazzino tredicenne a dover dipendere dalle cure dei vicini di casa. Questa infanzia, questa adolescenza così drammatiche non si possono ignorare presentando Harold Brodkey, perché fanno da sfondo e da ispirazione alla maggior parte della sua produzione letteraria. L’infanzia e l’adolescenza ritornano nelle sue pagine in modo quasi ossessivo, con l’opulenza descrittiva, la minuzia di particolari, la prosa lirica distesa sulle onde della memoria che ne caratterizzano lo stile. Un professore di Yale lo ha definito “un Proust americano... senza precedenti dalla morte di William Faulkner in poi”; Susan Sontag ha detto: “Si dedica a fini reali. Leggo ogni parola che scrive”; e l’autore a volte si univa al coro dei suoi ammiratori dicendo: “È pericoloso essere uno scrittore bravo come me”. Questa imponente reputazione Harold Brodkey, nato il 25 ottobre 1930, se l’è costruita soprattutto con le raccolte di racconti First Love and Other Sorrows (Primo amore e altri dolori) del 1958 e nei due volumi del 1988 e del 1992 Storie in un modo quasi classico (Stories in an Almost Classical Mode). Il racconto più noto di questa enorme raccolta è Storia perlopiù orale di mia madre, lungo più o meno cento pagine. È un’analisi, forse più autobiografica di quanto Brodkey voglia farci credere, del rapporto tra un bambino superdotato per bellezza e intelligenza e i suoi ottusi genitori adottivi, in un destino che non lascia spiragli di ottimismo se non nel lucidissimo humour col quale viene descritto. La tecnica fondamentale di Brodkey è elencare ogni possibile stato d’animo del personaggio, come per l’uomo che cerca di far godere una donna frigida nel racconto di trentatré pagine intitolato Innocente. Se all’inizio Harold Brodkey difendeva la sua lentezza e la sua prolificità dicendo che Proust era morto lasciando due romanzi della “serie” non pubblicati e che Goethe aveva impiegato sessant’anni a scrivere il suo Faust, una volta famoso i critici si erano abituati ai suoi ritmi. Era diventato leggendario come “il più famoso scrittore d’America non pubblicato”, con preoccupazione di Brodkey, consapevole dell’ammonimento di Henry James a proposito dell’“omaggio esagerato”. Era straordinaria la stima che gli tributavano i suoi colleghi americani, giovani e vecchi. Nelle migliaia di pagine scritte, Harold Brodkey si è sempre più precisato come scrutatore degli schemi psichici dell’infanzia e dell’adolescenza, rivelando in quale modo un bambino osserva la vera natura del mondo degli adulti: “Ho cercato di essere un ragazzo di tredici anni” ha detto. Ma ha detto anche che “l’opera d’arte non è fuori del tempo: per me è collocata nel tempo come un personaggio”. Per lui il centro del libro è costituito dall’esperienza, dalla vita, dalla natura; il significato non è assoluto ma continua come il tempo. Il suo stile personalissimo e inimitabile, del tutto solitario nel panorama della lotta tra scrittori minimalisti e scrittori postmoderni, ricorda un altro ammonimento di Henry James: “Noi siamo salvati dallo stile”.


William Gaddis Le perizie

Le perizie (The Recognitions) è un libro che nonostante lo spavento provocato dalle novecentocinquantasei pagine è diventato un libro culto appena pubblicato nel 1955. La tecnica di Gaddis, allora del tutto insolita, si componeva di strutture frammentarie, parodia e satira, temi sociali, artistici e culturali con conoscenza enciclopedica degli argomenti più disparati e intrecci complicati come labirinti. Il suo tema base si era rivelato l’onnipresenza della menzogna, della fraudolenza e dell’avidità nei rapporti umani. A chi voleva paragonare Le perizie a Ritratto dell’artista da giovane e a Ulisse di James Joyce, Gaddis rispondeva che casomai era stato influenzato da autori come Eliot e Dostoevskij. Per dare l’idea della trama posso dire che questo libro è la storia di Wyatt Gwyon, il figlio di un ministro calvinista che vive nel New England e decide di trasferirsi in Europa per studiare pittura, dove avrà successo come falsario, e della sua famiglia. Le perizie è diventato subito una pietra miliare della narrativa americana contemporanea, ma il suo insuccesso commerciale, nonostante l’edizione tascabile del 1962, ha condotto Gaddis a un silenzio di vent’anni, durante il quale si è sottratto a interviste e riconoscimenti pubblici. Nel frattempo i critici letterari consideravano il libro iperintellettuale, eccessivo in parole e incomprensibile. Subito dopo la pubblicazione di Le perizie, Gaddis ha sposato Pat Black, una studentessa del North Carolina venuta a New York con l’idea di affrontare la carriera teatrale, dalla quale ha avuto due bambini. In quel periodo Gaddis ha vissuto in una fattoria risistemata ma ha dovuto rinunciare alla vita letteraria per lavorare in una ditta farmaceutica, passando poi alla preparazione di film, documentari per l’esercito, incarico abbandonato nel 1964 quando l’America si è impegnata nella Guerra del Vietnam. Dopo una decina d’anni, finito il primo matrimonio, ha sposato Judith Thompson ed è andato a vivere in una vecchia casa nei pressi di New York, costruita nello stile gotico che avrebbe ispirato il suo terzo romanzo. I suoi vent’anni di silenzio sono finiti nel 1975 quando ha pubblicato un altro romanzo fiume, JR (settecentoventisei pagine quasi tutte di dialogo), che già si è potuto chiamare un romanzo dell’entropia, teoria che Gaddis aveva usato come metafora del capitalismo americano. Il libro ha ricevuto il National Book Award da una giuria di cui faceva parte anche la scrittrice e critica Mary McCarthy, e da allora l’autore ha cominciato a ricevere riconoscimenti, tra gli altri l’incarico di un corso di creative writing. Quando nel 1985 ha pubblicato il suo terzo romanzo Gotico americano (Carpenter’s Gothic), Gaddis aveva già sessantatré anni e nonostante l’età matura la sua visione del mondo non era diventata più ottimista: pessimista, torvo e misantropo, il romanzo è il ritratto del caos morale contemporaneo di cui lo scrittore si era fatto cantore fin da Le perizie. Gotico americano è di sole duecentosettanta pagine. Astuto, strutturato alla perfezione, pieno di ironia, di humour nero e di provocazioni, faulkneriano nel taglio dei dialoghi, intriso di giustapposizioni tra il disordine della vita privata dei protagonisti e quello della società circostante, impastato di menzogne grandi e piccole, il libro coi suoi dialoghi dissennati, la sua paranoia politica, la sua corruzione religiosa, la sua permissività sessuale, la sua confusione domestica, svolge la sua satira con inesorabilità da moralista e insiste sul credo di Gaddis quale si era già rivelato nei romanzi precedenti: il caos di un mondo che ha subordinato tutti i valori all’avidità e al profitto. William Gaddis dichiarava di appartenere a una razza in estinzione convinta che uno scrittore debba essere letto e ascoltato e meno di tutto visto. Morto nel 1998, dopo A Frolic of His Own del 1994, tutti gli altri suoi libri sono usciti postumi.


David Foster Wallace Infinite Jest

Infinite Jest è considerato il grande romanzo di questo autore che è forse stato uno dei più infelici d’America. Qualche anno fa, in un’intervista intitolata Il culto del cool Wallace ha detto: “ Infinite Jest è stato immaginato come un libro triste. Non so come sia per voi e i vostri amici, ma so che la maggior parte degli amici miei è molto infelice”. Il successo nel 1987 del suo primo romanzo, La scopa del sistema (The Broom of the System), lo ha turbato e lo ha condotto a sperimentare droghe e alcol; ma Wallace aveva provato a risolvere la crisi proprio scrivendo Infinite Jest, il cui vero tema è il rapporto fra droga e guarigione. Questo libro straordinario ha cambiato la struttura, il linguaggio e i contenuti della narrativa americana. Il paesaggio interiore dei protagonisti inventati da Wallace per il suo Infinite Jest riflette quello esteriore di un’America tossica nei valori e nello spirito. La trama è basata su un film che è stato smarrito, un film che provoca in chi lo vede un piacere fisico così intenso da non poter desistere da una sua visione infinita. La storia si svolge in una accademia di tennis di gran lusso e, lì accanto, in un istituto di recupero di drogati: si incontrano così, per strada, adulti e ragazzi, e Wallace denuncia che piacere e desiderio, dallo sport ai rapporti umani, minacciano di trasformarsi in una dipendenza in cui la ricerca della felicità nasconde una quasi universale disperazione. In un’intervista Wallace ha detto che i temi della tristezza e della tossicomania gli sono derivati dall’osservazione di un centro di alcolisti anonimi che ha conosciuto verso i trent’anni: “Queste riunioni... sono affascinanti. Si vedono persone per lo più privilegiate, che per la loro incapacità di restare autonome di fronte al piacere, si sono rovinate e sembrano sopravvissute a Dachau. È di questo che parla Infinite Jest, ma me ne sono reso conto col tempo”. In un articolo-recensione su Infinite Jest uscito sulla “New York Times Book Review” del 3 marzo 1996, Jay McInerney fa notare certe lungaggini forse superflue nel libro ma individua nelle più di mille pagine irriverenti, satiriche (“pirotecniche” le chiama), un’invocazione di speranza tale da confermare quella non molto diversa espressa da lui ne Le mille luci di New York e da Bret Easton Ellis in American Psycho. La narrativa di Wallace raggiunge la sua maggiore comicità quando fa la satira dell’infelicità e dell’isolamento presentandoli come situazioni sostanzialmente noiose, indegne dell’Io. Forse la sua caratteristica più importante è lo humour nero col suo gusto per la violenza sessuale. L’uso a piene mani dell’ironia è “lo” stile degli anni Novanta, come hanno dimostrato per esempio Mark Leyner e Chuck Palahniuk. Nel suo stile massimalista, reazione al minimalismo caro a Raymond Carver, David Foster Wallace si abbandona a frasi lunghe, complesse, a volte sonore, a volte satiriche, e passa dai monologhi analfabeti dei poverissimi alle spiegazioni tecniche, per esempio di certi medicinali, con un linguaggio base che è casuale e complesso, ricco di slang e anche di erudizione, capace di alternare precisione e imprecisione a proposito di uno stesso argomento. Wallace è nato nel 1962 a Ithaca, figlio di due insegnanti universitari di sinistra, e ha scelto di vivere in modo a dir poco appartato, rifiutando New York “dove tutti ti raccontano pettegolezzi editoriali e ti chiedono quanto è grande la tua quota di mercato, con un ego da liceali”. Ha evitato i critici e i colleghi scrittori: “C’è troppa gente che scrive in America ed è piena di risentimento per la scarsa attenzione che riceve. So solo che non voglio far parte del giro. So rendermi infelice da solo senza bisogno degli altri”. Purtroppo ne ha dato una prova definitiva anche a sua moglie Karen Green quando, la sera del 12 settembre 2008, si è impiccato nel patio di casa.


LIBERTÀ DALLA VIOLENZA


Ernest Hemingway Addio alle armi

Dopo il successo di Spoon River, un bestseller clandestino tra gli adolescenti e gli antifascisti, Einaudi mi aveva fatto firmare un contratto per la traduzione di A Farewell to Arms: quello stesso contratto è stato poi trovato durante una retata delle SS tedesche nella casa editrice e ha causato il mio arresto. Ufficialmente Benito Mussolini aveva proibito la pubblicazione di questo romanzo, e insieme la proiezione del film che ne era stato tratto, per l’antipatriottismo mostrato nella descrizione della ritirata di Caporetto. Hemingway in realtà non aveva mai partecipato a questa azione di guerra ma l’aveva ricalcata dalla ritirata delle truppe greche dalla Tracia, a cui aveva assistito come giornalista nell’ottobre 1922. In Addio alle armi Hemingway ha però raccontato due storie vere: quella della sua ferita a Fossalta durante la Prima guerra mondiale e quella del suo amore per Agnes von Kurowsky, l’infermiera che lo aveva curato nell’ospedale della Croce Rossa di Milano. Naturalmente ne aveva alterato il contesto storico e aveva usato l’autobiografia soltanto come sfondo psicologico. Nella storia il tenente americano Frederic Henry viene ferito in trincea e curato in un ospedale di Milano, dove si innamora dell’infermiera inglese Catherine Barkley. Appena guarito ritorna al fronte e prende parte alla ritirata di Caporetto, ma diserta per l’orrore delle sparatorie tra italiani. È stato proprio l’inequivocabile atteggiamento antimilitarista il vero motivo per cui il governo fascista ha vietato la diffusione del libro. Se il personaggio del tenente americano è senza dubbio ispirato a Hemingway stesso, la figura dell’infermiera racchiude in sé almeno tre delle donne amate dallo scrittore: Catherine è la donna idealizzata, erotica e generosa, indipendente e insieme dipendente dall’uomo amato, docile e coraggiosa, perpetuamente sottomessa e dolcissima: la solita donna ideale del machismo di Hemingway riconducibile molto più a Hadley Richardson, sua prima moglie, e a Pauline Pfeiffer, sua seconda moglie, che ad Agnes. Di Agnes Catherine Barkley ha più che altro la divisa di infermiera. Addio alle armi è stato il primo dei romanzi di Hemingway che ho tradotto. Gli altri sono stati Morte nel pomeriggio (Death in the Afternoon), Il vecchio e il mare (The Old Man and the Sea) e Di là dal fiume e tra gli alberi (Across the River and into the Trees). Non ho mai capito come, ma, al suo arrivo in Italia nel 1948, Hemingway era venuto a conoscenza del mio arresto e mi aveva mandato una cartolina chiedendomi di raggiungerlo a Cortina. Una volta arrivata all’albergo Concordia, tenuto aperto apposta per lui in autunno, “fuori stagione”, mi è venuto incontro a braccia spalancate attraversando la sala da pranzo vuota. Non dimenticherò mai quel suo abbraccio da gigante buono che mi ha fatto quasi scricchiolare le ossa. Mi ha preso per mano, mi ha condotta alla sua tavola, mi ha fatto sedere accanto a sé e mi ha detto in quel suo bisbiglio così difficile da capire finché non ci si era abituati: “Tell me about the nazi” (Raccontami dei nazi). È stato l’inizio di un’amicizia mai finita. Quando è diventato amico di Alberto Mondadori, gli ha detto che voleva me per sua traduttrice, il minimo che potesse fare dopo quello che avevo passato con i nazisti, aveva detto. Purtroppo gli editori non hanno mai ascoltato la mia richiesta di pubblicare una traduzione italiana di un altro testo antimilitarista di Hemingway: Wings Always over Africa, il celebre articolo pubblicato sulla rivista “Esquire” nel gennaio 1936 e circolato in Italia tra gli antifascisti ai tempi della Guerra etiopica. Chi ama Addio alle armi amerà di sicuro anche questo articolo. Per scriverlo Hemingway ha preso spunto dal passaggio dal canale di Suez di sei navi cariche di circa diecimila feriti italiani avviati a ospedali in isole che erano veri e propri convalescenziari lontani dagli occhi della popolazione. Hemingway chiude l’articolo con il celebre attacco personale al Duce, che spiega il vero motivo del divieto di pubblicare Addio alle armi in Italia: i figli di Mussolini sono in aviazione in posti dove non ci sono aerei nemici ad abbatterli, ma i poveri diavoli sono in fanteria. Hemingway si augura che questi poveri diavoli possano capire qual è il loro vero nemico. Il pezzo è scorrevolissimo e si legge tutto d’un fiato. Come per Addio alle armi, non lo leggerebbe volentieri solo chi ha nostalgie fasciste.


