Michelangelo

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1475 - 1564


Madonna della Scala (ca 1492)


Battaglia dei Centauri (c. 1492)


Crocifissione (c. 1494)


Apollo del Belvedere, copia in marmo di età adrianea, da presunto bronzo di Leocare (IV sec. a. C.), altezza cm. 210, Roma, Musei Vaticani, Cortile Ottagono


Laocoonte, copia romana da opera in bronzo di Hagesandros, Athenedoros e Polydoros, III sec. a.C., marmo, altezza cm 242, Roma, Musei Vaticani, Cortile Ottagono; ritrovato sul Colle Esquilino a Roma nel 1506


Torso del Belvedere, I sec. a.C. marmo, altezza cm159, ROMA, Museo Pio Clementino


Bacco Marmo, h.cm 195. L'opera fu scolpita a Roma, nel 1496, per il collezionista Jacopo Galli. Firenze Bargello



Pietà del Vaticano (1499)








David, marmo, h.cm 420. L'opera, eseguita nel 1501-1504, prima commissione civica per il giovane Michelangelo, era destinata ad essere posta davanti a Palazzo della Signoria e diventare il simbolo della repubblica fiorentina.


Non ha l'ottimo artista alcun concetto c'un marmo solo in sÊ non circonscriva col suo superchio, e solo a quello arriva la man che ubbidisce all'intelletto. [‌ ] Rime 151







Madonna di Bruges (1501-04)


Tondo Pitti – La Vergine e il Bambino con il piccolo San Giovanni 1503-1504. Bassorileivo, marmo Museo Nazionale, Bargello, Firenze


Michelangelo. Tondo Taddei. 1503-1504. Bassorilievo, marmo Royal Academy of Arts, Londra


Tondo Doni, La Santa Famiglia, (1503-05)


San Matteo, 1505 ca


La Volta della Cappella Sistina, 1508-1512


VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA

Storie della Genesi Sibille e Profeti

Antenati di Cristo Episodi Antico Testamento








La creazione di Adamo







Il peccato originale



Il diluvio universale



La Sibilla Eritrea


La Sibilla Delfica


La Sibilla Libica


La Sibilla Cumana


Il profeta Gioele


Il Profeta Zaccaria


Gli Ignudi





Lo Schiavo morente, 1513 ca, Louvre, Parigi


Lo Schiavo ribelle, 1513 ca, Louvre, Parigi


Mosè (c. 1515)




Tomba di Papa Giulio II, terminata nel 1452 - 45, Marmo, Roma, S. Pietro in Vincoli


INGRESSO VESTIBOLO CON SCALA

BIBLIOTECA

Biblioteca Laurenziana, 1524-34



Vestibolo con la scala che sale alla Biblioteca





Particolare del vestibolo




La sala della Biblioteca




La Sagrestia Nuova di S. Lorenzo, 1524-34



Tomba di Giuliano de' Medici, duca di Nemours (1524-34)






El Dì e la Notte parlano, e dicono: Noi abbiàno col nostro veloce corso condotto alla morte el duca Giuliano; è ben giusto che e' ne facci vendetta come fa. E la vendetta è questa: che avendo noi morto lui, lui così morto ha tolta la luce a noi e cogli occhi chiusi ha serrato e' nostri, che non risplendon più sopra la terra. Che arrebbe di noi dunche fatto, mentre vivea? Rime 14




Tomba di Lorenzo de' Medici, duca d’Urbino (1524-34)









Prigioni, Atlante, 1527-28


Prigioni, Atlante, 1527-28


Prigioni, Schiavo, 1527-28


Prigioni, Schiavo, 1527-28


Prigioni, Schiavo, 1527-28




Vittoria, 1532-34


Il Giudizio Universale, Cappella Sistina, 1534-41













La conversione di San Paolo, 1542-45, affresco, Roma, Vaticano, Cappella Paolina



La crocifissione di San Pietro, 1542-50, affresco, Roma, Vaticano, Cappella Paolina


Progetto di sistemazione della Piazza del Campidoglio, Roma, 1538-1564



Piazza del Campidoglio, Palazzo dei Senatori, Roma, 1538-1564


Piazza del Campidoglio, Palazzo dei Conservatori, 1538-1564, Roma


Cupola di San Pietro, 1557-58





Pietà, 1550-1555, Firenze, Museo Opera del Duomo







Pietà Rondanini, 1552-1564






Giunto è già ‘l corso della vita mia Con tempestoso mar, per fragil barca Al comun porto, ov’a render si varca Conto e ragion d’ogni opra trista e pia. Onde l’affettuosa fantasia

Che l’arte mi fece idolo e monarca, Conosco or ben com’era d’error carca, E quel ch’a mal suo grado ogni uom desia. Gli amorosi pensier, già vani e lieti, Che fian or, s’a due morti m’avvicino? D’una son certo, e l’altra mi minaccia. Né pinger né scolpir fia più che quieti L’anima volta a quell’amor divino, Ch’aperse a prender noi ‘n croce le braccia. Rime, 147


Gl'infiniti pensier mie’ d'error pieni, negli ultim'anni della vita mia, ristringer si dovrien 'n un sol che sia guida agli etterni suo giorni sereni.

Ma che poss'io, Signor, s'a me non vieni coll'usata ineffabil cortesia? Rime, 286

Marcello Venusti. Ritratto di Michelangelo al tempo della decorazione della Volta della Cappella Sistina.1504-1506. olio su tavola. Galleria degli Uffizi, Firenze



Chroniques italiennes web 23 (2/2012)

LE RIME SPIRITUALI DI MICHELANGELO E GLI AFFRESCHI DELLA CAPPELLA PAOLINA : CANGIAR SORTE PER SOL POTER DIVINO

La poesia di Michelangelo (1475-1564), riscoperta dopo circa due secoli d’oblìo grazie ad un celebre saggio di Ugo Foscolo, ma criticamente studiata solo a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, riceve oggi un’attenzione periferica, tanto nel panorama della letteratura italiana, che nella vasta e complessa opera dell’artista1. Curiosamente, però, nel Cinquecento, al mito dell’artista contribuì anche la sua attività letteraria, o meglio la sua abilità a comporre rime in lingua volgare, come attestato dagli elogi di diversi letterati dell’epoca, nonché dalla sua cerimonia funebre in San Lorenzo, per la quale erano stati ideati un dipinto con Michelangelo incoronato poeta da Apollo, ed una statua a grandezza naturale della Poesia seduta2. Ma se il Buonarroti morὶ avendo visto stampato solo un numero 1

UGO FOSCOLO, « Rime di Michelangelo Buonarroti », in Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, Firenze, Le Monnier, 1953, X, pp. 493-508. Il rinnovato interesse per la poesia di Michelangelo è fiorito in seguito all’edizione critica laterziana a cura di Enzo Noè Girardi, Michelangelo. Rime, Bari, Laterza, 1960. In merito alle edizioni che sono poi seguite, nonché agli studi sulla poesia del Buonarroti, rimando al regesto Michelangelo Buonarroti, Selezione bibliografica a partire dal 1971, a cura di ANTONIO CORSARO e SIMONE DUBROVIC, Cinquecento plurale, in www.nuovorinascimento.org (aggiornato al 13 marzo 2011). In questo articolo l’edizione di riferimento sarà Michelangelo. Rime, a cura di Matteo Residori, Milano, Oscar Mondadori, 1998. 2 Esequie del diuino Michelagnolo Buonarroti celebrate in Firenze dall’Accademia de’Pittori, Scultori, & Architettori. Nella Chiesa di S. Lorenzo il di 28. Giugno MDLXIIII, Firenze, Giunti, 1564. Per la testimonianza di un Michelangelo poeta integrata pienamente


2 A. MORONCINI

esiguo delle sue rime, a cosa si deve tale onore lirico3 ? E, soprattutto, può la poesia di Michelangelo, nonché il dialogo poetico ch’egli intrecciò con eminenti figure dell’élite culturale e religiosa del tempo, essere d’ausilio ad una più fedele comprensione della sua opera scultorea e pittorica ? Domande che hanno dato spunto alla riflessione di questo articolo, sebbene i limiti d’analisi siano stati circoscritti ad una lettura in versi dei soli affreschi paolini (1542-50), nondimeno preceduta da alcune considerazioni sul cosiddetto “canzoniere” dell’artista, e sulla sua attività poetica tra Riforma e Concilio. Poche pagine, certo, non riescono che modestamente ad investigare un tema di ricerca così complesso qual è lo studio della poesia e della religiosità di Michelangelo, tuttavia saranno sufficienti a contribuire alla discussione sull’inquieta spiritualità e il singolare language of art di una tra le personalità più rappresentative di un’epoca dominata dal genio4. Il Canzoniere di Michelangelo: un dibattito ancora acceso Nella Vita di Michelagnolo Buonarroti, apparsa nel 1553 per mano del fedele assistente Ascanio Condivi, leggiamo : Spero tra poco tempo dar fuore alcuni suoi sonetti e madrigali, quali io con lungo tempo ho raccolti sì da lui sì da altri, e questo per dar saggio al

nella mitografia del personaggio, rimando a ANTONIO CORSARO, « Michelangelo e i letterati », in Officine del nuovo. Sodalizi fra letterati, artisti ed editori nella cultura italiana tra Riforma e Controriforma, a cura di Herald Hendrix e Paolo Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli, 2008, pp. 383-425. 3 Per approfondimenti sui componimenti poetici michelangioleschi che uscirono in stampa nel Cinquecento, rimando alla citata edizione delle Rime a c. E.N. Girardi, pp. 499-500. 4 In merito al linguaggio artistico di Michelangelo rimane esaustivo, ma pur sempre datato, il volume di DAVID SUMMERS, Michelangelo and the Language of Art, Princeton, Princeton University Press, 1981. Recenti studi di rilievo sono stati proposti da ALEXANDER NAGEL, Michelangelo and the Reform of Art, Cambridge, Cambridge University, 2000, e da ANTONIO FORCELLINO, Michelangelo Buonarroti. Storia di una passione eretica, Torino, Einaudi, 2002, e ID. Michelangelo. Una vita inquieta, Bari, Laterza, 2005. Per la cultura neoplatonica di Michelangelo, si veda ERWIN PANOFSKY, « Il movimento neoplatonico e Michelangelo», in Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento (1939), Torino, Einaudi, 1999, pp. 236-319; si veda altresὶ EUGENIO GARIN, « Michelangelo platonico », in Michelangelo Artista, Pensatore e Scrittore, Novara, De Agostini, 1996, pp. 531-34.


3 Le rime spirituali di Michelangelo e gli affreschi della Cappella Paolina

mondo quanto nell’invenzione vaglia e quanti bei concetti naschino da quel divino spirito5.

Una prima raccolta dei « bei concetti » michelangioleschi uscὶ in stampa solo nel 1623, grazie all’interesse del pronipote dell’artista, Michelagelo Buonarroti il Giovane6. Per quest’edizione, tuttavia, che comprendeva meno della metà del corpus lirico buonarrotiano, furono operati emandamenti e correzioni, affinché l’immagine di Michelangelo poeta risultasse linguisticamente più raffinata e contenutisticamente più conforme al clima della Controriforma. Emblematica, ad esempio, fu la revisione dei versi 3-4 del frammento 32 («mie ben dal ciel, mie mal da me m’è dato\ dal mie sciolto voler, di ch’io son privo »), « che dopo il Concilio di Trento potevano facilmente prestarsi ad un’accusa di luteranesimo »7. L’edizione completa e conforme ai manoscritti michelangioleschi fu curata e pubblicata da Cesare Guasti nel 18638. Seguì poi, nel 1897, quella curata dal filologo tedesco Carl Frey, il quale utilizzò manoscritti autografi e apografi delle rime, allestendo anche apparati di varianti9. Va comunque attribuito all’italianista Enzo Noè Girardi il merito di aver ristabilito la più probabile struttura cronologica dell’attività poetica michelangiolesca, presentando accuratamente le diverse varianti di lezione pervenuteci. Ciò che in questa breve ricostruzione del percorso editoriale michelangiolesco preme sottolineare è che grazie al lavoro di Carl Frey siamo oggi a conoscenza di una raccolta d’autore da interpretarsi come un progetto di canzoniere allestito tra il 1542 e il 1546. Frey individuò infatti nel vasto corpo lirico del Buonarroti un limitato numero di testi di materia amorosa, precisamente 89 componimenti, ordinati dialetticamente tra una figura convenzionale di donna bella e crudele ed un’altra riconosciuta come guida spirituale del 5

ASCANIO CONDIVI, Vita di Michelagnolo Buonarroti, Firenze, Studio per Edizioni Scelte, 1998, p. 66. Per i rapporti dell’artista con i suoi primi biografi, si veda MICHAEL HIRST, « Michelangelo e i suoi primi biografi », in Tre saggi su Michelangelo, Firenze, Mandragora, 2004, pp. 31-57. 6 Rime di Michelagnolo Buonarroti. Raccolte da Michelagnolo suo nipote, Firenze, Giunti, 1623. 7 ENZO NOÈ GIRARDI, Michelangelo scrittore, Firenze, Olschki, 1974, pp. 79-95, p. 87. 8 Le rime di Michelangelo Buonarroti, pittore, scultore e architetto, cavate dagli autografi e pubblicate da Cesare Guasti accademico della Crusca, a cura di Cesare Guasti, Firenze, Le Monnier, 1863. 9 Die Dichtungen des Michelagniolo Buonarroti, a cura di Carl Frey, Berlin, G. Grote, 1897.


