diversità come l’ha amata Gesù. Perché la diversità e l’ineguaglianza, spesso e volentieri, esistono nella realtà per smascherare la nostra ipocrisia. Per un’etica laica condivisa Tante volte mi metto a pensare che noi cristiani non abbiamo capito assolutamente nulla del concetto di democrazia, di giustizia e di solidarietà. Eppure, oltre alla Costituzione, la grande conquista laica che l’Italia della resistenza partigiana ci ha donato a prezzo di
sangue e sacrifici, sono convinto che anche il Vangelo di Gesù possa essere una fonte straordinaria per sostanziare un nuovo umanesimo contro la barbarie odierna. Il Vangelo contiene princìpi di libertà, di giustizia e di fraternità su cui fondare un’etica dei diritti e dei doveri degli individui e delle comunità. C’è già tutto nel Vangelo. Basta aprirlo e leggerlo. Il problema è che molti cristiani non accettano il confronto, non accettano di mettersi alla pari; brandiscono le Scritture come un’arma di verità assoluta, anziché intraprendere con altri di diversa
fede e storia personale la faticosa ricerca laica di valori fondamentali irrinunciabili e condivisi. I cristiani hanno paura di ogni forma di pluralismo, ma la società di oggi è già plurale e lo sarà sempre di più anche quella del futuro. Dobbiamo attrezzarci a un vero salto di qualità della nostra vita comunitaria. Il Concilio Vaticano II, nel 1965, nella dichiarazione Gaudium et Spes, ha stabilito come dottrina certa il primato della coscienza personale, e chi dice il contrario è eretico! Voglio citare il passo: «Non c’è nessuna legge umana che possa porre così bene al
sicuro la personale dignità e la libertà dell’uomo, quanto il Vangelo di Cristo affidato alla Chiesa. Questo Vangelo, infatti, annunzia e proclama la libertà dei figli di Dio, respinge ogni schiavitù e onora come sacra la dignità della coscienza e la sua libera decisione» (Gaudium et Spes, 41b). E in un altro documento, quello sulla libertà religiosa, si legge che «ognuno è tenuto a obbedire soltanto alla sua coscienza» (Dignitatis humanae, 11b). Oggi gran parte dei porporati, soprattutto quelli più conservatori, non vuole più sentir parlare del
Concilio. Eppure il Vaticano II è stato la nostra resistenza partigiana in terra vaticana. O facciamo un passo in avanti nell’accoglienza del pluralismo delle nostre città, oppure ci ritroveremo davanti all’infinito la questione della giustizia e della libertà come lettere morte di un alfabeto della vita da ricomporre continuamente. Mi chiedo ogni giorno con passione: è possibile ipotizzare un’etica laica comunitaria nel pluralismo delle etiche e religioni in cui siamo immersi? Finché un cristiano non riconosce il suo legame di fraternità con ogni essere
umano, nessuno escluso, è difficile rispondere positivamente alla domanda in oggetto. Quando incontriamo un omosessuale, una prostituta o un peccatore, sovente noi cristiani abbiamo già il dito puntato contro, esprimiamo a priori un giudizio negativo, ma quello che è peggio è che nella nostra testa scatta il meccanismo della conversione: vieni da noi, se ti converti, sarai salvo. No! Com’è possibile ragionare ancora così? L’ansia di convertire e fare proseliti non l’aveva neppure Gesù, che infatti non ha certo inseguito il giovane ricco imponendogli di
convertirsi. Lo ha lasciato libero. Abbandoniamo per un attimo la fede religiosa. Come possiamo dialogare con i fratelli che sbarcano sulle nostre coste e che arrivano dai paesi dell’Africa? Come possiamo intrecciare rapporti di amicizia con quei fratelli che ormai vivono nelle nostre città e mandano i loro figli nelle nostre scuole? Ho l’impressione che se non lavoreremo tutti per un’etica comune, che contempli e componga le diversità degli individui, il nuovo umanesimo contro la barbarie a cui tutti auspichiamo farà fatica a imporsi. Dobbiamo
immaginare un’etica laica o, forse, diverse etiche laiche che salvaguardino la convivenza pacifica e non impediscano il dialogo franco con chi non professa la nostra religione e magari ha un’idea di democrazia diversa dalla nostra.
BEATITUDINI E FELICITÀ «Beati gli operatori di pace» (Vangelo di Matteo 5, 1-12)
Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi
ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi».
Quelle traduzioni che distorcono la Bibbia Le nostre traduzioni dei testi biblici presentano sempre troppe discrepanze dall’originale. I libri della Bibbia arrivano oggi a noi attraverso trasposizioni pessime che – per volere dei vescovi, preoccupati di offrire una versione moderna e comprensibile a tutti – non ci restituiscono la genuinità del
significato originario. Sono traduzioni ossequiose dell’interesse di chi vuol far passare certi concetti, che si allontanano troppo dal senso letterale della lingua di allora: l’ebraico antico. Il travisamento del messaggio primitivo ne pregiudica anche il fascino. L’ebraico di allora, l’aramaico che si parlava ai tempi di Gesù, era ed è bellissimo: rendere fedelmente i suoi giochi grammaticali e fonetici è un’arte che ha sedotto l’intelligenza acuta e raffinata di credenti come Gianfranco Ravasi e Carlo Maria Martini (di cui già si percepisce il
vuoto), ma anche di molti laici non credenti. I nostri monsignori e i nostri teologi dovrebbero chiedersi un po’ più spesso come mai le versioni commentate dei libri dell’Antico Testamento di Erri De Luca o di Ceronetti sono ai primi posti delle classifiche di vendita. C’è l’indubbia bravura dei curatori, ma c’è anche il fatto che l’antica parola, tradotta nella sua pregnanza autentica, sa regalare al lettore motivi di ispirazione e di gratificazione assai maggiori rispetto alla piatta traduzione della Conferenza Episcopale Italiana. Mi colpisce sempre moltissimo la fine
abilità di questi traduttori di penetrare la parola, di indagarla, di scrutarla in profondità, fino alla radice, immergendosi in essa come in un abisso di significati. Ceronetti ed Erri De Luca sono dei veri conoscitori della Parola biblica e ci insegnano che ogni aggettivo, o sostantivo o verbo, pur già studiato e sviscerato da altri, resta sempre uno scrigno da aprire per trarne inedite sfumature e un’infinita rete di collegamenti a realtà molto concrete e molto umane. La traduzione errata e annacquata del testo sacro non ci affascina, ci annoia, mentre in
realtà avrebbe la capacità di farci addentrare in un mondo vibrante di volti, di sospiri e di sguardi d’amore. Tutta questa lunga “sbrodolata” sul problema della traduzione è per dire che quel termine beati, proprio nel capitolo più bello dedicato all’amore duro e puro, è sbagliato, non va proprio. Lascia poco spazio alla poesia, di cui il capitolo è pieno, ma soprattutto occulta il senso corretto di quella parola. Insomma, a me convince assai di più, e la trovo più giusta, la traduzione con il termine felici. Provate a sostituire nel capitolo 5
di Matteo la parola beati con felici e vedrete cosa ne esce. Felici i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Felici gli afflitti, perché saranno consolati. Felici i miti, perché erediteranno la terra. Felici quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Felici i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Felici i puri di cuore, perché vedranno Dio. Felici gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Felici i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Felici voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Siate felici «Siate felici» è il vero comandamento dell’amore. Credo che il Discorso della Montagna sia il nucleo e l’essenza del messaggio religioso cristiano, che ci rende differenti anche da chi professa altre religioni. Il Mahatma Gandhi,
profeta della non-violenza, diceva che il cristianesimo potrebbe anche perdere tutti gli altri preziosi insegnamenti di Gesù, ma non dovrebbe mai perdere le Beatitudini, manifesto dell’amore verso l’uomo e verso il mondo, viatico di salvezza. Ho sempre amato moltissimo il versetto d’apertura: «Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli». Gesù, il re, sale sulla cima, forse arrancando con fatica, e si mette seduto. È bella questa immagine di Gesù che sale, ha qualcosa di liturgico. Anche il
sacerdote raduna intorno all’altare l’assemblea, proclama la Parola e spezza il Pane, e i fedeli ascoltano. Quando celebro la Messa mi piace che i fedeli stiano seduti comodi, disposti all’ascolto. Non amo tutto quel brusio, quel frastuono, quel gran caos che anima spesso le nostre celebrazioni domenicali, quando i bambini prendono l’altare per una pista di pattinaggio. Anche la celebrazione liturgica ha bisogno di sobrietà, di compostezza. I bambini vanno accolti, certamente, ma educati al silenzio e all’attenzione. Le Beatitudini sono il
programma di una vita consapevole che distingue bene e male, di una vita buona e felice su questa terra, una vita che è preludio di eternità. Le Beatitudini sono sintesi di una ricerca appassionata della verità e di incondizionato amore verso ogni uomo senza alcuna distinzione di censo o di razza. Gesù invita tutti e ciascuno a sedersi accanto a Lui. L’unico mediatore tra Dio e l’umanità è il Cristo, e tutti possono partecipare al suo banchetto di Parola e Pane. Altri mediatori li sopporto meno, se penso a certe madonne che parlano a folle genuflesse! Noi sappiamo
che solo Gesù è nostro Signore. Lui ci salva. Può bastare. Felice chi semina la pace! La Beatitudine che sento più mia e che mi piace di più è quella che dice: felici gli operatori di pace. Una frase rivoluzionaria, che ancora oggi scuote il mio animo, e mi rende contento della scelta fatta, tanti anni fa, di seguire il Cristo. Sono felice come sacerdote anzitutto perché, oggi, qui e ora, su questa dannata madre terra che mi piace da morire, cerco di offrire
insieme a tanti amici il mio contributo alla pace. Alla pace nel mondo, ma anche alla pace dei cuori. C’è però il seguito della frase che mi esalta: perché saranno chiamati figli di Dio. È un messaggio straordinario per tutta l’umanità, nessuno escluso. Tutti gli operatori di pace saranno chiamati figli di Dio, senza distinzione di colore, di religione, di classe sociale... È una grande rivelazione anche per tempi così difficili come quelli che stiamo vivendo; ci offre fiducia e speranza per un’umanità migliore. Perché tutti, ma proprio
tutti, avranno il timbro d’origine della figliolanza con Dio se impareranno ad amare la pace e si faranno tessitori di armonia. Altro che peccato originale! A differenza di quel che ci hanno malamente inculcato da piccoli, il peccato originale non c’entra. Siamo tutti figli di Dio se scegliamo la pace e lavoriamo per costruirla, anche se non abbiamo ricevuto il battesimo e non abbiamo mai sentito parlare di Gesù. L’inganno che si è perpetuato per secoli sulla dottrina della “guerra giusta”, sulla legittima difesa, sul fatto che ci sarebbero
guerre irrinunciabili al fine di ristabilire la pace, è sotto gli occhi di tutti. Come possiamo accettare una simile falsità! La guerra si può solo abolire. A noi cristiani è chiesto di essere operatori di pace, non operatori di guerra! Mi trovo spesso a riflettere sulle molte persone generose che in Italia lavorano oggi per una efficace “seminagione di pace”. Uno dei massimi testimoni è senz’altro Gino Strada con la sua rete straordinaria d i Emergency in tante parti del mondo. I suoi ospedali e i suoi medici sono per me simbolo e opera di pace. Niente discorsi,
tavole rotonde, marce o veglie pacifiste per riempirsi la bocca di frasi retoriche! Solo iniziative concrete. La pace cresce quando ci sono uomini che diventano costruttori di pace. Infelici i vescovi con le stellette! Mi accorgo, e non da oggi, che la Chiesa applica interpretazioni ambigue alla parola pace. Gesù di Nazareth inaugurò una ecclesìa, una nuova comunità, non un impero. L’equivoco nacque a partire dall’imperatore Costantino, quando
dichiarò che il cristianesimo sarebbe diventato la religione ufficiale dell’Impero Romano. Fu da quel momento che si fece strada il concetto errato, tutto terreno, di Chiesa temporale. I teologi cominciarono a dover giustificare la teoria di un Impero Cristiano, nel IV secolo, un impero che poi si fu costretti a difendere. Da questo equivoco si affermò l’esigenza di costituire un potere secolare, una Chiesa con confini geografici, un esercito per difenderla, apparati e struttura diplomatica. Oggi però mi chiedo: come fa la Chiesa a non pronunciare dei forti
“no”? Quando si tratta di armi la Chiesa ha il dovere di dire “no”! Invece che fa? Continua a inviare cappellani militari in giro per il mondo, alla stregua di qualsiasi altra potenza militare. Mi è venuta la pelle d’oca quando ho letto la notizia del VI Convegno internazionale degli ordinariati militari. Ci sono nel mondo vescovi che portano le stellette e hanno il grado di corpo d’armata perché sono “capi” di cappellani e militari. Ma come si fa? Come fa un ordinario militare a celebrare l’eucaristia, offrendo il corpo di quel Gesù mite e umile di cuore?
Mi auguro che presto in un clima di vero cambiamento per la Chiesa si possa riesaminare la questione delle cappellanie militari. Il messaggio di pace e di nonviolenza che Cristo ci ha lasciato ben poco si accorda con i cannoni, gli spari e le baionette. La questione tocca soprattutto i soldi e i gradi. Un vescovo ordinario militare ha i gradi di generale e riceve uno stipendio dall’esercito; questa modalità non è affatto evangelica! Sovente pace e guerra vanno a braccetto... e così religione e guerra. Siamo tutti ipocriti. Il
mondo è ipocrita. Contrabbandiamo la parola pace e la parola democrazia, quando in realtà pretendiamo di essere i nuovi artefici del destino delle nazioni. E naturalmente cercando di lucrarci il più possibile, se nel sottosuolo di quelle nazioni scorre del buon petrolio. La cosiddetta “esportazione della democrazia” nei paesi in via di sviluppo nasconde, quasi sempre, intenti da vecchio colonialismo: interessi economici e sfruttamento delle risorse. Tanti mi dicono, anche amici presbiteri che hanno scelto
l’incauto mestiere di cappellano militare: «Noi andiamo in zona di guerra per portare la pace». Posso anche recepire questa istanza, ma poi mi chiedo: quanti morti civili provoca una guerra che vuol essere considerata “giusta”? E poi: riusciamo davvero a risolvere qualcosa? La democrazia riesce davvero a trionfare in tutti quei teatri di guerra dove l’Occidente è sceso in campo a difendere i diritti dell’uomo? Un giorno venne a trovarmi un cappellano militare simpatico, che adesso è andato in pensione; dopo aver chiacchierato un po’ non ho
resistito alla tentazione di chiedergli: «Ma cosa dite quando partono i bombardieri? “Mi raccomando, ragazzi, che il vostro bombardamento sia fraterno e caritatevole”». Domando a tutti i cappellani militari: per favore, vi scongiuro, venite via di lì! Cosa ci sta a fare un testimone di Cristo, un presbitero della Chiesa, fra quei soldati e quei carri armati? Stare lì significa avallare e accettare la definizione ipocrita, falsa, di “missione di pace”.
Felice il miserabile
povero...
non
il
Beati i poveri, felici i poveri. Moltissimi studiosi di economia e sociologia – fra i quali Serge Latouche, che parla di «decrescita serena» – dicono ormai che il mondo capitalista è in fase di arroccamento e lento disfacimento. Ci sarebbe bisogno di un nuovo ordine mondiale per organizzare creativamente una decrescita a misura d’uomo e incoraggiare un ripensamento del concetto di sviluppo. Per troppo tempo abbiamo parlato di sviluppo
intendendo solo la crescita economica e il progresso tecnologico di un paese, ma lo sviluppo deve concernere anche l’individuo, la sua psiche, la sua cultura, la sua vita di relazione. I latini usavano dire unicuique suum, a ciascuno il suo, e cioè: i diritti fondamentali devono essere per tutti. È un po’ questo il senso della nuova umanità da reinventare, un’umanità che vuole correggere e frenare la folle corsa dello sviluppo in favore di pochi, per una decrescita che sappia garantire a ciascuno i suoi diritti primari e reinventare una rinascita spirituale.
La ricerca spasmodica di potere, ricchezza e beni di consumo ci ha fiaccato tutti. Quando qualcuno m’invita in una di quelle ville sontuose dove ci si fa vanto di lusso e patrimonio, domando sempre al proprietario come faccia ad andare a dormire tranquillo se nei paraggi c’è qualcuno che non ha mai avuto neppure un monolocale dove ripararsi. Giovanni Battista, il grande precursore e amico di Gesù, diceva: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha; e chi ha da mangiare faccia altrettanto» (Vangelo di Luca 3, 11). Io sono nato in una casa di
ferrovieri, c’era il sufficiente per una vita dignitosa, povera, ma non miserabile; abbiamo vissuto con la mia mamma, mio papà e mio fratello, ora tutti in Paradiso. Non ci mancava niente: ho saputo cos’era il bagno, il mio primo vero bagno, nel 1948 quando sono entrato in noviziato, dai salesiani. In casa mia c’era solo un piccolo gabinetto, come si chiamava allora, angusto, freddo, ma sempre pulito. A casa non abbiamo mai avuto i pidocchi; il sabato sera la mamma faceva scaldare l’acqua con la stufetta e mi immergeva per primo nella vasca, perché ero il più
piccolo; ricordo la mia ritrosia a entrare perché avevo paura che l’acqua fosse sempre troppo bollente. Mia madre mi lavava con cura, strofinando bene, poi toccava a mio fratello, poi a mio papà e infine lei, per ultima. Si viveva così: con il giusto e senza superfluo, ma anche con grandissima dignità. E così era per tutti, per i nostri vicini, per la maggior parte della popolazione italiana. Eravamo sereni e poveri in spirito, ovvero: fiduciosi nella Provvidenza, abituati a vivere con poco e pronti ad affrontare le
avversità. Gesù predica la povertà di spirito, la sobrietà che non accumula e non arraffa, ma non esalta la miseria. In miseria, senza i beni di prima necessità, non si sopravvive, ci si abbrutisce. Mi sono chiesto più volte: ma cosa ci è successo? Cos’è successo a questa nostra povera Italia che ha superato negli anni tante ristrettezze economiche senza mai dimenticare solidarietà e ospitalità? Un ragazzino di quinta elementare che seguo, si chiama Giorgio, un giorno mi domanda che cosa sia la FAO. Gli rispondo di non saperlo, per invitarlo a informarsi
sull’argomento. Torna di nuovo e mi dice che la FAO combatte la fame nel mondo. Lo incoraggio di nuovo ad andare avanti con le sue ricerche e finalmente mi viene incontro urlandomi: «Andrea, ma i conti non tornano. Ogni tre o quattro secondi sul nostro pianeta muore un bambino, una bambina, un uomo, una donna, e tutti per fame o a causa di malattie!». Sarebbe questa la giustizia umana? Sarebbe questo il cosiddetto sviluppo? Un abominio che prevede che per far crescere la qualità della vita di una parte del mondo l’altra si debba impoverire
proporzionalmente? La frase latina «a ciascuno il suo» è diventata «a ciascuno il suo destino». Se ti va bene, perché nato nel Nord del mondo, allora sei benestante e fortunato, se sei nato nel Sud del mondo, allora sei destinato alla fame e alla miseria. Il Regno delle tre “C” Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Un mondo diverso già c’è, è alla nostra portata. La strada per percorrerlo ce l’ha indicata Gesù. Il Regno è
già annunciato. Ecco perché i cristiani devono essere sale e lievito di questo mondo. Nel quartiere, nel condominio, in famiglia, nelle città, nel mondo intero, il cristiano annuncia la fraternità di Gesù. Non può avere paure, o reticenze. Le rivoluzioni storiche più importanti, quella francese e quella, appunto, cristiana, si somigliano molto: dentro parole fondamentali come liberté, égalité, fraternité c’è un pizzico di amore cristiano, anche se devo ammettere che il concetto di uguaglianza, radicato nella svolta del Pater e delle Beatitudini, cade
ancora oggi nel vuoto. Annunciare il Regno è l’unica cosa che i cristiani devono fare oggi, subito. Senza perdere tempo in discussioni filosofiche o argomentazioni inutili. Annunciare il Regno qui e ora, nella vita di ogni giorno, a partire dalla famiglia, dai luoghi di lavoro, dai contesti quotidiani. Annunciare che seguire il Vangelo è possibile. E annunciare significa soprattutto testimoniare. Oggi mancano testimoni credibili, anche tra noi preti. Bisogna trovare maestri credibili, altrimenti anche lo spirito del Vangelo rischia di essere
svilito, maestri credibili che ci sappiano contagiare con il coraggio della testimonianza e con un’appassionata attenzione agli ultimi degli ultimi. Una volta qualche maestro credibile c’era. Abbiamo avuto Giovanni XXIII. E poi don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolari, padre David Maria Turoldo, don Tonino Bello. Uomini di Chiesa che testimoniavano prima di tutto con la vita quello in cui credevano e poi dopo – e solo dopo – lo annunciavano a parole. Guai a pensare che i testimoni cadano improvvisamente dal cielo.
In realtà la vera testimonianza nasce e si sviluppa dal basso, dalle comunità parrocchiali, dalle associazioni, dai movimenti civili. Il Regno, il movimento di rinascita, che dovremmo contribuire a far crescere su questa terra dovrebbe avere tre “C”: Costituzione, Concilio Vaticano II, Cittadinanza. Sono tre “C” importanti. La Costituzione, la carta che regola la nostra convivenza civile, rappresenta l’espressione più alta e nobile dell’animo degli italiani. È costata parecchio al nostro paese: guerra, ricostruzione, difesa della
libertà . L’accanimento con cui qualcuno, soprattutto di una certa parte politica, ha voluto in questi anni sgretolare la Costituzione è vigliacco e ci avrebbe portato in un vicolo cieco. Meno male che ci sono stati i comitati per la difesa della Costituzione, e tanta gente semplice che ha cominciato a capire che la Costituzione va preservata, a qualsiasi costo. Del Concilio Vaticano II parliamo spesso: posso solo dire che ancora non l’ho visto applicare completamente nella vita delle nostre chiese. Se ne celebrano gli anniversari, ma si applica poco la
lettera del Concilio. Sembra, in alcuni casi, lettera morta. Soprattutto per ciò che concerne la collaborazione tra laici e gerarchia e la questione della infallibilità e immutabilità del potere petrino, che è rimasto così come era. Il Concilio Vaticano II non è una pillola per addolcire alcuni dogmi ostici: è l’essenza stessa del messaggio evangelico. Con il Concilio la Chiesa aveva finalmente fatto entrare un po’ di aria fresca e pulita nelle sue stanze ammuffite. Infine, la Cittadinanza. Voglio insistere soprattutto sul valore della partecipazione. Testimoniare il
Regno significa partecipare alla politica e convincersi, tutti, che essere cittadini significa aver cura della propria città. Diritti e doveri di Cittadinanza sono alla pari, e si misurano entrambi: ospitalità, legalità, tolleranza, lavoro, dignità, libertà. Quando queste tre “C” si incontrano succede il miracolo. Una Beatitudine laica che non può non lasciare traccia nell’animo di ciascuno di noi.