Herman Melville Moby Dick

Pochi sono sfuggiti alla tentazione di vedere nella favola di Moby Dick un significato simbolico. Raccontare il viaggio della baleniera Pequod è un po’ come raccontare quello degli Argonauti o le imprese di Prometeo o di Ercole: si respira un’atmosfera di mito. Ma oltre al nucleo dei fatti semplici e grandiosi che hanno tutta la suggestione dei miti, in Moby Dick è presente la sapiente alternanza delle pagine descrittive con quelle meditabonde, dell’ironia bonaria con il pathos solenne, del tragico e contorto monologare con la lucida e serena distensione evocativa. Le innumerevoli digressioni didascaliche sulle usanze del mare e della caccia, descritte con perizia, sono intrecciate alle grandi scene in un crescendo ben sorvegliato che conduce il lettore, ormai familiare a tutte le minuzie della professione, fin sulla soglia del tremendo epilogo dei tre giorni di lotta. È noto che Moby Dick non ha avuto, vivo l’autore, nessuna fortuna. Dopo il successo delle prime due opere, Taipi e Omoo, Melville non è più stato capace di mantenersi solo grazie al suo lavoro di scrittore; ha vissuto i suoi ultimi trent’anni (18601891) sepolto in un impiego statale, in un silenzio fatto insieme di stanchezza e di orgoglio ferito. Moby Dick è uscito nel 1851, prima in Inghilterra e poi in America, e sia le recensioni inglesi sia quelle americane non gli avevano reso nessuna giustizia. La ragione vera dell’incomprensione delle sue opere è che a metà Ottocento il romanzo europeo, e anche l’americano, volgevano al naturalismo, allo psicologismo, al verismo, all’affresco o alla vignetta sociale; tutti atteggiamenti ignoti a Melville, che faceva l’effetto di un sorpassato, bizzarro e confusionario retore di altri tempi. Perché la storia della caccia alla balena bianca comandata dal capitano Achab prendesse il posto insigne che ora occupa nella storia della letteratura americana, era necessario un totale rivolgimento nel gusto degli scrittori e quindi dei lettori. Qualunque fosse il particolare dissidio che Melville ha inteso rappresentare nel libro, è certo che la sua idea, incarnandosi, si è arricchita di significati, di accenni, di illuminazioni magari fugaci che, assunti nel circolo vitale del racconto, ci vietano di dare una preferenza. Tuttavia non ci sono dubbi: come ha detto il curatore del racconto Billy Bud, che Melville aveva lasciato incompleto, F. Barron Freeman, Moby Dick è “la parabola di una lotta eterna”. Vibra per tutto il racconto un’atmosfera di lotta mortale. Che cosa sono le tante digressioni di cetologia, di arte nautica, di tecnica ramponiera, se non un cynegeticon, un manuale di caccia, a cui la imperturbabilità delle didascalie aggiunge un brivido? A ciascun personaggio il narratore sembra rivolgere, nell’atto di crearlo, la domanda del vecchio capitano Peleg al giovanotto che vuole imbarcarsi: “Sei tu uomo da piantare un rampone in gola a una balena viva, e poi saltargli dietro?”. È da questo tono che nelle pagine di Moby Dick nasce l’impressione di energia e di salute che, se possibile, esala ancora più intensa dell’odore di salsedine. Nonostante il suo messaggio amaro che lo rende un libro triste, nonostante il vento di tragedia che lo percorre e nonostante il fondo lugubre di negazioni che lo aggrava, l’avventura di Moby Dick ci esalta quanto quella di una saga vichinga: la coscienza umana di chi la legge si tempra a un fine superiore. Grazie alla sua arte costruttiva e alla sua ricchezza espressiva, Melville ha creato i personaggi in funzione dell’audacia che sapranno esprimere nel combattimento. Dalla grande mole del libro è pressoché assente ogni motivo erotico; questo pudore è schiettamente epico, oltreché puritano. Achab ha come unico scopo la caccia alla balena bianca che l’ha storpiato, Moby Dick appunto; e con lui tutti gli uomini dell’equipaggio vivono soltanto per il rampone. Ciò che distingue le figure di Melville dai tanti semplicistici eroi romantici è la pienezza di vita che li investe. Sono lottatori tragici, coscienti delle inconciliabili antinomie tra vita e sogno, tra tempo ed eternità, tra io e mondo, tra conoscenza e mistero, tra volontà e natura, nei loro cervelli e nelle loro anime vibrano un pensiero e una coscienza non mentiti, frutto di tutto il pensiero moderno. Per la sua audacia temeraria, per la sua perenne bufera interiore e forse ancora di più per i pensieri e le parole che gli sfuggono, il capitano Achab è una figura indimenticabile di tutta la letteratura americana: è l’ultima incarnazione letteraria del dissidio romantico.


John Steinbeck Uomini e topi

Uomini e topi (Of Mice and Men) è il primo libro di John Steinbeck presentato al pubblico italiano. Era il 1938, in America era stato pubblicato l’anno prima. La letteratura americana non era ancora popolare tra noi, e anzi era molto malvista dalle autorità; e come tutte le cose più o meno proibite attirava moltissimo l’interesse, specialmente dei giovani. In quegli anni di ostracismo assoluto a Hemingway, Steinbeck era diventato in Italia il più rappresentativo scrittore americano moderno e gli era “toccato” l’onore di essere tradotto dai nostri “specialisti” più illustri: da Cesare Pavese a Elio Vittorini, da Eugenio Montale a Giorgio Monicelli. Di Uomini e topi mi aveva regalato una copia Cesare Pavese, che lo aveva tradotto, il 20 luglio 1942: era la nona edizione, lire 15, con in copertina due piedi proletari, uno con una grossa scarpa rotta. È la storia di George e Lennie, due braccianti di un ranch della California negli anni della Grande Depressione. Lennie è imponente e dotato di grande forza fisica ma le sue abilità mentali sono limitate e fa affidamento su George, cinico e intelligente. Con quest’ultimo condivide il sogno di stabilirsi un giorno in un terreno proprio. Ma il loro sogno sarà tragicamente destinato a fallire. A farci amare le sue pagine sono state le venature socialeggianti che alcuni nostri critici hanno definito con disprezzo “picaresche e folkloristiche”. Di Uomini e topi, la riduzione teatrale nel 1937, i due film nel 1939 e nel 1992, oltre a quello per la televisione del 1981, hanno aumentato la popolarità del titolo che negli anni è diventato una specie di metafora di quei progetti che invece della gioia provocano dolore e sofferenza. Maurice Coindreau, il traduttore dell’edizione francese, ha indicato il libro come “modello di virtuosismo nel dosaggio delle sue componenti”. E John Steinbeck? Credeva di aver scritto un libro per bambini. Molto più tardi è stata pubblicata una sua lettera del febbraio 1936, mentre cominciava a scrivere il libro: “Voglio ricreare un mondo infantile, non di fate e di giganti ma di colori più chiari di quanto lo siano per gli adulti, di sapori più acuti e degli strani sensi di angoscia che a momenti sopraffanno i bambini. Bisogna essere molto onesti e molto umili per scrivere per i bambini”. In realtà, dopo certe esperienze fatte in Messico, aveva iniziato a scrivere per la gente che lavora. Ma la gente che lavora non legge romanzi: quando può va al teatro, al cinema, e per loro Steinbeck ha voluto la riduzione teatrale e cinematografica del libro. E quando il romanzo è diventato un bestseller, alla vigilia della première a Broadway, l’autore ha detto: “Il libro era un esperimento, e per quello che si proponeva di fare non è riuscito”. Il secondo romanzo presentato al pubblico italiano è stato Pian della Tortilla (Tortilla Flat), uscito in America nel 1935, e arrivato da noi, tradotto da Elio Vittorini, nel 1940; il terzo, Furore (The Grapes of Wrath), del 1939, era uscito nel 1940, lo stesso anno in cui Steinbeck, proprio con questo libro, aveva vinto il Premio Pulitzer. Questi romanzi erano arrivati in un’Italia dominata dalla prosa d’arte fascista, ignara della narrativa proletaria che l’America di Franklin Delano Roosevelt proponeva con un modello di scrittura comprensibile alle masse e una scelta di tematiche ispirate alla tragedia economica degli anni Trenta, ai derelitti, agli spodestati, a un’umanità povera al di là di qualsiasi speranza. Proprio il contrario dell’umanità proposta dal trionfalismo fascista, con fastidio di chi a quel trionfalismo non credeva, e non sorrideva a leggere le favole dei “gloriosi legionari colonizzatori dell’Africa”, così diverse dalla realtà di sfortunati ragazzi mandati a morire con le scarpe di cartone. Nel 1941 la guerra lo aveva condotto in Europa come corrispondente e gli aveva ispirato La luna è tramontata (The Moon Is Down), romanzo che aveva irritato tutti: i nazisti che lo accusavano di essere ebreo, gli antinazisti che lo accusavano di essere filonazista. Steinbeck aveva cercato poi nelle sue origini californiane l’ispirazione per un nuovo libro e ci aveva dato nel 1945 Vicolo Cannery (Cannery Row), che raccontava la storia di un gruppo di oziosi a Monterey; e altri libri che non avevano aggiunto nulla alla sua fama. Ma nel 1952 La valle dell’Eden (East of Eden) lo aveva riportato all’antica popolarità. Dal libro era stata tratta una versione cinematografica che grazie alla regia di Elia Kazan e all’interpretazione di James Dean era diventata popolarissima; e Steinbeck aveva ritrovato il suo antico pubblico.


Gregory Corso Poesie. Mindfield – Campo mentale

Qualunque cosa abbia detto o scritto, Gregory Corso ha sempre rivelato il dono di non dire mai una sciocchezza. Era un birbante ma anche un cherubino della poesia: dovunque passava seminava guai e disastri, però anche le più belle poesie che siano state scritte negli ultimi cinquant’anni da un americano. Era in grado di girare tra un tavolo e l’altro di un ristorante di via Senato a Milano e dire a signori compiaciuti e impettiti: “You are a living corpse” (Sei un cadavere vivente) e a signore ornate al collo di perle finte e di finti colori alle guance: “You are a mental virgin ” (Sei una vergine mentale) per poi fuggire all’alba e lasciare sul letto in cui avrebbe dovuto dormire una poesia di scuse molto cara al mio cuore e intitolata Ultima notte a Milano (Last Night in Milano). Forse la sua poesia più famosa è Bomba (Bomb), scritta a Parigi subito dopo aver partecipato alla marcia su Aldermaston, in Inghilterra, sede dell’Atomic Weapons Research Establishment alla quale Allen Ginsberg ha dato la forma grafica del fungo atomico, ritagliando e incollando righe dattiloscritte. Questa marcia, organizzata da Bertrand Russell, è avvenuta durante il weekend di Pasqua 1958 in opposizione alla politica nucleare. La manifestazione aveva raccolto cinquemila pacifisti, liberali, anarchici e studenti. Nessuno aveva idee chiare sullo scopo di questa Campagna per il disarmo nucleare, a parte che era organizzata “contro la bomba”. Per riconoscersi tutti portavano con sé un bottone che per lungo tempo nessuno si è spiegato se non come simbolo di protesta e che più tardi è diventato il simbolo della pace più famoso al mondo: Di quella marcia non aveva impressionato Gregory Corso lo scopo quanto la carica di odio, violenza, rabbia che animava alcuni dimostranti. Un odio simile, una violenza simile gli erano parsi almeno altrettanto mostruosi della bomba stessa e gli era parso che la mostruosità distruttrice della bomba non fosse diversa da quella degli uomini che tentavano di annientare una cosa nel momento stesso in cui la creavano. Ma Gregory Corso non intendeva esaltare le qualità distruttrici della bomba. Al contrario; “della vita” diceva “si deve accettare tutto, non si può odiare qualcosa che esiste. Il vero nemico dell’uomo è l’odio.” Così Corso ha scritto una lettera d’amore alla bomba: si è chiesto perché tutti provassero orrore per la bomba e non nel vedere “i bambini abbandonati nei parchi”, o le sedie elettriche, o il flagello e l’ascia, o la catapulta di Leonardo da Vinci e i tomahawk indiani, o la spada di San Michele o la lancia di San Giorgio, o la pistola che uccise Verlaine o le armi dei “gangster”. Perché tutti avevano paura di morire per la bomba e non avevano paura di morire di cancro o, peggio di tutto, di vecchiaia? La condizione umana, ha voluto dirci Corso, è già abbastanza tragica senza che la si debba rendere ancora più tragica con nuove cariche di odio. Perché l’odio è un gesto di violenza. E dalla violenza non può che nascere, per sempre, altra violenza. Non si creda però che Gregory Corso provasse per le recenti scoperte nucleari un interesse positivo: era tipica la sua indifferenza per i problemi politici o scientifici. Bomba è pubblicata nella raccolta The Happy Birthday of Death. Nella stessa raccolta è pubblicata anche quella che forse è stata la sua poesia più dolce, più carina, più divertente: Matrimonio (Marriage), in cui Gregory ha descritto tutto quello che può succedere a chi si sposa. È una poesia molto diversa da Bomba, molto ironica. Ma come in ogni altra sua poesia, anche in questa risalta la capacità di invocare la bellezza. Gregory Corso è nato a New York nel 1930 da madre e padre italiani. Ha scelto di vivere sui tetti e nei sottopassaggi, finché si è trovato coinvolto in una retata di delinquenza minorile che gli aveva fatto conoscere per qualche tempo la prigione. È stato in galera che gli hanno dato da leggere dei libri (il primo è stato I miserabili di Victor Hugo); quando è arrivato a leggere Shelley ha “capito che cos’è la poesia” e ha provato subito a scriverne anche lui. Il 5 maggio 2001 le ceneri di Gregory Corso sono state sepolte nel cimitero degli inglesi a Roma. Vicino alla sua tomba c’è quella di Percy Bysshe Shelley.


Kurt Vonnegut Mattatoio n. 5 o la crociata dei bambini

Mattatoio n. 5 col sottotitolo davvero tragico o la crociata dei bambini (Slaughterhouse-Five or the Children’s Crusade ) di Kurt Vonnegut è un capolavoro. I bambini sono soldati diciottenni che la sera del 13 febbraio 1945 erano a Dresda e si sono trovati in una cantinarifugio con l’idea di restarvi poche ore per poi rimanerci per tutta la durata dell’attacco aereo più grande e lungo della storia della Germania. Dresda era una bellissima città indifesa, non era una città aperta, e quella sera del 13 febbraio 1945 le sirene antiaeree erano suonate verso le dieci mentre dal cielo cadevano i primi bengala colorati rischiarando le zone da colpire. Quella notte ottocento Lancaster hanno attaccato Dresda in due ondate successive, rovesciando sulla città, oltre a migliaia di bombe dirompenti, quasi seicentocinquantamila spezzoni incendiari per un totale di duemilaseicentocinquantanove tonnellate di materiale esplosivo, riducendo la città a un incendio che la distruggeva da un capo all’altro e devastando venti chilometri quadrati di edifici. Il giorno dopo, il 14 febbraio, trecento fortezze volanti americane hanno sganciato sulla città in fiamme settecentosettantuno tonnellate di bombe, e il giorno dopo, 15 febbraio, nella terza incursione consecutiva, oltre duecento fortezze volanti americane hanno rovesciato sui resti della città oltre quattrocentosessantuno tonnellate di bombe. Non si è mai potuto precisare il numero delle vittime. Le incursioni si erano interrotte alle quattro del mattino perché era cominciata a cadere la pioggia mescolata al nevischio. Kurt Vonnegut era rimasto con altri soldati chiuso in cantina per tutta la durata dell’eccidio e nel suo Mattatoio n. 5 ha descritto l’orrore, l’angoscia, il terrore di quei tre giorni. Dresda era una delle più belle città della Germania ed era del tutto priva di valore strategico o militare. L’assurdità di questa azione è filtrata attraverso l’orrore del protagonista Billy Pilgrim (alter ego dell’autore) che evade dalla follia della guerra mediante viaggi schizofrenici nel tempo e nello spazio: viaggi che sembrano realistici confrontati all’irrazionalità della guerra e sono narrati in una struttura frammentaria e privi di cronologia per sottolineare la confusione e l’arbitrarietà di quel momento. Scritto nel 1968, Mattatoio n. 5 è stato il primo romanzo in cui Kurt Vonnegut ha elaborato la drammatica esperienza condivisa con soldati come lui poco più che adolescenti e in qualche modo seguiva lo sgomento denunciato da Joseph Heller nel 1961 in Comma 22. Prima scriveva racconti per riviste letterarie o di fantascienza o di narrativa poliziesca: aveva cominciato a farlo mentre lavorava per la General Electric e nel 1949 gliene aveva accettato uno la rivista “Collier’s”, pubblicandolo nel 1950. Con questo incoraggiamento Kurt Vonnegut si è licenziato per dedicare tutto il suo tempo alla narrativa (in un’intervista ha detto che un racconto gli rendeva più di sei mesi di stipendio), riversando le conoscenze scientifiche e tecnologiche ricavate dagli studi universitari (alla Cornell University si era laureato in biochimica e alla Università di Chicago in antropologia) in racconti che sono diventati presto popolarissimi tra gli studenti, incantati dalla sua denuncia della disumanizzazione dell’uomo moderno divorato dalla meccanizzazione, dal suo invito al rispetto e alla compassione in un mondo diventato solitario e incomprensibile, dalla sfiducia nel nazionalismo, nel militarismo e nella guerra. Versatile e imprevedibile, Kurt Vonnegut, nato nel 1922 a Indianapolis, è stato membro dell’Accademia americana di Arti e Lettere ed è stato definito via via scrittore di fantascienza, satirista, umorista nero finché il suo rifiuto di trame logiche e il suo uso di diversi piani di realtà lo hanno fatto inserire tra gli scrittori cosiddetti “postmoderni”. Ma, al di là dei gruppi letterari di appartenenza, credo che sarebbe più corretto inserire Kurt Vonnegut nel gruppo degli eroi americani come un grande pacifista, anzi, più coraggioso di un pacifista: tutte le sue azioni sono state contro la guerra e ha continuato a parlarne; chissà quante cose ha raccontato in quel mattatoio per cercare di dare coraggio ai suoi compagni poco più che bambini.