4 A. MORONCINI

soggetto innamorato. È stato ipotizzato che la pubblicazione a stampa di questa silloge non sia andata in porto a causa dell’improvvisa morte di Luigi del Riccio, che insieme a Donato Gianotti collaborò al progetto michelangiolesco. Il fatto però che il copioso carteggio del Buonarroti non faccia alcun riferimento a questa intenzione editoriale, e che la dissoluzione del progetto sia vicina anche alla morte di Vittoria Colonna (1490-1547), musa spirituale della lirica michelangiolesca, e probabile destinataria della seconda parte dei testi della raccolta, potrebbe suggerire che questo presunto canzoniere fosse stato ideato in vista di un omaggio alla Colonna, contraccambiando così il dono del manoscritto che la poetessa fece avere all’artista intorno al 154010. Nonostante questo progetto d’edizione a stampa sia tutt’altro che una certezza, è interessante che per questo suo allestimento lirico Michelangelo preferì il madrigale, anziché il sonetto, scelto solo per tredici testi. Una scelta che in termini metrici, in pieno Cinquecento, risulterebbe per così dire eterodossa, ma che troverebbe spiegazione nel bisogno buonarrotiano di aver la maggior libertà espressiva possibile, sintomo di quell’insofferenza ad aderire rigidamente a correnti o modelli contemporanei. Una scelta metrica, dunque, da intendersi come «segno certissimo di una lirica legata strettamente all’individualità dell’autore»11, ed il cui valore intendeva esser considerato in una ristretta comunità di amici e letterati dalla stessa affinità morale e spirituale. Ma cosa si apprezzò nel Cinquecento nei versi del Buonarroti ?

10

Si veda ROBERTO FEDI, « Il Canzoniere (1546) di Michelangelo », in La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Roma, Salerno Editrice, 1990, pp. 264-305. Si veda altresὶ l’edizione Michelangelo. Rime, a cura di Stefania Fanelli, Milano, Garzanti, 2006. Per approfondimenti filologici e proposte di lettura, rimando agli studi di ANTONIO CORSARO, « Intorno alle rime di Michelangelo Buonarroti. La silloge del 1546 », Giornale Storico della Letteratura Italiana, 2008, 185, 612, pp. 536-69; CLAUDIO SCARPATI, « Michelangelo poeta dal ‘Canzoniere’ alle rime spirituali », in Invenzione e scrittura. Saggi di letteratura italiana, Milano, Vita e Pensiero, 2005, pp. 101-128, e JOSEPH FRANCESE, « Michelangelo’s Canzoniere. Politics and poetry », in The Craft and the Fury. Essays in Memory of Glauco Cambon, West Lafayette, Bordighera Press, 2000, pp. 138-153. Per il dono manoscritto di Vittoria Colonna a Michelangelo, si vedano Vittoria Colonna. Sonnets for Michelangelo, a cura di Abigail Brundin, Chicago, The University of Chicago Press, 2005, e CLAUDIO SCARPATI, « Le rime spirituali di Vittoria Colonna nel codice Vaticano donato a Michelangelo », in Invenzione e scrittura, cit. pp. 129-162. 11 Fedi, op. cit., p. 290; si veda altresì GIRARDI, Michelangelo scrittore, cit., pp. 57-77.


5 Le rime spirituali di Michelangelo e gli affreschi della Cappella Paolina

Francesco Berni e le « cose » della poesia di Michelangelo: alcune considerazioni Il primo documento che attesti un giudizio formulato nel Cinquecento su Michelangelo poeta fu un elogio, diventato poi celebre, del letterato fiorentino Francesco Berni alle « cose » delle rime del Buonarroti: Ho visto qualche sua composizione: sono ignorante, e pur direi d’avelle lette tutte nel mezzo di Platone. Si ch’egli è nuovo Apollo e nuovo Apelle: tacete unquanco, pallide vïole, e liquidi cristalli e fere snelle: ei dice cose, e voi dite parole; (LXV, 25-31) 12

Questi versi apparvero in un capitolo in forma di lettera inviato nei primi mesi del 1534 al pittore Sebastiano del Piombo, amico di Michelangelo, nonché partecipe privilegiato, insieme a Benedetto Varchi e a Donato Giannotti, della selettiva divulgazione manoscritta delle rime michelangiolesche. Interpretando l’elogio del Berni nel contesto del suo Dialogo contra i poeti (1526), lungi dall’intendere questa lode in chiave antipetrarchista, giacché da Dante e da Petrarca il Buonarroti attinse più largamente che ad altre fonti della lirica toscana, vi si può scorgere una definizione delle qualità poetiche di Michelangelo: l’aver fondato la sua lirica su « cose » capaci di sostituire alle vuote parole degli imitatori di Petrarca una realtà amorosa e spirituale vissuta con sensibilità religiosa13.

12

FRANCESCO BERNI, Rime e lettere, Firenze, Barbera Editore, 1863, p. 40. Si vedano ANTONIO CORSARO, Il poeta e l’eretico: Francesco Berni e il ‘Dialogo contro i poeti’, Firenze, Le lettere, 1988, e ID. « Michelangelo e i letterati », cit., p. 393. Per proposte d’interpretazione riguardo alle « cose » riconosciute dal Berni nella poesia di Michelangelo, rimando a MATTEO RESIDORI, « Sulla corrispondenza poetica tra Berni e Michelangelo (senza dimenticare Sebastiano del Piombo) », in Les années trente du XVIe siècle italien, Actes du Colloque International (Parigi, 2-5 Giugno 2004), a cura di Danielle Boillet et Michel Plaisance, Parigi, C.I.R.R.I., 2007, pp. 207-24; nonché a GIANFRANCO CONTINI, « Il senso delle cose nella poesia di Michelangelo » (1937), ora con il titolo « Una lettura su Michelangelo », in ID., Esercizi di lettura, Torino, Einaudi, 1974, pp. 242–58, e a GIRARDI, Michelangelo scrittore, cit., pp. 180-81. 13


6 A. MORONCINI

Non per niente, prima dell’apostrofe ai moderni versaggiatori amanti del « bello stile », il Berni scrive: Poi voi sapete quanto egli è dabbene, Com’ ha giudizio, ingegno e discrezione, Come conosce il vero, il bello e il bene.

(LXV, 22-24)

Francesco Berni, non va dimenticato, era stato segretario del datario apostolico Gian Matteo Giberti, con il quale aveva condiviso il sentimento della necessità di un rinnovamento della Chiesa e di una più fedele osservanza alla parola di Cristo. Come l’italianista Antonio Corsaro ha a più riprese sottolineato, lo stesso Dialogo contra i poeti, pubblicato anonimo due anni prima del Ciceronianus di Erasmo, dietro la veste irridente e paradossale, di fatto condannava quei poeti dediti ad una poesia pagana e contraria al messaggio cristiano14. L’elogio del Berni alle «cose » della poesia di Michelangelo appare dunque particolarmente istruttivo se contestualizzato nel clima religioso dell’epoca. Danilo Romei difatti scrive: Rivendicando perentoriamente il primato delle res sui verba, il Berni significava non un anacronistico (ottocentesco) realismo, bensì anzitutto la profonda serietà di un impegno etico e di una compromissione sentimentale, che certo non faceva difetto alla poesia michelangiolesca e che, anzi, doveva essere rassodata dalla frequentazione di quegli stessi circoli evangelici e riformisti (o almeno rigoristi) cui andava non meno l’appassionata attenzione del Berni15.

Considerando che siamo in anni di Riforma in attesa di un Concilio, e che proprio agli anni ’30 risalgono le frequentazioni del Berni con personaggi illustri di ambienti riformati, tra cui Pietro Carnesecchi e Marcantonio Flaminio, allora le « cose » apprezzate dal letterato fiorentino 14

ANTONIO CORSARO, « Gli spazi e gli interventi dei letterati fra la Riforma e il Concilio », in Il Rinascimento italiano di fronte alla Riforma: Letteratura e Arte, (Atti del Colloquio internazionale, Londra, The Warburg Institute, 30\31 Gennaio 2004), a cura di Chrysa Damianaki, Paolo Procaccioli e Angelo Romano, Roma, Vecchiarelli Editore, 2005, pp. 3-29 (p. 7-8); nonché ID., « Aspetti della cultura ariostesca (Note di commento intorno alla satira sesta) », in Fra satire e rime ariostesche, a cura di Claudia Berra, Milano, Cisalpino, 2000, pp. 135-63, e ID., « Francesco Berni e la cultura del primo Cinquecento », Nuovo Rinascimento. Banca Dati Telematica, Saggi, http:// www.nuovorinascimento.org, (immesso in rete l’8 gennaio 1998; nuovo formato del 13 agosto 2009). 15 DANILO ROMEI, Berni e berneschi del Cinquecento, Firenze: Centro 2P, 1984, p. 143.


7 Le rime spirituali di Michelangelo e gli affreschi della Cappella Paolina

nella lirica di Michelangelo potrebbero plausibilmente riferirsi anche ai grandi temi teologici della libertà e del peccato ; della natura umana corrotta e della potenza liberatrice della grazia. Concetti che nelle rime del Buonarroti appaiono già a partire dalla seconda metà degli anni ’20, come dal frammento 32 precedentemente considerato; ma più insinstemente dagli anni ’30, come dal sonetto Forse perché d’altrui pietà mi vegna: O carne, o sangue, o legno, o doglia strema giusto per vo’ si facci el mie peccato di ch’i’ pur nacqui, e tal fu’l padre mio.

(66, 9-11)16

Anche nelle celebri rime neoplatoniche scritte per Tommaso Cavalieri intorno al 1533 trasparirebbe un sentimento di giustificazione per sola fede, per quella connotazione di servo arbitrio assegnata al carcer terreno, come si evincerebbe dal sonetto sotto riportato, del tutto consono alla riflessione filosofico-religiosa del primo Cinquecento, che vedeva sempre più emergere una teoria della giustificazione dalle forti coloriture platoniche17 : Se nel volto per gli occhi il cor si vede, altro segno non ho più manifesto della mie fiamma; adunche basti or questo, signor mie caro, a domandar mercede. Forse lo spirito tuo, con maggior fede ch’io non credo, che sguarda il foco onesto che m’arde, fie di me pietoso e presto, come grazia c’abbonda a chi ben chiede. O felice quel dὶ, se questo è certo! 16

Si vedano altresὶ la sestina incompiuta 33 (13-14; 19-22) e la canzone 51. Si vedano gli studi di ANNA MARIA VOCI, « Marsilio Ficino ed Egidio da Viterbo », in Marsilio Ficino e il ritorno di Platone. Studi e documenti, II, a cura di Gian Carlo Garfagnini, Firenze, Olschki, 1986, pp. 477-508, e EAD., « Idea di contemplazione ed eremitismo in Egidio da Viterbo », in Egidio da Viterbo, O. S. A. e il suo tempo, Atti del V Convegno dell’Istituto storico Agostiniano, Roma - Viterbo, 20-23 ottobre 1982, Roma, Ed. “Analecta Augustiniana”, 1983, pp. 107-16. Si veda altresὶ CONCETTA RANIERI, « Imprestiti platonici nella formazione religiosa di Vittoria Colonna », in Presenze eterodosse nel Viterbese tra Quattro e Cinquecento, Atti del Convegno Internazionale, Viterbo, 2-3 dicembre 1996, a cura di Vincenzo De Caprio e Concetta Ranieri, Roma, Archivio Guido Izzi, 2000, pp. 193-212. 17


8 A. MORONCINI

Fermisi in un momento il tempo e l’ore, il giorno e ’l sol nella su’ antica traccia; acciò ch’ i’abbi, e non già per mio merto, il desïato mie dolce signore per sempre nell’indegne e pronte braccia.

(72)18

Nonostante l’esplicita valenza erotica del sonetto, emergerebbe da questi versi un sentire religioso non discorde da quello poi liricizzato in componimenti per Vittoria Colonna, la poetessa che aveva elevato il petrarchismo a veicolo previlegiato di celebrazione dei meriti di Cristo, e a cui Michelangelo fu legato fin dal 1536 da « una stabile amicitia et ligata in cristiano nodo sicurissima affectione »19. Il madrigale seguente varrà da esempio : Per qual mordace lima discresce e manca ognor tuo staca spoglia, anima inferma? or quando fie ti scioglia da quella il tempo, e torni ov’eri, in cielo, candida e lieta prima, deposto il periglioso e mortal velo? [...] Signor, nell’ore streme, stendi ver’ me le tuo pietose braccia, tom’a me stesso e famm’um che ti piaccia.

