« Non ho particolari talenti, sono solo appassionatamente curioso. »:)
Fantastico Albert!:) Albert Einstein, nasce il 14 marzo del 1879 a Ulm, in Germania, da genitori ebrei non praticanti. Un anno dopo la sua nascita la famiglia si trasferisce a Monaco di Baviera, dove suo padre Hermann apre, col fratello Jacob, una piccola officina elettrotecnica. L'infanzia di Einstein si svolge nella Germania di Bismarck, un paese in via di massiccia industrializzazione, ma anche retto con forme di dispotismo che si fanno sentire a vari livelli e in vari ambienti della struttura sociale. Il piccolo Albert era per istinto un solitario ed impara a parlare molto tardi. L'incontro con la scuola è da subito difficile: Albert, infatti, trovava le sue consolazioni a casa, dove la madre lo avvia allo studio del violino, e lo zio Jacob a quello dell'algebra. Da bambino, legge libri di divulgazione scientifica con quella che definì "un'attenzione senza respiro". Non a caso, in seguito con amarezza dei primi corsi scolastici.
Odiava i sistemi severi che rendevano la scuola, a quei tempi, simile ad una caserma. Nel 1894 la famiglia si trasferisce in Italia per cercarvi miglior fortuna con una fabbrica a Pavia, vicino a Milano. Albert rimase solo a Monaco affinché terminasse l'anno scolastico al ginnasio, poi raggiunse la famiglia. Gli affari della fabbrica cominciarono ad andare male e Hermann esortò il figlio a iscriversi al famoso Istituto Federale di Tecnologia, noto come Politecnico di Zurigo. Non avendo però conseguito un diploma di scuola secondaria superiore, nel 1895 dovette affrontare un esame di ammissione e fu bocciato per insufficienze nelle materie letterarie. Ma ci fu di più il direttore del Politecnico, impressionato dalle non comuni capacità mostrate nelle materie scientifiche, esortò il ragazzo a non rinunciare alle speranze e a ottenere un diploma abilitante per l'iscrizione al Politecnico nella scuola cantonale svizzera progressiva di Aargau. Qui Einstein trovò un'atmosfera ben diversa da quella del ginnasio di Monaco. Nel 1896 può finalmente iscriversi al Politecnico. Lì prende una prima decisione non farà l'ingegnere ma l'insegnante. In una sua dichiarazione dell'epoca dirà, infatti, "Se avrò fortuna nel passare l'esame, andrò a Zurigo. Lì starò per quattro anni per studiare matematica e fisica. Immagino di diventare un insegnante in quei rami delle scienze naturali, scegliendo la parte teorica di esse. Queste sono le ragioni che mi hanno portato a fare questo piano.
Soprattutto, è la mia disposizione all'astrazione e al pensiero matematico, e la mia mancanza di immaginazione e di abilità pratica". Nel corso dei suoi studi a Zurigo matura la sua scelta: si dedicherà alla fisica piuttosto che alla matematica. Si laurea nel 1900. Prende dunque la cittadinanza svizzera per assumere un impiego all'Ufficio Brevetti di Berna. Il modesto lavoro gli consente però di dedicare gran parte del suo tempo allo studio della fisica. Nel 1905 pubblica tre studi teorici. Il primo e più importante studio contiene la prima esposizione completa della teoria della relatività ristretta. Il secondo studio, sull'interpretazione dell'effetto fotoelettrico, conteneva un'ipotesi rivoluzionaria sulla natura della luce; egli affermò che in determinate circostanze la radiazione elettromagnetica ha natura corpuscolare, ipotizzando che l'energia trasportata da ogni particella che costituiva il raggio luminoso, denominata fotone, fosse proporzionale alla frequenza della radiazione. Quest'affermazione, in base alla quale l'energia contenuta in un fascio luminoso viene trasferita in unità individuali o quanti, dieci anni dopo fu confermata sperimentalmente da Robert Andrews Millikan. Il terzo e più importante studio è del 1905, e reca il titolo "Elettrodinamica dei corpi in movimento": conteneva la prima esposizione completa della teoria della relatività ristretta, frutto di un lungo e attento studio della meccanica classica di Isaac Newton, delle modalità dell'interazione fra radiazione e materia, e delle caratteristiche dei fenomeni fisici osservati in sistemi in moto relativo l'uno rispetto all'altro.