Chuck Palahniuk Fight Club

Fight Club è una diavolo di storia, una specie di assalto alla decenza personale, una satira a dir poco spietata di tutti i valori morali e sociali del tempo. È una storia noir diventata un cult tra i giovani, preda di una specie di disperazione, di rabbia, di alienazione, che affondano in un’angoscia piena di smania distruttiva. Il libro racconta le avventure di Tyler Durden, un cameriere, definito “terrorista di guerriglia”, nihilista messianico, oracolatore e misterico che dialoga con l’“io narrante”, un commesso viaggiatore che vigila su frodi assicurative. Durden organizza i fight club, club di lotta dove ragazzi “bene” si riuniscono il sabato e la domenica e, “a mani nude, senza scarpe e senza camicia”, si picchiano furiosamente per sfogare il loro rancore contro il mondo. Finita la lotta tornano ai loro impieghi con occhi pesti e denti caduti, oppure vanno nei centri di sostegno per malati terminali di cancro per ricevere da loro il conforto del calore umano e della pietà, divorati ormai dal cinismo contemporaneo. A fare da centro al libro è la storia dell’orrore, della disperazione e dell’impotenza di fronte alle malattie e all’impossibilità di dominare la vita. Fight Club inoltre è un romanzo generazionale di denuncia contro la violenza e la corruzione dei giovani degli anni Novanta, demotivati, delusi, frustrati, traditi, senza più nulla in cui credere o sperare. Nel romanzo la denuncia prende la forma di humour nero, che più nero non si può; ma che di denuncia si tratti sembra chiaro, perché la violenza catartica dei fight club non viene praticata in nessuna forma di competizione e viene ridicolizzata nei suoi aspetti più assurdi. Questa interpretazione della violenza è stata spesso trascurata dai lettori, fra gli altri un gruppo di madri della California che sui giornali ha sollevato una protesta attaccando il libro e il film che ne è stato tratto, per il cattivo esempio che può offrire ai loro figli; senza tener conto, o così pare, del vero significato di queste lotte fini a se stesse, in cui la violenza è cosa molto diversa da quella dei tifosi che negli stadi si accoltellano fra loro. Anche grazie alle invenzioni stilistiche dell’autore, per esempio le ripetizioni che diventano martellamenti per sottolineare le azioni quotidiane, il libro si sviluppa attraverso una serie di terribili denunce, sempre condotte con uno humour nero irreversibile e mozzafiato, come quando descrive lo spreco di cibo e di beni di consumo da parte di gente troppo ricca, egoista e indifferente o alcuni ragazzi indignati mentre orinano nei flaconi di profumo o eiaculano nella mousse all’arancia. Fight Club non è un libro allegro (“Perdere la speranza era la libertà”), del resto non è nemmeno facile trovare ragazzi allegri in questi tempi colpiti da flagelli incurabili. L’estrema satira di Chuck Palahniuk è nella fantasia di distruggere tutto il mondo con la dinamite: una fantasia abbastanza assurda che vuol essere denuncia delle distruzioni fin troppo reali di cui si legge ogni giorno sui giornali. Denuncia e non invito alla violenza, perché le distruzioni del libro partono dalla dichiarazione: “Noi non uccidiamo nessuno”. È impossibile dimenticare il film che David Fincher ne ha tratto: a parte il finale totalmente diverso, mi pare che il regista abbia voluto rispecchiare la satira del libro in immagini quasi più irruente; già in apertura i due fondatori del primo club si picchiano selvaggiamente in una metafora fin troppo chiara del furore con cui la competizione economica o professionale conduce i conformisti a tentare di eliminarsi con colpi più segreti ma molto più mortali di qualche pugno. A dimostrazione che il furore dei fight club è solo simbolico basterebbe la frase dei due duellanti che si consolano, a conclusione del primo scontro, chiedendosi più o meno: “Ti ho fatto troppo male?”.


William Faulkner Non si fruga nella polvere

Intruder in the Dust, tradotto erroneamente e per decisione editoriale Non si fruga nella polvere (nell’accento del Sud dust è l’espressione per dire crepuscolo), è un tipico libro di William Faulkner. Ed è un altro bel pezzo della Saga Yoknapatawpha, la contea immaginaria inventata da Faulkner per ambientarvi molti dei suoi racconti e dei suoi romanzi. Il protagonista di Non si fruga nella polvere è Lucas Beauchamp, un nero disprezzato per la sua insofferenza verso i bianchi: altero e silenzioso, è considerato il responsabile dell’uccisione del bianco Vinson Gowrie. L’odio che il villaggio tributa al protagonista del romanzo è determinato dal suo non accontentarsi, dal suo non sottostare alle leggi volute dalla tradizione sudista, dal suo rifiutarsi di dire “signore” a un bianco. Lucas è il nuovo nero, quello che disprezza i bianchi. In questo romanzo anche i bianchi sono “nuovi”, odiano i neri per una specie di senso di inferiorità, ormai complesso di colpa, che non si capisce fin dove sconfini nella paura. Faulkner stesso, nato e cresciuto in Mississippi, non mostra mai disprezzo per un nero. I veri sudisti bianchi sono ormai in sfacelo: attraverso i mulatti che discendono da autentici uomini del Sud, i neri, forti, leali, coraggiosi e fedeli, gli sembrano i migliori eredi della tradizione sudista. Ma non si pensi che William Faulkner sia un rivoluzionario o un riformatore. Le qualità dei suoi neri sono le qualità dello stereotipo sudista più convenzionale portato all’estremo con la tecnica di astrattizzazione faulkneriana. Basti pensare alla sinfonia sul più o meno leggendario odore caratteristico dei neri che apre il libro e ricorre più avanti a fare quasi da tema. Il ragazzino nero ha vista, udito, olfatto, tutti i sensi infinitamente più sviluppati del coetaneo bianco; le donne nere hanno una saggezza istintiva ignota ai bianchi; ai neri per essere felici basta “un po’ di musica, un focolare, qualche bambino loro o di altri, un Dio a cui rivolgersi senza dover aspettare di essere morti, un po’ di terra da bagnare del proprio sudore”. Faulkner non ripudia la sua terra, non la giustifica ma non propone neppure riforme per migliorarla. Rimane imparziale. Vorrebbe che non fosse cambiata, ma dato che un cambiamento c’è stato, vorrebbe un cambiamento completo: nobile, bello e glorioso fino in fondo come sanno essere le cose del suo Sud. Ma è proprio in questo groviglio caotico che consiste il coraggio di Faulkner: egli, seppur sudista nostalgico e lontano dal poter diventare nordista, denuncia il letargo sociale in cui il suo Sud è immerso. In Italia si era creduto erroneamente che questo Non si fruga nella polvere del 1948 fosse il giallo di William Faulkner. Il celebre giallo di Faulkner è invece la raccolta Sei racconti polizieschi: Gambetto di cavallo e altre storie (Knight’s Gambit ) del 1949: in America se ne era fatta una gran campagna, ma a parte la curiosità per il suo esperimento di giallo, questo libro di racconti mi è sempre parso stanco, come se l’autore ogni tanto mancasse di fiato. Nonostante tutto, infatti, i libri di Faulkner sono sempre stati ricchi del suo tipico humour un po’ amaro, leggermente crudele ma inequivocabile. La chiave per aprirli è quella del sarcasmo. Lo stesso che ha usato un giorno quando gli ho chiesto se voleva leggere il saggio che intendevo premettere alla sua opera omnia; mi ha risposto con la frase che aveva imparato da Sherwood Anderson quando gli aveva chiesto di leggere un suo manoscritto: “Ti aiuterò a pubblicarlo ma non farmelo leggere”. Inutile dire cos’è lo stile di Faulkner: i soliti periodi lunghi tre o quattro pagine, il solito racconto spezzato e frammentato, il solito toboga di immagini e di stati, le solite genealogie senza limiti. Ma che bellezza se si potesse dire spesso “solito” a roba di questo genere. Nei libri di Faulkner il contenuto ha sempre un interesse relativo, ma lui ci ha viziato con le sue pagine incredibili e le sue immagini straordinarie. Non si fruga nella polvere non fa eccezione.


Joyce Carol Oates Acqua nera

Joyce Carol Oates è una scrittrice americana definita spesso una stilista neogotica: una definizione che sembra assurda se si considera la sua figurina fragile, minuta, quasi incorporea, dalla quale sembrerebbe giusto aspettarsi eteree poesie rimate d’amore piuttosto che le storie di violenza e di orrore che hanno fatto la sua fortuna. Naturalmente la Oates si infastidisce della definizione di scrittrice gotica e ha suggerito, per spiegare la sua prosa, il termine “realismo psicologico”; ma nel discorso di accettazione del National Book Award ricevuto nel 1970 per il romanzo intitolato Quelli (Them) ha detto tra l’altro: “Nei romanzi che ho scritto ho cercato di dare forma a certe ossessioni degli americani in questa metà del secolo; una confusione di amore e denaro, di esperienze pubbliche e private, di uno stimolo demoniaco che sento intorno a me, uno stimolo di violenza come risposta a tutti i problemi”. Questa sua dichiarazione ridimensiona la scrittrice quale grande realista e anche acuta osservatrice sociale; e infatti il romanzo Quelli, che le ha recato una solida fama nazionale, racconta una storia ambientata a Detroit durante le sommosse razziali del 1967 e vista, secondo una recensione su “Newsweek”, come “un carnaio di ingredienti gotici: sangue, fuoco, follia, anarchia, libidine, corruzione, morte da armi da fuoco, morte da cancro, morte da disastri aerei, morte da pugnalate...”. Questa dolce signora, che conduce una placida vita di docente all’Università di Princeton, visualizza queste immagini orrorifiche rimanendo ore a fantasticare nella sala di soggiorno che guarda un giardino verdeggiante e un laghetto. L’enigmatico miscuglio di morbosità, di impegno sociale e di sentimentalismo dei suoi libri è stato stimolato da un fatto accaduto nel 1969 quando la giovane Mary Jo Kopechne è annegata di notte in un’automobile noleggiata e guidata dal senatore Edward Kennedy sull’isola Chappaquiddick; allora la scrittrice ha cominciato a prendere appunti che poi si sono concretizzati nel 1992 in Acqua nera (Black Water ) quando William K. Smith, nipote del senatore Edward Kennedy, è stato accusato di stupro. Joyce Carol Oates ha negato che il romanzo nato da quegli appunti fosse unicamente basato sul dramma della sfortunata Mary Jo. Nelle interviste ha detto: “Volevo che la storia fosse in qualche modo mitica, fosse l’esperienza quasi archetipica di una ragazza che ha fiducia in un uomo più vecchio di lei e la cui fiducia viene violata... Il mio lavoro è sempre stato frainteso. Io scrivo sulle vittime della violenza e invece i miei critici dicono che scrivo sulla violenza. Dal mio punto di vista ho sempre scritto sulle conseguenze della violenza”. Non c’è motivo di non credere alle intenzioni della scrittrice; e quali che siano le sue intenzioni questo minuscolo, bellissimo libro che potrebbe anche essere letto in chiave femminista, sembra un vero compendio della sua poetica. Il romanzo racconta la storia di Kelly, una ragazza né bella né brutta, impiegata in una rivista “impegnata” di Boston, profondamente interessata alla politica, laureata con una tesi che parla del “Senatore” protagonista senza nome del libro; a una festa del 4 luglio su un’isola in una villa di amici intrallazzati con la politica incontra proprio il suo mito, che la seduce con il suo fascino da politico e il suo carisma di anziano playboy, passandole “la calda morbida umida lingua” su una spalla e (“mentre il vento soffiava carezzevole”) “frugando nella sua bocca secca e impaurita con la sua enorme lingua”. Il Senatore la convince ad abbandonare la festa per seguirlo in un albergo sulla terraferma: devono prendere il traghetto delle 20.20 e il Senatore, ubriaco, guida all’impazzata finché la macchina precipita nell’acqua “nera” e si capovolge. Il Senatore riesce ad aprire una portiera facendo leva su Kelly, che gli si aggrappa alle gambe per uscire con lui dalla macchina, fino a spezzarsi le unghie e a strappargli dal piede una scarpa, mentre l’uomo si salva, abbandonandola al suo destino. Dalla vicenda il Senatore risulta un uomo vanesio e vigliacco, cinico e corrotto, con le pupille “di un azzurro intenso, come vetro colorato, con niente dietro”, che “l’aveva colpita con dei calci nella terrorizzata frenesia della fuga”, ridotto a una caricatura mentre “fuggiva ignominiosamente zoppicando con una scarpa sì e una no... incespicando lungo la strada della palude col terrore di essere scoperto da qualche automobilista... scarmigliato e sporco, e se qualcuno l’avesse fotografato?”. Questa immagine del tutto negativa è sottolineata dal martellante orrore col quale la Oates descrive, in ondate ricorrenti che forse vogliono rifare il movimento dell’acqua assassina che lentamente invade l’automobile, ogni attimo dell’agonia di Kelly, coi suoi flashback e la progressiva perdita di coscienza. In un ritornello terribile la ragazza sedotta e davvero abbandonata è descritta nella macchina “mentre l’acqua nera le riempiva i polmoni e lei moriva” in una tragedia che si compiva sulla “costa bella e intatta, con l’odore salmastro dell’aria, l’oceano vasto fresco luminoso, le onde alte crespate di bianco, mentre il mondo era così bello che avresti voluto affondarci i


denti, immergerti completamente in esso, oh Cristoâ€?. Il libro rasenta a volte la prosa d’arte, a volte la scrittura sperimentale, a volte il compiacimento formale; ma gotico o no, realista o surrealista, denunciatario o sensazionalistico, è capace di penetrare profondamente nell’immaginazione.