(161, 1-6; 15-17)

Invero, il dialogo poetico che il Buonarroti intrattenne con la Colonna non può comprendersi se non nel discorso teologico della Riforma20. 18

Il corsivo dei versi è mio. In merito a plausibili connotazioni di servo arbitrio presenti nei componimenti d’ispirazione neoplatonica dedicati al Cavalieri, si vedano altresὶ le rime 89 (3-5) e 106 (1-4; 12-14). 19 Da una lettera di Vittoria Colonna a Michelangelo in Il Carteggio di Vittoria Colonna, a cura di Ermanno Ferrero e Giuseppe Müller, Torino, Loescher, 1892, p. 268. Per approfondimenti sulla figura poetica e religiosa di Vittoria Colonna, rimando a ABIGAIL BRUNDIN, Vittoria Colonna and the Spiritual Poetics of the Italian Reformation, Aldershot, Ashgate, 2008, nonché a RANIERI, « Imprestiti platonici nella formazione religiosa di Vittoria Colonna », cit., e EAD. « Vittoria Colonna e la Riforma: alcune osservazioni critiche », Studi latini e italiani, VI, 1992, pp. 87-96. Si veda altresὶ CARLO DE FREDE, « Vittoria Colonna e il suo processo inquisitoriale postumo », Atti dell’Accademia Pontaniana, 37, 1988, pp. 251-83. 20 Si vedano gli studi di AMBRA MORONCINI, « La poesia di Michelangelo : un cammino spirituale tra Neoplatonismo e Riforma », The Italianist, 30, 3, 2010, pp. 352–73, e EAD.


9 Le rime spirituali di Michelangelo e gli affreschi della Cappella Paolina

Ancor più istruttiva, comunque, appare la sirma di un sonetto datato dal Girardi tra il 1533-1534, contemporaneo dunque all’elogio del Berni: Squarcia ’l vel tu, Signor, rompi quel muro che con la suo durezza ne ritarda il sol della tuo luce, al mondo spenta! Manda ’l preditto lume a nnoi venturo, alla tuo bella sposa, acciò ch’io arda il cor senz’alcun dubbio, e te sol senta.

(87, 9-14)

Assolutamente interessante è in questi versi l’associazione del sintagma nominale preditto lume con quello verbale te sol senta, che rivelerebbe l’adesione michelangiolesca a quella stessa sensibilità religiosa paolina che proprio in quegli anni veniva estremizzata dal credo luterano21. Non meno significativo sarebbe il contesto evangelico dell’allegoria del matrimonio dell’anima con Cristo - allegoria che in seguito a La libertà del cristiano (1520) di Lutero divenne il fondamento della dottrina della giustificazione gratuita per i meriti di Cristo, come si evince dagli scritti di Juan de Valdés e dei principali protagonisti del cosiddetto Evangelismo italiano, meglio conosciuti come Spirituali22.

« I disegni di Michelangelo per Vittoria Colonna e la poesia del Beneficio di Cristo », Italian Studies, 64, 1, 2009, pp. 38–55. Si veda altresì EMIDIO CAMPI, Michelangelo e Vittoria Colonna. Un dialogo artistico-teologico ispirato da Bernardino Ochino, e altri saggi di storia della Riforma, Torino, Claudiana, 1994. 21 Cfr. GLAUCO CAMBON, La poesia di Michelangelo. Furia della figura, Torino, Einaudi, 1991, p. 50. Si veda altresὶ CARLO OSSOLA, « Michel-Ange: l’idée et la grace », in Michelangelo poeta e artista. Atti della Giornata di studi (21 Gennaio 2005), a cura di Paolo Grossi e Matteo Residori, Paris, Quaderni dell’Hotel de Galliffet, 2005, pp. 125-54 (pp. 129-31). 22 Per approfondimenti riguardo alle influenze spirituali che hanno ispirato questa rima, rimando a MORONCINI, « La poesia di Michelangelo...», cit., pp. 360-363. Su Juan de Valdés e gli Spirituali, rimando a MASSIMO FIRPO, Tra alumbrados e “spirituali”. Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del ‘500 italiano, Firenze, Olschki, 1990, e ID. Dal sacco di Roma all’Inquisizione: studi su Juan De Valdes e la Riforma Italiana, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998. Si vedano altresì SALVATORE CAPONETTO, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino, Claudiana, 1997; SILVANA SEIDEL MENCHI, Erasmo in Italia (1520-1580), Torino, Bollati Boringhieri, 1987, e EAD. « Le traduzioni italiane di Lutero nella prima metà del Cinquecento », Rinascimento, 1997, 17, pp. 31-108.


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Gli affreschi della Cappella Paolina : Li patti che pose fra Dio e gli uomini Gesù Cristo Nostro Signore23 Quanto finora considerato potrà gettar maggior luce sulle innovazioni iconografiche che il Buonarroti introdusse nei suoi due ultimi affreschi per la Cappella Paolina: La Conversione di Saulo e La Crocifissione di Pietro. Cominciati l’anno dopo il Giudizio sistino (1541), condannato già subito perché stimato « un capriccio luterano »24, i due afffreschi per la cappella a quel tempo dedicata alle riunioni del Conclave furono portati a compimento intorno al 1545 e 1550 rispettivamente. Nonostante rimanga ancora oggi un filo d’incertezza riguardo a quale dei due affreschi sia stato eseguito per primo, sembra che la precedenza debba accordarsi alla Conversione di Saulo, la quale appare stilisticamente più vicina al Giudizio. Le due pitture, infatti, si avvicinerebbero straordinariamente per una simile giustapposizione di una scena terrestre ad un evento celeste, e, soprattutto, per una simile dinamicità narrativa. Ma un altro e più significativo elemento avvicinerebbe sensibilmente i due affreschi : l’intensa spiritualità suscitata dall’incontro tra Cristo e Saulo sembra ripetere la drammaticità della rappresentazione tra Cristo e san Bartolomeo nel Giudizio sistino25. Per raggiungere talo scopo, Michelangelo presentò innovativamente nella sua Conversione un Cristo totalmente capovolto e proteso verso il basso, in una posa che sconcertò i contemporanei, come ci è documentato da Andrea Gilio : Però mi pare che Michelagnolo mancasse assai nel Cristo che appare a San Paolo ne la sua conversione; il quale, fuor d’ogni gravità e d’ogni decoro, par che si precipiti dal cielo con atto poco onorato, dovendo fare 23

JUAN DE VALDÉS, Le cento e dieci divine considerazioni, a cura di Teodoro Fanlo y Cortés, Genova- Milano, Marietti, 2004, p. 190. 24 Cfr. ROMEO DE MAIO, Michelangelo e la Controriforma, Roma, Laterza, 1987, p. 22 e pp. 49-50, n. 23. Per una lettura poetica ed una rivalutazione teologica del Giudizio sistino, rimando a AMBRA MORONCINI, « Michelangelo’s Last Judgement: a Lutheran Belief ? », in Beyond Catholicism: Religion, Mysticism and Heresy in Italian Culture. From the Middle Ages to the Present Day, a cura di Fabrizio De Donno e Simon Gilson, New York, Palgrave Studies in Cultural and Intellectual History, di prossima uscita. 25 Cfr. ROBERTO SALVINI, « Michelangelo. La pittura », in Michelangelo Artista, Pensatore e Scrittore, Novara, De Agostini, 1996, pp. 149-276 (pp. 255-56) Si vedano altresὶ LEO STEINBERG, Michelangelo's last paintings: The conversion of St. Paul and The crucifixion of St. Peter in the Cappella Paolina, Vatican Palace, London, Phaidon, 1975, e FORCELLINO, Michelangelo. Una vita inquieta, cit., pp. 321-42, (pp. 328-33).


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quella apparizione con gravità e maestà tale, quale appartiene al Re del cielo e de la terra et ad un figliuolo di Dio26.

Non solo la rappresentazione di Cristo, ma anche la figura di Saulo sembrerebbe poco ortodossa, essendo il futuro apostolo rappresentato come un umile vecchio, e non come un soldato munito delle tradizionali e decorose insegne militari confacenti al suo ruolo di persecutore dei cristiani. In aggiunta, il Buonarroti lo raffigurò già caduto da cavallo ; il che lascerebbe supporre la volontà di enfatizzare l’umiltà della sua condizione nell’accogliere la chiamata del Signore. Adottando una simile rappresentazione sia per Cristo che per Saulo, Michelangelo faceva sì che il centro della narrazione si riassumesse tutto nell’illuminazione di Paolo ad opera di Cristo, finendo così per raffigurare non tanto un evento storico, determinato cioè nello spazio e nel tempo, quanto piuttosto un’esperienza spirituale non esclusivamente propria all’apostolo, ma possibile ad ognuno che per vera fede accetti Cristo27. Questo concetto, come si sa, era il punto centrale del credo oltremontano e, per quanto riguarda l’evangelismo italiano, del Valdés in particolare, il quale già nel Dialogo della dottrina cristiana (1529) aveva scritto che « è necessario che l’intelletto umani si soggioghi e si sottometta all’obbedienza della fede », ispirata nei nostri animi dallo Spirito, « senza il cui favore e grazia nessuno ottiene vita né salvezza eterna »28. Tale pensiero, ripreso anche nell’Alfabeto cristiano (1536)29, fu poi sviluppato nelle Cento e dieci divine considerazioni, pubblicato postumo nel 1550, dove il Valdés parlò della necessità di « una propria e particolar rivelazione di Dio, la quale getti per terra tutti li 26

Giovanni Andrea Gilio, Dialogo nel quale si ragiona degli errori e degli abusi de’ pittori circa l’istorie. Con molte annotazioni fatte sopra il Giudizio di Michelagnolo et altre figure, tanto de la nova, quanto de la Vecchia Capella del Papa. Con la dechiarazione come vogliono essere dipinte le Sacre Imagini, in Trattati d’Arte del Cinquecento, II, a cura di Paola Barocchi, Bari, Laterza, 1961, pp. 5–115, (p. 44). 27 Cfr. SALVINI, op. cit., p. 258, e FORCELLINO, Michelangelo. Una vita inquieta, cit., pp. 331-32. 28 JUAN DE VALDÉS, Il Dialogo della dottrina cristiana, a cura di TEODORO FANLO Y CORTÉS, Torino, Claudiana, 1991, p. 81. 29 JUAN DE VALDÉS, Alfabeto Cristiano, a cura di Massimo Firpo, Torino, Einaudi, 1994. In questo trattato di fede il Valdés affermava chiaramente come l’unica garanzia di salvezza spirituale risiedesse nel « lume sopranaturale » della grazia – definito altresì « lume di fede » o « luce della verità evangelica », contrapposto al « lume naturale della prudentia humana », quest’ultimo inefficace nel processo di giustificazione del peccatore. (pp. 13 - 18, e p. 174).


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discorsi della prudenza umana »30. Che Michelangelo abbia scelto la posizione di Saulo, gettato a terra dalla potente illuminazione divina, per seguire alla lettera l’insegnamento del Valdés? Quest’affresco paolino, va ricordato, fu eseguito proprio negli anni in cui a Roma il magistero valdesiano stava vivendo il suo maggior fervore grazie agli Spirituali di Viterbo; gli stessi anni in cui l’amicizia di Michelangelo con Vittoria Colonna era ormai diventata un rapporto di vera e propria dipendenza spirituale, come testimoniato dal loro dialogo poetico. Invero, le stesse rime spirituali che la Colonna incluse nella raccolta manoscritta donata a Michelangelo intorno al 1540 potrebbero aver ispirato l’intensa spiritualità evocata dal centro narrativo di quest’affresco, come si evincerebbe da alcuni versi, tra i quali i seguenti: Alor l’alta bontà di Dio si stese In parte al mondo, ond’ogni fedel petto Si fe’ più forte a le più acerbe offese; Paulo, Dionisio, ed ogni alto intelletto Si die’ prigione al vero alor ch’intese La mirabil cagion di tanto effetto.