E' proprio quest'ultimo studio che gli valse in seguito il premio Nobel per la Fisica nel 1921. Nel 1916 pubblica la memoria: "I fondamenti della teoria della Relatività generale", frutto di oltre dieci anni di studio. Questo lavoro è considerato dal fisico stesso il suo maggior contributo scientifico e si inserisce nella sua ricerca rivolta alla geometrizzazione della fisica. Intanto, nel mondo i conflitti fra le nazioni avevano preso fuoco, tanto da scatenare la prima guerra mondiale. Durante questo periodo fu tra i pochi accademici tedeschi a criticare pubblicamente il coinvolgimento della Germania nella guerra. Tale presa di posizione lo rese vittima di gravi attacchi da parte di gruppi di destra; persino le sue teorie scientifiche vennero messe in ridicolo, in particolare appunto la teoria della relatività.
Con l'avvento al potere di Hitler, Einstein fu costretto a emigrare negli Stati Uniti, dove gli venne offerta una cattedra presso l'Institute for Advanced Study di Princeton, nel New Jersey. Di fronte alla minaccia rappresentata dal regime nazista egli rinunciò alle posizioni pacifiste e nel 1939 scrisse assieme a molti altri fisici una famosa lettera indirizzata al presidente Roosevelt, nella quale veniva sottolineata la possibilità di realizzare una bomba atomica. La lettera segnò l'inizio dei piani per la costruzione dell'arma nucleare.Einstein ovviamente disprezzava profondamente la violenza e, conclusi quei terribili anni, s'impegnò
attivamente contro la guerra e le persecuzioni razziste, compilando una dichiarazione pacifista contro le armi nucleari. Più volte, poi, ribadì la necessità che gli intellettuali di ogni paese dovessero essere disposti a tutti i sacrifici necessari per preservare la libertà politica e per impiegare le conoscenze scientifiche a scopi pacifici. Morì, a Princeton, il 18 aprile 1955, circondato dai più grandi onori.
Frasi celebri di Einstein La cosa più incomprensibile dell'Universo è che esso sia comprensibile. La vita era un sogno... ora siamo svegli! Non ho particolari talenti, sono solo appassionatamente curioso. La pace e la concordia hanno edificate tutte le città. Più la teoria dei quanti ha successo, più sembra una sciocchezza. L'uomo che considera la propria vita e quella dei suoi simili senza senso non è soltanto sfortunato ma è quasi squalificato per vivere. Se vuoi una vita felice, devi dedicarla ad un obiettivo. "L'immaginazione è più importante del sapere." Il nazionalismo è una malattia infantile. È il morbillo dell'umanità. Una vita che miri principalmente a soddisfare i desideri personali conduce prima o poi a un'amara delusione. Il segreto della creatività è saper nascondere le
proprie fonti. Non posso far smettere di piovere, anche se sono Albert Einstein. Non tutto ciò che può essere contato conta, non tutto ciò che conta può essere contato. Chi non riesce più a provare stupore e meraviglia è già come morto e i suoi occhi sono incapaci di vedere.