Ken Kesey Qualcuno volò sul nido del cuculo

Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew over the Cuckoo’s Nest ) è uscito in America nel 1962 sollevando clamore nell’opinione pubblica e favore tra le frange minoritarie del dissenso di cui Kesey è diventato ben presto uno degli eroi. Il libro appartiene al grande canale dei libri di denuncia contro la violenza esercitata sull’individuo dal sistema (o se si vuole dall’establishment) e l’autore aveva scelto come ambiente per la protesta i manicomi in generale e in particolare un manicomio d’America. Per conoscere i delicati meccanismi di queste istituzioni Kesey si era fatto ricoverare nell’ospedale psichiatrico di Stanford a Palo Alto in California e successivamente si era fatto assumere come infermiere, abbastanza a lungo per familiarizzare coi metodi ospedalieri. Tuttavia il manicomio ritratto nel libro non è quello di Stanford, in realtà ospedale modello che ha ospitato dal 1952 il Mental Research Institute finanziato dalla Fondazione Rockefeller e tutta una scuola illustre di psichiatria dinamica. Nel manicomio immaginato dallo scrittore psicoanalisi e altre vie per la liberazione mentale sembrano sostituite da una sempre più brutale e repressiva pianificazione del potere istituzionale e da una tragica caricatura di una dinamica di gruppo condotta da Mildred Ratched, una infermiera che, identificando l’ordine con la terapia, porge ai suoi pazienti un ascolto superegoico e poi sfacciatamente sadico, e capitalizza sulle loro falle psicotiche alla ricerca del suo potere anziché di una maggiore comprensione. A dimostrazione di questo basta leggere le pagine che raccontano la tragedia di Billy Bibbit, un giovane che, dopo essere finalmente riuscito a fare l’amore nella notte brava della rivolta, si taglia la gola con delle schegge di vetro in seguito alle minacce terroristiche di delazione con cui l’infermiera, colpita a morte nel suo orgoglio di trainer, amplifica il suo senso di colpa. Ma giovava alla tesi di Ken Kesey che l’infermiera fosse sadica e impreparata: sadici e impreparati sono in generale i detentori del potere a tutti i livelli, e l’esperienza mostra a quali disastri a volte nazionali e planetari (oltre a quelli aziendali e individuali della vita quotidiana) si può essere condotti da leader reazionari, assolutisti o autoritari. L’ospedale di cui parla Kesey è un tragico esempio di disastro, dove le pedine in gioco sono le vite psichiche della gente. Nel romanzo l’autore fa arrivare Randle Patrick McMurphy, un giovane eroe della libertà che infrange le leggi e guida una fuga liberatoria dei malati-detenuti in una partita di pesca e in una notte di baldoria. Naturalmente la sua proposta viene stritolata, come appartiene, dice l’autore, al destino di tutte le proposte liberatorie: il giovane eroe, dopo aver svergognato e quasi strangolato l’infermiera, viene lobotomizzato e ridotto a un cadavere vivente. A quel punto, il narratore della vicenda, Capo Bromden, un indiano che ha visto il padre diseredato e sconfitto dai bianchi e si è finto sordomuto in un estremo disprezzo per la società usurpatrice, lo uccide prima di fuggire dall’istituto per impedirgli di subire tutta la vita i soprusi dai quali ormai non sarebbe più stato in grado di difendersi. Kesey stesso è rimasto sei mesi in una vera prigione per uso di marijuana. Quando ne è uscito è dovuto entrare in un altro tipo di prigione, pagando il prezzo consueto in America per le persone che attirano troppa attenzione: ha dovuto adattarsi a vivere in oscurità e solitudine. È andato a stabilirsi a Eugene, un minuscolo villaggio dell’Oregon, dove ha lavorato nella latteria modello del fratello. La cessione dei diritti di questo libro per la splendida riduzione cinematografica di Miloš Forman gli ha fatto guadagnare poche migliaia di dollari.


James Fenimore Cooper L’ultimo dei Mohicani

Come ho avuto modo di dire più ampiamente nell’introduzione a questo romanzo, L’ultimo dei Mohicani (The Last of the Mohicans), scritto nel 1826, è un romanzo di origine esotica che, una volta arrivato in Italia, ha entusiasmato con la novità degli ambienti e la crudezza della materia il nostro gusto fanciullesco e borghese più di ogni altro. Erano una novità e una crudezza che oggi appaiono fin troppo innocenti e anodine, ma per chi ha dovuto sopravvivere al periodo fascista per leggerlo, era un’occasione di uscire dall’atmosfera chiusa e gloriosamente accademica della patria lettura. A metà Novecento, James Fenimore Cooper ha avuto in tutta Europa una voga di applauso e di traduzioni pari solo a quella di Walter Scott e Alexandre Dumas. Imitatore del primo ha affrontato una materia romanzesca quasi vergine e l’ha saputa sfruttare secondo le norme di una scuola letteraria già largamente accettata: il romanzo storico. Possiamo dire che James Fenimore Cooper è stato il primo scrittore americano popolare al pubblico europeo. Riassumere la trama de L’ultimo dei Mohicani non rende giustizia al sentimento di esplorazione che traspare dalle pagine del libro: il romanzo è ambientato durante la guerra combattuta tra il 1756 e il 1763 da Francia e Gran Bretagna per la conquista dei territori del Nord America. I protagonisti sono Occhio di Falco – un cacciatore bianco amico dei Mohicani –, l’eroe mohicano Uncas e suo padre Chingachook. I tre si troveranno ad aiutare le due figlie del colonnello inglese Munro rapite dal nemico comune Magua del gruppo degli Uroni e alleato coi francesi. Quelli di metà Novecento erano i tempi beati in cui i romanzi si leggevano per sapere come “andavano a finire” e il racconto di Cooper si divora con la curiosità di chi interroga non un semplice viaggiatore ma l’uomo che è nato in quei luoghi esotici, l’uomo da cui si attendono non soltanto le notizie ma l’atmosfera e la mentalità inconfondibili del luogo. La voga di Cooper era al di qua della storia letteraria: non si faceva questione di stile e di creazione, ma unicamente di soggetto. Nel leggere L’ultimo dei Mohicani veniamo catturati da un interesse che invano cercheremmo in un romanzo di Walter Scott o di Alexandre Dumas. Il carattere più costante della letteratura nordamericana è lo sforzo caparbio e talvolta eroico per liberarsi dell’influsso e del patrocinio europeo. Gli scrittori nordamericani si muovono convinti di aver scoperto dentro di sé o almeno nel mondo circostante un elemento, una voce, un messaggio ignoti al vecchio mondo. Ciascuno reca in sé un ideale di “americanismo” cui si sforza di piegare la realtà. In Fenimore Cooper questo sforzo è pressoché impercettibile, soffocato sotto la grave mora delle letture e dei gusti europei, ma esiste. Epigone del romanticismo mediovaleggiante, James Fenimore Cooper tocca ne L’ultimo dei Mohicani un riverbero di epicità più commossa e più sana di quella tentata dai suoi contemporanei d’oltreoceano. Gli eroi pellerossa vivono su uno sfondo di fatti e di paesi che non è faticosamente ricostruito in biblioteca ma raccolto dal contatto quotidiano con una realtà che nessuno schema letterario ha ancora domato. Per quanto Fenimore Cooper si affanni a lardellare il libro con note etnologiche e linguistiche dottissime, e per quanto intesti ogni capitolo con un’epigrafe di William Shakespeare e compagni, tutta l’opera suscita un senso di inquietudine, una speranza d’avvenire, una possibilità di scoperta. Forse sono proprio queste sensazioni ad aver spinto l’industria cinematografica a proporre così tante volte questa favola tragica sullo schermo. Quella diretta nel 1920 da Clarence Brown e Maurice Tourneur è addirittura classificata come “culturalmente significativa” dalla Library of Congress di Washington e selezionata dalla United National Film Registry.


John Dos Passos Manhattan Transfer

Chi incontrava John Dos Passos rimaneva stupito dal suo riserbo: parlava in modo sommesso e risolveva tutte le situazioni con una cortesia che rasentava la timidezza; andava al di là perfino della perfetta educazione che gli era stata impartita prima dal padre avvocato e poi dall’Università di Harvard. Pareva strano perché il modo con cui Dos Passos si era affacciato alla scena letteraria era stato assai chiassoso, tanto che i suoi primi romanzi lo avevano fatto diventare campione ed eroe della generazione che si era ribellata a certe tradizioni ottocentesche. Nel 1921 Tre soldati (Three Soldiers), romanzo di netta origine espressionistica sull’impatto della guerra su un soldato semplice che deciderà di disertare, aveva scandalizzato il pubblico per il suo tono antimilitarista e antiguerrafondaio. Con questo libro Dos, come lo chiamava Hemingway, aveva aperto la strada a tutta la letteratura pacifista e a quella disfattista culminata nel 1929 col popolarissimo Niente di nuovo sul fronte occidentale (Im Westen Nichts Neues ) di Erich Maria Remarque. Tutta la letteratura postbellica della Seconda guerra mondiale si è rifatta a questo tipo di narrazione, considerando quasi Dos Passos un precursore. Col passare degli anni, lo scrittore americano aveva messo a fuoco la sua visione del mondo basandosi soprattutto su un’interpretazione politica degli avvenimenti. Precorrendo ancora una volta i tempi, nel 1925 ha pubblicato Manhattan Transfer. Qui descrive New York attraverso una serie di personaggi nell’arco di un ventennio e, forse per sottolineare la rapidità degli avvenimenti e delle trasformazioni in America, sceglie una protagonista che cambia tre volte nome, da Ellen a Ellie, a Elaine. Dos Passos usa la nascita di questa protagonista per introdurre l’idea dell’impotenza dell’individuo nei confronti della nuova società e descrive i genitori della ragazza come terrorizzati dal sistema ospedaliero di massa che non assicura la vera identità dei neonati: alla richiesta di venire rassicurati al riguardo un’infermiera risponde: “Qualche volta non possiamo assicurarla”. Così continua il libro, scritto con una fluidità quasi dimenticata che forse resterà un elemento distintivo della generazione di Dos Passos. I personaggi si susseguono con caratteristiche sempre emblematiche; Jimmy, che in qualche modo ricorda l’autore, può venir considerato il coro del libro e anche l’unico capace di abbandonare una situazione considerata invivibile; Bud è il personaggio contrario, fuggito dalla provincia per cercare fortuna a New York, dove in realtà trova solo infelicità; Joe è un professionista ricchissimo che diventa vagabondo; Dutch, incapace di organizzarsi, finisce senza motivo in prigione. L’alienazione tipica dei libri di Dos Passos, forse di ispirazione marxista, non permette felicità. In questa storia divisa in tre parti e diciotto capitoli, dove ciascun capitolo è preceduto da un brano di prosa lirica a volte simbolica, in forte contrasto con il realismo delle storie, nessuno è felice, al punto che nessuno osa sperare di esserlo. Era il clima che in America precedeva la Grande crisi del 1929, coi germi del disastro affondati nel lusso incosciente del primo dopoguerra. Nella storia di questo gruppo di abitanti di New York, l’autore aveva inquadrato il suo attacco al sistema capitalistico come generatore di decadenza e di corruzione. Di nuovo è diventato campione ed eroe di una generazione di ribelli; e quando una ventina d’anni dopo la maturità lo ha aiutato a scorgere nel comunismo e nel fascismo, anziché nella democrazia, le cause di quella decadenza e di quella corruzione, ad alcuni è parso che la sua vena si fosse smorzata e che il rivoluzionario si fosse addomesticato in un mite conservatore. In Manhattan Transfer Dos Passos ha pubblicato un ritratto di New York che è anche l’interpretazione di un militante anticapitalista, poi continuata nella trilogia USA: 42° Parallelo (The 42nd Parallel) del 1930, 1919 del 1932, Un mucchio di quattrini (The Big Money) del 1936. John Dos Passos ha immortalato questo clima con una sapienza tale che, nel 1938, Jean-Paul Sartre lo ha definito il più grande scrittore americano vivente.


Ray Bradbury Cronache marziane

Nella prefazione al suo Fahrenheit 451 del 1953 Bradbury ha detto: “Scrivendo questo romanzo mi pareva di descrivere il mondo quale si potrebbe evolvere in qualche decennio, ma appena qualche giorno fa mi è accaduto di incrociare a Beverly Hills una coppia che portava a spasso il cane. Mi sono fermato a fissarli sbalordito. La donna reggeva in mano una radio non più grande di un pacchetto di sigarette, munita di un’antenna vibrante. Dall’antenna si staccavano minuscoli fili di rame che terminavano in un grazioso cono incastrato da lei nell’orecchio... Questo non era invenzione, questo era un fatto nuovo della nostra civiltà in via di trasformazione”. Queste parole dimostrano che Bradbury non era tanto colpito dall’evoluzione delle macchine quanto dal favoloso sviluppo raggiunto dalle applicazioni industriali grazie alle scoperte scientifiche. Era lo shock che differenziava un fisico da un poeta: lo stupore di fronte alle cose del mondo. Nonostante ciò, negli anni Cinquanta era toccato proprio a lui essere il massimo esponente dei poeti della fantascienza: il suo capolavoro è forse la raccolta di ventotto racconti Cronache marziane (The Martian Chronicles) del 1950. Sono racconti che immaginano lo sbarco degli americani su Marte: i primi venticinque sono ambientati tra il 1999 e il 2005. Gli ultimi tre nel 2026. In tutti il vero protagonista è il sentimento di nostalgia per un’epoca in cui l’uomo viveva a stretto contatto con la natura. Al contrario degli scienziati che hanno scritto fantascienza per liberarsi dai sogni o dagli incubi ispirati dalle loro scoperte scientifiche, Bradbury ha impostato il suo pessimismo come critica alla società americana contemporanea riducendo l’armamentario della fantascienza a mezzo per ironizzare sul meccanismo che ispira quella società e sulla fatuità della sua pretesa supremazia meccanico-scientifica. Questo può sembrare l’aspetto più debole dei suoi racconti; in effetti, dove Bradbury ha abbandonato il tono moraleggiante dell’utopista e del critico sociale e ha invece assunto quello del bravo ragazzo quasi esasperato da una fantasia inesauribile sono nate pagine che dalla favola passano alla poesia. Per lui la sola poesia possibile è quella che ispira il mondo marziano, l’unico non ancora contaminato dalla meccanizzazione moderna. Con Jules Verne nel 1865 e Herbert George Wells nel 1895, Ray Bradbury è stato il terzo scrittore a prevedere lo sbarco dell’uomo sulla Luna e a immaginare i terrestri colonizzati dai marziani. Aveva cominciato a sostenerlo a dodici anni, ma la gente lo aveva sempre preso in giro perché a quell’epoca l’era spaziale non era proprio prevedibile. È stato per questa sua fantasia straordinaria che il governo americano lo ha invitato a prendere parte alla spedizione sulla Luna. Ma nonostante Bradbury consideri il 20 luglio 1969 come “la più grande notte dell’umanità... perché è stato lo sbarco dell’intera umanità”, quel giorno ha sorpreso tutti declinando l’invito. Il motivo? Cercava di non prendere gli aerei: aveva paura di precipitare. Fra tutte queste contraddizioni la fantasia di Bradbury corre come un fuoco d’artificio; il suo obiettivo principale è sempre stato quello di formulare leggi adatte a ogni nuova invenzione: “Se dobbiamo muoverci nello spazio dobbiamo formulare leggi per lo spazio”. Nel problema della divisione del territorio spaziale nel 1985 si esprimeva così: “Bisogna che sia diviso in parti uguali fra la gente e posseduto da tutta la Terra. Se le Nazioni Unite non hanno mai fatto niente di buono è il momento che si decidano, per evitare che comincino le guerre per il possesso degli spazi. È sempre la stessa vecchia storia: la storia del mondo è la storia delle guerre, no? Agli uomini piace la guerra. Non mi piace essere un uomo a causa di questo. Da bambino vedevo arrivare le guerre. Quella di Etiopia di Mussolini: sentivo che si sarebbe allargata e poi Hitler ha fatto quello che ha fatto, e poi Hitler e Mussolini si sono messi insieme, e poi è entrata nel gioco la Russia e tutto il mondo è andato all’inferno. E oggi? Il Medio Oriente è un disastro. Vorrei poter portare tutti gli ebrei del Medio Oriente in Florida e portare lì con loro il Muro del pianto, toglierli di là perché finché saranno là la situazione palestinese continuerà a essere impossibile.” Coi suoi capelli bianchi e le sue eterne scarpe da tennis, Bradbury mi commuove per il suo ingenuo sentimentalismo.


