Giorgio Perlasca

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GIORGIO PERLASCA, ‘GIUSTO TRA LE NAZIONI’ E ‘EROE ITALIANO’ Monica Jansen (Universiteit Utrecht; Universiteit Antwerpen)

Giorgio Perlasca, fingendosi console di Spagna, nell’inverno del 1944 a Budapest salvò più di 5000 ebrei ungheresi dallo sterminio. Proclamato nel 1989 a Yad Vashem un “Giusto tra le Nazioni”, venne onorato con un albero piantato accanto a quelli di Wiesenthal e di Wallenberg. Il suo caso straordinario risponde infatti a tutti i criteri stipulati dal “Dipartimento dei Giusti” di Yad Vashem a Gerusalemme, fra i quali quello più importante è di aver messo in pericolo la propria vita per risparmiare quella degli ebrei perseguitati. Come infatti precisa Mordecai Paldiel, il direttore del Museo: “il criterio fondamentale per il conferimento del titolo di ‘Giusto’ è il rischio della vita del salvatore” (Paldiel in Arslan et al. 2001, 42). La sua storia, ignorata per 45 anni perfino dai famigliari, è stata “scoperta” nel 1987 ad opera di un gruppo di donne ebree ungheresi e di una coppia di salvati che in viaggio in Italia lo venne a visitare. Dopo che le donne avevano fatto pubblicare un annuncio su un giornale ungherese – altro criterio per il titolo di “Giusto tra le Nazioni” è di essere stato individuato da testimoni coinvolti direttamente (Paldiel 2001, 51) – diversi sopravvissuti hanno reagito e la pratica si è messa in moto. Giusto in tempo, perché nel 1992 Perlasca è morto e sepolto con sulla lapide un’unica frase da lui stesso commissionata: “Giusto tra le Nazioni” in ebraico. In Italia sono stati il documentario per conto di MIXER, “Omaggio a Giorgio Perlasca”, messo in onda il 30 aprile 1990 e seguito da 4 milioni di spettatori, e il libro del giornalista Enrico Deaglio, La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca del 1991, ad averlo reso conosciuto come ‘giusto’, riconoscimento confermato con la pubblicazione postuma nel 1997 del diario di Perlasca con l’emblematico titolo L’impostore. Il riconoscimento mondiale ha preceduto quello nazionale. Sul sito dedicato a Perlasca, gestito dalla Rai e dalla Fondazione Perlasca istituita dal figlio Franco nel 2002,1 tra le onorificenze compare prima di tutto la Medaglia d’Oro al Valor Civile, conferitagli postuma nel 1992. In verità questa è stata preceduta da una lunga serie di riconoscimenti internazionali, a Gerusalemme, in Ungheria, in Spagna, negli Stati Uniti, e regionali (il sigillo della Città di Padova nel 1989). Per contro, la negligenza da parte dello Stato italiano era per Perlasca ragione di afflizione, come viene ricordato da Deaglio che lo accompagnò nel 1990 dal Presidente Cossiga dopo la trasmissione del programma televisivo MIXER: Uscendo Perlasca disse che aveva paura gli offrissero una croce da cavaliere. ‘Sa come diceva Vittorio Emanuele II? Un sigaro e una croce da cavaliere non si negano a nessuno’. Invece, finora non gliel’hanno offerto. Né la croce di cavaliere, né altro. E questa è una dimenticanza

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che per Perlasca è un cruccio, oltreché un fatto di cui non riesce a capacitarsi. (Deaglio 2003, 23).

Dopo essere stato premiato in primo luogo come “uomo” (il presidente Cossiga lo ringrazia “come uomo e come italiano”), Perlasca diventa un “eroe” con il film televisivo a due puntate PERLASCA, UN EROE ITALIANO del regista Alberto Negrin seguito da più di 13 milioni di spettatori,2 trasmesso il 28 e 29 gennaio 2002 in coincidenza con il Giorno della Memoria, istituito dal Parlamento italiano nel 2000 per ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.3

La sceneggiatura di Sandro Petraglia e Stefano Rulli, che si sono avvalsi dei consigli del figlio di Giorgio Perlasca, è basata sul libro di Enrico Deaglio e sulle memorie dello stesso Perlasca. È possibile quindi considerarla, come fa Millicent Marcus in un’eccellente analisi del film televisivo, come la “versione culminante” della storia dell’eroe che la consoliderà nella memoria collettiva italiana (Marcus 2007, 126). L’“eroe italiano” viene interpretato da Luca Zingaretti, che lascia per l’occasione i panni del commissario Montalbano, trasfigurazione non passata inosservata come testimoniano le recensioni e interviste riprodotte sul sito curato dal fans club del giallista.4 Marcus, basandosi su quanto ha detto l’attore in un’intervista, dimostra inoltre che la sovrapposizione dei due ruoli serve allo scopo di fare di Perlasca un eroe libero da vincoli ideologici coerente con la sua innata ‘italianità’ (2007, 127). Il film costituisce in altre parole l’apoteosi conclusiva dell’eroe italiano, tanto che la colonna sonora con toni epici composta da Ennio Morricone risuona anche nell’apertura del sito dedicato a Perlasca. Il “falso console spagnolo” che agisce soltanto per motivazioni umanitarie – è emblematica la sua dichiarazione “Lei, che cosa avrebbe fatto al mio posto?” – conferma l’idea che gli italiani hanno di sé, “‘brava gente’, umani di una umanità […] che viene dalle viscere” (Deaglio 2003, 14). Tuttavia per la sua grandezza il caso “unico e clamoroso” di Perlasca trascende tale stereotipo nazionale, lasciando dietro di sé la goffagine bonaria di Sordi e Gassman nella GRANDE GUERRA (Deaglio 2003, 15) per associarsi all’illustre esempio di Schindler da lui persino superato nella quantità di ebrei salvati.5 Possiamo concludere che Perlasca nel 2002 è diventato parte incontestabile della memoria collettiva italiana dei “giusti” delle due guerre del ventesimo secolo? L’eccezione del suo caso potrebbe anche diventare una negazione del mito nazionale. Marcus ricorda nel suo saggio come a insinuare il dubbio sia una domanda posta da Deaglio: “Perché solo lui lo fece?” La singolarità dell’esempio di Perlasca potrebbe anche essere, secondo la studiosa, la conseguenza della dimensione post-ideologica dopo il 1989 che ha reso possibile narrarlo, questione aperta con la quale si conclude il saggio (Marcus 2007, 137). Partendo dal presupposto che la memoria collettiva è una 155


costruzione sociale (Rigney 2005), vogliamo chiederci quali quadri mediali costruiscono la figura di Perlasca come “giusto” con caratteristiche universali condivisibili, e quali invece lo qualificano piuttosto come un eroe specificamente “italiano”. DA EROE SCOMODO A EROE ITALIANO Cominciando dalla seconda parte della domanda, bisogna notare che Perlasca viene anche chiamato in vari documenti di ricezione un “eroe scomodo”, essendo stato fascista convinto senza mai diventare antifascista. Questo fatto viene diversamente interpretato nei vari media che insieme costruiscono la sua memoria culturale.6 Nel libro di Deaglio,7 che con la sua intenzione di documentare il caso sembra essere quello più didattico, tanto che ne è stata fatta anche una versione speciale per l’insegnamento nelle scuole, si afferma che fu un ardito fascista dannunziano espulso da scuola per la sua difesa dell’impresa di Fiume. La sua partenza come volontario nelle guerre in Abissinia e in Spagna viene interpretata nella stessa luce di un vitalismo giovanile, un attivismo “depoliticizzato” completamente coerente con il suo comportamento dopo l’8 settembre come “salvatore” degli ebrei a Budapest. Anche il figlio contestualizza storicamente le scelte politiche del padre. Lo ricorda soprattutto come un uomo “coerente” con la sua indole, che decise di essere fascista e nazionalista “come il 99% degli italiani dell’epoca” (Franco Perlasca in Arslan et al. 2001, 119), un “uomo qualunque” quindi che rimase fedele a un’etica di destra per tutta la vita. Giorgio Perlasca stesso, quando viene interpellato sull’argomento, afferma di esser stato convinto allora di dover combattere il “lago” del comunismo. Le leggi razziali e il patto di Mussolini con la Germania non facevano parte della sua visione del fascismo e sono stati gli elementi che lo hanno portato dopo l’8 settembre a essere fedele al Re ma non alla Repubblica di Salò, scelta per cui divenne un ricercato a Budapest. Nello sceneggiato televisivo del regista Negrin l’attivismo fascista di Perlasca, attraverso una simultaneità di azioni, viene combinato con l’attivismo in servizio dell’umanità. L’affermazione di essere stato volontario in Abissinia e in Spagna viene espressa da Perlasca nel momento in cui sta aiutando a scappare un’ebrea e la figlia. In questo modo nel film il suo scomodo passato viene subito riscattato da un’azione positiva. Nella stessa scena egli dice che “le guerre non insegnano niente”, e che essendo cattolico non sopporta la soppressione della religione altrui. Un’interpretazione religiosa del suo umanitarismo che contrasta con l’esplicito laicismo di Perlasca. Ricorda suo figlio Franco: “Un giorno lo intervistò una tv cattolica, gli volevano far dire che aveva aiutato gli ebrei per carità cristiana. Lui rispose, nudo e crudo, ‘li ho salvati perché sono un uomo’” (Franco Perlasca 2001, 119). Forse è più giusto allora identificare la sua difesa della libertà di religione come espressione del suo libertarismo, come fa Marcus (2007, 127). Si potrebbe azzardare l’ipotesi che il film prodotto per la Rai cerchi di rendere la memoria dell’eroe italiano condivisibile per tutti gli spettatori, non escludendo 156


nessuna comunità commemorativa. Le suddivisioni della memoria collettiva diventano invece palesi nel processo di commemorazione ad opera di diversi tipi di media e di partecipanti. Tra le iniziative prese tra il 2002 e il 2007 per ricordare Perlasca elencate sul sito della fondazione, spiccano quelle rese da Alleanza Nazionale, una a Rovereto nel 2004 che coinvolge il “Circolo A.N. Giorgio Perlasca”, e una dichiarazione di Casini fatta durante un congresso di A.N. che ricorda Perlasca come “un grande italiano, un fascista del suo tempo, che ebbe la grande forza morale di diventare instancabile protettore della vita di migliaia di ebrei: questi sono i nostri esempi, i grandi esempi italiani”. Si potrebbe supporre che Perlasca da eroe “scomodo” diventi invece comodo per tutti gli italiani che non si identificano con l’antifascismo e che costituiscono la media borghesia imprenditoriale del Nord-Est, come sembra suggerire il sito dedicato a Perlasca, dove spiccano tra le tante iniziative quelle dei Lions e Rotary club situati tra Padova e Trieste. UN UOMO “QUALUNQUE” L’introduzione di Giovanni Lugaresi a L’impostore sembra intesa a voler fare di Perlasca un eroe “qualunque” anche in senso politico – Perlasca dopo il suo ritorno in Italia aderì brevemente al direttivo del movimento dell’Uomo Qualunque – accettabile per la destra alla quale Perlasca apparteneva: Fra tante vergogne che hanno caratterizzato la nostra storia recente: dalla promulgazione delle leggi razziali nel 1938 ai fatti di sangue del dopo 25 aprile 1945, se c’è qualche capitolo di questa storia del quale come italiani, e come uomini, si può andare orgogliosi, ebbene, uno di questi è il capitolo scritto da Giorgio ‘Jorge’ Perlasca. (Lugaresi 1997, XXI)

Non essendo personalmente coinvolto nella spinosa questione della Resistenza in quanto “guerra civile”, Perlasca può fungere come modello “neutrale” di valore civile ispirato, invece che da un’ideologia, dalla sua “mentalità latina” (1997, 40), più volte menzionata nel suo diario riportato in L’impostore. Nel diario Perlasca ricorda anche un incontro molto sgradevole a Budapest con un connazionale, “un certo B.”, che gli dà del traditore perché ha cambiato nazionalità per salvare gli ebrei. Il brano viene riportato dal figlio nella sua testimonianza per distinguere l’“impostura” di suo padre da quella di chi nell’Italia del dopoguerra vendette la propria storia per ottenere qualcosa in cambio: Nell’agosto del 1945 lo incontrai alla stazione di Venezia; mi venne incontro come se niente fosse successo e mi disse di essere stato nominato dal CLN (Comitato Liberazione Nazionale) direttore dell’alimentazione per la Provincia di Venezia. Alcuni anni dopo lo incontrai in un ristorante di Mestre e seppi che era direttore del saponificio San Marco di Marghera. (cit. in Franco Perlasca in Arslan et al. 2001, 122-23)

Lugaresi conclude la sua introduzione con l’affermazione che Perlasca “prima di essere italiano era un uomo, un uomo giusto, appunto” (1997, XXII). Un giusto

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identificabile con altri giusti: Perlasca come il Wallenberg o lo Schindler italiano. Raul Wallenberg, l’inviato speciale del re di Svezia che a Budapest salvò migliaia di ebrei ungheresi, gioca inoltre un ruolo chiave nell’azione morale di Perlasca. Quando allo scalo merci vede rappresentanti diplomatici delle nazioni neutrali sottrarre persone alla deportazione ponendole sotto la propria protezione, Perlasca fingendosi uno di loro salva due gemelli, azione spontanea che probabilmente sarebbe fallita senza il soccorso di Wallenberg (Deaglio 2003, 110-111). Partendo dalla tipologia del Giusto offerta da Gabriele Nissim, Perlasca è anche un “eroe per caso” che si è distinto in quanto capace di “ascoltare nel suo cuore la voce della pietà umana e il richiamo dell’altro” (Nissim in Arslan e.a. 2001, 20). Nissim cita il giudice Moshe Bejski secondo il quale non importava se un salvatore avesse continuato a credere nel nazismo o nel fascismo e a stare dalla parte del governo, se avesse mostrato una coerenza morale, e nemmeno se avesse messo a repentaglio la propria vita. Bejski riteneva importante riconoscere prima di tutto quel piccolo, indistinto moto dell’anima che lo aveva spinto ad agire in solitudine contro le opinioni consolidate dell’ambiente circostante (Nissim 2001, 13-14).

In questa luce non sorprende che Franco Perlasca nella sua testimonianza per il padre ci tenga a sottolineare la “coerenza” delle sue azioni. Data la soggettività del motivo “che spinge a ‘fare qualcosa’ per qualcuno” (Bravo 2008, 158), l’azione umana per la sua casualità può anche apparire “ingiusta”. Secondo la storica Anna Bravo è “il passaggio delicatissimo dai principi all’individuo come principio, che apre il problema della valutazione caso per caso, dell’adesione alla mutevolezza delle situazioni sotto forma di ‘mancanza di oggettività’. Ed è il punto più controverso” (158). Il Giusto inoltre non si vanta mai delle sue imprese, dovute soltanto ai suoi “piccoli atti di umanità” (Nissim 2001, 9), dato che un Giusto “non è un uomo buono, un uomo puro, un santo; è semplicemente un uomo” (Nissim 2001, 11). Per la stessa ragione a Yad Vashem non viene fatta nessuna distinzione tra chi ha salvato solo un ebreo o chi ha compiuto azioni più rilevanti quantitativamente e politicamente (Nissim 2001, 13). In varie fonti viene menzionato il silenzio di Perlasca sulla sua incredibile storia una volta tornato in Italia, fatto che conferma la sua modestia di uomo giusto. Che lui si sia distinto pensando e agendo autonomamente, viene sottolineato nel film televisivo dove lo vediamo continuamente in atto di salvare ebrei nelle condizioni più rischiose e impensabili. A tale scopo il regista adotta, secondo Marcus, la strategia dell’‘amplificatio’, esagerando l’immobilità degli altri personaggi in contrasto con il frenetico attivismo di Perlasca (Marcus 2007, 131, 135). Perlasca stesso nel suo diario si caratterizza come un uomo di azione, a differenza dei diplomati troppo legati ai documenti ufficiali e alla parola indiretta: “Tempestività e sfrontatezza era la mia parola d’ordine” (1997, 48). Egli non si lascia neanche corrompere, a differenza di altri dipendenti delle legazioni neutrali che rilasciavano salvacondotti falsi facendosi pagare lautamente. Secondo i criteri formulati da Yad Vashem, egli è dunque un giusto anche nel senso che egli “non agisce in vista di un 158


guadagno, di denaro o altri beni materiali” (Paldiel 2001, 42). La sua unica motivazione è, come abbiamo già ricordato, di tipo umanitario: Lo spettacolo dei treni di deportati era veramente impressionante e tanto strazio rafforzò in me la volontà di fare quanto era nelle mie possibilità per aiutare quella disgraziata gente; il bestiame che la mia ditta caricava a Sopron era trattato meglio dei deportati. (Perlasca 1997, 12)

L’atroce spettacolo intravisto da Perlasca che fa scattare in lui quel piccolo “moto dell’anima”, nel film di Negrin viene rappresentato con un abile gioco di sguardi, di cui Millicent Marcus non manca di notare la forza espressiva.8 Anche qui lo scopo principale sembra essere quello di sottolineare il movente umanitario di Perlasca, immune a ogni tentazione di autoglorificazione. La domanda di Perlasca all’intervistatore “Lei, che cosa avrebbe fatto al mio posto?” riportata da Deaglio all’inizio di La banalità del bene, è il punto di partenza per una riflessione sociologica sull’azione morale da parte di Mario de Benedittis che offre la possibilità di inserire l’azione di Perlasca all’interno di una dimensione pratica della morale.9 De Benedittis mette in questione la pretesa universalistica dell’impulso morale che pensatori quali Zygmunt Bauman concepiscono come un “a priori sociale” o anche l’essere morale “per natura”. Come sociologo De Benedittis è interessato piuttosto alle “condizioni in cui tale impulso si manifesta”. In sintesi egli dimostra che è l’impulso morale partendo dal presupposto che l’azione morale sia non razionale, una disposizione che viene attualizzata quando l’individuo si trova in una posizione di “esposizione” (Nancy). Ragionando in termini di habitus (Bourdieu) la disposizione viene più probabilmente attivata in chi non è al suo posto nel sistema, il che implica anche “il peculiare rapporto con la resistenza all’autorità e l’implicazione nel proprio campo sociale”. La citazione da Di fronte all’estremo di Todorov sembra perciò fatta apposta per Perlasca: Il comportamento dei soccorritori esige il possesso di qualità in qualche misura contraddittorie. In linea di massima, i soccorritori non sono dei conformisti, ossia esseri che regolano la loro condotta in base all’opinione dei vicini oppure in base alle leggi. Sono semmai persone che si sentono come emarginate e per temperamento restie all’ubbidienza, pur essendo ben lontane dal rifiutare ogni legge. Al contrario, sono perfettamente capaci di distinguere fra bene e male, oltreché dotate di una coscienza molto sensibile che detta il loro comportamento. Al tempo stesso non sono persone innamorate di principi, che si limitano a prediligere le astrazioni. Sono esseri portati all’universalizzazione, in quanto pronti ad aiutare degli sconosciuti riconoscendo loro, senza esitare, il diritto di appartenere alla comune specie umana, e nel contempo esseri inclini all’individualizzazione, in quanto non difendono degli ideali ma delle persone concrete” (cit. in De Benedittis).

In tal modo la dimensione universale dell’“uomo giusto” nel caso di Perlasca si declina in quella dell’“eroe italiano”, dato che le qualità dei soccorritori secondo Todorov coincidono in gran parte con l’umanitarismo tipicamente italiano esposto da Negrin in un’intervista riportata da Marcus (2007, 129).

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Nel film televisivo viene infine applicata una certa estetica del “bene” associato alla bellezza e contrastato con la bruttezza del “male”. Nello sceneggiato viene infatti messo in luce il carattere charmeur di Perlasca che elogia ripetutamente il bel sesso. Forse ispirandosi alla sezione “la memoria è donna” nel libro di Deaglio, Perlasca è spesso circondato da donne belle e innocenti, anche loro combattenti per la buona causa, come per esempio una elegante contessa ungherese il cui marito si è dato alla macchia. Questo espediente narrativo, di cui si serve anche Perlasca nel suo diario, ha la funzione di accentuare l’attrazione del ricordo del Bene e del giusto come parti integranti di un “patrimonio universale dell’umanità” (Nissim 2001, 14). La seduzione della bellezza e dell’avventura ambientate in località di lusso, appella inoltre al mito holywoodiano della Budapest degli anni Quaranta, e costituisce una rete di riferimenti intertestuali ai generi del noir e della spy story. Secondo Marcus tali ingredienti servono sia per stabilire un nuovo genere a partire da SCHINDLER’S LIST di Spielberg, da lei chiamato “rescue subgenre” (sottogenere di salvataggio), sia ad attrarre un pubblico di massa che altrimenti rischia di essere scoraggiato dalla base documentaria di questo tipo di film (2007, 139). RICORDARE PERLASCA: PERCORSI DI MEMORIA CULTURALE Talvolta per corrispondere alle caratteristiche universali del Giusto l’evidenza dei fatti viene manipolata. Perlasca oltre a essere un uomo istintivo era anche un agente diplomatico incaricato di importare bestiame per l’esercito italiano e quindi sapeva benissimo come doveva comportarsi in tali ambienti. In questa luce diventa evidente che l’azione morale va collocata piuttosto in uno “spazio sociale” che in un astratto “spazio morale” (De Benedittis). Dopo essere ritornato in Italia Perlasca invece di tacere cercava inizialmente di pubblicare il suo diario ma senza risultato, come anche i suoi tentativi di interessare i politici, tra cui De Gasperi, al suo caso. Sorte analoga a quella di altri testimoni in quel dopoguerra della ricostruzione (e della rimozione). Il diario finisce però nelle mani dello storico ungherese Jenö Lévai che in base a quella e altre testimonianze ha poi scritto la prima storia della deportazione degli ebrei ungheresi.10 Attraverso questa via il diario contribuirà poi alla scoperta di Perlasca da parte del gruppo delle donne ungheresi menzionato prima. Il diario pubblicato postumo con il titolo L’impostore consiste di due parti con funzioni distinte. La prima intitolata “Promemoria” serve a documentare i fatti, la seconda presenta le persone e gli eventi che hanno particolarmente colpito Perlasca. Persone ed eventi che per la loro forza e cogenza narrativa sono destinati a diventare immagini emblematiche, ovvero icone della sua storia così come rappresentata da diversi tipi di media.11 La ragazza Lily e la madre che la figlia ancora minorenne tenta di salvare offrendosi a Perlasca, sono raffigurate nel film da Magda e Lilith, le prime due protette di Perlasca che incarnano il rapporto altruista che si instaurava tra “Jorge” e gli ebrei da lui salvati. Millicent Marcus parla addirittura di un nucleo familiare sostitutivo (2007, 131). Il colonnello cristiano che aveva preso in mano la disciplina in una delle case protette dall’ambasciata spagnola, e l’avvocato Farkas che 160


assiste Perlasca in tutte le sue manovre, diventano nel film gli aiutanti prescelti del finto console. L’icona dell’impostore che fa da titolo ai ricordi di Perlasca viene infine materializzata nella fiction televisiva in una scena in un casinò nella quale Perlasca, correndo un grande rischio, sottrae la contessa ungherese all’attenzione di un ufficiale tedesco facendo allusione al gioco d’azzardo. Si potrebbe applicare a questa scena la nozione di disposizione all’agire morale che De Benedittis illustra con una citazione di Bourdieu da Meditazioni pascaliane: La disposizione è esposizione. È in quanto si vede esposto, messo in gioco […] confrontato al rischio dell’emozione, dell’offesa, della sofferenza, a volte della morte, quindi costretto a prendere sul serio il mondo […], che il corpo è in grado di acquisire disposizioni che sono a loro volta aperture al mondo, cioè alle strutture stesse del mondo sociale di cui sono forma incorporata. (cit. in De Benedettis)

Rigney segnala come una delle tappe costituenti della memoria culturale sia quella della selezione dei materiali ricordati. In diverse interviste Perlasca ricorda due episodi in particolare per spiegare il motivo della sua azione umanitaria: la storia dei due gemelli e quella di un anziano decorato con medaglie della Prima Guerra Mondiale che stavano per essere deportati. Deaglio pubblica in La banalità del bene una selezione del diario che coincide con le tappe più significative dell’azione di salvataggio di Perlasca. L’edizione postuma del diario ad opera della casa editrice il Mulino è concepita invece come integrale, anche a rischio di ripetizioni nel testo, puntando piuttosto sull’autenticità dei documenti originali lasciati da Perlasca. Vediamo così due funzioni diverse della memoria culturale, una enciclopedica intesa a documentare, e un’altra selettiva per costruire una “memoria lavorativa” messa in atto per formare il quadro di riferimento per l’atto di rimembranza. La selezione, manipolazione e amplificazione delle storie dei personaggi tratte dalle memorie di Perlasca, servono al regista Negrin a “drammatizzare” la storia di Perlasca (Marcus 2007, 133), con lo scopo di renderla parte costituente della memoria collettiva italiana dell’Olocausto. Un altro processo, quello della ripetizione e della convergenza, serve a costruire una struttura mitica della memoria in cui diverse narrazioni e quadri contestuali si sovrappongono (Rigney 2005, 19). Così si parla dei “45 giorni” di Perlasca, titolo anche di un balletto che rinarra la sua storia, formula che rievoca nella memoria collettiva anche il trauma dei “55 giorni” del sequestro di Aldo Moro. Le biografie di Perlasca riprodotte con leggere modifiche in vari siti virtuali, soprattutto italiani e ungheresi, oltre a formare una mitografia travalicano anche i confini nazionali, facendo del personaggio davvero un “Giusto tra le Nazioni”. Il proposito esplicitamente educativo della Fondazione Perlasca rispetta la volontà del commemorato di rivolgersi in primo luogo ai giovani. Franco Perlasca, cercando di infondere autenticità nella memoria trasmessa partecipa a tutte le attività dedicate al padre organizzate in scuole e istituti in tutto il mondo, durante le quali spesso, oltre alla sua testimonianza diretta, viene presentato sia il documentario di MIXER sia il film televisivo di Negrin, a sostegno di una pratica commemorativa di 161


ricorsività (Rigney 2005, 20). Sul sito dedicato a Giorgio Perlasca viene ricordata una sessione particolarmente commovente a L’Avana a Cuba. È inoltre stata allestita nel 2002 una mostra itinerante che comprende, oltre a materiali fotografici, di nuovo il documentario di MIXER e il film di Negrin, che così proprio grazie alla ricorsività diventano topoi nella rimembranza pubblica di Perlasca. Il percorso didattico proposto sul sito della fondazione inserisce la storia di Perlasca in quella più ampia dei genocidi del ventesimo secolo, calando così con l’aiuto del procedimento di convergenza la “microstoria” dell’eroe italiano all’interno della “macrostoria” del Novecento occidentale. Essendo la madre di Franco un’esule istriana e avendo vissuto il padre tra Padova e Trieste, la memoria dello “Schindler italiano” viene inoltre spesso connessa a quella dell’esodo istriano, soprattutto a partire dal 10 febbraio 2004 quando il governo Berlusconi instaurò il Giorno del Ricordo “al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.12 Il progetto per le scuole della Fondazione Giorgio Perlasca si propone inoltre di collegare gli esodi forzati ed i genocidi del ventesimo secolo, che comprendono anche quello armeno e quello dei gulag sovietici, “con un unico filo che parte dall’intolleranza o razziale o religiosa o politica e finisce in tragedie di massa, per far capire che già la non accettazione del diverso porta in sé i germi per terribili tragedie”.13 Ciò implicherebbe anche legare con un unico filo comunità commemorative non sempre unite ideologicamente, con la speranza di estendere la funzione di “tramite” dei “Giusti della memoria” tra i diversi partiti coinvolti nell’Olocausto degli Ebrei (Nissim 2001, 13) a quella ancora più insidiosa di mediare anche tra genocidi con diverse modalità e motivazioni politiche. I luoghi della memoria legati a Perlasca sono in continuo aumento: tra il 2002 e il 2007 si accumulano le scuole e biblioteche nominate a Perlasca, le vie e le piazze, i busti, le statue e le lapidi, ultima la statua inaugurata il 1 giugno 2007 davanti all’Istituto Italiano di Cultura a Budapest. I luoghi diventano anche itinerari per un percorso commemorativo che non si limita alla memoria collettiva italiana. Sul sito dedicato a Perlasca figurano sia un gruppo di turisti canadesi che hanno visitato a Budapest i luoghi dove Perlasca ha compiuto le sue gesta che un gruppo di volontari italiani fermatosi a Budapest, portando aiuto umanitario in Romania, per porgere un saluto al busto di Perlasca dietro la scuola alberghiera a lui intestata. Così Perlasca continua a funzionare come un “Giusto” tra le nazioni con una storia aperta rivolta alla coscienza dei sopravvissuti e delle generazioni successive. Tale apertura potrebbe indirizzare verso una prospettiva intersoggettiva che aiuti a collocare l’azione morale nello spazio sociale dell’essere in generale, e a collocare il gesto di Perlasca in uno spazio postideologico in cui la singolarità serva a ridefinire le basi conflittuali dell’italianità.

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CAPITOLO I

"LEI, CHE COSA AVREBBE FATTO AL MIO POSTO?"

"Lei, che cosa avrebbe fatto al mio posto?" Una di quelle domande pesanti in cui viene richiesta la complicità dell'interlocutore. Un quesito breve che supplica comprensione, fa balenare la fragilità e la debolezza umana, non solo di chi parla, ma soprattutto di chi ascolta. "Avevo paura, sono scappato... Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?" "Nessuno mi vedeva, l'ho fatto... Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?" Ma il vecchio signore che me la poneva, non cercava comprensione o scusanti. Al contrario, stava cercando di dirmi che tutti, nella maniera più naturale, avrebbero dovuto comportarsi come si era comportato lui. Era l'autunno del 1989. A fine settembre, su diversi quotidiani italiani, nello spazio accordato alle "notizie brevi", era stato segnalato che a Gerusalemme era stato insignito di prestigiose onorificenze statali un cittadino italiano, il signor Giorgio Perlasca, di ottant'anni, che nel 1944 a Budapest era riuscito a salvare migliaia di ebrei ungheresi destinati alla deportazione nei campi di concentramento. Poche righe aggiungevano che la sua vicenda era rimasta sconosciuta per quasi mezzo secolo ed era venuta alla luce in seguito alla tenace ricerca condotta da alcuni sopravvissuti; altrettante poche e vaghe righe venivano spese per accennare al contesto dei fatti: il signor Perlasca si era fatto passare per un diplomatico spagnolo e in questa veste era riuscito a portare avanti la sua opera di salvataggio. Ero seduto nel piccolo salotto di una casa di Padova e davanti avevo il signor Giorgio Perlasca, ottant'anni, pensionato, che mi raccontava la sua vicenda. Era stato un commerciante di carni, bloccato a Budapest dall'8 settembre. Internato insieme ad altri italiani, era riuscito a fuggire e si era trovato nella capitale ungherese nel vortice finale della guerra, solo e senza documenti. Aveva trovato rifugio nella sede diplomatica spagnola e dall'ambasciatore aveva ricevuto un falso passaporto e si era messo al servizio di un programma umanitario di salvataggio degli ebrei, che la Spagna conduceva insieme ad altre legazioni di paesi neutrali e alla Croce Rossa Internazionale. Ma poi era successo che l'ambasciatore aveva improvvisamente lasciato l'Ungheria e lui, che avrebbe dovuto pensare solamente a salvare la pelle, si era autonominato nuovo rappresentante della Spagna di fronte al governo filonazista ungherese. E così, come autorevole rappresentante di una nazione neutrale, aveva assicurato protezione a più di cinquemila ebrei ungheresi, nascondendoli in edifici posti sotto la giurisdizione spagnola, trattando con i nazisti che li volevano deportare, salvandoli dalle bande di fanatici ungheresi che li volevano uccidere... Un "magnifico impostore". Che poi, finita la guerra, era tornato a casa e aveva ripreso la vita di sempre, fino a quando qualcuno si era ricordato di lui, e lo aveva rintracciato. Convocato a Budapest, l'anno prima gli avevano conferito l'Ordine della Stella d'Oro, con il parlamento riunito in seduta straordinaria e in piedi ad applaudirlo. A Gerusalemme, aveva piantato un albero nel "Parco dei Giusti", dove migliaia di piante ricordano i nomi di tutti coloro che aiutarono gli ebrei durante gli anni dell'Olocausto. Il suo era stato messo a dimora in un luogo di prestigio, subito dopo quello piantato in onore di Simon Wiesenthal, il "cacciatore" dei criminali nazisti. Perlasca abita in un modesto appartamento alla periferia di Padova. Quando lo andai a trovare per la prima volta, non aveva il telefono. Per comunicare con lui, bisognava passare attraverso la sorella, che abita nel palazzo accanto. Se arrivavano delle chiamate per Giorgio, lei appendeva con una molletta un giornale sul balcone, in modo che, quando Giorgio passava per la passeggiata, avesse un segnale. Allora Giorgio suonava al citofono, la sorella si affacciava e gli comunicava chi lo aveva cercato. Adesso ha un telefono, perché lo hanno cercato in molti e l'espediente del giornale non reggeva al ritmo delle telefonate. "Lei che cosa avrebbe fatto, al mio posto?". Sarebbe bello poter rispondere: "La stessa cosa." Farebbe parte dell'idea che gli italiani hanno di sé: "brava gente", umani di una umanità che non ha bisogno neppure di essere elaborata dal cervello, ma che viene dalle viscere e scatta, a dispetto degli ordini, delle divise e delle ideologie, alla sola vista di un'umiliazione o di un sopruso subito dagli altri; dotati di innata teatralità e di intuizione psicologica.


Vengono in mente il Vittorio De Sica del Generale Della Rovere, che sostiene una parte non sua solo per non darla vinta ai tedeschi e per il piacere del teatro accetta di essere fucilato; oppure gli Alberto Sordi e Vittorio Gassman, sgangherati e imboscati soldatini della grande guerra, che se ne vanno alla morte per amicizia e per non tradire i commilitoni. Ma la vicenda di Giorgio Perlasca è più grande. Molti sono stati, durante la guerra, gli italiani che hanno aiutato o "ritardato o deviato il corso degli eventi", rifiutandosi di commettere brutalità, oppure anche solo nascondendo una pratica o facendo una telefonata di avvertimento. Ma quello che fece Perlasca è unico e clamoroso. Non aveva una funzione, ma se la creò. La sua azione non si esaurì in un solo gesto, ma durò mesi e venne portata a termine con grandi doti di organizzazione che produssero risultati insperati, nelle condizioni più rischiose. Ma per far parte dei modelli vigenti dell'eroismo, gli mancavano molte qualità. Troppa modestia, troppa Spagna franchista, poche attitudini a scalare il palcoscenico. Sullo scaffale del salotto di casa Perlasca, tra diversi libri di storia e testi sulla Spagna e un piccolo archivio personale, erano deposti riconoscimenti e attestati. La cittadinanza onoraria di Israele, l'Ordine della Stella d'Oro consegnatagli dal governo ungherese, astucci con diverse medaglie arrivategli da diverse parti del mondo. In un vasetto era ospitata una rosa di stoffa bagnata in una vernice dorata. Sul gambo, un biglietto da visita. "Non ho mai capito bene che cosa sia," mi disse Perlasca. "Successe a Gerusalemme, quando venni premiato. Durante la cerimonia, mi venne incontro una signora, con questa rosa. Me la donò e poi scappò via." La rosa dorata di stoffa era accompagnata da un biglietto da visita. C'era scritto, in inglese: "Lei ha salvato due membri della mia famiglia e con loro la mia fiducia nel genere umano. Fiducia che andava svanendo." In seguito, visionando un filmato della premiazione di Perlasca a Gerusalemme, ho rivisto la scena. Perlasca che viene abbracciato da maturi signori. Due di loro mostrano all'obbiettivo della telecamera i certificati di protezione rilasciati dal falso console in virtù dei quali si sono salvati. Lo riabbracciano. Perlasca li abbraccia, senza sapere minimamente chi siano. Poi una donna gli si avvicina, gli consegna la rosa, e si allontana velocemente. Nelle scene successive si vede Perlasca che continua a tenere in mano la rosa, perché non sa dove metterla. C'era ancora il bigliettino attaccato: firmato Madame Moshe Dak, Jerusalem 92621, più un altro indirizzo, illeggibile. Abbiamo cercato sulla guida del telefono, ma non siamo arrivati a capo di nulla. Dunque, signor Perlasca: perché lo fece? "Perché non potevo sopportare la vista di persone marchiate come degli animali. Perché non potevo sopportare di veder uccidere dei bambini. Credo che sia stato questo, non credo di essere stato un eroe. Alla fin dei conti, io ho avuto un'occasione e l'ho usata. Da noi c'è un proverbio, che dice: l'occasione fa l'uomo ladro. Ebbene, di me ha fatto un'altra cosa. Improvvisamente mi sono ritrovato ad essere un diplomatico, con tante persone che dipendevano da me. Che cosa avrei dovuto fare, secondo lei? Piuttosto, penso che essere un falso diplomatico mi abbia aiutato, perché ho potuto fare delle cose che un diplomatico vero non farebbe. Eh... I diplomatici sono persone strane. Non è che siano proprio liberi di fare quello che vogliono. C'è l'etichetta, ci sono le formalità, le gerarchie, qualcuno a cui rispondere, la propria carriera. Tante cose, tanti vincoli che io non avevo." A guardare le poche fotografie che gli rimangono di quel periodo, il ruolo del diplomatico Perlasca certamente lo poteva sostenere. Trentaquattro anni, molto alto, portamento elegante. Decisamente un bell'uomo con i capelli chiari e gli occhi azzurri. Parlava correntemente lo spagnolo, si faceva intendere a sufficienza in tedesco e in ungherese. Era un uomo di mondo, dalle molte conoscenze e frequentazioni. E, come dice la moglie Nerina: "Diciamo pure che Giorgio era un gran bell'uomo, di quelli che piacciono alle donne". (Lui guarda il soffitto e sorride). E che tipo era, signor Perlasca? Per caso, non era anche lei ebreo e per questo motivo si adoperò tanto? "No, io sono nato da una famiglia cattolica, a Como, secondo di cinque fratelli. Mio padre era laureato in legge, funzionario regio in diversi comuni del padovano. Mio nonno era stato un giudice militare. L'educazione che ho ricevuto in famiglia diceva le cose semplici, che tutti gli uomini erano da considerarsi uguali." Ci pensa un attimo. "Più o meno uguali, perché io francamente non vedo che cosa mi unifichi a uno stupratore di donne o ad uno che fa di mestiere lo sfruttatore di donne..." La famiglia Perlasca da Como si trasferì a Trieste e il ragazzo fu entusiasta aderente al fascismo, versione dannunziana. Per D'Annunzio litigò pesantemente con un professore che aveva condannato l'impresa di Fiume. "Mi costò cara, venni espulso per un anno da tutte le scuole del Regno. A dire il vero, non ero il tipo dello sgobbone e infatti non finii neppure l'istituto tecnico. Ero uno a cui piaceva divertirsi, stare con gli amici, giocare al pallone. Un ragazzo come tanti, leggevo Salgari e sognavo avventure." Se ne andò volontario in Abissinia, "Camicie Nere della 28 Ottobre". Nel dicembre del 1936 partì volontario per la Spagna, artigliere. "Perché lo feci? Le motivazioni politiche erano che anch'io volevo impedire che il Mediterraneo diventasse un lago comunista. Ma ci fu anche un altro aspetto. Se non fossi andato in Spagna, avrei dovuto cominciare a lavorare, allo zuccherificio di Pontelungo. E l'idea di stare in un ufficio, proprio non mi piaceva. Così partii per la Spagna, uno dei settantamila volontari, e ci rimasi fino alla fine. La Spagna mi è


rimasta nel cuore. Degli spagnoli, ancora oggi, amo tutto: il loro idealismo furioso, la loro fierezza, il loro senso della tradizione, la lingua. La imparai subito. A Budapest mi dicevano che parlavo un castigliano perfetto, con un leggero accento gallego." Perlasca prese uno degli astucci con una medaglia. "Vede questa? Una medaglia che mi ha dato l'Anpi di Padova. Io l'ho presa volentieri perché conosco i membri dell'associazione e sono brave persone. Ma la cosa buffa, però, è che io non sono un antifascista. Ho smesso di essere fascista, ma non sono diventato dopo la guerra un antifascista. La mia storia è diversa. A me, per esempio, diedero molto fastidio le leggi razziali. E non ero il solo: mi ricordo quanto se ne parlava al ritorno dalla Spagna. Non capivo le discriminazioni nei confronti degli ebrei. Tanti ebrei erano miei amici, a Padova, a Trieste, a Fiume. In Spagna il comandante di una batteria del mio reggimento di artiglieria era un ebreo, di Roma, si chiamava Vita Finzi. Qui, a Padova era un sottoscrittore per il fascismo uno degli uomini più ricchi della città, il barone Treves de' Bonfili. Franco, come tutti sanno, non era un antisemita. Questo era il mio atteggiamento. E poi non mi piacque l'alleanza con la Germania di Hitler, e non fui d'accordo con un'altra guerra. Di Mussolini avevo avuto stima, ma in quegli anni la persi." Così, Perlasca, già veterano di Abissinia e di Spagna si ritrovò nel settembre 1939 un "richiamato alle armi" piuttosto scomodo. Addetto all'istruzione teorica e storica" del XX reggimento di artiglieria di Padova, cominciò a mostrarsi "fuori linea", intemperante come lo era stato anni prima a scuola, tanto che i suoi superiori pensarono bene di toglierselo di torno. "Dopo due mesi mi mandarono in licenza agricola illimitata. D'altra parte ne avevo diritto. Di guerre ne avevo già fatte due." Un percorso insolito, quasi privato, quello del giovane Perlasca di fronte alle leggi razziali. Semplicemente non le condivideva, le considerava inique. Per lui, gli ebrei italiani erano semplicemente degli italiani che professavano un'altra religione. Era una convinzione sua, non ebbe dei maestri che lo guidassero, perché il "Manifesto della Razza", quando comparve su tutti i giornali a firma di autorevoli professori che spiegarono agli italiani che essi appartenevano alla "razza ariana", mentre la "razza ebraica", inferiore, nulla aveva da spartire con la comunità nazionale, stupì molti, ma suscitò pochissime proteste pubbliche. Eppure fino ad allora il fascismo non aveva dato segni particolari di antisemitismo e gli ebrei italiani, 42.000 in tutto, una delle più piccole percentuali in Europa, si erano comportati nei confronti del fascismo come tutti gli altri. Alcuni aderendo, altri, pochi, opponendosi, la maggioranza prendendo la tessera del partito solo quando questo era diventato necessario. Il popolo italiano, poi, si era sempre dimostrato immune dall'antisemitismo. Tra i numerosissimi aneddoti, uno è fulminante per la sua naturalezza e ingenuità. Raccontò Arturo Carlo Jemolo che un suo amico ebreo, mandato al confino in un paese del sud Italia per attività antifasciste, suscitò la curiosità locale perché non assisteva mai alla messa. La donna che gli dava ospitalità gli chiese perché e lui rispose che era ebreo. Al che lei rispose, stupefatta: "Macché ebreo! Lei è bianco come me." Eppure le improvvise leggi razziali presero immediatamente a macinare progressiva discriminazione. Attraverso decreti sfornati a getto continuo, gli ebrei stranieri vennero espulsi e gli ebrei italiani furono banditi dalle scuole, dall'esercito, dalle professioni. Vennero impediti i matrimoni misti, vennero confiscate parti sempre più grandi del patrimonio. Fu una persecuzione aggressiva, nutrita di decreti burocratici e di attacchi sempre più violenti sui giornali che condusse gli ebrei italiani ad essere persone prive di diritti quando, a partire dal settembre 1943 cominciò la loro deportazione verso i campi di concentramento. Non si oppose la Chiesa cattolica né la monarchia, rarissimi casi di protesta individuale vi furono nel mondo della scuola, della magistratura, dell'università, dei giornali. Persino nel mondo dell'antifascismo, non venne compresa la portata di quello stillicidio di persecuzione e tra gli ebrei italiani solo cinquemila furono quelli che, avvertito il pericolo, riuscirono a lasciare il paese: molti verso la Svizzera, molti con i piroscafi del Lloyd Triestino per ogni tipo di destinazione. Il disagio che invece ebbe il nostro reduce dalla Spagna non fu solitario, ma gli storici hanno finora dato solo cenni fugaci di "casi di coscienza" tra tesserati fascisti e di dimissioni dal partito, bollate da Mussolini sotto il nome di "pietismo". Finita la guerra, la "vulgata" della storia italiana prese i binari della retorica e della reticenza. Risultò difficile raccontare di una opposizione alle leggi razziali che in realtà non c'era stata. E di quello che fecero i vinti, o gli anonimi, o gli isolati, non ci fu particolare interesse a mantenere traccia. Giorgio Perlasca è un bel vecchio eretto. Magro e alto, ha un portamento distaccato e quando cammina ondeggia lievemente, perché trascina una gamba, ricordo di un ictus di quattro anni fa. Ha gli occhi azzurri, ancora tali, i capelli bianchi tagliati molto corti. Conversa con piacere, è interessato a sapere degli altri, conosce le gentilezze, i silenzi e le galanterie del vecchio "charmeur". E' preciso nel raccontare, rispettoso per quanto riguarda i giudizi sugli altri. Preferisce scrivere una lettera piuttosto che telefonare e se deve viaggiare, il suo mezzo è il treno, sapendo ben individuare quali sono quelli buoni. Per il resto ha la vita più tranquilla che si possa immaginare: letture di libri di storia, una passeggiata al mattino fino al bar "per vedere quelli che giocano alle carte", qualche sigaretta fumata seminascosto alla moglie, molto tempo a giocare con il nipotino Riccardo.