Parigi, anno 1906. Un giovane pittore spagnolo, Pablo Picasso, 25 anni appena compiuti, dà la prima pennellata a Les Damoiselles d’Avignon. Le cinque damigelle di Avignone rivivono sulla tela di Picasso in una “prospettiva spaccata, frantumata in volumi … incidenti l’uno nell’altro”, che ce le propone in simultanea sebbene ciascuna viva in una sua dimensione spaziale. Il quadro, a detta di molti storici dell’arte, inaugura la stagione del cubismo. E, a detta del critico Mario de Micheli, manda definitivamente in frantumi la concezione classica dello spazio ( Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, 2002). Berna, 30 giugno del 1905. Un giovane fisico tedesco, Albert Einstein, 26 anni appena compiuti, invia alla rivista Annalen der Physik l’articolo sulla Elektrodynamik bewegter Körper in cui assume che la velocità della luce sia costante in qualsiasi sistema di riferimento e che il principio di relatività galileano sia valido per ogni sistema fisico in moto relativo uniforme. L’articolo sull’ Elettrodinamica dei corpi in movimento, a detta degli storici della fisica, unifica parzialmente la meccanica e l’elettrodinamica. E manda definitivamente in frantumi la concezione classica del tempo e dello spazio. “D’ora innanzi lo spazio in sé e il tempo in sé sono condannati a dissolversi in nulla più che ombre, e solo una specie di congiunzione dei due conserverà una realtà indipendente” dirà il matematico Hermann Minkowski (citato in Abraham Pais, Sottile è il Signore…, Bollati Boringhieri, 1986). Le due opere, il quadro e l’articolo, con strumenti affatto
diversi affrontano il medesimo problema: la natura della simultaneità. E, negli stessi mesi, giungono alla medesima conclusione iconoclasta: la degradazione di una concezione plurimillenaria dello spazio classico quale assoluto e ineffabile contenitore degli eventi cosmici. C’è qualcosa che connette Les Damoiselles d’Avignon all’ Elektrodynamik bewegter Körper? C’è una qualche correlazione tra queste due opere che aprono una nuova era, rispettivamente, nell’arte figurativa e nella fisica? C’è qualcosa che lega il più grande pittore del XX secolo, Pablo Picasso, al più grande fisico del XX secolo, Albert Einstein? Il problema finora è stato sostanzialmente ignorato dagli storici della scienza. D’altra parte, ove anche vi fosse, non è facile dimostrare, documenti alla mano, una correlazione tra l’intuizione poetica di un’artista e l’elaborazione analitica di uno scienziato. JCOM 3 (2), June 2004 JCOM 3 (2), June 2004 Greco Il problema è stato invece affrontato dagli storici dell’arte. I quali riconoscono che, nel dipingere Les Damoiselles d’Avignon, nel mandare in frantumi lo spazio classico e nell’avviare una rivoluzione nell’arte figurativa, il genio di Picasso ha interpretato e si è fatto partecipe dello “spirito del tempo”. Ivi compreso quello “spirito scientifico” che, a inizio ‘900, stava sottoponendo a seria critica la concezione newtoniana dello spazio e del tempo. Con Einstein. Ma non solo con Einstein. Riconoscimento tutt’altro che banale, questo degli storici dell’arte. Perché implica l’esistenza di qualche cosa, un ponte tra la dimensione artistica e la
dimensione scientifica della cultura umana, che molti negano e che ha portato, più tardi, Charles Percy Snow a parlare, sia pur con rammarico, di un’avvenuta separazione tra “le due culture”. E tuttavia nessuno, finora, aveva parlato e osato indagare la singolare coincidenza di tempi e di contenuti tra il quadro del 25enne pittore spagnolo e l’articolo del 26enne fisico tedesco. D’altra parte nell’arco di tempo considerato ciascuno dei due semplicemente ignorava l’esistenza dell’altro. Eppure, sostiene Arthur I. Miller in un libro che ha fatto rumore ( Einstein, Picasso: Space, Time and the Beayty That Causes Havoc, Basic Books, 2002), una correlazione diretta, forte, che va ben oltre una generica adesione allo “spirito dei tempi” tra il quadro e l’articolo, tra il genio della pittura e il genio della fisica, esiste. Entrambi si interessavano agli stessi