(70, 9-14)31

Ad imitazione dei riformisti transalpini, la Colonna cita l’apostolo Paolo ed il suo discepolo Dionisio come esemplari modelli di conversione cristiana per aver « inteso », catturandola come principio di verità, la « mirabil cagion » dell’« effetto » dell’« alta bontà di Dio ». È evidente in questi versi l’allusione al principio di giustificazione per sola fede, che riscatta l’uomo dalla misera condizione in cui versava prima della chiamata del Signore. Saulo è il nuovo uomo rivestito di fede, non di opere, e dovrebbe essere da esempio a « todos los que entran en la iglesia cristiana », come dal commento valdesiano al Vangelo di Matteo32. Non meno significativo ai fini dell’interpretazione dell’affresco michelangiolesco risulterebbe un altro sonetto incluso anch’esso nella silloge manoscritta donata a Michelangelo intorno al 1540. Qui, la metafora del « celeste ardore » esalta chiaramente il pensiero cardine della 30

JUAN DE VALDÉS, Le cento e dieci divine considerazioni, cit., p. 191. Il corsivo è mio. VITTORIA COLONNA, Sonnets for Michelangelo, cit., pp. 111-12. Si citerà anche in seguito da questa edizione. 32 Si veda JUAN DE VALDÉS, Lo Evangelio di San Matteo, a cura di Carlo Ossola, Roma, Bulzoni, 1985, p. 90. 31


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spiritualità paolina, secondo cui Cristo giustifica colui che « getta le opere delle tenebre e indossa le armi della luce » (Rom. 13, 11-14): Vorrei che sempre un grido alto e possente Risonasse, Giesù, dentro al mio core, E l’opre e le parole anco di fore Mostrasser fede viva e speme ardente. L’anima eletta, che i bei segni sente In se medesma del celeste ardore, Giesù vede, ode e ’ntende, il cui valore Alluma, infiamma, purga, apre la mente, E dal chiamarlo assai fermo e ornato Abito acquista tal, che la natura Per vero cibo suo mai sempre il brama, Onde a l’ultima guerra, a noi sì dura, De l’oste antico, sol di fede armato Già per lungo uso il cor da sé lo chiama.

(34)

Considerando che in una delle rime spirituali michelangiolesche la fede viene definita come « il don de’ doni » (289, 10), allora la scena della conversione di Saulo dovette rivestire agli occhi del Buonarroti un significato del tutto personale. Torna cosὶ a mente quel doloroso appello al « preditto lume » (87, 12) scritto al tempo dell’elogio del Berni ; un sentimento di fatto riproposto altrettanto drammaticamente nel 1547, giustappunto durante l’esecuzione degli affreschi paolini33 : Signor mie caro, i’ te sol chiamo e ‘nvoco contr’a l’inutil mio cieco tormento: tu sol puo’ rinnovarmi fuora e drento

(274, 5-7)

Tenendo presente, infine, la straordinaria somiglianza del viso di Paolo con le sembianze del vecchio ed affaticato Michelangelo, avente invero « lo stesso naso appiattito e la stessa barba biforcuta »34, appare sempre più plausibile che ad ispirare l’innovativo disegno iconografico della

33 34

Cfr. OSSOLA, « Michel-Ange... », cit., pp. 138-46. STEINBERG, op. cit., p. 39.


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Conversione michelangiolesca fosse stato quel vivo desiderio spirituale di « cangiar sorte » per « sol poter divino » (274, 14). Ma passiamo ora al secondo affresco paolino, che ci permetterà di avvalorare il disegno spirituale di Michelangelo. Nella prima edizione de Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Vasari scrisse: Gli fu fatto allogazione d’un’altra cappella, dove sarà il sacramento, detta la Paulina, nella quale dipigne due storie, una di San Pietro, l’altra di San Paulo; l’una, dove Christo dà le chiavi a Pietro, l’altra la terribile Conversione di Paulo35.

Poiché la prima edizione dell’immensa raccolta biografica vasariana fu pubblicata a Firenze nel 1550, a quanto pare secondo il manoscritto già completato a Roma nell’autunno del 1546, si è propensi a giustificare l’errato titolo dell’affresco sull’apostolo Pietro a causa di un cambiamento di programma del Buonarroti. La scena della consegna del simbolo del potere a Pietro, infatti, dovette verosimilmente essere l’altro soggetto richiesto da Paolo III per la Cappella designata alle riunioni del Conclave, in quanto tale principio era fondamentale riaffermare a metà del Cinquecento, quando metà della chiesa occidentale riconosceva nel Papa la figura dell’Anticristo36. La ragione del cambiamento iconografico, o meglio la scelta di rappresentare la crocifissione dell’apostolo, anziché il suo ruolo simbolicamente conferitogli dal magistero cattolico, andrebbe allora ricercata nella volontà michelangiolesca di esprimere la sua ferma convinzione nel potere della fede come unica àncora di salvezza del cristiano. L’idea che questo secondo affresco intedesse continuare il discorso intrapreso nella Conversione di Saulo trova conferma nell’iconografia, ancora del tutto personalizzata, adottata da Michelangelo per rappresentare il martirio di Pietro, dalla cui rappresentazione è assente qualsiasi riferimento alla Roma di Nerone, essendo stato omesso persino l’obelisco del Circo Neroniano, dove la tradizione vuole che l’apostolo sia stato martirizzato. Michelangelo, inoltre, non presentò la croce di Pietro già piantata al suolo, ed in posizione verticale, ma la disegnò in posizione obliqua e sollevata da terra dalle braccia degli esecutori, dando così la 35

Cito da CHARLES DE TOLNAY, Michelangelo. The final period, Princeton, Princeton University Press, 1960, p. 135, n. 2. 36 STEINBERG, op. cit., pp. 44-6.


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dinamica impressione che crocifisso, croce e corpo ruotassero tragicamente, facendo della testa e del fiero sguardo di Pietro il fulcro della composizione. La Leggenda aurea di Jacopo da Varagine, ritenuta la più probabile fonte narrativa dell’affresco37, non solo cita la volontà del martire di essere crocifisso a testa in giù, ma evidenzia la giustizia di Cristo che salva il peccatore : Signore, sempre ho desiderato di imitarti ma non ho osato pretendere di farmi crocifiggerere come te; Tu sei sempre stato giusto ed eccelsa è la tua altezza ma noi siamo figli del primo uomo e figli del suo errore38.

Se è pur vero che Filippo Lippi ebbe per primo l’idea di rappresentare la crocifissione di Pietro non come fatto avvenuto, ma nel suo compiersi, mostrando lo sforzo degli operai a lavoro ed umanizzando la scena secondo il dettato rigoroso dell’umanesimo fiorentino di fine Quattrocento39, è altrettanto indiscutibile che Michelangelo si spinse oltre l’umanizzazione di questa scena. Il fiero sguardo di Pietro, infatti, reso ancora più minaccioso dal rialzarsi della testa, celerebbe un messaggio più profondo. Tenendo presente che questa pittura venne eseguita nella cappella destinata alle riunioni del Conclave, l’intento del Buonarroti non dovette esser stato solo la ricerca del coinvolgimento dello spettatore nella sofferenza di Pietro, quanto piuttosto un ammonimento rivolto ai cardinali che avrebbero eletto il nuovo papa. E se si ricorda che nel 1549, quando Paolo III morì, l’elezione dello “spirituale” Reginald Pole sembrava sicura, ma che per un solo voto non fu concretizzata, non ci si può esimere dal ritenere che il Buonarroti intendesse assegnare a quel soggetto un messaggio del tutto pertinente a quei tempi di crisi religiosa. Osservando il luogo dove l’artista concepì che fosse innalzata la croce di Pietro, ovvero un grosso masso di pietra, si è portati a credere che Michelangelo volle esprimere il più esplicitamente possibile il concetto che Pietro, il primo eletto per fede in Cristo, era « la roccia », il fondamento della Chiesa40. Alla domanda di Gesù « Voi chi dite che io sia ? », Pietro era stato il primo a rispondere con fermezza « sei il Cristo, il Figlio del Dio 37

Ibid. JACOPO DA VARAGINE, Leggenda Aurea, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1990, p. 365. 39 FORCELLINO, Michelangelo. Una vita inquieta, cit., p. 346. 40 STEINBERG, op. cit., p. 50. 38


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vivente » (Mt, 16 : 13-16), al che Gesù avrebbe risposto « Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevaranno contro di essa » (Mt, 16 : 18). Il vangelo di Matteo insegna che seguendo l’esempio dell’apostolo, chiunque avesse ascoltato le parole del Signore e le avesse messe in pratica, avrebbe potuto essere « simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia » (Mt, 7 : 24). Rifiutando l’obelisco di Nerone, dunque, ma scegliendo di edificare la croce di Pietro proprio su una roccia, Michelangelo, non c’è dubbio, volle enfatizzare il concetto della fortezza della prima Chiesa fondata sulla fede, e non sulle opere o «false cerimonie»41. Un principio, questo, instacabilmente ripetuto dal Valdés e liricizzato dalla Colonna, come nel seguente sonetto anch’esso incluso nella raccolta manoscritta in dono a Michelangelo: Questa d’odiar la morte antica usanza Nasce sovente in noi, ciechi mortali, Dal non aver su gli omer le grandi ali Ferme de la divina alta speranza, Né ’n quella pietra, ch’ogni stima avanza Di sodezza, ma solo in questi frali Fondamenti di rena a tutti i mali Exposti, edificar la nostra stanza; Onde con fede anch’or per grazia spera L’alma in Dio forte aver per segno caro Quella, ch’a i più superbi è più nemica.

(56, 1-11)

In pieno stile neoplatonico-riformista la Colonna lancia un monito ai falsi cristiani che preferiscono edificare la loro fiducia su fragili opere anziché fortificare la loro fede sulla solidità della parola di Dio. Non questi, ma l’esempio di Pietro ella incita a seguire, il quale ha confidato fermamente in Cristo, beneficiandone così per la sua gloria. Da ultimo, vengono a mente alcuni versi michelangioleschi scritti allo “spirituale” Ludovico Beccadelli appena dopo il compimento de La Crocifissione di Pietro. Pur riconoscendo « tardi l’error suo » (288, 6), il

41

Cfr. DE VALDÉS, Alfabeto Cristiano, cit., p. 24.


17 Le rime spirituali di Michelangelo e gli affreschi della Cappella Paolina

Buonarroti confidava di poter contare sulla « croce e grazia » del Signore (300, 1), giacché « ‘l ciel non s’apre a noi con altra chiave » (289, 14)42. Per concludere, se i due affreschi michelangioleschi della Cappella Paolina intesero verosimilmente riproporre a todos los que entran en la iglesia cristiana l’esempio devozionale dei primi apostoli armati di sola fede in Cristo, da altrettanta spiritualità fu animata la lirica spirituale michelangiolesca negli anni tra Riforma e Concilio. In un’epoca in cui l’impegno per la diffusione del volgare e quello per una riforma religiosa andavano di pari passo, il celebre elogio alla poesia del Buonarroti da parte di Francesco Berni, nonché il dialogo poetico che l’artista intrecciò con Vittoria Colonna, non fanno che accrescere l’interesse per « quel sovrappiù di cose » affidate da Michelangelo al codice lirico43. Ambra MORONCINI University of Sussex

42

Rimangono oggi solo tre lettere e cinque sonetti di Ludovico Beccadelli a Michelangelo, da collocarsi tra il 1556 e il 1558, nonché due fra i sonetti più noti di Michelangelo, le rime 288 e 300, composte verosimilmente nel 1555. Una copia autografa del sonetto 288 fu inviata, quasi in contemporanea, anche a Giorgio Vasari, e per tramite di lui a Giovan Francesco Fattucci, cappellano della cattedrale di Firenze. Nella lettera si accludeva anche un altro sonetto, il 289. Si veda Il Carteggio di Michelangelo, V, a cura di Paola Barocchi e Renzo Ristori, Firenze, Sansoni, 1983, pp. 31-2, e p. 66. Per approfondimenti, rimando a CORSARO, « Michelangelo e la lirica spirituale del Cinquecento », cit., pp. 263-269, e a CLAUDIO SCARPATI, « Intorno alle rime di Ludovico Beccadelli », in Dire la verità al principe, Milano, Vita e Pensiero, 1987, pp. 45-126. Si veda altresì GIGLIOLA FRAGNITO, In Museo e in Villa, Venezia, Arsenale Editrice, 1988. 43 Cfr. ENZO NOÈ GIRARDI, Letteratura come bellezza. Studi sulla letteratura italiana del Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1991, p. 109.