"E' strano che tutto questo mi succeda proprio adesso... E' strano perché io, quando tornai, la storia provai a raccontarla, ma sembrava che nessuno mi credesse. Probabilmente non interessava, o forse sembrava troppo enorme. Pensi che nemmeno mia moglie mi credeva. Sa quale fu l'unico legame in quegli anni con gli avvenimenti di Budapest? Un mio conoscente italiano cui avevo chiesto l'automobile in prestito negli ultimi giorni dell'assedio. Venne mitragliata e andò perduta e lui venne fino a Trieste per farsi rimborsare... D'altra parte, era nei patti. A quel tempo, dopo la guerra, io vivevo a Trieste e divenni membro del direttivo dell'"Uomo Qualunque", e anche partecipante della Giunta d'Intesa per Trieste dei partiti politici italiani. Andai anche a Roma, come membro di una delegazione che chiedeva che fosse assegnata ai cantieri di Trieste la ristrutturazione della motonave Biancamano. Ho raccontato a diverse persone quello che avevo fatto. Ne ho parlato a De Gasperi, a Pella, al presidente dei liberali triestini Forti. Avevo scritto un diario e lo consegnai al "Messaggero Veneto". Non ne fecero nulla, tanto che nel 1952 andai a riprendermelo. No, sembrava che nessuno fosse interessato. Da Budapest non sentii più nessuno e io mi dedicai a cercare di sbarcare il lunario. E non ho vergogna a ricordare che tante volte ho avuto il problema di mettere insieme il pranzo con la cena. Così successe che, piano piano, me ne dimenticai anch'io. Ci pensavo spesso, naturalmente, ma cominciavo a dubitare. Mi dicevo: ma è veramente vero quello che mi ricordo? E' vero quello che è successo agli ebrei di Budapest? E' vero quello che ho fatto in quei mesi? Mi è capitato diverse volte di avere dei dubbi. Allora mi fermavo e mi dicevo: Giorgio, proviamo a rimettere insieme le date e le circostanze. Mi mettevo a ragionare e tutto tornava: le date, i luoghi, le persone. Non mi sbagliavo. Era veramente successo." A Perlasca, che era stato un salvatore, successe quello che capitò alle vittime. Come ha sempre ricordato Primo Levi, l'idea di non essere creduti fu comune a molti prigionieri dei lager. Scriveva, ne "I sommersi e i salvati: 'Quasi tutti i reduci, a voce o nelle loro memorie scritte, ricordano un sogno che ricorreva spesso nelle notti di prigionia, vario nei particolari, ma unico nella sostanza: di essere tornati a casa, di raccontare con passione e sollievo le loro sofferenze passate rivolgendosi a una persona cara, e di non essere creduti, anzi, neppure ascoltati. Nella forma più tipica (e più crudele), l'interlocutore si voltava e se ne andava in silenzio". Primo Levi riuscì a pubblicare Se questo è un uomo tredici anni dopo la fine della guerra. Appena tre anni prima era uscito in Italia, da Feltrinelli, il primo libro che raccontava dei crimini nazisti, flagello della svastica di Lord Russell. La memoria fu lenta, difficile. Finita la guerra, tornarono, per mesi e mesi, i militari italiani deportati nei lager nazisti dopo l'8 settembre. Furono seicentomila, e a loro era stato offerto di tornare liberi indossando le divise della Wehrmacht o della Repubblica di Salò. Solo una infima parte aveva accettato, ma le loro storie non vennero raccontate. "Animali strani", vennero considerati, che il dopoguerra non sapeva bene come classificare e ancora oggi quella vicenda collettiva non trova spazio nei libri di storia. Degli ebrei italiani deportati si seppe, naturalmente. Ma con cautela. E non tutto. L'Italia fu pronta ad autoassolversi per la loro sorte, vantando piuttosto la rete di umanità popolare che aveva dato a tantissimi di loro un nascondiglio e un'assistenza: i crimini vennero addebitati al dominio tedesco. Ma pochi, ancora oggi, sanno, per esempio, che la legislazione razziale non venne immediatamente abrogata all'indomani della caduta del fascismo, come ci si sarebbe aspettati. Per ragioni di prudenza nei confronti dell'ex alleato tedesco, il maresciallo Badoglio aspettò sette mesi prima di cancellare le più infami norme discriminatorie. E pochi ancora oggi sanno che dietro gli 8566 ebrei che vennero deportati dall'Italia, ci fu, purtroppo, la collaborazione attiva della burocrazia italiana o la delazione. Solo ora, ne Il libro della memoria, un volume che turba per la mole, le cartine e i numeri, si può leggere quello che successe. Lo ha scritto Liliana Picciotto Fargion, dedicando dieci anni della propria vita a ritrovare i sopravvissuti e chiunque fosse in grado di fornire notizie. Le storie, le circostanze e i nomi occupano 538 pagine in ordine alfabetico. Un elenco di poche righe per ognuno, che comincia con Abeasis Alberto, detenuto a Fossoli campo, deportato da Verona e liberato a Bergen Belsen e finisce con Vilma (cognome ignoto), detenuta prima alla caserma di Fiume, poi al carcere di Trieste, deportata ad Auschwitz e deceduta in luogo e data ignoti. Un lavoro di documentazione arrivato quasi fuori tempo massimo; ancora qualche anno e le fonti non sarebbero state più in vita. Nessuno dei responsabili italiani della deportazione venne punito. Per tacita legge di compensazione, si tacque anche sui salvatori. Il muro che si trovò di fronte Perlasca quando tornò a casa fu fatto di questi materiali. Tanta voglia di rimozione e poca voglia di fare paragoni. Se un uomo solo, modesto, senza una solida rappresentanza politica, era riuscito in quell'impresa, perché allora altri non fecero come lui? E poi la sua storia si era svolta in Ungheria, lontano dai fatti nostri, in un paese in cui dopo la guerra la storia venne messa rapidamente a tacere e i ricordi soffocati. La persecuzione degli ebrei ungheresi è ancora oggi pochissimo conosciuta. Eppure avvenne sotto gli occhi del mondo. Lo sterminio organizzato durò otto mesi, dal marzo del 1944 al gennaio del 1945, quando già Hitler aveva perso la guerra, nel corso dell'avanzata contemporanea dell'Armata Rossa da est e degli anglo-americani da ovest. Fu uno sterminio annunciato, previsto e seguito in tutte le sue fasi dalle diplomazie e spesso anche, giorno dopo giorno, dalla stampa internazionale. Fu anche l'unico olocausto a rimanere interrotto a causa della


precipitosa ritirata dell'esercito nazista; questo fece sì che Budapest rimanesse l'unica città dell'Europa centrale a non vedere i suoi ebrei completamente sterminati. Se decine di migliaia sopravvissero, lo si dovette al salvataggio compiuto da un piccolo gruppo di diplomatici di paesi neutrali rimasto nella capitale nelle settimane finali dell'assedio. Di tutta questa storia, il mondo ha sempre saputo pochissimo, tranne un nome, quello di Raul Wallenberg, il diplomatico svedese inviato del re di Svezia con il compito di portare in salvo, con ampi mezzi finanziari, il più grande numero possibile di ebrei ungheresi. Ma più ancora che per la sua opera, il nome di Wallenberg divenne noto soprattutto perché egli sparì nei giorni dell'entrata a Budapest dell'esercito sovietico e sulla sua sorte continua ancora oggi, dopo mezzo secolo, un'incertezza che Mosca non ha completamente eliminato. Da due anni però si conosce un altro Wallenberg nello sconosciuto commerciante italiano Giorgio Perlasca. I due non avrebbero potuto essere più diversi e più uguali: ricco e protetto il primo, con uno status speciale che gli permetteva di trattare con le SS e di offrire denari al posto di vite umane. Uomo solo e in fuga il secondo, che pagava di tasca propria il cibo alla borsa nera per mantenere in vita i suoi protetti. Si incontrarono diverse volte, in quei mesi. "Alla stazione merci, per esempio," ricorda Perlasca, "dove andavamo per cercare di strappare qualcuno dai treni. Era bravo, Wallenberg, ci dava l'anima. Lo incontrai anche nella legazione di Spagna negli ultimi giorni dell'assedio. Il 18 gennaio, quando già erano entrati i russi, ebbi notizia certa che Wallenberg era in una casa della via Kiràly. Vi andai, ma mi dissero che era uscito. Credo che sia morto quel giorno, per una bomba o una pallottola vagante. Nel dopoguerra, quando si sollevò il suo caso, feci l'unica cosa che potessi fare. Nel 1952 andai a Milano e sottoscrissi una dichiarazione giurata su quanto sapevo, sulle circostanze dell'ultimo giorno in cui so per certo che era vivo... Mi aspettavo che mi chiamassero, invece nessuno mi ha mai fatto sapere niente." "Da quando è stato scoperto," dice la moglie, "Giorgio è ringiovanito." "Diciamo piuttosto che mi hanno scombussolato la vita," dice lui. "Però, certo che sono stato contento. Ci sono delle soddisfazioni che non potrò dimenticare. In Ungheria non ero più tornato, dai tempi della guerra. Quando mi hanno convocato per la premiazione, sono arrivato a Budapest con il treno. Siamo entrati alla stazione di Budapest e mi sono sporto dal finestrino, volevo rivedere se mi ricordavo i luoghi. Mentre il treno arrivava sul binario, ho visto un sacco di gente sulla banchina. Mi chiedevo: cosa sarà successo? Quando sono sceso, mi sono reso conto che erano lì per me. Mi hanno insignito con l'Ordine della Stella d'Oro con corona e me la sono messa all'occhiello della giacca. Questa è la più alta onorificenza che concedono, in Ungheria. Pensi che ho camminato per strada e sono andato in treno e le persone che la vedevano si toglievano il cappello, mi salutavano battendo i tacchi, e qualcuno facendo il saluto militare." "Ora mi capita di incontrare persone che dicono di ricordarmi. Ma a me, purtroppo, non dicono nulla, perché loro erano bambini al tempo. Quelli che conoscevo io, sono tutti morti. Io vedo che loro si dispiacciono perché non mi ricordo di loro. Ma come faccio? Erano dei bambini a quel tempo. E ce n'erano tantissimi." Ho rivisto Perlasca diverse volte negli ultimi due anni. Alle onorificenze israeliane e ungheresi, ha aggiunto ora quelle spagnole (curiosamente, la commenda dell'Ordine di Isabella la cattolica, la regina che nel 1492 decretò l'espulsione degli ebrei) e quelle americane, che gli sono state consegnate a Washington e a New York. ("Ormai, quando parto, mio nipote mi chiede: nonno quante medaglie mi porti stavolta?"). In Italia la sua storia è stata raccontata al programma televisivo Mixer e in quella occasione mi è capitato anche di accompagnarlo ad un colloquio privato con il presidente della Repubblica. Eravamo organizzati malissimo, parcheggiammo l'automobile nel posto sbagliato e quindi ci dovemmo fare un bel pezzo a piedi dentro i giardini del Quirinale. Perlasca un po' era divertito e un po' seccato. "Mai capitata una cosa del genere. Sia a Budapest sia a Gerusalemme, mi hanno portato con la macchina fin sulla porta." Perlasca ebbe un breve colloquio con il presidente Cossiga che lo ringraziò "come uomo e come italiano" per tutto quello che aveva fatto. Uscendo Perlasca disse che aveva paura gli offrissero una croce da cavaliere. "Sa come diceva Vittorio Emanuele II? Un sigaro e una croce da cavaliere non si negano a nessuno." Invece, finora non gliel'hanno offerta. Né la croce da cavaliere, né altro. E questa è una dimenticanza che per Perlasca è un cruccio, oltreché un fatto di cui non riesce a capacitarsi.


CAPITOLO II

LA MEMORIA E' DONNA

Un giorno qualunque del 1987, Giorgio Perlasca trovò nella casella postale una lettera che arrivava dalla Germania e così apprese di essere stato "scoperto". L'anno successivo, Giorgio Perlasca seppe come era stato ritrovato. Di lui non si erano ricordate le istituzioni o gli storici. A rintracciarlo era stato un gruppo di donne, che ora lo aveva localizzato, lo voleva aiutare, ma soprattutto voleva che il suo nome fosse ricordato. L'operazione Perlasca" era partita nel salotto di una casa di Berlino, abitazione della dottoressa Eveline Blitstein Willinger, immunologa. Questo il suo racconto: "Insieme alla mia famiglia, vent'anni fa emigrai dalla Transilvania a Berlino, dove cominciai a lavorare come ricercatrice presso l'università. In poco tempo conobbi una vasta cerchia di persone originarie dell'Ungheria, e di molti di loro diventai amica intima. Prendemmo l'abitudine di ritrovarci una volta al mese, per parlare delle nostre storie, dei libri che avevamo letto, delle nostre professioni. Quattro anni fa, in uno di questi incontri, la discussione cominciò sui temi del pregiudizio e della ingiustizia razziale e andò a cadere su Raul Wallenberg, l'inviato del re di Svezia a Budapest, e sulla sua misteriosa scomparsa all'arrivo dell'Armata Rossa nella città. Era già tardi, quando una di noi, la signora Irene von Borosceny, prese la parola. Irene è una contessa ungherese e in gioventù aveva lavorato nella Croce Rossa Internazionale a Budapest, negli ultimi mesi della guerra. Quella sera, mentre parlava,' aveva un tono amaro. Lei, Wallenberg l'aveva conosciuto personalmente. Ma, oltre a lui, ci disse, aveva conosciuto un altro uomo eccezionale, un italiano di nome Giorgio Perlasca. Un uomo che si era prodigato e di cui nessuno si ricordava. Mi ricordo che la stanza diventò molto silenziosa mentre Irene raccontava. Io non avevo mai sentito quel nome prima di allora. Ci lasciammo e Irene ci disse di avere conservato dei vecchi documenti e che ci avrebbe raccontato tutto quello che sapeva su Perlasca. Una settimana dopo ci ritrovammo, a casa della dottoressa Vera Braun. Eravamo solo sei, tutte donne. Irene von Borosceny parlò per più di due ore. Poi fu il nostro turno, facemmo tutte un sacco di domande. Ma io non ero più interamente presente. Una parte di me se ne era andata lontano, era tornata all'anno 1944, a Budapest. Ero tornata alle stupende e ben conosciute strade di Budapest, quando queste non ebbero più posto per gli ebrei. Vedevo le donne disperate, con i figli; la gente che attendeva di essere trasportata, senza sapere la destinazione finale del viaggio. Vedevo giovani disorientati, demoralizzati, incapaci di dare aiuto ai loro parenti. E naturalmente vedevo tra di loro, i volti cari dei miei nonni, dei miei zii, delle mie zie, dei miei cugini. Volti che conosco solo dalle fotografie. Poi vedevo gli "Ubermenschen" tedeschi e le strade affollate di passanti indifferenti... Questa è la scena che vedo sempre quando chiudo gli occhi e penso alla mia infanzia e ai miei parenti, morti ad Auschwitz, a Dachau e in Galizia, e a quelli sopravvissuti che non si sono mai liberati del marchio di umiliazione che subirono a Budapest. Irene parlava e io cominciai a tremare. Mi ricordo che quella notte non riuscii a prendere sonno. Mi chiedevo: come è possibile che una persona del genere viva da qualche parte in Italia e nessuno l'abbia mai sentito nominare? Perché le persone che ha salvato non hanno detto al mondo di lui? Perché non se ne è parlato sui giornali? Perché il governo italiano non lo onora come una persona eccezionale? Così presi l'iniziativa di fondare un gruppo per aiutare Perlasca. Mia sorella, la dottoressa Maria Vera Willinger, fu la prima aderente, poi vennero la dottoressa Maria Hideg, il professor Diamanstein, la dottoressa Ruth Gross, l'avvocato Heribert Hanish, la signora Anne Marie Brunner. Rintracciammo il suo indirizzo e decidemmo di inviargli un contributo finanziario mensile. Quando lessi il diario di Perlasca (ce lo fece avere Irene, Perlasca lo aveva consegnato allo storico dell'Olocausto ungherese, Jenò Leval) la mia ammirazione per quell'uomo divenne totale e lo identificai con uno dei "Trentasei Giusti". E' una storia del Talmud, che mio padre mi raccontava quando ero bambina. In qualsiasi momento della storia, ci sono sempre Trentasei Giusti al mondo. Sono nati Giusti, non Possono ammettere l'ingiustizia. E' per amor loro che Dio non distrugge il mondo. Nessuno sa chi sono, e meno che meno lo sanno loro stessi. Ma sanno riconoscere le sofferenze degli altri e se le prendono sulle spalle... Questa storia mi piaceva quando ero ragazzina, mi faceva sentire sicura. Quando crebbi e seppi di sei milioni di persone che erano state uccise perché


pregavano Dio in maniera diversa dai loro assassini, chiesi a mio padre dove fossero i Trentasei Giusti in quel periodo. Perché non comparvero e non diedero una mano? Quando Perlasca comparve nella mia vita, ripensai alla leggenda dei Giusti e mi venne l'idea di scrivere a Yad Vashem, il museo-archivio dell'Olocausto che ha sede a Gerusalemme, per chiedere loro di riconoscerlo come uno dei Giusti. Spedii la lettera e i documenti che ci aveva dato Irene. Ci risposero che, per nominare Perlasca come uno dei Giusti, era necessario rintracciare dei testimoni e condurre un'inchiesta sui fatti. Fu allora che Vera Braun ebbe l'idea che risultò essere quella decisiva. Far pubblicare in Israele e a Budapest un annuncio sul giornale." L'annuncio comparve su "j Élet" (Vita Nuova), periodico della comunità ebraica di Budapest, il 15 maggio del 1988. Cerchiamo tutti coloro che nel 1944-45 ebbero occasione di conoscere Giorgio (Jorge) Perlasca, di origine italiana e a quel tempo incaricato dell'ambasciata di Spagna e che, pare, abbia preso parte nell'organizzazione delle case protette spagnole. Chiunque sappia qualcosa delle attività della suddetta persona, è pregato di presentarsi al direttore dell'Istituto nazionale dei Rabbini, il rabbino capo dottor József Schweiber. "Subito dopo la pubblicazione dell'annuncio," racconta la dottoressa Blitstein Willinger, "successe un fatto che, per me, ha qualcosa di straordinario. C'erano ancora delle persone vive, che si ricordavano. Si presentarono al rabbino. Portarono i loro certificati di protezione e raccontarono di fatti, luoghi e circostanze in cui l'avevano conosciuto. Erano felici di poter testimoniare su quanto Perlasca aveva fatto. Tutto il materiale fu spedito a Yad Vashem. Poco dopo da Gerusalemme arrivò la risposta: la Commissione per la designazione dei Giusti aveva deciso di conferire al signor Perlasca come segno di massimo riconoscimento, una medaglia d'onore e il diritto di piantare un albero nella Strada dei Giusti sul monte della Rimembranza a Gerusalemme. Perlasca dovette rinviare di quasi un anno la sua visita in Israele, per motivi di salute. Ma riuscì ad andarci, il 24 settembre del 1989. E prima riuscì ad andare a Budapest, dove il parlamento in seduta straordinaria gli conferì la 'Grande Stella di Ungheria'. Mi scrisse che a Budapest aveva alloggiato all'hotel Astoria, lo stesso nel quale aveva vissuto quarant'anni prima, che aveva incontrato molte persone gentili e che era molto soddisfatto." "Soddisfatto e commosso," dice Perlasca "quando ho saputo di come è venuto fuori il mio nome. La contessa von Borosceny, certo che me la ricordo. Era molto giovane all'epoca, ed eravamo amici. Fece delle cose molto importanti, in quel periodo. Mi passava informazioni, faceva arrivare messaggi. Lei sapeva che io non ero un diplomatico, ma fu una delle persone che mi aiutò di più, soprattutto dandomi sostegno morale. Sono rimasto proprio commosso ad apprendere che è stata lei a ricordarsi di me." Nel settembre del 1988, tra i milioni di turisti che affollavano le spiagge di Rimini, ce n'erano due a cui Rimini non interessava per nulla. Una coppia di anziani signori provenienti da Budapest con uno dei tanti viaggi organizzati. Erano magri, dalla pelle bianchissima. Non andavano in spiaggia. Non andavano per negozi. Non andavano al ristorante. I signori Làng, Eva e Pài, avevano scelto quell'"inclusive tour" offerto dal "Sindacato della Sanità" ungherese, per un'unica ragione. La vacanza, in pullman, prevedeva oltre Rimini, escursioni a Roma, Firenze, Ravenna e Venezia. Ma quello che li attrasse fu la presenza nel programma di un pomeriggio libero a Padova, sulla via del ritorno. Nel 1988 i movimenti turistici dall'Ungheria non erano ancora facili come lo sono adesso. Fu Eva a scoprire quella possibilità e a iscrivere con molto anticipo il suo nome e quello del marito nella lista. Calcolarono le ore che avrebbero avuto a disposizione a Padova e scrissero una lettera al signor Giorgio Perlasca annunciandogli che sarebbero stati a casa sua il giorno 4 settembre alle ore 15. Poi Eva convinse il marito, all'età di 68 anni, a dedicarsi completamente allo studio dell'italiano per riuscire a condurre con Perlasca un minimo di conversazione. Quando arrivò la data della partenza, Eva confezionò una valigetta di doni con lo scopo di "rievocare in Perlasca i sapori ungheresi". Vi mise dentro due diverse qualità di salame magiaro, un barattolo di paprika macinata, una bottiglia di Tokaji e una di Vinum Vitae, una scatola di amaretti al rhum nella versione dolce, una confezione di prosciutto in lattina. In un'altra busta Eva mise le fotografie di quando era giovane, la copia del giornale "Uj Élet" che aveva ospitato un suo resoconto su Perlasca e diverse poesie che gli aveva dedicato. Poi l'originale del salvacondotto spagnolo che le aveva permesso di salvarsi. Infine aggiunse altri regali: fotografie di Budapest, una tovaglia e diversi centrini ricamati. Nel 1944 la signorina Eva Kònigsberg aveva vent'anni. Si era sposata con il signor Pài Làng per una ragione estremamente materiale. Le SS tedesche che da marzo erano entrate in Ungheria avevano stabilito una propria inderogabile necessità: centomila ebrei da adibire al lavoro forzato per il Reich. Tra i tanti decreti che il governo ungherese emise in quei mesi, uno diceva: "Il marito che parte per il lavoro obbligatorio esenta la moglie dallo stesso obbligo." Si sposarono in un giorno di ottobre e quel giorno in municipio ci furono cinquecento matrimoni, "un po' veri e un po' falsi". Pài Làng lo portarono via insieme al fratello di Eva. Delle migliaia e migliaia che in quei giorni


partirono a piedi, attraversando le strade di Budapest, incolonnati dalle SS, moltissimi morirono. Uccisi per minime infrazioni, oppure dal freddo e dalla fame. Pài Làng finì a lavorare, trattato come uno schiavo, in una miniera di pietre. Di lì, nelle ultime settimane di guerra, venne trasferito al campo di concentramento di Mauthausen. Eva era rimasta a Budapest. Lei e suo padre, un veterano della prima guerra mondiale, che aveva passato cinque anni di prigionia a Vladivostock, furono comandati a pulire le strade della città dai detriti dei bombardamenti americani. Erano tra i pochi ebrei che avevano il permesso di uscire dalle case con la stella gialla cui erano stati costretti tutti gli ebrei della capitale. Eva Làng portava una tuta da lavoro, su cui era cucita la stella gialla. L'ordine di portare sempre la stella gialla venne diramato il 5 aprile. Diceva: "Tutti gli ebrei al di sopra dei sei anni di età devono portare una stella di dieci centimetri per dieci, di colore giallo canarino, di stoffa, seta o velluto, saldamente cucita sul lato sinistro del pettorale del vestito o del cappotto. Sono esentati: gli eroi di guerra e i grandi invalidi di guerra". Pochi giorni dopo un altro decreto esentava le mogli, le vedove e i figli di eroi di guerra, dei caduti in guerra, gli ebrei convertiti sposati ai cristiani, i pastori e i diaconi di origine ebrea. Eva era una bella ragazza, con degli occhi azzurri grandi come laghi. Aveva un privilegio rispetto agli altri, un "pass" che Le permetteva di uscire nella strada, ma sapeva come ogni incontro poteva essere pericoloso. Appena dopo la pubblicazione dei decreti, infatti, per le strade di Budapest cominciò la caccia all'ebreo. Molti venivano picchiati o arrestati da bande di nazisti o da squadre di gendarmi. Dicevano che il colore della stella non era quello regolamentare, misuravano la grandezza della stella. Infilavano una penna tra un punto e l'altro della cucitura e se la penna passava attraverso concludevano che non era cucita bene. Ma la forzavano, la penna. Il 20 aprile, un decreto stabilì che la stella doveva essere portata su ambedue i risvolti. Il 27 aprile che la stella non poteva essere coperta in nessun caso da sciarpe, oggetti vari, comprese le valigie e gli strumenti musicali. Il Consiglio Ebraico raccomandava a tutti di seguire gli ordini e di collaborare. E non solo loro. La "Radio Kossuth", che trasmetteva da Mosca e dava notizia dell'avanzata delle truppe sovietiche, invitava tutti gli ebrei ad indossare la stella gialla, anzi "a portarla con orgoglio". Poi, un giorno di giugno arrivò una perquisizione a casa Kònigsberg e neanche la radio si sentì più. Sequestrata, insieme agli sci e alla sciabola da scherma del fratello Gyórgy. Il 12 novembre del 1944 Eva Làng nata Kònigsberg decise di provare a corrompere un gendarme. In cambio di denaro ottenne da lui un giorno di permesso dal lavoro forzato. Aveva sentito che la legazione spagnola dava lettere di protezione. Aveva anche sentito che lì i certificati li rilasciavano a tutti, e che non bisognava pagare. Nascoste in una tasca interna della tuta, Eva quella mattina aveva tante fotografie: la sua, quella del marito Pài, quella di suo fratello Gyórgy, di sua madre, di suo padre, di due sue cugine. Corse alla sede dell'ambasciata, nella via Eótvós. Vi trovò una fila lunghissima sul marciapiede. Riuscì finalmente ad entrare e consegnò le fotografie. Le classificarono con i numeri 200 e 201. Lì vide per la prima volta Perlasca. Non sapeva chi fosse quell'uomo, ma di sicuro uno straniero. Non parlava ungherese. Uscì dall'ambasciata felice. Nella tasca della tuta portava due lettere di protezione, scritte in ungherese e in tedesco. Su di esse erano state applicate le fotografie di tutta la sua famiglia. Sotto, poche righe: Parenti residenti in Spagna hanno chiesto per queste persone la cittadinanza spagnola. La legazione spagnola è autorizzata ad accordare loro un visto di viaggio. La legazione spagnola chiede alle autorità competenti che in occasione di eventuali misure si tenga in considerazione al meglio questa situazione e che le persone suddette siano esonerate dal lavoro obbligatorio. Il 13 novembre all'alba i soldati ungheresi arrivarono di fronte al palazzo in cui abitavano i Kònigsberg e trascinarono fuori tutti gli ebrei. Eva Kònigsberg fece in tempo a vedere tanti cristiani dalle finestre che applaudivano a quella razzia, ma che poi, quando loro vennero portati fuori a forza, abbassarono le tendine per la vergogna. Sarebbe stato utile avere un certificato di battesimo. Gli ebrei convertiti al cattolicesimo godevano di qualche privilegio in più. Ma non era facile ottenerli. Eva ne aveva conosciuti tanti, che erano andati in parrocchia e avevano supplicato. Ma spesso si erano trovati di fronte dei preti che cominciavano a fare dei lunghi discorsi. Volevano avere le prove che la conversione fosse una cosa seria. Si rifiutavano di retrodatare il certificato, perché dicevano che volevano restare nella legalità. Facevano domande fastidiose, sulla verginità della Madonna, chiedevano di recitare a memoria il Padre Nostro... Gli ebrei del palazzo vennero portati in un campo, in attesa di essere deportati. La madre di Eva riuscì ad affidare a uno sconosciuto un messaggio. C'erano scritti i loro nomi. "Lo porti subito alla legazione di Spagna." Quello lo fece, ma ci mise un giorno e mezzo a superare la coda davanti all'ambasciata. Alla fine, però, riuscì ad entrare e a portare il messaggio. Arrivò così al campo un uomo che Eva non ricorda bene, ma che probabilmente era Perlasca, che lesse i loro nomi attraverso un megafono. Loro alzarono la mano. "Queste persone sono sotto la protezione del governo spagnolo!" disse, con atteggiamento molto sicuro. I soldati li lasciarono andare. Eva e la sua famiglia erano riusciti, per il momento, a sfuggire alla deportazione. Due giorni dopo, il 18 novembre. Eva


Làng uscì di nuovo per strada. Questa volta aveva con sé, nella tuta, un rotolo di soldi che la famiglia le aveva affidato. Avvicinò un soldato e gli disse: "Vuoi guadagnare?" L'altro rispose di sì. Eva gli diede delle indicazioni precise. "Questi sono 1000 pengó. Vai al campo." Gli diede il nome di un medico loro parente che sapeva essere ancora là. "Portalo a casa nostra e poi scortaci tutti fino alla casa protetta dalla Spagna, in parco Santo Stefano al numero 35. Se lo farai, ci sono altri 3000 pengò per te." Il soldato lo fece. Anzi, oltre al parente medico portò con sé un altro, che i Làng non conoscevano. Accompagnati dal soldato, tutti andarono nella casa di piazza Santo Stefano. Il palazzo era di sei piani e davanti alla porta sventolava la bandiera di Spagna. Sotto, gli argini del Danubio. In mezzo al fiume, l'isola Margherita e dall'altra parte le colline di Buda. I Làng vissero in quel palazzo per tre mesi, insieme ad altre mille persone. Eva fu sistemata al sesto piano, sotto la terrazza. C'erano sessantacinque persone in due stanze. Dalla fine di novembre in poi la temperatura si abbassò di colpo e il termometro andò sotto lo zero. Le tubature dell'acqua si ruppero e si cominciò a bere la neve sciolta. Il Danubio, sotto il palazzo cominciò a consolidarsi in blocchi di ghiaccio. Gli argini erano coperti di neve. Questa neve diventava rossa quando gli ebrei venivano portati al fiume per essere uccisi. Proprio sotto quel palazzo, giorno dopo giorno, vennero spinte migliaia di persone. Alcuni tentarono di scappare verso il rifugio diplomatico e furono uccisi. Tutti gridavano e imploravano mentre venivano trascinati sugli argini. Le uccisioni avvenivano sulla riva del fiume. Le vittime avevano l'ordine di togliersi le scarpe. Poi, a coppia, venivano legati con filo di ferro e uno solo dei due veniva colpito da una pallottola alla testa. Cadendo nel fiume, trascinava con sé il suo compagno. La coppia, nel fiume ghiacciato, moriva. Eva Làng ebbe notizia, a fine novembre, che suo marito e suo fratello erano stati deportati, ma che erano ancora vivi. Dalle colline di Buda arrivavano i colpi degli "organi di Stalin". Sotto il palazzo, bande di Nyilas, come venivano chiamati i militanti filonazisti, tentavano in continuazione di catturare qualche abitante della casa, per ucciderlo. Nelle due stanze al sesto piano, venne deciso che ogni persona aveva diritto a un metro di spazio. Da quello spazio si litigava, si urlava, si pregava. Non si creò una comunità perché non c'era niente da dividere. A dicembre cominciò a scarseggiare il cibo. Il Consiglio Ebraico mandò del tè e dei fagioli. Eva Làng spesso scappava dal suo metro quadrato per andare sulla terrazza. Lì conobbe un ragazzo molto agile che, da un tetto all'altro, era capace di passare per tutte le case del parco Santo Stefano. Questo ragazzo si era procurato un binocolo e con lui Eva puntava la collina di Buda e seguiva lo svolgimento della battaglia. Il ragazzo saltò per le terrazze ogni giorno. Tornava indietro con oggetti e qualcosa da mangiare. Un giorno portò una ragazzina che aveva trovato nascosta dietro un comignolo. (Come lei, il "ragazzo saltatore" sopravvisse alla guerra. Divenne un adulto e poi un vecchio. Quando venne pubblicato sul giornale l'annuncio per Perlasca, Eva Làng gli telefonò e gli chiese di andare a testimoniare. Ma lui non lo fece. Non fu il solo. Eva Làng capì che non a tutti faceva piacere, dopo tanto tempo, parlare di quei mesi. E capì anche che non a tutti poteva far piacere riconoscere che qualcun altro gli aveva salvato la vita). In un giorno di dicembre 1944, Eva si bruciò le mani con una pentola. Venne fasciata. Con le mani fasciate andò a fare la fila per il cibo. Le toccò una scatola di sardine, che si portò via. Ma la scatola le sfuggì dalle mani sulle scale. Era una scatola rotonda e le scale del palazzo scendevano in una spirale curva. La scatola di sardine continuava a rotolare giù dagli scalini e Eva le correva appresso. Arrivò così due piani più sotto. E qui vide un uomo, "alto e biondo", che fronteggiava un gruppo di Nyilas che tentava di salire le scale. Li sentì urlare e li vide mettergli le mani addosso. L'uomo alto e biondo li respingeva dagli scalini. Gridava che non avevano il permesso di salire, che tutto il palazzo era sotto la protezione del governo spagnolo, che quello era suolo territoriale di Spagna. Era lo stesso che aveva visto nella sede della legazione. Eva riuscì a riprendersi la scatola di sardine e scappò ai piani superiori. Ma quell'uomo lo vide altre volte. Venne a portare del cibo e a ordinare a tutti di non uscire dal palazzo, per nessuna ragione. Si parlava di quell'uomo, nel palazzo di piazza Santo Stefano, ma nessuno sapeva chi fosse. Alle ragazze come Eva, piaceva. Un bel signore, con un vestito elegante. Un eroe. Il suo nome, Perlasca, alla" maniera ungherese era pronunciato con l'accento sulla prima sillaba. Perlasca. O meglio ancora, per quel tanto di aspirazione e sospensione in mezzo alle parole che usano gli ungheresi, "Per... Lasca". Così che molti pensarono che quel signore spagnolo si chiamasse in realtà Lasca e che quel "Per" che precedeva il suo nome fosse un titolo nobiliare, come il "Sir" degli inglesi. Nel palazzo dicevano che era un grande ambasciatore, che lo avevano mandato lì gli americani, che da lui dipendevano le sorti del mondo. Il pullman del "Sindacato della Sanità" sbarcò i suoi passeggeri a Padova intorno a mezzogiorno. Pài Làng si avvicinò a un taxi e gli chiese, nel suo incerto italiano, di portarli in via Guglielmo Marconi, dietro il Prato della Valle. Chissà perché, sia lui che la moglie si erano fatti l'idea che il posto fosse molto lontano dal centro. Invece, la corsa non durò più di dieci minuti.


Così Eva e Pài Làng arrivarono a casa di Perlasca con due ore di anticipo. Si sedettero su una panchina e aspettarono; solo alle tre in punto suonarono il campanello. Parlarono per tutto il tempo che avevano a disposizione. L'italiano di Pài si dimostrò utile, anche se molto rudimentale. Ma Perlasca un po' di ungherese se lo ricordava e poi si aiutarono con il tedesco. "Fu molto contento dei regali" ricorda Eva. "Sorrise quando vide il salvacondotto. Ma io avrei voluto che si ricordasse anche di me, di quell'episodio sulle scale. Ma lui non mi diede quella soddisfazione. Mi disse che proprio non se lo ricordava. Ma gli dispiaceva."