I SEPOLCRI IMBIANCATI DI OGGI «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti...» (Vangelo di Matteo 23, 1-33)
Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli
pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare
“guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo prosèlito e, quando lo è diventato, lo rendete degno della Geènna due volte più di voi. Guai a voi, guide cieche, che dite: “Se uno giura per il tempio, non
conta nulla; se invece uno giura per l’oro del tempio, resta obbligato”. Stolti e ciechi! Che cosa è più grande, l’oro o il tempio che rende sacro l’oro? E dite ancora: “Se si giura per l’altare, non conta nulla; se invece uno giura per l’offerta che vi sta sopra, resta obbligato”. Ciechi! Che cosa è più grande: l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta? Ebbene, chi giura per l’altare, giura per l’altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti,
che pagate la decima sulla menta, sull’anèto e sul cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste invece erano le cose da fare, senza tralasciare quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e d’intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi pulito! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono
belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume. Così anche voi: all’esterno apparite giusti davanti alla gente, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, e dite: “Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti”. Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri. Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geènna?».
I sepolcri imbiancati dei nostri giorni Ai tempi di Gesù era in uso, soprattutto a Gerusalemme, gettare i cadaveri dei criminali e dei poveracci in fosse comuni di raccolta, che venivano poi coperte da una grande pietra su cui si dava esternamente una calce bianca. Gesù paragona scribi e farisei a quelle tombe candide e anonime dentro le quali erano gettate le salme, senza nessuna cura. Siete sepolcri imbiancati – li apostrofa Gesù – che all’esterno paiono puliti e decorosi a vedersi, ma dentro
sono pieni di ossa di morti e di putredine. In apparenza voi siete “i giusti”, poiché sedete in carica e amministrate il potere, ma in realtà, all’interno, siete gonfi d’ipocrisia e d’iniquità. L’epiteto di Gesù è perfetto, efficace. E chi sono i sepolcri imbiancati di oggi? Non ho dubbi, sono i “rispettabili” giocatori che muovono le pedine sulla scacchiera del mondo e tutte le incarnazioni del potere avido e perverso. E quando parlo di potere, intendo ogni genere di lobby di interesse: la politica, la finanza, le mafie dei
colletti bianchi, le logge occulte, le caste degli ordini professionali... E, naturalmente, l’istituzione temporale della Chiesa, il primo tra i poteri a essere ipocrita! In un recente convegno su etica e finanza, patrocinato dall’«Osservatore Romano», nell’ottobre del 2010, il presidente dello IOR, la famosa banca vaticana, il banchiere Ettore Gotti Tedeschi ha sentenziato che i ricchi devono avere sempre più soldi altrimenti come faranno ad aiutare i poveri? La stessa farneticante teoria ebbi modo di sentirla una quindicina di anni fa da Felice Mortillaro, allora
direttore della Federazione degli Industriali metalmeccanici: «Caro Don Gallo, se noi ricchi non accumuliamo denaro, come faremo ad aiutare i meno abbienti?». M’invitarono a replicare e dissi: «Caro presidente, pregherò per lei», dal momento che si era dichiarato cattolico «pregherò perché possa salvarsi l’anima.» Si alzò protestando con arroganza dalle prime file, e urlò: «Non le voglio le sue preghiere!». Lo lasciai sfogare, e infine gli dissi: «Ha perfettamente ragione, le mie preghiere valgono poco, ma siccome mi sta a cuore la sua anima
allora chiederò a un monastero di suore di clausura che preghino per lei». Detesto questa carità ipocrita, che cala dall’alto; una carità che non aiuta l’individuo a riscattarsi e ad acquisire coscienza di sé per riprendersi la propria dignità. I potenti si mettano il grembiule! Questo capitolo, il ventitreesimo del Vangelo di Matteo, è uno dei più sconvolgenti di tutto il Nuovo Testamento. Affronta la spinosa questione del potere conferito
dall’autorità e dell’uso che ne viene fatto. Gesù sembra suggerire una duplice chiave: ascoltate gli orientamenti delle cosiddette “autorità costituite”, ma non seguite il loro comportamento. Infatti: è il potere per primo a non praticare quei precetti, talvolta assurdi, imposti sulle spalle del popolo e pesanti come macigni. C’è poi un invito esplicito ai potenti: «Non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non
fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato». Nella magna carta di Mosè – i Dieci Comandamenti – il potere apparteneva a uno solo, al Dio di Israele. Da questo richiamo di Gesù si evince che a quel tempo le cose erano molto cambiate fra gli israeliti e che la legge del patriarca non era più rispettata. Ad accaparrarsi il potere ci avevano pensato, nel frattempo, gli scribi e i farisei.
Gesù è molto chiaro: uno solo è il Padre, quello celeste. E in più aggiunge: non vi fate chiamare maestri perché uno solo è il vostro Precettore. Pungolati da queste parole, guardiamo com’è governata la nostra società di oggi, attratta in modo così viscerale dalle cariche e dai privilegi... Dovremmo scandalizzarci di come viene svenduto e manipolato il potere, non solo in Italia. Gli onori, i doppiopetti, i favori... sono uno scandalo! Quando Gesù parla dell’unico Maestro, addirittura dell’unico
Padre-Precettore, e sarebbe forse meglio dire Guida (non fidiamoci troppo delle traduzioni canoniche, che ogni tanto nascondono o travisano il significato originale delle Scritture sacre), tutti ci rimangono male: «Noi» rispondono sdegnati i farisei «siamo costituiti come autorità!». Altri, per venire ai sepolcri imbiancati dei nostri giorni, rispondono: «Ci ha eletto il popolo! Ci ha eletto il conclave!». Mi vengono in mente Berlusconi e Ratzinger... Gesù pone il fondamento dell’autorità su un altro piano, in
una prospettiva rovesciata: chi è più in alto fra voi si faccia servo! Chi ha potere si metta un grembiule! In quest’orizzonte capovolto c’è il concetto rivoluzionario della fraternità, che è un concetto antropologico ancor prima che culturale o religioso. Tutti apparteniamo alla grande famiglia umana, e le più importanti rivoluzioni storiche, come quella francese, lo hanno ribadito con forza. Parole come liberté, égalité e fraternité ci raccontano di un cammino di progressiva consapevolezza che l’uomo ha percorso nel solco dei secoli e che
non attiene all’essere cristiani, ma all’essere uomini. Lo ripeto: l’unico obiettivo del potere deve essere il servizio civile alla collettività, altrimenti è perversione. Qualsiasi agenda politica, qualsiasi governo o autorità preposta, deve avere una priorità: quella dell’interesse generale della comunità in cui i cittadini, fratelli, sono in tutto e per tutto uguali in diritti e doveri. La concezione cristiana di fraternità – di cui parla esplicitamente Gesù in questo capitolo del Vangelo – non fa che ribattere i tre grandi princìpi della Rivoluzione francese.
Gesù fa agli scribi e ai farisei una vera e propria requisitoria: dicono e non fanno..., legano fardelli pesanti sulle spalle degli altri..., compiono le opere per essere guardati..., amano i primi posti e i saluti nelle piazze... Mi chiedo se questo discorso così duro, fatto di precisi capi d’accusa, non ci riguardi un po’ tutti. Temo che questo discorso, fatto di sonore frustate, riguardi certamente i potenti, ma interpelli anche ciascuno di noi; sarebbe farisaico individuare il bersaglio della requisitoria esclusivamente in coloro che hanno autorità. I farisei
non sono una categoria di persone. Si tratta piuttosto di una categoria dello spirito. Vangelo e Costituzione I sepolcri imbiancati sono dappertutto, ancora oggi, all’interno della Chiesa e fuori di essa. E abbiamo solo due modi per combatterli: il Vangelo in campo religioso e la Costituzione in ambito civile. Un giorno Piero Grasso, il procuratore nazionale antimafia, mi disse: In Italia per battere le mafie sarebbe sufficiente
applicare la Costituzione». Di recente mi hanno invitato a Piombino i familiari di alcune vittime cadute sul lavoro. Ho fatto una ricerca e ho notato che sono tanti anni, almeno dal dopoguerra, che si parla in Italia di sicurezza sul lavoro, di soppressione del lavoro minorile e poi di parità tra donne e uomini, parità di salario e di opportunità professionali. Mi chiedo: ma dov’è la parità? Hanno addirittura inventato le quote rosa come fossero un beneficio per il mondo femminile. In Italia siamo ancora lontani da una vera parità basata sul merito, anche se le cose
stanno lentamente cambiando. Il concetto di uguaglianza fra tutti i cittadini, uomini e donne, entrò nel lessico della Carta Costituzionale stesa e approvata dopo lunghi anni di sacrifici personali e di popolo. L’articolo 3 parla di pari dignità sociale senza distinzione di sesso. L’articolo 2, inoltre, è una bussola della Repubblica, che ci orienta a riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo e a adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. C’è una consonanza perfetta fra Costituzione italiana e Vangelo. C’è
sintonia con quello che GesÚ proclama in questo capitolo di Matteo, ma anche nel Discorso della Montagna, le Beatitudini, che sono il manifesto etico di noi cristiani. Per rispondere al potere perverso è necessario prendere coscienza di cosa sia il potere. Ce lo insegnava il famoso pedagogo brasiliano Paulo Freire, nella sua Pedagogia degli oppressi (Edizioni Gruppo Abele, Torino 2002). Freire sosteneva che occorre stare molto attenti a una trappola: non è vero che un insieme di cuori buoni costituisce una
società buona, una convivenza buona; l’avere una coscienza civile o di popolo non ci salva dal male. No! Chi prende coscienza di appartenere a una comunità deve fondare la sua resistenza al male su due pilastri fondamentali: anzitutto il concetto della uguaglianza di tutti i cittadini nei diritti e nei doveri e poi la preoccupazione del bene comune, e non del bene di una sola parte. La degenerazione odierna consiste nel voler difendere i privilegi di un gruppo, di una lobby, di una casta, dimenticando l’interesse generale.
Se per un cittadino l’obiettivo prioritario è quello del bene comune, per un cristiano l’obiettivo sarà quello di abbattere il potere temporale dell’istituzione a cui appartiene, incarnando i valori della tolleranza, della misericordia, della solidarietà e della giustizia sociale. Nella Chiesa il credente si sente figlio di Dio, ma anche fratello di tutti gli altri uomini e donne che camminano accanto a lui e che non si riconoscono nella Chiesa; un cristiano sente che ogni persona porta in sé scolpita l’immagine di Dio. Aggiungo che il concetto di fratellanza non basta per
rispondere ai sepolcri imbiancati. Dopo secoli di storia, la Chiesa, con il Concilio Vaticano II, ha finalmente dovuto riconoscere come dottrina certa il primato della coscienza personale. Ogni uomo deve essere educato a guardarsi dentro e a cercare in se stesso le vie giuste per costruire il bene e rifiutare il male; ogni uomo o donna deve imparare a riconoscere il valore intrinseco del bene per compierlo. Potere e ignoranza
Non mi stanco mai di ripetere quanto sia importante imparare a contrastare il potere perverso con le armi della ragione e della cultura. Don Lorenzo Milani, educando i suoi ragazzi di Barbiana, li invogliava a studiare e a formarsi per essere sovrani nelle proprie decisioni. Il potere sa che se tiene l’oppresso e il povero nell’ignoranza avrà gioco facile. Se l’oppresso prende coscienza della propria condizione, allora matura e cresce. E crescendo può realizzare l’obiettivo del bene comune. È chiaro che per arrivare a questa
consapevolezza bisogna formarsi un pensiero critico, attraverso l’ascolto, la lettura, lo studio e la cultura. Molti anni fa un’organizzazione nordamericana aveva fatto tanti proseliti. Si chiamava “Dialogo morale”. Aveva molti mezzi economici; in Italia portava i suoi adepti in grandi castelli e alberghi lussuosi. Il credo dell’organizzazione era questo: l’insieme di tanti cuori buoni migliorerà la società. È una trappola! Uno può anche porsi l’impegno della bontà, ma se non ha l’obiettivo del bene comune sarà
buono solo con se stesso o al massimo con i propri familiari e vicini. Bisogna far crescere e maturare il senso civile della collettività e dell’utilità comune. Non basta la bontà. Solo se ho maturato un corretto senso civico, capisco quanto sia utile, per me e per tutti, pagare le tasse. Solo se ho capito quanto denaro pubblico si sperpera con la corruzione, capirò che a rimetterci è tutta la collettività. Fratellanza e dovere civico
Il problema di sempre è comprendere se abbiamo tradito lo spirito della Costituzione, che parla appunto di fratellanza e di dovere civico, e se abbiamo lasciato nascosto il Vangelo tra le pieghe della Storia e delle vesti cardinalizie. Se penso all’esempio di don Giuseppe Dossetti – forse una delle poche personalità in Italia che incarnò insieme gli ideali di fede del Vangelo e quelli civili della Costituzione, fu parlamentare, sottosegretario al governo, padre costituente, e infine monaco all’eremo di Monte Sole vicino
Bologna –, credo che abbiamo fatto passare troppo tempo e molte energie sono state sprecate per rimettere insieme i pezzi di questo nostro paese. Bisogna costituire dei comitati in difesa della Costituzione! Era quello che voleva il monaco Dossetti quando si allontanò dalla politica. Sono nati comitati, anche a Genova, la mia città, c’è stato un bel fervore di attività. Bisogna fare di più. Dobbiamo fare dei passi in avanti. Se non ci assumiamo le nostre responsabilità, i poveri faranno per sempre la guerra ai poveri, mentre le ipocrisie, i
carrierismi e le poltrone vinceranno sempre. Stava succedendo qualcosa di irreale in Italia: i ladri si vantavano di esserlo, i poveri erano al limite della sopportazione: una caduta di stile, di popolo e personale. Vangelo e Costituzione continuano a indicarci la strada per risalire la china e tornare a essere un paese civile. Il potere che nasconde la verità L’ho sempre sostenuto in varie occasioni, anche una sera ospite da
Fabio Fazio a Che tempo che fa: finché la Chiesa continuerà a essere misogina e sessuofobica, eserciterà un potere che non ha nulla a che fare con il messaggio di Gesù. Penso che il potere della Chiesa potrebbe essere “controllato” e mitigato dalla democrazia, se lo volessimo. Se penso alla mia esperienza sacerdotale, ho sperimentato che la Chiesa è da una parte democrazia, quando è espressione di collegialità e di scelte condivise, ad esempio il Concilio Vaticano II, ma dall’altra parte è assai più spesso una sorta di monarchia assoluta. Non mi risulta
che Gesù volesse instaurare una monarchia, almeno stando ai Vangeli. Cos’è quest’assurda separazione tra gli uomini e le donne all’interno della Chiesa? Perché quest’imposizione anacronistica del celibato obbligatorio che ci venne da un Concilio di Trento preoccupato unicamente di salvare il patrimonio della Chiesa? E come mai la Chiesa ortodossa non si è mai permessa di imporre questo? Sì, è vero, i vescovi ortodossi hanno l’obbligo del celibato, ma almeno lì c’è la motivazione dell’impegno e della responsabilità del compito. Se la
regola è accettata, condivisa, perché ha una motivazione sostanziale, allora va bene, altrimenti è un’assurdità che produce solo sofferenze e degenerazioni. Il potere – civile ed ecclesiale – ha sovente l’obiettivo di nascondere la verità agli occhi dei cittadini e dei credenti. Mi chiedo se sia davvero il potere la bussola con cui dobbiamo navigare nell’incertezza dei nostri tempi. Penso proprio di no. Per noi italiani l a road map civile è la Costituzione. Nel territorio della fede, invece, è il Vangelo di Gesù
Cristo, uno specchio nel quale verifichiamo ogni giorno il nostro cammino di crescita umana e cristiana. Nella Chiesa ci sono i ministri, vero, ma l’etimologia stessa della parola ministero è servizio. E la comunità ecclesiale accetta, anzi riconosce, il ministero come servizio. Mi chiedo: quand’è che la Chiesa vorrà riconoscere il ministero femminile? A questo riguardo, san Paolo, nelle lettere paoline, spiega la logica del servizio con una specie di organigramma. L’episcopo sta in alto, e poiché sta più in alto degli
altri è chiamato a essere ancora più servo. Papa Gregorio I fu il primo pontefice a introdurre nelle encicliche la formula servus servorum Dei (servo dei servi di Dio), che veniva posta in calce al documento, accanto al nome del firmatario. Lo imitarono i pontefici successivi. L’organizzazione delle prime comunità cristiane riconosceva i presbiteri, gli anziani, i diaconi e le diaconesse (la cui traduzione in uso è: collaboratrici), preposte al rito dell’immersione battesimale. Il battesimo, nei primi secoli del cristianesimo, consisteva infatti
nell’immersione dei candidati nudi nell’acqua. I credenti che chiedevano il rito erano adulti; a quell’epoca non si somministrava ancora il sacramento ai bambini. Erano le donne a essere incaricate di assistere e presiedere a questo rito. La comunità riconosceva l’amministrazione del battesimo alle donne. Penso che sia arrivato il momento di dare un vero riconoscimento istituzionale all’interno della Chiesa cattolica di cui mi onoro di far parte anche alle donne. Che le facciano almeno diaconesse!
La Chiesa condanna il genio femminile a lavoretti di secondo piano: pulire le parrocchie, fare le segretarie, recarsi a dare la comunione agli ammalati. Per carità! Portare l’eucaristia a chi è impossibilitato è un compito amorevole e importante, ma a volte le donne mi sembrano sacrificate al ruolo di portalettere. Quanta distorsione della materia sacra è avvenuta nel corso dei secoli. Perché la Chiesa, ancora oggi, ha paura delle donne? Forse perché qualche teologo rimasto ancorato al pre-concilio ritiene, nelle sue visioni frustrate, che le donne siano
come il demonio, il nemico numero uno da cui bisogna fuggire? La Chiesa è ancora misogina. Una donna non può assurgere a nessun ministero all’interno della Chiesa e della liturgia cattolica: non può diventare sacerdote, né amministrare sacramenti, e quando vuole accostarsi al sacramento della riconciliazione deve subire la grata. Io lo dico alle donne: andate in chiesa con un martello e, prima di tutto, spaccate quella grata! Ve lo immaginate Gesù che chiede a Pietro di portargli una grata per parlare con le tantissime donne che lo seguivano?
Povera Chiesa! Poi non dobbiamo impressionarci di alcuni gravissimi errori che i suoi presbiteri hanno compiuto in questi anni, vedi il caso dei preti pedofili o il numero crescente di preti che lasciano il sacerdozio perché si sono innamorati di una donna. C’è anche il problema dei seminari e dell’educazione che s’impartisce in quei luoghi e la questione del celibato, che è un dono, ma non per tutti. Anche il celibato imposto a chi si fa prete va ripensato al di fuori di una logica istituzionale e di potere. A forza di vietare e negare, alla fine, si produce più male che
bene. Un abuso di potere: il Concilio abortito Temo che durante il Vaticano II ci fu proprio una sorta di abuso di potere. A mio parere il Concilio terminò con la morte di papa Giovanni XXIII; con Paolo VI, ma sarà poi la Storia a giudicare, cominciò un’opera di paradossale frenata del Concilio stesso. Venne soffocato sul nascere quel forte vento dello Spirito che aveva spiegato le vele
della Chiesa universale, in quei giorni straordinari. Accadde, per esempio, che Paolo VI avocò a sé il tema degli anticoncezionali: fu materia da cui escluse l’elaborazione dei padri conciliari. Ecco un bell’esempio di uccisione della democrazia e dello spirito di collegialità. Un abuso di potere. La storia dell’enciclica Humanae Vitae è nota ai conoscitori di cose vaticane. Paolo VI istituì una commissione in cui 47 padri conciliari votarono a favore della pillola contraccettiva, tutti convinti di voler offrire finalmente una bella enciclica di apertura alla
modernitĂ . Poi, lo stesso Paolo VI istituĂŹ una seconda commissione di 100 membri in cui pose come presidente il cardinale Ottaviani, non certo uno spirito riformatore; solo alla fine, e solo alla fine, decise di inserire anche una coppia di sposi. E io mi chiedo, ancora oggi, sospirando: ma insomma, si parla di anticoncezionali, vorrai pur inserire qualcuno che sia coinvolto nella questione e ci capisca qualcosa oltre ai celibi e ai religiosi? Al termine della dura discussione ci furono 96 voti contro gli anticoncezionali. Il papa
concluse l’enciclica con un invito patetico ai pastori: siate misericordiosi con chi viene a parlare con voi e vuol essere perdonato per l’aborto o l’anticoncezionale. L’ Humanae Vitae contraddice il primato della coscienza personale! Non concede alcuno spiraglio! E il papa successivo, Karol Wojtyla, non cambiò neppure una virgola. Siamo tornati indietro. La collegialità dei vescovi era tutto quello che voleva e sperava papa Giovanni XXIII. Niente da fare. La Chiesa è ancora una piramide di potere: è l’unica monarchia
assoluta rimasta sulla terra, insieme a poche altre eccezioni come l’Arabia Saudita e lo Swaziland, manco più l’Imperatore della Cina, che non c’è già da tempo, e neppure quello del Giappone, che è lì sul trono ma non conta niente. Come si fa a parlare di fraternità in una monarchia assoluta? È indubbio che la Chiesa cattolica è santa e gloriosa in virtù di Cristo. E non c’è bisogno di vescovi o di papi per renderla tale. La Chiesa è gloriosa, ma anche semper penitens, penitente. E aggiungo con Lutero: semper reformanda, cioè sempre bisognosa di adeguarsi ai
tempi, perchÊ la Buona Notizia è sempre la stessa e non muta, ma va declinata nella storia e nelle culture che cambiano. Quanti testimoni di Cristo incontriamo ogni giorno! Quanti cristiani anonimi ci sono, che vengono uccisi per i valori del Vangelo, come monsignor Romero. La coscienza personale di ciascuno di noi credenti deve lasciarsi interrogare e coinvolgere dal Vangelo, solo dal Vangelo. Il primato della coscienza personale non può essere avvilito dall’abuso di potere della Chiesa sulle anime dei singoli. E aggiungo: se
funzionasse meglio la collegialità tra laici e presbiteri, quanti passi avanti farebbe la Chiesa! La base, il popolo, non è che non si muove. Tant’è vero che già da molti mesi c’è un gruppo di preti austriaci che in modo eclatante ha contestato la Chiesa ed è in attesa di risposta. Papa Ratzinger ne ha accennato, di sfuggita, nella Messa crismale della Pasqua 2012. Si tratta dell’Appello alla disobbedienza (PfarrerInitiative) firmato da oltre cinquecento preti e diaconi, che sta girando attraverso il web in tutti i paesi europei, trovando adesioni ovunque fra sacerdoti e laici.