MICHELANGELO BUONARROTI


BIOGRAFIA Michelangelo nacque il 6 marzo 1475 a Caprese, vicino Arezzo, da Ludovico di Leonardo Buonarroti Simoni, podestà al Castello di Chiusi e di Caprese, e da Francesca di Neri del Miniato del Sera. La famiglia era Niorentina, ma il padre si trovava nella cittadina per ricoprire la carica politica di podestà. Michelangelo manifestò subito una forte inclinazione artistica che il padre cercò in ogni modo di ostacolare, mettendolo a studiare grammatica a Firenze con il maestro Francesco da Urbino. Il 28 giugno 1488 Michelangelo entrò nella bottega dei fratelli Ghirlandaio, lasciata già nel 1489, e dal 1490 circa inizia la frequentazione del giardino delle sculture di San Marco, dove si studiavano le sculture antiche, sotto la supervisione di Bertoldo di Giovanni che operava per desiderio di Lorenzo de’ Medici. Fu la frequentazione di Palazzo Medici che consentì a Michelangelo di conoscere personalità del suo tempo, come Poliziano, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Ebbe modo così di crescere nutrendosi della dottrina platonica ed elaborando un proprio gusto artistico derivato dallo studio delle opere di Masaccio e Giotto: caso vuole che in quegli stessi anni si possano datare le prime copie degli affreschi di Masaccio nella Cappella Brancacci della chiesa del Carmine. Michelangelo Buonarroti è il genio artistico italiano più noto e famoso nel mondo; si occupò di scultura, pittura, architettura e poesia, lasciando nel momento del maggior splendore dell’arte italiana del ‘500, il segno della sua straordinaria grandezza. Nacque a Caprese da una antica famiglia Niorentina e Nin da giovanissimo, guidato dall’umanista Francesco da Urbino, mostrò le sue eccezionali inclinazioni artistiche. A soli 13 anni, iniziò a frequentare la scuola del Ghirlandaio, ma dopo un anno si trasferì alla scuola di Bertoldo di Giovanni, dove produsse le sue prime sculture in marmo. Le sue opere suscitarono l’ammirazione di Lorenzo il MagniNico che lo volle alla sua corte, dove assorbì gli insegnamenti del Poliziano e di numerosi umanisti che la frequentavano e dai quali trasse i fondamenti della sua formazione artistica. Sono di questo primo periodo alcune opere scultoree come la Madonna della Scala e la Battaglia dei Centauri (1490‐1492). Alla morte di Lorenzo il MagniNico, Michelangelo si allontanò da Firenze per fermarsi per circa un anno a Bologna, dove scolpì alcune statue tra cui quella di S. Petronio. Nel 1496, non ancora trentenne, si trasferì a Roma alla corte dei Papi, iniziando un decennio di intensa e fortunata attività. Muore il 18 febbraio del 1564 avendo fatto testamento, secondo quanto riportato dal Vasari “di tre parole, che lasciava l’anima sua nelle mani di Dio, il suo corpo alla terra, e la roba a’ parenti più prossimi”. Proprio dall’uso della copia nasce la “poetica” michelangiolesca. Riproducendo in marmo un “pezzo” che tiene Nisso davanti ai suoi occhi, Michelangelo si viene abituando a considerare che ciò che colpisce esiste già; quando poi creerà liberamente, ciò che egli tradurrà nel marmo dovrà essere ben preciso nella sua mente, come se già esistesse: nel marmo l’artista dovrà ritrovare quell’idea che vive nella sua immaginazione. Di conseguenza, l’esecuzione consisterà soltanto nel ricavare quella visione del marmo, spogliandolo di ogni “soverchio” Nino a farne scaturire l’immagine. Michelangelo va oltre la prassi consueta: la mano è lo strumento che esegue meccanicamente la volontà dell’intelletto, il quale non può avere nessuna idea che già non preesista all’interno del marmo.


“Madonna della Scala” (1490­1492) La Madonna della scala è databile tra il 1490 e il 1492, ed è ora conservata a Firenze nella Casa Buonarroti: dal Vasari sappiamo che fu donata da Leonardo Buonarroti, nipote dell’artista, al duca Cosimo I de’ Medici. Probabilmente l’opera era sempre rimasta nella casa dell’artista in via Ghibellina, dove ritornò nel 1616, quando il granduca Cosimo II de’ Medici la restituì ai discendenti di Michelangelo. In quest’opera l’artista riprende la tecnica donatelliana dello stiacciato, creando un’immagine di tale monumentalità da far pensare a steli classiche; la Nigura della Madonna, seduta sopra un masso squadrato e vista di proNilo mentre guarda lontano, occupa tutta l’altezza del rilievo, da un margine all’altro, mentre il Bambino è assopito sul suo grembo, sulla sinistra una scala, da cui prende il nome il rilievo, con due putti in atteggiamento di danza e un altro che tende, insieme ad un altro putto posto dietro la Vergine, un drappo.

“Battaglia dei Centauri” o “Centauromachìa” (1491­1492) Posteriore alla Madonna della scala è “La battaglia dei centauri”, databile tra il 1491 e il 1492: secondo il Condivi l’opera fu eseguita per Lorenzo il MagniNico. Il soggetto, “Il ratto de Deianira e la zuffa de Centauri”, è proposto da Angelo Poliziano, mentre il Vasari ritiene rappresenti “la battaglia di Ercole coi Centauri”, ispirandosi ad un’opera letteraria che aveva appassionato la corte Niorentina: il “De Laboribus Herculis” Per questo rilievo Michelangelo si rifece sia ai sarcofagi romani, sia alle formelle dei pulpiti di Giovanni Pisano. Nel rilievo michelan‐ giolesco viene esaltato il dinamico groviglio dei corpi nudi in lotta e annullato ogni riferimento spaziale. Questo rilievo presenta un concetto classico: la vittoria della ragione sulla forza bruta: a Michelangelo non interessa il tema del conNlitto tra bene e male, ma quello del conNlitto tra anima e corpo, il tema principale è la lotta, ma non la lotta tra i vari personaggi ma la lotta dell’uomo contro il suo corpo. La lastra di marmo è riNinita con la Gradina, attrezzo simile ad uno scalpello mediante il quale si ottiene l’effetto della materia grezza, per dare un senso di aggressiva pesantezza alla scultura. La parta delle Nigure che è emersa è perfettamente riNinita. Dentro la materia si agitano le anime che cercano di emergere dalla materia, si attua una lotta esistenziale tra anima e corpo e materia ed idea.


Il Bacco Tornato a Firenze tra la Nine del 1495 e il giugno 1496, al contrario di Leonardo che vedeva nel Savonarola un fanatico, Michelangelo rimase profondamente scosso dalla predicazione e dal rigorismo morale del frate, accendendo in lui sia la convinzione che la Chiesa dovesse essere riformata, sia i primi dubbi sul valore etico da dare all’arte; in città scolpì, sul modello dell’antico, un Cupido dormiente, venduto come reperto di scavo al cardinale Raffaele Riario. Scoperto l’inganno e riNiutata l’opera, il cardinale invitò Michelangelo a Roma dove arrivò il 25 giugno 1496, e il 4 luglio iniziò a scolpire una Nigura di un Bacco (oggi al Museo del Bargello) come un adolescente in preda all’ebbrezza, opera che, grazie alla resa naturalistica del corpo, raggiunse effetti illusivi e tattili simili a quelli della scultura ellenistica. Punti forti della scultura furono straordinaria espressività e l’elasticità nelle forme, unite al tempo stesso con un’essenziale semplicità dei particolari. Ai piedi di Bacco scolpì un giovinetto che sta mangiando qualche acino d’uva dalla mano del dio: questo gesto destò molta ammirazione in tutti gli scultori del tempo poiché il giovane sembra davvero mangiare dell’uva con grande realismo. L’opera, forse riNiutata dal cardinale Riario, rimase in casa di Jacopo, ospite e vero mecenate dell’artista nel suo primo soggiorno romano. Per quanto riguarda il Cupido invece le fonti antiche ci riferiscono della sul straordinaria dolcezza: trasferito a Urbino fu donato da Cesare Borgia in persona a Isabella d’Este, che lo tenne gelosamente a Mantova nelle sue collezioni; nei secoli successivi scomparve dagli inventari e verosimilmente Ninì assieme ad altri tesori dei Gonzaga in Inghilterra, dove fu forse distrutto nell’incendio di Whitehall Palace del 1698. “La Pietà” Nel novembre 1497 il cardinale francese Jean de Bilhères Lagranlos, ambasciatore di Carlo VIII presso papa Alessandro VI, lo incaricò di scolpire il gruppo con la Pietà, ora nella Basilica di San Pietro, con un contratto stipulato nell’agosto 1498; il gruppo realizzato in posizione piramidale con la Vergine come asse verticale e il corpo morto del Cristo come asse orizzontale, riunita attraverso il panneggio che assume carattere monumen‐ tale, si ispirava ai gruppi lignei realizzati a nord delle Alpi, detti Vesperbilder, cioè immagini della Vergine, e collegati alla liturgia del Venerdì Santo. In questo la tecnica


scultorea della Ninitura dei particolari venne condotta alle estreme conseguenze, tanto da dare al marmo effetti di traslucido e di cerea morbidezza. “Il David” Nell’agosto del 1501 i consoli dell’Arte della Lana gli commissionarono il David, per l’epoca un’opera di travolgente innovazione: l’artista affrontò il tema dell’eroe in maniera insolita rispetto all’iconograNia data dalla tradizione, rappresentando il simbolo della fede ebraica con il corpo di un uomo giovane e privo di vesti, dall’atteg‐ giamento pacato ma pronto ad una reazione, quasi a simboleggiare, secondo molti, il nascente ideale politico repubblicano, che vedeva nel cittadino‐soldato e non nel mercenario l’unico in grado di poter difendere le libertà repubblicane. “San Matteo” Il 24 aprile 1503 l’Arte della Lana di Firenze e gli Operai del Duomo gli commissionarono la realizzazione di dodici statue marmoree degli apostoli, per il Duomo Niorentino: di queste iniziò solo il San Matteo, opera non‐Ninita e ora alla Galleria dell’Accademia di Firenze. “Prigioni” I “Prigioni” sono sculture a cui Michelangelo lavorò mentre era a Firenze, intorno al 1530. Queste sculture avrebbero dovuto costituire l’elemento di base del grande Mausoleo che papa Giulio II aveva concepito come propria sepoltura da collocare al centro della Basilica di S. Pietro in Vaticano. Il progetto subì ripetute riduzioni, Nino a che fu realizzato nella chiesa romana di S. Pietro in Vincoli. Le sculture lasciate incompiute a Firenze, ora si trovano all’Accademia.

I “prigioni” sono quattro: lo schiavo giovane, lo schiavo che si ridesta, lo schiavo barbuto e Atlante. Queste opere emanano una forte carica espressiva grazie al


loro stato di incompiutezza che esalta lo sforzo drammatico di questi uomini che cercano disperatamente di liberarsi dalla materia. Le sculture consentono di ricostruire il procedimento di esecuzione dell’artista, che affrontava parallelepipedo della pietra da un lato e solo da quello affondava nella materia, lasciando le forme sporgenti. “S. Matteo”, commissionato nel 1503 nell’ambito di un progetto che prevedeva la realizzazione di tutti e dodici gli apostoli, poiché anch’esso incompiuto si lega assai bene con i Prigioni che lo circondano. In comune hanno un grande senso di forza contrastata, di lotta per emergere al di là del proprio involucro Nisico. Il “non Ninito” michelangiolesco è da considerare “Ninito” a Nini espressivi e concettuali propri dell’artista; la scultura non portata a termine, anche se perde in deNinizione, acquista in estensione di signiNicato, in quanto lascia l’osservatore libero di completare l’immagine a suo piacimento. “I Prigioni sono nati per simboleggiare l’uomo prigioniero del peccato originale liberato dalla dottrina cristiana, in Michelangelo vogliono esprimere la lotta eterna dell’uomo per liberarsi dai vincoli del suo stesso essere”. Questa tecnica ha un signiNicato preciso:il blocco di pietra lascia solo intravedere l’immagine che l’artista sta liberando dalla materia;l’uomo può soltanto lottare per tendere verso la perfezione, ma è cosciente dell’impossibilità per lui, essere Ninito, di giungere all’inNinito (la perfezione). “Il Bruto” (1539­1540) Il Bruto ha un’altezza di 95 cm, fu scolpito per il cardinale Niccolò RidolNi, venendo poi acquistato da Francesco de’ Medici. Bruto viene presentato come personaggio positivo, difensore dei valori repubblicani, poiché ha assassinato il tiranno Cesare. Il “non Ninito” conferisce potenza a un’immagine di fermezza morale e carica eroica lontane dalla ritrattistica romana, semplice spunto iconograNico per un busto in cui l’essenzialità del volto e lo scatto improvviso del collo sintetizzano la simultaneità di pensiero e azione. “Battaglia di Càscina” (1504)