CAPITOLO III

"HUNGARIA FELIX"

Quando scoppiò la guerra, il signor Giorgio Perlasca aveva trent'anni e aveva già fatto due guerre. Non vestì più divise. Si era sposato con una ragazza triestina, Nerina Dal Pin, e si era impiegato. Lavorava nella ditta SAIB, Società Anonima Importazione Bovini, e il suo compito era quello di trattare l'acquisto di animali vivi nella penisola balcanica e organizzarne il trasporto in Italia con carri bestiame. La SAIB aveva il monopolio dell'importazione di carni. Oltreché in denaro, pagava in "cambio merce": stoffa, cappelli, calze. Gli animali importati venivano macellati in Italia e diventavano scatolame, razione per i militari, e specialmente per i sommergibilisti. Non faceva più guerre, Perlasca, ma divenne uno dei tanti inseguiti dalla guerra. Era in Jugoslavia quando l'esercito nazista la occupò, scendendo da nord. Oggi, quando gli si chiede che cosa sapeva a Budapest del destino degli ebrei, reagisce con uno scatto: "Tutti sapevano!... Tutti sapevano qual era la sorte degli ebrei sotto Hitler. Lo sapevano i diplomatici, lo sapevano i governi." Poi ti guarda fisso: "Se lo sapevo io, che ero un semplice commerciante, lo dovevano sapere anche quelli che avevano più informazioni di me, non le pare?" E lei, che cosa sapeva? "Sapevo quello che avevo visto con i miei occhi. Bisognava essere ciechi per non vedere. Era impossibile non sapere." E cosa vide? "Assistetti alla deportazione degli ebrei di Belgrado. Era il 1941. C'era anche mia moglie con me. Una mattina, scortate dalle SS, passarono proprio sotto le mie finestre molti landò, stracolmi di donne ebree della città. Cantavano un inno religioso, che mi è sempre rimasto nelle orecchie. Me le ricordo bene quelle donne: erano coscienti di andare incontro ad un destino funebre, ma erano anche orgogliose. Quell'inno che cantavano non era disperato. Eppure, sapevano benissimo che le stavano portando via. Era impossibile non capire. Io abitavo nell'appartamento di un dentista, il dottor Grin. Portarono via anche lui e la sua famiglia. Se solo lo avessi saputo in anticipo, credo che avrei potuto far avere loro un foglio per venire in Italia. Ma me ne sono accorto troppo tardi. Portarono via anche gli zingari. Con mia moglie andavamo spesso a cena in un ristorante di Belgrado dove suonava un'orchestrina di tzigani. Una sera non la vedemmo più. Chiedemmo che cosa era successo e il padrone del locale ci rispose: 'Finito con gli zingari. Portati via'." Alla fine del 1942, spinto dalla guerra sempre più lontano da casa, Perlasca arrivò in Ungheria. "Budapest era diversa. Sembrava che la guerra non la toccasse. C'era da mangiare, si poteva lavorare e guadagnare; la famosa vita notturna andava avanti come se nulla fosse. E per gli italiani, essere a Budapest era un po' come essere a casa. Sì, c'era anche lì dell'antisemitismo, ma rispetto a quello che avevo visto in Jugoslavia, le assicuro che era all'acqua di rose." Budapest cosmopolita, seconda perla dell'Impero Asburgico, sorella appena minore di Vienna. Per i turisti di oggi, è una meraviglia sconosciuta da scoprire, ma per gli italiani di due generazioni fa, Budapest era la fascinosa capitale amica. O meglio, nemica come Vienna nella prima guerra mondiale, ma diventata amica appena quattro anni dopo. Per una variabile non considerata e non prevista da nessuno stratega politico, al crollo dell'Impero Asburgico, in Ungheria successe, unico paese in Europa, quello che era stato previsto e temuto dal giorno dell'arrivo di Lenin al potere: una vittoriosa "insurrezione bolscevica". Il tutto durò soli centotrentatré giorni, da quando Bela Kun (un comunista formatosi in Unione Sovietica dove era stato prigioniero di guerra) scalzò, senza quasi combattere, il governo liberalsocialista del conte Kàroly e proclamò la "Repubblica dei Consigli". Tutto venne nazionalizzato e sovietizzato. Vennero decisi per decreto forti aumenti salariali, riduzione degli affitti e riduzione dell'orario di lavoro. I nobili fuggirono dalla capitale e si rifugiarono a Vienna e a Szeged, nel sud del paese, mentre Budapest viveva con passione il suo brevissimo periodo comunista. Una feroce utopia, condotta a termine


da una offensiva dell'esercito rumeno che costrinse la capitale alla fame e Bela Kun alla disfatta. Da Szeged partì la riscossa dei nobili, guidati dal conte Mikiós Horthy, ammiraglio dell'Imperiale Marina austro-ungarica. Le sue truppe riconquistarono la capitale e, mentre Bela Kun e i membri della Repubblica dei Consigli fuggirono a Vienna, vi instaurarono il nuovo governo. Horthy, ammiraglio di un paese che non aveva più flotta né sbocchi al mare si nominò reggente della Corona di Ungheria nel nome di Carlo d'Asburgo, un sovrano che non c'era più, e di un Impero che si era dissolto. Scatenò contro i socialisti e contro gli ebrei (accusati di aver aderito entusiasticamente alla Repubblica dell'ebreo Bela Kun) il "terrore bianco", così come Bela Kun, nei suoi centotrentatré giorni di potere aveva scatenato, contro nobili, proprietari e religiosi il "terrore rosso". Il primo regime portò a termine cinquecentottantacinque esecuzioni pubbliche; la restaurazione rispose con millecinquecento esecuzioni. L'Ungheria divenne in Europa il primo paese che si era opposto vittoriosamente alla minaccia bolscevica. Ma più che la parentesi bolscevica, la vera ferita che aveva lasciato il segno sull'Ungheria era stato il trattato di Trianon del giugno 1920: come membro della monarchia danubiana, l'Ungheria venne considerata responsabile della guerra e dovette cedere la Slovacchia alla Cecoslovacchia, la Croazia e la Slovenia alla Jugoslavia, il Banato alla Jugoslavia e alla Romania, la Transilvania alla Romania. In totale, l'Ungheria perse più di due terzi del suo territorio e due terzi della sua popolazione precedente, quattordici milioni di abitanti. In più, le potenze vincitrici autorizzarono alla nuova "Piccola Ungheria" un esercito di appena 35.000 uomini. La riconquista dei territori perduti dopo la "pace ingiusta" e la ricerca di alleati in grado di poterla soddisfare diventarono così fatalmente i temi dominanti della politica del paese fino alla fine della seconda guerra mondiale. Tra gli alleati possibili, l'Italia di Mussolini fu per un lungo periodo tra i privilegiati. Negli Anni trenta e quaranta tra magiari e italiani si svilupparono rapporti intensi sul piano politico e su quello commerciale e culturale. L'Ungheria di quel ventennio si presenta come un assurdo tradotto in realtà. Una sterminata gerarchia di nobili possiede i due terzi delle terre. Una casta militare dalle stupende uniformi mantiene rituali cavallereschi, ma non ha vittorie da vantare. L'amministrazione e la burocrazia continuano ad essere precise, puntigliose e legittime così come le aveva abituate Francesco Giuseppe. Il paese è profondamente cattolico, ma lo Stato ammette il divorzio. Una vasta pianura fornisce carni, cavalli, oche e petrolio. Nelle campagne come nei rioni poveri della capitale, la tubercolosi fa strage. E poi, Budapest, la città che passa oltre le sconfitte, le rivoluzioni e le restaurazioni. Votata al commercio e ad alimentare le fantasie europee schiera i suoi docks sul Danubio e i suoi caffè. Trasporta merci sul fiume e scambia viaggiatori dalle sue stazioni, una ad est, l'altra ad ovest. Produce operetta, violini, giornali, teatro, cinema. Nei grandi ristoranti pranzano mature contesse con amanti molto più giovani di loro. Come accade per non molte città del mondo, Budapest innamora di sé i suoi abitanti, li invita a vivere su un fondale, nutre i propri stereotipi, non accetta la fine del tempo che fu. Ancora dopo la guerra, Hollywood portò sugli schermi i suoi personaggi, tirati a lucido come un'auto d'epoca: Il Principe e la Ballerina è del 1957. Laurence Olivier recita la parte del Reggente dei Carpazi, ingessato nella divisa e con il monocolo. Marylin Monroe è nella parte dell'americanina, all'improvviso al centro degli intrighi nobiliari. Lei lo chiama "Sua Reggenza" e lo invita, lui è inorridito, ad indire libere elezioni: ("Lo faccia, Sua Reggenza. Le elezioni sono uno spasso. Non si sa mai chi vince!"). A Mussolini, l'ammiraglio Horthy piaceva: un nobile massiccio e carico di medaglie, che aveva attraversato sul suo cavallo bianco il Danubio gelato, che parlava un italiano misto di dialetto veneto imparato sulle navi degli Asburgo. Con l'Ungheria di Horthy il fascismo italiano scoprì improvvisamente di avere tantissimi ed eterogenei legami; sembrò quasi la gioiosa agnizione di due fratelli separati. Il Risorgimento rappresentato da Kossuth, comuni tradizioni religiose risalenti al Medio Evo, interscambi artistici rinascimentali. Per gli ungheresi venne reso disponibile a Roma il magnifico palazzo Falconieri e l'ammiraglio Horthy ricambiò il favore facendo dell'ex palazzo del parlamento, costruito dal famoso architetto Mikiós Ybl, la sede dell'Istituto di cultura italiano e intitolando a Mussolini una delle piazze centrali di Budapest. A Roma e a Budapest si firmarono trattati commerciali ed esenzioni doganali, Fiume diventò nuovamente un porto comune italo-magiaro, l'Italia venne invasa da libri di pedagogia ungherese. Più ancora che in altre parti del mondo, i bambini italiani imparano a conoscere Budapest attraverso I ragazzi della via Pal di Ferenc Molnàr, tenera storia infantile di lealtà e di malattie polmonari, di amicizia, di divise e di bandiere cucite in casa intorno a un terreno incolto, ma buono per giocare a palla tra i caseggiati di Pest. Tipico prodotto dell'Ungheria di quei tempi, Ferenc Molnàr, figlio di un medico ebreo di Budapest, un giorno bussò a un giornale e si vide pubblicare una novella della domenica. Ebbe successo e si dedicò alla scrittura. Ebbe amori appassionati con una diva del teatro ungherese, amò l'Italia, tra le sue mogli ci fu un'italiana, si vide spesso al Lido di Venezia: un bell'uomo vestito di lino bianco, con il monocolo e il fazzoletto nel taschino e senza nessun problema a far conoscere ai giornalisti italiani la sua ammirazione per Mussolini. Nella storia


ungherese, pochissimo esplorata, del ventennio tra le due guerre, il regime dell'ammiraglio Horthy è conosciuto come "il regime fascista di Horthy". In realtà la politica ungherese fu molto più complessa. In Ungheria, fino a metà del 1944, venne conservato il regime parlamentare e si svolsero elezioni, benché non a suffragio universale. Alla Camera era rappresentato, tra gli altri partiti, anche il partito socialista. Nell'industria erano presenti i sindacati. Nello spirito della Camera dei Lord di Londra, nel 1926 venne istituita una "Camera dei Nobili" detta anche "dei Magnati", in cui sedevano i rappresentanti della nobiltà storica e delle professioni, funzionari dello Stato e i rappresentanti delle Chiese: la cattolica, innanzitutto; ma anche quella luterana e due rappresentanti della fede ebraica. Se il recupero delle terre perse con il trattato di Trianon era il rovello principale della politica ungherese, al secondo posto veniva la "questione ebraica", di cui si faceva un parlare quotidiano. In Ungheria, la "questione ebraica" si presentava in termini decisamente materiali. E paradossali. Gli ebrei, cinque per cento della popolazione totale del paese, affrancati dagli Asburgo da oltre cinquant'anni, godevano degli stessi diritti degli altri cittadini ed erano la "forza propulsiva" dell'economia ungherese. Budapest, o meglio, la sua parte destra, Pest, era una vera città ebrea, più compatta ancora di Varsavia. In una società di nobili di più o meno antichi lombi, di latifondisti assenteisti e di militari frustrati dalla sconfitta, gli ebrei rappresentavano la borghesia in ascesa. A Budapest questa presenza si traduceva in giornali, professioni liberali, banche, commercio, contatti economici e culturali all'estero e iniziative in tutti i settori moderni della vita, dalla stampa, al teatro, alla medicina, al cinematografo. La presenza ebrea negli Anni trenta a Budapest era stimata nel venti per cento della popolazione locale ed era assolutamente comune la visione di quartieri con le insegne ebraiche, di decine di sinagoghe e scuole, di numerosi quotidiani e periodici che si qualificavano come organi di stampa ebrei. Presenti in Ungheria da quasi mille anni, molti arrivati dalla Spagna dopo la cacciata decisa dai re cattolici nel 1492, affrancati nel 1867 dagli Asburgo dai vincoli che ne facevano cittadini senza diritti, gli ebrei magiari erano, nella capitale, del tutto "assimilati". Erano sempre più numerosi i matrimoni misti, nelle famiglie ebree era comune festeggiare il Natale e non pochi di loro si fregiavano di un titolo nobiliare. Membri a pieno titolo dell'esercito ungherese, avevano pagato con diecimila morti la loro tassa alla prima guerra mondiale e, se esisteva un'Ungheria di facciata fatta di medaglie e cerimoniali, era evidente a tutti che l'economia della nazione era imprescindibile dalla presenza degli ebrei. Nella capitale, sul Danubio, oltre l'isola Margherita, si ergeva Csepel, sede della più importante industria del paese, le acciaierie Manfred Weiss. Nella campagna, l'ascesa sociale degli ebrei emigrati era stata rapida. Arrivato dalla Galizia ed entrato a servizio del nobile come "l'ebreo di casa", il contabile che teneva in ordine i bilanci delle famiglie svagate, l'ebreo aveva ottenuto, in cambio dei suoi servizi, sempre maggiori quantità di terra, che era riuscito a far fruttare più di quanto facessero i suoi padroni. A Pest si ergeva il più grande Tempio europeo sulla via Dohàny, decine di sinagoghe erano presenti in tutti i quartieri, la squadra di calcio MTK era la formazione degli ebrei, così come la Honvéd era quella dell'esercito e la Ujpest quella dei gendarmi di polizia. Da sempre, per gli abitanti di Pest gli ebrei erano "parte del paesaggio". Ungheresi come i cattolici, anche se facevano festa il sabato e non mangiavano il maiale, ma più dotati per il commercio e per lo studio: insopportabili primi della classe e invidiati, eterni vincitori nei concorsi per i posti pubblici. Quello che Giorgio Perlasca vide quando arrivò a Budapest era in realtà l'immagine inconsapevole della vigilia di una catastrofe. Ultima capitale in Europa in cui le sinagoghe potevano essere liberamente frequentate, città rifugio per ebrei che erano riusciti a fuggire di fronte all'avanzata del Reich, a Budapest si potevano vedere nello stesso tempo vecchi ebrei con la "kippa" seduti al caffè, a discutere e a leggere giornali in yiddish, assolutamente convinti che quella sarebbe stata sempre anche la loro città, e bande di militanti del partito filonazista delle "Croci Frecciate" che marciavano per le strade annunciando la prossima "soluzione definitiva della questione ebraica". Ma tutto accadeva apertamente. Un "conflitto sociale" endemico che in Ungheria durava da vent'anni e che ora diventava più virulento. Ma pur sempre una questione ungherese, da risolvere in Ungheria. Se in Polonia l'antisemitismo i contadini lo succhiavano con il latte materno, se in Germania era stato instillato dall'aggressività del partito nazista, se in Italia era arrivato di colpo per decisione di Mussolini, in Ungheria esso era sempre stato un rompicapo. I nobili, ognuno dei quali, Horthy in testa, si dichiarava "antisemita", ammettevano candidamente che senza gli ebrei il paese sarebbe immediatamente andato a rotoli. Sulle conoscenze e l'abilità negli affari degli ebrei gli stessi nobili che, via via, erano stati nominati capi del governo, facevano affidamento per la politica economica e l'afflusso del capitale straniero. Le restrizioni da imporre agli ebrei erano quindi un problema di dosaggio, un argomento elettorale, un tema di propaganda. Tra la gioventù, specialmente. A partire dal crollo dell'impero, nella capitale cominciarono a ingrossarsi le giovani folle di disoccupati, con un titolo di studio, ma senza la previsione di una luminosa carriera. Causa della loro disoccupazione, naturalmente gli ebrei. Così nacque, tra i caffè e i viali, l'"Associazione Politica dei Laureati Disoccupati", che cominciò a stilare minuziose statistiche. A Budapest erano ebrei il sessanta per cento dei


medici, il cinquantatré per cento dei commercianti, il cinquantuno per cento degli avvocati, il trentasette per cento degli addetti all'industria mineraria, la più importante del paese, e il settanta per cento dei giornalisti. I "Laureati Disoccupati" chiesero di essere protetti per legge, ponendo un "numero chiuso" per gli ebrei. Intanto, in attesa del posto fisso e in noia del mondo immobile, i giovani budapestini passavano la vita tra i cinquecento caffè della capitale. Vi si triturava la giornata, ma vi nacquero anche il principale best seller europeo degli Anni Trenta, Un'avventura a Budapest di Ferenc Kórmendi, vivisezione di nevrotiche e meschine aspirazioni di successo, e si realizzò l'idea di dare all'umanità una penna rivoluzionaria. Opera di Làszlo József Biro, che, vagando tra un caffè e l'altro e discutendo dei progetti più assurdi, trasformò l'aristocratico pennino in una democratica pallina. E chi trovava la forza necessaria, prendeva per Trieste e da lì affrontava l'oceano. Fu una grande fuga, il sogno dell'America. Come era successo in Italia, all'inizio del secolo l'emigrazione fu massiccia, mezzo milione di persone. E poi continuò negli Anni venti e trenta. Si favoleggiava della terra nuova dove tutti gli uomini erano uguali e di città americane come Cleveland che erano diventate nuove città ungheresi. I giornali pubblicavano la storia fiabesca dell'ungherese József Pulitzer, arrivato in America a sedici anni, senza un centesimo e diventato il più importante editore di giornali di quel paese. Di Adolph Zukor (Cukor), il nipote del rabbino di Ricse, il paese del Tokaji, emigrato e diventato il re di Hollywood. Si diceva che chiunque fosse arrivato a Hollywood avrebbe avuto la possibilità di diventare una stella del cinema. Era partito anche un tale Bela Blasko ed era diventato famoso come Bela Lugosi, il famoso Dracula. Il cinema e l'America erano nel sogno di tutti, tanto che gli Studios di Zukor a Hollywood inalberarono un cartello per i nuovi arrivati: "Sei ungherese, e questo va bene. Ma se vuoi un lavoro, devi anche saper fare qualcosa." Ma negli Anni trenta, dagli Stati Uniti arrivarono anche il grande crollo finanziario e la Depressione. Il grande paese mise le quote: quasi impossibile essere accettati come emigranti, sempre più difficile trovare un impiego a casa. In Ungheria cominciarono ad agitarsi i militari e si agitava la bassa nobiltà. Lì vicino era andato al governo un caporale austriaco che diceva che la colpa di tutto era degli ebrei. Il suo libro, Mein Kampf, era a Budapest un best seller come in tutto il resto dell'Europa. Dall'establishment governativo emerse un oscuro capitano, Gyula Gómbós, che fondò il "Partito della Difesa della Razza", con l'obiettivo primo di espropriare tutti i beni degli ebrei. Ebbe seguito. Incominciavano a sorgere, oltre a quella dei "Laureati Disoccupati", organizzazioni culturali e sportive che esigevano l'allontanamento degli ebrei dalle cariche pubbliche, la confisca delle loro terre e la lotta al "capitalismo senza anima". Velocemente, tutta l'Europa si dimostrò pronta ad ascoltare le idee del caporale austriaco arrivato al potere a Berlino: i "giudei" sono la corruzione e governano il mondo, l'Europa deve risolvere la "questione ebraica". Il capitano Gómbós vantava i successi dei nazisti: lì facevano sul serio, attaccavano. Lì li cacciavano, gli ebrei, ma prima facevano loro versare tutte le loro ricchezze. E così si sarebbe dovuto fare in Ungheria. Fu il trionfo della statistica antisemita. Conti minuziosi informavano quotidianamente dei metri quadri che gli ebrei occupavano, degli ettari di terra che possedevano, delle proprietà che avevano acquisito. Ma tra gli ebrei ungheresi non si diffuse l'allarme. Eppure, il sionismo era nato proprio da un'idea di un giornalista di Budapest, Theodor Herzl. Alla fine del secolo precedente, aveva seguito, a Parigi, il processo contro il capitano Dreyfus ed era rimasto impressionato dall'antisemitismo diffuso nella società francese. Aveva concluso che gli ebrei avrebbero dovuto fondare una loro patria e l'aveva vagheggiata prima in Argentina, poi in Uganda e infine in Palestina, nelle terre spopolate della Bibbia. Aveva dei seguaci, a Budapest. Ma la sua azione era, in Ungheria, come nel resto dell'Europa, minoritaria. Per i dieci milioni di ebrei che popolavano l'Europa, dalla Polonia, all'Ungheria, alla Cecoslovacchia, all'Austria, alla Grecia, alla Jugoslavia, all'Italia, alla Francia, all'Olanda, i rispettivi paesi erano la loro patria, non ce n'era bisogno di una nuova. Le farneticazioni di Adolf Hitler sarebbero presto finite. Nel 1938, dopo l'Anschluss dell'Austria, alla vigilia della guerra, la condizione di vita degli ebrei europei era già drammatica e chi poteva, fuggiva. La situazione era tanto evidente che, su iniziativa del presidente americano Roosevelt, venne convocata ad Evian, in Francia, una conferenza internazionale che aveva all'ordine del giorno l'"assorbimento degli ebrei europei con lo status di rifugiati politici". Vi parteciparono rappresentanti di trentadue nazioni, ognuna delle quali presentò un piano per il "riassorbimento" che non vide mai la luce. Nel 1979, l'allora vicepresidente degli Stati Uniti, Walter Mondale, ricordò in un'intervista al "New York Times" quella riunione internazionale: 'Ad Evian cominciarono con grandi speranze. Ma, alla prova di dimostrazione di civiltà, fallirono. Il mondo civile si trincerò sotto il mantello del legalismo. Due nazioni dissero che avevano raggiunto il punto di saturazione per i rifugiati ebrei. Quattro nazioni dissero che avrebbero accolto solamente lavoratori agricoli specializzati. Una disse che avrebbe preso solo ebrei battezzati. Tre dichiararono che intellettuali e mercanti erano considerati indesiderabili. Un'altra nazione si disse convinta che l'afflusso di ebrei avrebbe portato un'ondata di antisemitismo. Un loro delegato pose così la questione: 'dal momento che non abbiamo problemi


razziali interni, voi comprenderete bene che non abbiamo nessuna voglia di importarne uno'. Dopo quelle tedesche del 1935, le prime leggi antisemite furono approvate in Ungheria nel 1938, sotto la spinta dei partiti di estrema destra e di ispirazione nazista. Fissarono delle "quote" per i "cittadini ungheresi di confessione israelita" in alcune professioni. Alla Camera dei Signori, i rappresentanti delle Chiese le accettarono come "il male minore" rispetto a quello che sarebbe potuto succedere. L'anno seguente venne proposta al parlamento ungherese una seconda legge antiebraica. Oltre ad imporre delle quote per l'esercizio di professioni, viene introdotta la qualifica di ebreo come colui che ha un genitore o due nonni ebrei. Il dibattito parlamentare durò mesi e fu un evento unico in tutta Europa. Nella storia delle legislazioni antisemite, infatti, l'Ungheria è il solo paese in cui queste vennero adottate non con atto di imperio, ma all'interno di una procedura parlamentare che durò anni e vide, vera e propria rappresentazione teatrale sull'orlo dell'abisso, propugnatori e oppositori, compromessi, ingenui entusiasti e Cassandre ovviamente non ascoltate. Se le prime leggi antisemite non destarono grande scalpore o paura, alla discussione delle seconde le tre più grandi organizzazioni ebraiche pubblicarono sui giornali di Budapest il seguente appello: E' questo ciò che si meritano gli ebrei ungheresi? La mutilazione dei nostri diritti civici, la limitazione del nostro diritto privato, le restrizioni sul nostro modo di vita, l'ostracismo contro la nostra gioventù? E' questo quello che si merita la comunità degli ebrei ungheresi, la cui unica volontà nel corso di una storia secolare è stata quella di mantenere la propria religione e di rimanere ungheresi, e solo ungheresi? Parlino per noi i campi di battaglia della guerra di Indipendenza, parlino le paludi di Volhynia e le rocce del Carso. Nelle trincee nessuno ci ha mai chiesto quale fosse la nostra religione. Non potremo essere separati dall'Ungheria, la cui lingua è la nostra lingua, la cui storia è la nostra vita. Come i nostri correligionari, ancora dopo secoli di esilio, hanno mantenuto la vecchia lingua spagnola, la cultura e l'amore per la loro antica patria, così noi rimarremo vigili per ottenere la nostra legittimazione e per la resurrezione dell'Ungheria. Durante la discussione parlamentare avvennero due episodi che emozionarono i cittadini di Budapest. Un giorno di gennaio la galleria riservata al pubblico nel palazzo del parlamento si riempì di ufficiali ebrei della riserva. Erano parecchie centinaia e ognuno di loro era venuto vestito in divisa, con le decorazioni e un segno nero di lutto. Stettero immobili durante il dibattito, in solenne e silenziosa protesta contro le nuove leggi. Pochi giorni dopo, il 3 febbraio 1939, un gruppo di militanti del partito delle "Croci Frecciate", simpatizzanti nazisti, attaccò con le armi i fedeli che uscivano, dopo la preghiera del sabato, dal Tempio di via Dohàny. Lanciarono granate. Ci furono diversi morti e tantissimi feriti, la grande maggioranza di loro erano vecchi. Le leggi passarono, di nuovo con l'opposizione delle Chiese che ottennero numerosi emendamenti a favore degli ebrei convertiti. Ma intanto l'Europa era cambiata. Hitler, dopo essersi annesso l'Austria, era confinante con l'Ungheria e ora si era anche alleato con Stalin. I filonazisti ungheresi, che negli ultimi anni avevano fondato tre partiti e crescevano in consensi, scesero in piazza ad applaudire il patto. Manifestarono per le vie di Budapest innalzando, l'uno accanto all'altro, i ritratti di Hitler e di Stalin. Applaudirono il patto tedesco-sovietico, suggello del "fronte comune degli Stati proletari contro le plutocrazie". Applaudirono l'Urss, sicuri che, ora che era stata liberata dall'influenza giudaica del trotzkismo, avrebbe intrapreso una politica antisemita ancora più efficace di quella avviata in Germania. Questo per quanto riguardava la piazza. Per il governo, la nuova amicizia tedesco-sovietica si tradusse nella restituzione da parte di Mosca delle bandiere sequestrate in battaglia all'esercito indipendentista di Kossuth nel 1848, in diversi accordi commerciali e in una simbolica cerimonia, a Leopoli, in cui vennero uniti i due tronconi ferroviari delle ferrovie magiare e di quelle sovietiche. Binari sui quali sarebbero passati, due anni dopo, i convogli per i campi di sterminio di Auschwitz e sui quali già nel 1941 cominciarono a essere deportati gli sconosciuti ebrei delle province orientali dell'Ungheria. Nell'estate del 1941, mentre Hitler avviava l'invasione dell'Unione Sovietica, il parlamento ungherese varava la terza legge antiebraica, che vietava i matrimoni tra ebrei e cristiani e prevedeva sanzioni in caso di relazioni sessuali tra ebrei e cristiani fuori dai legami del matrimonio. Venne chiamata "legge per la difesa della razza" ed equiparava l'ebraismo alla tubercolosi. Così come si vietava alle coppie di sposarsi senza esibire un certificato medico che attestasse l'assenza della Tbc, così si vietava agli ebrei di contrarre matrimonio con i cristiani. Ma, se il bacillo di Koch era documentabile al microscopio, il concetto di "ebreo" non risultò essere così facile da definire. Erano ebrei anche i cristiani figli dei quarantamila matrimoni misti che si erano celebrati negli ultimi quarant'anni? Era giusto proibire a queste duecentomila persone il diritto al matrimonio? Come li si doveva chiamare: Convertiti? Mezzosangue? Halbjuden? La razza sopravviveva al battesimo? Il battesimo era una medicina contro il bacillo dell'ebraismo? Il dibattito durò mesi, nelle due camere e il testo della legge fu più volte emendato. Si opposero, per assenza di "fondamento etico e di giustificazione umana", i deputati del partito nazional liberale. La destra puntò le proprie argomentazioni soprattutto contro i matrimoni misti, che permettevano l'ascesa degli ebrei lungo la piramide sociale e trasformavano così la "moralità magiara". Venne citata l'influenza nefasta del cinema, del teatro, della


musica e della letteratura ebrea, si raccontò di ragazze nate da famiglie illustri che si vergognavano se non erano in grado "di raccontare almeno duecentotrentacinque ingegnosi aforismi ebraici". Ad opporsi recisamente alle leggi, nella Camera dei Signori, furono i rappresentanti delle Chiese cristiane. Per il principe Primate d'Ungheria cardinale Giustiniano Seredi, lo Stato si stava ingerendo di problemi che spettavano a Dio e l'assimilazione era un processo da incoraggiare invece che rifiutare. Il vescovo calvinista Làszlo Ravasz dichiarò seccamente che "mai una formula chimica o biologica fornirà spiegazioni ammissibili in fatto di fenomeni spirituali o psicologici, quali fedeltà, onestà, giustizia, spirito di abnegazione o i loro opposti" e riaffermò che "la Sacra Scrittura insegna che il sacramento del battesimo opera una rinascita spirituale indipendente dal sesso, età, nazionalità e salute fisica". Il vescovo della Chiesa luterana, dottor Kapi, respinse la legge che era "in aperto contrasto con i principi della sua Chiesa". La legge infine passò. Per molti, in Ungheria, essa significò l'abbassamento della soglia della moralità, il bilancio passivo del popolo ungherese. Ma quei prelati e quei nobili della Camera dei Signori che si opposero, furono gli unici che lo fecero pubblicamente, in tutta l'Europa. Forse per rimorso, forse per impossibilità di applicazione, la legge che equiparava gli ebrei al bacillo di Koch venne sì approvata, ma si convenne di farla entrare in vigore solo dopo due anni. Quando Perlasca arrivò in Ungheria, si era nel mezzo di quella dilazione. Quella incerta sospensione in cui si agitavano odio, imbarazzo, inconsapevolezza, precipitò un anno dopo. Proprio quando la guerra stava per finire, proprio quando il nazismo aveva le settimane contate. La città di Budapest smise allora di essere una città, nessuno ebbe più l'autorità di farsi ascoltare. Tutti videro quello che stava succedendo, ma nessuno intervenne. A scrivere appelli, ad agire per impedire massacri, a procurare cibo, rimasero una decina di "estranei", diplomatici di nazioni neutrali nella guerra. Giorgio Perlasca, che a Budapest era arrivato dopo un lungo viaggio di allontanamento dalla guerra, se ne trovò nel vortice. Ebbe l'occasione di fuggire e non lo fece. Divenne invece uno di quei diplomatici. Uno dei più efficaci. Con una differenza: che nessuno gli aveva dato quel mandato. Non era un ambasciatore, né un console, né un incaricato di affari. Era semplicemente un impiegato della ditta SAIB lontano da casa.


CAPITOLO IV

SOTTO GLI OCCHI DISTRATTI DEL MONDO

Nell'aprile del 1943 Hitler convocò al castello di Klessheim, presso Salisburgo, l'ammiraglio Horthy, così come pochi giorni prima aveva convocato il rumeno maresciallo Antonescu. La situazione della guerra sul fronte orientale era pessima: le divisioni tedesche partite per invadere l'Unione Sovietica si erano prima arrestate e poi avevano patito una serie di mortificanti rovesci. Ungheria e Romania non erano più considerati alleati di ferro dell'Asse e a Berlino arrivavano sempre più di frequente voci di una possibile prossima defezione. Il colloquio tra il Fùhrer, che era accompagnato da Goebbels e von Ribbentrop, e Horthy, fu quanto mai esplicito e brutale. Hitler cominciò accusando gli ungheresi di aver combattuto male sul fronte orientale; Horthy gli rispose citando le cifre dei morti dell'esercito ungherese: 146.000, più 30.000 feriti, più 36.000 operai ebrei militarizzati mandati a combattere contro il nemico bolscevico. Poi Hitler passò ad affrontare l'argomento ebrei, inveendo contro l'ammiraglio per l'atteggiamento troppo tenero nei loro confronti. Li accusò di essere stati la causa della prima guerra mondiale, gli ricordò che erano stati gli ebrei ad aver tentato di portare la rivoluzione bolscevica in Ungheria con la repubblica di Bela Kun e gli comunicò che erano gli ebrei di Budapest a dare indicazioni agli alleati per i bombardamenti della città. La risposta del vecchio ammiraglio fu altrettanto esplicita. Ricordò a Hitler che l'Ungheria aveva sul proprio territorio duecentomila ebrei più di quelli che aveva la Germania quando il partito nazista aveva preso il potere dieci anni prima. Ripeté al suo alleato quanto usava candidamente dire a tutti: "Gli ungheresi sono un popolo nobile, sono dei gentiluomini che da mille anni considerano una cosa sporca maneggiare il denaro. E' un lavoro che abbiamo sempre lasciato fare agli ebrei e il risultato è che se ora essi non ci fossero, l'economia ungherese crollerebbe. Possiamo fare in modo di allontanarli dalle posizioni pubbliche, e lo abbiamo fatto con ben tre successive leggi antisemite, ma non possiamo fare di più." "Cosa dovremmo fare?" chiese l'ammiraglio. "Dovremmo liquidarli, assassinarli? Tra l'altro, sarebbe una operazione impossibile." Hitler non condivideva le ragioni di tante titubanze. "Non c'è bisogno di assassinarli," gli spiegò. "Basta spedirli in campi di concentramento o a lavorare nelle miniere." Horthy non era d'accordo: "Non posso fare di più di quanto abbiamo fatto. Li abbiamo privati dei mezzi di sostentamento, non possiamo mica bastonarli a morte!" Von Ribbentrop intervenne nella discussione chiarendo all'alleato refrattario che le scelte possibili erano solamente due: "o distruggerli o mandarli nei campi di concentramento". Hitler specificò meglio: "Gli ebrei sono dei parassiti. Dovete fare come in Polonia. Gli ebrei che rifiutano di lavorare, vengono fucilati, mentre quelli che non sono abili al lavoro, vengono lasciati morire". Poi espose anche a Horthy la sua nota teoria: "Gli ebrei sono come i bacilli della tubercolosi, sono contagiosi. Non bisogna farsi prendere dalla compassione, perché in natura anche creature innocenti, come i conigli o i cervi vengono decimati se questo serve per impedire distruzioni. E gli ebrei sono peggio di loro, perché cercano di imporci il bolscevismo. Si ricordi che le nazioni che non eliminano gli ebrei sono destinate a perire". L'ammiraglio Horthy tenne duro. Alla fine dell'incontro, sul suo diario Goebbels annotò: "Horthy è legato agli ebrei attraverso la sua famiglia... Ha portato molte scuse umanitarie. Il Fùhrer ha fatto ogni sforzo, ma è riuscito a convincerlo solo in parte". Nel luglio dello stesso anno, gli eserciti inglese e americano sbarcarono sulla costa sud della Sicilia e cominciarono l'occupazione del territorio italiano incontrando scarsissima resistenza. Il 25 luglio, dopo un voto del Gran Consiglio del Fascismo che chiese la sostituzione del duce, il re Vittorio Emanuele III esonerò Mussolini e lo fece arrestare. Il partito fascista venne sciolto e capo del nuovo governo venne nominato il maresciallo Badoglio. L'8 settembre 1943, Badoglio annunciò l'armistizio italiano, nel totale sbandamento dell'esercito. Nel giro di pochi giorni, centinaia di migliaia di soldati italiani, sul fronte orientale, nei Balcani e in Grecia, vennero arrestati dagli ex alleati tedeschi e cominciò la loro deportazione in Germania. La sera dell'8 settembre, il commerciante italiano Giorgio Perlasca stava cenando in un bel ristorante di Budapest sull'isola Margherita, quando un cameriere gli diede la notizia: "Fortunati gli italiani. Per voi la guerra è finita." Telefonò all'ambasciatore, Filippo Anfuso. La consegna, vaga, era quella di "difendere gli interessi del Regno". Nella notte Perlasca riuscì a fermare i suoi dodici vagoni di


bestiame prima che passassero il confine con il Reich e la mattina si recò in banca ad annullare le firme di pagamento. Nei giorni successivi per i duemilacinquecento italiani in Ungheria venne il momento delle decisioni. La maggioranza erano militari e si divisero tra quelli che furono mandati a scavare trincee al forte di Gyór e quelli che aspettarono gli eventi, ospiti di qualche famiglia ungherese. Tra i civili, la maggioranza si schierò con il re e con Badoglio. Ma non l'ambasciatore Filippo Anfuso che, appresa la notizia della liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, chiuse l'ambasciata ai "traditori" e la fece sorvegliare dalle SS. Contro la neonata Repubblica di Salò si schierarono anche i dirigenti dell'Istituto italiano di Cultura, che venne difeso dalla polizia ungherese da un attacco di fascisti italiani. Per alcune settimane esistettero così due legazioni, tra le quali il governo ungherese non sapeva scegliere. Anfuso se ne partì per Berlino, alle dirette dipendenze dei nazisti e a dicembre la Repubblica di Salò mandò a Budapest il proprio ambasciatore, Raffaele Casertano. Per Giorgio Perlasca e per tutti quelli come lui, la vita andava facendosi complicata, tra la possibilità crescente ogni giorno di essere deportati e la speranza, che non riusciva ad avverarsi quasi mai, di ottenere un visto per arrivare nell'Italia meridionale. All'inizio del 1944, l'Ungheria si trovò ad essere al centro della guerra. L'Armata Rossa continuava ad avanzare e si stava avvicinando alla Galizia, mentre ormai, dopo quello italiano, si dava per sicuro il prossimo disimpegno di Budapest. Non erano un mistero per i circoli diplomatici e per i comandi militari, sia nella capitale ungherese che a Berlino, i contatti sempre più frequenti del primo ministro ungherese conte Kallai per trattare con inglesi e americani una pace separata. Hitler convocò nuovamente Horthy al castello di Klessheim il 18 marzo e gli impose di nominare un governo fedele alla Germania e di togliere il potere al conte Kàllai. Horthy fu costretto ad accettare. Nello stesso giorno, otto divisioni tedesche entrarono nei confini dell'Ungheria, in "fraterno aiuto". Sostenuti dall'esercito e dalla polizia ungherese, i militari tedeschi cominciarono ad arrestare oppositori di ogni sorta, dagli aristocratici conservatori ai deputati socialdemocratici, agli ebrei. L'ex primo ministro Kàllai si rifugiò nella sede diplomatica della Turchia. Insieme alle truppe, entrò in Ungheria il Sondereinsatzkommando (Gruppo di Operazioni Speciali) del tenente colonnello Adolf Eichmann, incaricato da tre anni degli aspetti operativi della "soluzione finale della questione ebraica". Entrarono a Budapest con una colonna lunga un miglio e stabilirono il loro quartier generale all'hotel Hungaria. Dei milioni di ebrei che vivevano in Europa appena quattro anni prima, nella primavera del 1944 erano rimasti solo i settecentomila residenti in Ungheria. Gli altri erano già stati sterminati, a partire dagli abitanti della Grande Germania, per continuare con quelli della Serbia, della Croazia, della Polonia, della Francia, dell'Olanda. Dal settembre del 1943, anche del centro e del nord Italia. L'occupazione tedesca dell'Ungheria con la presenza ostentata dell'organizzazione Eichmann non poteva essere più esplicita: nel calendario dello sterminio degli ebrei europei, era giunto il turno dei magiari. E i tempi dovevano necessariamente essere rapidi perché le sorti della guerra, settimana dopo settimana, volgevano a favore degli Alleati. Tutto quello che il mondo necessitava di sapere sui propositi dei nazisti nei confronti degli ebrei, si sapeva. Due anni prima il Nunzio apostolico a Bratislava, monsignor Giuseppe Burzio aveva fatto arrivare in Vaticano notizie che riferivano che gli ebrei deportati verso est venivano "gassati". Già da due anni era noto l'impiego del gas Zyklon B e si conoscevano numerosi dettagli della costruzione nei campi di concentramento di forni crematori. Notizie di prima mano, testimonianze oculari erano arrivate a Londra fin dal 1942 sulla strage quotidiana compiuta nel ghetto di Varsavia e sui treni che da lì partivano ogni giorno verso i campi di sterminio. Nell'aprile del 1943 si era saputo della insurrezione armata degli ebrei del ghetto di Varsavia, cui era seguita, dopo alcuni giorni di combattimento, la distruzione totale del ghetto ad opera del generale delle SS Stroop. Da Istanbul, dove era Delegato apostolico, monsignor Angelo Roncalli nel luglio del 1943 aveva fatto pervenire in Vaticano una nota in cui si affermava che "milioni di ebrei erano stati inviati in Polonia e lì annientati" e lo aveva denunciato senza perifrasi anche all'ambasciatore tedesco ad Ankara, Von Papen. Nello stesso periodo si era adoperato per permettere ad un piroscafo carico di bambini ebrei di attraversare lo stretto dei Dardanelli e di attraccare in un porto neutrale. Ben conscio di quello che stava succedendo teneva rapporti stretti con le organizzazioni sioniste e già dall'inizio del 1944 si adoperò per gli ebrei ungheresi. All'inizio del 1944 esponenti della resistenza polacca avevano fornito agli Alleati le mappe dei campi e l'indicazione delle vie ferroviarie di trasporto verso Birkenau. Avevano supplicato l'aviazione alleata perché facesse cessare le deportazioni bombardando stazioni e binari, avevano chiesto che gli aerei alleati lanciassero sulla Germania milioni di volantini informando i tedeschi di quello che stava succedendo e minacciando rappresaglie. Nulla, assolutamente nulla di tutto quanto proposto venne messo in opera o semplicemente tentato. Non ci fu alcun progetto militare o piano strategico che tenesse conto della "variabile" dello sterminio in atto; le scadenze di una guerra che procedeva con successo non vennero variate. Quei milioni, che per i nazisti erano dei vivi da uccidere, per gli Alleati erano già morti. Giorgio Perlasca venne svegliato la mattina del 14 marzo nella pensione Danubio Blu dal suo amico professor D'Alessandro. "Sono arrivati i tedeschi. Scappa, perché ti vogliono arrestare."