problemi. Ed entrambi hanno bevuto alla medesima fonte di ispirazione. La doppia tesi di Arthur I. Miller va presa in seria considerazione. Perché l’uomo è un rispettato storico della scienza in forze allo University College di Londra. Perché è, forse, lo storico al mondo che ha prestato maggiore attenzione al ruolo che hanno avuto l’intuizione, le metafore, l’estetica, la visualizzazione ( Anschauung) e la visualizzabilità ( Anschaulichkeit) nella fisica del primo Novecento. E, soprattutto, perché la sua doppia tesi è ben documentata. Eccola, dunque. È risaputo che nell’Ufficio Brevetti di Berna, dove lavora, Albert Einstein si arrovella intorno alla natura della simultaneità. Pensa a se e quando due eventi che avvengono nell’universo possono essere considerati simultanei nel tempo. E se la simultaneità temporale sia
assoluta. Valga per tutti e in ogni condizione. È grazie a questa riflessione che generalizza la relatività di Galileo: non c’è alcun modo di distinguere tra due o più sistemi che si muovono di moto relativo uniforme (spesso capita alla stazione che non riusciamo a percepire se a muoversi è il nostro treno o il treno vicino). Einstein sostiene che ciò deve essere valido per ogni tipo di sistema, meccanico o elettromagnetico che sia. Da questa semplice generalizzazione ne deriva che non esistono sistemi di riferimento assoluti. Poi Einstein introduce il concetto della invariabilità della velocità della luce, sulla scorta di due fenomeni ottici già noti: la luce viaggia nel vuoto a 300.000 chilometri al secondo, la sua velocità non può essere superata. Ne deriva che, qualsiasi sia il sistema di riferimento di chi la osserva, la velocità della luce risulta sempre costante. Proposta che fa a pugni col senso comune. E con le nostre quotidiane misure. In un treno che viaggia a duecento all’ora, un signore seduto nel primo scompartimento vede il controllore che lo risale dalla coda verso testa muoversi a 5 chilometri l’ora. Mentre un osservatore a terra lo vede muoversi a 205 chilometri l’ora. Ma se il controllore accende una lampada, entrambi – il viaggiatore sul treno e l’osservatore a terra – vedono la luce emessa muoversi alla medesima velocità: 300.000 chilometri l’ora (e non, rispettivamente, 300.005 e 300.205 chilometri l’ora). Da tutto questo (la generalizzazione del principio di relatività galileano e l’invariabilità della velocità della luce) deriva che non esistono eventi simultanei in assoluto nell’universo. Ma che la simultaneità temporale dipende dal sistema di riferimento.
Cosa c’entra Picasso con tutto ciò? Beh, c’entra. Perché il pittore spagnolo, come tutti i (futuri) esponenti del Cubismo all’inizio del XX secolo è impegnato in un vero e proprio “programma di ricerca”: la riduzione delle forme a rappresentazione geometrica. Il programma di ricerca di Picasso, come quello di Einstein, riguarda la simultaneità, anche se riferita allo spazio invece che al tempo. E l’ottica di Picasso è la medesima di Einstein: non esistono sistemi di riferimento privilegiati. La simultaneità assoluta non esiste. Ciascuno ha una visione dei fenomeni che avvengono nello spazio che dipende dal punto di osservazione. E non esistono, nel cosmo, punti di osservazione privilegiati. In definitiva, entrambi, Albert Einstein e Pablo Picasso, tra il 1905 e il 1906 scoprono il concetto di relatività. Il primo (non senza incontrare ostacoli e resistenze) conferisce a questo concetto una piena dignità scientifica, attraverso un nuovo modello matematico. Il secondo (non senza incontrare ostacoli e resistenze) gli conferisce una piena dignità artistica, attraverso un nuovo modello geometrico. Questa prima tesi di Miller è forte, tuttavia è convincente. Nessuno dubita, infatti, che Einstein con l’articolo sull’ Elektrodynamik bewegter Körper e Picasso con il quadro Les Damoiselles d’Avignon hanno rivoluzionato la visione classica dello spazio. È stupefacente che lo abbiano fatto negli stessi mesi. E la coincidenza rimarrebbe nella sua condizione di generatrice di stupore se non fosse per la seconda tesi di Miller. Einstein e Picasso si sono ispirati alla medesima