Tra l’agosto e il settembre 1504, gli venne commissionato l’affresco con la Battaglia di Cascina, una battaglia vinta dai Niorentini contro i pisani nel 1364 nei pressi di Cascina. Di quest’opera, destinata alla Sala Grande del Consiglio in Palazzo Ve c c h i o , re a l i z z ò s o l o i l cartone, eseguito presso lo Spedale dei Tintori a Sant’Ono‐ frio, e terminato nel 1505, ma che è poi andato perduto; ne possiamo solo immaginare la parte centrale


attraverso la copia di Aristotele da Sangallo che mostra l’episodio in cui un allarme richiama alla battaglia i soldati Niorentini che si stanno bagnando nell’Arno. Altri disegni di Michelangelo rafNigurano altre parti del cartone, e un disegno ora conservato agli UfNizi mostra lo stesso gruppo centrale, ma senza quelle Nigure in pose contorte e concatenate presenti nella copia del Sangallo. Questo può essere dipeso dal fatto che l’artista lavorò nuovamente sul cartone dopo essere ritornato da Roma nel 1506 e aver studiato da vicino la statuaria antica e in special modo il Laocoonte, rinvenuto il 14 gennaio 1506 proprio in sua presenza. “Tondo Doni”(1503­1504) Il Tondo Doni, o Sacra Famiglia, è considerato uno dei capolavori di Michelangelo, eseguito tra il 1505 e il 1506. L’opera, conservata presso la Galleria degli UfNizi di Firenze, fu commissionata a Michelangelo da Agnolo Doni, forse per il suo matrimonio con Maddalena Strozzi: per questo La Sacra Famiglia, prese come secondo nome Tondo Doni, dal nome del committente. Si pensa che la cornice dell’opera sia originale, probabilmente fatta da Michelangelo stesso. Questa pittura su tavola è realizzata con la tecnica quattrocentesca della tempera. Questa tecnica pittorica utilizza pigmenti in polvere mescolati con vari leganti tra cui tuorlo d’uovo ed acqua distillata. Pur non presentando la stabilità e la profondità di materiale colorato dell’affresco, ha il vantaggio, contrariamente ai colori ad olio, della stabilità delle tinte che resteranno sempre uguali a sé stesse variando solamente in maniera impercettibile dal momento della stesura alla piena asciugatura. Il gruppo centrale è formato da San Giuseppe che passa Gesù bambino a Maria; dietro a loro si trova un muretto vicino al quale vi è San Giovanni Battista bambino. Sullo sfondo vi sono degli “ignudi”, che si presume possano essere angeli àfteri, cioè senza ali. Gli ignudi rappresentano l’umanità dell’epoca pagana precedente l’instaurazione della legge divina, la Madonna e San Giuseppe personiNicano l’umanità dell’epoca ebraica, mentre Gesù bambino simboleggia l’umanità protetta dalla Grazia divina e l’inizio dell’età della redenzione cristiana. S. Giovanni bambino sarebbe l’elemento di transizione e unione delle tre età. La Madonna ha un libro appoggiato sulle ginocchia, e in quanto personiNicazione della Chiesa simboleggia l’attività teologica e divulgativa dei contenuti dottrinari, è l’erede privilegiata per diffondere la parola di Dio all’umanità. Anche la volumetria nella rappresentazione della Madonna è molto studiata e accentuata, per la passione per lo studio della Nigura umana che Michelangelo nutriva, ma anche perché il vigore Nisico si identiNica con la forza morale. Il punto di vista che Michelangelo sceglie per rappresentare gli ignudi è frontale, diversamente da quello che adotta per il gruppo centrale, visto dal basso. Questa scelta Nigurativa è legata alla volontà, da parte dell’autore, di conferire monumentalità alla Sacra Famiglia, ma anche di differenziare le zone Nigurative contrapposte per signiNicato. Anche braccia e teste creano forme e triangoli


immaginari che attirano l’attenzione sul gruppo. Vi sono inoltre consonanze Nigurative tra il gruppo e gli ignudi: la più evidente è la ripetizione speculare di spalle e braccia. Il muretto rappresentato dietro al gruppo ha molteplici funzioni: ferma l’effetto percettivo di rotazione creato dalla postura dei personaggi principali, separa la Sacra Famiglia dagli ignudi, esplicita il divario tra le prospettive e i signiNicati. I personaggi dell’opera sono rafNigurati realisticamente e le linee sono preva‐ lentemente curve, di contorno e assumono valore di mezzo espressivo autonomo distinguendo bene i soggetti dallo sfondo. Il colore è omogeneo e sfumato, ma ben distinto da personaggio a personaggio, spesso caldi; le linee strutturali appaiono organizzate, equilibrate, dinamiche ma asimmetriche. La scena è rappresentata come se fosse vista allo stesso livello dell’osservatore che, grazie ad una prospettiva centrale, grazie alla composizione ben centrata impone una visione frontale dell’opera. Tutta la scena è rappresentata da un solo punto di luce proveniente da fuori della composizione che aumenta il contrasto delle Nigure. Michelangelo visse lo stesso periodo di Leonardo ma i due stili sono opposti. Mentre il secondo fa scomparire la linea il primo la accentua e in questo dipinto particolarmente; inoltre il raggruppamento delle linee che si intrecciano assumono valore e caratteristiche diverse da quelle presentate da Leonardo. “Tondo Pitti”

Del 1503 circa è il Tondo Pitti, realizzato in marmo e dominato dalla monumentale Nigura della Vergine che stringe a sé il Bambino. La madre guarda lontano in direzione opposta, come a cercare di capire il destino del Niglio; alle spalle il san Giovannino afNiora appena dal fondo non Ninito. Quest’opera rappresenta la Madonna col Bambino e San Giovannino. Nonostante l’atteg‐ giamento di riposo, il tondo esprime forza eroica per la torsione del busto, per la costrizione oppressiva del bordo dal quale fuoriesce la testa della Madonna, e per la gradazione dei piani. Sebbene l’arte di Michelangelo e quella di Leonardo siano in contrasto tra di loro, in questo tondo si notano delle inNluenze di Leonardo da Vinci. Cappella Sistina Tra il marzo e l’aprile 1508 l’artista ricevette da Giulio II l’incarico di decorare la volta della Cappella Sistina, terminata nel 1512. A causa del processo di assestamento dei muri, si era aperta, nel maggio del 1504, una crepa nel sofNitto della cappella rendendola inutilizzabile per molti mesi; rinforzata con catene poste nel locale sovrastante da Bramante, la volta aveva bisogno però di essere ridipinta; l’8 maggio del 1508 venne steso il contratto con il primo progetto: esso prevedeva dodici apostoli nei peducci, mentre nel campo centrale partimenti con decorazioni geometriche, di questo progetto rimangono due disegni di Michelangelo, uno al British Museum e uno a Detroit. Insoddisfatto, l’artista ottenne di poter amplia‐re il programma iconograNico: al posto degli Apostoli mise sette Profeti e cinque Sibille, seduti su troni


Niancheggiati da pilastrini che sorreggono la cornice, essa delimita lo spazio centrale, diviso in nove scompar‐timenti attraverso la continuazione delle membrature architettoniche ai lati del trono, in essi vi sono rafNigurati episodi tratti della Genesi, disposti in ordine cronologico partendo dalla parete dell’altare: Separazione della luce dalle tenebre, Creazione degli astri e delle piante, Separazione della terra dalle acque, Creazione di Adamo, Creazione di Eva, Peccato originale e cacciata dal Paradiso Terrestre, SacriNicio di Noè, Diluvio Universale, E b b re zza di No è ; n e i c i n q u e scomparti che sormon‐tano i troni lo spazio si restringe lasciando posto a ignudi che reggono ghirlande con foglie di quercia, allusione al casato d e l p apa cioè Del l a Rovere e medaglioni bronzei con scene tratte dal Libro dei Re, nelle lunette e nelle vele vi sono le quaranta gen‐ erazioni degli Antenati di Cristo, riprese dal Van‐ gelo di Matteo, nei pen‐ nacchi angolari, quattro scene bibliche, che si riferiscono ad altrettanti eventi miracolosi a favo‐re del popolo eletto: Giu‐ditta e Oloferne, David e Golia, Punizione di Aman e il Serpente di bronzo. Nel suo complesso il progetto iconograNico, nato dalla collaborazione tra l’artista, il committente e i consiglieri e teologi della corte papale, va letto tenendo presente i sermoni che venivano recitati nella cappella, in essi l’opera di Dio raggiunge il culmine della creazione nella realizzazione dell’uomo a sua immagine e somiglianza e in essi veniva considerata l’incarnazione di Cristo, non tanto per il suo valore di riscatto dell’umanità dal peccato originale, quanto come perfetto e ultimo compimento della creazione divina che ha innalzato l’uomo ancora di più verso Dio; in questo modo appare più chiara la celebrazione che fa Michelangelo della bellezza del corpo umano nudo. La volta comunque si basa sul sistema delle concordanza fra Antico e Nuovo Testamento, dove il primo preNigura il secondo; le storie della Genesi vanno lette come preNigurazioni delle storie del nuovo testamento, la prima creazione di Dio, cioè l’uomo, sarà completata con la seconda creazione cioè Cristo, a questa interpretazione si riallacciano le Nigure dei veggenti su troni, poiché quelle a cui assistono non sono eventi passati ma eventi profetici. Montato il ponteggio Michelangelo iniziò a dipingere le tre storie di Noè gremite di personaggi; mentre nelle successive a scene: il Peccato originale e cacciata dal


Paradiso Terrestre e la Creazione di Eva la rafNigurazione diventa più spoglia, con corpi più massicci e gesti semplici ma retorici; dopo un’interruzione dei lavori e vista la volta dal basso nel suo complesso e senza i ponteggi, lo stile di Michelangelo cambiò, accentuando maggiormente la grandiosità e l’essenzialità delle immagini, Nino a rendere la scena occupata da un’unica grandiosa Nigura annullando ogni riferimento al paesaggio circostante; nel suo complesso queste variazioni stilistiche non si notano, anzi vista dal basso la volta ha aspetto perfettamente unitario, dato anche dall’uso di una violenta cromìa, recentemente riportata alla luce dal restauro concluso nel 1994. “Giudizio Universale” (1534­1541)

Nel 1534 si trasferì deNinitivamente a Roma, sia per Ninire la tomba che per abbandonare la Firenze sottomessa ai Medici. Clemente VII gli commissionò la decorazione della parete di fondo della Cappella Sistina con il Giudizio Universale e l’incarico venne confermato anche dal successivo ponteNice, Paolo III; l’opera venne iniziata alla Nine del 1536 e proseguì Nino all’autunno del 1541. Al centro dell’affresco vi è il Cristo giudice con vicino la Madonna che rivolge lo sguardo verso gli eletti; questi ultimi formano un’ellissi che segue i movimenti del Cristo in un turbine di santi, patriarchi e profeti. Nelle lunette sono dipinti angeli con i simboli della passione e in basso scene di dannazione o beatiNicazione; al suolo da sinistra si notano: resurrezione dei corpi, antro infernale, Caronte e inNine Minosse (questi ultimi due sono citazioni dantesche). Le licenze iconograNiche, come i santi senza aureola, gli angeli apteri e il Cristo giovane e senza barba, possono essere allusioni al fatto che davanti al giudizio ogni singolo uomo è uguale. Questo fatto, che poteva essere letto come un generico richiamo ai circoli della Riforma Cattolica, unitamente alla nudità e alla posa sconveniente di alcune Nigure (Santa Caterina d’Alessandria prona con alle spalle San Biagio), scatenarono contro l’affresco i severi giudizi di buona parte della curia. Dopo la morte dell’artista, e col mutato clima culturale dovuto anche al Concilio di Trento, si arrivò al punto di provvedere al rivestimento dei nudi e alla modiNica delle parti più sconvenienti. “CrociQissione di S. Pietro” (1550) La Cappella Paolina è una famosa cappella dei Palazzi Vaticani che è adibita a chiesa parrocchiale del Vaticano. È separata dalla


Cappella Sistina solo dalla Sala Regia. Deriva il suo nome da papa Paolo III, che la fece costruire nel 1540 su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane. Prima del 1550 Michelangelo dipinse due affreschi, la Conversione di Paolo e la CrociNissione di Pietro. Quest’ultima rafNigura il momento immediatamente precedente il martirio di San Pietro, collocato a testa in giù sulla croce che viene issata. È l’ultimo affresco dipinto da Michelangelo. Particolare michelangiolesco è lo sfondo suddiviso quasi in tre ordini con i diversi colori,e un enorme nube grigia che rende ancora più intensa la scena. Il santo si rivolge allo spettatore con uno sguardo quasi minaccioso “Pietà Ronandini” Una Pietà sbozzata e non Ninita la Pietà Rondanini venne deNinita, nell’inventario di tutte le opere rinvenute nel suo studio dopo la morte, come: Un’altra statua principiata per un Cristo et un’altra 7igura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non 7inite. Michelangelo nel 1561 donò la scultura ad Antonio del Francese continuando però ad apportarvi modiNiche sino alla morte; il gruppo è costituito da parti condotte a termine, come il braccio destro di Cristo, e da parti non Ninite, come il torso del Salvatore schiacciato contro il corpo della Vergine quasi a formare un tutt’uno. Degli ultimi anni sono una serie di disegni con temi devozionali. Tomba di Giulio II (1505­1545)

Nel 1505 papa Giulio II gli afNidò l’ideazione e la realizzazione della propria tomba, da collocare al centro della basilica vaticana. Per Michelangelo era la grande occasione per dare vita alla propria personale concezione della scultura, ma il progetto, cui lavorò per quarant’anni, si trasformò presto in una vera ossessione. Nel primo atto di quella che egli stesso deNinì la “tragedia della sepoltura”, si recò di persona alle cave di Carrara per scegliere i blocchi di marmo. Poco dopo, Giulio II gli vietò di prose‐ guire: prima del sepolcro voleva rico‐ struire la basilica, afNidando il progetto al Bramante. Michelangelo tornò allora a Fi‐ renze, dove diede sfogo al suo risenti‐ mento contro il papa e gli intrighi della corte romana, investendo nella polemica anche Raffaello, e accusando lo stesso Bramante di volerlo avvelenare. La rappaciNicazione fu un vero affare di stato: i rapporti diplomatici tra Roma e Firenze corsero il rischio di incrinarsi.