Perlasca girò per Budapest, dormendo ogni notte in un posto diverso. La città era cambiata, i militari tedeschi avevano preso possesso delle strade. Nel centro di Budapest vide un ragazzino di una decina d'anni fuggire e poi cadere colpito da un colpo di fucile. Si avvicinò, insieme ad altri e domandò che cosa era successo. Un uomo gli rispose laconicamente: "era ebreo". Il 5 aprile, la radio e i giornali pubblicarono la notizia sull'obbligo per gli ebrei di portare una stella gialla ben visibile sul vestito. Vide uomini e donne che giravano per le vie, aggrediti e insultati. Non sapeva dove andare e sapeva di essere ricercato. "Le voci che circolavano erano brutte, non si sapeva che soluzione scegliere. Mi ricordo di uno che conoscevo, si chiamava Turolla, era il rappresentante della Stock di Trieste. Lui prima andò a dormire fuori, ma dopo pochi giorni tornò a casa, pensando di essere al sicuro. E invece, lo arrestarono. L'ho rivisto dopo la guerra. L'avevano portato a Mauthausen, e di quel pezzo d'uomo era rimasta una larva." Un documento utile, Perlasca ce l'aveva; un attestato che gli era stato consegnato a Barcellona, quando era ripartito dopo la guerra di Spagna. Il foglio diceva: "Caro camerata, in qualsiasi parte del mondo tu ti troverai, rivolgiti alla Spagna". Così Perlasca si rivolse all'ambasciata di Spagna, retta da Angel Sanz Briz, primo segretario. Trovò alloggio in una villa che aveva lo status della extraterritorialità. Lì trovò altre persone che si erano rifugiate, tra cui la contessa Dessewfy, il cui marito, deputato, si era dato alla macchia. Erano i proprietari di "Kis Ujsàg", uno dei più importanti quotidiani di Budapest. Angel Sanz Briz fu molto gentile con lui. Perlasca rimase nella villa per dieci giorni, durante i quali valutò la possibilità di ottenere una carta che gli permettesse di arrivare nell'Italia del sud. Ma non era possibile, e allora prese la decisione di consegnarsi e di farsi inviare all'internamento, come gli altri italiani, diplomatici o funzionari statali, presenti in Ungheria. Così arrivò al campo di internamento di Kékes e quando lo ricorda, Perlasca non può che sorriderne: "Era un posto meraviglioso, ci davano da mangiare bene, ci davano da fumare, la gente era gentile con noi". E la moglie, quando lo sente raccontare, aggiunge: "Già, e gli cantavano anche una canzoncina, a mio marito: Perlasca, Perlasca, ogni donna ci ricasca..." Budapest era diventata irriconoscibile. Il nuovo governo aveva cominciato ad agire davvero per "risolvere", secondo i desideri tedeschi, "la questione ebraica in Ungheria". Dalle province a est, nel silenzio generale, partivano quotidianamente i convogli organizzati da Eichmann verso i campi di annientamento in Polonia; gli ebrei dei villaggi che riuscivano a fuggire, cercavano rifugio nella capitale, considerata l'ultimo porto sicuro. Arrivavano con ogni mezzo, vestiti come gente di campagna, impauriti, preda spesso immediata delle bande dei Nyilas. Parlavano uno strano dialetto, non sapevano dove nascondersi. Dall'hotel Hungaria Eichmann dettava ogni giorno le sue condizioni al Consiglio Ebraico: denaro da consegnare in poche ore, edifici da sgombrare, elenchi di uomini e donne abili al lavoro da inviare in Germania per contribuire allo sforzo bellico. Il Consiglio collaborava. Per la città si vedevano colonne di uomini che partivano a piedi, verso Vienna o verso le miniere della Croazia. All'inizio dell'estate venne deciso che gli ebrei di Budapest si trasferissero, nel giro di quarantotto ore, in edifici appositi contrassegnati sul portone da una grande stella gialla. Giornali inglesi e svizzeri che ricevevano corrispondenze da Budapest indicarono in questo provvedimento che veniva dopo l'identificazione fisica sui vestiti, il chiaro segnale che la deportazione era prossima. Il 16 giugno, alla presenza di numerosi militari e funzionari civili tedeschi venne organizzato a Budapest il rogo dei libri scritti da autori ebrei, ungheresi o stranieri. Il governo ne aveva compilato un dettagliato elenco, dando quindici giorni di tempo ad ogni libreria, biblioteca, scuola o altra istituzione per consegnare i volumi. La lista comprendeva centoventi autori ungheresi e centotrenta stranieri; i libri raccolti furono 447.627 e occuparono lo spazio equivalente a ventidue carri merce. Scaricati nella piazza vennero bruciati tra gli applausi, perché finalmente l'Ungheria si liberava degli influssi malefici dell'ebraismo. La cerimonia venne filmata: bruciarono per ore testi di letteratura e di medicina, di politica, dell'aborrita psicanalisi, raccolte di poesie. Bruciarono, a non molti isolati di distanza dalla via Pal, anche I ragazzi della via Pal di Ferenc Molnàr. Tra i testi italiani, bruciarono le opere di Guido da Verona, che a Budapest erano popolarissime. Nell'estate si diffusero le voci più terribili. Chi era riuscito a scampare dalle province orientali, raccontava delle deportazioni e delle uccisioni in massa, ma si trovava di fronte cittadini non disposti a credere a quelle parole, o a dichiarare che quanto avveniva nelle campagne, mai sarebbe potuto succedere nella capitale, città formalmente aperta, piena di stranieri, di funzionari della Croce Rossa e di legazioni diplomatiche di paesi neutrali. La città venne bombardata più volte dagli aerei alleati e Nyilas e comando tedesco sparsero la notizia che gli obiettivi erano indicati ai piloti dagli ebrei della città. L'esercito sovietico avanzava lungo la pianura, accompagnato da racconti di distruzioni e stupri. Ma era da loro, comunque, che dipendeva la fine della guerra, visto che in un arrivo degli americani da ovest non si poteva sperare. Budapest viveva sull'orlo del baratro, ma ancora fingeva che non fosse vero. La domenica si giocavano regolarmente le partite del campionato di calcio e i famosi caffè e night club lungo il Danubio erano ricolmi: all'Arizona, sera dopo sera, le ballerine calavano tra i tavoli avvinghiate ai lampadari.


Da parte degli ebrei ricchi di Budapest poco o nulla venne fatto per avvertire la comunità del pericolo, anche se i membri del Consiglio Ebraico nominato da Eichmann erano al corrente di quanto andava succedendo. Samu Stern, il capo del Consiglio, aveva ascoltato il racconto di due prigionieri riusciti a scappare da Auschwitz. Rudolph Kasztner, uno dei capi dell'organizzazione sionista, venne informato a maggio, direttamente da Dieter Wisliceny, vice di Eichmann, della decisione della "deportazione totale" degli ebrei ungheresi. Altri dirigenti della comunità avevano saputo già da tempo del destino degli ebrei di Slovacchia o di Polonia. Eppure il Consiglio Ebraico collaborò, nella illusione che "Budapest fosse diversa". Così, tra maggio e giugno, tra riunioni ufficiali all'hotel Hungaria e abboccamenti semiclandestini al night club Arizona, si svolsero alcune delle più impensate e oscure trattative segrete tra le SS di Eichmann e vari spezzoni della comunità ebraica, che coinvolsero la parte più benestante della popolazione ebrea: soldi in cambio di vite. Un elenco di millesettecento ebrei ricchi di Budapest che Eichmann si disse disposto a far partire per la Svizzera dietro il pagamento di mille dollari a testa. Un progetto di riscatto di ebrei di Budapest in cambio di camion per l'esercito tedesco. Soldi in cambio di promesse di trattamento di favore nei campi di concentramento. L'episodio più clamoroso, reso noto dopo la guerra, riguardò uno dei nuclei familiari più importanti della capitale, le famiglie Chorin, Mauthner, e i baroni Kornfel e Weiss, titolari della grande acciaieria "Manfred Weiss" sull'isola di Csepel, e di altri impianti siderurgici, miniere di bauxite e di una fabbrica di aeroplani. Poco dopo il loro arrivo, gli uomini di Eichmann sequestrarono diverse donne delle famiglie e le trasportarono a Vienna. Poi si dissero disposti a trattare. Nel giro di sei settimane, gli avvocati delle quattro famiglie e i legali di Eichmann e Himmler si accordarono in questo modo: la proprietà di tutto il complesso industriale, che occupava quarantamila dipendenti, passava sotto il controllo delle SS, rappresentate dal Standartenfùhrer Kurt Becher, agente economico di Himmler. In cambio, le SS permettevano la partenza di quarantasette membri delle quattro famiglie (trentotto ebrei e otto cristiani) verso Svizzera e Portogallo. Ai fuoriusciti si decise di corrispondere la somma complessiva di seicentomila dollari e ducentocinquantamila marchi e per Kurt Becher, il cinque percento a titolo di commissione. L'accordo, supervisionato a Berlino da Hitler, venne firmato il 17 maggio del 1944, proprio mentre la deportazione dalle province orientali verso i campi di concentramento era in pieno sviluppo. Quella mattina, travestiti e con documenti falsi, i quarantasette partirono in treno per Vienna. Qui nove membri vennero trattenuti come ostaggi per assicurarsi che il patto non venisse svelato. Il 25 giugno, con due voli speciali Lufthansa il gruppo venne trasportato a Lisbona, da dove uscirà l'unica notizia su tutto l'affare: un dispaccio dell'agenzia Reuter che informava dell'arrivo nella capitale portoghese di "un gruppo di miliardari ungheresi". Dei seicentomila dollari promessi, le SS ne trattennero i due terzi, per "spese impreviste". Ormai quello che stava avvenendo in Ungheria non poteva più essere nascosto. Il presidente americano Roosevelt, papa Pio XII, il cardinale Spellman da New York e il re di Svezia inviarono espliciti messaggi a Horthy, pubblicamente mettendolo in guardia dal continuare la persecuzione contro gli ebrei. Il 7 luglio, quando ormai quattrocentoquarantamila ebrei delle province erano stati deportati, Horthy ordinò che si ponesse fine ai trasporti. Restavano ancora duecentotrentamila ebrei nella capitale. Il 18 luglio, il reggente propose attraverso la Croce Rossa un piano di emigrazione che prevedeva tredicimila ebrei in Svizzera, diecimila bambini in Svezia, cinquemila ebrei negli Stati Uniti e permessi di transito per raggiungere la Palestina attraverso i Balcani con i permessi dei governi rumeno, bulgaro e turco. Sia gli Stati Uniti che l'Inghilterra reagirono flebilmente, il secondo paese preoccupato visibilmente di una ulteriore emigrazione in Palestina che avrebbe turbato gli equilibri del suo protettorato. E questo, nonostante le notizie ormai quotidiane, dalle trasmissioni della BBC, ai dispacci della United Press, alle corrispondenze del "New York Times" che davano per "imminente", o "già in corso lo sterminio degli ebrei ungheresi". Il 24 luglio, l'Armata Rossa liberò il campo di concentramento di Majdanek, alla periferia di Lublino e vi trovò quello che i nazisti non avevano fatto in tempo a distruggere: baracche, un forno crematorio e una camera a gas intatti. Per la prima volta il mondo aveva una prova concreta di quello che significava "il viaggio degli ebrei". Il 1 ° agosto, sul "New York Times", si poteva leggere un articolo, pubblicato senza particolare rilievo nelle pagine della cronaca cittadina: Angosciati all'idea che per il giorno in cui la guerra sarà vinta, la grande maggioranza della popolazione ebrea dell'Europa sarà stata sterminata, una folla di quarantamila ebrei americani si è riunita ieri pomeriggio a Madison Square Park, chiedendo concrete iniziative per salvare il più alto numero possibile di ebrei nelle zone occupate dai nazisti. Una grande folla compatta ha sostato per due ore sotto un caldo opprimente ascoltando gli appelli degli oratori e occupando tutto lo spazio di Madison Avenue tra la 23esima e la 25esima strada e riempiendo anche tutti gli spazi del Madison Park... La manifestazione, organizzata dall'American Jewish Conference, si proponeva di forzare la mano alla presidenza perché accettasse il piano Horthy e soprattutto non lesinasse i visti di ingresso per gli ebrei negli Stati


Uniti e si approntassero dei "free ports" (campi di accoglienza e di smistamento) in Turchia per permettere agli ebrei dei Balcani di arrivare in Palestina. Ma il presidente Roosevelt esitava a prendere queste ovvie misure, per ragioni molto poco nobili. Temeva infatti che una politica apertamente favorevole agli ebrei europei gli avrebbe nuociuto nelle elezioni del novembre. Temeva che gli fosse contestata una politica di immigrazione e di aizzare negli Stati Uniti un antisemitismo esistente e neppure troppo latente. Tra i molti che protestarono e sottolinearono la gravità di un simile atteggiamento, lo scrittore I. F. Stone, che sulla rivista "The Nation" così dipinse la situazione: Ci sono persone che dicono che il presidente non può rischiare una mossa di questo genere prima delle elezioni. Credo che questo sia un insulto al popolo americano. Non credo che nessuno, se non una minoranza di bigotti senza fede, obietterebbe al fatto di dare ad alcune migliaia di rifugiati un attimo di respiro nella loro fuga dall'oppressione. Qui si tratta del coraggio e della buona fede di Mr. Roosevelt. Ciò che è chiamato a fare non è altro che quello che Franco, sì, Franco, ha fatto alcuni mesi fa. Franco ha allestito "free ports", campi di internamento, per i rifugiati che arrivavano sul suo territorio; rifugiati, ricordiamolo, che scappavano dal suo alleato e patrono, Hitler. Conoscendo l'odio maniacale del Fuhrer per gli ebrei, questa gentilezza di Franco ebbe bisogno di più coraggio di quanto ne abbisogni Roosevelt per fronteggiare un pugno di editoriali, che forse gli verrebbero da parte di giornali conservatori, come la "Chicago Tribune". Dico forse, perché non so nemmeno se il colonnello Mac Cormick, il proprietario della "Chicago Tribune", sarebbe in realtà ostile. Il poco che gli Alleati fecero per gli ebrei ungheresi fu un invito al potenziamento e a un maggiore attivismo della Croce Rossa e delle sedi diplomatiche neutrali presenti a Budapest. L'unico risultato degno di nota fu però un'iniziativa del re di Svezia. Il 9 luglio 1944 arrivò in Ungheria uno strano giovane, Raul Wallenberg, membro di una delle più ricche famiglie svedesi. Digiuno di diplomazia, aveva accettato con entusiasmo un incarico quanto mai drammatico e vago: fare qualsiasi cosa, pagare, promettere, corrompere, pur di ottenere la salvezza del maggior numero di ebrei ungheresi. I soldi venivano dalle organizzazioni ebraiche e dai sindacati americani. Di tutte queste trattative, la popolazione di Budapest sapeva ben poco. Men che meno sapeva Perlasca, chiuso nella "piccola oasi" dell'internamento di Kékes. Con l'autunno anche lì però arrivarono i rumori della guerra. Il gruppo degli italiani venne diviso, Perlasca venne trasferito a Cakanydorozio insieme ad altri, controllati da un comandante dei carabinieri; ancora ben trattati, ma ormai molto preoccupati per il futuro. Si pensava che l'avanzata sovietica avrebbe trascinato gli italiani internati in Germania, così come vi erano stati deportati i militari italiani dopo l'8 settembre. I tedeschi li consideravano dei traditori e dicevano apertamente che godevano di troppi privilegi. Per questo il 13 ottobre, Perlasca e altri tre amici italiani decisero di tentare di fuggire verso Budapest, con il treno della sera. Ma non ce ne fu bisogno. Dall'internamento Perlasca riuscì ad andarsene su una macchina diplomatica svedese: un telegramma del ministero degli Interni permetteva al signor Giorgio Perlasca quindici giorni di permanenza a Budapest per essere sottoposto ad esami clinici. Dopo cinque ore di viaggio, arrivarono nella capitale alla sera, e passando davanti al Castello notarono un fatto strano: i soldati a guardia della residenza dell'ammiraglio Horthy imbracciavano la mitragliatrice. "Segno che Horthy ha firmato l'armistizio", commentarono. Un armistizio con l'esercito tedesco in casa. Un mese prima, il 15 settembre, al Castello era salito un distinto ingegnere civile, il dottor Otto Komoly, presidente della Associazione sionista ungherese, presidente del Comitato internazionale per gli affari ebraici della Croce Rossa e membro del Consiglio Ebraico. Era uno dei pochi ebrei che ancora poteva circolare abbastanza liberamente. Perfettamente al corrente di quanto stava succedendo, da mesi cercava ogni possibilità di salvataggio per gli ebrei ungheresi, trattando con chiunque potesse in qualche modo essere utile. Quel giorno era riuscito ad avere un appuntamento con Mikiós Horthy jr., il figlio dell'ammiraglio, del quale erano conosciute le posizioni antinaziste. La proposta che Komoly si apprestava a fare era realistica: un commissario del governo, da nominare senza troppa pubblicità, con il compito di diminuire man mano gli eccessi delle leggi antisemite, in modo da ricreare progressivamente una coesistenza tra ebrei e ungheresi. Mikiós Horthy si disse interessato e gli chiese di preparargli un testo scritto. Poi, gli si confidò. Il dialogo tra il dirigente sionista e il nobile ungherese venne tutto trascritto da Komoly nel suo diario. Horthy cominciò dicendogli: "Per nascita ed educazione, io sono un antisemita. E non potrei essere diverso, visto come si parlava degli ebrei in casa mia. Per esempio, sarebbe inconcepibile che io sposassi una donna ebrea, o che i miei figli avessero del sangue ebreo. Ma, veda, crescendo mi sono trovato coinvolto nella vita economica. Avevo una ditta, per esempio, che non era in grado di ottenere una licenza di esportazione dal ministero. Ed ecco che arriva uno dei tanti Grosz o Kohn e ottiene il permesso. Ma perché a noi il permesso non l'hanno dato? Ma è semplice, perché il consigliere ministeriale che guadagna 600 pengò al mese avrà detto: 'per la paga che mi danno, non mi prendo questa seccatura, tanto a me non viene in tasca niente'. Ma poi viene l'ebreo e gli allunga un po' di soldi perché si passi una bella serata allegra, ed ecco che per lui il permesso salta fuori. Vede, i nostri funzionari non hanno alcuna


considerazione per gli interessi economici del paese. Se fosse per loro, il paese potrebbe andare in fallimento. Per questo noi abbiamo avuto bisogno degli ebrei e loro, badando ai propri interessi, hanno anche fatto avanzare gli interessi della nazione... E adesso siamo a questo punto. Abbiamo fatto molti errori", anche riguardo alla questione ebraica. Non si sarebbe dovuto permettere che le cose arrivassero a questo punto." Komoly ammise che anche da parte degli ebrei c'erano stati degli errori, ma che bisognava capirli alla luce di duemila anni di oppressione. Al che il giovane Horthy riprese: "Certo, certo. Tutti odiavano gli ebrei, ma è anche vero che tutti avevano un ebreo in casa ed era quello che sapeva come fare andare avanti la baracca". Prese a recitare, cambiando voce a seconda delle parti: "A disposizione, signor conte. Cosa posso fare per lei?" "Ah, sei di nuovo qui, ebreo puzzolente. Fammi questo e fammi quello!" E così l'ebreo si prendeva carico di ogni cosa senza che il conte dovesse preoccuparsi di nulla continuando a fare la bella vita. Certo, certo, non tutti gli aristocratici sono così, ce ne sono anche di quelli perbene... Ma poi la situazione cambiò, l'ebreo diventò ricco e il conte andò in malora, e non fu più in grado di cambiarsi il colletto della camicia ogni giorno, mentre l'ebreo intanto si era fatta una splendida casa. Allora il conte andava a casa dell'ebreo quando questo dava una festa. E' naturale che con il tempo l'odio verso gli ebrei cresca da tutte le parti. Komoly allora spiegò a Horthy jr. i fondamenti del sionismo, l'ideale di una patria in Palestina e lo sondò sulla possibilità di favorire un'emigrazione degli ebrei in Palestina. Horthy lo interruppe: "Noi abbiamo bisogno degli ebrei, io sono uno sportivo e so che i record si ottengono solo quando c'è competizione. L'ungherese ha bisogno dello stimolo che l'ebreo rappresenta e quindi l'emigrazione deve essere regolata a seconda delle necessità della nazione. Se faremo bene, in capo a una o due generazioni riusciremo ad insegnare agli ungheresi come confrontarsi con l'economia, così come l'ha imparato l'aristocrazia inglese". Poi Horthy lo congedò benevolmente, assicurandogli che avrebbe letto attentamente la sua proposta, ma dicendogli: "E' troppo tardi, ormai. Io non credo che riusciremo ancora a salvare qualcosa". Tre giorni dopo, istruito personalmente da Hitler, il maggiore Otto Skorzeny, lo stesso che aveva liberato Mussolini dal Gran Sasso un anno prima, ricevette l'incarico di eliminare Mikiós Horthy jr., considerato un elemento importante della resistenza ai nazisti, in contatto con dirigenti ebrei e con emissari di Tito - e di preparare l'ascesa al potere degli uomini delle "Croci Frecciate". Il 15 ottobre, la data scelta dall'ammiraglio Horthy per annunciare l'armistizio con i sovietici, nelle prime ore del mattino un commando di Skorzeny penetrò nel palazzo reale e catturò Mikiós Horthy jr. Dopo aspri scontri intorno al palazzo, Horthy jr. fu rapito, si dice arrotolato in un tappeto. Nonostante il rapimento del figlio, il vecchio ammiraglio Horthy tenne fede alla sua promessa e fece trasmettere alla radio un breve testo in cui annunciava che l'Asse aveva perso la guerra, e che gli ungheresi smettevano di combattere contro l'Armata Rossa.


CAPITOLO V

IL FALSO CONSOLE SPAGNOLO

Il testo che annunciava l'armistizio fu letto alla radio dall'ammiraglio Mikiós Horthy all'una. Dieci minuti dopo la notizia che la guerra era finita cominciava a diffondersi per la città. Nel quartiere Ferencvàros, dove migliaia di cittadini erano andati allo stadio per la partita contro l'jpest, i giocatori si portarono al centro del campo e gli spettatori si alzarono appena l'altoparlante annunciò il comunicato del reggente. La partita venne sospesa e la gente in festa cominciò a uscire dallo stadio. Ma fu soprattutto nelle "case con la stella gialla" che si diffuse l'euforia incontrollabile. I cortili si riempirono e si danzò di gioia, le stelle gialle venivano strappate dai vestiti. Cinque ore dopo, all'euforia si sostituì il panico. Unità delle SS presero possesso dei punti nevralgici della città e i. militanti delle "Croci Frecciate" incominciarono a lanciarsi sui loro obiettivi. Il maggiore Làszlo Ferenczy occupò la sede della radio e di lì, incessantemente, cominciò a lanciare questo appello: "Di fronte all'eterno pericolo russo e per la salvaguardia della civiltà cristiana e occidentale, l'Ungheria continua la lotta fianco a fianco dei suoi fratelli d'arme tedeschi". A sera veniva dato l'annuncio che il maggiore Ferenc Szàiasi, capo del partito delle "Croci Frecciate" si era proclamato reggente, in nome della continuazione della guerra e che presto avrebbe formato un nuovo governo. Poi, sempre nuovi annunci. Un altro comunicato di Horthy, chiaramente estorto, che approvava la formazione del nuovo governo Szàiasi e annunciava la sua partenza dall'Ungheria; l'istituzione di un "Tribunale per la Resa dei Conti", destinato a giustiziare i "traditori" e i "disfattisti"; la decisione di fornire immediatamente cinquantamila uomini all'esercito tedesco per la costruzione di fortificazioni a Vienna all'interno della decisione di combattere sotto il comando tedesco per la difesa della capitale di fronte all'avanzata degli eserciti sovietico e rumeno. La resa di Horthy fu il simbolo della fine della vecchia Ungheria. Il vecchio ammiraglio, che aveva firmato la dichiarazione di armistizio nonostante il rapimento del figlio, si vestì in alta uniforme e si appuntò tutte le medaglie. Poi si sedette sul trono, circondato dalla corte e lì aspettò l'entrata delle SS. La guardia reale si oppose con le armi e venne massacrata. La sera, al castello reale di Buda, si insediò come nuovo capo della nazione il maggiore Ferencs Szàiasi. Si faceva chiamare "Fratello capo", "Guida della Stirpe". Ufficiale esiliato in una guarnigione di periferia era diventato il capo del partito delle "Croci Frecciate", così detto per il simbolo della Corona di Santo Stefano trafitta dalle frecce, e non molto dissimile dalla svastica hitleriana. Per divisa, una camicia verde e per Hitler l'ammirazione che si doveva al "capo designato della nascente comunità europea". Al primo punto del programma, la "lotta ad oriente alla dittatura marxista guidata dai giudei; lotta all'occidente alla dittatura plutocratica ugualmente guidata dai giudei"; e poi corporativizzazione della società, espropriazione della Banca Nazionale, riforma agraria, "magiarizzazione" della vita sociale e culturale, "creazione della Grande Patria Danubiano Carpatica". Seguire il filo dei ragionamenti di Szàiasi era spesso difficile per i suoi stessi seguaci: il Fratello capo era sovente posseduto da crisi mistiche e inframmezzava i suoi discorsi con invocazioni religiose e richieste di benedizione per le crociate contro gli ebrei e i bolscevichi. Ma quella mistura di visibile follia e propositi truci, aveva portato negli ultimi cinque anni alle Croci Frecciate un costante aumento di popolarità. Il partito nazista ungherese aveva sfondato non solo tra gli ufficiali di basso grado, ma anche tra gli operai delle fabbriche e delle miniere e tra i braccianti agricoli, che dieci anni prima erano stati il cuore elettorale del partito socialdemocratico. Erano diventati "Nyilas" persino molti siderurgici del complesso di Csepel, che avevano organizzato con successo crescente una serie di scioperi; indossavano la camicia verde molti soldati che tornavano sconfitti dal fronte russo; i piccoli funzionari degli uffici della capitale, i laureati eternamente disoccupati... Giorgio Perlasca, come tutti a Budapest, seguiva per radio gli eventi del colpo di stato. Aveva trovato rifugio in una casa di un amico ungherese, che aveva lasciato la città. La mattina del 16 arrivò una ragazza incaricata delle pulizie e gli si disse entusiasta dei nazisti e dei Nyilas; gli confidò che avrebbe fatto "qualsiasi cosa" per aiutarli. Perlasca capì che neanche quella casa sarebbe stata sicura. Uscì e vide i cadaveri per strada. Nella via Kiràly, uno dei quartieri delle "case con la stella gialla" assaliti dai Nyilas, un gruppo di ebrei si era barricato e aveva risposto al fuoco degli assalitori. Ma il conflitto era durato poco e gli ebrei lo avevano perso.


Perlasca non sapeva dove andare e si sentiva malfermo sulle gambe. Riuscì a portarsi dal suo amico D'Alessandro, che come lui aveva raggiunto la capitale. Aveva la febbre alta. Venne portato al sanatorio Pajor, con una grave infezione intestinale. Anche al sanatorio c'erano pericoli. Nelle corsie venivano tutti i giorni poliziotti che cercavano oppositori e chiedevano i documenti. Dall'armadietto, qualcuno gli rubò la borsa dove aveva nascosto del denaro. Decise allora di uscire dal sanatorio e chiese aiuto al portiere della pensione Danubio Blu, che gli diede una cameretta. Il giorno dopo si trasferì all'hotel Hungaria, pieno di militari tedeschi. "Era pericoloso," dice. "Ma almeno c'erano un ristorante e un caffè. Mi riposai e fu lì che mi venne l'idea di tornare a rivolgermi a Sanz Briz." Si recò all'ambasciata spagnola e chiese dei documenti spagnoli regolari. Sanz Briz tentennava, sosteneva che non poteva accontentarlo, se non aveva prima l'assenso del suo governo da Madrid. "Allora mi misi a gridare. Gli dissi: ma non vede quello che sta succedendo in città? Non vede che ammazzano donne e bambini, che torturano la gente, che mettono in galera gli innocenti? E lei mi viene a parlare di burocrazia adesso? Sanz Briz, da buon latino, capì. Un quarto d'ora dopo avevo in mano un regolare passaporto spagnolo e una lettera, indirizzata al ministero degli Interni ungherese, su cui era scritto che il capo di Stato spagnolo mi concedeva, a partire dal 13 ottobre 1944, la cittadinanza spagnola che avevo già richiesto due anni prima. Il mio nome di battesimo era diventato Jorge." "Sanz Briz allora mi propose di rimanere negli uffici dell'ambasciata e di aiutare la causa degli ebrei protetti. Ne fui felice, ero contento di poter fare qualcosa di utile. Mi fece compilare un certificato in cui figuravo con la qualifica di funzionario di ambasciata. E così cominciai il mio lavoro." Nell'ottobre del 1944, Budapest era la città dell'olocausto annunciato. Solo il rapido arrivo delle truppe sovietiche e il ritiro di quelle naziste avrebbe potuto impedirlo. Nell'attesa, l'aiuto poteva venire soltanto da un piccolo gruppo di persone: i funzionari della Croce Rossa Internazionale e i diplomatici delle nazioni neutrali. La Spagna di Franco, rappresentata da Angel Sanz Briz. La Svizzera, con il console generale Charles Lutz. La Svezia, rappresentata dal ministro Carl Ivan Daniellson cui si era aggiunto l'inviato speciale del re Gustavo, Raul Wallenberg. Il Portogallo con il console onorario conte Pongracz. Il Vaticano, con il Nunzio apostolico monsignor Angelo Rotta. La Croce Rossa Internazionale capeggiata da Friedrich Born, che operava con l'aiuto di molti esponenti dell'aristocrazia magiara. E basta. Non c'era altro. Tra responsabili e funzionari, meno di duecento persone. Se, durante il periodo Horthy, i diplomatici e la Croce Rossa avevano avuto qualche possibilità di "risolvere casi umani" e di mettere alcune migliaia di ebrei di Budapest sotto la loro protezione, ora con il nuovo governo Szalasi tutto diventava più rischioso e complicato. La situazione concreta era ogni giorno difficile da controllare per l'azione delle bande di Nyilas e il calendario delle deportazioni che aveva ripreso a funzionare a pieno ritmo. Unico porto protetto, le case che ogni delegazione aveva ottenuto per sé e nelle quali venivano stipati gli ebrei protetti. Lo chiamavano il "ghetto internazionale", una zona a ridosso del Danubio, intorno al parco Santo Stefano, dove le varie legazioni avevano affittato edifici. Era strano a vedersi: portoni, balconi e finestre da cui svolazzavano bandiere svedesi, spagnole, svizzere, portoghesi e le insegne del Vaticano. Davanti alle sedi delle ambasciate file interminabili di persone che venivano a richiedere certificati, pezzi di carta, qualsiasi cosa che li potesse proteggere dall'arbitrio delle bande armate. Nella sede spagnola di via Eótvòs, l'ufficio era diretto da Madame Tournè, una signora francese di origine ungherese da vent'anni impiegata dell'ambasciata. Era aiutata dal figlio Gaston e da dieci funzionari volontari, scelti tra quelli che per primi avevano chiesto la protezione spagnola. Non lasciavano mai l'edificio. Tutte le richieste di protezione passavano nelle mani di Madame Tournè, mentre suo figlio si attivava per recuperare i protetti spagnoli che venivano arrestati. Sanz Briz esaminava tutte le richieste, lo aiutava e lo consigliava un avvocato ungherese, Zoltàn Farkas, da vent'anni consigliere legale dell'ambasciata spagnola che fungeva anche da interprete. Perlasca si mise al lavoro e incominciò a visitare le case del "ghetto internazionale". I protetti dalla Spagna erano allora non più di trecento, ma il numero variava in continuazione. Dopo alcuni giorni di osservazione, incominciò a prendere delle iniziative personali. Si recò al comando della polizia per protestare perché bande di Nyilas erano penetrate in una casa protetta. Poi chiese udienza a József Gera, "Fratello capo" e membro del governo di Szalasi. Il primo colloquio che ebbe con Gera fu tumultuoso. Perlasca gli si presentò protestando energicamente perché in una "casa spagnola" un anziano era stato gettato dalla finestra del quinto piano, una donna era stata violentata e due uomini erano stati portati via con la forza. "Gera," ricorda Perlasca "ebbe una vera e propria crisi isterica. Cominciò a correre da una parte all'altra della stanza, gridando che gli ebrei erano tutti uguali, che gli avevano gettato una bomba mentre teneva un discorso in un teatro, che andavano tutti sterminati." Perlasca aspettò che si calmasse e gli espose il punto di vista della Spagna. Gli spiegò che quelle persone erano protette da un paese neutrale e amico dell'Ungheria e che quindi questa protezione doveva essere in ogni momento garantita. Gera lo stette a sentire, stupito. Poi gli chiese: "Ma perché Franco non combatte gli ebrei?"


Perlasca gli spiegò che in Spagna una legge, vecchia di cento anni, proibiva di registrare la religione di appartenenza dei cittadini spagnoli sui loro documenti personali. Il suo interlocutore era sempre più stupefatto e Perlasca capì che poteva continuare. Gli disse che di fronte a Dio e alla natura tutti gli esseri sono uguali e quanto fosse grave che all'odio politico si sommasse il razzismo. Gera non lo interruppe. Poi commentò: "Forse lei ha ragione. Forse Hitler ha commesso un errore nel proclamare la lotta agli ebrei perché così facendo si disperdono le forze... Ma ormai è tardi, le scelte sono state compiute e bisogna andare fino in fondo". Non era dunque così sicuro, il "Fratello capo". Perlasca pensò che si poteva andare oltre. In tono confidenziale spiegò a Gera che la Spagna proteggeva gli ebrei anche per la necessità di equilibrare la propria politica estera. Che, in ogni caso, la guerra sarebbe finita tra breve tempo e che di nuovo sarebbe stato il tempo degli accordi e dei riconoscimenti. Questa parola riconoscimenti, la pronunciò esplicitamente, sapendo di toccare una corda sensibile. "E infatti," ricorda Perlasca, "Gera cambiò atteggiamento. Mi rivelò che aveva simpatia per la Spagna e mi assicurò che i nostri protetti sarebbero stati trattati con il rispetto dovuto. Alla fine mi strinse la mano. Mi ricordo il disagio che provai in quella stretta. Ero davanti a una persona che poteva firmare una condanna a morte o una cartolina di auguri con la stessa leggerezza." Il giorno dopo andò, per la prima volta, allo scalo merci, dove i gendarmi ungheresi e le SS organizzavano la deportazione. Perlasca era di quelli che per vagoni e stazioni aveva occhi professionali. E quei carri erano gli stessi che la sua ditta usava per trasportare il bestiame. "Ma noi, il bestiame lo trattavamo meglio." Gli ebrei da deportare venivano sospinti sulle banchine. Perlasca vide un uomo anziano che sul petto, accanto alla stella gialla, aveva appuntato le onorificenze ottenute nella prima guerra mondiale. Senza pensarci troppo, fece un passo avanti, lo prese sotto braccio e lo fece salire sulla sua macchina. Un ufficiale tedesco fece segno al gendarme ungherese di controllare i documenti di quella persona che si era intromessa. Perlasca mostrò il passaporto e la lettera che lo accreditava come funzionario spagnolo. L'uomo, glielo lasciarono. A metà novembre, Sanz Briz, Perlasca, l'avvocato Farkas e Madame Tournè si ritrovarono per decidere una linea di condotta. La situazione di Budapest si era fatta tragica e la resa dei tedeschi non appariva più questione di giorni, ma perlomeno di settimane. I russi avanzavano, era vero, ma meno velocemente del previsto e le deportazioni non si riusciva a fermarle. Gli ebrei "prestati" alla Germania partivano nelle condizioni che tutti potevano quotidianamente vedere, avviati a morte sicura. "Ma avvenivano altri fatti veramente scandalosi," racconta Perlasca. "La Svizzera e la Svezia avevano formato nelle ambasciate dei comitati incaricati delle lettere di protezione, ed era cominciato un commercio ignobile. Si mettevano in circolazione lettere false, contraffatte, e le si facevano pagare salate. Io raccolsi molte testimonianze di persone che avevano pagato per quei pezzi di carta senza valore, avevo anche i nomi di funzionari corrotti e sapevo quanto esigevano. Lo sapevano tutti, e così, quando i Nyilas razziavano ebrei protetti da queste carte, i funzionari svizzeri o svedesi non avevano la forza morale di protestare. Anche nei viveri c'era commercio. A me capitò diverse volte di comprare alla borsa nera dei generi alimentari della Croce Rossa." Nelle stesse case protette, vigeva un'anarchia insensata e disperata. Dai governi legittimi non veniva di fatto alcuna indicazione di comportamento. Chiuso in una stanza dell'ambasciata di Spagna quel gruppo di persone decise di organizzarsi. In primo luogo stabilirono che le lettere di protezione sarebbero state accordate a tutti quelli che ne avessero fatto richiesta, eliminando qualsiasi differenza di stato sociale, senza tenere conto di amicizie e soprattutto senza chiedere nulla in cambio. Per essere protetti, bastava vantare un'origine sefardita", un qualsiasi legame di parentela o di commercio in Spagna e in ogni caso la legazione avrebbe sancito un principio basilare: dato che le leggi razziali ungheresi privavano gli ebrei di ogni diritto, il governo spagnolo sentiva il diritto di assicurare loro, in numero illimitato, la propria cittadinanza. Le lettere sarebbero state tutte retrodatate al giorno precedente l'ascesa al potere di Szàiasi e avrebbero ricalcato la stessa formula: "la famiglia X ha chiesto di recarsi in Spagna... In attesa della partenza, essa è sotto la protezione del governo spagnolo". Perlasca propose che le case protette, che erano otto in tutto, fossero organizzate il più possibile in maniera militare. Di quelle che aveva visitato, una in particolare, nella via Pannonia, gli era sembrata un modello da seguire. Era retta da un colonnello in pensione, cristiano, che poteva muoversi liberamente e avvertire in caso di attacco. All'interno, il colonnello aveva fatto valere le regole della caserma: sveglia presto la mattina, pasti in comune, assegnazione non discutibile dello spazio fisico da occupare, divieto di uscire, anche se i decreti permettevano un'ora al giorno di permesso, raccolta in una mano sola del denaro per l'approvvigionamento. Era chiaro, poi, che la protezione garantita dalla Spagna non si doveva esaurire con la concessione della lettera. Occorreva che il governo sapesse che gli spagnoli erano pronti ad intervenire ogni qualvolta si verificassero dei soprusi; stabilirono quindi di "farsi vedere spesso", di ispezionare le case in continuazione e di visitare quotidianamente polizia e ministeri, lasciando sempre qualcosa di scritto, di ufficiale. Infine, il capitolo più delicato. Szàiasi e i suoi sapevano di avere i giorni contati e


immaginavano certo che nel caso probabile di sconfitta sarebbero stati processati. Bisognava allora far loro balenare la possibilità di un riconoscimento diplomatico per il loro governo; bisognava far sì che comprendessero che di un loro comportamento umanitario con gli ebrei si sarebbe tenuto conto dopo la guerra. "Loro chiederanno un riconoscimento diplomatico ufficiale da Madrid", diceva Sanz Briz "e questo io non sono certo autorizzato a fornirlo. Ma dobbiamo fare in modo che loro lo credano possibile. Bisogna allora essere convincenti; parlare, promettere, ma rimandare sempre..." Il 17 novembre, Sanz Briz, Farkas e Perlasca parteciparono a una riunione dei diplomatici neutrali. Per Perlasca fu un apprendistato alla carriera di diplomatico. Ebbe l'occasione di presentarsi, di conoscere le persone con le quali avrebbe lavorato, di capirne motivazioni e paure. Il documento che uscì da quella riunione dà la misura del clima che si viveva e delle possibilità che i diplomatici avevano: Memorandum: I rappresentanti delle potenze neutrali, accreditati a Budapest, fanno presente, con rispetto, al Governo Reale Ungherese quanto segue: Poiché nel mese di agosto sono stati deportati dall'Ungheria all'estero quasi mezzo milione di ebrei e poiché i governi delle potenze neutrali hanno attendibili informazioni su cosa voglia significare, in realtà, tale deportazione, i rappresentanti delle suddette potenze hanno compiuto, di comune accordo, un passo diplomatico nei confronti del Reale Governo Ungherese, affinché questo impedisse la ripresa delle deportazioni. Il passo diplomatico, che allora era stato favorevolmente accolto, permise di salvare la vita ad alcune centinaia di migliaia di persone. Il giorno seguente al 15 ottobre, il nuovo governo e Sua Eccellenza Szàiasi in persona hanno fatto una dichiarazione determinata e solenne, secondo cui non ci sarebbero stati più né la deportazione, né lo sterminio degli ebrei. Nonostante tutto ciò, i rappresentanti delle potenze neutrali sanno, da fonti assolutamente attendibili, che è ormai decisa e da eseguirsi con rigorosa crudeltà, la deportazione di tutti gli ebrei. Tutto il mondo è testimone della mostruosità di tale esecuzione (i bambini piccoli vengono strappati alle madri, i vecchi e i malati devono restare sdraiati sotto il tetto praticamente inesistente di una fabbrica di mattoni, gli uomini e le donne rimangono senza cibo per giorni, decine di migliaia di persone vengono ammassate in una fabbrica di mattoni, le donne vengono violentate, altri spesso fucilati per niente ecc.). Intanto, così come si diceva durante l'estate, anche adesso si asserisce che non si tratta di deportazioni, ma di trasferimenti dovuti alla necessità di far eseguire lavori all'estero. Ma i rappresentanti delle potenze neutrali sanno bene quale orrenda realtà si nasconda, per molti sfortunati, sotto questa motivazione. Il modo atroce con cui vengono attuate le operazioni di trasporto fa intuire quale sia la tragica fine di questo esodo. Di fronte a queste atrocità, i rappresentanti delle potenze neutrali non possono sottrarsi al loro dovere, dettato da sentimenti umani e cristiani, di esternare al Reale Governo Ungherese il loro sgomento e di chiedere ad esso quanto segue: 1) II governo ritiri la risoluzione sulla deportazione degli ebrei e sospenda i provvedimenti in atto affinché i poveri disgraziati che sono stati allontanati dal proprio focolare possano farvi ritorno il prima possibile. 2) A coloro che con la motivazione di dover prestare il proprio lavoro sono costretti a vivere in campi di concentramento, venga riservato un trattamento umanitario (cibo sufficiente e tetto, servizi igienici, assistenza religiosa, rispetto della vita). 3) Rispetto totale e leale dei provvedimenti presi dal Governo Reale Ungherese a favore degli ebrei protetti dalle Ambasciate accreditate a Budapest, poiché il numero delle inadempienze è in aumento. E davvero sorprendente il disprezzo che gli organismi subordinati dimostrano dei provvedimenti presi dalle loro autorità superiori. I rappresentanti delle potenze neutrali sperano che il Reale Governo Ungherese comprenderà pienamente il significato di questo passo diplomatico e che accogliendolo, esso ritorni sulle dichiarazioni e sulle promesse fatte da Sua Eccellenza Szàiasi. Tale passo non è stato suggerito soltanto dalla compassione provata nei confronti degli ebrei perseguitati, ma anche dal profondo rispetto per l'Ungheria che si vorrebbe veder liberata da una macchia che rischia di sporcare per sempre la sua gloriosa storia. E il governo, che ha la pesante responsabilità delle sorti del popolo ungherese, vorrà sicuramente evitare alla propria nazione quelle ritorsioni che le sarebbero inevitabilmente applicate dalle potenze in guerra con l'Ungheria, se la deportazione e lo sterminio degli ebrei dovessero continuare. Non dimenticando inoltre che gli eventuali invasori dell'Ungheria potrebbero far uso di questi stessi metodi nei confronti del popolo ungherese. I rappresentanti delle potenze neutrali, come anche i loro governi, ribadiscono di non avere altro obiettivo che quello di alleviare le sofferenze umane e di rafforzare le istituzioni di soccorso a tutte le vittime della guerra. Qualunque sia l'accoglienza che il governo ungherese riserverà a questo passo diplomatico, l'effetto del suo comportamento si rifletterà in modo notevole sui destini del proprio popolo; se poi tale accoglienza dovesse risultare favorevole, essa si dimostrerà utile, soprattutto nella dolorosa ipotesi di una invasione nemica, per servire, con maggiore interesse e buona volontà, la causa del popolo ungherese.