fonte. Una fonte, certo non unica. Ma potente e, soprattutto, comune. Questa fonte si chiama Henri Poincaré, il francese che, insieme al tedesco David Hilbert, è considerato, a quel tempo, il più grande matematico del tempo. Poincaré ha affrontato da par suo il tema della simultaneità e la necessità di un approccio non euclideo (non classico) alla geometrizzazione del mondo fisico in un libro pubblicato nel 1902, La Science et l’hypothèse (tradotto in italiano dalla Dedalo col titolo La scienza e l’ipotesi). Si sa per certo che Albert Einstein a Berna legge direttamente Poincaré, nell’edizione tradotta in tedesco del suo libro. Arthur I. Miller dimostra che anche Picasso viene a conoscenza delle profonde idee del matematico francese. Non direttamente, attraverso la lettura del suo libro. Ma indirettamente, attraverso le accese discussioni interne al circolo di giovani, “la banda Picasso”, che frequenta a Parigi. Nel gruppo, sostiene Miller, c’è infatti Maurice Princet, che di professione fa l’assicuratore, ma per hobbies studia l’alta matematica. Princet ha letto Poincaré. E ne diffonde con entusiasmo le idee. La tesi di Miller è che nelle discussioni sulla natura dello spazio alimentate dall’amico assicuratore, Picasso trovi ispirazione per dare seguito artistico al suo progetto di ricerca sulla riduzione delle forme a rappresentazione geometrica. Les Damoiselles d’Avignon, con quella loro “prospettiva spaccata, frantumata in volumi … incidenti l’uno nell’altro” è la prima manifestazione della nuova estetica di Picasso. Picasso, dunque, ispirato da Poincaré e dalle sue teorie sull’universo non euclideo? “Le radici
della scienza – sostiene Miller – non sono solo nella scienza. Perché le radici del Cubismo dovrebbero essere solo nell’arte? Potrebbe essere, ma ne dubito. C’è troppa scienza in ciò che Picasso va facendo”. Un prova di questa presenza della scienza tra le muse ispiratrici del giovane pittore spagnolo – sostiene Miller – sta nel fatto che egli acquisisce una certa consuetudine con gli spazi non euclidei e con gli spazi a più di tre dimensioni ispirandosi, nella sua ricerca di geometrizzazione delle forme a Esprit Jouffret, che nel 1903 aveva scritto un Traité élémentaire de géométrie à quatre dimensions, in cui viene spiegato come riprodurre su un piano bidimensionale (il piano della tela del pittore) oggetti a più di tre dimensioni. Tiriamo, dunque, qualche conclusione. Tra scienza e arte, tra tutte le diverse dimensioni della cultura umana, esiste un processo incessante di osmosi. Talvolta il flusso di comunicazione è esplicito e visibile. Nel caso di Picasso, grazie agli studi di Arthur I. Miller, questo flusso, dalla scienza all’arte, emerge finalmente alla luce. Molto più spesso, però, il flusso di concetti, idee, immagini, metafore – il flusso comunicativo, insomma – consiste, per dirla con Eugenio Montale, in un pellegrinaggio oscuro e irrisolvibile. Ma non per questo meno potente. Nell’ultimo secolo, dopo Einstein e dopo Picasso, la nostra visione dello spazio è senza dubbio cambiata. Tutti noi “sentiamo” in qualche modo che non viviamo in uno spazio assoluto, ma in uno spazio relativistico. Questa sensazione quasi sempre è poco lucida. Raramente si fonda su solidi argomenti e quasi mai su una piena comprensione
scientifica della meccanica relativistica. Eppure esiste. L’uomo del ‘900 ha una concezione dello spazio diversa da quella che hanno avuto gli uomini nelle età precedenti. E, allora, viene da chiedersi chi e attraverso quali pellegrinaggi culturali, più o meno oscuri, più o meno irrisolvibili, abbia contribuito di più a rimodellare la percezione dello spazio e l’acquisizione di una concezione, sia pure rudimentale, dell’universo relativistico di noi tutti, gente comune: Les Damoiselles d’Avignon o la Elektrodynamik bewegter Körper? Albert Einstein o Pablo Picasso? La scienza o l’arte? Naturalmente queste domande non ammettono una risposta netta. Il pellegrinaggio di metafore, immagini, idee, visoni del mondo che rimbalzano dall’arte alla scienza forma un ordito, appunto, irrisolvibile. Ma questo ordito irrisolvibile ci attraversa incessantemente, contribuendo a formare la nostra visione scientifica del mondo (e la nostra visione del mondo tout court). Certo, come rileva Montale, in maniera più oscura ma spesso in maniera ben più potente della comunicazione diretta ed esplicita della scienza