Patricia Highsmith Il talento di Mr Ripley

Patricia Highsmith è diventata famosissima con il personaggio di mister Ripley. Questo Ripley è il personaggio chiave della sua opera. Protagonista in cinque libri, è comparso la prima volta nel 1955 ne Il talento di Mr Ripley (The Talented Mr Ripley ) dal quale René Clément nel 1959 ha ricavato il film Delitto in pieno sole, dove a Ripley era stato dato il volto di Alain Delon. Poi hanno girato molti altri film tratti dai suoi romanzi. Ripley è ritornato nel 1970 con Il sepolto vivo (Ripley Under Ground), nel 1974 con L’amico americano (Ripley’s Game), nel 1980 con Il ragazzo di Tom Ripley (The Boy Who Followed Ripley) e nel 1991 con Ripley sott’acqua (Ripley Under Water). La caratteristica di questo personaggio è la sua amoralità: nel primo libro della serie Ripley è un giovane che uccide un coetaneo per assumerne l’identità e il patrimonio e nei volumi successivi uccide altre persone per evitare che i suoi delitti vengano scoperti. Alla sua comparsa si era presentato come la metafora del rapporto tra una figura alienata e demoniaca e la sua vittima del tutto normale; per Patricia Highsmith aveva rappresentato il simbolo di un “gentiluomo libero”. La sua predilezione per questa figura ambigua aveva indotto la critica a dire che la Highsmith spingeva la sua identificazione coi suoi personaggi psicopatici fino a preferire la loro malvagità interessante alla virtù mediocre delle vittime. Questo Ripley rappresenta per la scrittrice l’avventuriero americano capace di esplorare e a suo modo colonizzare il vecchio mondo decaduto: uno dei pochi personaggi vincenti nella sua galleria di sconfitti. Il sensazionalismo che a volte ha appesantito i suoi primi romanzi è andato diminuendo col crescere del suo riconoscimento come grande scrittrice, culminato quando Graham Greene, suo sincero ammiratore, nell’introduzione a un suo volume di racconti del 1970 l’aveva definita “poeta dell’angoscia”. Un libro dove Ripley non è il protagonista ma dove Patricia Highsmith rivela il suo essere una grandissima scrittrice di suspense è Carol, il secondo romanzo, in cui la Highsmith, che aveva appena pubblicato nel 1950 Sconosciuti in treno (Strangers on a Train), subito diventato famoso grazie alla riduzione cinematografica di Alfred Hitchcock con la sceneggiatura di Raymond Chandler, ha svolto il tema del lesbismo. In una postfazione al libro ne narra l’origine: verso il Natale del 1948, appena terminato Sconosciuti in treno, ha lavorato un paio di settimane in un grande magazzino di Manhattan nel reparto in cui si vendevano le bambole. Un giorno è comparsa una cliente bionda in pelliccia che ha suscitato nella scrittrice una profonda emozione: rientrata a casa scrisse in un paio d’ore un racconto che ha poi intitolato Il prezzo del sale (The Price of Salt), svolgendolo poi come romanzo nonostante le proteste del suo editore che avrebbe voluto ricevere da lei una storia dello stesso genere di Sconosciuti in treno. La Highsmith ha insistito a finire questa vicenda di lesbiche, il cui titolo sarebbe stato appunto Carol, e nel 1952 l’ha presentata, con lo pseudonimo di Claire Morgan, a un altro editore che l’ha pubblicata vendendo un milione di copie. La novità del libro è che le due protagoniste concludono la loro storia con un lieto fine, “o almeno col tentativo di avere un futuro insieme”. In precedenza nei romanzi americani gli omosessuali avevano dovuto pagare il fio della loro deviazione tagliandosi le vene o annegandosi in una piscina... In un altro dei suoi romanzi, Diario di Edith (Edith’s Diary ), la Highsmith aveva rivelato anche qualche traccia autobiografica nella protagonista, una casalinga che si getta in un’orgia di lavori domestici per lottare contro la sua angoscia. Di autobiografico c’era la delusione della donna negli avvenimenti politici d’America: come lei, Patricia Highsmith in pieno maccartismo aveva militato nella Sinistra. La scrittrice considerava il libro il suo capolavoro e vi aveva svolto il tema della colpa, che è il leitmotiv di tutta la sua opera e trattato così bene nei romanzi di mister Ripley.


Joseph Heller Comma 22

Comma 22 (Catch 22), uscito in America nel 1961 poco prima dello scoppio della Guerra del Vietnam, è stato un bestseller da otto milioni di copie. Sarebbe stato più corretto tradurlo Tranello 22, ma queste sono decisioni editoriali di cui non capirò mai il significato. Questo romanzo, oltre a offrire un ritratto degli anni Cinquanta d’America e a raggiungere un pubblico capillare attraverso un film agghiacciante diretto nel 1970 da Mike Nichols e interpretato da Alan Arkin, è uno dei più clamorosi, drammatici e divertenti libri di letteratura antimilitarista. Comma 22 è basato sulle esperienze personali dello stesso Heller, che durante la Seconda guerra mondiale era stato aviatore nell’USAF in Europa. Al centro della vicenda c’è un reparto di aviatori che esegue pericolose missioni di bombardamento a bordo dello stesso aereo pilotato da Joseph Heller, il B-25 Mitchell. Comma 22 era e continua a essere un romanzo straordinario che oltre a inventare un nuovo tipo di dialogo ha introdotto nella storia letteraria americana una specie di satira dell’assurdo. Nel libro si fa la parodia dell’esercito apparentemente sgangherato che ha liberato l’Europa dai nazisti; lo humour di Joseph Heller rende grottesche anche le molte aberrazioni della guerra suscitando il riso ma anche la vergogna. È una specie di “commedia nera”, che non si sviluppa secondo un ordine cronologico, in cui il protagonista, capitano Yossarian, vive due tempi, quello della guerra e quello degli anni Cinquanta americani, diventando sempre più eroe nella stima dei compagni quanto più riesce a sottrarsi al combattimento. A differenza degli altri romanzi di guerra, in Comma 22 manca il nemico, e non è solo una brillante trovata dell’autore; questa scelta narrativa riflette infatti il carattere della guerra moderna, specie quella aerea, dove il nemico è invisibile, e dove si distruggono città intere da lontano, a migliaia di metri di quota. Eppure Yossarian non è indifferente alla vita dei civili. Questo è chiaro quando il protagonista, pur di non sganciare bombe su una cittadina di nessuna importanza strategica, rischia la corte marziale. Forse in questo episodio Heller vuole ricordarci il bombardamento di Dresda che Kurt Vonnegut ha raccontato nel suo Mattatoio n. 5. L’assurdo che pervade il libro è già dichiarato nel titolo, almeno in quello originale: questo Comma 22 è un articolo “immaginario” del regolamento militare che viene continuamente invocato o impugnato dai militari, e talmente entrato nell’uso che alla fine è radicato nella vita quotidiana come se in realtà esistesse. L’espressione “ Catch 22” è diventata così popolare in America da essere introdotta nei vocabolari col significato di “qualcosa che si autodistrugge per contraddizione”. È un ragionamento un po’ complicato da spiegare e non per niente la madre di Joseph Heller rimproverava al figlio di avere una mente “contorta”. Questa mente contorta lo scrittore l’ha rivelata in tutti i suoi libri, nelle sue due commedie e nella sua autobiografia: ma non ha prodotto molto perché si era abituato a scrivere soltanto due ore al giorno quando finiva il lavoro d’ufficio e la prassi è rimasta immutata anche quando ha smesso di fare lavori extraletterari. Così, per scrivere Comma 22 ha impiegato otto anni, dal 1953 al 1961. Questo romanzo è così stimato dai critici e dagli altri scrittori americani che Nelson Algren sul “Chicago Daily News” ha scritto: “Comma 22 è un classico. La fantasia vi viene utilizzata per descrivere una verità tanto tremenda da non poter essere detta con una narrazione realistica. Da quanto tempo uno scrittore non satireggiava con tanta forza comica l’inumanità dell’uomo verso l’uomo? Mi viene in mente un nome solo: quello di Jaroslav Hašek, l’autore de Il buon soldato Švejk. Per questo ho scritto che Comma 22 è il miglior romanzo americano di questi anni”.


Alice Walker Il colore viola

Premio Pulitzer 1983, American Book Award, bestseller per più di sei mesi sulle liste del “New York Times”, diritti cinematografici venduti per trecentocinquantamila dollari alla Warner Brothers, non c’è dubbio che con Il colore viola (The Color Purple) Alice Walker è entrata di prepotenza nella storia della letteratura nera d’America imponendosi come la rappresentante di quegli anni Ottanta, con le sue ansie di attivismo politico e di femminismo macerate in una narrazione che le dà per scontate e insieme le rappresenta con tecnica da maestro. La letteratura nera d’America ha preso le mosse nell’Ottocento per perorare una causa: i primi scrittori antischiavisti avevano trovato già pronta la tecnica di Charles Dickens e di Harriet Beecher Stowe e di lì erano nati i primi romanzi, immaturi, sentimentali e imperfetti, destinati alla propaganda attiva. E dalla propaganda non si sono staccati mai, pur avendola modificata col mutare della situazione politica e sociale e anche col progressivo mitigamento delle leggi discriminatorie e razziali. A misura che gli scrittori neri prendevano coscienza del loro potenziale culturale, le loro opere sono uscite da una fase di scimmiottatura della letteratura bianca fino ad acquistare lineamenti sempre più tipici, spesso usando il folklore nero, più o meno come tra i bianchi la scuola ebraica si è servita delle proprie tradizioni etniche e religiose per produrre autori come Philip Roth. Alice Walker è nata in Georgia in atroce povertà il 9 febbraio 1944, con una nonna schiava affrancata, un padre mezzadro, una madre che faceva la cameriera oltre a lavorare nei campi e con sette fratelli pigiati con lei in due stanze. Come se questo non bastasse, ancora bambina un colpo di fucile accidentale l’ha ferita a un occhio, accecandoglielo perché, non avendo né una macchina né denaro sufficiente, la famiglia l’aveva potuta portare da un medico solo la settimana successiva. In questa storia vera che sembra uscita da un libro di denuncia, Alice Walker ha trovato la materia del suo romanzo sociale. Non c’è dubbio che il coro di lodi elargito a Il colore viola si concentra soprattutto sul linguaggio “nero”: un linguaggio illetterato, quello della quattordicenne protagonista che ha studiato solo nelle prime due classi elementari ed è immersa in una ignoranza globale che abbraccia tutto, dalla geografia alla storia e alle più basilari nozioni della vita sociale. Con questo linguaggio si svolge la prima parte del romanzo, la più bella e ricca di poesia, carica com’è di denuncia, che nasce dalla realtà drammatica dei fatti molto più che da un’ideologia. Alice Walker imposta il suo libro come un romanzo epistolare, dove la corrispondenza è tenuta da due sorelle, Celie e Nettie. Nella prima parte Celie scrive a Dio per confidargli le sue pene, tra tutte ricordo le continue violenze subite dal patrigno. Nella seconda parte Nettie scrive a Celie dall’Africa, dove ha iniziato una nuova vita. Celie, sposata con un vedovo che in realtà avrebbe voluto sposare Nettie, riuscirà però a leggere le lettere solo molti anni dopo, quando le troverà grazie all’amante del marito, che gliele aveva tenute nascoste. I due temi che hanno permeato la vita di Alice Walker, la lotta per i diritti civili e la convinzione femminista, fanno sicuramente da base a Il colore viola insieme alle ricerche antropologiche svolte in Africa. Questa donna nel suo romanzo ha fatto rivivere lo stile epistolare e il linguaggio dell’antica tradizione americana e ha creato personaggi intensi e drammatici, umani al di là dei facili stereotipi propagandistici, in episodi veri secondo le cronache della tragica storia della sua razza. Fa parte di un’eccezionale bravura tecnica la sua capacità di rendere senza descriverlo lo svolgersi dei trent’anni di storia che si snodano nel libro, compreso il miglioramento raggiunto nella condizione femminile fino a un finale, forse la parte più debole del libro, in cui gli uomini diventano troppo sottomessi alle donne e una donna bianca fa da cameriera a una negra. Sembra che la demagogia (o l’utopia) abbia preso la mano alla scrittrice. Eppure trasuda da queste pagine una sincerità che scavalca la tendenza strappalacrime cara alla Moral Majority dell’era di Ronald Reagan e che nella ricostruzione storica rintraccia tematiche e spunti poetici svolti con dialoghi ricchi e dissolvenze straordinarie in una specie di saga ricca di gioia e di dolore, di humour e di amarezza, di naturalezza e di intensità. Una saga che reca un messaggio: quello della libertà procurata dall’amore.


Gore Vidal Lincoln

Tra le decine di suoi romanzi, tutti memorabili, è difficile sceglierne uno in particolare. Il successo non l’ha mai abbandonato da quando, nel 1948, è uscito The City and the Pillar, pubblicato in Italia da Bompiani, inizialmente col titolo La città perversa poi con Jim, e, in tempi recenti, da Fazi col titolo La statua di sale. È questo un romanzo sull’omosessualità, il primo in America ad affrontare esplicitamente questo tema, causa dell’ostracismo della critica ufficiale. Forse l’altra sua opera clamorosa è stata Lincoln, del 1984. È un romanzo storico dove la polemica non si arresta mai e in qualche modo modifica le agiografie classiche, ridimensionando per esempio quelle di Carl Sandburg e di Edgar Lee Masters. L’immagine cara alla tradizione populista è stata sostituita da un Lincoln freddo e prudente, riflessivo e brillante, avido di potere, dittatoriale e certamente il più ambizioso dei presidenti americani: con la sua abituale causticità Vidal ha detto in un’intervista che l’immagine tradizionale “dell’onesto spaccalegna è la creazione della prima campagna di pubbliche relazioni per un politico”. Per esempio Vidal sostiene che Lincoln non era un abolizionista e voleva sottrarre i neri liberati dall’odio che li circondava mandandoli a colonizzare una regione d’Africa; con grande convinzione insiste sull’azione condotta dal presidente, fino alla monogamia, per evitare la disintegrazione dell’America provocata dalla Guerra civile e ricostruire l’unità degli Stati Uniti, senza tener conto del fatto che la Costituzione non escludeva la possibilità di una secessione; lo presenta come una figura mitica così potente da tradire la Costituzione stessa venendo meno alle libertà tradizionali d’America, per esempio censurando la stampa e sottoponendo la posta alle indagini dei servizi segreti. La demistificazione di Vidal arriva al punto di rendere pubblica la lue contratta e mal curata in gioventù dal futuro presidente e da lui trasmessa alla moglie Mary e ai figli. Gore Vidal, che è stato attaccato da Stephen Oates nella sua monografia su Abraham Lincoln per queste affermazioni, si è basato sulla documentazione di William Herndon, un collaboratore dello studio legale del futuro presidente con il quale lo stesso Lincoln si era confidato in gioventù. L’episodio nel libro di Gore Vidal è raccontato da William Herndon stesso ed è comprovato dall’autopsia fatta sulla moglie Mary morta pazza, alla quale è stata riscontrata una paresi del cervello di origine luetica. Nelle seicentosessantasette pagine del libro, seguite da una postfazione molto illuminante di Vidal, l’autore introduce Lincoln il 23 febbraio 1861 mentre arriva a Washington sfuggendo a un complotto nel quale avrebbe dovuto venire assassinato. Da questo momento il più famoso presidente americano viene accompagnato fino all’assassinio del 14 aprile 1865 e la sua immagine cara alla tradizione populista viene ridimensionata alla luce degli studi più recenti. Demistificazione a parte, va detto che prima di Gore Vidal nessun biografo o romanziere ci ha mostrato un Lincoln plausibile e umano, qui presentato come maestro di politica, inventore dello Stato-Nazione, dotato di una volontà inflessibile che gli ha permesso di affrontare e risolvere la più grave crisi mai incontrata da un presidente americano, malvisto dai collaboratori per la sua arroganza intellettuale e l’inconscia certezza della sua superiorità. È un ritratto complesso che il prodigioso Vidal conduce con la narrativa e l’ironia alle quali ci ha abituato e il ritmo lento, tradizionale, prescelto gli consente di riempire il libro di decine di figure periferiche spesso trattate come caricature alla Dickens, a volte semplici atti di presenza che permettono a qualunque personaggio in vista ai tempi di Lincoln di comparire: da Henry Adams a Walt Whitman e così via. Fa parte dell’abilità del narratore che il suo protagonista sia visto attraverso gli occhi dei tre suoi collaboratori più stretti; l’ironia onnipresente alleggerisce la minuzia di particolari, tutti storicamente provati, che inducono a chiedersi come abbia fatto Gore Vidal a procurarseli. Lincoln fa parte di una serie sulla storia politica americana insieme a Burr, 1876, Empire (Impero) e Washington D.C. Da grande letterato, e anche da grande uomo politico, Gore Vidal ha messo insieme un’opera forse più politica che letteraria, sempre densa di polemica e di ironia ma anche di un grande amore per l’America.