I rappresentanti delle potenze neutrali sono convinti che la nobile nazione ungherese, facendo riferimento alle proprie antiche tradizioni cristiane, vorrà rimanere fedele, anche in questo difficile momento, a quei principi ed a quei metodi che hanno fatto dell'Ungheria un paese civile e ammirato da tutto il mondo. La nota diplomatica venne firmata da Carl Ivan Daniellson, ministro svedese; da Harold Fehler, incaricato svizzero; da monsignor Angelo Rotta, Nunzio apostolico e da Angel Sanz Briz, incaricato spagnolo. 'Il documento fu molto importante," dice ora Perlasca. "Ma io rimasi molto perplesso dal modo di lavorare dei diplomatici. Per esempio, erano incapaci di cambiare il proprio modo di vita. Era difficilissimo trovare qualcuno in piedi prima delle undici di mattina, si faceva difficoltà a far loro perdere l'abitudine a una vita fatta di cerimonie, incontri ufficiali, salotti e ricevimenti. Nessuno di loro visitò mai le case che avevano la bandiera del loro paese sul portone, eppure la loro presenza sarebbe stata un aiuto enorme. Solo Wallenberg, che non era un diplomatico, aveva capito subito che quello che contava non erano tanto i documenti quanto l'attivismo. La sua differenza con gli altri, credo stesse proprio in un senso di umanità, di attaccamento all'onore del proprio paese, che gli altri francamente non avevano. Era in missione, considerava il suo lavoro una missione, ecco." Il 29 novembre, Angel Sanz Briz chiamò Giorgio Perlasca nel suo ufficio. "Ho terminato, Perlasca," gli disse. "Parto domani mattina, non posso più restare a Budapest. Il gioco del riconoscimento diplomatico non può più continuare. Guardi qui." Gli mostrò una lettera del ministero degli Affari Esteri ungherese, in cui lo si convocava e gli si ingiungeva di spostare la sede diplomatica da Budapest a Sopron, vicino al confine con l'Austria, dove si era trasferita parte del governo Szàiasi. "Se vado all'incontro, mi chiederanno se la Spagna riconosce de jure il governo di Szàiasi. E questo io non lo posso fare. Per un mese e mezzo sono riuscito a tenerli sulla corda, ma adesso arriva il momento della verità. Non accetteranno più delle parole, vorranno avere qualcosa di scritto, di ufficiale. Devo partire, di nascosto. Perché, se lo faccio pubblicamente, allora il governo Szàiasi riterrà interrotti ufficialmente i rapporti diplomatici con la Spagna, e quindi chiuderà la sede." "Perlasca, mi ascolti. Lei è stato molto prezioso e io la ringrazio per quello che ha fatto. Mi sono procurato per lei anche un visto tedesco. Potrà partire anche lei. Io andrò in Svizzera e da Berna le assicuro che le farò arrivare un visto per passare la frontiera tra Germania e Svizzera. Aspetti qualche giorno, poi venga. Mi creda, qui purtroppo non c'è più niente da fare." Perlasca lo guardava perplesso. "E nel frattempo, come devo comportarmi?" "Non faccia niente di particolare", gli consigliò Sanz Briz. "Aspetti il momento opportuno e poi se ne venga via. Ci pensi, io parto domani mattina." Perlasca passò la notte senza dormire. Alle sei di mattino accompagnò Sanz Briz che se ne partiva per la Svizzera. Poi uscì dai locali dell'ambasciata. Andò nel parco Santo Stefano. La polizia aveva iniziato la solita retata, in una casa protetta dalla bandiera svedese. Incontrò il maggiore Tarpataki. Una brava persona, umana, che nel mese precedente lo aveva aiutato. Era uno di quelli che sovraintendeva alle operazioni di cattura degli ebrei nel parco, ma si voltava quando qualcuno fuggiva, fingeva di non vedere. "Tarpataki," racconta Perlasca "era più depresso del solito. Mi disse che era pieno d'angoscia. 'Se non collaboro con i Nyilas, mi ammazzano. Se resisto, appena arrivano i russi, mi ammazzeranno loro perché mi riterranno responsabile di tutto quello di atroce che succede. Che cosa posso fare?' Cercai di consolarlo e lo assicurai che per il suo comportamento, la gente gli sarebbe stata riconoscente. E io per primo. Mi assicurò di stare tranquillo: i suoi uomini non sarebbero entrati nelle nostre case. Anzi, mi diede due ebrei che avevano catturato nel parco. Ci pensi lei, li sistemi in qualche casa." Perlasca, come ogni mattina, proseguì il giro di controllo delle case protette. Da Parco Santo Stefano numero 35, passò a via Pannonia, numero 44 e numero 48, poi a via Phonix, numero 5. Tutto era in ordine, ma gli abitanti avevano già saputo che Sanz Briz se ne era andato. Gli si fecero intorno e gli fecero giurare che non sarebbe partito. "Ero veramente confuso, quella mattina," ricorda Perlasca. "Ma, se devo dire che cosa mi convinse a restare, allora credo che sia stata quella richiesta di giuramento. Eh sì, perché giurai solennemente che sarei restato. E a quel punto, lei capisce, non potevo che restare." Alle 11 di mattina Perlasca entrò nella casa di via Kàroly Légràdy, al numero 33. "Mi ricordo che mi si avvicinò una bambina, avrà avuto dieci anni, e mi disse: 'Se lei salva la mia mamma, io vengo nel letto con lei'. Le diedi uno schiaffo. Allora si fecero intorno in parecchi e anche la madre della bambina che mi chiese che cosa era successo. Glielo dissi. Poi, mi ricordo che dissi: Signora, se facessero tutte così, come potrei fare? E la tensione si abbassò un poco." Tornò a quella casa poche ore dopo, perché era arrivata la polizia con l'ordine di evacuazione. Molti dei protetti spagnoli stavano nell'androne con la valigia in mano. Perlasca corse al quinto piano dove un ufficiale gli comunicò l'ordine ricevuto di procedere allo sgombero. "Non è possibile!," protestò Perlasca. "Ho appena parlato con il maggiore Tarpataki che mi ha dato formale assicurazione di sicurezza per le case spagnole. Ci deve essere un errore." La protesta ebbe effetto, gli inquilini tornarono nella casa.


Ma la stessa scena si ripetè nell'altra "casa spagnola" della via, al numero 25. Perlasca corse al parco e vi trovò Tarpataki insieme a due comandanti delle "Croci Frecciate". Lì capì quanto era successo. Il ministero degli Interni aveva dato ordine immediato di sgombrare le case spagnole perché era venuto a conoscenza della partenza di Sanz Briz e la interpretava come la rottura diplomatica tra l'Ungheria e la Spagna. Lì, in mezzo al parco, Perlasca prese la sua decisione. Incominciò a protestare. "Sospendete tutto! State sbagliando! Sanz Briz non è fuggito, si è semplicemente recato a Berna per poter più agevolmente comunicare con Madrid, visto che di qui non è più possibile. State commettendo un grande errore. Chiedete al ministero degli Esteri, Sanz Briz ha informato due funzionari del suo viaggio. La sua è una missione diplomatica importantissima!" Poi, quasi senza accorgersi di quello che stava dicendo, con la massima sicurezza esclamò: "Informatevi presso il ministero degli Esteri! Esiste una precisa nota di Sanz Briz che mi nomina suo sostituto per il periodo della sua assenza! State parlando con l'incaricato spagnolo!". Funzionò. Dopo dieci minuti uno dei comandanti delle Croci Frecciate che era andato a telefonare ai ministeri, se ne tornò annunciando di aver avuto disposizione di sospendere "per alcuni giorni" l'evacuazione delle case protette dagli spagnoli. Perlasca tornò agitatissimo all'ambasciata verso l'una. Tutti erano depressi e sconcertati per la partenza di Sanz Briz. Perlasca riunì Madame Tournè e l'avvocato Farkas in una stanza e raccontò loro quello che gli era successo. "Ho mentito, lo so. Quello che vi chiedo è solo di tenermi bordone. Lasciatemi fare." Madame Tournè scuoteva il capo, era molto perplessa, per lei la violazione della legge, in un ufficio in cui aveva lavorato per tanti anni, era un fatto molto grave. "Ma l'avvocato Farkas, non potrò mai dimenticarlo, mi mise una mano sulla spalla e mi fece: va bene così, andiamo avanti." L'avvocato Farkas divenne così il consigliere diplomatico di Perlasca. Immediatamente presero delle decisioni. Prima di tutto occorreva smentire che Sanz Briz si era ritirato e che la Svezia era stata incaricata di proteggere gli interessi della Spagna. Venne subito interpellato Daniellson, che si disse d'accordo. Poi Farkas e Perlasca si diedero a compilare un inventario di quello che era rimasto. C'erano i timbri, la carta intestata, i passaporti in bianco... Sanz Briz aveva lasciato tutto. C'erano anche 25.000 pengó, un fondo per i rifugiati di guerra. "Questi li diamo tutti a Gera," convennero Farkas e Perlasca. Il pomeriggio Perlasca si recò dal capo del partito Crocefrecciato con tutto quel denaro, glielo consegnò con molto sussiego e nel contempo gli dichiarò che c'erano stati dei malintesi da chiarire riguardo alla legazione diplomatica spagnola. Perlasca gli spiegò le ragioni dell'improvvisa partenza di Sanz Briz e, sicuramente complice la forte somma di denaro, Gera si dimostrò molto accondiscendente e congedò Perlasca congratulandosi con lui per il suo avanzamento nella carriera diplomatica. La mattina dopo Farkas e Perlasca si recarono al ministero degli Esteri per farsi accreditare. Esisteva il rischio che Sanz Briz avesse lasciato qualche traccia pubblica della sua fuga, ma per fortuna non lo aveva fatto. Altro rischio, che qualcuno riconoscesse nel nuovo incaricato spagnolo quell'italiano che fino a un anno prima commerciava in bestiame. Ma anche questo non successe. Al pomeriggio la radio ungherese annunciò che Angel Sanz Briz aveva lasciato l'Ungheria per un breve periodo e che, fino al suo ritorno, egli sarebbe stato sostituito dal segretario dell'ambasciata. "Le è andata bene," commentò Farkas. "Non hanno fatto il suo nome. Meglio così."


CAPITOLO VI

IL DIARIO DI JORGE PERLASCA

Ma davvero lei andava in giro a piedi per Budapest seguito da un gendarme che reggeva la bandiera spagnola? Perlasca ride. "Sì, è successo anche questo, dopo che l'ultima macchina divenne inutilizzabile. Mi sembrava di essere un guerriero medievale... ma guardi che era utile, portare la bandiera. Era molto utile... Quando ripenso a quel periodo mi sembra quasi impossibile che siamo riusciti a fare quello che abbiamo fatto. A conti fatti, è stata una grande capacità di raccontar delle balle... I Crocefrecciati volevano pararsi le spalle con qualche riconoscimento da parte di una potenza neutrale e io facevo finta che questo sarebbe stato possibile. E' andata bene... Certo, se mi beccavano non sarei qui a raccontarla. Ma, mi creda, in quei momenti non c'era neanche il tempo di avere paura. C'erano tante di quelle cose da fare." Giorgio "Jorge" Perlasca resse la legazione di Spagna dal 1° dicembre del 1944 al 16 gennaio del 1945, giorno in cui l'Armata Rossa entrò in quella parte di Budapest. Pochissimi sapevano che era un impostore, e quelli che lo sapevano mantennero il segreto. In diverse occasioni corse dei rischi personali e in altre, quando si presentava come un diplomatico nelle sedi ufficiali, affrontò la possibilità di essere riconosciuto. In questo caso il suo destino sarebbe stato fosco. Ce la fece. Molti anni dopo la guerra, gli storici che poterono accedere agli archivi trovarono una serie di note diplomatiche allarmate che in quei giorni passarono tra Budapest, Berlino e Madrid. Si chiedevano che cosa stesse facendo la Spagna, come dovessero essere interpretate quelle migliaia di lettere di protezione che la sede diplomatica spagnola accordava agli ebrei ungheresi. Tutte domande rimaste senza risposta. "Madrid non sapeva nulla..." ricorda Perlasca. "Per fortuna le comunicazioni erano impossibili. Sarebbe bastato un segnale perché io venissi scoperto." Di quei giorni, così come dei mesi precedenti, Giorgio Perlasca tenne un diario. Appunti giornalieri su quanto gli succedeva che poi, finita la guerra, mise in ordine su richiesta di Jenó Leval, un ufficiale ebreo ungherese al quale si deve la prima ricostruzione dello sterminio avvenuto in Ungheria. Qui riportiamo il diario di Perlasca su quanto gli successe e su quello che vide tra il 2 dicembre del 1944 e il 13 gennaio del 1945. 2 dicembre, sabato: Stamattina nuove razzie. Hanno raccolto tutti coloro che non possedevano lettere di salvacondotto spagnole. Sono però riuscito a riportarli nelle case con la promessa che avrei loro rilasciato, oggi stesso, il nostro documento di protezione. Mi rende nervoso il fatto che, a mia insaputa, si facciano entrare nelle case delle nuove persone. Per questo motivo ho riunito i comitati di tutte le case e ho ricordato loro che, per motivi di sicurezza, non deve essere fatto entrare nessuno senza il permesso dell'ambasciata. Soltanto così potrà essere salvaguardata la nostra credibilità di fronte alle autorità. Credo che mi abbiano capito. Nel pomeriggio, telefonata dal ministero degli Esteri. Si lamentano perché un loro funzionario, che aveva l'incarico di regolarizzare i rapporti diplomatici tra i due paesi, non è stato accolto in modo adeguato a Madrid. Farkas ha risposto che andrò domani al ministero per discutere dell'accaduto. La sera, insieme a Farkas abbiamo scartabellato tutti i documenti dell'ambasciata e abbiamo elaborato un piano per domani. Speriamo possa funzionare. 3 dicembre, domenica: Successo pieno! A mezzogiorno sono stato ricevuto dal vice ministro degli Esteri. Ero un po' nervoso perché temevo di incontrare qualcuno che si ricordava di me quando non passavo ancora per spagnolo. Per fortuna quei funzionari sono tutti nascosti, o a Sopron, o nelle varie ambasciate. Il vice ministro ha esordito lanciando accuse, dicendo che la partenza di Sanz Briz non è chiara e protestando perché il loro funzionario non aveva ricevuto una buona accoglienza a Madrid. Tutti questi fatti gli facevano dedurre che la Spagna non aveva alcuna intenzione di regolarizzare i suoi rapporti con l'Ungheria. Ha detto: "Non ci si meravigli allora se gli ungheresi prenderanno dei provvedimenti di ritorsione." Gli ho risposto che Sanz


Briz era dovuto partire per la Svizzera, ma che l'ambasciata era aperta e che a me era stato conferito lo stesso incarico ricoperto prima da Sanz Briz. Ho ripetuto che Sanz Briz aveva debitamente informato della sua partenza il ministero e che questa notizia era stata persino comunicata dalla radio ungherese. Ho aggiunto che non capivo la presenza di quel funzionario a Madrid, dato che solo una settimana fa, lo stesso ministero aveva richiesto alla nostra ambasciata di rilasciare l"exequatur" (un permesso consolare) per un'altra persona, il colonnello Gergely. Dunque, perché ci si doveva aspettare che il governo spagnolo prendesse sul serio una persona non conosciuta che andava dichiarando di rappresentare il governo ungherese? Poi gli ho parlato subito dei nostri protetti. Gli ho fatto presente che in Spagna migliaia di cittadini ungheresi vivono in pace, ma che, se per un qualunque motivo ambasciata spagnola e governo ungherese non trovassero una soluzione soddisfacente per le condizioni degli ebrei protetti dagli spagnoli, allora il governo spagnolo, pur con grande rammarico, sarebbe stato costretto a rivedere i suoi rapporti con l'Ungheria. Il vice ministro mi ha chiesto se questa doveva essere considerata una minaccia. Sì, gli ho risposto ridendo, e ho subito aggiunto che, in fondo, le nostre richieste non sono poi di tale importanza per l'Ungheria da doverne discutere così a lungo. A questo punto il vice ministro mi ha chiesto scusa ed è uscito per un quarto d'ora. Mentre era fuori dalla stanza, Farkas mi ha rimproverato perché, secondo lui, un diplomatico non usa un linguaggio come quello che avevo adoperato io. Ho cercato di calmarlo, l'ho assicurato che tutto sarebbe andato per il meglio. E ho avuto ragione! Il vice ministro è tornato con i saluti del ministro Gàbor Kemény e mi ha assicurato che, se dipendeva solo da loro, la maniera per mettersi d'accordo si sarebbe trovata. L'ho ringraziato e gli ho ripetuto le nostre richieste. Abbiamo così raggiunto un'intesa che è stata anche messa per iscritto. In essa si dichiara che la parte ungherese ritiene sufficiente la spiegazione data circa la partenza di Sanz Briz e che si fa obbligo a tutti gli organismi militari ungheresi di rispettare le lettere di protezione rilasciate dall'ambasciata spagnola. Da parte spagnola, noi ci impegnamo a rilasciare l'"exequatur" per il loro funzionario a Madrid e a garantire che nelle nostre case troveranno rifugio solo quegli ebrei, disarmati, che sono in possesso di documenti spagnoli. Alla polizia viene data la facoltà di controllare le case, ma questo solo in presenza di un funzionario dell'ambasciata. 4 dicembre, lunedì: Ho incontrato il ministro degli Esteri, Gàbor Kemény, che mi ha presentato a un suo nuovo funzionario, un certo dottor Czir. D'ora in poi sarà lui ad occuparsi degli affari spagnoli e portoghesi. Mi è sembrato un funzionario di buone intenzioni. Ho fatto loro presente che, data la delicatezza della richiesta, ci vorranno almeno quindici giorni per ottenere da Madrid r'exequatur". Nel pomeriggio ho incontrato Gera. Mi ha confermato che il ministero degli Esteri, quello degli Interni, la polizia e anche il partito hanno approvato l'accordo raggiunto ieri. Non capisco perché gli ungheresi vogliano mandare, ad ogni costo, un loro rappresentante a Madrid. Secondo me, visto che il nemico è a soli sessanta chilometri dalla capitale, dovrebbero pensare a ben altro. 10 dicembre, domenica: Il dottor Czir mi conferma, molto determinato, quanto io ho sempre considerato irrealizzabile: il governo ungherese vuole trattare con gli alleati occidentali. Szàiasi crede di poterli conquistare e di trovare in loro un appoggio contro i russi. Per questo sono così interessati a un rapporto con la Spagna. Sperano che Madrid possa far loro da tramite! Ora ho addirittura tre elementi che giocano a mio favore: 1) La simpatia di Gera nei miei confronti e nei confronti della Spagna. 2) Il desiderio dei Crocefrecciati di riuscire a stabilire un rapporto, attraverso Madrid, con gli inglesi e con gli americani. 3) La speranza nascosta dei Crocefrecciati di trovare un rifugio in Spagna nell'ipotesi del crollo generale. Se tutto resta così, non mi rimane che attendere l'arrivo dei russi. Perciò, quando al ministero degli Esteri mi hanno chiesto se, secondo me, gli alleati avrebbero difeso l'Ungheria, ho risposto loro che ne ero convinto. Se me lo avessero chiesto, l'avrei anche giurato. Avrei giurato su tutto, pur di riuscire a portare a termine il mio lavoro. 11 dicembre, lunedì: L'avvenuta distensione mi permette di aumentare il numero dei nostri protetti. Migliaia di ebrei vivono nei nascondigli più incredibili. Gruppi di Crocefrecciati li cercano e quando li riescono a trovare, li fucilano immediatamente. Per questo cerco di sistemarne il più possibile nelle nostre case. 12 dicembre, martedì: All'ambasciata alcune persone, per egoismo o per paura, non vedono di buon occhio che io aumenti di continuo il numero dei nostri protetti. Certo, anche queste persone dell'ambasciata vivono in condizioni di grande insicurezza. Per di più Farkas ed io parliamo poco dei nostri guai e spesso ci diciamo soltanto che tutto va bene e gli altri allora temono che ci siano dei guai anche quando non ce ne sono. La brava Madame Tournè si sente responsabile per le attività dell'ambasciata. Non riesce a capacitarsi che Madrid abbia abbandonato a se stessa la


legazione di Budapest. Non riesce a capire che per noi è meglio che Madrid si dimentichi proprio di avere un'ambasciata a Budapest, invece di cercare di ricordarglielo. 13 dicembre, mercoledì: I protetti sono come i bambini! Non imparano la lezione neanche se ciò comporta sofferenza fisica o morale. C'è sempre qualcuno tra di loro che vuole passeggiare in città senza portare la stella gialla, o vuole uscire quando questo è proibito agli ebrei. Loro pensano che tanto c'è Perlasca, che li va a riprendere, magari con qualche costola rotta. Un certo avvocato Barta è la quarta volta che lo recuperiamo! Per fortuna gli accordi funzionano abbastanza bene, i carabinieri mi hanno riportato due persone addirittura dalla frontiera. Ma questi incidenti sono continui. Credo che la situazione possa divenire incontrollabile se i russi non arriveranno presto. 14 dicembre, giovedì: La tutela degli ebrei sarebbe molto più efficace se coloro che la esercitano avessero più coscienza, maggiore responsabilità e meno egoismo. Ancora prima della partenza di Sanz Briz era stato organizzato un comitato di coordinamento tra le ambasciate dei paesi neutrali. La sede è in una villa sulla collina delle Rose, lasciataci generosamente dal suo proprietario, un aristocratico. Alle riunioni i membri del comitato erano rappresentati da cittadini ungheresi. Dopo alcune riunioni ho avuto la certezza che servivano solo per creare degli alibi politici a qualcuno. Girava del buon Tokaji o del cognac e si facevano dei gran discorsi. Adesso che servirebbero, di tutte queste persone non ho più notizie. Con le ambasciate, in generale ho dei buoni rapporti, ma con gli svedesi no. Non riusciamo mai a comunicare con Daniellson, né con i suoi segretari. Ad ogni nostra chiamata telefonica, si sente sempre la medesima risposta: o che non sono in ufficio, oppure che sono terribilmente occupati. L'unico momento libero che hanno trovato è stato quando è partito Sanz Briz e sono venuti a riprendersi i franchi svizzeri che avevano lasciato in deposito. Provo un forte disprezzo nei confronti di Daniellson. Secondo me, un diplomatico dovrebbe comportarsi come un militare, non può defilarsi in questo modo. Tutto ciò naturalmente non vale per Wallenberg. Gli svizzeri, mi sembra si diano da fare: Fehler e il dottor Zucher sono persone per bene. Per quanto riguarda la Nunziatura apostolica non c'è nulla da eccepire: monsignor Rotta fa di tutto per dare aiuto. 15 dicembre, venerdì: Sono andato dal dottor Czir. Ormai ci posso andare senza neppure farmi annunciare. Nell'anticamera ho visto seduto l'incaricato di affari fascista Graziani con il cancelliere Menci, che mi conosceva bene. Ho trovato una scusa e sono andato via subito. 16 dicembre, sabato: Per difendere meglio i nostri protetti, ho deciso di farmi vedere il più spesso possibile. Abbiamo deciso di visitare le case anche due volte al giorno e di passare un po' di tempo in ognuna. Per farmi notare, viaggio con la Ford dell'ambasciata su cui sventola la bandiera spagnola. Porto sempre dei piccoli doni per gli ufficiali in servizio e converso con loro. Funziona. Dalla polizia ho ricevuto in omaggio un elegante bastone da passeggio con una impugnatura artistica, una testa di negro scolpita in ebano. 17 dicembre, domenica: Oggi nell'ufficio di Gera ho incontrato il ministro degli Interni, Gàbor Vajna. Finora l'ho sempre evitato perché preferisco rivolgermi al ministro degli Esteri. Mi sembra infatti che Vajna sia venuto a Kékes quando ero internato e ho paura che possa riconoscermi. Ma per fortuna non è successo. Vajna è molto ottimista. Secondo lui fino a primavera non ci saranno sicuramente dei cambiamenti e i russi, almeno per un certo tempo, saranno respinti dai dintorni di Budapest. Mi ha di nuovo domandato quando potrebbe partire per Madrid il rappresentante ungherese. Gli ho dato una risposta evasiva. Quando sono rimasto solo con Gera gli ho chiesto: come è possibile che lo stesso governo crocefrecciato che ha rifiutato l'armistizio di Horthy, ora stia cercando di ottenerne un altro? Gera mi ha risposto che l'imbroglio del 15 ottobre era stato opera degli ebrei, che era stato un tentativo fatto all'insaputa dei tedeschi. Gli ho chiesto: perché lei pensa che i tedeschi ora accetteranno una vostra trattativa sperata? Gera mi ha risposto che la Germania conosce le intenzioni ungheresi e non vuole frapporre ostacoli. E' possibile che la Germania voglia approfittare della simpatia degli alleati per l'Ungheria? Sperano forse che, dopo l'inizio delle trattative, potranno parteciparvi anche loro? 18 dicembre, lunedì: Oggi sono andato al ministero degli Affari Esteri per comunicare che il governo spagnolo ha inviato un telegramma in cui ribadisce il proprio giudizio positivo sulla richiesta ungherese ma che, data la delicatezza della situazione internazionale, è costretto a chiedere agli ungheresi di avere pazienza. Io comunque ho garantito che il governo spagnolo sarà certamente nelle condizioni di poter dare una risposta favorevole entro il 31 dicembre. Il dottor Czir (ora è diventato lui il responsabile a Budapest del ministero degli Esteri, perché i dirigenti ormai


stanno quasi sempre a Sopron) mi ha risposto che tutto andava bene. La cosa mi ha sorpreso non poco. E se avesse ragione lui? Cosa ne sarà di me e della mia organizzazione se i russi non arriveranno neanche in inverno? Spero di essere capace di continuare a fingere. 19 dicembre, martedì: La situazione dei bambini ebrei è divenuta grave. Ci sono molti orfani, i loro genitori sono stati deportati e sono anche senza casa. Per questo, sia gli svedesi che la Croce Rossa hanno istituito dei centri di accoglienza. Vi sono anche dei genitori, che, pur abitando nelle case protette, per motivi di sicurezza preferiscono mandare i bambini in questi nuovi centri. L'ambasciata di Spagna ha finora raccolto cinquecento bambini. Ora si apprende che le autorità crocefrecciate hanno deciso di convogliare tutti gli orfani a Budapest. Non capisco che cosa vogliano fare, ma alcuni dei loro ufficiali dicono che hanno deciso di sterminarli. Li vogliono trasferire in Germania. Sono dei pazzi! Già durante il trasporto ne morirebbe almeno la metà. 20 dicembre, mercoledì: Ho avuto una pesante discussione con Gera. Ha cercato di spiegarmi che Budapest va liberata dagli abitanti superflui. Sono però riuscito a capire che tutti i bambini non saranno deportati, ma saranno portati nel grande ghetto. Questa è una zona circoscritta al centro della città, le cui strade sono state barricate per impedire l'uscita. Ci vivono 60.000 ebrei senza gas e senza luce, per lo più bambini e malati. Ogni giorno ne muoiono cinquecento, per fame o per malattia. Ci vado spesso e tento di portare fuori i famigliari dei nostri protetti. Sto consegnando medicine e cibo ad ospedali dove non si rispettano le più elementari norme igieniche. 22 dicembre, venerdì: Su iniziativa del Nunzio apostolico oggi si sono incontrati, nella sede del Portogallo, i rappresentanti di tutte le ambasciate neutrali. C'era anche Weyermann, il nuovo delegato della Croce Rossa Internazionale. Abbiamo deciso di redigere una nota diplomatica comune. 23 dicembre, sabato: Ore otto di mattina, nella Nunziatura per il testo definitivo della nota. . Fehler, l'incaricato svizzero, stava dormendo sul tavolo mentre discutevamo. Daniellson non è venuto e Wallenberg ha cercato inutilmente di rintracciarlo. Solo il Nunzio ha deciso di aspettare il ministro svedese, tutti noi abbiamo firmato e siamo andati via. Dopo la firma ho chiesto a monsignor Rotta un colloquio privato. Gli ho raccontato tutta la verità. All'inizio non voleva crederci, ma poi si è divertito quando gli ho raccontato in che modo ero riuscito a prendermi gioco dei nazisti. Era felice nel sentire che ero lombardo come lui. Mi ha detto che nell'interesse del bene comune il mio inganno poteva essere perdonato, ma si è raccomandato di non far sapere nulla al suo segretario, monsignor Verdino. Mi ha detto che è un tipo così all'antica e così pignolo che non sarebbe riuscito più a dormire la notte. Non so che cosa succederà se i russi tarderanno ancora a lungo. I Crocefrecciati stanno aspettando il benestare di Madrid per il loro incaricato e a Madrid naturalmente nessuno sa niente della loro richiesta e quindi di lì non potrà arrivare nulla. Se mi dovessero scoprire, potrei sempre chiedere rifugio alla Nunziatura apostolica o alla legazione svizzera. Ma in questo caso prevedo una tragedia per i nostri protetti. Questo è il testo della nota diplomatica che abbiamo diramato oggi: I sottoscritti, rappresentanti delle potenze neutrali accreditate a Budapest, si sono già per due volte cortesemente appellati al Governo Reale Ungherese affinchè questo intervenga in favore degli ebrei, perseguitati e considerati fuori legge. Ora che il governo reale ha ritenuto necessario rinchiudere gli ebrei in un ghetto, e in questa nota non possono certo essere discusse le sue motivazioni, rappresentanti delle potenze neutrali intendono compiere un ulteriore passo diplomatico, perché almeno i bambini vengano esclusi da questo provvedimento. Sarebbe veramente incomprensibile punire degli innocenti, così come parlare di legittima difesa nei confronti di esseri assolutamente inoffensivi. Anche se tale fatto fosse attuato allo scopo di prevenire possibili disordini, risulterebbe ugualmente inaccettabile punire, per tale motivo, dei bambini. Si sente dire che gli ebrei sono i nemici dell'Ungheria, ma sia le norme legali che la coscienza sono sufficienti da sole, anche durante una guerra, a far condannare ogni azione contro dei bambini innocenti. Perché si devono obbligare questi esseri a vivere in un luogo che assomiglia a una prigione e dove non potranno che vedere sempre e soltanto la miseria e le sofferenze di donne e vecchi, perseguitati unicamente per la loro origine razziale? Ogni popolo civile rispetta i bambini e tutto il mondo sarebbe terribilmente sorpreso se dovesse apprendere che l'Ungheria, paese per tradizione nobile e cristiano, interviene contro dei minori. I rappresentanti delle potenze neutrali sperano che il governo reale voglia accogliere di buon grado tale richiesta ed acconsentire a che tutti i bambini (insieme alle loro madri, \se ancora lattanti), possano essere lasciati al di fuori del ghetto, in luoghi protetti messi a disposizione dalle sedi diplomatiche, oppure presso centri predisposti dalla Croce Rossa Internazionale. Insieme all'accoglimento di questa richiesta, che ha scopi strettamente umanitari, si dovrà anche avere cura affinché, per l'assistenza dei bambini, vengano scelte persone politicamente incensurate e capaci di una educazione patriottica.


Budapest, 24 dicembre 1944. Angelo Rotta, Nunzio apostolico Carl Ivan Daniellson, ministro svedese Harald Fehler, incaricato svizzero, Jorge Perlasca, incaricato spagnolo, Conte Pongràcz, incaricato portoghese. 24 dicembre, domenica: La giornata è cominciata male. Questa mattina non partiva neanche una macchina e non funzionava neanche la cremagliera. Mi sono sentito chiuso nella villa Széchenyi. Mi è arrivata per telefono la notizia che i Crocefrecciati hanno fatto irruzione nell'ambasciata svedese e hanno arrestato i suoi funzionari. Ho subito chiamato il ministero degli Esteri per protestare, Ho telefonato anche alla polizia. Verso le 10, l'italiano Santelli mi ha prestato la sua macchina e sono finalmente riuscito a muovermi. All'ambasciata,' tutto tranquillo. In città, anche se con poca merce, negozi e caffè sono aperti. Ho cercato di comprare un albero di Natale per Madame Tournè. All'ambasciata ho incontrato un Crocefrecciato di alto rango, secondo cui la situazione militare si è fatta molto seria, ma la città sarà difesa. Gli ho risposto che questo avrebbe significato migliaia di morti e la distruzione di una delle città più belle d'Europa. Lui era d'accordo, ma mi ha detto che i tedeschi erano intenzionati a resistere. Mi sono chiesto fino a che punto arriverà la pazzia. Più tardi, mentre mi recavo alla Nunziatura apostolica per fare gli auguri di Natale, sul Ponte delle Catene ho incontrato un gruppo di ragazzi, circondati da Nyilas armati di mitragliette e da nazisti, che marciavano verso Pest. Ho chiesto al capo del gruppo che intenzioni avessero. Mi ha detto che stavano portando i ragazzi nel ghetto. Era una scena straziante. Saranno stati più di cento ragazzi che avevano camminato da ore a una temperatura di meno cinque, meno sei. Erano sfiniti. Qualcuno cadeva, ma cercava subito di rialzarsi. Tutti piangevano. Sono andato di corsa alla Nunziatura, ho chiesto a monsignor Rotta di venire con me al ministero degli Esteri. Rotta non è stato d'accordo, ha detto che dopo l'irruzione all'ambasciata svedese non si poteva più fare nulla. Gli ho proposto di minacciare gli ungheresi di una interruzione dei rapporti diplomatici, ma mi ha detto che non poteva farlo senza prima aver interpellato il Vaticano. Ho trovato tutto ciò insopportabile. Ho insultato i diplomatici e sono corso via. Nella fretta mi sono dimenticato di baciargli l'anello. Al ministero degli Esteri c'era una scena stranissima. Tutti gli uffici aperti senza che ci fosse anima viva. Finalmente ho trovato il portiere dell'edificio, mi ha detto che gli uffici erano vuoti perché era Natale. Ma dentro di me sentivo che c'era qualcosa nell'aria, ho cominciato a sperare che Budapest potesse essere dichiarata città aperta. Ho fatto il giro delle case portando qualche regalo di Natale. Madame Tournè ha comprato del cibo, ha preparato delle buste e delle scatole, con qualche piccola somma da distribuire ai più bisognosi. I soldi dell'ambasciata stanno però finendo, così spesso aggiungo qualcosa del mio. Tornato alla villa, sono riuscito a mangiare qualcosa solo alle quattro di pomeriggio. Alle cinque ho sentito spari di armi automatiche e di mortai. Mezz'ora dopo era di nuovo tutto silenzioso. I rifugiati hanno preparato il cenone natalizio. Nell'androne spicca un bell'albero di Natale. La sera, per soddisfare un invito sono sceso in città con la cremagliera. Le persone che mi hanno invitato a cena abitano al numero 10 della piazza Ferenc Liszt. Dopo cena ho fatto una passeggiata fino al numero 72 di via Imperatore Vilmos, all'appartamento che il dottor Friedrich mi aveva lasciato ai primi di novembre. Per strada mi hanno fermato due volte, con violenza. Erano Crocefrecciati e nazisti. Ho incontrato una guardia della polizia e gli ho chiesto di scortarmi a casa. Durante il tragitto questi mi ha confidato di sapere da fonti assolutamente attendibili che i russi hanno tagliato la strada per Vienna e che in poche ore Budapest potrebbe essere circondata. Mi ha detto che i russi hanno attraversato il Danubio a nord e poi si sono improvvisamente diretti verso Budapest. Siccome questa loro mossa non era stata prevista, sono riusciti a guadagnare 60 chilometri di strada e sono ormai alla periferia della città. Adesso capisco perché non sono riuscito a trovare nessuno in tutto il ministero degli Esteri! 25 dicembre, lunedì: I tedeschi hanno bloccato i ponti sul Danubio, segno che la guerra è ormai vicina alla città. Per fortuna la Buik è parcheggiata all'ambasciata. Si sentono spari e le strade sono deserte. Aspettavamo un camion con derrate alimentari, ma non è arrivato. La situazione del cibo comincia a diventare precaria. Ho fatto il giro delle case e mi sono rivolto a tutti in questo modo: "Signori, finora l'ambasciata di Spagna è stata in grado di difendervi, ma ora considero mio dovere comunicarvi che il precipitare degli avvenimenti renderà più insicura la vostra protezione. La città è circondata, il nazismo sta vivendo le sue ultime ore, non ci sono più autorità e ancora non so a chi rivolgermi in caso di violenze. E ho paura che di violenza ce ne sarà tanta in città. Può darsi che gli estremisti, all'ultimo momento, si uniscano alla marmaglia e attacchino gli ebrei. Come può darsi che io non possa fare più nulla. Un mese fa vi ho chiesto di far sparire le armi. Ora vi chiedo di tenerle pronte. In caso di attacco, difendetevi!" Sono tutti molto spaventati. In molti cercano dei nuovi rifugi più sicuri. Io ho cercato di dissuaderli dal farlo.