Chiedono con forza una riforma della Chiesa da tempo necessaria e data l’inattività dei loro vescovi hanno deciso di seguire la loro coscienza e di attivarsi in maniera indipendente su sette punti precisi: pregare a ogni Messa per un’autentica e auspicabile riforma della Chiesa; non rifiutare più l’eucaristia a uomini e donne di buona volontà e, dunque, anche a divorziati-risposati, a membri di altre Chiese cristiane e, in alcuni casi, anche a cattolici usciti dalla Chiesa; evitare di celebrare più di una Messa durante le domeniche e i giorni festivi sovraccaricando preti
che devono spostarsi da una comunità all’altra, optando per “liturgie della Parola” senza prete organizzate in loco al fine di evitare tournée liturgiche; celebrare “liturgie della Parola” con distribuzione della comunione come “eucaristie senza prete” per rispettare il precetto domenicale in un tempo di scarsità di preti; rifiutare il divieto di predicare stabilito per laici competenti in materia teologica, perché in questi tempi difficili la Parola va annunciata comunque; impegnarsi a trovare in ogni parrocchia un moderatore, uomo o donna, sposato
o non sposato, a tempo pieno o parziale, senza fusioni di parrocchie, ma attraverso un nuovo modello di prete; sostenere con forza l’ordinazione presbiterale di donne e persone sposate, superando anche l’obbligo del celibato per i sacerdoti. Sono sette punti dirompenti e importanti. È ora che l’alta gerarchia ecclesiale si metta in ascolto della base scalpitante. Alcuni mesi fa centoquarantatré teologi di lingua tedesca hanno scritto al papa sugli stessi temi. Il cardinal Martini, nonostante la malattia del Parkinson, per molti
anni ha insistito sulla necessità di un nuovo Concilio, ovvero una nuova occasione di sinodalità, di collegialità, fra vescovi, teologi e laici. L’amara realtà è questa: poiché la Chiesa ha paura di perdere potere e di vedere sgretolarsi la sua piramide granitica, allora non fa nulla. Temo che non avrò il privilegio di vedere l’alba di un nuovo Concilio.
QUELLI CHE SI CREDONO “A POSTO” «Non sono venuto a chiamare i giusti» (Vangelo di Matteo 9, 9-12)
«Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola
con Gesù e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».
In cerca di un lessico della speranza Gesù inaugura un nuovo linguaggio universale fondato sulla speranza:
tutti gli esseri umani sono figli di Dio, per tutti c’è un riscatto, soprattutto per i poveri, gli oppressi e i peccatori. In questi ultimi anni non si è fatto altro che parlare di crisi economica, di recessione, di tagli e di disagi, come se i poveri non facessero già da sempre sforzi sovrumani per vivere decentemente. La parola che sento dire da ogni parte è: sacrifici. Possibile che la politica non riesca a ritrovare un lessico della speranza? La Buona Novella, che anche Fabrizio De André ha cantato in un indimenticabile disco, è Gesù che
viene a salvare l’uomo. E lo salva con la speranza, non con una manovra economica. Anzi, chiama Matteo, il rigido esattore delle tasse, e gli dice: «Seguimi». Decidi tu: o resti qui a fare lo sfruttatore, il pubblicano che fa la cresta sulle tasse dei tuoi fratelli ebrei, oppure vieni con me, cambi radicalmente vita, rifiuti la dittatura del denaro per riprenderti la tua dignità e per vederti restituita la salvezza eterna. Gesù non viene a chiamare i giusti, quelli che si credono “a posto”, ma i peccatori. Non i sani, ma i malati. E la medicina per la guarigione è la misericordia, quella
fonte miracolosa che fa scattare la conversione del cuore. Matteo, dopo l’incontro con Gesù misericordioso, riconoscerà la sua condotta abominevole, e deciderà prontamente di seguirlo. Gesù dice: «Misericordia io voglio e non sacrifici». Mi chiedo se abbiamo tutta l’umiltà sufficiente per non ritenerci “i giusti”, ma i peccatori. Mi chiedo se sentiamo tutta la pericolosità del piedistallo delle opere buone su cui talvolta ci issiamo. Gesù non vuole riti o sacrifici. Dovremmo dunque smettere di battere l’aria con tutte le nostre preghiere da bravi
cristiani e cominciare a batterci il petto. Riconoscerci bisognosi di misericordia significa riconoscerci peccatori e avere l’opportunità di essere visitati da Gesù. Mettersi alla sequela dell’uomo di Nazareth, come fece Matteo, non è così semplice. Occorrono rinunce. Gesù non traccia strade, non adotta strategie politiche, non scrive leggi, ma invita l’uomo a emanciparsi. L’uomo ha ricevuto tutte le potenzialità – intelligenza e spirito creativo – per esprimere la propria dignità. Gesù non è affascinato dalla legge, ma sollecita l’individuo a trovare in se stesso le
energie positive per una vita nel segno dell’amore autentico verso il fratello, il vicino di casa e anche il nemico. Gesù dà un segno di speranza all’umanità: guardate che ce la possiamo fare. Non lasciamoci ingannare da leggi e costrizioni, templi e chiese, profeti e santoni, guru e agenzie di rating: la vita appartiene a noi. In quel «Seguimi» perentorio, rivolto a Matteo, c’è l’invito a ciascuno di noi a prendere in mano la propria vita, a non trascinare vivacchiando la propria esistenza, ma a imprimergli finalmente una svolta.
Certo, capisco come questo atteggiamento di Gesù abbia infastidito i farisei dell’epoca, così come nei secoli e oggi infastidisce i padroni di turno. L’umanità che nasce dalla predicazione di Gesù è un’umanità a costo zero, dove il “di più” non è l’aumento della ricchezza o del PIL, ma l’aumento della circolazione d’amore. In questo atteggiamento Gesù si rivela il più grande rivoluzionario della Storia, checché ne dicano i miei amici comunisti o gli atei più convinti. Non mi risulta dai testi evangelici che Gesù abbia
frequentato i palazzi, i potenti come Erode o le case dei notabili. Semmai bazzicò fra i poveri, le prostitute e i peccatori. Mentre i farisei, quelli che si autoproclamavano fedeli interpreti della Legge, rasentavano integralismo e malvagità, emettendo dai loro scranni rialzati giudizi di condanna, senza appello e senza pietà. Gesù, dunque, siede a tavola con i peccatori, non con quelli che ritengono di avere un posto già riservato in Paradiso.
Il brutto vizio di guardare a casa degli altri Quelli che si credono “a posto” hanno un gran brutto vizio: quello di guardare sempre in casa degli altri. Dicono: «I peccatori sono gli altri», e non si sentono mai toccati dal discorso di Gesù. Che ipocrisia! Io mi sento, ancora oggi a 84 anni, un peccatore. Mi sento sempre inadeguato, perché sono un garantito. È vero: lavoro per i poveri, i precari, i senza-casa, i rom, gli emarginati, i migranti, però sono un garantito rispetto
all’umanità dolente che bussa ogni giorno alla mia porta e cerca aiuto. Sono un garantito rispetto a loro. Sono un peccatore-garantito, perché, se esco di casa e incontro un povero, allora gli do l’elemosina e con ciò, forse, credo di salvare la mia anima, di mettere a tacere la mia coscienza. Vorrei che ogni mia azione caritatevole, tradotta in solidarietà, potesse produrre dei diritti, ma non a lunghissimo termine! Riconosco gli aspetti positivi della solidarietà assistenziale, ma mi sento peccatore per non essere riuscito, in tanti anni, a cambiare davvero le
cose. Ho visto che tante persone negli anni passati hanno lottato per i diritti – per ottenere lo Statuto dei lavoratori, per la parità uomodonna –, ma ho notato che in questi ultimi tempi la nostra democrazia è entrata in una sorta di eutanasia. Che fine ha fatto l’articolo 3 della Costituzione, che sostiene che la Repubblica deve rimuovere qualunque ostacolo per favorire l’uguaglianza di tutti i cittadini? Lo voglio riportare per intero: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese». In questo senso mi sento inadeguato e iper-garantito. Svolgo il mio servizio con i miei ragazzi della Comunità San Benedetto e da anni lavoriamo notte e giorno per la mia città, Genova, e credo che la
generosità e l’onestà del nostro agire si vedano, e abbia anche la comprensione e l’apprezzamento di gran parte della popolazione. Se scorressi l’elenco telefonico, non solo a Genova, ma in qualunque parte d’Italia ormai, e dicessi: «Pronto, sono don Gallo, mi invitate a cena stasera?», avrei una marea di inviti. Ecco perché, nonostante tutto, provo un senso di vergogna quando incontro i poveri e i peccatori. Recentemente ho rifiutato una sera di andare in un ristorante, un grande ristorante, perché già si sapeva in giro che arrivava don Gallo. E io,
in quel momento, mi sono sentito un peccatore. Uno che va a cena dai garantiti per vanità. Mi sono sentito un peccatore addirittura duplice: infatti, pur non avendo nessun merito e nessuna carica, mi ritrovo sia iper-garantito sia un po’ famoso per effetto dei mass media e dell’opinione pubblica. E come faccio a non vergognarmi di fronte a questi miei fratelli che, a fatica, la sera riescono a rimediare una tazza di brodo caldo? Cosa dico a un ragazzo precario, a un disoccupato? Sì, in molte situazioni siamo riusciti a evitare lo sfratto e la perdita di un appartamento pagato con il mutuo a
chi aveva perso il lavoro, ma posso essere felice per così poco? Vivo queste situazioni come un peso enorme, ecco perché vado volentieri a cena con i peccatori, perché sono loro che mi fanno capire dove sta l’altra faccia della verità.
Don Lorenzo Milani ricordava spesso che lui aveva sì insegnato a leggere e a scrivere ai suoi alunni di Barbiana, ma loro, figli di contadini, gli avevano insegnato a vivere. Al giovedì sera abbiamo la cena con tutti i poveri che vogliono venire in comunità. Apriamo la porta a tutti, senza distinzioni. Lì, mi sento finalmente a mio agio, nel senso che condividiamo “qualcosa” con loro, ecco perché mi chiamano spesso “compagno”. So che alcuni, specialmente in ambito ecclesiale, non sopportano che mi faccia chiamare “compagno”. Io sono da
sempre contro ogni dittatura, ogni dispotismo rosso, verde o bianco. Eppure lì, a tavola con i peccatori, finalmente mi sento un povero prete che spezza il pane. So di essere un personaggio conosciuto, e qualche volta le lusinghe del successo e del potere arrivano anche nei meandri più sconosciuti e lontani della mia coscienza. Arrivano anche a me: «Guarda questo,» potrebbe giustamente dire qualcuno «sta con i poveri e, a causa loro, va in tv, scrive libri e lo intervistano in continuazione». So che è un rischio. Ne ho anche
il terrore, e mi sento male al pensiero che la mia notorietà potrebbe ferire la sensibilità anche di un solo povero. Tuttavia corro il rischio, perché non posso tacere. Anche e soprattutto nella mia chiesa. Io non taccio, parlo per i miei poveri, per l’umanità sofferente dimenticata dall’indifferenza. Approfitto di alcuni strumenti per dire apertamente ai potenti di turno che dobbiamo reagire a questa “delinquenza legale” che sta ammorbando la nostra Europa. Tra l’altro, i contratti di tutti i libri che firmo sono intestati alla
Comunità San Benedetto e tutti i diritti d’autore sono a favore della comunità, che ovviamente ha molte spese, perché le iniziative contro la povertà e l’emarginazione necessitano di risorse. Le conferenze, i libri e le trasmissioni televisive mi danno la possibilità di parlare, di far capire alcune cose e, a volte, è più importante far passare alcuni concetti di legalità e giustizia che non dare l’elemosina al primo mendicante che si incontra per strada. Mi trovo a casa nella mia chiesa, e quindi brontolo quando c’è da brontolare. E provoco, se
c’è da provocare. Poi arriva il momento in cui spezzo il pane con i miei “randagi” di strada. È il momento più bello, che mi fa capire quanto la Chiesa sia davvero santa nei suoi testimoni sconosciuti e nascosti agli occhi del mondo. La tentazione del Parmigiano La mia mamma aveva letto la biografia di don Bosco, che conoscevo anch’io, e ricordava spesso che, quando don Bosco fu ordinato prete, la mamma Margherita il giorno
dell’ordinazione gli disse: «Adesso, caro don Giovanni, che sei prete, se da prete diventerai ricco non ti riconoscerò più come figlio». Ebbene, con lo stesso impeto e direi la stessa chiarezza, la mia mamma, il 1° luglio del 1959 (giorno della mia ordinazione presbiterale), mi ricordò le parole di mamma Margherita: «Don Andrea, se da prete diventerai ricco io non ti riconoscerò più come figlio». E già. Non poteva dire “Ti diseredo”, perché non aveva nessuna proprietà, mi disse appunto di non arricchirmi, soprattutto alle spalle dei miei fratelli.
Forse, più che nell’attrazione per il denaro, il mio vero peccato può essere nascosto nelle insidie del successo e del riconoscimento mondano. Non vedo altre tentazioni. Sì certo, ci sono anche altre mancanze, ad esempio ogni tanto mi lascio trascinare nei piaceri del cibo e del vino. Confesso di avere una sfrenata predilezione per il Parmigiano Reggiano... E poi da chi potrei andare a confessarmi? ...Dalla gerarchia ecclesiastica? Dove trovo la fede? ...Nei palazzi, nei partiti, nella Chiesa? Quando il Messia tornerà, troverà ancora fede su questa terra?
L’unico peccato davvero grave è essere direttamente o indirettamente complici della miseria dei poveri. La nostra comunità ha avuto in vent’anni due residenze, una a Salvatore Baia e una a Santo Domingo, in un villaggio a nord dove abbiamo costruito una rete di turismo solidale, aiutando gli indigeni a rendersi autonomi. La nostra gioia è stata quella di esportare lo zenzero, migliorare i sentieri, le coltivazioni, e tutto con piccolissimi aiuti. Ma dov’è, mi sono sempre chiesto, la cooperazione internazionale? Eppure siamo contenti. Contenti
di aver mitigato le inefficienze e le difficoltà per quelle popolazioni così lontane dal nostro mondo occidentale. Finché non sono povero con i poveri, come cristiano sono un fallito. La mia preoccupazione è che ormai sono vecchio. Chi me lo assolve questo peccato? Riuscirò a farcela con soli tre Padre, Ave e Gloria? Non credo. La voce di chi non ha voce Chi è il malato che ha bisogno del medico? In questo momento penso a
tutti coloro che non hanno voce. Quelli che non possono permettersi di rispondere al datore di lavoro che li ha licenziati, quelli che non arrivano a fine mese, quelli che sbarcano dalle sponde opposte nel nostro Mediterraneo sognando un futuro di felicità, ma anche quelli che vengono curati nei fatiscenti pronto soccorso del Sud d’Italia, sdraiati a terra, perché non possono permettersi cliniche e poli ospedalieri che costerebbero troppo. Non ha voce chi non può pagarsi gli studi, o le medicine; non ha voce chi non può accomodarsi al grande
banchetto della vita perché non ha gli strumenti per sedersi a tavola. Anche se nel nostro caso, nel testo evangelico che stiamo esaminando, i peccatori sono proprio i pubblicani, cioè coloro che non rispettano i regolamenti, la legge, chi è fuori dalla norma, dalle regole. Il peccatore è colui che, essendo fuori dalle regole, subisce l’emarginazione, viene scartato dagli altri, non ha diritto di parola, subisce l’umiliazione, e non ha più voce. Ecco che Gesù fa giustizia: ai farisei dirà che sono «sepolcri imbiancati» e che, in ogni caso, sono «i malati ad aver bisogno del
medico, non i sani». A me sembra, questo, di una portata rivoluzionaria incredibile. Senza guerre, né armi o bastoni, l’uomo moderno può vincere la sua battaglia nei confronti di una società che premia solo i più forti, con l’amore. Vi sembra poco? Alla mia mensa, soprattutto la domenica dopo la Messa, vengono invitati i cosiddetti “peccatori”. A tavola mi piace condividere il pasto con i gay, le lesbiche, i transgender, i transessuali, sono loro che hanno bisogno del nostro ascolto e della nostra accoglienza. Confesso, tuttavia, di avere un
debole per le donne. Mi piace parlare con loro, discutere, ascoltare dalla loro voce come descrivono il mondo, che sembra mostrare solo i muscoli del suo lato maschile. La donna oggi è ancora considerata come un oggetto, il suo corpo è desiderato solo come merce da comprare e abusare, la donna è violentata, stuprata. Viviamo ancora in un tempo in cui la sessuofobia la fa da padrone. Sul tema della sessualità le istituzioni, la società, e non solo la Chiesa, dovrebbero fare un bel passo in avanti. Il maschilismo è ancora strisciante nel mondo, lo
vediamo sul lavoro, nella politica, nei rapporti familiari. I maschi sono i padroni del sesso, lo usano, lo calpestano, lo comprano. Proprio il sesso e la sessualità, che sono l’esempio più bello della Creazione di Dio, del suo dono fatto all’umanità. E a causa del sesso sono nati nei secoli razzismo e xenofobia. Xenofobia contro lo straniero, e il razzismo contro i gay o i trans. Il nazismo e il fascismo hanno mostrato cosa può comportare per il mondo un’ideologia sbagliata fondata sulla purezza della razza, ed è stato facile lungo la Storia
arrivare a forgiare epiteti terrificanti come “frocio”, “femminuccia”. Qui la sessualità non è più energia liberatrice, ma una scusa per dichiarare ancora una volta la vittoria di un potere su una fetta di popolazione che non fa male a nessuno e vuole solo vivere in santa pace. A casa mia c’è posto per tutti, compresi i transessuali e le lesbiche. Per me sono loro, oggi, quelli considerati malati e peccatori, che vengono a trovarmi e a portarmi un raggio di luce nel nero della notte che ci circonda. Mi è stato domandato
recentemente per chi voterei alle prossime elezioni. Qualche anno fa, nella notte di Natale, mi sono immaginato come un bambino che legge una letterina davanti ai propri genitori. Ho chiesto così a Gesù Bambino: «Caro Gesù, volgi uno sguardo a questa umanità disarmata e dolente, dai un’occhiata alle leggi». E subito sento come una voce, dentro di me, che dice: «Va’ beh! Ma le leggi si possono cambiare». Oggi in Italia la politica non è più intesa come servizio. Ecco perché ho chiesto a Gesù in quel Natale: come faremo a migliorare la nostra mediocre
classe politica nella sua trasversalità? Non ho ricevuto nessuna risposta. Forse siamo di fronte a un’impresa troppo grande anche per Dio, per questo dobbiamo dargli una mano. L’odio verso il fratello Quello che mi fa paura è constatare ogni giorno che persiste un grave peccato profondamente radicato nel cuore dell’uomo: l’odio verso il fratello. E se pensiamo che ciò accada solo nelle guerre e nei soprusi dell’economia capitalistica
siamo lontani dal vero. L’odio, l’esclusione del fratello, prende forma sotto i nostri occhi nella vita di ogni giorno: dai rapporti familiari alle relazioni amicali, dall’ansia di carrierismo che porta ognuno di noi a prevaricare l’altro ai giudizi lapidari e gratuiti sugli individui e sui diversi. Una volta, ero in Niger con un fotografo, vidi arrivare una ragazza giovane e scalza, con un sacco sulle spalle. Ricordo che il fotografo domandò alla ragazza come mai andasse in giro con un sacco così ingombrante e pesante. La ragazza, con assoluta calma, ci disse che il
sacco non le procurava nessun peso perché era suo fratello, un ragazzino sconosciuto che aveva trovato mezzo morto in mezzo alla strada, dopo uno scontro tribale. Doveva a ogni costo trasportarlo all’ospedale. Sembrava essere questo l’unico scopo della sua vita. Questa è l’umanità che prediligo e di cui parla Gesù nei Vangeli. Quella che spera contro ogni speranza, quella che crede profondamente nella vita e nell’uomo. È una fede che può essere cristiana, ebraica, islamica, induista, buddista, anche senza un Dio. L’etichetta non ha importanza.
È fede e basta. Fede nella gratuità, nell’altruismo, nell’amore più forte della morte. Il mondo trova riscatto in piccoli e grandi gesti di coraggio, di forza, come quello della ragazza nigeriana. Un esempio di amore che mi fa sentire sempre piccolo e sempre peccatore ogni volta che faccio qualcosa per i miei fratelli più poveri, assetati di acqua pura e di nuova speranza. A volte mi chiedo se, insieme a un buon pasto caldo o a un letto dove poter passare la notte, i nostri fratelli più sfortunati non abbiamo bisogno di una parola di speranza e di un esempio che vada oltre le religioni
e le leggi del tempo. Andare oltre. Sì, andare oltre e fare di più. E quel “di più” è l’amore, verso il fratello lontano e verso il vicino di casa. Solo così avremo l’opportunità di conoscere l’abbraccio del Padre dei cieli... abbracciando il fratello quaggiù sulla terra.
A TAVOLA CON GLI ULTIMI «Conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi» (Vangelo di Luca 14, 11-24)
«Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi
e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti». Uno dei commensali, avendo udito questo, gli disse: «Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!». Gli rispose: «Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: “Venite, è pronto”. Ma tutti, uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: “Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego di scusarmi”. Un altro disse:
“Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi”. Un altro disse: “Mi sono appena sposato e perciò non posso venire”. Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: “Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi”. Il servo disse: “Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto”. Il padrone allora disse al servo: “Esci per le strade e lungo le siepi e costringili a entrare, perché la mia casa si riempia. Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la
mia cena”».
Abbasso il tornaconto! Attendere un contraccambio. Questa non è vera solidarietà secondo il Vangelo. Eppure, talvolta, anche le migliori intenzioni umanitarie nascondono desiderio di potere, ambizione di realizzare se stessi, ricerca di gratificazione personale. Colui che svolge un servizio sociale deve costantemente monitorare se stesso e la propria gratuità.