Quella tomba, nata come monumento centrale con oltre quaranta statue, per anni non restò che allo stato di progetto e alla Nine venne ridotta a un monumento murale il cui corredo scultoreo è assai più modesto dell’originario. Fu per il progetto di questa tomba che Michelangelo iniziò la lavorazione di tante sculture, alcune delle quali ora hanno un ruolo artistico individuale e a se stante; un esempio sono i cosiddetti Prigioni o schiavi, alcuni dei quali situati presso il museo del Louvre, altri all’interno dell’Accademia di Firenze. Sebbene i piani di Michelangelo fossero in costante mutamento, le sue intenzioni erano così grandiose che avrebbero richiesto poteri sovrumani per essere realizzate. Per un decennio, dopo il 1505, visitò Firenze solo occasionalmente e brevemente, ma nel 1516 ritornò per eseguire un grande progetto per i Medici: la facciata di San Lorenzo. Papa Leone X era personalmente responsabile della commissione, volendo fornire alla chiesa Niorentina una facciata degna della sua famiglia. Michelangelo non aveva alcuna intenzione di dividere con altri questa grande commissione e riNiutò l’idea che altri artisti, ansiosi di parteciparvi, potessero ugualmente eseguire sculture per l’abbellimento della facciata. Ne derivò tra gli scultori di Firenze una notevole amarezza causata dalle intenzioni di Michelangelo di appropriarsi dell’impresa. Contemporaneamente a questo progetto della facciata, Michelangelo continuò a scolpire statue per la tomba di Giulio II: un impegno che lo tenne occupato sporadicamente, forse Nino alla partenza deNinitiva da Firenze nel settembre 1534. Il contratto stipulato con gli eredi di Giulio II, Nirmato da Michelangelo nel 1516 prima della sua partenza da Roma, stabiliva ch’egli potesse eseguire le statue per la tomba nel luogo dove avesse voluto. È questa la ragione per cui cinque di esse furono scolpite a Firenze, da dove mai uscirono. Quando Michelangelo morì a Roma nel 1564, la casa di Firenze in via Mazza conteneva ancora le statue che egli aveva lasciato trent’anni prima, inclusi quattro Schiavi, ora all’Accademia, e la Vittoria, alloggiata a Palazzo Vecchio. Facciata di S. Lorenzo (1515­1519) La morte di Lorenzo il MagniNico, nel 1492, e la cacciata dei Medici da Firenze due anni dopo fecero sì che San Lorenzo, la grande basilica brunelleschiana, restasse incompiuta. Non solo mancava la facciata, ma anche una nuova cappella funebre, prevista dallo stesso Brunelleschi speculare alla esistente Sagrestia. Solo con il ritorno al potere dei Medici nel 1512 e, l’anno successivo, con l’ascesa al soglio pontiNicio di Leone X, Niglio del MagniNico, il tema laurenziano tornò al centro dell’attenzione. Nel 1516, infatti, fu bandito il concorso per la facciata, cui parteciparono tra gli altri Antonio e Giuliano da Sangallo, Jacopo Sansovino, Raffaello e lo stesso Michelangelo, che riuscì nell’autunno di quello


stesso anno a ottenere l’incarico. Ebbero inizio così gli anni tormentati che il Maestro trascorse all’interno della fabbrica di San Lorenzo: una storia fatta di rapporti ufNiciali intrapresi e interrotti, di amicizie a volte tradite, di prolungate soste per cavar marmi a Pietrasanta e a Serravezza, ma soprattutto di una tensione estetica destinata a sfociare o in progetti non attuati o in capolavori supremi. Uno dei progetti non attuati è la facciata della basilica; si può perciò dire che la nuova cappella medicea, oggi universalmente nota col nome di Sagrestia Nuova, iniziata nel 1519, costituisce la prima e grandiosa opera di Michelangelo architetto. La morte di Leone X, nel 1521, e il breve pontiNicato di Adriano VI non comportarono interruzioni di particolare entità nei lavori, tanto che nei primi mesi del 1524 l’artista poteva annunciare a Clemente VII, il secondo papa mediceo da poco eletto, che anche la lanterna era "Ninita di metter su e scoperta". Con il nuovo papa l’impegno del Buonarroti a San Lorenzo divenne ancora più intenso, tanto che, dopo diversi e dibattuti progetti, nel 1524 si aprì il cantiere della Biblioteca Laurenziana. Il sacco di Roma (1527) e la partecipazione attiva di Michelangelo agli eventi della seconda repubblica Niorentina e ai momenti drammatici dell’assedio della città provocarono una sospensione dei lavori, ripresi nel 1533 dopo il perdono del papa. Nel 1534, intanto che Michelangelo si trasferiva deNinitivamente a Roma, moriva l’alto committente mediceo. Si dovette arrivare al 1559 perché l’artista inviasse a Firenze il modello della scala del Ricetto della Biblioteca, mentre la singolare «libreria secreta», ideata intorno al 1525, Ninì per restare sulla carta. Al progetto per la facciata di San Lorenzo, assegnato a Michelangelo Nin dal 1516, ma di cui furono eseguiti solo alcuni elementi lapidei mai messi in opera, pertiene la Tribuna delle Reliquie, nella controfacciata, pensata da Michelangelo Nin dal 1525, ma realizzata intorno al 1533. San Lorenzo è una delle chiese più vecchie di Firenze, perché venne consacrata nel 393. È stata cattedrale per 300 anni quando poi è stata sostituita da Santa Reparata. Nel 1059 ci fu il primo ampliamento anche se la svolta sarebbe venuta nel 1419 quando i Medici, che usavano San Lorenzo come parrocchia di famiglia, decisero di allargarla dando l’incarico a Filippo Brunelleschi. Il risultato è la prima chiesa capolavoro del Rinascimento che sarebbe diventata poi un punto di riferimento per tutta l’architettura religiosa successiva. La basilica di San Lorenzo, spettacolare chiesa di famiglia della dinastia Medici, ostenta da secoli una “non‐facciata”, una muraglia di mattoni percorsa da membrature che alludono a un progetto mai realizzato. Michelangelo progettò nel 1517 una facciata importante, fastosa, ricca di colonne, statue, nicchie, bassorilievi. Lo aveva incaricato del progetto, nel 1517, il papa Leone X, impegnato nella ricerca di nuovi meriti per la casata. C’erano state proposte di Sangallo, di Sansovino, perNino di Raffaello, ma il Papa favorì Michelangelo, in quel momento l’ artista più ammirato, in particolare dopo i trionNi della Sistina, il vero indiscusso “primo fra tutti”. Di tale impegno il Buonarroti si innamorò, lavorandoci per anni con passione, Nino a che nel 1520, dopo tre anni, chiamato ad altri compiti, abbandonò il “tesoretto” dei suoi progetti per la facciata.


Rimangono tanti disegni e diversi modelli, uno dei quali, in legno, molto noto, è conservato nella Casa Buonarroti (che Nino al 12 novembre ospita una mostra dal signiNicativo titolo Michelangelo architetto a San Lorenzo. Quattro problemi aperti. Fu Michelangelo ad aggiudicarsi la vittoria e, tra il 1516 e il 1518, subito si recò prima a Carrara e poi nelle nuove cave di Seravezza per l’estrazione dei tantissimi marmi necessari a questa ciclopica impresa Lettere e disegni autograNi dell’artista, oltre a numerose testimonianze dei contemporanei, documentano questa intensa attività preparatoria per il grande cantiere: membrature marmoree già sbozzate quali stipiti di porte, architravi, cornicioni o grandiosi fusti di colonne giunsero, infatti, precocemente a Firenze per via d’acqua, discendendo prima lungo la costa tirrenica sino a Pisa e poi risalendo l’Arno, allora navigabile a mezzo di "navicelli" sino a Signa. Per la realizzazione del progetto erano stati anche eseguiti più modelli, in creta, in cera e in legno: si sarebbe trattato di una straordinaria fronte tridimensionale, integralmente marmorea, comprendente un vasto atrio (grande e magniNica quale nessuna facciata di chiesa rinascimentale poteva vantare) ornata da una ventina fra statue (alte il doppio del naturale) e bassorilievi (probabilmente in bronzo dorato). Tale facciata, se realizzata, sarebbe stata per l’architettura e per la scultura una vera e propria "scuola del mondo" (così come per la pittura avrebbero dovuto essere gli affreschi, purtroppo anch’essi non realizzati, che una decina di anni prima lo stesso Michelangelo e Leonardo erano stati incaricati di eseguire per la Sala Grande, poi dei Cinquecento, nel Palazzo della Signoria). Quello che colpisce di San Lorenzo è il contrasto tra la pietra grezza della facciata esterna e l’armonia dell’interno. Divisa in tre navate con colonne corinzie e archi a tutto sesto in pietra grigia, che contrastano con l’intonaco bianco delle pareti. La parte interna della facciata è di Michelangelo. Le proporzioni dell’interno di San Lorenzo richiamano subito l’arte di Brunelleschi, genio in grado di costruire le varie parti di un ediNicio e collegarle tutte in rapporti matematici costanti, creando un grande senso di bellezza e di armonia del luogo Dal transetto sinistro si accede alla Sagrestia Vecchia in cui al genio di Brunelleschi si unì quello di Donatello. La Sagrestia ha la forma di un cubo, sormontato da una cupola. La cappella, dedicata a San Giovanni Evangelista, è divisa in 12 spicchi. La volta affrescata riproduce la posizione delle stelle e dei pianeti su Firenze, la notte del 4 luglio del 1442. Sono di Donatello gli il fregio con i Cherubini e seraNini, i tondi degli Evangelisti nelle pareti e quelli con le Storie di San Giovanni Evangelista nei pennacchi della cupola. Sempre Donatello realizzò i battenti delle porte. Sulla parete sinistra c’è il monumento funebre a Giovanni e Piero de’ Medici, Nigli di Cosimo il Vecchio, commissionati al Verrocchio nel 1472 dai Nigli dello stesso Piero, Lorenzo il MagniNico e Giuliano de’ Medici. Questa Sagrestia si trova sul lato opposto di quella Vecchia ma vi si accede dalle Cappelle Medicee, il cui ingresso è indipendente e si trova sul lato posteriore di San Lorenzo. Realizzata da Michelangelo nel 1532 su commissione di Clemente VII nella controfacciata di San Lorenzo, la Tribuna delle Reliquie costituisce l’esito Ninale di una lunga e articolata progettazione iniziata nel 1526. Il ponteNice voleva dotare la chiesa dell’eccezionale tesoro liturgico costituito dalla collezione di reliquie raccolta da Leone X. La Tribuna servì per custodire tale tesoro, del quale sono presenti in mostra alcuni straordinari esempi.