Dalton Trumbo E Johnny prese il fucile

E Johnny prese il fucile (Johnny Got His Gun) è stato scritto nel 1938 ma è uscito solo nel settembre 1939: dieci giorni dopo il patto tra Germania nazista e Russia sovietica e due giorni dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale. Per scriverlo, Dalton Trumbo si era ispirato a un fatto di cronaca: nel 1935 il principe di Galles, durante la visita a un ospedale canadese, aveva visto un ferito col quale si poteva comunicare soltanto battendogli un dito sulla testa. Nel libro, Joe “Johnny” Bonham è un ragazzo poco più che adolescente, ferito nel settembre 1918 pochi giorni dopo essere arrivato al fronte e rimasto in stato d’incoscienza per un numero indeterminato di mesi fino a quando l’orrore del risveglio gli fa capire di essere rimasto sordo e, a misura che la sensibilità del corpo gli si riattiva, di avere tutti e quattro gli arti amputati e un buco al posto della faccia, la bocca, le mascelle, la lingua, i denti, il palato scomparsi. Questo moncone dolorante e avvolto di bende, nutrito attraverso un tubo infilato nello stomaco e tenuto in vita mediante un altro tubo inserito nei polmoni, si ritrova ad avere soltanto la sensazione del sesso e la capacità della mente; e rimane lì, posato su un letto “come un quarto di manzo appena macellato” senza alcuna possibilità di comunicare con il mondo esterno. Dopo molti sforzi riesce a ricostruire lo svolgersi del tempo, a capire dalla differenza di temperatura quando è l’alba e quando è il tramonto, e a riconoscere le infermiere dalle vibrazioni del letto al loro avvicinarsi. In queste condizioni viene decorato al valore, senza neanche sapere da chi; finché un giorno cerca di farsi capire battendo con la testa contro il cuscino i segni dell’alfabeto Morse e un medico infastidito lo droga per farlo star fermo, procurandogli quello che in gergo contemporaneo si chiamerebbe un “viaggio”, una lunga sessione psichedelica. A comprendere questo suo linguaggio sarà un’infermiera “nuova”; dopo sei anni di totale silenzio il morto-vivo si accorge quindi di aver trovato un mezzo per comunicare, ma al tempo stesso, atterrito, si accorge di non sapere più che cosa comunicare, che cosa chiedere. Perciò domanda una cosa che gli sembra normale, di essere portato all’aperto per sentire l’aria fresca; ma gli rispondono che è contro i regolamenti. A questo punto propone di guadagnarsi la vita mostrandosi nei circhi con donne barbute e altri fenomeni umani, completo di decorazioni e medaglie, o di essere portato nelle chiese distrutte dalle guerre e nelle scuole dove i bambini vengono addestrati all’idea di dover “difendere la patria”. Naturalmente anche quest’altra sua richiesta è respinta, trascinandolo, lui, vittima di una guerra di cui non conosceva neanche le cause, a considerarsi “un nuovo Messia dei campi di battaglia” e a fare una profezia rivoluzionaria che sembra uscita dalle bocche delle Pantere bianche e nere (dove la classe da sconfiggere è quella di chi vuol fare le guerre) a conclusione del libro: “Ricordatevelo, voi che progettate un’altra guerra: noi siamo uomini di pace e i fucili li useremo per difendere la nostra vita... Voi progettate pure le guerre, voi padroni di uomini, e puntate il dito e noi punteremo il fucile”. Forse la parte più caduca di questo libro sopravvissuto a tre guerre e caricato di attualità così diverse è la sua qualità letteraria. In un linguaggio quasi sperimentale, a volte onomatopeico, a volte distorto, con una struttura priva di punteggiatura, con tecniche precorritrici di quelli che oggi chiamiamo flashback o cut in, il libro esprime la disperata poesia di un uomo che si vede rubare il mondo quando invoca la fidanzata posseduta una volta soltanto alla vigilia della partenza o quando si consola di essere sordo pensando che non avrebbe più udito crepitare una mitragliatrice o rombare un bombardiere o urlare un uomo ferito o quando pensa a coloro che sono morti “gemendo e sospirando la vita”, “tra urla e singhiozzi” consapevoli che “la vita era tutto”; quando insomma la dolce realtà della vita fisica inonda di ricordi l’orrore della sua irreale situazione innaturale. Più ancora che un messaggio pacifista e antimilitarista questo libro era sembrato un’estrema denuncia dell’ultimo punto al quale può arrivare la violenza prima di sprofondare nell’assassinio, quello legale delle guerre (giuste o ingiuste) o illegale della delinquenza: sembra cioè una forte denuncia della mancanza di rispetto che le guerre, forse evitabili, mostrano per la dolce, fragile vita del corpo umano, già messa fin troppo a dura prova dalle malattie che non si possono curare o dalle fatalità cosmiche che davvero non si possono evitare. Famoso per la sua presunta adesione al comunismo, Dalton Trumbo era uno degli sceneggiatori più pagati di Hollywood; da questo libro nel 1971 ha tratto e poi diretto il film omonimo vincitore del Grand Prix speciale della giuria al XXIV Festival di Cannes. In una delle tante successive ristampe del libro aveva aggiunto una nota: “Undici anni dopo. Le cifre ci hanno disumanizzati. Prendendo il caffelatte alla mattina leggiamo che nel Vietnam sono morti quarantamila americani. Invece di vomitare, imburriamo un’altra fetta biscottata. Poi ci precipitiamo nelle strade in mezzo alla folla non per gridare all’assassinio ma per timbrare in tempo il cartellino”. Chissà cosa aggiungerebbe oggi.


Tom Wolfe Il falò delle vanità

Nato a Richmond, in Virginia, il 2 marzo 1931, a Tom Wolfe piace ostentare modi da gentiluomo del Sud, dei quali fa parte la sua ossessione per l’abbigliamento, in particolare per gli abiti bianchi, che lo ha fatto definire un dandy. Nel Sud ha condotto i suoi studi e si è spostato al Nord negli anni Cinquanta per iniziare una brillantissima attività di giornalista, finendo per diventare il portavoce dell’idea del Nuovo Giornalismo, l’equivalente del romanzo-non-romanzo inventato, secondo molti critici, da Truman Capote e Norman Mailer. Il suo spirito caustico lo ha reso il re dei salotti di New York; e dalle colonne del “New York Magazine” Wolfe ha attaccato violentemente la celebrata rivista “New Yorker”, procurandosi una vasta ostilità da parte dell’establishment. Nel 1965 ha pubblicato la sua prima raccolta di articoli, La baby aerodinamica kolor karamella (The Kandy-Kolored TangerineFlake Streamline Baby), che è diventata subito un bestseller; nel 1968 L’Acid Test al Rinfresko Elettriko (The Electric KoolAid Acid Test ), dove ha fatto la cronaca di un suo viaggio attraverso gli Stati Uniti a bordo di uno scuolabus dai colori psichedelici con gli amici scrittori Ken Kesey, Neal Cassady e i Merry Pranksters, sperimentatori di LSD e controversi protagonisti delle cronache letterarie del tempo; nel 1970 ha pubblicato Radical Chic (Radical Chic & Mau-Mauing the Flak Catchers), espressione inventata da Wolfe e diventata presto popolare, ispirata a una festa di Park Avenue organizzata dal direttore d’orchestra Leonard Bernstein per raccogliere i fondi per la difesa di un gruppo di Pantere Nere. Mentre circolava la definizione di Kurt Vonnegut secondo la quale Tom Wolfe è “un genio che fa qualunque cosa per attirare l’attenzione”, Wolfe ha pubblicato nel 1979 La stoffa giusta (The Right Stuff), un libro di nuovo aggiornatissimo, in cui ha narrato un episodio della storia del primo programma americano per la realizzazione di missioni spaziali con equipaggio. Ma il suo sogno era quello di scrivere un romanzo su New York, di diventare il Balzac e insieme lo Zola americano. Il falò delle vanità (The Bonfire of the Vanities ), uscito in America nel 1987, è il primo romanzo di Tom Wolfe – abilissimo organizzatore dei suoi numerosi successi letterari e considerato l’equivalente letterario dei pittori pop –, ma l’undicesimo libro della sua bibliografia. Ha impiegato anni a scriverlo e per costringersi a finirlo nel 1984 ha fatto un contratto con Jann Wenner, l’editore di “Rolling Stone”, che lo impegnava a consegnare alla rivista, settimana dopo settimana, ventisette puntate consecutive del romanzo. Il libro, in questa prima stesura, non ha avuto successo. Tom Wolfe ha detto in un’intervista: “Avevo fatto un errore: il protagonista era uno scrittore, e gli scrittori non sono mai personaggi drammatici. Quando ho ripreso in mano il libro, riscrivendolo da capo, ne ho fatto un agente di cambio”. La versione finale del romanzo, uscita tre anni dopo, ha avuto un enorme successo: in un anno ne sono state vendute seicentoventicinquemila copie, l’edizione tascabile è stata quotata un milione e mezzo di dollari e i diritti per la riduzione cinematografica sono stati acquistati dai produttori Jon Peters e Peter Guber. L’ex scrittore diventato agente di cambio in questa storia di centinaia di pagine è un WASP miliardario che, tornando dall’aeroporto Kennedy con l’amante, finisce per sbaglio nel Bronx con la sua Mercedes, investe un ragazzo nero di diciannove anni e diventa il centro di una manipolazione razziale condotta da un leader nero, un avvocato alla ricerca di affermazione politica e un reporter corrotto. Detta così la storia sembra facile, ma in realtà è complicatissima e la rovina del finanziere, condotto in manette in tribunale dopo un anno di controversie, è narrata in un colossale affresco che rivela l’accurata preparazione di Tom Wolfe: lo scrittore ha frequentato per anni il tribunale di Manhattan grazie all’amicizia di un giudice e, senza abito bianco, si è aggirato a lungo nei quartieri più poveri del Bronx per intervistare decine di detenuti neri. Lo stile del romanzo è quello, definito comunemente ipertiroideo, al quale ci hanno abituato i libri precedenti: la rivista “Harper’s Bazaar” ha contato duemilatrecentoquarantatré punti esclamativi. Non bisogna lasciarsi infastidire dall’ossessione con cui Tom Wolfe descrive i particolari dell’abbigliamento dei vari personaggi, soffermandosi per esempio a precisare la marca di un paio di scarpe nei momenti magari più drammatici; e bisogna sopportare (non è facile) i tentativi di onomatopeia, con cui lo scrittore cerca di rendere il suono dei vari dialetti ripetendo le vocali delle parole fino a renderle incomprensibili. Detto questo, non si può non restare travolti dalla cruda energia di questo libro enorme, amaro, divertente, costruito con eccezionale abilità, con personaggi ispirati da persone reali che, nonostante le proteste dell’autore, hanno fatto pensare a un


romanzo a chiave.


Norman Mailer Le armate della notte

Le armate della notte (The Armies of the Night) del 1968 è la cronaca giornalistica, l’interpretazione politica ma soprattutto la ricostruzione, narrata in terza persona e coi veri nomi dei protagonisti, della Marcia sul Pentagono organizzata a Washington dalla Nuova Sinistra, ancora sotto veste pacifista, il 21 ottobre 1967, a concludere il crescendo di manifestazioni americane contro la Guerra del Vietnam. Leggendo Le armate della notte viene da chiedersi se la terza persona usata nel libro è una necessità giornalistica o se è il segno che pur nelle drammatiche circostanze di quando l’ha scritto, Mailer è riuscito a raggiungere l’oggettività che cercava. L’uso della terza persona gli consente una critica di se stesso che il recensore più malevolo non riuscirebbe a fare in modo più sottile e crudele. Questa critica Norman Mailer la svolge nella prima parte del libro, che descrive l’antefatto della marcia. E via via si narrano le varie fasi delle tre giornate, fino al suo arresto, la sua zuffa con un nazista messo in cella con lui, l’azione coerente e splendida del poeta Ed Sanders, la permanenza in carcere, il processo, la scarcerazione: finché “il romanziere sorride soddisfatto” e inizia la vera e propria “storia” dell’organizzazione del raduno pacifista diretto da Jerry Rubin (aveva organizzato a Berkeley la Giornata del Vietnam e altre manifestazioni e aveva scontato il conseguente mese di carcere) fino alla conclusione, la notte, quando degli oltre centomila manifestanti ne erano rimasti solo alcune centinaia e la polizia aveva potuto tuffarsi con violenza su di loro picchiando specialmente le donne “per umiliare i dimostranti”. L’esercito, dice Norman Mailer, “si era reso colpevole di un’azione illegale e lo sapeva”; i giovani erano restati lì tutta la notte di quel giorno, tutto il giorno dopo e al calare della nuova notte “l’atteggiamento era di tipo pacifista, quasi da santi”. A mezzanotte, quando era previsto che la marcia terminasse, erano rimasti solo seicentottantatré ragazzi che si erano lasciati arrestare senza opporre resistenza. Ma il libro, storia o non storia, finisce con un’invocazione all’America: “L’America, un tempo una bellezza di ineguagliato splendore, oggi una bellezza con una pelle da lebbroso... quasi sicuramente partorirà, ma che cosa? Il più orrendo totalitarismo che mai il mondo abbia conosciuto? O forse... darà alla luce il pupo di un mondo nuovo, tenero e coraggioso, saggio e ribelle? Corriamo alle serrature... Liberiamoci dalla nostra maledizione”. Con questo libro, Norman Mailer si rivela non soltanto uno “scrittore nato” o uno “scrittore abile”, come è stato facile dire per liquidarlo, ma un narratore fuori degli schemi tradizionali del romanzo, della saggistica e del giornalismo e che in questo momento ha trovato forse il mezzo espressivo più accessibile e più “nuovo” per descrivere in un miscuglio di tecniche fatti che sono essi stessi un miscuglio abbastanza intricato di passioni e di pensieri, di azioni e di fantasia. Insieme a Il nudo e il morto (The Naked and the Dead) del 1948, Le armate della notte è forse il capolavoro di Norman Mailer: gli ha procurato il Premio Pulitzer e il National Book Award. È il libro che ha svelato all’establishment situazioni fino allora note soltanto ai giornali underground.


Thomas Pynchon L’arcobaleno della gravità

Thomas Pynchon, nato nel 1937, ha cominciato a scrivere racconti alla fine degli anni Cinquanta mentre studiava alla Cornell University sotto la guida di Vladimir Nabokov. La sua consacrazione è avvenuta col terzo romanzo, L’arcobaleno della gravità (Gravity’s Rainbow), un libro apocalittico e considerato da alcuni il più importante testo letterario dopo Ulisse di James Joyce; ma l’opera di Joyce è divisa in capitoli coerenti mentre quelli de L’arcobaleno della gravità non funzionano come demarcazioni strutturali: il lettore non ha l’aiuto di interruzioni e nuovi inizi. La narrazione scorre oniricamente, come prodotta da una droga. Pynchon stesso offre un’immagine del libro: lo comincia con un’eco de La terra desolata (The Waste Land ) di Thomas Stearns Eliot descrivendo i personaggi in un inferno dantesco nel loro procedere verso il lavoro sul London Bridge, come se la visione stessa del romanzo fosse una visione della noiosa angoscia della modernità. Ma questo romanzo di quasi settecento pagine non concede compromessi nella sua indeterminazione. Tuffandosi dietro a un armonium che è caduto in un gabinetto, il protagonista, Tyrone Slothrop, entra in una realtà alternativa come quella delle Avventure di Alice nel paese delle meraviglie (Alice’s Adventures in Wonderland ) di Lewis Carroll. La storia si svolge tra l’Inghilterra e la Germania di fine Seconda guerra mondiale. Il protagonista ha una strana capacità: ogni volta che va a letto con una ragazza, un missile tedesco cade nei pressi dei luoghi in cui è avvenuto il rapporto, come se l’effetto, l’eccitazione sessuale, fosse scoperto prima della causa, il lancio del missile. Il romanzo prosegue in una serie di avventure paradossali che portano continui capovolgimenti: la tecnologia militare non è più nata per rispondere alle esigenze della guerra, ma è la guerra a essere nata per rispondere alle esigenze della tecnologia. Così “la politica è solo teatro” dice Pynchon in una frase famosa. All’interno del testo i simboli sono molti ma, con le erezioni e gli orgasmi del protagonista corrispondenti alle esplosioni dei razzi, il razzo A4 è il centro del simbolismo di tutto il libro. Il titolo stesso L’arcobaleno della gravità è simbolico: la gravità è quello che tiene il mondo insieme ed è “qualcosa di misterioso, messianico, extrasensoriale... che ha abbracciato nel suo sacro centro i morti”. L’arcobaleno del titolo è la rappresentazione della necessità di scendere. Tra gli scrittori che hanno influenzato Thomas Pynchon ricordo William Burroughs, riconosciuto ormai come uno dei pilastri della metanarrativa con i misteriosi, potentissimi, gruppi di potere inaccessibili all’uomo presenti nei suoi romanzi. Come ogni buon libro che si rispetti, anche L’arcobaleno della gravità è stato considerato “osceno e illeggibile”: se tre giurati l’avevano proposto per il Premio Pulitzer, gli altri si sono rifiutati di assegnargli l’ambito riconoscimento, forse più per incomprensione che per un giudizio sereno. Ma i complotti extraterrestri, lo humour nero e la denuncia apocalittica della decadenza del mondo hanno reso L’arcobaleno della gravità un libro adorato da due generazioni di giovani.