La solidarietà può essere uno slancio momentaneo, per questo va vagliata sui lunghi tempi. La solidarietà va coltivata con pazienza, perché diventi un’attitudine costante e significativa della nostra condotta quotidiana. In Italia, negli ultimi anni, ho constatato una crescente diffusione delle attività di volontariato. L’ho notato in diverse situazioni: c’è la solidarietà nei casi di grave emergenza – terremoti, alluvioni – ma anche il sostegno economico ai paesi del terzo mondo, le adozioni a distanza, fino alle attività assistenziali di tante associazioni e
gruppi di base che cercano di dare un aiuto a chi si trova senza lavoro, emarginato, malato... Anche i mass media descrivono le esperienze di volontariato assai più che in passato, ma ho l’impressione che tutto questo “parlare” venga confinato alle discussioni accademiche e burocratiche sulle leggi e su un welfare che andrebbe modificato radicalmente in Italia. Bisognerebbe piuttosto iniziare a parlare di solidarietà in termini di “etica della condivisione” e di pratica dell’amore vicendevole. La solidarietà dovrebbe mirare
allo sviluppo dell’uomo integrale: corpo, mente e spirito. Un’attività di carità che si limita ai bisogni primari diventa puro assistenzialismo. Se non si definisce la solidarietà come processo di crescita psicologica, culturale e spirituale dell’individuo, si rischia di non essere veramente solidali, infettando il proprio stesso sangue, perché ci si rifiuta di riconoscere nell’altro – della mia stessa stirpe umana – tutti i suoi bisogni, non solo materiali, ma anche immateriali, spirituali, che sono altrettanto essenziali: affetto,
istruzione, cultura, libertà di espressione. Siamo ancora lontani da un concetto di solidarietà profonda, dove l’uomo dona se stesso al fratello – il suo tempo, le sue risorse, ma anche la compagnia e il sostegno affettivo – senza chiedere nulla in cambio. Superare assistenziale
la
solidarietà
Dal mio piccolo osservatorio di sacerdote impegnato nel sociale, noto un’attenzione crescente e un
impegno in costante ascesa nell’universo della solidarietà. Tuttavia, non posso fare a meno di denunciare un fenomeno che a mio parere deve essere superato: quello dell’assistenzialismo. Il volontariato è ancora considerato come un atto equilibratore e di supplenza nei confronti di uno Stato lacunoso, che fa fatica ad assicurare le stesse opportunità a tutti i cittadini: lavoro, scuola, sanità, servizi, accoglienza. La prima solidarietà che conosciamo è quella assistenziale, che ha certamente i suoi aspetti positivi. Arriva alle prime
necessità: se uno è assetato, gli dai da bere; se un altro è affamato, gli dai da mangiare. Tuttavia, c’è un’altra solidarietà necessaria, a cui dovremo pervenire, e la definirei una solidarietà liberatrice. La differenza è netta: mentre la solidarietà assistenziale, la cosiddetta carità, che in gran parte dei casi si avvicina molto di più all’elemosina, finisce per mantenere lo status quo e, di fatto, non elimina le distanze tra cittadini di serie A e di serie B, al contrario l a solidarietà liberatrice produce diritti, allarga le opportunità di partecipazione alla vita
democratica, permette il passaggio da un livello sociale miserrimo a uno più dignitoso. È una solidarietà profetica, che guarda avanti, che fa proposte e che cerca in qualche maniera di inficiare i poteri repressivi, i poteri che sono causa di ingiustizia. Penso che il brano evangelico di Luca ci insegni che, più che la carità e l’elemosina, dovremmo distinguerci in una vera solidarietà che intreccia legami di amicizia e di amore. L’amore riduce le distanze tra uomo e donna, abitua al rispetto delle differenze, modifica l’etica individualista in un’etica del
dono. Non è una prerogativa solo cristiana, sia chiaro. Quante persone ho conosciuto capaci di donare amore vero! E gratis. Persone che credono in altre religioni, ma anche atei e anarchici. La carità è importante ma, per usare un’immagine un po’ ardita, è come una spruzzata di Parmigiano su un piatto senza pasta. La carità dà sapore, ma se non c’è la pasta manca la sostanza, e il buon sapore del Parmigiano dura poco. Occorre dunque qualcosa in più, e questo qualcosa in più non può che darlo l’amore vero, quello che non richiede calcoli, che spinge oltre,
che ci fa fare qualche generoso sacrificio personale. L’obiettivo dell’amore, dell’amore evangelico, è la liberazione dei poveri. Ecco perché Gesù va a cena con i poveri. E ci va non per dare la benedizione, e neppure per portare l’antipastino o un dolce. Ci va per portare un messaggio dirompente ai commensali: tirate su la testa, organizzatevi, fate in modo che il potere non vi schiacci. Rialzatevi e lottate per i vostri diritti, insieme. Questa straordinaria pagina di Vangelo, oltre a essere una delle mie preferite, è anche un
contenitore socio-politico, nel senso più alto, con indicazioni chiare su quello che l’uomo dovrebbe fare per migliorare il mondo. I politici e i professori parlano e discutono, ma è inutile. Certo, è evidente che bisognerà ripensare lo stato sociale, ma io per il futuro non vedo altra via che l’incontro tra un marxismo umanista e un cristianesimo liberatore. Il marxismo umanista fu una forma di umanesimo filosofico. Si sviluppò in modo particolare negli anni seguenti la seconda guerra mondiale grazie a un gruppo di valenti filosofi. Gli esponenti più
rappresentativi furono Ernst Bloch in Germania, Roger Garaudy in Francia, Rodolfo Mondolfo in Italia, Erich Fromm e Herbert Marcuse negli Stati Uniti. Questi autori tentarono di recuperare l’aspetto umanista degli scritti giovanili di Marx che, secondo la loro interpretazione, costituiva l’essenza stessa del marxismo che poteva essere inquadrato in un sistema democratico.
Dobbiamo rilanciare l’etica della condivisione. E per etica della condivisione non intendo la condivisione del superfluo, ma una vera equità che parta dalla ridistribuzione di beni e risorse che non dovranno più essere nelle mani di pochi. Solo ad armi pari si potrà avere anche un’autentica meritocrazia. La redistribuzione dei dividendi non può che avvenire sull’esempio di Gesù che accoglie i poveri a tavola, con la loro dignità umana riconosciuta e valorizzata. Per me non c’è altra via. Chi possiede molto deve dare a chi non possiede
nulla. Gesù ci sprona a una solidarietà rivoluzionaria e a costruire un modello di società in cui la persona è al centro: l’uomo, la donna, il cittadino sono i sovrani, e non il mercato. Oggi pare siamo diventati tutti sudditi del mercato. Dov’è finita la libertà? E anche la mobilità sociale, la possibilità di riscattarsi da una condizione di povertà, dov’è andata a finire? L’incontro tra marxismo umanista e cristianesimo va riscoperto. Constato con rammarico che più passano gli anni più siamo governati da economisti liberisti,
tutti cresciuti alla Bocconi, innamorati perdutamente del business, del gioco in borsa e di un mercato che difende solo gli interessi di chi vuol detenere il potere. Mi chiedo: possibile che nessuno si accorga dei danni che il capitalismo senza regole ha provocato negli ultimi anni al nostro pianeta? La Chiesa e il grido dei poveri Questa parabola di GesÚ mi pare ci assesti un bel ceffone in faccia e ci spinga a porci un’ulteriore
domanda scomoda: la Chiesa fa posto ai poveri? Gli uomini di oggi, storditi dal rumore della loro vita, afferrati dall’ingranaggio dei propri affari, non sentono più il grido dei poveri. Passano accanto alla miseria senza vederla. Stanno troppo bene per capirla. Hanno troppo da fare per fermarsi. Eppure sono convinto che Dio presta più attenzione al grido del povero che al lamento del “pio”. O, meglio: i gemiti di chi subisce ingiustizia costituiscono una specie di fastidiosa “interferenza”, e impediscono a certe devozioni di giungere
all’orecchio del Signore. Mi preme sottolineare una questione apparentemente lessicale, ma invece di grande importanza: quando parlo di Chiesa intendo tutti i battezzati, la gerarchia ma anche e soprattutto coloro che aderiscono alla fede cristiana, i credenti, e cioè le pietre vive della comunità ecclesiale. Il Concilio Vaticano II – con la Gaudium et Spes e la Lumen gentium – ci ha fatto riscoprire, dopo i secoli bui del nepotismo e dell’Inquisizione, che la Chiesa è popolo di Dio in cammino. I semplici fedeli, i laici, sono importanti tanto quanto i fratelli
vescovi. Quando parliamo di Chiesa dovremmo imparare tutti a fare uno sforzo mentale: la Chiesa non è la gerarchia e non appartiene alla gerarchia. È compito dei cristiani laici far capire alla gerarchia che il popolo di Dio viaggia tutto insieme e che anche i laici hanno diritto di parola e di azione. Siamo tutti in cammino, con pari dignità, sui passi di redenzione che ci ha suggerito Gesù. Una volta superata questa distinzione fra consacrati e secolari, l’altro problema che mi pongo è questo: come mai, ancora oggi, la Chiesa è organizzata in una struttura
piramidale a uso e consumo di un potere temporale che non disdegna di fare i suoi interessi temporali e non certo escatologici? La Chiesa è una delle ultime monarchie assolute oggi esistenti. Ma quel che piÚ mi preoccupa è che esercita, ancora oggi, un gravissimo potere moralistico sulle anime. Abbiamo i poteri economici, i poteri mafiosi, e anche il potere eticamente intransigente della Chiesa, che continua ad assumere l’atteggiamento di giudice supremo addirittura in rappresentanza di Dio. Il potere temporale della Chiesa
rischia di allontanare sempre più gente dal Vangelo. La Chiesa ha fatto di se stessa un dogma, dimenticando di predicare gli insegnamenti di Gesù. I fasti e le ricchezze del Vaticano, le lotte intestine fra gli uffici di curia e le Conferenze Episcopali, l’abuso di intrusione nelle anime, gli scandali della pedofilia hanno fatto crescere il disgusto nei confronti della Chiesa istituzionale. Un disgusto che ci fa pensare che è meglio cambiare aria. E fede. Eppure, sono convinto che non ci sarebbe peccato più grave di questo. La Santa Madre Chiesa è la
nostra casa, non possiamo allontanarci da essa, né sbattere la porta e lasciare che tutto rimanga così com’è. Bensì è richiesto al credente di lottare per essa, di lottare per la riforma della Chiesa. Ai miei fedeli dico spesso: andate dal parroco, dal vescovo, dite naturalmente che siete impegnati a verificare davanti alla Croce la vostra coerenza, la vostra testimonianza. Fatevi sentire. E pensate che anche nella gerarchia ci sono state testimonianze di grande coraggio e profezia evangelica. Io ad esempio ho avuto il privilegio di conoscere il cardinale Giacomo
Lercaro; fu l’arcivescovo di Bologna negli anni Sessanta del secolo scorso, partecipò al Concilio, fu una figura eccezionale di pastore e di uomo di pace che predicò la necessità di una profonda conversione della Chiesa alla povertà e alla non-violenza, senza “se” e senza “ma”. In una sua omelia, che rimase memorabile, l’11 gennaio 1968, scongiurò in nome del Vangelo che cessassero i bombardamenti americani sul Vietnam. Sapeva a cosa andava incontro, critiche e reprimende, e infatti, un mese dopo, venne destituito da vescovo, in pratica fu
costretto a lasciare. Fu davvero l’icona di un vescovo povero che sognava una Chiesa povera, una Chiesa che abbandona ogni sostegno umano, che evita ambigui concordati con il potere e si pone a servizio dell’evangelo della pace. Viveva da povero, riempì l’arcivescovado di ragazzi universitari, che originari di altre città non potevano pagarsi una stanza in affitto a Bologna. Quanti vescovi eccezionali hanno scritto pagine belle nella storia della Chiesa! E vogliamo parlare di quel santo vescovo che fu don Tonino Bello? Potrei continuare a citare
altre figure meravigliose di uomini di Chiesa, ma mi fermo qui. L’opzione preferenziale dei poveri fu anche uno dei leitmotiv della Conferenza episcopale panamericana di Medellin nel ’68, quando la Chiesa, con la sua gerarchia, decise di mettersi strenuamente a fianco dei poveri nel Sud del mondo. Comunione e lottizzazione Ci sono stati, e ci sono ancora, uomini profetici e di speranza nella Chiesa che si sono battuti, e che si
battono, per una Chiesa povera a fianco dei poveri. Dobbiamo tuttavia stare molto attenti – anche nella Chiesa – a non realizzare iniziative di servizio, azioni e opere, che con la scusa del volontariato si trasformino in un esercizio di potere, dove non si agisce per fare “comunione e liberazione”, ma piuttosto per fare “comunione e lottizzazione”. Un conto è aiutare i poveri, e aiutarli nella trasparenza, un conto è aiutare i poveri con le briciole e trattenere risorse per far funzionare macchine istituzionali, organizzazioni, associazioni che ingrassano pochi
faccendieri. Se la Chiesa non si toglie di dosso il mantello della ricchezza e del potere, i poveri del mondo non avranno mai di che coprirsi. La collusione con i grandi potentati economici e politici non è mai benefica nÊ per la Chiesa nÊ per chi fa volontariato spacciandolo per carità cristiana. Se penso al ruolo rivoluzionario che la Chiesa ha avuto nel mondo, mi interrogo pensoso: come mai sono stati sostituiti tanti teologi controcorrente e tanti vescovi aperti, in modo particolare in America Latina e in Africa? Forse
perché avevano capito che la Chiesa doveva essere povera se voleva annunciare la Buona Notizia con autenticità? Essere poveri non vuol dire mancare del necessario, non vuol dire essere miserabili, ma piuttosto avere ciò che serve per vivere dignitosamente avendo garantiti i diritti essenziali. Essere poveri significa vivere secondo le proprie possibilità, non al di sopra, significa fare amicizia con la sobrietà. È solo grazie alla sobrietà che sboccia il rispetto per la natura e l’ambiente; e qui bisognerebbe richiamare san Francesco: «Laudato sii, mi’ Signore, per sora
nostra madre terra». Mi chiedo: il papa, che sta in uno dei palazzi più sfarzosi del mondo, che ha i giardini vaticani, che ha Castel Gandolfo, ma come fa ad annunciare Gesù povero? Se il cristianesimo diventa una religione civile dove sta l’istanza etica e profetica? Fino a quando la Chiesa non sarà povera e dalla parte dei poveri, la strada del Vangelo sarà sempre lontana. I rottami del berlusconismo
Grazie al cielo, la gente normale e il popolo dei credenti hanno sacche di resistenza inesauribili e ben salde. Anche quando va tutto male, anche quando siamo disgustati dalla corruzione e dagli scandali dentro e fuori la Chiesa, mi stupisco sempre dei tantissimi cittadini e cristiani, per lo più anonimi e nascosti, che incarnano la “buona speranza”: il lavoro onesto, la fatica vissuta con il sorriso, il senso civico dimostrato in tante iniziative di partecipazione popolare. Anche in Italia. Subito dopo la seconda guerra mondiale, l’operosità italiana e il
boom economico ci regalarono benessere e gratificazioni. Le famiglie crebbero insieme al paese. Si diffusero l’alfabetizzazione e la cultura, il senso della democrazia. Poi arrivò il berlusconismo, una malattia che ha contaminato le nostre anime e i nostri corpi. Siamo diventati una “società delle spettanze”. Uno si sveglia la mattina e dice: questo mi piace, perciò lo voglio, mi è dovuto. Un atteggiamento prepotente, che si è sedimentato anche nelle relazioni familiari fra moglie e marito, fra genitori e figli, fra giovani e anziani. La propaganda delle
televisioni commerciali ha annichilito lo spirito critico e instillato nelle nostre menti, subdolamente, i valori del berlusconismo, una religione che ha idolatrato i miti del denaro, del potere, del prestigio sociale, del narcisismo, del consumismo, dell’eterna giovinezza. Abbiamo berlusconizzato l’amore, i gesti, la carezza alla donna amata, il dialogo con i figli, il rispetto che si deve agli anziani. Se in una famiglia non ci sono piÚ i nonni, perchÊ anziani e segregati in un istituto, mi chiedo: come fa questa famiglia a
mantenersi salda, a trasmettere i valori ai figli, ai nipoti? Quante volte mi hanno chiamato a dare la benedizione a persone che erano morte da due-tre mesi, senza che nessuno se ne fosse accorto! Abbiamo berlusconizzato tutto. I nostri rapporti civili e amicali. E, anche se Berlusconi non c’è più, sarà dura disintossicarci dalle tossine che ci ha lasciato la sua deleteria cultura. Anche la politica sta facendo fatica a disintossicarsi: è ostaggio di poche lobby al servizio dei potenti di turno. Siamo all’eutanasia della democrazia, e ciò può portare a un nuovo conflitto
sociale, dove a rimetterci saranno i deboli e, presto, anche le classi medie. La “società delle spettanze” crea conflitti e divisioni fra le parti sociali. La “società delle spettanze” sta distruggendo l’idea stessa di democrazia, nata in Italia con la Costituzione repubblicana e con le vittime partigiane che si sono immolate per la libertà. La Costituzione germinò dalla coscienza degli italiani e dalla Resistenza di persone che si giocarono la vita. La Costituzione è la nostra Bibbia laica della democrazia. La democrazia, come
diceva Giorgio Gaber, è partecipazione. Torniamo allora a GesÚ, che pranza con i poveri e dice: guardate che voi avete diritti, guardate che siete figli dello stesso Padre, guardate che il potere opera soprusi; io non vi do ricette, siete voi che avete il dovere di emanciparvi e liberarvi dal cappio dell’oppressione. Cosa aspettate a farlo?
UOMINI CHE ODIANO LE DONNE «Chi di voi è senza peccato...» (Vangelo di Giovanni 8, 1-11)
Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al matino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la spinsero nel mezzo, e gli chiesero:
«Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le
disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
L’adultera “pescata” sul fatto L’incontro di Gesù con la donna “adultera” è uno dei più grandi affreschi del Vangelo, e mi affascina da sempre. Immagino una bella giornata di sole e, davanti a me, un tribunale sgangherato di uomini avidi di sangue e una donna che scappa
impaurita. Immagino l’arrivo di questo giovanotto, GesÚ, calmo, fiero, attento. Immagino il suo sguardo vigile, curioso, ma anche dolce e intrigante, che incute rispetto e incrocia quello degli anziani e dei notabili della legge, pronti a scagliare pietre per condannare la donna. Immagino i volti di quegli uomini, alcuni anziani, pronti a infliggere alla malcapitata una pena cruenta, forse anche per disprezzo delle donne e per incutere sottomissione a tutto il genere femminile. Sono uomini che odiano le donne, che le considerano meno di niente.
Mentre i notabili alzano la mano per dare esecuzione immediata alla sentenza di lapidazione arriva Gesù, che rovescia le posizioni in campo. La sua voce fende l’aria e un silenzio potente scende ad ammutolire grida e bisbigli. Chi è senza peccato? Chi di voi osa esprimere un giudizio di condanna a morte su questa donna in piena libertà d’animo? In un attimo i giudici diventano i giudicati e il condannato è salvo. Il corpus di leggi e prescrizioni giudaiche prevedeva la condanna a morte per la donna colta in flagrante adulterio. Chissà perché
per l’uomo no? Lo sanciva il libro d e l Levitico (20, 10) e il Deuteronomio (22, 13-21). I notabili avevano “pescato” sul fatto la donna, che perciò andava punita subito, senza alcun processo. Ribadisco: perché in flagranza di adulterio doveva essere la donna a venire uccisa, mentre l’uomo non doveva temere nulla? Qualcuno me lo sa spiegare? Diciamo le cose come stanno: dalle origini del mondo, anche nelle Scritture sacre, il maschio è stato sempre un privilegiato. All’uomo è consentito tradire, da sempre, e i suoi frequenti sconfinamenti libertini
sono guardati con occhio benevolo. La prima obiezione che mi assale sempre, leggendo questo episodio, è come mai i maschi non peccano di adulterio, mentre le donne sì. Gesù comincia a scrivere per terra. Allora c’era solo la terra... niente asfalto, piastrelle o sampietrini. Il Vangelo non spiega molto di più, ma diversi biblisti, e io con loro, ritengono che Gesù iniziò a scrivere i peccati dei notabili presenti. Tant’è vero che quando il Signore dice: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra», le pietre cadono a una a una dalle mani dei carnefici, a
cominciare dai più anziani, perché avevano peccato di più. Non uccidere Quel tribunale maschile, inoltre, commette un grave errore. Invoca Mosè e la sua Legge, ma dimentica che il patriarca aveva ricevuto da Dio stesso, nelle Tavole della Legge, quel quinto comandamento che ordina: «Non uccidere». Che strano. La pena per una donna adultera può essere la lapidazione, mentre il comandamento, l’anello d’acciaio che lega l’uomo a Dio,
esalta la non-violenza come via di accesso a un livello più alto di umanità e dignità. In quel gruppo di uomini con le pietre in mano pare che nessuno ricordi o rispetti quel «Non uccidere». Il comandamento sembra svanito dalla Legge, come se i notabili, quelli che si proclamavano i “veri” interpreti della norma, volessero trovare un capro espiatorio, in questo caso una donna, per poter rivendicare il loro potere sulle anime e sul popolo. Per proclamare un potere ci vuole sempre un colpevole contro cui scagliarsi. Gesù – con il suo atteggiamento
– sembra voler ricordare che nessuno può togliere la vita a nessuno. Non c’è legge, non c’è pena di morte, non c’è “guerra giusta” che possa arrogarsi il diritto di ammazzare un essere umano, anche se si è reso responsabile del più efferato dei delitti. Il quinto comandamento del Decalogo di Mosè ci dice anche, venendo all’oggi, che la battaglia contro la pena di morte nel mondo non solo è sacrosanta, ma ha sapore biblico, s’impasta a perfezione con l’alito del Padre dei cieli. Cosa sono i nostri peccati di fronte all’unico grande peccato che la
mano di un uomo può commettere uccidendo un suo simile? Per prima cosa, dunque, non uccidere! Donne, sessualità e Chiesa Se andiamo a scandagliare più in profondità questo passo evangelico, entriamo nel territorio misterioso e affascinante della sessualità. Oggi tutti pontificano, ognuno vuol dire la sua sulla sessualità, soprattutto femminile, che per fortuna si è liberata di tanti tabù, ma che purtroppo continua a essere
mercificata nello sfruttamento dell’immagine del corpo e nel racket della prostituzione. La comunicazione dei mass media ci presenta prevalentemente una donna-corpo, una donna-oggetto sulle copertine dei rotocalchi, negli spettacoli televisivi e sui cartelloni pubblicitari. La modernità ha accettato la sessualità femminile, ma solo per obiettivi di guadagno economico. Un atto di superbia che andrebbe, questo sì, stigmatizzato, soprattutto dai sacri pulpiti. Dall’altro lato c’è la Chiesa che, appellandosi a princìpi anacronistici, mantiene reticolati e
proibizioni nei confronti delle donne, cristallizzando un’idea di sessualità datata nel tempo. Sembra che la Chiesa abbia paura della parola “sesso”. Il sesto comandamento del Decalogo di Mosè – «Non commettere atti impuri» – è ancora oggi pietra di paragone e di scandalo nei catechismi, nelle confessioni e nelle omelie di qualche prete, preda dei retaggi del passato, ma gli “atti impuri” sembrano essere solo quelli sessuali. Mentre, a mio parere, gli atti torbidi sono ben altri: la corruzione, il raggiro, la speculazione, l’usura, l’abuso di
potere, la menzogna... e potrei continuare. La donna è il demonio, diceva la Chiesa ai tempi dell’Inquisizione. Qui c’è il rischio che qualche prete sprovveduto o qualche comunità cristiana “pura di cuore”, ma indifesa e impreparata a riconoscere le mistificazioni teologiche, ci creda. È sempre la donna a rimetterci. Non può dire messa, non può diventare presbitero, non può amministrare sacramenti, e l’unico permesso che le è concesso è quello di distribuire l’eucaristia, meglio se a farlo sono però le suore. Evidentemente le
suore sono considerate più “pure” in quanto non praticano, per scelta, atti sessuali considerati, ahimè, ancora oggi “impuri”. Al mio cardinale, al quale voglio un gran bene, ogni volta che ci siamo ritrovati a parlare di questi argomenti, rivolgo spesso una domanda provocatoria: «Ma eminenza, la sessualità è un dono di Dio o del demonio?». Mi domando: vogliamo davvero denigrare, come Chiesa, quella meraviglia donata all’uomo che è la sessualità? Gli atti impuri sono, in realtà, atti purissimi di amore gioioso, di donazione senza riserve, di
godimento dell’incontro con l’altro. Certo, bisogna fare della buona educazione sessuale e insegnare che il corpo va rispettato e che ha bisogno di cure spirituali tanto quanto l’anima, ma le nostre comunità cristiane devono cominciare a far riscoprire la gioia dell’incontro sessuale come atto che piace a Dio. Un giorno, e prima o poi succederà, anche la Chiesa dovrà rivedere tutte le sue assurde posizioni in materia di sessualità e di donne.