The russell-einsTein manifesTo London, 9 July 1955 Nella tragica situazione che l’umanità si trova a fronteggiare, pensiamo che gli scienziati debbano incontrarsi in una conferenza unitaria per valutare i pericoli scaturiti dallo sviluppo di armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione ispirata alla bozza in appendice. In questa occasione parliamo non come membri di una nazione, di un continente o di una fede, ma come esseri umani, membri della specie umana, la cui futura esistenza è messa in pericolo. Il mondo è pieno di conflitti; e, davanti a tutti i conflitti minori, c’è la lotta titanica tra comunismo e anticomunismo. Pressoché ogni persona con una coscienza politica è coinvolta emotivamente nelle questioni che ciò pone, ma noi vi chiediamo di metter da parte, se potete, tali sentimenti e considerarvi unicamente come membri di una specie biologica che ha avuto una storia importante e che nessuno di noi può desiderare
che scompaia. Cercheremo di non dire neanche una parola che avvantaggi una parte rispetto all’altra. Tutti allo stesso pari sono in pericolo e, se questo pericolo sarà compreso, c’è la speranza che possa essere congiuntamente evitato. Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a chiederci non quali passi è possibile compiere per dare la vittoria militare alla parte che preferiamo, qualunque essa sia, perché non ci sono più passi del genere; la domanda che dobbiamo porci è: quali passi possono essere compiuti per impedire un confronto militare il cui esito sarebbe disastroso per tutti i contendenti? L’opinione pubblica, al pari di molte autorità, non si è resa conto di quali sarebbero le conseguenze di una guerra con bombe nucleari. L’opinione pubblica pensa ancora nei termini della cancellazione di città: si crede che le nuove bombe siano più potenti delle vecchie e che, mentre una bomba A poteva cancellare Hiroshima, una bomba H potrebbe sterminare la popolazione delle città più grandi, come Londra, New York e Mosca. È fuor di dubbio che, in una guerra con bombe H, le grandi città verrebbero cancellate. Ma questo è soltanto uno dei disastri minori tra quelli ai quali si andrebbe incontro. Se tutta la popolazione di Londra, New York e Mosca venisse sterminata, il mondo potrebbe pur sempre, nel giro di qualche secolo, riprendersi dal colpo. Ormai, sappiamo invece, specie dopo l’esperimento di Bikini, che le bombe nucleari possono arrivare a seminare distruzione su un’area ben più vasta di quanto si supponeva prima. È stato dichiarato da fonte sicuramente autorevole che oggi è possibile produrre una bomba 2500 volte più potente di quella che distrusse Hiroshima. Una bomba simile, che esploda vicino al suolo o sott’acqua, diffonde particelle
radioattive negli strati superiori dell’atmosfera. Queste particelle poi ricadono, raggiungendo la superficie terrestre sotto forma di polveri o di pioggia letali. Sono state queste polveri a contaminare i pescatori giapponesi e a contaminare i pesci che prendevano. Nessuno sa quanto queste letali particelle radioattive possano essersi diffuse, ma i maggiori esperti sono unanimi nell’affermare che una guerra combattuta con bombe H potrebbe porre fine alla specie umana. Il timore è che, se verranno impiegate numerose bombe H, ne seguirà una morte universale, immediata solo per una minoranza, mentre alla maggioranza delle persone sarebbe riservata una lenta tortura, fatta di malattia e disfacimento. Molti ammonimenti sono stati pronunciati da personalità eminenti della scienza e da esperti di strategia militare. Nessuno di loro dirà che i peggiori risultati sono una certezza. Ciò che si