Toni Morrison Amatissima

Con Alice Walker, autrice de Il colore viola (The Color Purple), Toni Morrison è considerata uno dei massimi rappresentanti della narrativa nera degli ultimi cinquant’anni. Toni Morrison è nata nell’Ohio, seconda di quattro figli, in piena Depressione. Dopo il liceo ha studiato all’Università nera di Howard a Washington, dove è stata compagna di scuola di LeRoi Jones e di Andrew Young, e dove è ritornata, a insegnare, nel 1957, dopo un master alla Cornell University. Fra i suoi studenti c’era il futuro leader del Black Power, Stokely Carmichael. Ha sposato un architetto, ha avuto due figli, ha divorziato subito e presto è andata a lavorare nella casa editrice Random House, la stessa che ha pubblicato William Faulkner: qui ha fatto l’editing dell’autobiografia di Angela Davis e curato l’antologia Il libro nero (The Black Book), che copre trecento anni di vita afroamericana. Nel corso delle ricerche per questo libro Toni Morrison ha trovato il documento della storia vera di Margaret Garner, una schiava nera che nel gennaio 1856 è fuggita dal Kentucky con il marito e i figli e ha raggiunto a piedi Cincinnati nell’Ohio, uno Stato libero dalla schiavitù. Ma, quattro settimane dopo, il proprietario è andato a riprenderla: a quei tempi, secondo la Legge dello schiavo fuggiasco, il proprietario aveva questo diritto. La donna, per salvarli da un destino tremendo, ha cercato di uccidere tutti i figli, ma è riuscita a ucciderne soltanto una. Attorno a questo caso era nata una grande controversia. Margaret Garner si è difesa dicendo che non voleva che sua figlia vivesse come una schiava. Da questa storia realmente accaduta Toni Morrison ha ricavato Amatissima (Beloved), il suo quinto romanzo, pubblicato nel 1987 e vincitore del Premio Pulitzer. L’idea centrale di Amatissima è soprannaturale: il personaggio principale è un fantasma, quello della figlia morta di Margaret, pieno di desiderio per la vita e per l’amore. Una reincarnazione in stile africano, ma anche una memoria. Nei suoi libri, la Morrison ama affrontare i problemi della vita e della morte, occuparsi più degli esseri umani che della forma. La trama dei suoi libri, i suoi personaggi nascono soprattutto dallo sforzo di creare un racconto in cui porre dei problemi filosofici facendoli vivere nella narrazione senza scrivere della saggistica. Anche se spesso le sue storie cadono in un “gotico” sensazionalistico da scrittrice del Sud, Toni Morrison chiama i suoi romanzi “letteratura da villaggio”, “letteratura contadina” perché ritraggono un mondo esotico e fantastico radicato nella sua infanzia, in cui anche la vita nera quotidiana in piccole città medio-occidentali viene ravvivata dal folklore, la magia, la superstizione, la favola, la poesia, la canzone, il mito; un mondo in cui i personaggi strani derivano il loro soprannome dalla Bibbia e si rivelano in dialoghi bizzarri e spesso umoristici. Forse il romanzo in cui la sua ricerca sul linguaggio afroamericano è più esplicita è Canto di Salomone (Song of Solomon) del 1977. È stato suo nonno, nato schiavo nel 1856, a raccontarle la storia centrale di questo romanzo. Ma, come lei stessa ha detto: “Nessun ex schiavo parlava della schiavitù: l’argomento è stato trattato in musica e folklore, ma è stato difficile trovare informazioni tra le menzogne dei bianchi e il silenzio dei neri. I neri avevano anche paura delle rappresaglie dei loro ex padroni ancora in vita”. Un aiuto fondamentale per perfezionare il suo linguaggio è arrivato da James Baldwin, i cui saggi la Morrison considera profetici. È stata grande amica di Angela Davis, ma non andava alle dimostrazioni di strada. Ha sempre preferito aprire le porte agli scrittori neri nelle case editrici e nelle scuole fino ad arrivare a tenere a Yale il primo corso sulle scrittrici nere, nel 1975. Si infuria quando nelle recensioni i critici mescolano gli autori non in base alle caratteristiche letterarie ma in base al colore della pelle. Ma si infuria spesso anche con la borghesia nera, che, nonostante i molti sviluppi, spesso presenta ancora se stessa come “i poveri d’America”.


Sherman Alexie Reservation Blues

Negli anni Novanta era considerato lo scrittore indianoamericano del futuro e certo tale da entrare nella rosa dei loro classici (N. Scott Momaday, Leslie Silko, James Welch). È appassionato giocatore di pallacanestro. Questo sport, con l’alcol e la sterilizzazione abusiva (che è stata praticata a due zie dell’autore), è un’ossessione ricorrente negli scritti di Alexie. A parlarne così pare che per l’autore il genocidio che ha distrutto la sua antichissima civiltà non lo riguardi. Sherman Alexie fa parte della tribù Spokane-Coeur d’Alène ed è cresciuto a Wellpinit, Washington, nella riserva Spokane. Anche lui è stato “scoperto” da Jay McInerney che l’ha presentato come “promessa” degli anni Novanta. Il suo romanzo Reservation Blues, del 1995, è una picaresca storia agrodolce inventata però cosparsa di lievi annotazioni autobiografiche, intrisa non tanto di leggende classiche quanto della fiducia nella magia, che ha tanta parte nella letteratura e nella fantasia indiane; il libro è un racconto lirico con echi magici ma anche realistici, pieno di incantesimi ma esatto nel descrivere la vita indiana moderna. In una sonnolenta riserva arriva uno straniero (il leggendario cantante di blues Robert Johnson, assassinato nella realtà il 16 agosto 1938 e resuscitato in questa favola con la sua chitarra) che racconta di aver venduto l’anima al Gentiluomo (cioè al Diavolo), il quale “penetra nelle corde” della chitarra. Lo straniero sta cercando una vecchia che vive su una collina, l’unica in grado di scioglierlo dal suo patto, e il protagonista del libro, Thomas, lo accompagna ai piedi della collina dove vive la Magica Grande Mamma (“Quella è mia nonna” ha detto Alexie ridendo). Lo straniero comincia a scalare di corsa la collina abbandonando la chitarra. Thomas si accorge che la chitarra suona da sola e sa parlare come un essere umano; decide, quindi, di fondare un gruppo di blues con due amici e lo chiama Coyote Springs. Il gruppo comincia a girare nei club e nei bar e ha molto successo. Non è certo nella trama che il libro rivela le sue straordinarie qualità, ma nelle irresistibili azioni magiche narrate con toni realistici e inframmezzate da immagini comiche e descrizioni liriche. È un romanzo tecnicamente interessante, dove l’assurdo viene sfumato nella realtà di “quelle case governative costruite dal Dipartimento di edilizia”: la casa dove vive il protagonista, infatti, non è mai stata finita e le condutture dell’acqua gelano ogni inverno (da bambino Thomas dormiva nello scantinato non finito, con una coperta a far da parete e una da letto). Nel parlare delle tradizioni e delle speranze indiane o nell’alludere alla disperazione dei superstiti quando le mette a confronto con la doppiezza dei bianchi, lo humour o il sarcasmo dello scrittore diventano particolarmente taglienti; proprio come nella raccolta di ventidue racconti Lone Ranger fa a pugni in paradiso (The Lone Ranger and Tonto Fistfight in Heaven) in cui si muovono gli stessi personaggi di Reservation Blues, dove tutti i giovani sognano di fuggire dalla povertà e l’umiliazione, la disperazione, della riserva. In entrambi i libri l’unico valore morale superstite è il perdono, raggiunto attraverso la capacità di giudicare e, insieme, di amare.


Bret Easton Ellis American Psycho

Il romanzo è la storia di Patrick Bateman, un ricco narcisista ventiseienne di Wall Street che divide la sua vita tra l’esistenza corrotta e inconsistente dei molto ricchi newyorkesi e la torbida attività malata che lo conduce ad assassinare prostitute, vagabondi, bambini e amici dopo averli torturati con coltelli, sparachiodi, trapani e accette. Queste azioni sono perciò presentate come la conseguenza della amoralità in cui vivono questi gruppi privilegiati, con le loro droghe, la loro permissività sessuale, la loro totale demotivazione morale. Il libro era stato accettato dalla Simon & Schuster, editrice dei due romanzi precedenti di Bret Easton Ellis, e copie staffetta erano state fatte circolare fra i critici; uno di questi, R.Z. Sheppard, aveva attaccato selvaggiamente il libro sul “Time”, al punto che il proprietario della casa editrice, Martin Davis, aveva chiesto di leggerlo e poi aveva proibito a Richard E. Snyder, presidente della Simon & Schuster, di pubblicarlo. Ai party letterari non si parlava d’altro, l’agente di Ellis, Amanda Binky Urban, mobilitava tutti per assicurarsi un nuovo editore, l’influentissima Anna Quindlen scriveva un editoriale sul “New York Times” che confermava la condanna dell’opinione corrente e considerava vigliacco il repentino voltafaccia della casa editrice. Mentre la Urban trovava due editori alternativi, il PEN Club, la più antica associazione internazionale di scrittori e letterati, assicurava il suo interessamento al piano di un’azione anticensura. Ellis, colto di sorpresa da tutto quel clamore, diceva: “Bateman rappresenta tutto ciò che ho detestato nel decennio degli anni Ottanta, l’avidità economica, il consumismo smodato, la superficialità, il narcisismo, la violenza, l’egoismo classista, il disprezzo per gli emarginati. Di queste cose il protagonista è emblematico e se a qualcuno il romanzo non piace è perché non gli piace il decennio di Ronald Reagan, questi anni Ottanta coi loro yuppie, il loro cinismo, l’amoralità”. Bateman è una caricatura. I suoi delitti restano assurdamente impuniti, la sua confusione psicologica arriva al punto da fargli risultare viva una delle vittime uccise; l’unico detective che lo avvicina (ed è la sola scena realistica, narrata con grande maestria fuori dalla caricatura) lo interroga senza sospetti, nonostante i suoi tentativi di confessione. In fondo sono una caricatura anche le fantasie orrorifiche prive di qualsiasi logica che riempiono soltanto quaranta delle quattrocento pagine del libro descrivendo le uccisioni e le torture di diciotto persone da parte di uno psicopatico mezzo impotente. Come già in Meno di zero (Less than Zero), Bret Easton Ellis svolge le sue tesi di moralista denunciando una classe dirigente che, come ha detto Norman Mailer su “Vanity Fair”, rappresenta il peggio della società, in contrapposizione a quello che avviene ne Il falò delle vanità di Tom Wolfe in cui si presenta il peggio della gente al fondo della scala sociale. L’unico sollievo in questa denuncia dell’oltraggio recato dal materialismo economico alla natura umana viene dall’innocenza della segretaria dello psicopatico, una ragazza innamorata che lavora senza ambizioni economiche e riesce a far sognare a Bateman di “correre nel Central Park in un fresco pomeriggio di primavera ridendo, tenendola per mano”. Fuori da questo spiraglio di normalità il protagonista si chiede, davanti a una sfilata dell’orgoglio gay, come un essere umano possa essere orgoglioso di sodomizzare un altro uomo, si dispera che a nessuno importi niente di niente, aspetta che qualcosa succeda, piange, grida singhiozzando: “Voglio soltanto essere amato” e legge i fatti di cronaca, quelli veri, non inventati, che avvengono nella città di tutti i giorni; la studentessa stuprata e assassinata in pieno centro vicino al suo college, l’uomo che ha dato fuoco alla figlia mentre partoriva, la donna in pelliccia di visone con la faccia sfigurata da un attivista infuriato davanti a un albergo di lusso. Mentre scriveva il romanzo Bret Easton Ellis non ha letto i bestseller orroristici che invadevano tutte le librerie, pubblicati senza risentimento dei critici per il fatto che non avevano intenzioni di denuncia sociale. Piuttosto ha fatto ricerche sui testi di criminologia per studiare il comportamento di assassini simili a Bateman e ha letto i giornali che parlavano di modelle strangolate, neonati gettati giù dal tetto, bambini uccisi nella metropolitana, boss della mafia, giocatori di baseball malati di AIDS, gente senza tetto, maniaci, omosessuali che cadevano come mosche nelle strade, ragazzi che allo zoo torturavano e bruciavano animali vivi, bambini venduti, bambini con l’AIDS, bambini drogati. Bret Easton Ellis diceva: “Le scene di violenza contro le quali alcuni hanno reagito sono basate sulla realtà, sui fatti accaduti. Sono scene disgustose, rivoltanti; ma sono aderenti a questo psicopatico”. Ancora una volta aveva ragione Henry Miller: “La realtà è molto più incredibile dell’invenzione”.