Verso le dodici ho detto a Farkas che sarei andato a vedere che cosa era successo alla villa, perché nessuno mi rispondeva al telefono. Farkas, nonostante le proteste generali, ha voluto accompagnarmi. Al Ponte delle Catene i tedeschi ci hanno bloccato. Ho fatto presente che ero un funzionario spagnolo e che stavo andando a casa mia. L'ufficiale ha fatto una telefonata e ci ha fatti passare. All'inizio di via Istenhegyi ci hanno fermato i soldati ungheresi. Il loro comandante ci ha detto che proseguivamo sulla nostra responsabilità. Alla fine, a piedi e correndo abbiamo raggiunto la villa. I rifugiati mi stavano aspettando, la tavola era imbandita. Quando sono venuto via, non ho portato i miei effetti personali per non spaventarli. Così ho lasciato in camera i miei vestiti, gli incartamenti e gli oggetti di valore. Non sapevo cosa rispondere quando mi hanno chiesto se sarei tornato all'indomani. Siamo tornati presto a Pest. Pare che i tedeschi vogliano difendere sul serio la città. Ci sono bande di Nyilas che girano uccidendo i "traditori" e saccheggiando. Verso le 17 una di queste bande ci ha fermati in piazza Mussolini. "Ambasciata spagnola" ho detto loro, ma secondo il loro capo questo non era sufficiente. Ho dovuto esibire passaporto e carta di riconoscimento diplomatica. Ma quell'idiota di autista ha voluto anche il passaporto di Farkas e quando ha visto che l'avvocato aveva un cognome ungherese e che parlava ungherese, si è infuriato e, giocando con la pistola, ha cercato di farlo scendere dalla macchina. Lo ha chiamato "sporco ebreo" e sembrava che lo volesse ammazzare. Per fortuna è arrivato un ufficiale dell'esercito e così abbiamo potuto tornare all'ambasciata. Ho detto a Farkas di non lasciare più l'edificio. Mentre ero via, un colonnello dei carabinieri è venuto all'ambasciata per comunicare che il comando militare ungherese di zona vuole assicurare la tranquillità della legazione ed evitare che qualche pazzo possa commettere atti simili a quelli avvenuti a danno degli svedesi. I rifugiati sono molto agitati, pensano che sia una trappola, mi hanno pregato di rifiutare l'offerta di aiuto. Ma io la vedo sotto un altro punto di vista e poiché anche la Nunziatura ha accettato l'intervento dei carabinieri, non vedo perché non dovrei farlo anch'io. 26 dicembre, martedì: Per tutta la notte si sono sentiti gli aerei che volano sopra la città. In mattinata sono andato con Farkas al comando di zona. Ho dovuto portarlo con me, perché spesso i soldati non capiscono le lingue straniere. Abbiamo parlato con un colonnello. Ci ha raccontato che in città ci sono bande di terroristi crocefrecciati che saccheggiano e che si sono unite ai delinquenti comuni commettendo atrocità. I carabinieri vogliono tutelarci da queste incursioni. Ho accettato un gruppo di guardia di quattro elementi armati di bombe e mitragliatrici e ho chiesto di tener d'occhio, in via Podmaniczky, anche la casa antistante l'ambasciata, che è una nostra dipendenza. L'ufficiale è stato d'accordo. Verso mezzogiorno sono arrivati i quattro carabinieri, armati fino ai denti, ma vestiti in borghese. Pieno di sospetti, mi sono di nuovo recato dal colonnello. In gran confidenza questi mi ha detto che un gruppo di ufficiali aveva deciso di sottrarre ai tedeschi il più alto numero possibile di carabinieri, in modo da poter avere truppe disponibili per l'ordine pubblico quando sarebbero arrivati i russi. Le guardie sono state sistemate in modo tale da non poter entrare in contatto con i nostri protetti. 27 dicembre, mercoledì: Il cibo sta finendo. Ho un accordo con un fornaio perché ci porti il pane tutti i giorni. Dalla Croce Rossa ho comprato del prosciutto, al mercato nero abbiamo acquistato frutta secca, zucchero, miele, lardo e quant'altro abbiamo trovato. Il cibo lo portiamo nelle case protette. La gente qui è sempre più nervosa. Sono sistemati nei bagni, nei corridoi e per le scale. In molti non riescono a entrare nei rifugi. Hanno la paura sul volto, terribile a vedersi. Nel pomeriggio l'ufficiale dei carabinieri mi ha chiamato per dirmi che, per ordine dei suoi superiori, mi accompagneranno per strada. Quando andrò a piedi, cammineranno dietro di me, a distanza di due passi, portando la bandiera spagnola. Quando mi muoverò in macchina, saranno seduti sul sedile posteriore. Eccellente! 28 dicembre, giovedì: Ho cercato Vajna, il ministro degli Interni, ma non l'ho trovato. Quando sono arrivato all'hotel Esplanade, vicino al ponte Margherita, ho visto che un gruppo di soldati e civili stava lasciando in fretta l'edificio per proseguire verso piazza Kàlmàn Széll. Mi hanno detto che i russi stavano arrivando. Ho sentito degli spari e degli scoppi, ma non ho capito da dove venissero. Un militare mi ha indicato un gruppo di persone che stava correndo, a qualche centinaia di metri da noi. Erano i russi. Abbiamo fatto manovra con la macchina e siamo partiti in direzione opposta, ma in piazza Kàlmàn Széll ci siamo trovati in zona di combattimento. Stavamo già pensando di abbandonare la macchina, quando, attraverso una via tranquilla, siamo riusciti ad allontanarci dalla zona degli spari. Ho saputo che il capo di Stato Maggiore della polizia ha trovato sistemazione nello scantinato del Municipio. Ci sono andato e ho trovato il colonnello Gyula Sédey, comandante della polizia. Mi ha fatto una buona impressione. Si è detto dispiaciuto per le sofferenze della capitale e della gente. Gli ho ribadito che la capitale è


nelle mani di pazzi sanguinari e che per le strade giacciono i corpi degli uccisi e che tra di loro donne e bambini sono in gran numero. Egli mi ha fatto presente che il personale a sua disposizione non è sufficiente per ristabilire l'ordine. Io allora gli ho fatto notare che nel palazzo c'erano almeno duemila poliziotti, ma lui ha risposto che non voleva disperderli in città, perché non sarebbe servito a niente. Così se li tiene tutti vicini per evitare il peggio. Nelle case protette la vita continua in silenzio. A parte i pericoli della guerra e la scarsità di cibo, la sicurezza forse qui è maggiore di prima. Tarpataki ha schierato un buon numero di guardie intorno al "ghetto internazionale". L'edificio di via Phonix numero 5 è stato colpito da una bomba. Due persone sono morte, altre sono rimaste ferite. Altra bomba al numero 33 di via Kàroly Légràdy. Anche qui due morti e numerosi feriti. E' stata colpita anche la casa di via Podmaniczky e un'altra bomba è scoppiata sul balcone dell'ambasciata, per fortuna senza causare feriti. 29 dicembre, venerdì: All'alba sono arrivati in ambasciata altri tre carabinieri. Ormai sono sette. I nostri protetti hanno di nuovo paura e anch'io sono preoccupato, tanto che ho rifiutato di dare ospitalità al professor D'Alessandro e alla sua fidanzata che si volevano trasferire qui dall'Istituto italiano di cultura, colpito più volte da bombe. Siccome è noto ai tedeschi e so che lo stanno ricercando, ho avuto paura che, ospitandolo, avrei potuto creargli una trappola. Ho trovato per loro un rifugio presso la Croce Rossa Internazionale. 30 dicembre, sabato: La notte scorsa è successo un fatto terribile. Hanno preso un gruppo di ebrei del ghetto e li hanno trucidati in piazza Ferenc Liszt e in via Eòtvòs. Abbiamo prima udito le grida e le suppliche di centinaia di persone, e poco dopo gli spari. All'alba mi sono recato sul posto e ho visto che i morti erano per la maggior parte donne e bambini. La mattina sono andato all'hotel Hungaria per incontrare il delegato della Croce Rossa Internazionale, Weyermann. Improvvisamente mi si è avvicinato un ufficiale ungherese, pregandomi di andare con lui in riva al Danubio. I miei carabinieri hanno tentato di mandarlo via, temendo un attentato. Poi. si sono limitati a rimanermi vicino, ma con i mitra puntati sull'ufficiale. Tutta la riva del fiume era ricoperta da neve, ma davanti ai caffè Hungaria e Negresco il colore era diventato rosso sangue. Nel fiume si vedevano i corpi nudi di centinaia di morti, che l'acqua non aveva potuto trascinare con sé a causa della presenza di blocchi di ghiaccio. Queste persone erano state ammazzate durante la notte e poi gettate in acqua. Ho detto all'ufficiale che avevo visto qualcosa di simile vicino al ponte Margherita e gli ho chiesto perché mi avesse invitato qui. Il suo scopo era quello di convincere gli stranieri che l'esercito era estraneo a questi fatti. E' vero, gli ho risposto, ma l'esercito serve per far rispettare la legge e tutelare i diritti dei cittadini, non per assistere a simili atrocità. Mi hanno raccontato che le vittime erano state costrette a camminare per circa due chilometri, in fila per due, con le mani legate, a piedi scalzi e completamente svestite. Le avevano poi fatte inginocchiare sulla riva del fiume e avevano sparato loro alla nuca. L'ufficiale mi ha consegnato una donna che si era salvata per essere caduta in acqua prima degli spari. L'avevano salvata e la stavano frizionando con della canfora. L'ho portata con me all'ambasciata. 31 dicembre, domenica: Stamattina mi sono salvato solo per caso. Alle otto sono salito in macchina per il giro delle nostre case. Avevamo cibo e medicine. Stavamo partendo quando ho sentito che mi chiamavano per andare a rispondere al telefono. Per non perdere tempo, ho dato ordine di partenza senza di me. Io li avrei raggiunti al giro successivo. Somogyi guidava la macchina, poi c'era il funzionario della Croce Rossa e i soliti due carabinieri. In via Pannonia la macchina è stata mitragliata da un aereo russo. Somogyi è rimasto ferito alle due orecchie, ma solo leggermente, ma il carabiniere che sedeva al mio posto è morto all'istante. Abbiamo perso l'ultima macchina. Da oggi il cibo dovrà essere portato a mano. E' la sera di San Silvestro e l'abbiamo passata in allegria. Madame Tournè ha offerto dei vini spagnoli della riserva dell'ambasciata, anche i nostri protetti sono riusciti a dimenticare per qualche ora quello che succede intorno a loro. Anche gli spari si sono ammutoliti, come a salutare il nuovo anno. E' la prima volta in una settimana che non sentiamo scoppi di bombe o rumore di aerei. C'è silenzio. 2 gennaio 1945, martedì: I primi due giorni dell'anno sono trascorsi tra pericoli e incidenti minori. Oggi si è fatto vivo per telefono il direttore del nostro rifugio sulla Collina delle Rose. Mi ha comunicato che i russi erano appena entrati nel rifugio e che i bambini erano ormai al sicuro. C'era un ufficiale russo che parlava tedesco, gli ho comunicato che da quel momento spettava all'armata sovietica proteggere i bambini.


All'ambasciata il cibo è quasi finito. Per pranzo abbiamo mangiato pane e zucca e a cena la stessa cosa. Per fortuna mi offrono da mangiare i miei amici di piazza Ferenc Liszt. Fuori la temperatura è scesa a meno dieci. In tre mesi ho perso diciassette chili. 3 gennaio, mercoledì: Il telefono non funziona più. Oggi hanno dato l'allarme. Ho sentito che il comando militare vuole trasferire tutti gli ebrei dal ghetto internazionale a quello comune. Mi sono allarmato, mi sembra incredibile che il comando distacchi le sue truppe per un compito praticamente superfluo. E poi, nel ghetto non ci sarebbe posto per altre 15.000 persone. Nel pomeriggio ho incontrato Tarpataki. Non ha ricevuto disposizioni, ma secondo lui, visto che tutto è perso c'è da aspettarsi da parte di Vajna una vendetta, qualcosa di brutto. Gli è stato chiesto di trasferirsi a Buda, ma non lo ha fatto. Si è barricato in una banca di via Imperatore Vilmos. 4 gennaio, giovedì: All'alba il giovane Bàrdos è venuto all'ambasciata per comunicarmi che stavano evacuando la sua casa. Mi sono messo a correre, ho incontrato una colonna di ebrei che veniva trasferita dalle case protette verso il ghetto comune. Si diceva che li portavano tutti lì e poi avrebbero incendiato il ghetto. La stessa cosa mi viene riferita da alcuni ufficiali di polizia. Ho compiuto una rapida visita al ghetto comune. Per le strade giacciono migliaia di morti. Sono andato da Sédey, ma mi ha detto di non poter fare proprio nulla. Ho parlato con l'aiutante di campo di Ferenczy e con un altro ufficiale che fa da tramite tra il ministero degli Esteri e il comando zonale. Mi confermano tutti che l'ordine viene dai tedeschi. Per strada sono stato testimone di diversi incidenti tra Nyilas e carabinieri. I Nyilas razziano ebrei, li picchiano e sparano anche tra le gambe di chi non riesce a camminare. I carabinieri si oppongono alle violenze e raccolgono anche i pacchi abbandonati dai più deboli. Non riesco a mettermi in contatto con le altre ambasciate. Anche i miei carabinieri mi confermano che i tedeschi vogliono incendiare il ghetto. Le case spagnole, per il momento, non verranno toccate. 5 gennaio, venerdì: Alle cinque e mezzo è tornato il giovane Bàrdos. Ha detto che i Crocefrecciati hanno ripreso a rastrellare la gente. Con Farkas mi sono recato da Tarpataki. Gli ho fatto presente che voglio parlare con il ministro Vajna. Mi ha consegnato una disposizione scritta, secondo cui le razzie vengono momentaneamente sospese per le case protette dalle ambasciate. In compagnia di un ufficiale di polizia ho girato tutta la zona per illustrare il contenuto della disposizione. I poliziotti erano soddisfatti, ma non così i Crocefrecciati. Nelle case la notizia di un possibile incendio del ghetto mi ha preceduto. Prima che arrivassi, si sono suicidati in molti. Nella casa di piazza Santo Stefano 35 una donna si è buttata dal quarto piano. Nelle altre case spagnole gli uomini hanno deciso di usare le armi. Se avessi la certezza di poter disporre di armi in numero sufficiente, io stesso darei il segnale di attacco. Penso che forse si schiererebbero con noi anche le forze di polizia. Mentre camminavo per strada la gente mi si avvicinava e mi salutava con gratitudine. I carabinieri erano visibilmente fieri di accompagnare una persona così stimata. E' venuto in ambasciata uno dei funzionari della legazione portoghese. Chiede che noi accettiamo la tutela dei portoghesi, perché l'incaricato onorario conte Pongràcz si è ammalato e non è più in grado di svolgere il suo compito. Mi ha detto che cinquecento protetti del Portogallo sono in procinto di essere trasferiti nel ghetto. Gli ho promesso la cura dei loro protetti, ma ho preteso una richiesta formale da parte del conte Pongràcz. Questo signore in realtà non si fa vedere già da Natale, ma non per malattia. Per paura. 6 gennaio, sabato: Sono andato nelle case portoghesi. Purtroppo gli ebrei sono già stati portati via all'alba. Ho fatto una corsa da Vajna. E' ormai difficile raggiungere il Municipio, c'è una pioggia di bombe e granate sempre più fitta. Gli aerei bombardano tutta la zona. Bombe anche nel cortile del municipio, i russi devono aver saputo che qui sono concentrati i comandi. Ma è un tentativo inutile perché i comandi sono sotto il palazzo in un labirinto massiccio che protegge anche dalle bombe più potenti. Nel sotterraneo ho trovato Wallenberg e Zurcher dell'ambasciata svizzera. Anche loro sono venuti per chiedere a Vajna di sospendere il trasferimento dei loro protetti nel ghetto comune. Ho chiesto loro di farmi parlare per primo, convinto che come spagnolo ho maggiori possibilità di convincere quel pazzo. Hanno acconsentito. Ernó Vajna, ministro degli Interni. E' incredibile come un uomo che appare distinto e gioviale possa essere in realtà un'anima così cattiva. Abbiamo parlato per due ore, tutto è stato faticoso perché Vajna parla un tedesco peggiore del mio. Gli ho detto subito che era giunto il momento di arrendersi, che la resistenza non ha più senso e causa solo morti e distruzione della città. Gli ho detto che una immediata capitolazione obbligherebbe il vincitore a una maggiore comprensione e si potrebbe mettere fine all'azione delle bande di saccheggiatori. Ho cercato, a lungo, di fargli capire che la guerra è ormai perduta, che quello che sta avvenendo è insensato e vergognoso. Gli


ho detto che il mondo non lo dimenticherà facilmente. Mi sono appellato al suo patriottismo e gli ho ribadito che insieme agli altri diplomatici sarei stato pronto a fare di tutto per facilitare il processo di resa. Vajna mi ha risposto che non si parla di resa. La città secondo lui deve essere difesa fino al suo ultimo uomo. Mi dice che una colonna tedesca proveniente da Esztergom sta per arrivare a Buda. Allora ho cambiato argomento. Secondo Vajna gli ebrei sono pericolosi fuori dal ghetto perché potrebbero sabotare la resistenza. Gli ho spiegato che questo è impossibile perché sono tutti disarmati. Nel ghetto non ci sono più posti, mancano acqua, gas, cibo e medicine, ci sono migliaia di morti insepolti. Se si mette a tirare vento caldo ci sarà pericolo di epidemie. Gli ho anche detto che il comando tedesco ha dichiarato di non volersi intromettere e che pertanto la responsabilità di quello che sarebbe successo sarà soltanto sua. Gli ho detto che l'incendio del ghetto con settantamila persone dentro sarebbe una malvagità che il mondo non potrà perdonare. "Lei conosce la malvagità degli ebrei" è stata la sua risposta. Gli ho detto che non volevo continuare su questo argomento e che la malvagità, secondo me, viene da tutt'altra parte. Dopo due ore di colloquio Vajna aveva solo concesso che gli ebrei protetti dalla nostra ambasciata venissero sistemati fuori dal ghetto, ma nelle immediate vicinanze di questo. Gli ho detto che tutto ciò era insufficiente. Mi sono fatto coraggio e gli ho detto quanto segue: "Signor Vajna, nella mia ultima lettera le ho scritto chiaramente che il governo spagnolo dovrà ricorrere alla ritorsione se i nostri protetti dovessero essere vittime del suo crudele trattamento. Se il governo spagnolo, entro il 10 gennaio, non riceverà una mia missiva rassicurante, avrà inizio la ritorsione. Sappia che in Spagna vivono tremila cittadini ungheresi e che il governo ha deciso di internarli e di confiscare i loro beni qualora i suoi protetti qui a Budapest venissero molestati. La stessa cosa è pronta anche per gli ungheresi che vogliono recarsi in Paraguay e per i quali qui a Budapest sono stati rilasciati centocinquanta passaporti provvisori". (Tutto questo era un bluff colossale. Credo che non ci fossero più di trecento ungheresi in Spagna). Vajna mi ha risposto che non parlavo con un tono degno di un diplomatico. Gli ho detto che era la situazione che lo richiedeva. Allora lui mi ha chiesto che garanzia poteva avere che i cittadini ungheresi in Spagna non sarebbero stati disturbati. Gli ho risposto: "Signor Vajna, il popolo latino non ha mai perseguitato gli stranieri senza motivo. Se lei è d'accordo con le mie richieste, che sono legittime e umanitarie, non vedo perché mai i governi di Spagna e Paraguay dovrebbero infastidire i suoi compatrioti". La belva feroce si è calmata. Ho avuto l'impressione che cominciasse a capire quali sarebbero potute essere le conseguenze dei suoi atti. E' rimasto un attimo pensoso e poi ha detto, emozionato: "L'Ungheria sta attraversando la più grande tragedia della sua storia". Gli ho risposto: "Lei può fare qualcosa per alleviarla! Se lei ama il suo paese, deve agire con ragionevolezza!". Ha ceduto. Mi ha assicurato che i protetti spagnoli non sarebbero stati toccati. E che avrebbe fatto trasmettere la notizia alla radio. A questo punto, gli ho detto che fuori aspettavano Wallenberg e Zurcher e che non mi ritenevo soddisfatto se non dava anche a loro la stessa assicurazione. L'ho anche invitato a fare un giro con me in città, per rendersi conto di quello che stava succedendo. E' rimasto meravigliato di questa richiesta. Alla fine era un uomo distrutto. Sono uscito e ho comunicato brevemente a Wallenberg il risultato. 7 gennaio, domenica: E' venuto l'attendente di Vajna per prendere il telegramma che avrei dovuto mandare a Madrid. Ha detto che doveva essere trasmesso via radio militare perché non funzionava più nessun altro servizio. Farkas e io ci siamo sentiti persi. Che cosa farà il governo spagnolo quando riceverà il telegramma? Dichiarerà di non avere più rappresentanza a Budapest? Alla fine abbiamo deciso di indirizzare ugualmente il telegramma, ma di farlo passare attraverso l'ambasciata spagnola a Berna. Speriamo che Sanz Briz capisca. Nel messaggio abbiamo scritto che qui è tutto tranquillo e che, grazie alla collaborazione con le autorità locali, tutti i protetti stanno bene. Abbiamo anche mandato la richiesta delle autorità ungheresi di tutela dei cittadini ungheresi in Spagna e Paraguay. Speriamo che la risposta non arrivi troppo presto! Oggi i carabinieri addetti alla nostra difesa sono stati richiamati. Anche i due che mi accompagnavano nei miei spostamenti. 8 gennaio, lunedì: Ho scritto al colonnello Sédey chiedendo nuove guardie. Mi ha subito mandato un ispettore di polizia e un altro agente. Ho notato che i trasferimenti di ebrei sono stati sospesi e che in vari punti del ghetto sono state schierate sentinelle di polizia. Sembra che Vajna mantenga le promesse. Nelle vicinanze del ghetto non si sentono più spari. C'è uno strano silenzio. 9 gennaio, martedì: Mi hanno comunicato solo oggi che il giovane Bàrdos è scomparso da tre giorni. Sono pieno di rabbia. Bàrdos è stato preso nelle vicinanze di piazza Mussolini. Alcuni mi dicono che è stato ucciso subito. E' un ragazzo pieno di coraggio e molto umano. 10 gennaio, mercoledì:


Sono tornato ancora una volta in municipio. C'è sempre meno gente e sono tutti depressi. Non ho trovato né Vajna né Sédey. Ho la sensazione che abbiano avuto ordine di sparire. Tarpataki è sempre barricato nella sua piccola fortezza. 13 gennaio, sabato: Nelle nostre case, viste le circostanze, tutto è in ordine, ma il cibo è finito e tutti temono i bombardamenti. La casa di piazza Santo Stefano 35 è stata colpita più volte, ma non ci sono state vittime. Ormai è quasi impossibile camminare nella zona. Dal pomeriggio non posso più lasciare l'ambasciata perché anche la via Eòtvós è teatro di sparatorie. Sono passati dei soldati ungheresi a portarci notizie delle altre case. A sera i combattimenti sono cessati e tutto tace.


CAPITOLO VII

CANTINE, CARBONE E UN NUMERO DI TELEFONO SUL BRACCIO

(piccolo pezzo in francese) A Monsieur Georges Perlasca, Budapest. Aujourd'hui, le 16 Janvier 1945, au moment où les troupes sovietiques sont penetrés dans notre quartier et que nous nous sentons enfin liberées de la tyrannie nazie, nous sentons le devoir de vous remercier de tout ce que vous avez fait pour nous, en nous soutrayant d'une morte certaine. Nous n'avons jamais douté de votre courage, de votre abnegation et des risques que vous aviez encourrus pour nous en toute occasion. Nous tenons a faire cette declaration solennellement. Nous soussignés, en vous gardant une eternelle reconnaissance, signons la presente declaration. Budapest, le 16 Janvier 1945. (fine pezzo in francese) La carta è vecchia di decenni. Un foglio bianco senza intestazioni. La "solenne dichiarazione" è scritta a macchina, senza cura per gli accenti. Sotto la data, in colonna, sono elencati i nomi di sedici persone; a fianco, le loro firme autografe vergate con la penna stilografica. Sono i nomi di chi aveva mandato avanti, per quarantotto giorni, la legazione di Spagna orfana del suo capo, in Budapest assediata; sfornando migliaia di certificati di protezione gratuiti, trovando cibo e denaro per proteggere le folle di ebrei che erano andati alla sede dell'ambasciata cercando di sfuggire alla deportazione. 'Aujourd'hui, le 16 Janvier 1945, au moment où les troupes sovietiques sont penetrées dans notre quartier..." Non attesero una dichiarazione ufficiale di liberazione della città, per stilare quell'attestato a Perlasca, in mezzo alla commozione e alle lacrime. Attesero soltanto che gli spari e le esplosioni cessassero e che con i megafoni le truppe russe si facessero sentire. Molti degli ebrei di Pest ricordano quei suoni che giunsero loro dentro le cantine. "Tenete duro", "Stiamo arrivando..." Poi i lunghi silenzi. Infine, ai primi coraggiosi che provarono a guardare fuori, la vista dei carrarmati sovietici in mezzo alle strade. Così successe anche in via Eótvós, alla sede del palazzo dell'ambasciata, dove si era combattuto fino all'ultimo. A proporre di stilare immediatamente l'attestato fu l'avvocato Zoltàn Farkas, uno dei pochi che sapeva che Perlasca non era affatto il nuovo incaricato di affari, che non era affatto un diplomatico spagnolo, che non era altro che un italiano sperduto in mezzo alla guerra, autore di una grande impresa. L'avvocato Farkas intuiva certo che l'attestato, negli incerti del dopoguerra, sarebbe servito a quell'italiano; per raggiungere casa o per far sapere, comunque, chi era. Era stato Giorgio, poi Jorge, ora diventava Georges. "Il povero avvocato Zoltàn Farkas," ricorda Perlasca. "Eravamo diventati amici. Avrà avuto sessant'anni, un uomo alto e robusto, decorato della prima guerra, sposato con una nobildonna di Vienna. Gli piacevano la lotta e il rischio, in quei giorni gli brillavano gli occhi, era come se fosse ridiventato giovane. Adesso le racconto come morì l'avvocato Farkas. La stessa sera della lettera scoppiarono alcune granate che uccisero dei soldati russi. I russi entrarono nella nostra sede convinti che l'attacco fosse venuto di lì. Erano quasi tutti ubriachi. Picchiarono tutti, rubarono gli orologi. Sotto una pila di carbone trovarono una cassa di pistole automatiche e si convinsero di essere alla presenza di un nido di franchi tiratori. Si sfogarono picchiando tutti, minacciandoci di impiccagione. Farkas tenne loro testa e spiegò che era una collezione di pistole che era appartenuta a un ministro spagnolo, e che si poteva vedere benissimo che non era mai stata usata. Era molto turbato. Scappò sul tetto, insieme ai due funzionari di polizia. Dal tetto Farkas, credo per l'emozione e per mancanza di agilità, cadde nel cortile e morì." Il gennaio del 1945 a Budapest fu gelido. Il Danubio per larghi tratti era ghiacciato e il grande Ponte delle Catene, colpito da una bomba proprio nel mezzo, si era spezzato in due tronconi. Le strade erano piene di neve e cadaveri. La resistenza dell'esercito tedesco e dei Nyilas fu molto accanita e fino all'ultimo segnata dall'attività, fuori controllo per chiunque, di bande armate. Le truppe sovietiche, per giorni, dovettero limitarsi a difendere le posizioni conquistate nell'avanzata. La mattina del 18 gennaio un carroarmato sovietico sfondò il muro di legno eretto intorno alla grande sinagoga di via Dohàny e al piccolo quartiere di stradine che vi stava dietro ed entrò nel ghetto. I primi soldati che avanzarono non videro esseri viventi per le strade. Tutto appariva vuoto. Andarono avanti e si accorsero che il giardino della sinagoga, gli uffici della comunità ebraica e alcuni negozi e magazzini erano ricolmi di cadaveri


gelati. Solamente dopo ore, e con grande circospezione, dalle case e dalle cantine cominciarono ad emergere persone vive. Decine di migliaia, soprattutto donne, vecchi e bambini: il ghetto di Budapest, orribilmente colpito, si era salvato. Nello stesso giorno vennero liberati altri ventimila ebrei che stavano rinchiusi nel "ghetto internazionale", nel quartiere intorno al parco di Santo Stefano. Ma ci vollero ancora venti giorni perché anche la collina di Buda venisse liberata. La città si popolò di file di ebrei in faticoso movimento. Chi andava a cercare notizie dei parenti, chi a vedere che cosa era successo della propria casa o a cercare di raccogliere qualcosa da mangiare. Ma non si sapeva ancora che fine avevano fatto gli uomini giovani e adulti, le decine di migliaia deportati nei campi di lavoro, a estrarre rame nella miniera di Bor o a costruire i rifugi sotterranei e le trincee che avrebbero dovuto difendere Vienna. I primi gruppi cominciarono a tornare solo nel mese successivo. La liberazione di Budapest avvenne senza gioia. Anzi, fu rancorosa. I cittadini ungheresi che avevano occupato case degli ebrei, che avevano preso possesso dei loro negozi, il più delle volte non li vollero lasciare. Esibirono fogli e timbri di certificazione del loro diritto, pronti a difendere anche con la forza i loro nuovi possessi. Quelli che erano scesi in strada a guardare, in silenzio e nell'indifferenza, le colonne dei deportati, ora con lo stesso atteggiamento assistevano al passaggio dei sopravvissuti, gli uomini rasati, magri, muti, paralizzati dal ricordo di quanto avevano patito o avevano visto, straniati dal non sapere che cosa era accaduto ai loro parenti. Molti di quelli che avevano fatto parte delle gang dei Nyilas, e tra di loro anche persone conosciute, ora si presentavano ai vincitori dicendosi loro simpatizzanti e addirittura chiedendo l'iscrizione al partito comunista. La nuova amministrazione militare sovietica gestì il dopo liberazione con mano dura e sospettosa. Decine di migliaia di ebrei, in attesa di poter tornare nelle loro case, furono parcheggiati in campi, assistiti dalla Croce Rossa Internazionale. Le legazioni diplomatiche che avevano permesso il salvataggio di ventimila ebrei nelle "case protette" del "ghetto internazionale" vennero trattate con la freddezza accordata ai neutrali. L'inviato del re di Svezia, Raul Wallenberg scomparve nel nulla. Nessuno sapeva che fine avesse fatto. Giorgio Perlasca, commerciante italiano con un passaporto diplomatico franchista che lo identificava in Jorge e alcuni attestati che lo identificavano in Georges, non aveva certo le carte in regola per essere abbracciato come un fratello dai vincitori. Riuscì a raggiungere con difficoltà, un comando dell'Armata Rossa, dopo essere stato fatto segno di una fucilata da due cosacchi ubriachi. Si presentò all'ufficiale e da questi venne messo al lavoro: recuperare cadaveri sepolti sotto il ghiaccio e la neve nelle strade di Budapest. Riuscì a scappare dal lavoro forzato e di nuovo a rifugiarsi presso i suoi amici. "Avevo con me 3700 pengo, una borsa di pelle, un chilo di spaghetti, un po' di noci /e due pacchetti di sigarette. Tutto quanto possedevo mi era stato rubato dai russi in legazione oppure era andato distrutto nell'incendio della villa Szécheny. L'avventura era finita, ma ne cominciava un'altra: quella della fame." Erano in molti a sapere quello che aveva fatto. Perlasca consegnò una copia dei suoi appunti a Jenò Leval, un ex ufficiale dell'esercito austroungarico, al quale si deve la principale documentazione esistente sulla persecuzione antiebraica in Ungheria, un paziente lavoro compilato grazie alle testimonianze e ai documenti scampati alle distruzioni provocate dall'assedio. La sua presenza e la sua attività vennero riconosciute con molti certificati, pieni di timbri e di firme, proprio come quelli che Perlasca aveva prodotto come falso console. Il Comitato esecutivo provvisorio dell'Associazione ebraica ungherese riconobbe immediatamente la sua opera: Con la più grande disponibilità certifichiamo che Lei, durante il periodo del governo Szalasi ci ha più volte aiutato e che, in quei giorni, ha rischiato tutto pur di aiutare gli ebrei attraverso i suoi rapporti ed i suoi interventi personali. In quei tempi duri e critici, Lei è sempre stato accanto a queste persone in serie difficoltà, ed ora siamo felici che sia giunto il momento di poterla ringraziare per l'impegno costante e per i suoi nobili sentimenti umani. Secondo le nostre informazioni, la Sua attività in favore dei cittadini ebrei israeliti ha fatto sì che alcune migliaia di essi avessero salva la vita e superassero il periodo dell'assedio di Budapest e le ben note difficoltà politiche. All'inizio del marzo 1945, i rappresentanti del nuovo governo scrissero per lui un documento, che gli fu essenziale come salvacondotto. Anche questo diverso, ma poi non così tanto, da quelli che lui e Farkas producevano: A tutte le autorità o persone private: La sezione del IV Distretto del Partito Social Democratico certifica che durante il precedente regime, il signor Giorgio Perlasca ha compiuto sforzi sovrumani in favore degli oppressi e dei perseguitati. Come incaricato della supervisione di case protette, egli è sempre intervenuto, e spesso a rischio della propria vita, in aiuto dei suoi tutelati. La sua luminosa dimostrazione di vero spirito filantropico e umanitario merita le nostre più profonde dimostrazioni di affetto e di gratitudine. Ricorda Perlasca. "Quell'attestato me lo fecero nella stessa sede in cui andavo per cercare di recuperare i nostri protetti. Le stesse stanze; e purtroppo mi toccò di vedere anche persone che avevo conosciuto con altre divise. Io


ero andato lì per cercare di far qualcosa per Tarpataki, per testimoniare che si era comportato sempre come un galantuomo. Credo che sia stata l'unica volta in cui mi sono presentato come un antifascista italiano." A maggio la guerra era finita, il Terzo Reich era caduto. Nell'Europa distrutta ricominciarono a funzionare treni e stazioni. Il 29 maggio del 1945, un trafiletto su un quotidiano di Budapest annunciava la partenza dalla capitale ungherese dell'amico italiano. Alla stazione Est, in attesa del treno, venne a salutarlo una piccola folla, amici e persone cui aveva salvato la vita. Davanti ai binari si presentò una delegazione degli inquilini della casa di piazza Santo Stefano 35 e gli consegnarono l'ultimo attestato: Ci dispiace apprendere che lasciate l'Ungheria, diretto alla vostra terra natale,. l'Italia. In questa occasione vogliamo esprimervi l'affetto e la gratitudine delle diverse migliaia di ebrei sopravvissuti grazie alla vostra protezione. Non ci sono parole per lodare la tenerezza con cui ci avete sfamato e vi siete preso cura dei vecchi e degli ammalati. Ci avete incoraggiato nel momento in cui eravamo vicini alla disperazione e il vostro nome non mancherà mai dalle nostre preghiere. Che Dio Onnipotente possa ricompersarvi". Il giorno dopo comparve sul quotidiano "Kis Ujsàg" una cronaca della sua partenza. Al giornalista che in attesa del treno passeggiò con lui intorno alla stazione ("Intorno c'è il solito panorama: gruppi di uomini distrutti e stanchi che passano. Intorno a piazza Baross il fumo ci stringe la gola. I bambini giocano allegramente nella vasca della riserva d'acqua, che loro chiamano piscina") apparve molto magro e pallido; "soltanto gli occhi gli brillano". Giorgio Perlasca ebbe un viaggio lungo per tornare a casa. Passò per Bucarest e poi per Sofia. Di qui arrivò a Istanbul, da dove una nave lo portò a Napoli. L'Ungheria, che per gli accordi firmati a Yalta, toccò a Stalin, divenne una "repubblica popolare", che si ribellò all'Urss nel 1956 e fu punita dai carriarmati di Mosca; rimessa nei ranghi del blocco sovietico, le venne concessa una certa autonomia in più, tanto che si meritò l'appellativo di "baracca più comoda del lager". Nel 1988, quando attraverso un piccolo annuncio sul giornale "il sedicente console spagnolo" venne rintracciato, si era alla vigilia dei grandi cambiamenti e quando nel 1989 si presentarono alla stampa i testimoni che ancora ricordavano l'"uomo giusto" di quarantaquattro anni prima e Giorgio Perlasca tornò a Budapest per essere onorato dal parlamento, i cambiamenti erano in pieno svolgimento. Le spoglie di Imre Nagy, il comunista che si era ribellato a Mosca nel 1956, furono riesumate da una fossa senza nome e risepolte con una imponente scenografia. Migliaia di tedeschi della Repubblica Democratica aggiravano la clausura scendendo attraverso la Cecoslovacchia ed entrando in Ungheria, che permetteva il passaggio in Austria. Venivano parcheggiati in grossi campi, dormivano nelle loro Trabant. All'aeroporto di Budapest faceva scalo la navetta Mosca-Tel Aviv, due volte alla settimana. Lasciavano l'Urss migliaia di ebrei sovietici. A sud cadeva improvvisamente Ceausescu e gli ungheresi salutavano il ritorno alla libertà dei "fratelli separati" della Transilvania. Gennaio 1990. Con una piccola troupe televisiva, eccoci a Budapest. Giriamo un programma sulla vicenda di Perlasca. Rintracciamo i testimoni, filmiamo i luoghi. Facciamo amicizie. Sopralluogo al ghetto. Andiamo più volte in via Dohàny, sede del Tempio. La più grande sinagoga d'Europa è rimasta esteriormente intatta. Ogni volta che ci passiamo davanti, ci si fa incontro un uomo vecchio, un barbone. Ogni volta ci guarda con occhi sbarrati e comincia a parlare: "This is ghetto. Do you understand?". Si tocca il petto: "Me... your guide". Oltre le inferiate si scorge il giardino, con le tombe. Da certe angolazioni si può vedere l'interno, molto cadente. Apprendiamo di un progetto per ristrutturarlo, finanziato da una certa "Fondazione Emanuel", il cui' presidente e sponsor abita negli Stati Uniti. E' l'attore Tony Curtis, arrivato a New York con il nome di Bernard Schwarz. Figlio di una famiglia ebrea scappata dall'Ungheria negli Anni venti. Ci dicono che Tony Curtis è tornato a Budapest poco fa, molto applaudito, e che sa esprimersi correttamente in ungherese. Dietro il Tempio, il quartiere ebraico mostra rari segni di rivitalizzazione edilizia. Un negozietto vende Bibbie, paramenti e minuscoli libri, di tre centimetri di lato: Le festività ebraiche, Enciclopedia dei Premi Nobel ebrei, L'arte ebraicoungherese, Dizionario degli ebrei famosi nella musica. Gli edifici, come in molti altri quartieri della Pest popolare sono case di ringhiera, costruite intorno a un cortile in cemento dal quale emerge un albero. In cortile si viene anche a battere i tappeti. Molte inferriate sono decorate con la stella di Davide o con il candelabro a sei braccia. Giriamo con la telecamera, spostiamo il cavalletto, facciamo chiasso, ma nessuno mostra curiosità. Solo in un cortile si ferma una vecchia signora con due grandi sporte della spesa. Sorride. "In gioventù ho lavorato anch'io nello spettacolo. Ho anche recitato nel cinema." Che parte faceva? "Die yiddishe marna." Abbiamo l'elenco dei testimoni che conobbero Perlasca, ma alcuni di loro ci dicono che non vogliono comparire in televisione. Ritrosia a mettersi in mostra. Altri invece accettano di parlare di fronte alla telecamera e di tornare sui luoghi degli avvenimenti. Appuntamento con la signora Hoppi Palmer, impiegata negli uffici della comunità ebraica di Budapest. Ci accompagna in una delle case protette dalla Spagna, dove nel 1944 era stata nascosta e dove aveva visto Perlasca. Non ci era mai più entrata da allora. La signora Palmer scende nella cantina della casa che allora era situata al