limitano a dire è che tali risultati sono possibili, anche se nessuno può escludere che essi si verificheranno. Non ci risulta che le vedute degli esperti in materia dipendano in qualche misura dalle loro idee politiche e dai loro pregiudizi. Esse dipendono soltanto, per quanto ci hanno rivelato le nostre ricerche, dall’ampiezza delle conoscenze del singolo esperto. Abbiamo riscontrato che coloro i quali ne sanno di più, sono i più pessimisti. Ecco dunque il problema che vi presentiamo, crudo, terribile e inevitabile: dovremo porre fine alla specie umana oppure l’umanità dovrà rinunciare alla guerra? Non si vuole affrontare questa alternativa perché è così difficile abolire la guerra. L’abolizione della guerra richiederà sgradite limitazioni alla sovranità nazionale. Tuttavia, ciò che forse più di ogni altra cosa impedisce di
capire la situazione è il fatto che il termine “umanità” pare vago e astratto. La gente stenta a rendersi conto, o anche solo a immaginare, che il pericolo riguarda loro, i loro figli e i loro nipoti, e non solo un’indistinta umanità. Si stenta a capire che sono proprio loro, in persona, e i loro cari a trovarsi nell’imminente pericolo di una morte straziante. E così sperano che, in fin dei conti, si possa anche accettare che le guerre continuino purché non si usino le armi moderne. Questa speranza è illusoria. Qualunque fossero gli accordi presi in tempo di pace al fine di non usare le bombe H, questi accordi non sarebbero più considerati vincolanti in tempo di guerra; e i contendenti si metterebbero a fabbricare bombe H non appena scoppiata la guerra, perché, se uno dei due avesse le bombe e l’altro no, chi le avesse risulterebbe inevitabilmente vittorioso sull’altro. Benché un accordo sulla rinuncia alle armi nucleari nel quadro di una riduzione generale degli armamenti non garantisca una soluzione definitiva, esso servirebbe ad alcuni importanti scopi. In primo luogo, ogni accordo fra Est e Ovest è vantaggioso in quanto tende a diminuire le tensioni. In secondo luogo, l’abolizione delle armi termonucleari, se ognuna delle parti fosse convinta della buona fede dell’altra nell’ottemperare a quanto convenuto, ridurrebbe il timore di un attacco improvviso del tipo di Pearl Harbour – timore che attualmente tiene entrambe le parti in uno stato di nervosa apprensione. Dovremmo perciò salutare con soddisfazione un tale accordo, anche se solo come primo passo. La maggior parte di noi non è neutrale nei suoi sentimenti, ma, come esseri umani
dobbiamo ricordare che, se è possibile risolvere le questioni fra Est e Ovest in un qualsiasi modo che soddisfi qualcuno – e qui non importa se è comunista o anticomunista, asiatico o europeo o americano, bianco o nero –, le questioni non devono essere risolte con la guerra. Vorremmo che questo fosse capito sia a Est che a Ovest. Davanti a noi sta, se lo scegliamo, un lungo cammino di benessere, conoscenza e saggezza. Sceglieremo invece la morte perché non riusciamo a dimenticare le nostre controversie? Ci rivolgiamo come esseri umani ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto. Se sarete capaci di farlo, si aprirà la via di un nuovo paradiso; se non ne sarete capaci, davanti a voi sarà il rischio di una morte universale. Risoluzione noi invitiamo questo Congresso e, attraverso esso, gli scienziati di tutto il mondo, al pari delle persone comuni, a sottoscrivere la seguente risoluzione: In considerazione del fatto che in una futura guerra mondiale saranno certamente impiegate armi nucleari e del fatto che tali armi sono una minaccia per la continuazione stessa dell’umanità, esortiamo i governi di tutto il mondo affinché si rendano conto, e riconoscano pubblicamente, che i loro obiettivi non possono essere perseguiti mediante una guerra mondiale, e conseguentemente li esortiamo a cercare mezzi pacifici per la soluzione di tutte le controversie. Max Born Percy W. Bridgman Albert Einstein Leopold Infeld Frederic Joliot-Curie
Herman J. Muller Linus Pauling Cecil F. Powell Joseph Rotblat Bertrand Russell Hideki Yukawa