Nathaniel Hawthorne Il fauno di marmo

Nathaniel Hawthorne appartiene alla cosiddetta età aurea della letteratura americana. Verso la metà dell’Ottocento era molto di moda per gli intellettuali compiere un viaggio in Italia (a Roma o a Firenze), e anche Hawthorne lo ha fatto. Il mito del bel sole italiano era al suo apogeo e gli artisti accorrevano a frotte, un po’ per guarire dalla tubercolosi (malattia in voga a quei tempi pressappoco come adesso è in voga la depressione), un po’ per ammirare le nostre celebri opere d’arte. Poi scrivevano diari e lettere, che invariabilmente rigurgitavano di dispetto perché in realtà appena arrivavano in Italia si buscavano dei gran raffreddori e i primi giorni di permanenza dovevano trascorrerli a letto. Appena giunto a Roma, Hawthorne ha passato una settimana a lamentarsi della pioggia e del freddo in uno di quei palazzi romani che cercavano di supplire con il fasto alla totale mancanza di riscaldamento. Era il 1858. Il suo romanzo La lettera scarlatta (The Scarlet Letter) lo aveva reso improvvisamente famoso otto anni prima, quando in dieci giorni se ne erano vendute duemila copie a un ritmo che non è diminuito granché l’anno successivo, quel 1851 che ha assistito al disastro di Melville e del suo Moby Dick. Da quello che ha riportato nel suo diario, appena guarito dal raffreddore, la moglie lo ha trascinato a visitare opere d’arte e monumenti; forse non si divertiva; forse la seguiva solo per poter dire come per l’incontro col papa: “Sono lieto di averlo visto, perché adesso lo posso cancellare dalle cose da vedere”. Il grande scrittore era molto più contento di ritrovarsi coi connazionali, di parlare inglese con loro e sfogare le sue antipatie in un ambiente comprensivo. Una volta a Firenze il bel tempo gli aveva un po’ smussato il malumore e lo aveva condotto a descrivere benevolmente il suo nuovo alloggio in via dei Serragli. Nel suo studio sul terrazzo, che naturalmente era la più bella stanza della casa, Hawthorne ha cominciato a scrivere Il fauno di marmo (The Marble Faun), il discusso romanzo di ambiente romano ispirato dal fauno di Prassitele (che la moglie lo aveva costretto a guardare in una delle spedizioni artistiche nelle gallerie di Roma) e dai pittori che andava a trovare per riposarsi dallo spettacolo dei capolavori. È la storia di Donatello, un giovane somigliante al Fauno di Prassitele che, in preda al furore, uccide un rivale in amore. Da questo dramma inizierà un lungo e doloroso percorso di liberazione dalla violenza, sullo sfondo di un’Italia presentata come una terra di luoghi incantevoli. Hawthorne si distraeva dal lavoro soltanto per andare a casa Guidi a far visita a Elizabeth Browning, ospite di Firenze da tanti anni; e una più movimentata distrazione l’aveva trovata nel trasloco fatto con la famiglia in una casa più fresca quando il caldo dell’estate era diventato altrettanto fastidioso del freddo invernale. Si spostarono nella villa Montauto a Bellosguardo, e presto Hawthorne ha scritto nel suo diario: “La mia nuova residenza mi piace immensamente. La villa è su un poggio che guarda Firenze ed è grande abbastanza da alloggiarvi un reggimento, visto che per ogni membro della famiglia, compresi i servitori, c’è un appartamento separato, oltre a una distesa di stanze al piano superiore, dove non abbiamo ancora compiuto esplorazioni. Da un lato della casa c’è una torre coperta di muschio, abitata da gufi e dallo spettro di un frate che vi fu imprigionato nel XIII secolo e poi arso su un rogo nella piazza principale di Firenze. Pago ventotto dollari d’affitto al mese, ma ho intenzione di portarmela via e metterla in un romanzo che sto scrivendo”. Ha mantenuto la promessa: la villa è il castello di Monte Beni, ne Il fauno di marmo. La colonia inglese di Bellosguardo gli ha tenuto compagnia in quei giorni rendendogli sopportabile la vita in Italia. Dalla quale Hawthorne è partito, dopo qualche mese, senza spostare di una virgola i preconcetti che aveva quando vi era arrivato e senza fare il minimo sforzo per conoscerla. Per tutta l’annata che ha trascorso fra noi ha ignorato totalmente la vita italiana, scorgendone soltanto gli aspetti che gli riuscivano indisponenti: come per esempio la cordialità degli italiani. Ha scritto nel suo diario: “I fiorentini si permettono familiarità che secondo loro non sono scortesie e vanno prese in buona parte”. La familiarità alla quale allude lo ha scandalizzato una volta che sua figlia si era messa a dipingere nel giardino di Boboli e si era vista ben presto circondata da un pubblico di spettatori di ogni età. L’unico italiano che Hawthorne ha notato nella sua annata di permanenza nel nostro Paese è stato un vetturino. Si chiamava Costantino, detto l’imperatore, e aveva accompagnato la numerosa famiglia nel viaggio di ritorno da Siena a Roma. Il diario non dice quanti dollari si è fatto pagare, ma certo ben pochi per suscitare tanto entusiasmo.


Richard Wright Ragazzo negro

È stato solo negli anni Quaranta, grazie a William Faulkner ed Erskine Caldwell, che in America il pubblico bianco ha accolto il problema dei neri: Richard Wright, discendente di schiavi nato in Mississippi nel 1908, ne ha in un certo senso approfittato per imporre i suoi romanzi di violenta denuncia. L’importanza di Richard Wright, ritenuto da Cesare Pavese “forse la prima voce negra giunta dall’America liberata finalmente da ogni esotica compiacenza coloristica”, consiste soprattutto nel suo programma di considerare gli afroamericani non in senso coloniale, ma come elementi di una marcia di riscatto sociale. È la sua posizione di rivolta a imporlo all’attenzione del mondo letterario. Ma credo che la sua forza sia nata dalla passione che lo ha trascinato a partecipare con angoscia tormentata ai gesti dei suoi personaggi. In Ragazzo negro, uscito nel 1945, Richard Wright parla di rabbia, di tanta rabbia, di tutta la possibile rabbia a cui un ragazzo discendente di schiavi come lui deve aggrapparsi per vivere in un mondo dove i bianchi non sono cattivi, ma sono i padroni. Questo romanzo, definito da Pavese “uno di quei libri che temprano le coscienze e da cui può nascere irresistibile l’azione”, è il racconto autobiografico dell’infanzia di un uomo, l’autore, che, una volta cresciuto, per sbarcare il lunario ha fatto il lavapiatti, lo spazzino, lo spalatore, l’assicuratore, l’impiegato postale, il redattore di guide e il giornalista in perpetua caccia di notizie; sempre col sogno che si portava dietro da quando ha visto la prima pagina stampata: diventare uno scrittore. Lo è diventato, e Gertrude Stein l’ha annoverato tra gli americani più importanti di quegli anni. A Chicago è stato considerato il caposcuola di un gruppo di scrittori afroamericani, da Chester B. Himes autore di E se grida, lascialo andare (If He Hollers Let Him Go) a Gwendolyn Brooks, autrice di A Street in Bronzeville. Nel 1936 Richard Wright ha pubblicato il primo racconto su “The New Caravan”, il celebre Big Boy Leaves Home. Nel 1938 è uscito I figli dello zio Tom (Uncle Tom’s Children ), raccolta di racconti che gli ha fatto vincere il Premio Story Magazine. Nel 1939 gli è stato assegnato il Guggenheim Fellowship per il racconto Fire and Cloud. Nel 1940 è uscito Paura (Native Son), scelto dal Club del libro del mese. Nel 1941 ha vinto la medaglia Spingarn e Broadway ha applaudito la riduzione teatrale diretta da Orson Welles di Paura, che Wright ha dovuto firmare insieme al molto celebre e soprattutto molto bianco Paul Green, perché Broadway era vietato ai neri. Nel 1942 è uscito Twelve Million Black Voices: A Folk History of the Negro, un volume fotografico sulla vita dei neri d’America contenente un suo testo. Di tutti i suoi libri mi piace ricordare la straordinaria scaltrezza compositiva, specialmente nei dialoghi. Ma anche quando era ormai diventato un leader dei nuclei letterari, la stampa si divertiva a parlare del “povero negro” lavapiatti del Sud. “Guardali, come sono contenti” mi ha bisbigliato con quella sua perfetta dizione di attore un giorno a un congresso con quello sguardo duro che gli veniva davanti ai razzisti, indicandomi con un gesto impercettibile delle spalle i giornalisti che gli sorridevano con bonaria superiorità. Attore lo era stato davvero nel 1950, quando, ormai quarantenne, ha recitato la parte del ventenne Bigger Thomas in una versione argentina del suo Paura. Molti lo hanno attaccato dicendo che la sua faccia era troppo vecchia per rappresentare un ragazzo. La storia era basata sulla vicenda reale di un certo Robert Nixon, un ragazzo nero che nel 1938 era stato giustiziato a Chicago per aver assassinato una ragazza bianca: Wright l’aveva svolta indicando nella repressione razziale la vera causa dell’assassinio. La sua teoria è antica: l’uomo è trascinato alla colpa dall’ambiente, dal caso e soprattutto dal suo conflitto interiore di forze contrastanti, odio e amore in testa. Richard Wright amava raccontare storie di uomini che uccidevano senza voler uccidere e poi non sapevano dove mettere il cadavere (“è sempre quello il trouble” mi diceva con voce improvvisamente rauca e quel qualcosa che gli veniva ogni tanto negli occhi); o di uomini che uccidevano perché non erano stati condannati per un primo delitto, fatto che ne esigeva un secondo. Nonostante il suo flirt con il cinema, Richard Wright non è mai stato il pronipote dei neri del cinematografo, quelli coi calzoni rattoppati che la sera si riuniscono per raccontarsi storie strane o per cantare canzoni strane; era, se mai, il pronipote di due tra gli schiavi più rivoluzionari e ribelli, due uomini di cui non dovremmo mai dimenticare il nome: il caparbio Dred Scott e l’accorto Denmark Vesey.


Francis Scott Fitzgerald Racconti dell’età del jazz

Francis Scott Fitzgerald ha creato il costume di quegli anni Venti. E siccome il revival dell’età del jazz non ha mai accennato a smorzarsi, è chiaro che non ha mai accennato a smorzarsi neanche l’interesse per il narratore più tipico di quei tempi. Non è che Fitzgerald fosse semplicemente uno scrittore di costume, ma mi propongo di chiarire proprio il “costume” del quale egli era stato re se non creatore, e l’ambiente che lo aveva spinto nella direzione da lui seguita. Quel decennio del primo dopoguerra americano Fitzgerald lo aveva vissuto fin dal principio e fino in fondo, nella parabola completa di miseria, successo e rovina fin troppo nota a tanti americani del tempo. È il decennio che va dall’armistizio della Prima guerra mondiale alla Grande crisi; il decennio del dopoguerra col proibizionismo e il suffragio femminile, col dilagare dell’automobile e della radio, con la grande “paura rossa” e il boom capitalistico, con l’americanismo a oltranza e il ripudio delle tradizioni letterarie: il decennio di tutte le proteste e tutte le rivolte, delle utopie più ottimistiche e delle delusioni più spietate. Eppure, nonostante i filoni siano così numerosi, è facile individuare un punto di partenza, un piano comune che li caratterizza tutti. Era quello un periodo nel quale tutti i gesti, anche quelli che nella prospettiva storica sembrano ormai insignificanti, assumevano un carattere di protesta, di sfida. Una donna non poteva tagliarsi i capelli, mettersi le calze color carne, accorciarsi le gonne senza che la società prendesse questi fatti come simboli di ribellione quando non di anarchismo; e questo pare tanto più strano quando si pensa alle vere ribellioni o al vero anarchismo che ha tormentato l’America nel dopoguerra. Non che il fenomeno fosse tipicamente americano. Le nostre mamme ci raccontavano ancora, e ancora con nervosismo, dei giorni che in Italia si gettavano i mobili giù dalle finestre o si strisciava sotto le saracinesche buttando avanti i bambini, o si sputava addosso agli ufficiali, o le guardie a cavallo disperdevano gli assembramenti senza sparare. Ma anche se non è stato tipico, il fenomeno ha preso in America una piega tipica; che infatti ha condotto gli Stati Uniti a un sistema economico che è rimasto caratteristico. Dire da dove il fenomeno è incominciato sarebbe partire da troppo lontano, ma non bisogna dimenticare che il popolo sul quale hanno fatto presa da un lato le attività dinamitarde e dall’altro le iniziative più o meno nazionalistiche di difesa del capitale era un popolo abituato alle grandi parole e ai grandi programmi delle riforme. E gli americani erano ben addestrati dal governo di Theodore Roosevelt e ben assuefatti ai tempi nei quali per essere un eroe bisognava essere un riformatore: i tempi delle grandi campagne che abbracciavano tutto, dalla sobrietà alla pace, dal suffragio femminile ai diritti dei bambini. Gli americani erano travolti dall’ottimismo, illusi veramente che la profezia di Walt Whitman potesse avverarsi. È stato su queste basi che Thomas Woodrow Wilson ha poggiato il suo sogno. I suoi otto anni di governo (1913-1921), che sono gli otto anni della Nuova Libertà, sono stati l’ultima tensione alla quale è stato sottoposto il popolo, l’ultima fatica per inseguire l’utopia umanitaria che nel 1917 è divenuta l’utopia di una democrazia universale. Quando il popolo è uscito, ancora una volta deluso, da questa nuova tensione e da questa fatica, è stato come se facesse la somma di tutte le delusioni raccolte in tanti anni; e si è ribellato. Coloro che hanno continuato a sognare, hanno sognato un’America sobria, senza tentazioni e senza vizi, un’America uguale per tutti, dove tutti potessero votare; ed è stato nel sogno del benessere per tutti, il più immane di tutti i sogni americani, che i capitalisti si sono allineati nella difesa dei prezzi opponendosi nello stesso tempo alla nazionalizzazione e alle rivendicazioni salariali. Quei capitalisti hanno aperto così la via al sistema della grande produzione e del grande consumo, che nel boom derivatone attraverso le successive trasformazioni è stata la caratteristica fondamentale di quel decennio. Tutti insieme gli undici racconti di questa raccolta creano il ritratto satirico, denunciatario e simbolico di quegli anni.


Nick McDonell Twelve

A scoprire e a lanciare Nick McDonell è stato Morgan Entrekin, lo stesso editore americano che a suo tempo ha scoperto Bret Easton Ellis, mentre studiava all’università. Lo ha scoperto frequentando i suoi genitori, il ricchissimo e molto influente Terry McDonell, direttore di riviste famose, come “Rolling Stone” per esempio, e la madre Joanie, scrittrice e sceneggiatrice: è stato lui a incoraggiare il ragazzo e con lui l’hanno incoraggiato gli esponenti di una certa narrativa americana, Joan Didion con le sue storie sofisticate e Hunter S. Thompson con i suoi racconti di trasgressioni e fantasia. Così Nick McDonell ha visto approvare Twelve, un romanzo scritto a diciassette anni (tradotto in Italia da un altro diciassettenne, Vincenzo Latronico), entrando nella storia dei cantori di adolescenti con le loro problematiche e i loro errori, le loro disperazioni e la loro paura di sognare l’irrealizzabile: e il suo nome è stato avvicinato ad altri cantori dell’adolescenza ormai classici, come Jerome David Salinger e il suo Il giovane Holden del 1951, come Jim Carroll con i suoi Diari di pallacanestro del 1978 e soprattutto come Bret Easton Ellis, ormai eroe della grande narrativa giovanile americana con il suo Meno di zero del 1985. Sono cambiati i costumi, ma non le angosce dei giovani e Nick McDonell, che vive a Manhattan, le ha narrate con orecchio acutissimo per il suo e loro linguaggio, con occhio lucido e penetrante verso i loro errori, con sensibilità patetica per il mondo spiritualmente desolato che circonda a volte i figli privilegiati del benessere di certa America. Il dramma raccontato in Twelve con scaltrezza da vecchio professionista è quello del protagonista White Mike (per dire che non è negro) che, senza essere drogato, tra il liceo e l’università diventa spacciatore di una droga immaginaria il cui nome dà il titolo al libro: è un ruolo che lo aiuta ad aumentare il senso di distacco dagli altri. Il distacco gli è nato frequentando compagni che la droga la consumano, che disprezzano la scuola, hanno genitori distratti e si ritrovano nei guai con la giustizia perché per vincere la noia giocano con le rivoltelle vere come se fossero finte. Nick McDonell racconta le loro storie a volte noir, spesso al limite della satira (in un’intervista ha spiegato: “I personaggi sono stereotipi e caricature di se stessi”). La sua situazione privilegiata ha suscitato com’era inevitabile la domanda se avrebbe scritto questo libro se non fosse nato in una famiglia “giusta” con le amicizie “giuste”; e il primo a non sorprendersi di questa domanda è Nick McDonell stesso, che in un’intervista ha detto: “Mi sento come se avessi avuto qualcosa alle spese di brillanti scrittori che fanno la fame in giro per il mondo... Ma c’è qualcosa che mi ha fatto scrivere il libro, che mi ha fatto rinunciare all’estate e mi ha fatto alzare tutte le mattine alle otto e stare al tavolo senza muovermi fino alle quattro. Mi sentivo un ragazzo ricco e ridicolo e l’unico modo di difendermi era di farlo bello, capisci, di sudarci sopra”. Il suo modo di “farlo bello” è stato di immaginare una storia che si svolge in cinque giorni, gli ultimi di un dicembre, ogni giorno un capitolo, tutti brevissimi, alternati a corsivi (a volte di poche righe) come flashback, in un linguaggio indiavolato misto con slang negro e una narrazione velocissima. Ma, ha detto il giovane autore, non ha fatto un romanzo autobiografico: i ragazzi del suo ritratto non sono suoi amici e non sempre gli piacciono, tanto che nell’ultima scena li ha uccisi tutti. È una storia che a volte è troppo noir, come nel finale, ma è scritta con viscerale autenticità e freddezza.


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