Non giudicare I peccati della carne sono sicuramente meno gravi di quelli dello spirito. Secondo me, ad esempio, i peccati di omissione possono essere molto più dannosi delle infrazioni commesse con il proprio corpo, ma il peccato veramente imperdonabile in cui tutti incorrono, i notabili del testo evangelico e tutti noi, è il peccato contro la luce. E qual è questa luce? Il perdono. Chi giudica l’altro commette il più grave dei peccati. Dice Gesù: «Non giudicate e non sarete
giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato» (Vangelo di Luca 6, 37). Chi non sa accogliere e ascoltare le ragioni dell’altro si chiude alla misericordia, alla luce. Chiudere per sempre la porta all’individuo che ha sbagliato e non dargli una possibilità di riscatto è un atto che cancella la speranza. È evidente che non sto parlando della giustizia legale che deve fare il suo corso, pretendendo il giusto pagamento del debito alla società, ma anche la giustizia legale deve preoccuparsi di recuperare la persona che ha sbagliato.
Il giudizio sugli altri, a volte addirittura il pregiudizio, striscia beffardo in tutti gli ambienti di vita: in famiglia, tra gli amici e in questa nostra Italia di oggi, che vive una stagione di profonda crisi di pathos etico e di rapporti umani. Tutti hanno sempre ragione, tutti litigano, tutti giudicano gli altri, anche nella Chiesa. Non si perdona pi첫 niente e la ricerca del colpevole, del capro espiatorio, va per la maggiore. Sembra essere la moda del momento: anche quelle strane lettere al veleno, protocollate, fra uffici vaticani e vescovi di santa romana Chiesa, date in pasto alla
stampa, in cui si dice male di tutto e di chiunque... Quanta supponenza e orgoglio nel giudizio! L’episodio evangelico della donna adultera sprona dunque i cristiani e la Chiesa a fare un passo ulteriore. Non sappiamo nulla di questa donna, della sua vita, perché ha commesso adulterio, se abbia desiderio di parlarci o chiederci aiuto. È come se Gesù ci avvertisse: sappiamo ascoltarla? Questo è il punto. Accogliere l’altro può non essere esercizio di virtù civica della nostra politica o della nostra giustizia, ma deve
essere, e sottolineo la parola deve, un esercizio di verità della nostra amata Chiesa. Mi arrabbio se il mio sindaco o il mio capo del governo non approfondisce le ragioni delle proteste sociali e delle ingiustizie, ma capisco che forse non è la sua sensibilità, la sua missione. Mi arrabbio assai di più se scopro che a essere carente di ascolto è un presbitero, un vescovo o un cristiano che si batte il petto la domenica a Messa per far bella figura di fronte al suo parroco ma poi condanna senza appello chi sbaglia. Perdonare è aiutare l’altro a far
emergere la parte luminosa di sé. È l’atto più alto di tutta la Creazione. Significa rifare una novità di vita a partire dalle esperienze sbagliate, far rifiorire una creatura spenta, aprire il cuore più serrato dalla disperazione e dal rimorso. Perdonare non significa cancellare la colpa, il cui segno e ricordo rimane, significa chiedere una riparazione e da questa riparazione sboccia sempre una fioritura di bellezza. Scompare il senso morboso della colpa, non si percepisce più un peso terribile sul cuore e ci si può finalmente riconciliare con il fratello e con se
stessi. Correzione fraterna C’è poi da interpretare quel gesto straordinario di Gesù che scarabocchia per terra. Il Vangelo non ci dice cosa abbia scritto Gesù, ma io sono sicuro che il figlio di Dio – dopo aver redarguito i presenti, invitando i “senzapeccato” a scagliare la prima pietra – con quei segni misteriosi per terra abbia voluto insinuare nei presenti un dubbio di questo genere: «Siate onesti, siate sinceri, siete davvero
sicuri che nessuno di voi abbia peccato?». Nel linguaggio cristiano questo si chiama “correzione fraterna”. Ecco il valore della comunità dei credenti, dell’assemblea che discute insieme e prende provvedimenti insieme. Sì, secondo me Gesù scrisse, altro che! Scrisse e lesse nei pensieri: «Io lo so... tu hai stuprato, tu hai violentato, tu hai molte amanti, tu picchi tua moglie». Perché altrimenti non si spiega come i notabili, udito ciò, presero a ritirarsi uno dopo l’altro. Il Vangelo, ancora una volta, ci sorprende con la sua carica di
slancio profetico: grandi maestri, pontefici, vescovi, attenti quando giudicate duramente e pronunciate anatemi. Ricordatevi di questo passo evangelico! Nessuno di noi è invulnerabile al peccato. Perdono “a oltranza” Nella frase che chiude l’episodio c’è tutta l’umanità di Gesù che esce allo scoperto e che mi fa capire, ogni volta che leggo questo passo anche a distanza di anni, quanto la scelta di farmi prete sia stata giusta. I giudici anziani della povera
ragazza sono spariti, hanno avuto vergogna dei loro peccati. Rimane Gesù, segno d’amore e d’accoglienza, che guarda la donna e le dice: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». L’esortazione a non peccare più pone alla mia coscienza alcune domande. Sovente Dio, soprattutto nell’Antico Testamento, alza la voce e sembra essere assai più severo che misericordioso, ma anche Gesù talvolta è molto rigido: pensate alla severità nei confronti dei ricchi. Tuttavia, ho la mia coscienza libera di cristiano e di prete, una
coscienza che mi fa riflettere, scegliere e qualche volta anche litigare con Dio. Molti amici biblisti mi hanno fatto notare che in quel «va’ e non peccare più» c’è più di un’esortazione, c’è un ordine preciso, quasi un patto inviolabile che la donna deve onorare nei confronti di Dio. Mi permetto di dissentire, e mi domando: se dopo un mese si fosse ripetuta la stessa situazione, con gli stessi attori, gli stessi personaggi e la stessa donna, Gesù l’avrebbe perdonata di nuovo, sì o no? L’amore è , non ha condizioni, l’amore è sempre . Non ho dubbi in
proposito: Gesù l’avrebbe perdonata ancora. Il suo è un perdono “a oltranza”. E aggiungo che l’avrebbe perdonata subito anche perché era una donna, e dunque terribilmente bistrattata in quei tempi. Gesù ebbe un rapporto speciale con l’universo femminile, aiutò le donne a diventare consapevoli di essere “cosa bella” agli occhi di Dio e al centro della Creazione. Gesù, alla fine dell’episodio, sembra voler consegnare un compito a tutte le donne di qualsiasi condizione, siano esse sorelle, spose o madri: il loro ruolo è
quello di approfondire il mistero del corpo e dell’amore. L’amore è uno scambio con l’altro, è un compenetrarsi, e le donne non devono aver paura di raggiungere quella peculiare dignità a cui l’universo le ha destinate. Il sasso che si prepara a essere lanciato dai colpevolisti di allora è il grande peccato delle nostre comunità cristiane, il grande peccato di oggi. Da questo testo viene fuori che Gesù non è un giudice, ma il Pastore che lascia le novantanove pecore e va a cercare la pecora smarrita. Gesù non giudica e non condanna mai, ma
aiuta il popolo – la gente di Israele e tutti noi – a prendere coscienza. Non giudicate, se non volete essere giudicati, ma predicate l’amore, che è un cammino di progressivo riconoscimento dell’immagine alta e divina del volto dell’uomo, così come lo ha sognato il cuore di Dio nell’atto di crearlo. Non consideriamo la parola “perdono” in senso riduttivo o buonista, il termine vuol dire “riscopri”, riscopri la tua umanità, riscopri la tua dignità. Ricordo che nel giubileo del 2000 Giovanni Paolo II fece fare alla Chiesa un bel passo in avanti sul tema del
perdono, costringendola a recitare u n mea culpa per tutti gli errori commessi nel corso della storia. È stato un bel gesto: spero solo non sia rimasto nel limbo dei bei sogni mai realizzati. La parola che usavano i primi cristiani per esprimere il perdono e r a metanoia, che vuol dire letteralmente “tagliar la testa e metterne una nuova”, cioè cambiare idea, cambiar pensiero: questa è la vera penitenza, la vera conversione, la vera riconciliazione. Cambiare la testa e metterne una nuova: la dignità umana, la dignità dei figli e delle figlie di Dio, è a portata di
mano. Cosa prendercela?
aspettiamo
a
GLI ALTRI SIAMO NOI «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Vangelo di Matteo 22, 34-40)
Allora i farisei, avendo udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il più grande comandamento?». Gli rispose:
«Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
Ama il prossimo, è te stesso! Quando mi appresto a celebrare la Messa inizio sempre con la preghiera quotidiana degli ebrei a gloria del Signore: «Shema Yisrael Adonai Eloheinu Adonai Echad»
(«Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno»). Ricordo con questa preghiera che il Signore mi ama, mi vuole bene, mi è vicino, ma anche che ho stipulato un’Antica promessa di Alleanza con Lui. La lingua italiana non rende ragione delle varie sfumature che racchiude la parola amore in ebraico, ma se leggiamo bene i testi orientali notiamo quanto questo amore divino sia al tempo stesso incommensurabile, esigente ed esclusivo. Nel nostro rapporto di amore con il Padre dei cieli non ci è consentito “trattare” con Lui, e chi a
volte sostiene la natura vendicativa o punitiva di Dio ha sbagliato indirizzo. La preghiera del popolo ebraico è di una bellezza unica: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio fra gli occhi e li scriverai sugli
stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Deuteronomio 6, 4-9). L’atto di fede degli ebrei è grandissimo. Dio è riconosciuto come amore immenso che tutto copre, tutto pervade e tutto redime. Tuttavia, Matteo – ebreo come Marco e Luca, gli altri due evangelisti – aggiunge una piccola postilla che diventerà nei secoli una sorta di architrave di tutta la fede cristiana: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Non ci riscalda il cuore un’esortazione del genere? Non ci fa dubitare che forse la nostra vita non abbia avuto fino a oggi il senso altissimo che invece
le andava attribuito? Quell’invito che dice «Amerai il prossimo tuo come te stesso» è un macigno. La vera rivoluzione cristiana parte da qui. C’è un lascito testamentario che Dio affida a ciascuno di noi, nessuno escluso. Un patto di alleanza che non ammette scorciatoie o vie di fuga. Devo confessare che a me piace pensare che ci sia una traduzione migliore: «Ama il prossimo tuo, è te stesso!». Mi sembra più incisiva, più convincente. Noi siamo gli altri, e gli altri sono noi. Non c’è differenza alcuna tra individui, facciamo tutti parte della stessa
famiglia umana. Ama il Signore dei cieli, ma ama anche il tuo fratello che vive sulla terra, che soffre come te, che ama come te. Perché solo attraverso il fratello che vedi potrai amare il Dio che non vedi. Mi preme far notare che Gesù non ha detto «amatemi», ma «amatevi». Quella “v” al posto della “m” cambia il senso della Storia universale e della vita di ciascuno di noi. Una piccola differenza letterale che diventa gigantesca sul piano del significato. Lo abbiamo già visto nel capitolo venticinquesimo di Matteo, quello
in cui Gesù parla del Giudizio Universale e dà una bella sferzata a tutti noi con quelle parole così esigenti: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete ospitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». E poi aggiunge: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Certo, in quell’annuncio poteva dire: benedetti voi che tutte le settimane andate al tempio, voi che pagate il tributo, voi che fate il
digiuno, voi che portate cilici di penitenza. E invece non lo dice. Intendiamoci. Io rispetto tutte le devozioni popolari, i pellegrinaggi, i digiuni, i rosari e le preghiere, ma il cuore del Vangelo è un altro: il cuore del Vangelo è l’amore al prossimo. Il senso della mia vita è amare l’altro: il vicino e il lontano; l’amico e il nemico; il battezzato e il senza-Dio; il rifugiato e il ladro; lo straniero e il clandestino. La realizzazione piena di una persona passa attraverso l’amare e l’essere amati. Lo affermava anche il filosofo francese di origini
lituane Emmanuel Lévinas: il viaggio dell’esistenza e della costruzione di sé avviene nell’incontro con l’altro. Credere nell’uomo: De André e Gramsci Sono convinto che ci siano due tipi di fede: la fede nell’uomo e la fede nell’Amore. Credere nell’uomo. Credere nell’Amore. Mi sembrano due facce della stessa medaglia. Solo dopo aver accolto e amato l’altro, soprattutto il fratello che
soffre, posso parlare di Gesù e magari persino giungere a fare disquisizioni teologiche sull’Amore trinitario; ma ciò che mi autorizza a proclamare che siamo figli di Dio è, anzitutto, restituire e proclamare l’orgoglio di essere figli dell’uomo. Il poeta e mio grande amico Fabrizio De André, nella canzone Laudate Hominem, ispirata agli ultimi della terra, preferisce al s a l mo Laudate Dominum omnes gentes la litania laica Laudate hominem omnes gentes. Rileggiamo questi splendidi versi che invitano a mettere l’uomo al
centro: «Laudate hominem. No, non voglio pensarti figlio di Dio ma figlio dell’uomo, fratello anche mio. Ma figlio dell’uomo, fratello anche mio. Laudate hominem». È una piccola-grande differenza: hominem al posto di dominum. Il risultato non cambia. Ho parecchi amici che sono stati internati dai nazisti nei campi di concentramento. Qualcuno di loro, per fortuna, è tornato vivo. Penso che in quei terribili momenti, nei lager nazisti, si sia sperimentata l’impotenza dell’uomo e il silenzio di Dio: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
È nel dolore dell’umanità e nelle pieghe della Storia del mondo che l’amore viene a farci visita, forse improvvisamente, forse per scuoterci da una vita che non sa cosa sia il bene. E, forse, in quei momenti, smarriti nella solitudine della Storia, sperimentiamo la tenerezza e la misericordia del Padre nostro che è nei cieli. Il secolarismo ecclesiastico e il Concilio di Trento ci hanno dato un’idea della fede sottomessa alla Legge. La Legge ebraica, i Dieci Comandamenti e tutta la teologia del peccato originale hanno rafforzato nella storia della Chiesa
la gestione del potere dall’alto in modo subdolo e raffinato. Ci hanno costretto a credere in Dio non perché la fede è un atto di libero abbandono al Divino, ma perché così ci è stato tramandato e imposto. Nulla di più sbagliato! Continuo a pensare che l’etica viene prima della fede: la fede non è una virtù secolare! Prima c’è l’uomo che sceglie il bene, perché il bene è un valore in sé e dopo c’è la fede in Dio. La fede in Dio va certamente nutrita, si pianta nel terreno, anzi, è dono stesso del terreno. Dio lancia il seme e se cade sul terreno buono porta frutto.
Noi cristiani dobbiamo sforzarci affinché ci siano sempre spazi dove la fede possa nascere e crescere, anche convivendo con i dubbi. Se penso ad Antonio Gramsci, che morì per le sue idee dopo anni di carcere, lui, non credente dichiarato, mi chiedo: aveva la fede oppure no? Io penso di sì, aveva fede nell’uomo; Gramsci credeva nella capacità dell’uomo di fare il bene e di non essere indifferente ai bisogni degli altri, credeva che ogni uomo porta in sé una scintilla capace di diventare fuoco. Se la Chiesa continuerà a proclamare l’assurdità del “peccato
originale” come peccato storico, che si appiccica di generazione in generazione ai bambini appena nati, allora cosa dovremmo dire di tutti quelli che non vengono battezzati? Continueranno a portarsi dietro questa “macchia” per tutta la vita? Anziché di peccato originale, io preferisco parlare di una “benedizione originale” di Dio su ogni uomo che nasce, e questa benedizione originale, che riguarda tutti gli esseri umani, è l’immagine e somiglianza con Dio e la capacità di scegliere il bene. Certo, rimane il mistero della fragilità umana, della sua parte oscura. Pensiamo a
Caino e Abele. Fa parte della libertà dell’essere figli di Dio poter scegliere fra bene e male. Eppure, io so che fin dalla nascita ci sarà sempre questa benedizione, questa impronta d’amore di Dio sull’uomo. Credere nell’amore: l’umanità di Gesù Gesù di Nazareth ci narra i tratti di un Dio mite, umile, attento. Per questo Dio va cercato nella vita degli ultimi e degli innocenti, nel mistero della loro sofferenza, del
loro vivere quotidiano, del loro morire. È l’umanità di Gesù che ci permette di conoscere chi è Dio ed è nell’umanità che dobbiamo scorgere l’amore divino di cui siamo tessuti. Prima ancora di amare gli altri, dobbiamo credere nella forza dell’amore di cui siamo intrisi. Il Cristo ci chiede di credere nella forza dell’amore; perché se uno non crede all’amore può fare tante azioni benemerite, ma sarebbero solo gesti in cui trionfa l’idolatria dell’ego. Al centro dell’amore c’è sempre il fratello, soprattutto il bisognoso,
l’umile, l’emarginato. Nella mia esperienza di tutti i giorni il drogato, lo spiantato, la puttana, il trans, il pazzo, il senzatetto. A questi miei amici, che abitano sotto il mio stesso tetto e che invito alla mia stessa mensa, cosa posso dire? Di solito comincio con una mano sulla spalla: «Guarda, sono tuo amico, non avere paura di me. Dimmi cosa c’è che non va». Amore di sé e bene comune Mi chiedo: il brano evangelico parla anche dell’amore di sé? La
domanda che invito ciascuno a farsi è questa: l’amore di sé viene prima dell’amore al prossimo oppure è la stessa cosa? L’amore di sé è fondamentale, certo, ma solo se è in vista dell’amore al prossimo. La somma di tante persone che vogliono bene a loro stesse e che cercano di non nuocere agli altri, una somma di cuori buoni, non costituisce una civiltà dell’amore. Non basta. Dobbiamo avere come mèta finale i l bene comune. Dobbiamo tornare a parlare di bene comune. I nostri vescovi, per fortuna, lo hanno fatto più volte e in diversi documenti
negli ultimi tempi.
Non mi riferisco all’elenco dei “valori non negoziabili” che gli uffici di curia vaticana hanno stilato per qualche politico compiacente o per gli “atei devoti” di turno. Il vero valore non negoziabile, sul quale laici e cattolici dovrebbero ogni tanto un po’ indignarsi lottando per la sua difesa, è il bene comune. Il bene comune è stato il nucleo attorno al quale è stata scritta la Carta Costituzionale italiana e, dal punto di vista ecclesiale, è stato un tema cardine dei lavori del Concilio Vaticano II. I tempi folli in cui viviamo, purtroppo, hanno esaltato l’orgia
del consumismo, dell’arrivismo e dell’individualismo, e sembrano aver respinto l’amore lontano, altrove. Non c’è più solidarietà, semmai difesa dei propri privilegi. La civiltà capitalistica ci ha indotto a pensare esclusivamente ai “fatti nostri”: l’altro non è più né fratello, né amico e neppure prossimo simile a me, piuttosto è un estraneo da evitare e, possibilmente, da schiacciare e sfruttare. E noi, i cristiani, i laici di buona volontà, gli agnostici, gli atei non devoti, tutti quelli che non s’inchinano al potente di turno, che cosa possiamo fare di fronte alla
deriva del bene comune? Dobbiamo arrenderci e lasciare che le nostre vite siano attraversate da diktat odiosi, da decaloghi impresentabili e lesivi della libertà umana? Il cristiano non può che essere sale e lievito. Il sale non si vede ma c’è, ed esalta il gusto della vita, mentre il lievito trasforma la pasta del mondo. Il cristiano deve essere come un seme nella zolla oscura per far crescere frutti di bene e non rassegnarsi al male dilagante. Se penso alla testimonianza di grandi uomini innamorati del messaggio di Gesù, e ce ne sono stati molti, non posso che spiegarla con l’amore.
Un immenso flusso d’amore che da Dio passa all’uomo e dall’uomo torna a Dio. Il comandamento nuovo dell’amore non è una sfilza di preghiere da imparare a memoria, e neppure una serie di impegni da onorare in quanto cristiani. Semmai è il contrario. È il superamento della Legge in favore di una “civiltà del rispetto e dei diritti”; è il superamento di una logica avara che ci prende alla gola e che fa prevalere la dittatura dell’Io su tutto e su tutti. Non c’è peccato più grande e blasfemia peggiore. Apparteniamo tutti alla grande
famiglia umana, e non può esistere distinzione alcuna tra nero e bianco, ricco e povero, sano e malato. Eppure oggi non è così. L’amore è messo da parte ogni giorno, ogni minuto che passa. Basterebbe poco per fondare le basi di una nuova cultura della tenerezza e della vigilanza: accorgersi della moltitudine di persone che non arriva a fine mese, che non ha casa, che è preda di alcol, depressioni, dipendenze, prostituzione. Amare veramente significa indirizzare il proprio sguardo oltre l’uscio di casa propria. Senza aver timore di perdere qualcosa. Senza
guardarsi indietro. Un amore “a perdere”. Come l’amore incarnato dal Cristo. Nella prima lettura del mercoledì delle Ceneri, quando inizia l’anno liturgico, tutti i preti sul breviario hanno un testo di Isaia che dice: «Voi fate digiuni e penitenze, ma è forse questo il digiuno che gradisco?». Evidentemente no. Gesù sceglie la nostra libertà di essere figli di Dio. Una libertà che promuove giustizia, carità e fiducia nella possibilità che le cose possano cambiare. E quando, nella cena del Giovedì Santo, il figlio di Dio si china sui
suoi discepoli per la lavanda dei piedi, viene a dirci che non c’è mossa più amorevole, più consona, più veritiera che avvicini l’uomo all’immagine di Dio. «Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Matteo, l’ebreo, non va per il sottile. È l’amore che dà compimento alla Legge e all’insegnamento dei profeti. Senza l’amore il Vangelo rimane lettera morta, carta straccia. Adatta forse alle litanie liturgiche, magari ripetute ancora in latino, ma che non scaldano i cuori.