numero 44 della via Pannonia. Comincia a respirare affannosamente. Poi a piangere. "Tutto è rimasto uguale a come me lo ricordavo." Indica un angolo: "Lì c'era il mucchio di carbone. Noi bambini venivamo messi sotto il carbone ogni volta che si avvicinavano i Nyilas. Cadevano le bombe, davanti alla casa c'era uno spazio vuoto dove i tedeschi avevano piazzato una contraerea. La gente diceva che, tra i Nyilas e la bomba, meglio morire per la bomba". Indica un altro angolo: "Lì stava seduta la mia povera madre e vicino a lei si era sistemata una cantante d'opera. Questa cantante, quando la disperazione o la paura erano più grandi, cominciava a intonare arie d'opera, d'operetta, marcette e così riusciva a calmare tutti. Veniva Perlasca a portare da mangiare, veniva anche spesso il signor Gaston Tournè. Se non fosse stato per loro, non saremmo sopravvissuti. Saremmo finiti ammazzati sulle rive del Danubio". La signora Anna Kònigsberg insegna musica in una scuola media del quartiere Ferencvàros. Le chiediamo se possiamo andarla a trovare a scuola, parlare con lei e con i suoi studenti. Ci chiede, visibilmente preoccupata, se è davvero necessario. No, no. Meglio di no. La presidenza non gradirebbe certamente e Ferencvàros non è un quartiere che vuol bene agli ebrei. Andiamo allora nell'androne del palazzo di piazza Santo Stefano. Diverse persone si fermano, chiedono che cosa sta succedendo, perché quella signora viene intervistata. Spieghiamo quello che stiamo facendo. Se ne vanno senza fare alcun commento. La signora Kònigsberg allora aveva undici anni, ma si ricorda che dopo la guerra gli adulti parlavano di "questo signor Perlasca". "Dicevano: se siamo vivi dobbiamo ringraziare il signor Perlasca. Non sapevano chi era, dicevano che fosse un ambasciatore, da cui dipendevano tutte le sorti del mondo... Ma nella repubblica popolare di questi eroi non si parlava in pubblico. Solo, un po', di Wallenberg e del mistero della sua scomparsa." Non si parlava. O si parlava solo con chi si conosceva bene. Dopo la guerra, le leggi antisemite vennero abrogate, ma indennizzi per i danni materiali subiti non ci furono. Gli ebrei di Budapest cominciarono l'acquisto di beni alimentari dalla campagna, nei quartieri intorno alla sinagoga. Ma il piccolo commercio durò pochi anni. Il nuovo regime cominciò la "lotta ai borsaneristi", identificandoli con gli ebrei. La religione ebraica venne ammessa dal nuovo governo comunista, ma chi andava al Tempio veniva guardato con sospetto, così come le scuole ebraiche, formalmente ammesse, furono ostacolate. Sui giornali si cominciò a scrivere che "gli ebrei capitalizzano le sofferenze subite, come se fossero gli unici ad aver sofferto". Chi ebbe dal governo filonazista le case confiscate agli ebrei, ottenne per legge di tenerle. Nei documenti amministrativi, vennero indicati come "Beati Possidentes'. Nel 1946 ci furono persino dei pogrom contro gli ebrei sopravvissuti. Così chi aveva patito il lavoro forzato o era sopravvissuto ai campi di concentramento, al termine "ebreo" cominciò presto a sostituire termini come "ex deportato", oppure "membro del servizio di lavoro obbligatorio", o "ex perseguitato razziale". Anno dopo anno, lo stato delle cose convinse tutti a non parlare più della "catastrofe" e, forse, a dimenticarla. Sull'alto della collina Gellért, a Buda, venne eretta la grande statua della vittoria: figura femminile di quattordici metri che alza un ramo di palma tra le braccia. La donna guarda ad est, da dove venne l'Armata Rossa. Nel 1948 Raul Wallenberg, di cui si ignorava il destino, venne proposto per il premio Nobel per la pace, candidatura sostenuta da Albert Einstein. A Budapest si raccolsero soldi per erigergli un monumento nel parco di Santo Stefano: una statua in bronzo alta sei metri, raffigurante un San Giorgio in lotta con un serpente sulla cui testa era incisa una svastica. Ma quando venne il giorno dell'inaugurazione, si scoprì che le figure in bronzo erano state trafugate: legate con corde a cavalli da tiro, ad opera di soldati sovietici. Ricomparvero alcuni anni dopo, a Debrecen, all'ingresso di una fabbrica di penicillina. San Giorgio ora lottava in nome della scienza contro il bacillo di Koch. Sempre lui. Nel 1944 ad Abraham Rónai, un ragazzo di dodici anni di Budapest, accadde di sopravvivere e tre anni dopo di recitare in un film su quanto era successo. "Se lo ricorda Accadde in Europa? E' stato un film famoso, sceneggiato da Bela Balàzs, il grande teorico del cinema. Era la storia di una banda di ragazzi subito dopo la fine della guerra. Io ero uno di quelli." Oggi Rónai ha sessanta anni e continua a fare l'attore. Dall'Ungheria emigrò in Israele alla fine degli anni quaranta e della 'scoperta" di Perlasca è stato uno 'degli interpreti principali. Un uomo massiccio, con il cranio rapato, "ragione per cui al cinema e in teatro spesso mi hanno fatto fare la parte del nazista. Ma, a dodici anni, ero davvero un bel ragazzino. Un ragazzino che già faceva l'attore in teatro, ebreo assimilato al cento per cento. Andavo a scuola al ginnasio Re Mattia, vestivo la divisa nazionale e quando ci imposero la stella gialla, trovai che stava bene sul vestito blu. Eravamo una famiglia benestante, mio padre produceva tappi per bottiglia ed era in società con dei commercianti di Siviglia che gli fornivano il sughero. Mio padre lo presero e lo deportarono alla miniera di Bor, così io divenni il capo famiglia. Avevano detto che per la fine di novembre il ghetto sarebbe stato chiuso. Io mi misi la mia divisa e corsi all'ambasciata di Spagna. C'era un portiere immenso, che non mi voleva far passare. Io mi arrampicai su di lui. Gli dicevo in continuazione: 'Ma non hai dei figli tu? Non hai pietà tu?'. Alla fine mi fece


entrare, consegnai le foto di mia madre, di mia sorella e anche di mio padre. Fu lì che vidi Perlasca, mi ricordo che parlammo in tedesco. Disse di portare me e la mia famiglia in una casa, che adesso è al numero 22 di via Balzac". Abraham Rónai non ricorda con tristezza o rabbia. Si impone di ricordare con allegria. "Eravamo una banda di ragazzi, in quella casa e avevamo il permesso di uscire due ore al giorno. Una volta entrò un ragazzo biondo con gli occhi celesti, vestito da giovane nazista. Mi diede la fascia, il cappello e la cintura della sua divisa. Ci chiese se volevamo far qualcosa di utile per gli ebrei rimasti nel ghetto. Era un membro dell'organizzazione giovanile sionista. Con altri ragazzi, con quei pezzi di divisa, uscivamo dalla casa e andavamo di fronte ai negozi dove c'erano le file per qualcosa da mangiare. C'era solo il Vitaprix. Lei sa che cos'è il Vitaprix? Un barattolo di concentrato di pomodori e peperoni, una delle poche cose che allora si trovavano da mangiare. Il nostro compito era di andare di fronte ai negozi e quando qualcuno usciva con il cibo, assalirlo. Gli gridavamo 'sporco ebreo!' e gli portavamo via i barattoli di Vitaprix. Poi andavamo al ghetto ed entravamo facendo il saluto nazista. Lanciavamo i barattoli di Vitaprix nelle cantine, dove la nostra gente stava morendo di fame." Rónai rivide Perlasca alla vigilia di Natale del 1944. "I Nyilas erano entrati nella casa e avevano portato via un gruppo di noi. C'erano anche mia madre e mia sorella. Arrivò Perlasca, io a quel tempo credevo che fosse il segretario dell'ambasciatore. Era accompagnato da un gruppo di gendarmi ungheresi. Uno portava la bandiera spagnola. Si mise a urlare ordini in tedesco e intanto, insieme ai gendarmi, ricacciava i Nyilas dal palazzo. Gridava: 'Questi sono comportamenti inammissibili in uno stato fascista! Voi pagherete le conseguenze!' Riuscì a portare indietro tutti. Il giorno dopo era Natale. Il capo della casa era un cristiano, una persona molto per bene. Invitò tutti i bambini della casa a mangiare da lui la cena di Natale." "Poi ci furono due settimane di combattimenti. Noi eravamo rinchiusi in cantina. All'alba del 17 gennaio, bussarono alla porta. Chi è? Era un ebreo della casa di fronte, ci disse il suo nome. Lo vedemmo lì davanti, ancora con la stella gialla addosso. Ci disse: 'Non sapete? Siamo liberi. Da due ore siamo liberi.' Uscimmo, vidi un cosacco che manovrava una mitragliatrice. Mi avvicinai, ma mi mandò via. Tornammo a casa dopo una settimana. Non riuscivamo a stare in piedi per la fame e inoltre eravamo tutti pieni di pidocchi. Non facevamo altro che stare sdraiati tutto il giorno. Chiesi a mia madre le sue scarpe e lei me le diede. Uscii e un soldato russo mi diede il suo berretto. Così vestito feci l'autostop alle camionette russe e andai nella campagna per cercare da mangiare. Arrivai in un paesino e mi nutrirono per tre giorni. Tornai a piedi. Arrivato a casa, trovai mio padre. Era riuscito a fuggire da Bor, ma aveva dovuto fare un giro lungo, passando dalla Romania." Signor Abraham Rónai, ma dopo, quel Perlasca cercò di trovarlo? Il vecchio attore si aspetta la domanda e sa qual è la verità: se ne era dimenticato. Alza le mani con un gran riso e poi comincia a battersi il petto: 'Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa...". Con Ronai andiamo a mangiare in un ristorante dietro la sinagoga, dove cucinano l'oca migliore di tutta Budapest, non distante dal bar Piccola Borraccia, dove il tristissimo Rezsò Seres compose la famosa canzone Gloomy Sunday, Triste Domenica. Diventò ricchissimo, gli arrivavano un sacco di diritti d'autore. Ma la sua canzone ebbe una fama fosca. Si diceva che quella melodia spingesse al suicidio. Che chi la ascoltava venisse preso da una voglia irresistibile di saltare dalla finestra. Incontriamo una signora, che, a differenza di Rónai, Perlasca lo aveva cercato, ma poi aveva concluso di non volerlo più vedere: la signora Weisz, impiegata e traduttrice dall'inglese. Anche lei, con la sua famiglia, fu protetta nella casa di via Pannonia e anche lei ci rende la propria testimonianza nell'androne del palazzo, tra inquilini infastiditi perché per pochi minuti viene loro impedito il passaggio all'ascensore. La signora Weisz ha portato con sé le fotografie di quando era ragazza. In una di queste compare in una elegante tenuta bianca da giocatrice di tennis, con la racchetta in mano e la gonnellina a pieghe. Sta in piedi in una posizione strana, obliqua, con il capo piegato. Quarant'anni dopo conserva l'identico modo di inclinare il collo. "Perlasca venne diverse volte e me lo ricordo per la gentilezza. Cose piccole e cose grandi. A noi tutti dava aiuto perché era la prima volta che vedevamo qualcuno che ci prendeva per mano senza chiedere niente, in tempi in cui era la nostra patria a essere diventata il nostro peggiore nemico. Ci erano diventati nemici il vicino di casa, il compagno di scuola, le persone con cui eravamo cresciuti e vissuti. Vedere Perlasca fu per me un'esperienza meravigliosa, sufficiente per una vita intera. Un essere umano che, in circostanze come quelle restava un uomo e si prestava a difendere delle persone che non conosceva e che nessuno difendeva. Lo vidi l'ultima volta alla fine dell'assedio, quando entrò per prendere commiato. Disse che gli sarebbe stato impossibile tornare, perché ormai la città era divisa in due e non avrebbe più potuto spostarsi, ma che comunque non ci sarebbe stato più bisogno di lui. Mancavano pochi giorni e ci augurò di farcela. Poi scomparve e risentii parlare di lui solo quando comparve quell'inserzione sul giornale. E' venuto qui, ma non ho voluto andare a vederlo. Preferisco conservare il ricordo di come lo vidi in questo androne


e di come si accomiatò da noi. Non esagero se dico che è stato l'unico vero eroe che ho incontrato e questo ricordo lo voglio conservare così. Spero di riuscire sempre a mantenerlo così nella memoria. Gli auguro lunga vita e molta buona salute." Finito di parlare e liberata dal microfono, la signora Weisz ringrazia tutti e si scusa con gli inquilini della casa per il fastidio procurato da quella breve occupazione dell'androne. Poi se ne esce per la lunga ex via Pannonia. Nel gennaio 1990 l'Ungheria si avvia alle sue prime libere elezioni. Quarantacinque partiti sono iscritti alla corsa, ma la gara si sta restringendo a sole due liste. I "liberali", partito cittadino di Budapest, propugnano la modernità e un'Europa cosmopolita; il "Forum democratico", cattolico, magiaro, con i maggiori consensi nelle campagne, si batte per la tradizione e l'idea nazionale. I comizi parlano del passaggio di proprietà delle fabbriche di Stato, degli indennizzi di chi è stato espropriato dalle nazionalizzazioni, dell'epurazione dall'apparato statale dei funzionari comunisti. Ma subito la campagna elettorale diventa avvelenata. Diversi dirigenti del "Forum" incominciano ad attaccare i liberali e dipingono il loro partito come il "partito degli ebrei". Si ricomincia a parlare del loro "sproporzionato peso" nella vita pubblica e nelle professioni. Viene convocata una manifestazione sotto le finestre del palazzo della televisione. Si protesta perché nell'informazione ci sono troppi ebrei. Si ritirano fuori le proporzioni statistiche, viene riproposta "la questione". Non ci sono libri italiani dedicati alla persecuzione degli ebrei ungheresi, ma è stato bello scoprire un sottile libretto di Giorgio e Nicola Pressburger. Dieci brevi racconti intitolati Storie dell'Ottavo Distretto. Comincia così: "Il turista che si accinge a visitare Budapest, città principe di un impero inesistente da oltre mezzo secolo, ma ancora famosa per la gaia vita che vi conducevano i signori e per la molteplicità dei popoli che raccoglieva, capiterà nell'Ottavo Distretto soltanto per sbaglio...". Seguono, tra nomi di strade famose o sconosciute, le vicende di Franja, di Natan, dello zio Gustavo, di Rachele, prima nell'Ottavo Distretto che ospitava gli ebrei poveri, poi, sempre nelle stesse strade, dopo la "catastrofe". Giorgio e Nicola Pressburger, fratelli gemelli, nacquero a Bratislava nel 1937. La loro famiglia si trasferì a Budapest e lì, nel 1944, i bambini sopravvissero. Fuggirono dall'Ungheria dopo il 1956. Dopo trent'anni, trascrissero in quel libro i loro ricordi di infanzia; Nicola, giornalista economico, è morto nell'86. Giorgio, dopo aver lavorato con successo in regie teatrali e televisive, e oggi un affermato scrittore. Incontro Giorgio Pressburger, che di Perlasca ha sentito parlare e ha visto in televisione il programma su di lui. Davanti alle immagini del palazzo di piazza Santo Stefano, mi ha raccontato di aver avuto un bagliore di memoria. "Non so neanch'io se sia vero, ma mi sono improvvisamente rivisto in quella casa. Avevo sette anni. Ci ho dormito, credo, due notti. Ho una visione di sotterranei, mi ricordo una lavanderia. Eravamo stati presi e portati nel galoppatoio. Come seppi dopo, in attesa di essere deportati. Ma mia madre aveva una lettera di protezione, rilasciata dal re di Svezia, credo che fosse un documento falso. Lo mostrò e un gendarme ci portò via dal galoppatoio. Mi ricordo che camminammo per un bel tratto e che io portavo una borsa pesante, con dentro le conserve di marmellata che nostra madre aveva portato con sé da casa. Quella sensazione di fatica mi è rimasta legata nella vita. Ho sognato spesso di nuotare insieme a mio fratello, ma lui è davanti, mentre io vengo trascinato a fondo. Ci penso ogni volta che sono in una stazione e mi porto dietro una borsa. E mi è rimasta, come abitudine, ogni volta che viaggio, di portarmi dietro una borsa pesante. Per tutta la mia vita, ho portato borse pesanti in attesa di un treno." Abbiamo parlato del Vitaprix e Giorgio Pressburger se lo ricorda bene. Il Vitaprix. Come sa di Tony Curtis, alias signor Schwarz, e di Gloomy Sunday che prende a fischiettare. Mi ha confermato che dell'Olocausto non si parlò più in pubblico, in Ungheria. Un "tacito accordo". A Budapest, con le nostre guide ungheresi, siamo andati alla ricerca della via Pal. Esiste ancora, come esistono ancora l'Orto Botanico e i cortili con le segherie descritti nel libro. Ma non esiste nessuna indicazione turistica. E' nell'Ottavo Distretto, una via cortissima, dalle case molto malandate. Non ci sono bande di ragazzi in giro, l'unico luogo di ritrovo è il "borozo", una vineria situata in una cantina. A partire dal pomeriggio si popola di centinaia di anziani che vengono a bere vino bianco allungato con selz e mangiano pane con lardo e cipolla. Nei borozo si beve in piedi, appoggiati ai banconi. Molti hanno il naso deturpato degli alcoolisti, molti hanno i polmoni rovinati dalla tubercolosi. Tutti ricordano il libro di Molnàr con tenerezza, in particolare il biondino Ernó Nemecsek, che si alza dal letto per partecipare alla battaglia e muore di polmonite. Ma non hanno nient'altro da aggiungere. Che cosa d'altro possono dire? Tanta storia è passata da quelle case. Tanta storia brutta in cui gli abitanti della stessa casa si divisero e si combatterono. Ha senso oggi andare a discutere nei cortili su chi aveva ragione e chi aveva torto? Non si può. Budapest è una città in cui molti luoghi evocano troppe memorie e quindi consigliano il silenzio. In uno di questi, non distante dalla via Pal, la storia che si voleva dimenticare perdurò per anni, sotto forma di un odore che non andava via. E' l'isolato che ospitava l'Istituto italiano di cultura, danneggiato dalla guerra e utilizzato nel 1945 come infermeria per i militari italiani reduci dai campi di prigionia tedeschi. Quando se ne andarono, i locali vennero disinfestati con del cresolfenolo, trovato nei depositi militari tedeschi. Quel composto chimico uccise


sicuramente i batteri, ma impregnò di sé tutto l'istituto. Aggredì libri, mobilio, si diffuse nella strada. Ancora dieci anni dopo la guerra, questo era un luogo in cui i passanti sentivano ancora le zaffate della guerra e allungavano il passo. Se la città è spaventata dal ricordo, ancor meno parla la campagna, la grande e piatta campagna ungherese dove i cittadini passano ma non si fermano. Le distese della Pannonia ad ovest, in fondo alle quali, oltre la sottile Jugoslavia, compare il mare di Trieste e di Fiume. E ad est, l'universo infinitamente piatto della puszta, poi i Carpazi e infine l'Asia, dalle cui steppe giunse Attila, che da noi è considerato simbolo di crudeltà, ma che in Ungheria è sempre stato un nome che si dà volentieri ai bambini. Ad est si andava solo se era necessario. A comprare cavalli, per esempio, come faceva Perlasca. Gli ufficiali vi venivano mandati per punizione. I viaggiatori vi tornavano con resoconti di cibi sconosciuti, di mondi separati con castelli paurosi e di villaggi dove gli abitanti apparivano "lenti, calmi, forse già morti, ma molto intelligenti". Negli Anni trenta, il governo di Budapest decise di inviare da quelle parti una spedizione di deputati, scrittori, artisti, agronomi. Tornarono raccontando vicende di povertà assoluta e di superstizioni, così come viaggiatori inglesi a metà dell'Ottocento erano rimasti straniti dagli incontri bizzarri che avevano fatto. Ad uno capitò, nella città di Hermanstadt, tra rovine di castelli dei Templari e resti di fortificazioni romane, di essere ospitato da nobili che insegnavano ai figli la metrica greca e di essere svegliato in una locanda da un uomo, che in perfetto latino, gli vantava le proprietà della grappa: "Schnaps. Domine, est res maxime necessaria omnibus hominibus omni mane". Vide in un emporio il ritratto di "Valtere Skote", indicato come "l'uomo più celebre di tutta l'Europa". Un incontro simile lo ebbe, negli stessi anni, un altro inglese. Raccontò di essersi fermato, nella piana transilvana, ad una "Juden Knipe", il termine dispregiativo con cui veniva chiamata l'osteria tenuta da un ebreo. Lì un ragazzo gli chiese se Walter Scott era ancora vivo e, appresa la notizia della sua morte, se ne dispiacque moltissimo. Tirò fuori dalla giacca una copia consunta di Ivanhoe in tedesco e gli spiegò che per lui e per i suoi correligionari era il romanzo dell'ebraismo riscattato, perché vicino ai grandi cavalieri sassoni o normanni, un posto c'era anche per Isacco di York e per la bella Rebecca. Quelle terre rimasero separate eppure unite al mondo, dentro e fuori dal tempo, vaganti per decenni tra Ungheria e Romania, Polonia e Russia, fino a quando la storia passò, sistematica, veloce, inaspettata e brutale. In tutto il territorio ad est del fiume Tisza, dal marzo al luglio del 1944 le SS deportarono e uccisero 440.000 ebrei, oltre a un numero molto alto, ma imprecisato, di zingari. Testimoni di Geova, seguaci della Chiesa Avventista del Settimo Giorno e oppositori in genere. Gli ebrei abitavano lì da secoli e a partire dall'espansione del Reich nazista, lì si erano rifugiati quelli fuggiti dalla Slovacchia e dalla Polonia. Ancora all'inizio del 1944, tutti i centri abitati avevano una comunità ebraica, in cui erano presenti gli hassidim, si leggevano giornali in yiddish e si vedevano per strada gli studiosi del Talmud e della Cabala. La piccola città di Màramarósziget, oggi al confine tra Romania e Ungheria, nel marzo del 1944 divenne parte della "Zona di degiudeificazione" tedesca. Un ragazzo di sedici anni, Elie Wiesel, sopravvisse ai lager e scrisse la sua esperienza. Nel romanzo La notte racconta che le prime deportazioni avvennero nel 1942 e che tutti in città le giustificarono con le esigenze della guerra. Ma poi successe che tornò in paese uno dei deportati, Moshe lo Shammash, un giovane inserviente della sinagoga hassid, "povero, insignificante e invisibile". Raccontò che erano stati uccisi tutti e che lui solo si era salvato perché, ferito, lo credettero morto. Ma la gente non volle dargli ascolto. Nel 1944 arrivarono i tedeschi in paese. Gli ebrei non ebbero più il diritto di possedere oro, gioielli, oggetti di valore. Tutto doveva essere consegnato alle autorità pena la morte. Poi vennero i decreti che impedirono agli ebrei di entrare nei ristoranti, nei caffè, di viaggiare in treno, di recarsi alla sinagoga, di uscire per strada dopo le diciotto. Poi l'obbligo di portare la stella gialla. Il padre di Wiesel, un notabile della comunità, cercava di non mettere sale sulle ferite: "La stella gialla? Ebbene? Non se ne muore". Poi chiusero gli ebrei in due ghetti. "Nominarono un Consiglio Ebraico, un comitato del lavoro, un ufficio di assistenza sociale, un dipartimento di igiene. Un vero e proprio apparato di governo." Tutto sembrava tranquillo, ma Moshe lo Shammash diceva: "Io vi avevo avvertito". Una notte portarono via tutti. Le statistiche dicono che a Màramarósziget morirono dodicimila ebrei. E Màramarósziget si fa fatica a trovarla sulla cartina e se qualcuno, per caso, vi capitasse, non si accorgerebbe di nulla. Molti anni dopo la guerra, Wiesel tornò al suo paese. Della sua famiglia non c'era più nessuno, ma quando spinse il cancello di legno di casa sua, sentì lo stesso cigolìo che ricordava da quando era ragazzo. E Bilke, allora? Bilke non era distante da Màramarósziget, ma era ancora più piccola e sconosciuta di Màramarósziget. In montagna, con sei torrenti che la bagnano e foreste spesse tutto intorno. Settemila abitanti, di cui mille ebrei. Non c'era la luce elettrica e il telefono lo possedevano solo la polizia e l'ufficio delle poste. Gli ebrei li deportarono tutti ad Auschwitz il 24 maggio del 1944. Tra di loro c'era una ragazza di diciotto anni che si chiamava Lili Jacob. Questa ragazza sopravvisse ad Auschwitz e negli ultimi mesi della guerra venne trasferita in un altro campo, a Dora, vicino a Nordhausen, in Germania. Qui venne liberata dall'esercito americano. Quel


giorno le SS del campo fuggirono e i prigionieri presero possesso dei loro alloggiamenti. Nell'armadietto di una SS la ragazza Lili, oltre a del vestiario trovò un album di fotografie dalla copertina rilegata in tela azzurra. Lo sfogliò e riconobbe subito dei volti noti. Poi riconobbe anche se stessa. Erano le fotografie dell'arrivo ad Auschwitz del convoglio degli abitanti di Bilke, scattate da un militare tedesco e donate al suo "caro amico Heinz". Lili Jacob tornò al paese con quell'album. Due anni dopo, in cambio di diecimila corone permise che quelle fotografie venissero riprodotte dal Consiglio Ebraico di Praga. Con quei soldi. Lili e suo marito Max Zelmonovic trovarono un biglietto ed emigrarono negli Stati Uniti. Arrivarono a New York alla fine del 1948. Di lì proseguirono per Miami. Max lavorava come macellaio e Lili era cameriera al ristorante "Famous". Un giorno videro sul giornale un annuncio di una casa in affitto. Si presentarono, scoprirono che anche i proprietari erano degli ebrei. Max si fermò per trattare il prezzo e le condizioni. I proprietari gli dissero che erano favorevoli a dar loro la casa, perché avevano fatto una buona impressione. Poi, confidenzialmente, la signora disse a Max: "Ma sua moglie, mi sembra un tipo un po' strano... E' smemorata, per caso? Perché si è scritta il numero di telefono sul braccio?" Lili rimase avvilita e turbata. Dieci anni dopo, nel 1958, trovò l'occasione che cercava. Era arrivata a Miami per la stagione invernale la troupe di una trasmissione radio allora molto popolare, Regina per un giorno. Dedicata alle donne, dava loro l'opportunità di realizzare un desiderio. C'erano delle selezioni, con il sistema dell'applausometro. Lili, per diverse volte, venne bocciata, ma alla fine fu ammessa insieme ad altre quattro concorrenti. Disse: "Ogni volta che abbasso gli occhi sul mio braccio sinistro e vedo il tatuaggio, mi ricordo del mio passato orribile in un campo di concentramento. Vorrei che il mio tatuaggio fosse cancellato". Vinse la gara degli applausi e venne incoronata regina. Quindici giorni dopo un chirurgo le tolse dal braccio quei numeri. Ventidue anni dopo, il suo album si dimostrò essere di straordinaria attualità. Gli "storici revisionisti" andavano dicendo che lo sterminio degli ebrei era tutto un falso, che ad Auschwitz non erano mai esistite camere a gas o forni crematori. Ma tra le centottantanove fotografie trovate dalla ragazza di Bilke, quegli edifici c'erano, si vedevano benissimo. Solo quando abbandonarono il campo, le SS li avevano distrutti con la dinamite. Nel 1990, l'Ungheria liberalizzata è stata visitata da trentotto milioni di turisti. Come in altri paesi dell'Est, che hanno riacquistato la libertà di parola, sono cominciati i grandi lavori di scavo alla ricerca del passato. Sono tornati alla luce oppositori, si sono riabilitati defunti. Ma raramente ci si è spinti più indietro del 1956. Oltre quella data ci si avventura con molte resistenze, quando lo si fa. Sullo sterminio degli ebrei ungheresi, l'unico che il nazismo non riuscì a portare a termine, la storia sconosciuta di Giorgio Perlasca è stato forse l'unico "fatto nuovo" che è riuscito a riemergere.


CAPITOLO VIII

LO SCALO MERCI

Nel settembre del 1990, all'età di ottant'anni, Giorgio Perlasca è stato invitato a un viaggio d'onore negli Stati Uniti. A Washington e a New York è stato premiato e abbracciato da ambasciatori, ha concesso interviste, la sua fotografia e la sua storia sono state stampate in milioni di copie nei supplementi domenicali dei giornali, un gruppo di psicologi lo ha interrogato a lungo per cercare di capire le motivazioni della sua azione. La vita pubblica, le televisioni e le onorificenze non lo hanno cambiato. Invitato a parlare in grandi banchetti celebrativi, ha ringraziato per l'accoglienza e si è scusato per non essere un oratore. Ha acceso una sigaretta dove era rigorosamente vietato fumare, ha raccomandato di "non dimenticarsi di quello che successe agli zingari", ha visitato il cantiere da cui sorgerà, nel 1992, il Museo dell'Olocausto, nel centro di Washington, dedicato al ricordo del "male", vicino a tutti gli altri edifici pubblici che celebrano il "bene", la democrazia, le conquiste della scienza, i buoni rapporti con la natura. Ha incontrato altri salvatori, uguali e diversi da lui: la signora Miep Gies di Amsterdam, che protesse la famiglia Frank e riuscì a mettere in salvo il diario di Anna, quando fu deportata; la signora Yukiko Sugihara, che insieme al marito riuscì a far scappare attraverso l'Unione Sovietica migliaia di ebrei polacchi. Il marito, Senpo Sugihara, era console nella città di Kovno, in Lituania, nel 1940, quando cominciarono ad arrivare folle di ebrei che fuggivano l'avanzata nazista. Chiedevano un visto. Telegrafò a Tokio chiedendo come doveva comportarsi e gli risposero che gli era vietato rilasciare visti. Allora lui annunciò le proprie dimissioni, ma si prese una settimana di tempo e in sette giorni, insieme alla moglie, compilò seimila minuziosi visti di transito, inventandosi i più tortuosi itinerari, programmando fantasiose soste e passaggi attraverso la Siberia, la Mongolia, la Cina e immaginando Shangai, Hong Kong, Singapore, persino Curacao come destinazione finale di quei viaggi. Venne messo dai sovietici in campo di concentramento per quattordici mesi, tornato in Giappone non riuscì più a trovare lavoro, ma continuò sempre a ripetere che "dal punto di vista dell'umanità, non aveva altra scelta". Tutte le volte che gli hanno chiesto quale fosse l'episodio che più era rimasto nella sua memoria, Perlasca ha sempre citato "il caso dei due ragazzi gemelli". I vagoni partivano dallo scalo merci di Budapest. Erano carri merci, in ognuno dei quali era stato steso uno strato di paglia ed era stato collocato un bidone per raccogliere gli escrementi. Gli ebrei venivano caricati in circa ottanta per ogni vagone. Poi la porta veniva sigillata. Gli ebrei arrivavano sulla banchina in fila, spinti dai gendarmi ungheresi e controllati dalle SS tedesche. Il carico avveniva rapidamente. Allo scalo merci andavano i rappresentanti diplomatici delle nazioni neutrali. Pochi uomini che tentavano di strappare ancora qualcuno al carico della morte. Gridavano tutti. "Chi ha un salvacondotto svizzero, alzi la mano!" "Chi di voi è protetto dal governo spagnolo?" "C'è qualcuno che ha dimenticato il proprio salvacondotto svedese?" Era una questione di attimi. Una lotta di sguardi, di implorazioni, una questione di prontezza di riflessi e di distrazione dei soldati. Si poteva salvare ancora qualcuno, prima che i vagoni venissero sigillati. La storia rimasta impressa a Perlasca avvenne una di quelle mattine. "C'era una fila che veniva avanti e in mezzo vidi due ragazzi. Avranno avuto dodici o tredici anni ed erano identici. Due gemelli, soli. Io avevo la Buik della legazione parcheggiata di fianco alla banchina, con tanto di bandiera spagnola sul parafango. Non so perché, ma quei due ragazzi mi colpirono. Erano bruni, con i riccioli. Mi apparivano come la stessa persona moltiplicata per due. Quando mi passarono davanti nella fila, mi sporsi e li afferrai. Li presi dalla fila e li sbattei dentro la macchina. Gridavo: 'Queste due persone sono protette dal governo di Spagna. Si avvicinò un maggiore tedesco, che li voleva riprendere. Io lo fermai e gli dissi: 'Lei non può farlo! Questa macchina è territorio spagnolo! Questa è una zona extraterritoriale!' Il maggiore tedesco estrasse la pistola e ci fu un parapiglia. L'autista e io tenevamo chiusa la portiera e lui cercava di aprirla. Vicino a me c'era Raul Wallenberg. Si rivolse al maggiore con tono deciso: 'Lei non sa che cosa sta facendo! Lei sta assalendo il territorio di un paese neutrale! Lei deve fare molta attenzione alle conseguenze del suo gesto!' Il maggiore non cedeva. Mi agitava la pistola sotto la faccia. Mi disse: 'Mi renda quei due ragazzi, lei sta disturbando il mio lavoro.' Io gli dissi: 'E questo, lei lo chiama lavoro?' Arrivò un colonnello. Il maggiore posò la pistola e gli spiegò la situazione. Io feci altrettanto. Ripetei che quei due ragazzi erano sotto la protezione del governo di Spagna e che l'automobile era zona extraterritoriale. Il


colonnello, con la mano, fece segno al maggiore di desistere. Poi si voltò verso di me e mi disse, con calma: 'Li tenga. Verrà il loro momento. Verrà anche per loro'. Così li tenemmo. Ce l'avevamo fatta. Quando i tedeschi si allontanarono, Wallenberg, sottovoce, mi fece: 'Lei ha capito chi era quello, vero?' 'No,' dissi io. 'Quello è Eichmann.'" Quando ricorda quella mattina allo scalo merci, Perlasca, ancora oggi, si vede davanti quei due ragazzi. "Li portai in una delle nostre case protette. E lì mi accorsi che non erano due maschi, come avevo pensato. Erano fratello e sorella. Ora che li potevo osservare con più tranquillità, potevo vedere le diversità. Avevano quelle piccole differenze che cominciano nell'età dello sviluppo: il ragazzino un'ombra di peluria sul labbro, e la ragazzina un inizio di formazione del seno. Li tenemmo con noi per qualche giorno, poi furono affidati alla Croce Rossa. Non li ho mai più rivisti, non so che fine abbiano fatto, penso però che si siano salvati. Ma mi ricorderò sempre quando li vidi avanzare insieme in quella fila. Credo che mi ricorderò di loro, invece di tanti altri perché erano così uguali, perché erano soli e perché erano belli." Perlasca non aveva mai visto Eichmann prima di quella mattina. Wallenberg, invece, lo conosceva bene. Arrivato a Budapest insieme alle otto divisioni tedesche che avevano occupato l'Ungheria nel marzo del 1944, l'SS Ober Sturmbannfuhrer Adolf Otto Eichmann, di 38 anni, dirigente la sezione B4 della IV Sezione del Reichssicherheitshauptamt, era l'incaricato della "soluzione finale" per gli ebrei ungheresi, dopo l'esperienza in Slovacchia e in Polonia. Sistemò il suo quartier generale all'hotel Hungaria. Organizzava e trattava. Dal marzo al luglio del 1944 era riuscito a realizzare la deportazione pressoché totale degli ebrei della provincia ungherese verso Auschwitz. Ora si trattava di rendere "Judenrein" l'ultima delle sei zone in cui la sua organizzazione aveva diviso l'Ungheria, la capitale. Il metodo di Eichmann era sempre lo stesso: creare un consiglio ebraico, Judenrat, e ad esso affidare la pratica concreta della deportazione. Wallenberg era riuscito a mettersi in contatto con lui e aveva concluso alcune trattative. Semplici: soldi in cambio di vite ebree; permessi di espatrio, salvacondotti, in cambio di dollari. Quello che avveniva ogni mattina allo scalo merci di Budapest era per i diplomatici l'ultimo tentativo; per Eichmann, invece, anche se due ragazzi sfuggivano "al loro momento", la cosa non era poi così importante, perché il loro momento sarebbe comunque arrivato. Adolf Eichmann lasciò Budapest solo negli ultimi giorni dell'assedio. Si trasferì prima a Vienna e poi a Berlino. Riuscì a fuggire dalla Germania sconfitta e di lui si persero le tracce. Venne processato in contumacia a Norimberga, insieme alla dirigenza nazista. Nel 1960, il suo nome ricomparve sui giornali di tutto il mondo. Adolf Eichmann era stato catturato da uomini del "Mossad" (il servizio segreto israeliano) nei sobborghi di Buenos Aires. Viveva da quindici anni in Argentina, sotto il falso nome di Ricardo Klement. Dopo nove giorni, Eichmann venne trasportato in aereo in Israele per essere processato. Il governo argentino protestò all'Onu contro i metodi adottati da Israele, ma non riuscì a bloccare il trasporto. Il governo della Germania Federale, che avrebbe potuto chiedere l'estradizione di Eichmann, non lo fece. Incarcerato a Gerusalemme, per sei mesi Adolf Eichmann venne sottoposto ad interrogatorio da parte del giudice istruttore Avner Less, alle cui domande rispose sempre docilmente. Fu visitato da sei psicologi che lo dichiararono, l'uno dopo l'altro, sano di mente. L'11 aprile del 1961 Adolf Eichmann comparve nell'aula del Tribunale distrettuale di Gerusalemme, imputato di quindici reati "avendo commesso, in concorso con altri, crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l'umanità e crimini di guerra sotto il regime nazista, in particolare durante la seconda guerra mondiale". Richiesto su ciascun punto se si dichiarasse colpevole, Eichmann rispose sempre: "Non colpevole nel senso dell'atto di accusa". Il dibattimento durò sei mesi. L'imputato, per la prima volta in un processo, comparve in aula protetto da una gabbia di vetro. Ascoltò attraverso una traduzione simultanea più di cento testimoni della deportazione e dello sterminio, senza che il suo volto tradisse emozione, a parte un tic al labbro superiore che lo tormentò per tutto il tempo. Eichmann venne difeso dall'avvocato Robert Servatius di Colonia, che aveva già assistito alcuni gerarchi nazisti al processo di Norimberga. La sua iniziativa legale fu molto limitata. In una dichiarazione resa prima del dibattimento, Servatius disse solamente che il suo cliente aveva compiuto "azioni di Stato", "atti per i quali si viene decorati se si vince e si va alla forca se si perde". Durante gli interrogatori, Eichmann dichiarò di aver sempre e solo ubbidito agli ordini superiori. Ammise che "naturalmente" egli aveva contribuito allo sterminio degli ebrei, ma che non aveva mai ucciso un ebreo, né dato ordine di uccidere un ebreo. Disse che "naturalmente, se lui non li avesse trasportati, essi non sarebbero finiti nelle mani del carnefice". In una dichiarazione finale disse che gli sarebbe piaciuto "riappacificarsi con i nemici di un tempo". Eichmann venne riconosciuto colpevole di tutti i crimini di cui era stato imputato e condannato alla pena capitale. La stessa pena fu ribadita dalla Corte d'Appello. L'avvocato Servatius ricorse alla Corte Suprema che rigettò il suo appello il 29 maggio del 1962. Adolf Eichmann venne impiccato il 31 maggio del 1962. Il suo


cadavere fu cremato e le ceneri vennero sparse nel mare Mediterraneo che bagna Israele. Fu l'unica condanna a morte pronunciata da un tribunale dello Stato di Israele. Il processo Eichmann fu anche la sede in cui il mondo venne costretto a conoscere la realtà dell'Olocausto. Ogni testimone raccontò la propria esperienza di sopravvissuto a un progetto che avrebbe voluto l'Europa dominata dal millenario Reich di Hitler, con gli altri popoli ridotti in schiavitù e gli ebrei cancellati dalla faccia della terra. Centinaia di giornalisti si occuparono di quel processo. Tra i tanti che ne parlarono, un cronista di Padova, Giovanni Cerrato che sul "Resto del Carlino" scrisse la storia di un italiano sconosciuto che Eichmann lo aveva visto da vicino. Era la storia di Perlasca, già allora raccontata con dettagli sufficienti a provocare ulteriori curiosità. Ma quell'articolo non produsse reazioni. Perlasca ricorda che l'unico che gli disse qualcosa fu il suo padrone di casa: "Bravo Perlasca, go visto che te sei comportato bene in guera". Poco più tardi, però, gli successe uno strano episodio. Un giorno, stava tornando a casa, quando due signori lo avvicinarono sul cancello. Gli chiesero se era vero quello che era stato pubblicato dal "Resto del Carlino" e Perlasca rispose di sì. Gli chiesero allora se era disposto a confermare quell'episodio davanti al tribunale di Gerusalemme perché, gli dissero i due signori, quell'episodio che lui ricordava, sarebbe stato molto importante per la difesa. In fin dei conti, Eichmann gli aveva lasciato quei due ragazzi, e questa poteva essere una prova di un suo comportamento umano. Perlasca ricorda che la discussione, sul cancello di casa, non durò più di dieci minuti. Disse semplicemente loro che le cose non erano così e che lui non avrebbe certo preso le difese di Eichmann. Negli stessi termini raccontò l'episodio quarantacinque anni dopo, quando venne invitato a Gerusalemme per essere premiato. "Lei disturba il mio lavoro... “ "E questo lei lo chiama lavoro?' "Atti per i quali si viene decorati se si vince e si va alla forca se si perde.” Giorgio Perlasca e Adolf Eichmann si incontrarono per una manciata di minuti, in una mattina di ordinario macabro trasporto di ebrei ungheresi verso Auschwitz. Fu un match breve, tra un calmo tenente colonnello delle SS contro un emozionato diplomatico spagnolo. Avevano più o meno la stessa età, uno aveva il potere e l'altro non l'aveva. Ma vinse quest'ultimo, che non era diplomatico e neppure spagnolo. Di questa storia che è rimasta così impressa nella memoria di Giorgio Perlasca, quello che a me piace di più è che ci fu una scelta. L'italiano vide due ragazzi gemelli ed ebbe uno scatto pensando che si poteva fare qualcosa per evitare che fossero Uccisi. Il tenente colonnello tedesco forse non li vide neanche (me li immagino rannicchiati dentro la macchina) e, con un gesto della mano, li lasciò vivere. Per lui erano due numeri, non due persone. Un fatto statistico. Tra i famosi inviati che seguirono il processo ad Adolf Eichmann, ci fu anche Hannah Arendt, la filosofa allieva di Heidegger, che aveva scritto Le origini del totalitarismo. Chiese, e ovviamente ottenne, al settimanale "The New Yorker" di essere inviata al processo. Le interessava vedere Eichmann "in carne e ossa", l'uomo che era indicato come l'artefice della "soluzione finale", l'uomo che aveva stabilito gli orari dei treni, le quote dei deportati, il simbolo vivente della malvagità, l'essere umano responsabile dell'assassinio programmato di cinque milioni di altri esseri umani. Hannah Arendt lo osservò scrupolosamente per mesi. Figlio di un funzionario delle tranvie di Solingen, studente di scarsissima levatura, entrato nelle SS per bisogno di carriera che nella vita civile non sarebbe riuscito a fare , un uomo che diceva che l'"Amtsprache", il gergo burocratico militare , era la sua unica lingua conosciuta, un uomo che credeva negli ordini superiori, nella trasmissione gerarchica delle consegne... I puntuali resoconti del processo che Hannah Arendt mandò al "New Yorker" suscitarono una polemica che durò anni, perché l'autrice criticò la gestione che il Pubblico Ministero faceva del processo e non passò sotto silenzio il ruolo di passiva collaborazione che gli Judenràte avevano avuto nella "soluzione finale". Se ne erano avute prove nel dibattimento. Un episodio che riguardava proprio l'Ungheria, le forti proteste da parte del pubblico, composto da sopravvissuti di Budapest nei confronti di chi non aveva dato loro le informazioni necessarie che avrebbero permesso a molti di salvarsi, fu occasione di una riflessione più profonda sul comportamento dei Consigli Ebraici. Ma fu soprattutto l'interpretazione che Hannah Arendt diede della figura di Eichmann a suscitare la controversia. Per la Arendt, a differenza della versione corrente che voleva Eichmann come prodotto mostruoso, l'imputato nella gabbia di vetro era invece un uomo "normale"; semplicemente "un uomo incapace di pensare". Ma che cos'era, si domandava, che aveva fatto sì che quell'uomo smettesse di pensare? Nella sua più importante dichiarazione al processo, Eichmann ammise di essere stato a conoscenza della decisione di Hitler di procedere allo sterminio fisico degli ebrei e dichiarò di pensare di trovarsi di fronte a "qualcosa di orrendo, di illegale". Disse che la vista di ebrei uccisi gli "scosse i nervi", ma poi aggiunse: "Sfortunatamente io ero costretto ad agire così, come risultato del mio giuramento di fedeltà e lealtà. Io dovevo affrontare gli aspetti tecnici del problema". E