C’è un’espressione di don Bosco che mi piace: «Camminiamo con i piedi per terra, e con gli occhi rivolti al cielo». Il cristiano deve annunciare un Regno che c’è già, ma non è ancora pienamente realizzato; per questo i cristiani sono sale e lievito, pronti a dare la vita perché ci sia tolleranza, solidarietà, giustizia sociale, libertà. Corpo, desiderio e amore L’amore naturalmente non attraversa solo il terreno del dare.
Per essere autentico deve assumersi l’onere del ricevere. L’amato è colui che dà e colui che riceve. Non possiamo comprendere questa dinamica dell’amore che dona e riceve, se ignoriamo il suo volto più intrigante: l’amore del corpo, l’amore fisico che passa attraverso il modo in cui viviamo la sessualità. Ci portiamo dietro, purtroppo, secoli e secoli di oscurantismo in materia. La Chiesa ha sempre avuto paura di accogliere ed esaltare il vertice della sessualità, che è soprattutto il piacere fisico; ha avuto paura a tal punto che ha ghettizzato la donna
per millenni in un limbo di proibizioni, divieti e reticolati. Per troppo tempo ho sentito ripetere da tanti cristiani, preti e suore, ma anche laici: «Uomo e donna devono stare insieme per generare figli. Fuori da questo disegno, la sessualità è male». Per fortuna queste fesserie da pre-Concilio non sono più ascoltate da nessuno, ma la Chiesa si porta dietro un retaggio ancora pesante nel proprio subconscio. Mi domando: ma la sessualità è un dono di Dio oppure no? Da come ce lo spiegavano a catechismo sembrerebbe di no,
anche se ormai le consuetudini sono cambiate e gli stessi corsi di preparazione al sacramento del matrimonio sono tenuti non più dai preti, bensì da coppie sposate, che hanno rimosso i prosciutti davanti agli occhi. Occorre certamente essere consapevoli delle fragilità umane: la sessualità può degenerare in sfruttamento e violenza, e tuttavia dovremmo iniziare a proclamarne la bellezza insieme al rispetto che si deve al corpo-persona. Dobbiamo imparare ad accogliere i giovani, i fidanzati e i futuri sposi raccontando loro la
meraviglia dell’amore del Cantico dei Cantici, un amore fisico e passionale, in cui corpo e desiderio non sono visti come strumenti del diavolo, ma come luogo per dare e ricevere amore. Insomma, amarsi non è peccato! E bisogna dire ai giovani che nel sacramento del matrimonio il fine principale è l’amore, cioè regalarsi la felicità reciprocamente. Un amore che può portare a una maternità e paternità responsabili, un amore che non deve calpestare il piacere sessuale, dono di Dio. Scientificamente nel ciclo mensile la donna è infeconda per almeno
venti giorni, e allora, che facciamo? PoichÊ la donna è infeconda neghiamo la sessualità come piacere? In nome di quale legge della purezza? E, soprattutto, scritta da chi?
SE L’ALTRA GUANCIA BRUCIA «Amate i vostri nemici...» (Vangelo di Matteo 5, 38-48)
«Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pòrgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il
mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu fanne due con lui. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?
Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro dei cieli».
«Ma io vi dico...» Povero Matteo! L’evangelista, ebreo di nascita, è costretto a ricordare ai suoi lettori come, a quei tempi, fosse ancora ritenuto valido un rigido “codice d’onore” da rispettarsi alla lettera. L’intimazione famosissima «Occhio per occhio, dente per dente» era vissuta, ai tempi di Gesù, come una norma che obbligava a farsi giustizia da sé
nell’ambito delle tribù d’Israele. Una legge “orale”, tramandata di generazione in generazione, come segno e garanzia del mantenimento della giustizia; una legge che era in realtà un capestro che costringeva a mantenere nel tempo crediti e legami “terreni”, impedendo che si potesse esercitare la misericordia, l’oblio e il perdono fra esseri umani. E ciò era davvero strano per un popolo che invece aveva siglato un Patto eterno d’Alleanza nientemeno che con Dio, nelle Tavole della Legge, con quel JHWH, trascendente e onnipotente, che neppure si poteva nominare.
In quel «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» Gesù sovverte i codici primitivi tribali; sembra voler ribadire con forza la validità dei Dieci Comandamenti e di quel «Non uccidere» che la “legge del taglione” voleva far dimenticare. Gesù supera la legge degli uomini cancellando il concetto di vendetta nel riconoscimento del Dio-amore, Padre dell’intera umanità. Se pensiamo ai rapporti fra famiglie mafiose, ancora nell’Italia di oggi, dove le faide si perpetuano da generazioni mettendo in moto spirali di violenza inarrestabile, o a
come nascono nel mondo atti criminosi a causa di un’economia che ingrassa i più ricchi e impoverisce i meno abbienti, ci si rende conto che l’unica arma a nostra disposizione per arrestare l’accrescersi della brutalità è, appunto, il comandamento dell’amore e il perdono dei nemici. L’amore non è un’attitudine innata dell’essere umano. Gesù lo sa bene. È una scelta precisa dell’individuo, che va a modificare l’etica comportamentale dell’uomo che decide volontariamente di non rispondere alla violenza con la violenza. Per i cristiani c’è
qualcosa di più che nutre e innalza questa scelta decisiva, questa opzione fondamentale. I cristiani dalla fede autentica sentono che quest’amore contiene qualcosa di “trascendente”: se ci si rivolge al Divino come a un padre o a una madre, secondo la felice intuizione teologica di Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I, allora come si può uscire dalla celebrazione eucaristica e meditare vendette o discriminazioni? Abbiamo solo l’amore per limitare il nostro egoismo esasperato! Dobbiamo continuare a porgere l’altra guancia... anche quando l’altra
guancia già brucia. Mi tocca constatare che non tutti quelli che vanno a Messa hanno una fede autentica nel Dio Padre e Madre: ci sono mafiosi che fanno la comunione tutte le domeniche e che portano in processione statue della Madonna, ma che non hanno deciso nel loro cuore di aderire sinceramente al Dio-amore, altrimenti non commetterebbero le azioni turpi di cui sono responsabili. Ecco il valore della testimonianza cristiana, ecco perché l’amore di Gesù ci costringe a superare le discriminazioni e le
disuguaglianze di cui la nostra vita è piena. Non riesco proprio a comprendere le troppe crociate e i numerosi silenzi che le gerarchie cattoliche a volte perpetuano contro divorzio, aborto, fine vita. A volte chiudono le porte delle chiese anche ai suicidi, solo alcuni... dipende dal nome. Eppure, il brano evangelico di Matteo non fa sconti: bisogna addirittura pregare per i propri persecutori, cioè per chi ci odia, per chi è lontano da noi e dal nostro modo di pensare. Dimentichiamo spesso questi “incoraggiamenti” evangelici, in favore di pratiche devozionali fini a
se stesse. Nel mio piccolo, cerco di rendere vivo questo consiglio evangelico nel migliore dei modi. Il rispetto delle minoranze, di chi ha opinioni diverse, è fondamentale per un cammino di speranza cristiana e di etica della convivenza. Se l’antica preghiera del Pater non ci colpisce, non ci prende, allora vuol dire che non abbiamo capito cos’è l’amore. L’amore è universale: non è cattolico, né di sinistra né di destra, né ebraico né mussulmano. Chi ha capito che siamo tutti figli della stessa umanità
– cioè fratelli uguali nei diritti e nei doveri, perché accomunati dallo stesso destino – ha capito che solo l’amore e la solidarietà ci rendono più umani. L’amore è di tutti, accoglie tutti. Quel Pater con Moni Ovadia Una domenica, durante la mia solita Messa di mezzogiorno che celebro e presiedo nella chiesa di san Benedetto al Porto, ho visto entrare il mio amico Moni Ovadia. Ho capito subito che, quel giorno, per me, poteva essere davvero un
giorno toccato dalla grazia: Moni – nato in Bulgaria ma di origine ebraica, fine intellettuale di questo nostro paese, artista girovago per le strade del mondo –, entrando in Chiesa, quel giorno, si mimetizzò subito tra la gente seduta ad ascoltare la Parola di Dio. Vi immaginate la scena? È come se io, in qualche modo, mi recassi in p i e no shabbat in una sinagoga, vestito di tutto punto come si conviene ai migliori sacerdoti... Non ho perso tempo: gli ho chiesto di venire all’altare e recitare con me e tutto il popolo dei fedeli la “preghiera comune” del Pater. Non
solo l’ha fatto, ma mi è parso davvero felice, come lo ero io, e penso anche Nostro Signore, l’Adonai, come lo chiamano gli ebrei. Mi è capitato di sentire Moni cantare questa magnifica preghiera in ebraico, sottovoce; è di una bellezza sconfinata e ci mette in relazione con l’altro, con chi ci sta di fronte. Come posso non deliziarmi d’amore recitando una preghiera così concreta?
Dove sono i credenti credibili? Una sera a Bergamo, in uno dei miei frequenti incontri con fedeli e semplici cittadini in giro per l’Italia, ho realizzato una piccola conta. Ho chiesto ai presenti: «Alzino un po’ la mano quelli che sono battezzati». Ero sicuro di una certa unanimità. E così è stato. Poi ho aggiunto: «Alzino le mani quelli che si ritengono e si dichiarano credenti». Qui la conta ha cominciato a vedere le prime crepe. Qualcuno ha avuto il coraggio di non alzare il braccio. Infine, ho provocato: «Oltre che credenti, vi
sentite credibili in quanto cristiani?». A quel punto le persone hanno iniziato a guardarsi a vicenda con aria interrogativa: le mani alzate erano diventate evidentemente poche. Se recitiamo il Pater Noster con coscienza, sentendolo davvero nostro nell’intimo, abbiamo il diritto, e direi il dovere, di far entrare nella nostra vita l’amore che ci ha donato Gesù. Un amore che non è fatto di parole al vento, magari ripetute con fervore, ma che è pratica di giustizia, di misericordia e di riconciliazione verso ogni uomo. L’Antico
Testamento ci dice che, se tu trovi il giumento di un nemico disperso nei campi, devi portarlo nella stalla, dargli il foraggio e poi consegnarlo a chi l’ha perduto. L’amore non può fare discriminazioni. Il cristiano è a servizio del mondo. A volte, quando i miei superiori mi redarguiscono perché in qualche incontro pubblico mi lascio sfuggire qualche parola di troppo contro le ipocrisie dei ricchi e della Chiesa istituzionale, oppure perché mi occupo di prostitute, di ladri, di clandestini, di drogati, di donne che hanno abortito, di trans, e
insistono nel rimprovero, allora io racconto sempre al mio interlocutore di turno il mio primo incontro con Gesù. Avevo vent’anni, venivo dalla scuola della Marina, dalla lotta partigiana. In quegli anni giovanili mi ero innamorato di Gesù, sentivo nel mio animo che seguendo Gesù avrei servito l’uomo. È come quando due s’incontrano, si conoscono, si piacciono e poi, dopo essersi raccontati a vicenda, si scambiano anche il biglietto da visita. Così ho fatto con il mio amico Gesù. Gli ho dato il mio biglietto da visita: caro Gesù, sono attirato dal tuo
messaggio di umanità e salvezza verso i reietti della faccia della terra. Biglietto immediatamente contraccambiato. Quando i miei superiori mi redarguiscono ed esagerano con me, rispondo sempre: «Ma eminenza, eccellenza... perché mi sgrida? Gesù mi ha dato il suo biglietto da visita. Guardi qua! Io sono venuto per servire i poveracci e non per essere servito dai benestanti». Mi guardano attoniti, e rimangono in silenzio. Spesso il colloquio finisce lì. L’amore che ci ha insegnato il Cristo non fa distinzioni, accoglie tutti, soprattutto i peccatori e i
disperati. L’amore è liberante, perché serve l’uomo. Forse noi sacerdoti a volte dimentichiamo l’antico gesto che rende onore alle vesti che portiamo: la lavanda dei piedi del Giovedì Santo. Per me non c’è gesto più bello fra quelli fatti da Gesù: chinarsi e lavare i piedi. Come facciamo a non innamorarci di questo Gesù! L’unico peccato è la mancanza d’amore L’amore
di
Gesù
va
oltre.
Abbraccia i nemici. Io prego sempre per i miei persecutori. Nel mio calice ce li metto tutti, proprio tutti, anzi, dovrei abbracciarli, ringraziarli, perché mi aiutano, forse inconsapevolmente, a collocarmi nella scia del grande Discorso della Montagna, le Beatitudini. Io sono felice perché perseguitato a causa della giustizia e a causa del Suo nome. Fede, speranza e carità sono le virtù teologali di cui parla anche il Catechismo della Chiesa cattolica. Di queste tre virtù san Paolo non ha esitazione a dire che la più importante è la carità, cioè l’amore
per ogni uomo sulla terra. Credo che l’unico vero peccato in cui possiamo incorrere sia la mancanza d’amore. Quando decidiamo deliberatamente di non amare la vita, l’umanità intera con le sue fragilità e il creato, stiamo commettendo il più grave degli errori. Errare è umano, anche la Chiesa sbaglia. Dobbiamo tuttavia deciderci per l’amore e per il bene, e cercare di non ricadere nell’egoismo che è mancanza d’amore. Quello di cui abbiamo bisogno è di vera fraternità, di vera comunione, non di precetti snocciolati a memoria per
compiacere il presbitero di turno. Le prime comunità cristiane praticavano assiduamente la comunione. Avevano un senso della coesione fraterna molto forte, non disciplinare, cioè non imposta dall’alto. I cristiani delle origini, nel governo delle loro comunità, non scelsero il metodo democratico, è vero, ma scelsero qualcosa di più alto: l’ecclesìa, il valore dell’essere in comunione nell’assemblea. I primi vescovi ordinati non erano scelti da un potere centrale assolutistico come potevano essere, e sono, il papato e il consesso dei cardinali, bensì
erano designati dall’assemblea fatta di presbiteri e di laici credenti che proclamavano: «Ti facciamo vescovo perché sei un testimone credibile, non un lacchè che pensa solo alla carriera». Poi, certo, all’interno dell’assemblea, dell’ecclesìa, c’erano ordini designati: il presbitero, il diacono, le diaconesse. Mi sembra che la gerarchia ecclesiastica abbia perso la comunione fraterna, la collegialità, la capacità di cercare e di decidere coesa, chiamando in causa anche i fedeli laici nel discernimento. Spesso i nostri vescovi, e anche
qualche teologo, rimangono imbalsamati nelle loro cattedre d’avorio e nelle loro scrivanie curiali. Bisognerebbe che si muovessero di più, andando incontro alle persone e stando di più in mezzo alla gente. Quando vengo a sapere che l’arcivescovo tale si è detto «ferito e umiliato» perché una fabbrica della sua città è andata in fiamme, mi viene da pensare che forse sarebbe stato meglio se fosse andato là, se avesse offerto parole di speranza e di solidarietà ai malcapitati. Mi chiedo: ma perché un vescovo non va in giro per le strade e i mercati a
incontrare la “sua” gente? Perché non esce mai dall’episcopio? Sono davvero pochi i vescovi che lo fanno. Lo faceva don Tonino Bello. Gesù non è rimasto chiuso in un eremo o nella falegnameria di papà Giuseppe. Ha percorso a piedi le strade polverose della Giudea, ha incontrato persone, si è seduto per terra nelle piazze, ha ascoltato tutti e parlato con tutti. Riconoscere la verità dell’altro Gesù non ha fondato una religione e neppure una cultura. Non voleva
creare steccati o barriere, il suo messaggio d’amore è universale e può entrare in tutte le culture, non solo in quella dei cristiani o dei cattolici praticanti. Mi rendo conto di quanto sia difficile vivere e diffondere quest’amore universale nel caos delle nostre città frettolose, aggressive, disumanizzate, dove siamo abituati a dare la colpa di ogni problema agli altri, preferibilmente ai diversi da noi, agli immigrati, agli omosessuali, ai rom... Sant’Agostino, nella Civitas Dei, immaginava una città dell’utopia fondata sull’incontro e il dialogo
tra le persone, soprattutto con chi non ha nulla. La Chiesa deve tornare a essere capace di fare comunione in se stessa e con tutti. Ci vuole tanto amore nel convocare un’assemblea, che sia una parrocchia, un’abbazia, una congregazione, un’associazione cattolica, un Concilio ecumenico. Per anni ci siamo riempiti la bocca con una parola che ha perso di significato: la parola dialogo. Il dialogo comincia nel momento in cui riconosciamo il valore dell’altro, chiunque esso sia, anche il più pezzente e ignorante degli uomini. Il vero dialogo inizia
quando cominciamo a riconoscerlo e a metterci in ascolto della sua verità. Nessuno possiede la verità sulla terra, ciascuno porta in sé un frammento di verità che può essere regalato all’altro. L’importante è tendere l’orecchio oltre le ristrette mura della nostra angusta cerchia dei soliti noti. Dal dialogo con i laici, con gli atei, con gli agnostici, con i credenti di altre religioni non possono che nascere curiosità, rispetto, tolleranza e amicizia. Mi sento decisamente in sintonia con una posizione teologica del Concilio Vaticano II, che nel documento Nostra Aetate al n. 2
dice: «Le religioni riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini». A mio parere la Verità – quella con la V maiuscola – è qualcosa di incommensurabile e di incontenibile nei limiti umani del sentire e del pensare. Nessuna religione può avere l’orgogliosa pretesa di “possedere” tutta la Verità o di proclamare una Verità più vera di quella a cui aderiscono altre fedi e altre religioni. Ho sempre pensato – è solo il mio parere e non pretendo di avere ragione – che le religioni sono le “lingue” usate da Dio per comunicare con gli individui di
ogni tempo, di ogni luogo e di ogni cultura. Dio ha usato “lingue” diverse per rivelarsi a uomini e popoli diversi. Il cristianesimo ha elementi dottrinali peculiari straordinari – il mistero dell’Incarnazione e il concetto di amore verso i nemici, ad esempio – ma altre religioni hanno, a mio parere, elementi che le rendono altrettanto degne di essere ascoltate e rispettate. Certo, non sempre è così facile ascoltare l’altro, rendersi disponibili all’incontro. Specie se ti calunniano o ti minacciano in ragione delle tue posizioni:
«Andrea, tu sei un maledetto perché difendi i drogati, le puttane, i migranti! Prima o poi ti ammazziamo». Ebbene, confesso che quando mi arrivano ingiurie o pesanti critiche con nome e cognome in calce sono felice, perché ho la possibilità di instaurare un dialogo con chi, evidentemente con le sue ragioni, ha qualcosa da dirmi o rimproverarmi. Mi ricordo una lettera di un professore di Foligno che mi attaccava duramente sostenendo che ero contrario a una frase rituale del matrimonio cattolico: «L’uomo non osi
separare ciò che Dio unisce». «Ma si immagini, professore!» ho subito risposto. «Per me Dio è amore, ma lei è assolutamente certo che tutti coloro che si sposano con il sacramento li ha messi insieme Dio? Lei me lo conferma?». Ecco l’ascolto. Ogni ascolto presuppone un passo indietro. Richiede di ascoltare bene l’obiezione dell’altro e di prenderla seriamente in considerazione. Ogni giorno incontro coppie che non ne possono più di stare insieme. Mi dicono: «Andrea, quando ci siamo sposati eravamo presi forse dall’attrazione fisica,
oggi abbiamo capito che non possiamo più vivere insieme perché manca il vero amore». E io che devo fare? Dire loro che non è possibile separarsi? Che è vietato dalla Chiesa? Che saranno costretti a vivere fino alla fine dei loro giorni tormentandosi a vicenda, spegnendosi a vicenda, nella routine di una convivenza in cui il vero amore e la complicità sono finiti da chissà quanto tempo? L’amore è donazione. Ho davanti ai miei occhi esempi fantastici che mi dicono, ogni giorno, che se l’amore genuino c’è diventa una grazia per lo spirito e
per il corpo. Conoscevo due fidanzati, lui era ferroviere, lei assistente sociale, fecero un percorso con me di avvicinamento al matrimonio. Poco prima di sposarsi arrivò una brutta notizia: la ragazza aveva scoperto di essere affetta da sclerosi multipla. Nonostante i problemi che la giovane coppia era consapevole di dover affrontare, decisero di sposarsi e riuscirono ad avere un bel bambino. Ogni tanto li incontro per strada. Ăˆ uno spettacolo di commozione per me. Il papĂ spinge due carrozzelle, quella del bambino e quella della moglie; si è anche
licenziato dal lavoro per poterla seguire nella malattia. Sono il volto specchiato dell’amore autentico, quello che si dona senza riserve. Che bello vederli insieme! ...Sorridenti come il primo giorno che li ho incontrati. Forse dobbiamo rivedere i nostri percorsi di catechesi e di accompagnamento al matrimonio. «Io ti amo» è una frase troppo importante per lasciarla marcire nel calderone delle frasi fatte. «Ti amo» vuol dire «Ti dono tutto di me». Dovremmo saper sorridere con i fidanzati, noi educatori, la Chiesa, i
genitori, gli amici, per instaurare una nuova pedagogia della speranza. Cari ragazzi, non dite che vi volete “solo” bene. Imparate a dire: «Io voglio il tuo bene, desidero il tuo bene». Questa è la partenza dell’amore, dell’amore autentico. Impariamo a guardare all’amore di Dio, che ci guarda con compassione e misericordia. Mi chiedo: perché dobbiamo sempre insistere su inferni, giorni del giudizio e paure? Amore “a perdere”
Don Paolo Farinella, biblista, scrittore e saggista, parroco nel centro storico di Genova in una parrocchia senza parrocchiani e senza territorio, un altro di quei preti che si danno da fare per scuotere le coscienze, usa una bella espressione: l’amore di Dio è “a perdere”. L’amore è sempre a perdere. C’è un’immagine che ci aiuta a comprendere questo concetto. È l’immagine della Mater Misericordiae, lo dico soprattutto ai più giovani. È un’icona che ci siamo trovati qui a Genova, davanti alla nostra piccola casa madre
della comunità. La Madre della Misericordia è con le braccia aperte. È una mamma, che per una volta non ha il bambino con sé, chissà dove lo ha lasciato? ...Forse con la baby sitter. È una mamma con le braccia spalancate, pronta a consolare e accogliere tutti. Se un ebreo legge la Torah, osserva il Talmud, va in sinagoga e non è accogliente, non dica che è ebreo. Se un cristiano crede nel Dio unico, padre e madre di tutti e, pur leggendo il Nuovo Testamento e andando a Messa, non è accogliente, non dica che è cristiano.
La nostra fede esige di accogliere tutti i bisognosi, senza chiedere la carta d’identità. E senza pretendere nulla in cambio. Sarei un pazzo se pensassi il contrario, specie quando esco la sera alla ricerca dei miei sbandati. L’accoglienza dell’altro – barbone, straniero, disperato, nemico – è pratica dell’amore puro; un amore che non si nutre di pratiche devozionali, ma di gesti concreti: compagnia, soccorso, condivisione. È un amore puro perché i barboni, gli stranieri e i disperati non potranno mai contraccambiare, ma proprio per
questo la pratica di questo genere d’amore ci rende piÚ umani e forse ci renderà degni, un giorno, di contemplare il volto di Cristo.