infine: "Quando il capo dello Stato lo ordinò e i miei superiori mi trasferirono quell'ordine, io trovai una sorta di copertura, trovai una pace mentale, perché trasferii la responsabilità sui miei superiori. Non voglio dire che trasferii di fatto la responsabilità a loro, ma lo feci nei miei pensieri; nel profondo del mio cuore, io trasferii questo pensiero a loro, al ruolo che avevano il loro potere e la loro attività e così, per quanto riguardava i miei sentimenti intimi, trovai almeno un po' di tranquillità. Non mi consideravo colpevole e sono stato contento di non aver avuto parte diretta nello sterminio fisico degli ebrei. La parte che dovetti giocare fu comunque abbastanza". Quando Eichmann si esprimeva in questo modo, tutti erano portati a pensare che fosse un bugiardo, i giudici per primi. Hannah Arendt invece scrisse: "I giudici non gli prestarono fede perché erano troppo buoni e forse anche troppo compresi dei principi basilari della loro professione per ammettere che una persona comune, 'normale', non svanita, né indottrinata né cinica, potesse essere a tal punto incapace di'distinguere il bene dal male...". Scoprì poi un uomo la cui coscienza aveva "cessato di funzionare", un uomo che, lungi dall'essere mostruosamente dedito al male, era diventato "assolutamente incapace di distinguere il bene dal male". Così scrisse della sua esecuzione: "Adolf Eichmann andò alla forca con gran dignità. Aveva chiesto una bottiglia di vino rosso e ne aveva bevuto metà. Rifiutò l'assistenza del pastore protestante, reverendo William Hull, che si era offerto di leggergli la Bibbia: ormai gli restavano appena due ore di vita e perciò 'non aveva tempo da perdere'. Percorse i cinquanta metri dalla sua cella alla stanza dell'esecuzione calmo e a testa alta, con le mani legate dietro la schiena. Quando le guardie gli legarono le caviglie e le ginocchia, chiese che non stringessero troppo le funi, in modo da poter restare in piedi. 'Non c'è bisogno,' disse quando gli offersero un cappuccio nero. Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso. Nulla lo dimostra meglio della grottesca insulsaggine delle sue ultime parole. Cominciò con il dire di essere un Gottglàubiger, il termine nazista per indicare chi non segue la religione cristiana e non crede nella vita dopo la morte. Ma poi aggiunse: 'Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania! Viva l'Argentina! Viva l'Austria! Non le dimenticherò*. Di fronte alla morte aveva trovato la bella frase da usare per l'orazione funebre. Sotto la forca la memoria gli giocò l'ultimo scherzo: si sentì 'esaltato' dimenticando che quello era il suo funerale. Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato, 'la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male'." Hannah Arendt studiò a lungo quel simbolo. E la "banalità del male" divenne per lei il principale prodotto di un sistema totalitario il cui effetto era quello di "far smettere alle coscienze di funzionare", rendere gli uomini incapaci di giudicare, di distinguere, formare uomini burocratici. Eichmann era uno dei tanti. Aveva fatto ciò che gli chiedevano le leggi del suo Stato, a loro volta giustificate dalla Ragion di Stato, senza sapere che quelle leggi erano ingiuste. Non aveva neppure considerato che esistesse un'altra legge superiore alle leggi dello Stato, "una legge dell'umanità", una morale che permettesse all'uomo di giudicare. Scrisse: "Come nei paesi civili la legge presuppone che la voce della coscienza dica a tutti 'non ammazzare', anche se talvolta l'uomo può avere istinti e tendenze omicide, così la legge della Germania hitleriana pretendeva che la voce della coscienza dicesse a tutti: 'ammazza', anche se gli organizzatori dei massacri sapevano benissimo che ciò era contrario agli istinti e alle tendenze normali della maggior parte della popolazione. Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è, la proprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero essere stati tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa (perché, naturalmente, per quanto non sempre conoscessero gli orridi particolari, essi sapevano che gli ebrei erano trasportati verso la morte); e dovettero essere stati tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni." Ad illustrare gli effetti della morte della coscienza, riportò un brano di uno scrittore tedesco, Friedrich Reck Malleczeven, morto alla fine della guerra in campo di concentramento. Vi si racconta di una gerarca nazista che nell'estate del 1944 si recò in Baviera per tenere un discorso di propaganda ai contadini. Non si dilungò molto sulle "armi miracolose" e sulla vittoria, ma affrontò senza ambagi il tema della probabile sconfitta, dicendo che nessun buon tedesco doveva preoccuparsi, perché il Fùhrer "nella sua grande bontà aveva predisposto per tutto il popolo tedesco una morte mediante il gas, nel caso che la guerra fosse finita male". E lo scrittore aveva commentato: "Oh no, non sto farneticando. Questa cara signora non è un miraggio, io l'ho vista con i miei occhi: una donna dalla pelle giallastra, sulla quarantina, dallo sguardo folle... E cosa successe? Quei contadini bavaresi la tuffarono almeno nel lago vicino per raffreddare il suo entusiasmo per la morte? Macché! Se ne tornarono a casa scuotendo il capo".


Per tutta la durata del processo, il pubblico ministero Gideon Hausner domandò sempre, ad ognuno dei cento testimoni: "Qualcuno vi aiutò?" e "Perché non vi ribellaste?". Le risposte furono sempre uguali: la paura, l'isolamento, la rassegnazione, l'indifferenza. Ma, un giorno, quasi casualmente, un testimone rievocò il nome di Anton Schmidt, un anonimo sergente della Wehrmacht che in Polonia si era imbattuto in partigiani ebrei e li aveva aiutati, fornendo loro documenti falsi e camion militari ("e non lo aveva fatto per denaro"), fino a quando, scoperto, era stato giustiziato. Scrisse la Arendt: "Nell'aula del tribunale tutti smisero di parlare; come se il pubblico avesse spontaneamente deciso di osservare i tradizionali due minuti di silenzio in memoria dell'uomo che si chiamava Anton Schmidt. E in quei due minuti, che furono come un improvviso raggio di luce in mezzo a una fitta, impenetrabile nebbia, un pensiero affiorò alle menti, chiaro, irrefutabile, indiscutibile: come tutto sarebbe stato oggi diverso in quell'aula, in Israele, in Germania, in tutta l'Europa e forse in tutti i paesi del mondo, se ci fossero stati più episodi del genere da raccontare!" Giorgio Perlasca, nel 1961, non andò a testimoniare a Gerusalemme e in Italia, l'articolo che raccontava quanto aveva fatto, passò del tutto inosservato. Ma se si fosse presentato al banco dei testimoni e il pubblico ministero gli avesse domandato: "Signor Perlasca. Lei era un commerciante italiano. Lei non era parte in causa. Lei avrebbe potuto scappare da Budapest. Perché ha fatto tutto quello che ha fatto?," Perlasca avrebbe risposto allora con le poche parole che ripete adesso. "Vedevo delle persone che venivano uccise e, semplicemente, non potevo sopportarlo. Ho avuto la possibilità di fare, e ho fatto. Tutti, al mio posto, si sarebbero comportati come me." Avrebbe forse aggiunto, con la sua lenta cadenza veneta: "Si dice in Italia: l'occasione fa l'uomo ladro, di me ha fatto un'altra cosa". E avrebbe dato la prova che anche nella più impenetrabile nebbia, esiste - perché è propria dell'animo umano - una tentazione irriducibile, indicibile, fiabesca alla "banalità del bene".


Appendice

NOTIZIE SPARSE DAL DOPOGUERRA

Sommersi e salvati in Ungheria. Tra il 1941 e il 1945, degli 825.000 considerati ebrei nei territori della "Grande Ungheria", ovvero nei territori precedenti al trattato di Trianon, 565.000 morirono e circa 260.000 sopravvissero all'olocausto. Nel gennaio del 1945 circa 69.000 ebrei furono trovati in vita nel ghetto di Budapest e altri 25.000 nelle "case protette" del "ghetto internazionale". Si calcola che altri 25.000 ancora abbiano trovato nascondiglio individuale nella capitale ungherese. Alcune migliaia sopravvissero nelle case protette dalla Croce Rossa Internazionale. Tra quanti furono impiegati nel "lavoro forzato" o prigionieri in Unione Sovietica, tornarono in 20.000. Subito dopo la guerra, vennero ristabilite 266 comunità, in luogo delle precedenti 473. Negli anni successivi, però, la stragrande maggioranza degli ebrei lasciò le città di provincia e le comunità smisero di esistere.Un bel ritratto della vita a Budapest in un quartiere ebraico durante la guerra è contenuto nel libro di Giorgio e Nicola Pressburger, Storie dell'Ottavo Distretto, Marietti 1986. La stessa ambientazione hanno i successivi libri di Giorgio Pressburger: L'elefante verde e La legge degli spazi bianchi. Marietti 1989 e Il sussurro della grande voce, Rizzoli 1990.Pochi i libri di storia che trattano dell'Ungheria durante la seconda guerra mondiale. Tra questi, I falsi fascismi. Ungheria, Jugoslavia, Romania 1919-1945, di Mariano Ambri, editore Jouvence, Roma 1980. Tra la pubblicistica di destra. Michele Rallo, L'epoca delle rivoluzioni nazionali in Europa. Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, edizioni Settimo Sigillo, Roma 1987. Ferenc Szàiasi, Discorso agli intellettuali. Quaderni del Veltro, edizioni AR, Padova 1977. Un resoconto autobiografico degli avvenimenti in Roma-Berlino-Salò di Filippo Anfuso, Garzanti 1950.Ostjuden.Dalle campagne ungheresi vennero deportati in tre mesi dall'organizzazione Eichmann, 440.000 ebrei orientali ("Ostjuden"), in maggior parte ad Auschwitz. Poche migliaia furono quelli che si salvarono. Tra di loro, Elie Wiesel, un sedicenne della cittadina di Sziget in Transilvania. Deportato con la famiglia a Birkenau, Auschwitz e infine a Buchenwald, venne salvato dalla morte dall'avanzata alleata, mentre i suoi familiari perirono. Trasferitosi prima in Francia e poi a New York, Wiesel ha scritto numerosi libri (in particolare La notte, del 1958, Giuntina 1980), sulla deportazione dalla sua città natale), che trattano della persecuzione degli ebrei. Premio Nobel per la Pace nel 1986 "per la sua difesa della dignità umana e per il simbolo che rappresenta per la causa di tutte le popolazioni oppresse". Testimonianze delle deportazioni dalla Transilvania sono anche fornite dalla scrittrice ebrea ungherese residente in Italia, Edith Bruck (Lettera alla madre, Garzanti 1988). Sugli Ostjuden e la loro assimilazione in Occidente si veda anche Ebrei erranti di Joseph Roth, scritto nel 1927 (Adelphi 1985). Sull'ebraismo dell'Europa orientale, diaspora e sionismo, Uscire dal ghetto, di Wlodek Goldkorn (L'Editore 1991). Tra i giovani ebrei ungheresi, Arthur Koestler, nato a Budapest nel 1905, ha lasciato nei suoi libri testimonianze letterarie e politiche da precursore: Ladri nella notte sull'emigrazione in Palestina negli anni venti; Buio a mezzogiorno sullo stalinismo. Le fotografie ritrovate dalla ragazza di Bilke sono state pubblicate nel 1981, The Auschwitz Album, a cura di Peter Hellmn, Lili Meier e Beate Karsfeld, dalla Random House, New York. Racconti di viaggiatori dell'Ottocento nella puszta ungherese sono contenuti in What they saw in Hungary, Budapest 1988.

Le fonti Due sono i testi principali per lo studio dell'olocausto in Ungheria. The politics of genocide. The Holocaust in Hungary di Randolph L. Braham, Columbia University Press 1981 e Black hook on the Martyrdom of the Hungarian Jewry, 1948 di Jenó Leval. L'olocausto in Ungheria è anche trattato a fondo in The Destruction of the European Jews di Raul Hilberg (Londra 1985); Soluzione Finale di Arno J. Mayer (Mondadori 1990). Riflessioni sugli avvenimenti ungheresi, con particolare riguardo all'antisemitismo in Misere des petits Etats de l'Est, di Istvàn Bibó (L'Harmattan, Parigi 1986).


Notizie sull'atteggiamento degli alleati nei confronti della persecuzione degli ebrei durante il nazismo in The Abandonment of the Jews. America and the Holocaust 1941-1945, di David S. Wymann, Pantheon Books, New York 1984. Nel libro di Randolph Braham sull'olocausto ungherese, Perlasca è citato nel capitolo riguardante le attività delle ambasciate neutrali presenti a Budapest: "Sanz Briz e i suoi colleghi ritornarono in Spagna poco dopo l'avvento al potere di Szàiasi. La guida della legazione spagnola venne assunta da Giorgio (Jorge) Perlasca. Antifascista italiano, egli aveva già avuto contatti frequenti con la legazione (vi aveva un amico personale); la sua assunzione della carica non venne quindi vista con sospetto dal personale impiegatizio né dal ministero degli Esteri gestito dalle Croci Frecciate, che lo riconobbero come il nuovo incaricato d'affari. Perlasca e i suoi colleghi rilasciarono circa 3000 lettere di protezione. Come gli altri ebrei protetti, quelli sotto tutela della Spagna vennero sistemati nel ghetto internazionale dopo il 15 novembre. All'inizio di gennaio del 1945, vennero trasferiti nel grande ghetto. I tedeschi, evidentemente all'oscuro del ruolo personale svolto da Perlasca, furono molto infastiditi dalle operazioni di salvataggio della legazione spagnola e lettere di accusa al governo spagnolo per l'attività di Budapest crearono agitazione ai tedeschi a Budapest, Berlino e Madrid. Il 13 ottobre, Thadden rese noto che, su iniziativa americana, il governo spagnolo era pronto a concedere visti per duemila ebrei. Dieci giorni dopo Ballensiefen, l'esperto di propaganda per le SS a Budapest, informò Rolf Gunther, il vice di Eichmann a Berlino, che ,la legazione spagnola a Budapest aveva offerto al Consiglio Ebraico di proteggere orfani ebrei tra i 14 e i 16 anni. Durante le 'marce della morte', il 13 novembre Veesenmayer riferì che gli spagnoli avevano fatto richiesta di visti d'uscita supplementari per ebrei ungheresi con legami famigliari in Spagna. (The Politics of Genocide. The Holocaust in Hungary, vol. 2, pp. 1093-1094) Nel 1989 lo scrittore ungherese Elek Làszlo ha pubblicato, in omaggio a Perlasca, una raccolta di documenti e testimonianze in un libro dal titolo Az olasz Wallenberg, 'Il Wallenberg italiano" (Szécheny Kiado KFT, Budapest).

Che fine hanno fatto Otto Komoly, capo dell'organizzazione sionista a Budapest, presidente del comitato internazionale della Croce Rossa e membro del Consiglio Ebraico, venne ucciso il 1 ° gennaio del 1945 da militanti del partito delle Croci Frecciate. Il diario delle sue attività e dei suoi incontri tra il 21 agosto e il 16 settembre 1944 è stato pubblicato in "Hungarian Jewish Studies", New York 1972. L'ammiraglio Mikiós Horthy partì dall'Ungheria sotto scorta dell'esercito tedesco il 16 ottobre del 1944. Visse, semi prigioniero, in Germania e si trasferì in Portogallo dopo la guerra. Morì ad Oporto (Portogallo) nel 1957. Ha lasciato una biografia dal titolo Una vita per l'Ungheria. Mikiós Horthy jr., figlio dell'ammiraglio Horthy, venne rapito dalle SS del maggiore Skorzeny il 15 ottobre del 1944 e deportato nel campo di concentramento di Mauthausen, dove venne salvato dalle truppe alleate nel 1945. Insieme a Horthy jr., nello stesso campo era detenuto e venne salvato il conte Kàllai, primo ministro ungherese fino al marzo del 1944, che aveva tentato di trattare per l'Ungheria una pace separata con gli Alleati. Rudolph Kasztner, presidente dell'organizzazione sionista a Budapest e che trattò con le SS la vita di una lista di ebrei ungheresi in cambio di denaro, mentre era al corrente (fin dal maggio 1944) dei piani di "deportazione totale" predisposti dai nazisti, continuò a trattare con loro in Austria e in Svizzera fino alla fine della guerra. Nell'agosto del 1947 firmò un affidavit a favore di Kurt Becher, uno dei vice di Eichmann. Sottoposto a processo a Gerusalemme nel 1954, venne indicato come "colui che ha venduto l'anima al diavolo" dal giudice Benjamin Halevi. Nel 1957 Kasztner venne assassinato in una strada di Tel Aviv. L'anno seguente la Suprema Corte di Israele ne riabilitò la memoria. Ferenc Szalasi, József Cera, Gàbor Kemény, GdboredEm Vajna furono tra i dirigenti del partito Crocefrecciato che si rifugiarono in Austria. Catturati dall'esercito alleato, vennero restituiti agli ungheresi, processati, condannati a morte ed impiccati nel novembre del 1945. Otto Skorzeny. Il colonnello delle SS che liberò Mussolini dall'albergo-prigione del Gran Sasso (12 settembre 1943) e che rapì Mikiós Horthy jr. a Budapest (15 ottobre 1944) venne catturato dalle truppe americane in Germania nell'agosto del 1945 e posto in un campo di prigionia. Riuscì a evadere e a riparare in Spagna dove morì di cancro nel 1975. Nel 1989 un mensile israeliano, "Matara", rivelò che nel 1962 il servizio segreto israeliano Mossad si mise in contatto con il colonnello, gli offrì l'incolumità e ottenne da lui la possibilità di infiltrare propri agenti tra gli ex nazisti che Skorzeny aveva piazzato al servizio dell'Egitto di Nasser. Così facendo, gli israeliani riuscirono a ottenere lo smantellamento del progetto di radar e difesa missilistica egiziano, operazione che consentì loro, allo scoppio della "guerra dei sei giorni", di mettere fuori uso l'aviazione egiziana nelle primissime ore del conflitto.


Bela Kun, il leader della Repubblica dei Consigli di ispirazione bolscevica che ebbe il potere in Ungheria per 133 giorni nel 1919, fuggì da Budapest il 31 luglio di quell'anno per Vienna. Internato per un breve periodo, si recò poi in Urss, dove divenne un dirigente del Comintern. Nel 1937 venne processato, nel corso delle purghe staliniane, dal Presidium del Comintern. Sparì poco dopo il processo e, secondo notizie ufficiose, morì il 30 novembre 1939. Ministro della pubblica istruzione della Repubblica di Bela Kun, fu il filosofo marxista Gyórgy Lukàcs. Alla caduta della Repubblica, Lukàcs si rifugiò in vari paesi e infine in Urss. Dopo il 1945 tenne la cattedra di estetica dell'università di Budapest e nel 1956 fu ministro dell'educazione e della cultura nazionale nel governo di Imre Nagy. Soffocata la rivolta, Lukàcs fu incarcerato e poi deportato in Romania, da dove gli fu concesso più tardi di tornare in patria. Morì nel 1971.

Wallenberg Raul Wallenberg, l'inviato speciale del re di Svezia che operò a Budapest dal luglio 1944 fino all'entrata in città dell'Armata Rossa, sparì il 18 gennaio 1945. Considerato uno degli eroi della seconda guerra mondiale e autore del salvataggio di molte migliaia di ebrei ungheresi, Wallenberg scomparve nei primi giorni dell'occupazione sovietica della capitale ungherese. Nel corso dei decenni, diverse ipotesi sono state fatte sulla sua sorte, compresa quella, sostenuta dai suoi familiari, che egli sia ancora vivo e prigioniero in Unione Sovietica. Più volte interrogate, le autorità di Mosca hanno fornito versioni diverse. Per diversi anni venne detto che il 'governo sovietico non sapeva assolutamente nulla di lui". Nel 1987 il ministero degli Esteri sovietico invece consegnò alla sua sorellastra e al suo fratellastro giunti da Stoccolma diversi suoi effetti personali, incluso il suo passaporto diplomatico. In quella occasione venne spiegato che Raul Wallenberg morì nel luglio del 1947 nella Lubianka, la prigione del KGB, per "collasso cardiaco". Il suo arresto e la sua prigionia venivano considerati dai sovietici "un tragico errore", dovuto alle caotiche condizioni di Budapest negli ultimi giorni della guerra. Giorgio Perlasca fu uno degli ultimi a vedere Wallenberg in vita. Ricorda che egli chiese, all'inizio di gennaio 1945, la protezione della legazione di Spagna e che il 18 gennaio si recò a un appuntamento con lui in un quartiere di Budapest ancora teatro di operazioni militari. Pur non avendone prova certa, Perlasca ritiene molto probabile che Wallenberg sia perito accidentalmente colpito da un proiettile durante quegli ultimi combattimenti. Tra le numerose pubblicazioni che riguardano Wallenberg, disponibile in Italia il libro di Frederick E. Werbell e Thurston Clarke, Wallenberg, Sperling e Kupfer 1987.

Il vero console Angel Sanz Briz lasciò l'Ungheria per la Svizzera il 1° dicembre del 1944. Dopo la guerra divenne ambasciatore all'Aja e in seguito venne nominato ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede. Morì nel 1978. Lo Stato di Israele lo ha riconosciuto Giusto tra i Giusti e un albero con il suo nome è stato collocato nel viale della Rimembranza a Gerusalemme. Monsignori. Monsignor Angelo Roncalli, delegato apostolico di Turchia e Grecia dal 1935 alla fine del 1944, fu autore di numerose e puntuali lettere di avvertimento sullo sterminio in corso degli ebrei in Europa centrale. Anche all'ambasciatore tedesco ad Ankara, Franz von Papen, disse di sapere che "milioni di ebrei sono inviati e soppressi in Polonia" (luglio 1943). Sempre nel 1943 si adoperò per permettere a un piroscafo carico di bambini ebrei sfuggiti alla deportazione, di passare tra le maglie del blocco tedesco e di approdare in Palestina e svolse attività costante ed efficace di collegamento e iniziativa per favorire il salvataggio di ebrei della Polonia e dell'Ungheria. Dal 1945 al 1953 fu Nunzio apostolico in Francia, dal 1953 al 1958 Patriarca di Venezia, anno in cui, alla morte di Pio XII, gli successe con il nome di Giovanni XXIII. Cinque mesi dopo la sua elezione venne cancellata per decreto dalla liturgia del venerdì santo l'attribuzione di "perfidi" riferita agli ebrei. Nel 1962 benedisse i fedeli che uscivano dalla sinagoga di Roma dopo la preghiera. Fu il primo atto del genere da parte di un pontefice. Il Concilio Vaticano II, superando contestazioni, cancellò per gli ebrei l'accusa di "deicidio" e condannò esplicitamente l'antisemitismo. Morì a Roma nel 1963. L'enciclica "Pacem in Terris" fu il primo documento papale ad essere tradotto in ebraico, nell'ottobre 1964. Monsignor Angelo Rotta, dopo la nunziatura di Budapest tornò in Vaticano e rimase sempre al servizio della Segreteria di Stato. Morì a Roma nel 1963.


Gennaro Verdino, segretario della nunziatura di Budapest, divenne in seguito Nunzio apostolico in diversi paesi dell'America Latina.

Francisco Franco, il salvatore laconico Benché quasi completamente taciuto, il ruolo della Spagna franchista nel salvataggio degli ebrei europei, fu decisamente superiore a quello delle democrazie antihitleriane. Le cifre variano tra i 30.000 e i 60.000. Secondo Chaim U. Lipschitz, (Franco, Spain, the Jews and the Holocaust, Ktav Publishing House, New York 1984) il numero di ebrei messi in salvo fu di circa 45.000. Il salvataggio avvenne principalmente attraverso la "via dei Pirenei", che permise il passaggio di circa 28.000 ebrei provenienti da ogni parte d'Europa. Di qui, una parte di loro raggiunse Lisbona, principale porto neutrale e via di comunicazione con i paesi alleati. Altre operazioni di salvataggio vennero condotte su specifica ed "energica" richiesta del Generalissimo, da parte della diplomazia spagnola in varie nazioni: Francia, Ungheria, Romania e Grecia furono i paesi in cui l'azione risultò essere più efficace. Alleato di Hitler e Mussolini che lo aiutarono a prendere il potere al termine della guerra civile contro i repubblicani, nel giugno del 1940 Franco dichiarò la Spagna "non belligerante" nella seconda guerra mondiale. Per tutta la durata del conflitto assicurò ad Hitler il proprio appoggio di principio, ma si rifiutò di prendere parte ad azioni militari, richieste da Berlino con sempre maggiore insistenza. Perseguitati dall'Inquisizione a partire dal 1478, gli ebrei sefarditi ("Sepharad" è la parola ebraica per Spagna) furono cacciati dal paese nel 1492 e si dispersero in molti paesi dell'Europa e del Nord Africa. Il ritorno venne favorito quattro secoli dopo dal re Alfonso XII e XIII, che considerarono la cacciata una "pagina nera" nella storia della Spagna. Nel 1924 una legge promossa dal dittatore Miguel Primo de Rivera riconobbe la cittadinanza spagnola agli ebrei di ascendenza sefardita sparsi nel mondo. La "legge Rivera" fu la base legale dell'azione di Franco durante la seconda guerra mondiale. Nel dopoguerra, il tema del rapporto tra Franco e gli ebrei europei non fu praticamente trattato. L'unica intervista di Franco su questo tema (a Chaim Lipschitz, nel 1970) fu molto deludente. Il Generalissimo si limitò a confermare le cifre e spiegò laconicamente il suo atteggiamento come un "elementare senso di giustizia e carità cristiana". Alcuni storici hanno messo in luce altre possibili ragioni, tra cui l'intuizione sull'esito finale della guerra, la volontà di ristabilire contatti politici e commerciali con gli ebrei del Mediterraneo, la volontà di Franco di avere un posto nobile nella storia e una sua possibile ascendenza ebraica. Per il 1992, in occasione del cinquecentesimo anniversario della scoperta dell'America (ma anche della cacciata degli ebrei), il governo spagnolo ha annunciato nuovi provvedimenti per favorire la cittadinanza spagnola ai discendenti degli ebrei sefarditi.

Il destino della via Pal Ferenc Molnar, autore di numerose commedie e testi teatrali, oltreché del famosissimo libro I ragazzi della via Pal, lasciò l'Ungheria nel 1935 e si stabilì negli Stati Uniti quattro anni dopo. Nel libro autobiografico Addio, amore mio narra la storia di uno scrittore ungherese che fugge dall'Europa in procinto di essere sconvolta dall'espansionismo nazista. La sua commedia Liliom venne trasformata in un musical a Broadway. I suoi libri vennero messi all'indice in Ungheria e bruciati in piazza a Budapest nella primavera del 1944, in quanto contrari alla "cultura magiara". L'archivio della famiglia Molnàr andò distrutto nel 1944. Molnàr morì a New York nel 1952. Luoghi e ambientazioni di Molnàr sono ancora visibili nella odierna via Pal, peraltro ignorata dalle guide turistiche. Un saggio su questione ebraica e letteratura nell'Ungheria della svolta del secolo è stato scritto da Giampiero Cavaglia, Fuori dal ghetto, Carucci 1989.

Proprietà Il complesso industriale Manfred Weiss, roccaforte dal 1940 al 1944 del consenso operaio al partito delle Croci Frecciate, venne venduto nel giugno 1944 alle SS in cambio della salvezza per quarantacinque membri delle famiglie proprietarie, nel corso di una trattativa segreta. Dopo la guerra tornò, ma solo per breve tempo, nelle mani originarie. Fu infatti espropriato e nazionalizzato con l'ascesa al potere del partito comunista nel 1948. Ferenc Chorin, che trattò il passaggio di proprietà, morì negli Stati Uniti nel 1964. Nel 1956 gli operai della ex Manfred Weiss furono l'avanguardia della rivolta contro lo stalinismo.


La famiglia Eszterhàzy, simbolo della nobiltà e del latifondo, dopo la guerra conservò i propri possedimenti in Austria, ma perse quelli in Ungheria, confiscati dal governo comunista. Oggi in Ungheria sono molto popolari due dei figli del famoso proprietario terriero. Péter Eszterhàzy è scrittore (in Italia sono stati pubblicati due suoi romanzi: I verbi ausiliari del cuore, E/O 1988 e Il libro di Hrabal. Garzanti 1991). Màrton Eszterhàzy, calciatore, ha giocato per anni come centravanti nel Panatinaikos di Atene e ha anche indossato la maglia della nazionale ungherese.

Football magiaro Caso pressoché unico, durante la seconda guerra mondiale, in Ungheria il campionato di calcio si svolse regolarmente, e fu molto seguito, fino al 15 ottobre 1944 e venne ripreso nella primavera del 1945. Nel dopoguerra, il calcio magiaro conobbe un ciclo di splendore. In particolare fu molto ammirata la "Honvéd" di Puskàs, Kocsis, Czibor, Hidegkuti, colta durante una tournée in Spagna dalla notizia della rivolta di Budapest del 1956. Solo sei dei diciotto membri della squadra tornarono in patria.

Leggi razziali In Italia Le leggi razziali italiane vennero varate il 14 luglio 1938 con il "manifesto degli scienziati" che stabiliva l'estraneità biologica degli ebrei alla comunità nazionale. Il 22 agosto il ministero dell'Interno effettuò un censimento che fissò in 58.412 gli ebrei italiani e stranieri residenti in Italia (il censimento seguì il principio dell'appartenenza razziale e non di quella religiosa e comprese 11.756 persone tra convertiti e figli non ebrei di matrimoni misti). Il 2 settembre dello stesso anno venne revocata la cittadinanza italiana agli ebrei stranieri che l'avevano ottenuta dopo il 1919 e decretata la loro espulsione dal regno. Il 15 novembre venne decretata l'espulsione dalla scuola di allievi e professori ebrei e vennero fissati tetti al diritto di proprietà. Il 17 novembre venne dichiarato nullo il matrimonio tra un cittadino di razza ariana con persona di altra razza. Nello stesso decreto venne stabilita l'esclusione degli ebrei dal servizio militare, dall'amministrazione dello Stato e dal partito fascista. Il 9 febbraio 1939 si stabilì che i beni degli ebrei eccedenti i limiti fissati dalla legge di novembre dovevano essere trasferiti all'Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare. Il 13 luglio 1939 venne stabilito che nell'esercizio delle professioni private gli ebrei erano esclusi in favore degli ariani. Nella stessa data venne istituita una speciale commissione che poteva insindacabilmente stabilire chi era ebreo e chi no. Tra il 1938 e il 1942 vennero emanate decine di circolari, da parte della Direzione Generale per la Demografia e la Razza del ministero dell'Interno riguardanti una vastissima quantità di proibizioni nella vita quotidiana: dal divieto del commercio ambulante a quello dei libri, dal divieto alla pubblicazione di necrologi al possesso di radio, all'ingresso in biblioteche, associazioni culturali e sportive ecc. ecc. Dopo la caduta del fascismo, 25 luglio 1943, le leggi razziali non vennero abrogate. E non lo furono neppure dopo l'8 settembre. L'abrogazione avvenne attraverso i regi decreti legge del 20 gennaio 1944, numero 25 e numero 26 (reso operante però solo il 5 ottobre 1944). Nel 1938 gli ebrei in Italia erano 47.252. Il 25 luglio 1943 erano 40.157, compresi circa 6500 ebrei stranieri. I deportati dall'Italia e dal Dodecaneso furono 8566 dei quali 7557 deceduti. Il picco più alto di deportazioni si raggiunse nell'autunno-inverno del 1943. I dati e le storie della deportazione degli ebrei dall'Italia sono contenuti in Il libro della memoria di Liliana Picciotto Fargion, Mursia 1991. Saggi sulle leggi razziali in La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, Camera dei Deputati 1988. Per una visione generale del tema, Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi 1972; Susan Zuccotti, L'Olocausto in Italia, Mondadori 1988; The Italian Refugee. Rescue of Jews during the Holocaust, a cura di Ivo Herzer, The Catholic University of America Press, Washington 1989; L'abrogazione delle leggi razziali in Italia (1943 - 1987), a cura di Mario Toscano. Uno studio approfondito sull'applicazione della normativa antiebraica a Torino fra il 1938 e il 1945, in L'ebreo in oggetto, a cura di Fabio Levi, Silvio Zamorani editore, Torino 1991.

In Ungheria Un resoconto dell'iter parlamentare delle tre leggi antisemite ungheresi in "Rassegna d'Ungheria", periodico mensile diretto da Bela Gàdy e Rodolfo Mosca (segretario dell'Istituto italiano di cultura a Budapest). Biblioteca del Senato. Analisi e interpretazioni delle leggi in Istvàn Bibó, già citato.


Coincidenze Per scherzo del caso, durante il periodo in cui la storia di Giorgio Perlasca venne scoperta, un libro ha trattato un problema analogo. The Bellarosa Connection, di Saul Bellow (Penguin Books 1989), tradotto in italiano col titolo Il circolo Bellarosa (Mondadori 1990), narra la storia di un ragazzo ebreo, Harry Fonstein, salvato dai nazisti da un gruppo clandestino finanziato dall'impresario teatrale di Broadway, Billy Rose. Fonstein cercherà per tutta la vita di incontrare il suo salvatore per ringraziarlo, ma questi si rifiuterà sempre. Opposta alla vicenda di Giorgio Perlasca, è la storia raccontata dal film Music Box. Tratto da un racconto di Deborah Chiel, diretto da Costa Gavras, con Jessica Lange e Armin Mueller Stahl nei ruoli protagonisti, Music Box narra la vicenda di un ungherese-americano di Chicago, accusato dopo quarant'anni di atrocità durante il periodo nazista. Difeso dalla figlia, avvocato, verrà assolto. Ma quest'ultima, a Budapest, troverà in un carillon le prove della colpevolezza del padre e lo denuncerà.

Hannah Arendt: Hannah Arendt nacque ad Hannover nel 1906, da una famiglia ebrea proveniente da Kònigsberg. Fu allieva di Heidegger e di Karl Jaspers. Trasferitasi negli Stati Uniti nel 1941, scrisse Le Origini del Totalitarismo nel 1951 e Vita Adiva nel 1958. Morì nel 1975. Il libro La banalità del male è stato pubblicato da Feltrinelli nel 1964 e di nuovo nel 1992. Sulla controversia che ne seguì, si veda Hannah Arendt. Per amore del mondo, biografia della sua allieva Elisabeth Young-Bruehl (Bollati Boringhieri 1990).

Budapest a Hollywood Emigranti che fuggivano dalla povertà e dalla discriminazione, un vasto gruppo di ebrei ungheresi figura tra i pionieri del cinema americano. Tra di loro, il produttore Alexander Korda, Adolph Zukor (Paramount), William Fox (Twentieth Century Fox), Morris Kohn, il regista George Cukor. "Impossibilitati ad entrare nell'America del potere per la strada maestra, crearono un impero per se stessi, colonizzando l'immaginazione americana a tal punto che questo paese in larga parte si identificò con i suoi film": è la tesi di un brillante saggio di Neal Gabler, An Empire of their own. How the Jews invented Hollywood, Crown 1988. Tra gli attori famosi del passato. Bela Lugosi (che si identificò talmente nel suo personaggio Dracula da chiedere di essere sepolto in una bara simile a quella del conte). Eva Bartók (oggi residente in Polinesia), Zsa Zsa Gàbor che fu in epoca indefinibile miss Ungheria.

Hollywood a Budapest. Una conversazione con Tony Curtis. Nato nel Bronx di New York nel 1925 con il nome di Bernard Schwartz, l'attore americano Tony Curtis è oggi il più imprevisto sostenitore della memoria degli ebrei ungheresi. A nome di suo padre, Emanuel Schwartz, emigrato dall'Ungheria negli USA nel 1920, presiede e finanzia la "Emanuel Foundation", un istituto che si propone di salvare i beni spirituali e materiali degli ebrei di Ungheria, di sostenere l'insegnamento ebraico nelle scuole e di promuovere corsi di insegnamento estivi. Padre di sei figlie, tra cui Jamie Lee Curtis (Una poltrona per due, Un pesce di nome Wanda), Tony Curtis ha recitato in centocinquanta film. Vive tra Hollywood e le isole Hawaii. Cinque anni fa ha presentato dipinti e disegni realizzati durante la sua carriera e firmati con il nome scherzoso di Gauguin Schwartz. Tra di essi, The Legend, ritratto di Marilyn Monroe, con cui girò nel 1959 A qualcuno piace caldo di Billy Wilder. Tony Curtis ci racconta così il suo impegno attuale: "Da bambino, nel Bronx mi consideravano uno straniero in America. Parlavo l'inglese con un accento terribile, come succede a tutti gli ungheresi emigrati che a casa continuano ad usare esclusivamente la propria lingua. Mio padre, Emanuel Schwartz, era un ebreo della cittadina di Màteszàika, oggi ai confini con la Romania. Ma altri rami della mia famiglia mi portano in diverse parti di Europa. Ci sono dei Kertész, dei Taub e anche un ramo italiano, Vittucci. Posso dire di essere un concentrato di Europa, ma tutto questo mi era sconosciuto quando ero giovane. Ho fatto il servizio militare nella Marina e se lei mi chiede che cosa sapevo a quel tempo dell'Europa sotto Hitler, le rispondo: niente. Ero un ragazzo molto naif. Ho cominciato a sapere dopo, specialmente quando ho cominciato a lavorare a Hollywood, dove è sempre esistita una grossa comunità di ungheresi, e quando ho recitato in Europa. E' stato in quel periodo che ho preso ad interessarmi alla storia della mia famiglia. Così,


quando alcuni anni fa è venuto da me il signor Andor Weiss e mi ha proposto di finanziare la ristrutturazione della sinagoga di via Dohàny, a Budapest, l'ho fatto molto volentieri. Mi sono ricordato di quanto mi diceva mio padre. Lui quando dal paese andava alla capitale, per prima cosa si recava a pregare al tempio di via Dohàny e poi a quello di via Kazinczy. Quando sono stato in Ungheria e ho camminato su quei selciati, ho pensato: queste sono le stesse pietre su cui ha camminato mio padre e nessuno se ne cura. Per questo credo che sia giusto che io metta dei soldi per impedire che quei luoghi, quei monumenti vadano distrutti. Il progetto sta andando avanti bene, la fondazione lavora direttamente con il governo ungherese. Ho letto molto della storia dell'Ungheria e di quello che vi successe durante la guerra. Ho saputo anche del signor Perlasca. Sarò a Budapest nel luglio prossimo, 1992, per inaugurare un monumento nella sinagoga di via Dohàny dedicato a tutti coloro che si adoperarono per salvare gli ebrei magiari. E' dedicato anche a Giorgio Perlasca. Spero di incontrarlo in quell'occasione." Richiesto di un parere professionale per una immaginaria sceneggiatura di un film su Giorgio Perlasca, Tony Curtis non ha avuto dubbi: "Dovrebbe essere assolutamente un film d'azione: un uomo solo contro tutti in una città distrutta; un uomo solo contro il silenzio o l'indifferenza. Apparentemente la sua storia non è semplice da raccontare perché si svolge in due epoche molto diverse, prima al tempo della guerra e ora, dopo quasi mezzo secolo. Per questo motivo, la sceneggiatura dovrebbe essere in grado di mostrare gli avvenimenti di allora nella loro forma più drammatica e quotidiana. Se si riuscisse a rendere il clima di paura, di vergogna, il senso di colpa di allora, di tutti coloro che sapevano e non fecero nulla, allora si potrebbe capire anche la ragione di un silenzio durato per così tanti anni e la grandezza di questo gentleman italiano."


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