LA PROVVIDENZA NON DIMENTICA «Guardate i gigli del campo» (Vangelo di Matteo 6, 19-34)
«Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché, dov’è il tuo
tesoro, là sarà anche il tuo cuore. La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è trasparente, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra! Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si attaccherà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete; né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale
più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non
preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena».
Una spiritualità per l’uomo in ansia
Quello che viviamo è un momento di affanno. La nostra vita si è trasformata in un groviglio di ansie, preoccupazioni e angosce. Il consumismo ci impone oggi di avere tutto, ci costringe ad accumulare risorse e a depredare territori senza alcun rispetto per il creato e le popolazioni del Terzo e Quarto Mondo. L’immagine «guardate i gigli del campo» è davvero felice, altamente comunicativa. I gigli dei campi sono emblema di una bellezza gratuita, e indicano la possibilità di abbandonarci nelle mani del Signore con fiducia. Ma saremo
mai capaci di quest’atto di abbandono? Gli uccelli del cielo, i fili d’erba, i gigli del campo... Il Vangelo con questa pagina ci offre una spiritualità per l’uomo in ansia aiutandoci a comprendere che il tumulto delle preoccupazioni materiali ci nasconde l’essenza della vita e l’autentica felicità. La liberazione dalle paure dipende da una scelta definitiva e totale: o tutto Dio o tutto mammona, o io o noi. Il credente non può rendersi indipendente dalle sue ossessioni e dai suoi timori se non accetta di dipendere, con piena
fiducia e operosa collaborazione, da Dio. Dobbiamo diventare co-creatori e corresponsabili con Dio del mondo che ci è stato affidato, perché il regno di Dio, che guadagneremo senz’altro alla fine dei tempi nel giudizio finale, è già qui, oggi, su questa terra. Il nostro Paradiso è qui, ora, e va costruito giorno per giorno. La maledizione delle tre “A” In Italia siamo abituati a scaricare la colpa di tutte le cose che non
vanno alla politica: la crisi economica, il lavoro che non c’è, le relazioni umane allo sfascio... Sembra quasi che la responsabilità di tutto il negativo sociale odierno sia da attribuirsi a chi ci ha governato. Per un periodo piuttosto lungo abbiamo avuto come capo del governo Silvio Berlusconi, che per fortuna adesso non c’è più, e abbiamo individuato in lui la causa principale di tutti i mali della nostra collettività. Berlusconi ha i suoi demeriti, lo sappiamo, ma lui è solo il sintomo di una malattia generale tutta italiana. Si è imposta nel nostro paese una cultura del
potere, dell’arrivismo e dell’apparenza che ci ha fatto credere che fosse giusto saltare dentro i carri dei facinorosi e desiderare di essere piccoli vassalli per ottenere prestigio, luce riflessa, falsi onori. Questa cultura ha spaccato in due il paese, creando un solco tra ricchi e poveri, arraffoni e precari, inseriti e reietti. Ăˆ una cultura subdola e insidiosa, che ha abbassato l’asticella del buon gusto, desertificando il cervello di due generazioni; una cultura che ci ha tolto la voglia di pensare, di discutere e di partecipare, e che ha contribuito ad
abolire il senso dello Stato e delle istituzioni. La chiamo la maledizione delle tre “A”: apparire, appropriarsi e avere. Una maledizione che ci ha privato dell’etica dell’essere. Quanti giovani oggi sanno dare una spiegazione e una valutazione della espressione “bene comune?”. Forse non è nemmeno demerito loro. Forse gli adulti, i “vecchi” di questo paese, hanno dimenticato nel tempo che l’idea di “bene comune” ha dato forza e coraggio alla Resistenza, ha ispirato la Costituzione, ha reso grande l’Italia. Stiamo svendendo il nostro
paese al culto di un edonismo consumistico e di un individualismo che ci imprigiona e ci intristisce. Lavorare e consumare. E basta. E consumare da soli per soffocare anche solo per pochi istanti quel male di vivere che ci attanaglia. C’è qualcosa di ancora piÚ grave e antico che si nasconde dentro la depressione, non solo economica, del nostro popolo. Una imprenditrice che rappresenta una vecchia ditta del bresciano a conduzione familiare, avviata prima da suo nonno e poi proseguita dal padre, mi ha raccontato con amarezza come fino a poco tempo
fa andavano da lei gli operai e le operaie a dire: «Io sto arrivando alla pensione, mi raccomando, dottoressa, tenga il posto per mio figlio». Da anni non glielo chiede più nessuno. È sconcertante. Il lavoro operaio è duro, nessuno lo nega, ma ha una sua altissima dignità che andrebbe riconosciuta. Il mondo è cambiato, certamente. Oggi molti giovani studiano desiderando un lavoro lontano dalla fabbrica, molti non vogliono fare un lavoro che ritengono di basso livello, ma forse c’è anche la ricerca di assurde chimere. Ho l’impressione che le tre “A”
siano l’alfabeto monolettera preferito non solo dalle giovani generazioni, ma anche dal mondo adulto che preferisce il mito della finanza e della Borsa alla sicurezza di mani che piantano chiodi, segano travi, innestano tubi, impastano pane. In questi anni di transizione economica siamo passati dal culto della terra al culto della speculazione e dei paradisi fiscali; dall’ora legale del tempo biologico della campagna, che regolava la vita di un paese, siamo precipitati nell’ora illegale dei giochi in Borsa e delle transazioni bancarie. Il lavoro manuale ha perso quella
considerazione pubblica e quella dignità che poi si traduceva in un giusto compenso, perché come dice il Vangelo: «L’operaio ha diritto al suo salario» (Vangelo di Luca 10, 7). La maledizione delle tre “A” ha calato un velo scuro sulla creatività e la laboriosità umana, un silenzio mortifero è sceso a incupire le relazioni fra le persone e il genio individuale. La psiche umana è talmente assorbita dai meccanismi del capitalismo che non riesce a gestire gli effetti tellurici del cambiamento nel quotidiano e nei rapporti. La nostra principale
ambizione è il consumo, altro che i gigli del campo! Il giglio del campo vuole solo crescere e offrire a tutti la propria bellezza, in una parola: vuol essere ciò che è, non apparire. I giornali e le televisioni ci bombardano: consumate di più, perché consumare è vivere. In realtà non capiamo che il consumismo ci consuma, ci avvilisce, spegne i neuroni del nostro cervello. Ci dicono: se aumenta il PIL, usciremo dalla recessione economica. Ma possibile che siamo così supini al potere? PIL, finanza facile, spread, titoli e azioni in Borsa, ogni giorno
la gran parte degli italiani rimpingua le tasche dei soliti noti, che non esito a chiamare sfruttatori. Ormai sono riusciti, questi abili manipolatori della finanza e del mercato, a imporre alle nostre menti che se un cittadino non acquista quotidianamente qualcosa in un negozio, anche virtuale, non è più un cittadino di serie “A”. Il rischio di essere considerati fuori dal sistema è reale. Ed ecco allora, come corollario, la depressione, l’ansia, lo scoraggiamento, l’aggressività.
L’idolatria dell’io Il passo evangelico è di una bellezza inaudita, antidoto formidabile a ogni depressione e paura del futuro. Dice: non preoccupatevi del domani, il Signore penserà a voi perché sa di cosa avete bisogno. C’è l’invito a fidarsi di una Provvidenza che non dimentica nessuna creatura, se questa impara a non badare solo a se stessa, ma ad accorgersi di chi sta peggio. Una prassi evangelica e laica, che in passato, subito dopo la seconda guerra mondiale, ha costruito l’Italia migliore.
Gesù ci mette in guardia dall’idolatria dell’io, un’ombra cattiva che ammalia i più vulnerabili, un culto nefasto in cui i nostri desideri diventano ossessioni avide che procurano solo infelicità. Incombe sulla nostra vita la prevalenza dell’io sul noi: sono io che devo arrivare, io che devo vincere, io che devo guadagnare. Un tempo ci si comprava un cappotto perché faceva freddo, le donne si abbellivano solo per le feste importanti, adesso anche i bambini li vedo andare a scuola con il completino firmato Armani Junior.
Il problema è che l’io, assecondato e coccolato, all’inizio procura soddisfazione, poi però si annoia, e si spegne progressivamente. L’equilibrio della psiche è pregiudicato per sempre, cresce il dolore di esistere e il legame con gli altri, familiari compresi, si sfalda. Il dolore di esistere Uno studioso di statistica mi ha detto: «Caro Andrea, vai avanti con i tuoi tossici. Fai fin troppo. Pensa che una indagine statistica ci ha
detto che gli italiani nel 2011 hanno consumato 62 milioni di pasticche di ansiolitici, e non ti parlo di psicofarmaci, perché i numeri in quella fascia di consumo sono ancora più impressionanti». Il vuoto esistenziale dilaga e ci inganniamo credendo di riempirlo con l’appagamento effimero di un’auto nuova, di un telefonino di ultima generazione, di un bel vestito. Se perdiamo i valori veri è davvero la fine. Li stiamo perdendo ogni giorno che passa, li calpestiamo, li distruggiamo con uno stile di vita che divora la vita
stessa. Anche il volontariato e la Chiesa sono stati investiti da un’ondata di efficientismo e di affarismo che ha snaturato il loro fine, sfilacciando i rapporti fra le persone e sgretolando quello che una volta si chiamava “mutuo soccorso”. Anche nel mondo cattolico il business ha preso piede, generando secondo me commistioni con la politica e le lobby, che hanno favorito il diffondersi di pratiche poco trasparenti e poco legali a cosiddetto “fin di bene”. L’individualismo sfrenato ha distrutto la famiglia, quel senso di
umanità che solo i legami familiari sanno infondere nell’animo di un cittadino, e l’etica pubblica. Savonarola diceva: «Le ragazze si danno al potente e le mamme di dietro bisbocciano». Chiedete alle ragazzine di 15 anni: cosa vuoi fare da grande? Risponderanno: «Andare in televisione». Purtroppo, il vero problema, e questo mi preoccupa di più, è che le loro stesse mamme vorrebbero che facessero le veline. A ogni costo. Abbiamo fatto a pezzi in questi anni la tradizione familiare, la moralità individuale, in nome di un mercanteggiamento continuo che
oscura i valori ed esalta le avidità personali. Neanche re Salomone, vestito a festa, è bello quanto i gigli del campo che non hanno bisogno di nulla per vivere e per essere meravigliosi. Ci affanniamo per i vestiti, per ciò che mangeremo, ma abbiamo dimenticato quello che i nostri padri e le nostre madri, in un tempo non tanto lontano, ci dicevano a mo’ di benedizione prima di ogni pasto e prima di andare a dormire: «Grazie, o Signore, per il cibo che ci hai dato. Grazie, Signore, per la giornata che mi hai concesso di vivere».
Il Vangelo rimane una miniera inesauribile per migliorare la nostra umanità, bisogna approfondirlo, bisogna leggerlo. La Bibbia va studiata, meditata personalmente e con l’aiuto degli esegeti. Non dobbiamo aver paura di trovare all’interno della Bibbia un messaggio radicale, che ci fa cambiare vita per sempre. Non dovrebbe avere paura nemmeno la Chiesa, che è depositaria della verità di Gesù e annuncia al mondo la speranza di un nuovo umanesimo. Abitare il presente
«A ciascun giorno basta la sua pena» dice questa pagina evangelica di cui sono innamorato. Mi viene in mente la sobrietà a cui ci richiama anche la preghiera del Pater che dice: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», non il pane di domani. Il passo dei gigli del campo ci dice molto di più di quello che sembra. La terra va rispettata e il creato ci è dato solo in prestito: siamo noi che dobbiamo accudirlo, curarlo, custodirlo. Per noi e per le generazioni future, che hanno diritto di vivere il futuro con più dignità e più gioia rispetto a quanto noi,
oggi, abitiamo il presente. Se fossimo davvero capaci di abitare il presente, di vivere il qui e ora, non ci affanneremmo ad arraffare, ad accumulare, a possedere di tutto e di più. Perché fatichiamo così tanto ad avere fiducia in Dio? Invece dello splendore dei gigli, vediamo solo lo splendore del potere, del denaro, la supremazia del Tempio, il possesso materiale di una casa, di un pezzo di terra. Ecco perché, oggi, tanti giovani non si riconoscono più nella mia amata Chiesa indicandola come uno dei tanti “luoghi di potere” e non come
mistero di salvezza per il mondo. Eppure c’è una grande speranza che mi sembra di cogliere ancora negli occhi della povera gente, nei miserabili del pianeta, in chi non ha niente e viene allontanato dalla società che conta. La Parola del Vangelo, in questo caso, dice qualcosa, è occasione di riscatto sociale per l’umanità che è in ricerca costante di uno sguardo di tenerezza, di compassione, di una carezza che asciughi le lacrime e le ferite dell’anima. C’è una minoranza che cerca Dio, che a volte lo implora, che non ha niente, nemmeno un vestito di
quelli buoni nei giorni di festa, ma che si affida a Dio e tenta di accoccolarsi tra le sue braccia amorevoli di Padre. Il Vangelo, visto cosÏ, è giusto, è misericordioso, salva la vita, oltre che le anime. Ogni giorno incontro folle di persone che chiedono a gran voce di essere ascoltate. E noi che facciamo? Le respingiamo? A volte mi sembra che i presbiteri si nascondano dentro le grate dei confessionali e negli uffici parrocchiali. Io amo la mia Chiesa e sono orgoglioso di farne parte, mi sento a casa mia dentro di essa, ma amo ancor di piÚ questa povera
gente che incontro per strada e che sembra voglia solo chiedermi l’opportunità di una accoglienza severa e insieme gioiosa. Basterà? Non so. Ma intanto tentiamo, non scappiamo. Facciamoci vedere, noi preti, animi coraggiosi che si mettono in ascolto dell’altro. E ai fratelli laici mi sento di dire che la scommessa di un nuovo umanesimo passa per il Vangelo. Lì possiamo trovare parole che scaldano il cuore e che danno alimento alla nostra sete di giustizia e di libertà. Alla nostra Europa che arranca non solo nell’economia, ma anche
nella sfera della fede vorrei dire che, oltre i trattati e le scartoffie burocratiche, importa recuperare sentimenti di solidarietà fra i popoli, che devono tornare a sentirsi protagonisti della Storia. Cuore e tenerezza, oltre alla Legge. Il Vangelo può dirci ancora molto su questo umanesimo da recuperare e da vivere. E il cristianesimo può avere ancora una possibilità di diventare significativo solo se saprà tornare alle origini, diventando nelle pieghe della società una sorta di controcultura in risposta al consumismo dilagante, diventando
una forza sovversiva non-violenta come cantava il mio amico Fabrizio De AndrĂŠ. A ciascun giorno basta la sua pena.
UNA LEZIONE DI LAICITÀ «Date a Cesare quel che è di Cesare» (Vangelo di Matteo 22, 15-22)
Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai
soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono.
L’oppio dei popoli «Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»: sono parole pesanti come pietre, hanno attraversato i secoli, ma oggi più che mai vanno riprese e rimeditate nella sostanza e nel significato. Gesù ci fa una lezione sul principio di laicità, su quella distinzione tra res publica e res divina, tra Stato e Chiesa, che è fondamentale se vogliamo che la religione non diventi “l’oppio dei popoli”, ma si ponga piuttosto al servizio dell’umanità e delle
civiltà . La religione non deve addormentare le masse, facendole diventare remissive, chiuse nelle sagrestie a pregare per ottenere la forza di sopportare le disgrazie di un paese in rovina. SÏ, certo, anche la preghiera è importante, ma ritengo che la religione dovrebbe essere il ginseng dei popoli, ovvero sollecitare gli individui a lavorare e pregare per la crescita umana, sociale e culturale di tutti i cittadini di una nazione. Posso dire di aver imparato sulla mia pelle questa lezione. Negli anni ho raffinato sempre piÚ quest’attitudine al rispetto dei
confini dello Stato e della Chiesa, anche grazie alle parole chiare del priore della Comunità di Bose, Enzo Bianchi, che – in anni difficili in cui questa dialettica non ha fatto grandi passi avanti – ha avuto la sapienza di ravvivare e di non lasciar svaporare questa tensione morale nell’animo di molti credenti. Sono convinto che la laicità non sia una realtà statica, al contrario si modifica nel tempo; per questo motivo la sua interpretazione deve essere sempre riproposta e rinnovata in ogni situazione storica, in ogni contesto politico.
Se guardiamo indietro nel tempo, il famoso editto di Costantino del 313 d.C. sancì certamente la fine della persecuzione contro i cristiani, ma inaugurò quella collaborazione ambigua tra religione e potere, tra Impero Romano e Chiesa, che portò a un patto scellerato: dare a Cesare quello che era di Dio. Furono rare, a quel tempo e anche in seguito, le voci che si levarono profeticamente a chiedere all’Impero di non estendere la sua ingerenza là dove solo Dio era il Signore. Oggi la laicità, intesa come distinzione tra istituzioni dello
Stato e religione, non solo è accettata come principio nel mondo occidentale, ma potrebbe diventare il contributo che le Chiese cristiane – non solo quella cattolica, dunque – potrebbero dare in una fase auspicabile di costruzione dell’Europa politica. Fedeltà al Vangelo e laicità Voglio sottolineare bene un punto: non c’è contraddizione tra fedeltà al Vangelo (o alla Chiesa) e attaccamento all’istanza di laicità. Certo, possono esserci
confusioni e contrasti, quando ad esempio la laicità degenera in “laicismo”. Giovanni Paolo II aveva parlato in proposito di “giusta laicità”. Provo a fare un esempio di questa confusione fra “sana laicità” e “laicismo”: mi pare un controsenso che si possano esibire in televisione enormi croci gemmate al collo di uomini delle istituzioni quasi concorrenziali per dimensione a quelle dei vescovi (penso ai Cavalierati di Gran Croce conferiti dalla Santa Sede ad alcuni politici), e che poi si impedisca ai bambini delle scuole di portare una
crocina al collo o alle ragazze mussulmane il chador a volto scoperto. Sui due versanti opposti della questione “laicità” sono sempre in agguato le due degenerazioni: laicismo e fondamentalismo religioso. È necessaria, dunque, una scrupolosa vigilanza.
Per ciò che concerne i cristiani, auspico che sappiano difendere la laicità dello Stato in nome della libertà religiosa. Solo una sana laicità può garantire a tutte le fedi diritto di culto in uno Stato democratico, impedendo che queste impongano i propri princìpi alla collettività. Non solo: chiedo allo Stato che in nome della laicità difenda la mia libertà di coscienza. Solo così mi pare sia possibile una coesistenza pacifica tra diverse realtà sociali. Ritengo che una giusta laicità sarebbe di grande giovamento alla stessa vita ecclesiale. La
distinzione è, infatti, contro ogni uso strumentale della religione per fini di consenso elettorale: ci sono state, infatti, forze politiche che hanno lavorato in modo che la Chiesa assumesse posizioni di superiorità, e ahimè, ci sono state forze ecclesiali che hanno blandito e assecondato questo lavoro. In Italia, ci fu paradossalmente una grande lezione di laicità da parte di alcuni esponenti di un partito che si definiva “cattolico”, la Dc. Se penso ad Aldo Moro, o ad Alcide de Gasperi, mi viene quasi da concludere che la vera laicità, in questo nostro paese,
l’hanno incarnata solo alcuni grandi cattolici impegnati in politica. Negli ultimi decenni poi, i rapporti sempre più stretti tra gerarchia ecclesiale e potere politico – anche a causa di un indebolimento dello slancio profetico da parte della comunità ecclesiale – hanno fatto sì che il principio di laicità, almeno in Italia, abbia perso mordente. Molti rappresentanti di partiti e fazioni politiche hanno approfittato di vescovi e cardinali deboli, ammalati di carrierismo, per sposare “posizioni cattoliche” all’interno del contesto sociale, ma lo stile, il metodo e il
comportamento di questi rappresentanti non mi sono sembrati mai né cattolici né tantomeno evangelici. Le varie curie ecclesiali, con la stessa condannabile ambiguità, ne hanno approfittato per trattare diritti e vantaggi, pensando che pochi euro o privilegi in più avrebbero garantito la sopravvivenza del cattolicesimo in Italia. I principali attori di questo assurdo mercanteggiamento sono stati Berlusconi e Ruini. Che sbaglio terribile! E che tristezza vedere tanti “atei devoti” che sui giornali e nelle tv inneggiavano ai valori
cristiani senza incarnarne nemmeno uno... La Chiesa non può essere una cappellania dei potenti del mondo e contemporaneamente annunciare il Vangelo. Stato e Chiesa Quando Stato e Chiesa tendono a fondersi e ad allearsi, il pericolo di una religione non autentica, non genuina, è incombente. L’attuale crisi economica che stiamo attraversando fa sì che i governi vedano di buon occhio un
cristianesimo remissivo e supino nei confronti del potere. La religione finisce per collaborare con il potere per “tenere buone” le masse più incolte, tartassate e scontente. Si sente parlare sempre più di valori “non negoziabili”, ma la questione centrale è che la politica ha bisogno della Chiesa per governare una società in transizione economica e morale com’è quella di oggi. Ecco perché i cristiani devono essere vigilanti, anche e soprattutto quando le forze politiche vogliono orgogliosamente offrire protezioni giuridiche o elargizioni
finanziarie alle Chiese, altrimenti mi chiedo: dove andranno a finire lo slancio profetico e l’annuncio evangelico? La Chiesa dovrà accettare, prima o poi, di essere inserita in un villaggio globale post-cristiano, in una società pluralista. Per questo motivo, tutti sono esposti al confronto e alla critica, tutti sono obbligati a elaborare ragioni nell’agorà pubblica. Non ci sono diritti da accampare in nome di un passato che non c’è più, si tratta invece di «rendere ragione della speranza che è in noi» con le parole e le opere, come ci ricorda la
Prima Lettera di Pietro (3, 15). E i cristiani dovranno imparare a esprimersi in termini non dogmatici, usando piuttosto un linguaggio antropologico, comprensibile a tutti, capace di mostrare le motivazioni umane delle loro posizioni e delle loro scelte. I cristiani dovranno soprattutto imparare a proporre il Vangelo di Cristo senza arroganza e intransigenza, senza elementi di clericalismo, senza mai vergognarsi dei loro princĂŹpi, e tuttavia senza mai imporli a ogni costo, per evitare di alimentare inimicizie.
I tempi che stiamo attraversando sono difficili per i credenti, ma anche entusiasmanti per le opportunità di dialogo che si offrono sia con i non credenti e sia con i fedeli di altre religioni. C’è bisogno di un confronto aperto e leale con l’altro, anche nei rapporti diplomatici internazionali, se vogliamo che l’uomo contemporaneo non perda la sfida di generare un’umanità migliore. Persino Joseph Ratzinger, quand’era ancora cardinale, scrisse che, qualora si tentasse una teologizzazione della politica, allora ci sarebbe
un’ideologizzazione della fede. La politica non si fonda su nessuna fede religiosa, ma sulla ragione, in questo senso lo Stato dev’essere laico, profano e secolare, nel senso più genuino dei termini; le istituzioni della Repubblica devono sapere che la società civile non è tutta laica in sé, ed è per questo che nella loro professione di laicità devono difendere la libertà di coscienza e vigilare su una coesistenza pacifica di tutte le componenti confessionali e non confessionali della società. Quando ciò avviene, i laici diventano tra l’altro un’occasione propizia per i
cristiani di misurare la loro reale adesione agli insegnamenti di Gesù. Anche in Italia, oggi, c’è una crescente massa di non cattolici: atei dichiarati, agnostici, cristiani lontani dalla Chiesa-istituzione, credenti senza religione o in cerca di religione, semplici “questuanti di verità”; ecco, è con questi nuovi interlocutori che i cristiani dovrebbero imparare a dialogare... e a mostrare la bellezza del Vangelo. Resto convinto che l’unica possibilità che i cristiani hanno di esprimere la propria fede sia quella di mostrare la “differenza cristiana”
con la vita, con il comportamento. Il cristiano vive sempre davanti a Dio e con Dio; per questo vuole una Chiesa che ascolti prima di parlare, che accolga prima di giudicare, che ami questo mondo prima di difendersene, che si nutra di creatività piuttosto che di paure, che sappia annunciare profeticamente piuttosto che accusare. In un sano esercizio di laicità i cristiani non devono chiedere ai non credenti quello che essi non possono dare; la democrazia, tra l’altro, non ha alcun bisogno di trovare fondamento in un credo
religioso, può e deve trovarlo nei princìpi della libertà, della giustizia, della fraternità, nei diritti degli individui e delle comunità. Ogni dialogo autentico comporta per noi cristiani una disponibilità all’accoglienza di tutti gli interlocutori, anche di quelli più lontani dalle nostre idee; non si potrà mai avere democrazia se si perpetuerà una contrapposizione di barricate, che saranno tanto più fragili quanto più saranno erette contro un individuo o un gruppo a cui si è negato ascolto. La Chiesa dovrà chiedere sempre il rispetto dei diritti delle
minoranze e l’elaborazione di un progetto politico che abbia come obiettivi libertà, trasparenza e democrazia. Siamo tutti sprovvisti di certezze, anche noi cristiani, che abbiamo la fede nel Vangelo, certo, ma nessuna verità assoluta. E proprio questa mancanza di certezze ci preserva dall’arroganza e ci apre all’incontro con l’altro sul terreno affascinante delle nostre umane differenze. Per questo motivo i cristiani, nell’edificazione della polis terrena, sono affratellati agli altri uomini e donne, perché non hanno ricette miracolose: il
Vangelo non fornisce formule magiche che conducono infallibilmente alla realizzazione degli obiettivi di una civiltà dell’amore e neppure di una polis dei diritti e della democrazia. Se il cristiano acquisisce il valore della laicità può vivere la propria fede in armonia con gli altri, immergendosi nella storia e confrontandosi con essa. Senza porsi sul trono più alto. Le primarie del Pd Già immagino i benpensanti di turno che, a fronte di queste mie
argomentazioni, diranno che proprio io, da prete, ho partecipato attivamente alle primarie del Partito Democratico, a Genova, per appoggiare la scelta di un candidato sindaco e che ho ribadito, più volte, anche in alcuni programmi televisivi, il mio fermo “no” all’abolizione dell’articolo 18 dallo Statuto dei lavoratori. A chi pensa che un prete non debba occuparsi di queste questioni rispondo che, al contrario, ritengo sia mio dovere quello di mettermi a servizio della mia città, e cioè dei miei fratelli e sorelle con cui condivido il quotidiano, per una
buona amministrazione che s’impegni seriamente ad abbattere – ed ecco il cristiano che viene fuori! – gli idoli del potere, della menzogna, degli affari, della ladroneria. In questo mio “schierarmi” accetto il dibattito, la critica, la correzione, decido di confrontarmi con la sociologia e la statistica e con tutte quelle persone che perseguono l’obiettivo di una città a misura d’uomo in cui ci sia tolleranza, solidarietà e giustizia sociale. Ecco perché cerco quei candidati vicini a questi valori, cerco di collaborare con loro, ma
conservando la libertà di esprimermi con franchezza e nel caso di denunciare l’illegalità, l’ingiustizia, l’oppressione del più debole. Io sono un figlio di Dio, i miei concittadini sono i miei fratelli, e la fraternità è uno dei valori per cui desidero spendermi. In politica occorre documentarsi, occorre competenza, acutezza di analisi, per discernere i processi che sono all’origine delle ingiustizie economiche. Nelle primarie del Pd di Genova, a prescindere dal risultato delle elezioni, ritengo di aver scelto una
persona anzitutto onesta, poi competente, che cerca soluzioni, crea sinergie e si batte per i diritti. Da semplice cittadino e da sacerdote che lavora nel sociale non ho voluto lavarmene le mani, ma dare un piccolo contributo. Non dimentico mai, tuttavia, che la mia fede m’impone di obbedire sempre alla mia coscienza, piuttosto che agli uomini. E dunque conserverò sempre la mia libertà di critica, qualora il candidato X o Y mi deludesse in futuro. Non ho mai mercanteggiato né fatto patti di alcun genere con nessuno. Il bene comune è il mio
orizzonte immediato. Non pretendo di imporre le mie scelte, ma solo di esprimere le mie convinzioni, come nel caso dell’articolo 18: come può uno degli ultimi capisaldi del diritto al lavoro essere stato al centro di una così radicale trasformazione nell’arco di pochi mesi? La fede deve vibrare nella sfera privata dell’individuo, ma deve potersi esprimere anche nella sfera pubblica, senza mai imporsi, come puro lievito che bonifica e fa crescere la pasta del mondo. Non voglio essere tentato di praticare metodi d’intolleranza in nome della
mia religione; sono sceso in campo per fierezza cristiana, non voglio arrossire del mio Vangelo, ma so che esso non dovrà mai tralignare in orgoglio e arroganza. Sono stato un partigiano, non amo i Ponzio Pilato, scelgo sempre la “parte” dove stare, ci “metto la faccia” con franchezza e umiltà. Non mi sento un cristiano perseguitato, perché ho la libertà di essere critico, di parlare e di esporre le mie convinzioni. Sento l’opzione preferenziale per i poveri e la giustizia sociale come imperativi categorici che fanno battere il mio cuore di prete e
pulsare il sangue nelle vene. Come faccio a rimanere super partes? Alcuni dicono che sono vecchio, ho 84 anni, e che dovrei riposarmi in qualche bella canonica e pregare un po’ di più. Rispondo sempre che i poveri e i reietti della mia città sono la mia preghiera quotidiana. L’otto per mille Voglio aggiungere ancora qualcosa a proposito dell’otto per mille. Questo brano evangelico mi pare si riferisca anche a questo privilegio, perché di privilegio si tratta. A mio
avviso, fintanto che la Chiesa firmerà con lo Stato i suoi concordati, perderà lentamente e inesorabilmente la sua voce profetica. I membri delle comunità cristiane dei primi secoli mettevano in comune i loro beni per libera scelta, senza imposizioni dall’alto, e si preoccupavano in autonomia di autofinanziare le attività delle stesse. Non c’era, allora, quel patto famigerato del do ut des, io ti do affinché tu mi dia. È un patto scellerato che serve alle coalizioni di governo per assicurarsi l’appoggio della Chiesa in termini
di consenso e di pacchetti di voti. Il governo Berlusconi è stato maestro in ciò, salvo poi fregarsene dell’etica cattolica e dello stile evangelico. Anche il governo Monti mi sembra un po’ filo-vaticano. Mi chiedo: ma al cristiano in politica è chiesto di salvare la Chiesa dall’IMU per gli edifici non commerciali? Non è anche questo un esempio di mercanteggiamento di antichi privilegi e future promesse? Vorrei riferirmi a un antico bellissimo testo della Chiesa, la Lettera a Diogneto, scritta nel II
secolo d.C. Ci sono parole molto chiare: i cristiani non rinnegano nulla del Vangelo, restano in mezzo agli altri uomini con simpatia, senza separarsi da loro, solidali e tesi a costruire insieme una città più umana, amici di tutti gli uomini. Così si legge: «I cristiani abitano il mondo ma non sono del mondo... sostengono il mondo come l’anima sostiene il corpo» (Lettera a Diogneto VI, 3 e 7). Concludo riprendendo l’evangelista Matteo: «È lecito o no pagare il tributo a Cesare?». Sì, certo, ma bisogna distinguere. Allo Stato spetta il suo e alla religione i
suoi fedeli. E quando Gesù dice «date a Cesare quel che è di Cesare» significa che, se questo Cesare è ingiusto, se è accecato dalla brama di profitto, se opprime, allora gli daremo quel che gli spetta: ovvero alzeremo la testa con coraggio e denunceremo qualunque suo sopruso. Nel baratro dell’attuale scarsità globale di verità e giustizia, in cui tutto puzza di menzogna, la vigilanza e la denuncia sono la nostra unica salvezza. Vigiliamo affinché il nostro Cesare amministri bene, con giustizia e lungimiranza.
E che la Chiesa, ogni tanto, da vera discepola della lezione di laicitĂ del Vangelo, si ricordi di essere coscienza critica nei confronti di questo Cesare troppo ingombrante e troppo padrone.
CHIESA E POTERE «Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (Vangelo di Marco 10, 35-45)
Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla
tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono
considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
L’assurdità del potere temporale Il rapporto tra Chiesa e potere è una delle grandi questioni che hanno attraversato la storia del cristianesimo. La struttura
gerarchica e istituzionale delle Chiese – in particolare della nostra cattolica di rito latino – è espressione di un potere, anche territoriale e diplomatico: la Santa Sede è uno Stato con proprie leggi e un proprio ordinamento. Alcuni cardinali sono “ministri” del governo vaticano e qualcuno potrebbe anche insinuare che i nunzi apostolici e i vescovi non sono altro che l’estensione territoriale di tale governo. In realtà, oltre all’istituzione e alla gerarchia, per fortuna c’è il Vangelo, e anche i nostri pastori diventano, se davvero illuminati
dalla Parola, nostri accompagnatori lungo le vie impervie dell’amore e della giustizia Il cristianesimo, in virtù della s u a essenza eterna, non può diventare espressione di un potere temporale; è un’assurdità. Semmai dovrebbe essere segno escatologico del primato dell’amore, un amore forte come la morte, che oltrepassa il tempo (Cantico dei Cantici 8, 6). Il bene che, grazie a Dio, la Chiesa semina nella Storia a volte ci fa dimenticare il suo apparato “statale” e governativo, rivestito di talari e berrette cardinalizie. Me lo chiedo ogni giorno: ma noi
cristiani, per praticare l’amore di Cristo, abbiamo proprio bisogno di tutta questa pompa coreografica e dogmatica rappresentata dal potere temporale della Chiesa? Già nei capitoli precedenti ho ricordato che cinquant’anni fa ci fu una ventata d’aria fresca, il Concilio Ecumenico Vaticano II. Un papa di stampo conservatore come Giovanni XXIII, evidentemente illuminato dalla grazia dello Spirito, s’inventò il Concilio, che elaborò il nuovo modo di stare al mondo della Chiesa. Fu una meravigliosa rivoluzione. Un largo settore della curia
romana non ne voleva sapere del rinnovamento e lo stesso papa Roncalli incontrò ostacoli, critiche e tribolazioni personali per inaugurare e condurre questa straordinaria impresa. Una rivoluzione pacifica che, ancora oggi, un certo mondo vicino alle stanze vaticane continua a osteggiare in modo ossessivo. La Chiesa del potere resiste, eccome se resiste! Ăˆ attaccata come una ventosa ai lasciti ereditati dal Medioevo e continua a esercitare il suo potere di intrusione nelle coscienze della gente. Usa il potere temporale entrando spesso
nell’agone politico, e mantiene solo per sé il privilegio di ordinare vescovi, cardinali e preti, senza mai consultare la base dei fedeli. Per fortuna c’è anche un’altra Chiesa, quella costituita dal popolo di Dio, da credenti di buona volontà, religiosi, sacerdoti e anche da tanti vescovi buoni e intelligenti; una Chiesa alla quale mi sento di appartenere, che ogni giorno predica la Buona Notizia sulle strade degli uomini e se ne frega letteralmente di tutto ciò che è potere. A quale Chiesa ci sentiamo di appartenere? Ecco le parole di
Gesù che scuotono le nostre coscienze contro gli orpelli dell’autoritarismo: «Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti». Ho l’impressione che la frase stia un po’ stretta a tanti esperti di dogmatica ed ecclesiologia. Qui si parla di servizio, di essere ultimi fra gli ultimi.
È chiaro che un’affermazione del genere fa paura, mette soggezione, costringe a rivedere secoli e secoli di teologia e di prassi pastorale. La sentenza evangelica affossa il concetto di potere ed esalta la “via anarchica” del servizio. Pensate a cosa succederebbe se il papa uscisse dal nascondiglio dorato dei palazzi vaticani e decidesse di passare un po’ del proprio tempo tra i baraccati delle periferie, tra i precari dei call center, tra gli operai in cassa integrazione degli stabilimenti industriali. Ritengo che la Chiesa se ne avvantaggerebbe. Pensate se,
negli anni passati, l’ex presidente della CEI, Camillo Ruini, invece di occuparsi di “otto per mille” e finanziamenti alle scuole cattoliche, avesse rivolto qualche critica al berlusconismo imperante in Italia e avesse proclamato con franchezza che il Vangelo è lontano da certi comportamenti consumistici e libertini che sviliscono l’umanità della persona. Pensate che novità! Sarebbe stata un’autentica sommossa ecclesiale. Durante il Concistoro del febbraio 2012, nel quale sono stati ordinati molti nuovi cardinali, il papa è stato molto severo nel
discorso rivolto ai novelli porporati. In un momento di grande sofferenza per la Chiesa, a causa dei mali che la stanno divorando dall’interno, Benedetto XVI ha rampognato i suoi cardinali. Ăˆ stato molto duro: voi non dovete dedicarvi agli affari, alla carriera, al potere, voi siete servi! Cari prĂŹncipi della Chiesa, cari pastori, fatevi davvero umili servitori del prossimo, sappiate calarvi nelle sofferenze umane e state dalla parte dei poveri, anzichĂŠ cimentarvi in guerre intestine. Il papa si riferiva alle missive segrete di curia, uscite sui giornali in quei giorni, che
parlavano di complotti per attentare alla sua vita. Anche lo scandalo dei preti pedofili, nascosto per anni dagli apparati ecclesiali, è stato a ben vedere una questione di difesa dell’istituzione temporale. Certo, la Chiesa è fatta di uomini e gli uomini sbagliano. Tuttavia, una delle più gravi vergogne in epoca moderna è stata il silenzio degli uomini di curia su un peccato che grida al cospetto di Dio! E questo per salvaguardare l’apparato istituzionale-gerarchico, per proteggere ipocritamente uomini malati, che avrebbero dovuto
essere sospesi dalla loro funzione e affidati agli psicoterapeuti, piuttosto che spostati da una parrocchia all’altra, da una comunità religiosa all’altra, in incognito. C’è la crisi innegabile delle vocazioni sacerdotali, l’esercito dei preti nel mondo sta diventando una piccola truppa, ma ciò non giustifica il mantenimento di persone consacrate con gravi problemi di sanità mentale. Dall’obbedienza all’autenticità Se davvero la Chiesa fa riferimento
al Dio-Amore, alla Trinità-Amore, allora dovrà finalmente passare dal principio dell’obbedienza al principio dell’autenticità. San Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi scrive: «Non abbiamo alcun potere contro la verità, ma per la verità» (13, 8). Se passasse il principio dell’autenticità e della verità, cambierebbero molte cose nella Chiesa e nel nostro modo di affrontare le grandi questioni in un’ottica di fede cristiana: il nostro rapporto con la natura, con la sessualità, con l’altro, con il progresso scientifico. Se ci fossero autenticità e
amore, e di questo legame la Chiesa si facesse testimone praticandolo nella sua carne, a tutti i livelli, dalla piccola comunità di periferia alla grande diocesi, allora credo che questo nostro mondo avrebbe una possibilità in più di reagire con empatia e sorriso ai cambiamenti e alle difficoltà. L’autenticità al posto dell’obbedienza: è un’operazione difficile di trasparenza. Oggi, purtroppo, sembra resistere l’equazione inversa: cattolico uguale obbediente al papa, non obbediente al papa uguale non cattolico. È un grande problema.
Pare che chi non pratica abitualmente i sacramenti, chi non ascolta i richiami dell’autorità pontificia, o ancora chi non crede alla lettera ai dogmi, non possa salvarsi? Personalmente, ritengo non sia così. Sono convinto che l’uomo si salvi se nel profondo della sua coscienza vibra la Parola di Gesù di Nazareth insieme alla volontà di metterla in pratica. Una coscienza veramente libera non può non opporsi alle ipocrisie e alle prevaricazioni del potere quando sente risuonare in sé le parole di questo stupendo brano evangelico. Quando sono diventato
prete ho voluto accogliere in me per sempre questa esortazione di Gesù: «Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti». Non c’è nulla di più rivoluzionario al mondo di questo versetto: la Chiesa ha faticato a incarnarlo nella Storia, anche se non dobbiamo stancarci di ricordare ai nostri fratelli laici che la cultura della solidarietà e dell’accoglienza deriva proprio dal comandamento evangelico dell’amore al prossimo. E qui, forse, dovrei citare i tantissimi martiri che si sono immolati per questo amore, i tanti testimoni – penso a preti, monaci e monache,
vescovi e anche papi – che hanno seguito, nella mitezza, la croce di Gesù. Il mondo laico critica spesso la storia della Chiesa, rimproverandole il nepotismo dell’età medievale, l’Inquisizione, le crociate... La critica è corretta, ma noi cristiani possiamo tranquillamente rispondere che, a fronte di tali riprovevoli comportamenti derivanti dall’ansia di potere, abbiamo seminato nella Storia tracce di amore cristiano autentico. San Francesco d’Assisi vi dice qualcosa? E padre Massimiliano Kolbe? E Dietrich
Bonhoeffer? E Charles Foucauld? E l’Abbé Pierre?
De
La Chiesa e la Storia Lo ripeto spesso ai miei vescovi, soprattutto quando, reciprocamente, facciamo esperienza di correzione fraterna: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita». La Storia, per fortuna, è andata avanti. È stato riconosciuto il primato della coscienza. Il magistero pontificio dovrebbe ringraziare le forze laiche che
hanno lottato per giungere al riconoscimento civile e politico dell’innato diritto della persona umana di godere della piena libertà di coscienza, pur nella responsabilità di ogni atto di fronte alle altre persone e alla legge. La Chiesa – con la sua storia millenaria, le sue inquisizioni, i suoi giubilei, le sue assise conciliari – ha camminato spesso a braccetto con la Storia, con le sue rivoluzioni, fra cui quella francese. La Chiesa e la Storia non si sono solo fronteggiate con scomuniche e guerre fratricide. C’è stato un cammino comune positivo, che si è
intrecciato spesso, e che mi piace richiamare perché ritengo che dentro questo percorso abbia agito la forza dell’amore. È stato un lungo tragitto fino ai nostri giorni, punteggiato di alleanze e tradimenti, di vergogne e onori. Talvolta la Chiesa è arrivata in ritardo, con evidenti anacronismi, per questo dico che essa avrà sempre bisogno delle suggestioni e degli slanci del mondo laico, ma mi preme anche sottolineare che il mondo laico avrà sempre bisogno di quel supplemento di umanità e di fratellanza, di solidarietà, che solo il cristianesimo sa offrire.
Una volta c’era l’indice dei libri proibiti, venne istituito da papa Paolo IV, il 30 dicembre 1558. Venne poi abolito da papa Paolo VI, un altro Paolo, il 14 giugno 1966. Ci sono voluti 400 anni di storia e ben 32 edizioni diverse dell’Index. Oggi ci sono molte meno proibizioni. E anche l’Inquisizione, almeno quella che affliggeva pene corporali, è sparita. I cristiani sono – secondo il dettato evangelico – il sale della terra. Il sale non è autoreferenziale, non si vede, scompare sciogliendosi nei cibi, tuttavia, se non c’è, tutti se ne accorgono. I
cristiani sono lievito nella pasta del mondo, sono il chicco di grano che, se non marcisce nella terra, non porta frutto. Dove sta, allora, la vera sapienza del cattolicesimo? Nel non expedit di Pio IX del 1868, cioè nella proibizione ai cattolici italiani di partecipare alla vita politica italiana di allora, o nel desiderio di quei cattolici di oggi che vorrebbero essere considerati finalmente adulti, capaci cioè di declinare l’ispirazione divina del testo biblico nella loro dimensione di vita quotidiana intrisa di modernità ?
Sono del parere che talvolta bisogna lasciare che i “poteri forti” facciano la loro patetica storia con la “s” minuscola, secondo i propri capricci, per tornare a credere nella forza del popolo di Dio, nello slancio di quei credenti che già tanto hanno fatto nel campo dell’ecumenismo, del dialogo interreligioso, del rapporto con i fratelli del popolo ebraico. Solo così capiremo che far consistere la propria identità di credenti nell’obbedienza acritica al magistero pontificio, come in passato, ci fa correre seri rischi di sbandamento. L’unilateralità di
certe posizioni causa errori, e anche il magistero è soggetto a svarioni, sviste, calcoli biechi, condizionamenti vari. Non lasciamoci incantare da tiare, troni e velluti! Vi sono stati non cattolici e laici più sapienti del magistero che hanno saputo vedere lontano. Non è affatto vero che si corre il rischio di rinunciare alla propria identità religiosa se si va in contrasto con l’autorità, se si disobbedisce; al contrario, ciò avviene se diventiamo supinamente succubi del potere senza ragionare e senza usare la nostra testa.
Il messaggio di Gesù di uguaglianza e di servizio al prossimo non ha bisogno del potere. Dirò di più: un dialogo sincero e diretto con il Figlio dell’uomo, con Gesù, non ha bisogno per forza di un’istituzioneChiesa che faccia mediazione: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Vangelo di Giovanni 15, 15). Anche la Chiesa dovrebbe dire: non vi chiamo più servi, ma ho bisogno di voi, cari fratelli; ho
bisogno della vostra intelligenza, del vostro cuore e del vostro impegno. In questo senso, il cristianesimo può diventare davvero la grande scommessa dell’amore che costruisce il futuro. Non so se questo può essere un metro di giudizio per valutare la qualità del dialogo che la Chiesa instaura, o cerca di instaurare, con i non credenti, però può essere un buon inizio. I credenti offrono Gesù che salva l’uomo, l’uomo della pace e della vita. E le nostre Chiese, i nostri pastori sempre in bella mostra di sé, cosa offriranno per far sì che la Buona Notizia sia