Biblioteca Laurenziana (1517) Nel 1571 la Biblioteca fu aperta al pubblico per volere del granduca Cosimo I nel suo mirabile, seppure incompiuto, allestimento michelan‐ giolesco. I due aggettivi che la qualiNicheranno da allora nei secoli, Medicea e Laurenziana, attestano la primitiva origine signorile e la collocazione nel complesso di San Lorenzo. I codici, che costituivano la biblioteca privata dei Medici, disposti sui plutei (banchi) e spogliati delle loro coperte originarie ricevettero una veste uniforme in cuoio rossastro alle armi Medicee. Le catene, che ancora essi conservano, testimoniano gli usi della consultazione e la preoccupazione dei bibliotecari per la loro conservazione. EdiNicata all’interno del complesso di S. Lorenzo la Biblioteca Laurenziana si articola in due ambienti: l’alto e stretto vano del Ricetto, o vestibolo di ingresso, e la lunga sala di lettura o Libreria, cui si accede tramite un imponente scalone. Il progetto michelangiolesco prevedeva anche, in fondo alla Libreria una “piccola libreria” un ambiente trapezoidale segreto “per tenere certi libri più preziosi che gli altri”. Il chiostro principale della Basilica di S. Lorenzo, detto “dei Canonici” risale all’ultima fase della ristrut‐ turazione quattrocentesca del complesso Laurenziano voluta dalla famiglia de’ Medici. Sulla parete destra del portico d’ingresso si trova una Madonna col Bambino in stucco scolpita alla maniera di Desiderio da Settignano, con cornice in terracotta invetriata e datata 1513. Sullo stesso lato si scorgono numerose lapidi tra le quali è degna di nota quella voluta da Anna Maria Ludovica de’ Medici, a ricordo dei lavori di consolidamento della Basilica del 1742. Nell’angolo in fondo è l’accesso al chiostro superiore dove si trova la Biblioteca Medicea Laurenziana. A Nianco, in una nicchia, la statua marmorea del Vescovo di Como Paolo Giovio (1483‐1552), storico e collezionista, opera di Francesco da Sangallo, del 1560. Proseguendo lungo questo secondo portico troviamo il portone d’accesso alla cripta che conserva le tombe di Cosimo de’Medici il Vecchio e dello scultore Donatello. Più avanti, una porta timpanata, introduce alla Cappella del Capitolo dei Canonici con stalli lignei intagliati di foggia tardo quattrocentesca. L’ambiente, detto Ricetto o Vestibolo, costituisce l’ingresso all’antica Sala di lettura della Biblioteca Medicea Laurenziana che trae origine dalla ricca collezione privata di manoscritti che Cosimo il Vecchio (1389‐1464) aveva iniziato a raccogliere nel palazzo di famiglia, col contributo dei più insigni umanisti del tempo. La raccolta raggiunse il massimo splendore con Lorenzo il MagniNico (1449‐1492) e la sua idea di costruire una biblioteca pubblica si


concretizzò con il nipote Giulio (1478‐1534), divenuto papa col nome di Clemente VII (1523). Il progetto fu afNidato a Michelangelo Buonarroti (1475‐1564). I lavori iniziarono nel 1524 e furono portati avanti Nino al 1534, anno della partenza di Michelangelo da Firenze e della morte dell’illustre committente. Ripresa e terminata sotto il ducato di Cosimo I (1519‐1574), la Biblioteca venne aperta al pubblico nel 1571. Il Vestibolo si caratterizza per la verticalità delle pareti, spartite in tre ordini con doppie colonne incassate nel muro, mensole a voluta, Ninestre edicola timpanate e incorniciate da lesene insolitamente rastremate verso il basso. La scalinata, originariamente pensata da Michelangelo in legno di noce, fu eseguita in pietra serena nel 1559 da Bartolomeo Ammannati su un modello dello stesso Buonarroti. Di grande originalità, presenta una struttura a pontile ed una forma tripartita, con rampa centrale a gradini ellittici. L’ambiente era concepito come un preludio oscuro alla luce della Sala di lettura, ma rimase incompleto Nino agli inizi del ‘900, quando furono terminati i lavori della facciata esterna, con l’apertura di false Ninestre. Sul sofNitto fu sistemato un telo dipinto, opera del bolognese Giacomo Lolli (1857‐1931), ad imitazione di quello ligneo della Biblioteca. La Sala di lettura, sviluppata orizzontalmente a differenza del Vestibolo, è spartita da due Nile di banchi, chiamati plutei, che avevano la duplice funzione di leggio e di custodia. Questi furono realizzati, a detta di Vasari, dagli intagliatori Giovan Battista del Cinque e Ciapino seguendo i disegni di Michelangelo. Degno di nota è il patrimonio librario che un tempo vi era conservato, unico per pregio Nilologico e artistico. I manoscritti e gli antichi libri a stampa, sistemati in posizione orizzontale all’interno dei banchi, erano suddivisi a seconda della materia (patristica, astronomia, retorica, NilosoNia, storia, grammatica, poesia, geograNia) e le tabelle lignee poste sul Nianco di ogni pluteo riportavano l’elenco dei libri ivi contenuti. Tale disposizione fu conservata Nino ai primi anni del ‘900, quando i manoscritti furono trasferiti negli attuali depositi; i libri stampa, invece, furono consegnati alla Biblioteca Magliabechiana (ora Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze) nel 1783. Il sofNitto in legno di tiglio (1549‐1550), fu intagliato da Giovan Battista del Tasso e Antonio di Marco di Giano detto il Carota, sempre sulla base di precedenti disegni michelangioleschi. Il pavimento, in terracotta rossa e bianca, fu realizzato a partire dal 1548 da Santi Buglioni su disegno del Tribolo. La parte centrale intarsiata riNlette i motivi ornamentali e le immagini simboliche, presenti anche nel sofNitto, allusive alla dinastia medicea. Realizzate per ultime, le splendide vetrate ripropongono il repertorio decorativo dell’araldica medicea legato alle Nigure di Clemente VII (1478‐1534) e Cosimo I (1519‐1574). La rafNinata decorazione che unisce motivi a grottesca, armi ed emblemi si deve, probabilmente, a maestranze Niamminghe su disegno di Giorgio Vasari. Questa rotonda venne ediNicata nei primi decenni dell’Ottocento per ospitare la collezione donata alla Laurenziana nel 1818 dal patrizio Niorentino Angelo Maria D’Elci (Firenze 1754 ‐ Vienna 1824). Letterato e biblioNilo, il conte cominciò a raccogliere prime edizioni a stampa di autori classici Nino a mettere insieme una ricca collezione che comprendeva un gran numero di incunaboli (libri a stampa della seconda metà del secolo XV) ed edizioni aldine. I


volumi datano dal XV al XIX secolo e sono caratterizzati da vivaci rilegature in pelle rossa per le edizioni del Quattrocento e in verde per quelle dei secoli successivi. D’Elci, infatti, tra gli ultimi anni del Settecento e il primo ventennio dell’Ottocento, provvide a far rilegare tutti i libri della sua collezione secondo i dettami della moda anglo‐francese del tempo. Il progetto della sala, detta anche Tribuna D’Elci, fu afNidato all’architetto Pasquale Poccianti (1774‐1858 ). L’aggiunta del nuovo ambiente di forma circolare, comportò alcune modiNiche alla parete destra della Biblioteca: due Ninestre furono murate, due furono accecate e una venne sostituita dalla porta di ingresso. La Sala, sormontata da una sontuosa cupola a lacunari, ripropone in stile neoclassico i motivi dominanti nell’architettura e nella decorazione della Biblioteca: le colonne, la bicromia delle pareti e il cotto del pavimento. La Tribuna, inaugurata nel 1841, fu utilizzata come sala di lettura sino agli anni Settanta del Novecento. La collezione delciana attualmente è posta in depositi più idonei alla sua conservazione e la sala viene utilizzata per incontri, lezioni, inaugurazioni. “Mosè”

Essa è parte della tomba ubicata in San Pietro in Vincoli, a Roma, costruita da Michelangelo Buonarroti nel 1505 su commissione di papa Giulio II, tomba completata nell’arco di trent’anni a causa delle continue modiNiche apportate al progetto originario. Nel primo progetto la tomba doveva essere costituita come un mausoleo a tre piani, ornato da quaranta statue in marmo e rilievi in bronzo, con una pianta di 11x7 metri al cui interno stava la tomba del ponteNice massimo: il Mosè doveva fare da pendant con la statua di San Paolo, in quanto entrambi avevano ricevuto la visione di Dio. Mosè viene rappresentato in posizione seduta, con la testa barbuta rivolta a sinistra, il piede destro posato per terra e la gamba sinistra sollevata con la sola punta del piede posata sulla base. Il braccio sinistro è abbandonato sul grembo, mentre quello destro regge le tavole della Legge, mentre la mano arriccia la lunga barba. La statua, nella sua composizione, esprime la solennità e la maestosità del personaggio biblico. Per quest’opera, Michelangelo si rifà al San Giovanni di Donatello, riprendendone la carica di energia trattenuta, resa manifesta nel volto contratto e concentrato, ma aumentandone la carica dinamica grazie allo scatto contrario, rispetto al corpo, della testa. I corni sulla testa di Mosè rappresentano raggi di luce. Infatti nella Bibbia è riportato che Mosè scendendo dal monte Sinai aveva due raggi che partivano dalla sua fronte. In ebraico “raggi” si scrive karen, che però nelle varie traduzioni è stato trasformato in keren (“corna”) anche perché nel Medioevo si riteneva che solo Gesù potesse avere il volto pieno di luce. Secondo lo psicologo analista junghiano James Hillman quelle corna collocate lì da Dio o da San Giovanni Evangelista restituiscono a Mosè ciò che aveva voluto separare e allontanare: Dio e l’animale, la legge e l’istinto, il dovere e il piacere, il monoteismo ebraico.


“Schiavo Morente” e “Schiavo Ribelle” (1513) I due Prigioni di Michelangelo, lo Schiavo morente e lo Schiavo ribelle, sono tra le statue più celebri del Louvre. Furono scolpite per il basamento del mausoleo di papa Giulio II. Sono state messe in relazione con la seconda versione della tomba (1513), dalla quale furono eliminate quando, nel 1524, si optò per un altro, deNinitivo progetto. Nel 1542 Michelangelo le donò a Roberto Strozzi, in cambio dell’accoglienza che questi gli aveva dato durante una malattia. Passate in Francia mentre l’artista era ancora in vita, furono collocate nel castello del conestabile di Montmorency a Écouen e in quello di Richelieu a Poitou. Sequestrate nel 1793, quando la vedova dell’ultimo dei marescialli Richelieu le aveva poste in vendita, divennero proprietà dello stato francese. Testimoniano l’impegno straordinario, titanico, intellettuale e Nisico dell’artista nello sforzo di “cavare” il nudo virile dal marmo grezzo. Basilica di S. Pietro (1546­1562) Dopo Sangallo, deceduto nel 1546, alla direzione dei lavori subentrò Michelangelo Buonarroti, ormai settantenne, il quale, volendo sottolineare maggiormente l’impatto della cupola, tornò alla pianta centrale del progetto originario, annullando però la perfetta simmetria studiata da Bramante. Alla pianta di Bramante, con una croce maggiore afNiancata da quattro croci minori, Michelangelo sostituì una croce centrata su un ambulacro quadrato, sempliNicando quindi la concezione dello spazio interno. Nel 1564, alla morte dell’artista, la cupola non era stata ancora terminata: fu Giacomo Della Porta (1533 ‐ 1602) ad eseguirne il completamento (1588 ‐ 1590), conferendole un aspetto a sesto rialzato per ridurre le spinte laterali della calotta. Piazza del Campidoglio Con il trasferimento sul Campidoglio della statua equestre di Marc’Aurelio, simbolo dell’autorità imperiale e per estensione della continuità tra la Roma imperiale e quella papale, Paolo III incaricò Michelangelo di studiare la ristrutturazione della piazza del Campidoglio, centro della vita civile romana. La piazza venne realizzata a pianta trapezoidale


con sullo sfondo il palazzo dei Senatori, dotato di scala a doppia rampa, e delimitata ai lati da due palazzi: il Palazzo dei Conservatori e il cosiddetto Palazzo Nuovo costruito ex­novo, entrambi convergenti verso la scala di accesso al Campidoglio. Gli ediNici vennero dotati di un ordine gigante a pilastri corinzi in facciata, con massicce cornici e architravi mentre la pavimentazione della piazza (realizzata solo ai primi del ’900) è disegnata secondo un reticolo curvilineo inscritto in un’ellisse con al centro il basamento ad angoli smussati per la statua del Marc’Aurelio. Sagrestia Nuova La Sagrestia Nuova ha una pianta composta da due quadrati adiacenti di cui uno maggiore, l’altro decisamente più piccolo. Ambedue gli spazi sono coperti da cupole emisferiche su pennacchi. La più grande, sormontata da una lanterna, prende come esempio il Pantheon, presentando l’intradosso scavato da cinque anelli concentrici di lacunari. L’estradosso è rivestito di squame di terracotta contro le quali spicca il bianco della lanterna. Dotata di superNici vetrate, essa è circondata da colonnine composite trabeate, sormontate da volute, e conclusa da una cuspide dal proNilo curvilineo e rigonNia alla base, come se la sua sostanza fosse morbida e plasmabile. Le proporzioni della Sagrestia vengono alterate, a favore di un maggiore slancio verso l’alto, con l’introduzione di un attico fra l’ordine inferiore e le grandi lunette sottostanti alla cupola. Tale spinta verticale è sottolineata dalla rastrematura verso l’alto dei Ninestroni entro le lunette, geniale intuizione architettonica della quale Michelangelo fece qui uso per la prima volta. La sagrestia nuova è un’opera molto innovativa ed è nata in un periodo tumultuoso. Prendendo spunto dalla Sagrestia di Brunelleschi, Michelangelo divise lo spazio in forme più complesse, trattando le pareti con piani a livelli diversi con piena libertà. Su di esse ritagliò elementi classici come archi, pilastri, balaustre e cornici disposti però in Nigure e schemi completamente nuovi e armoniosi. Anche la cupola molto tondeggiante è una novità e in molti oggi vedono un’ anticipazione della cupola di San Pietro che fu progettata da Buonarroti trent’anni dopo la Sagrestia. Collocò le tombe dei Capitani (i due duchi) addossate al centro delle pareti laterali, mentre quelle dei MagniNici (Lorenzo e Giuliano), addossate entrambe alla parete di fondo davanti all’altare. Incassati nelle due pareti laterali si trovano i sepolcri monumentali dedicati a Giuliano Duca di Nemours e suo nipote Lorenzo Duca di Urbino.


Tombe Medicee Il complesso delle tombe medicee all’interno della chiesa di San Lorenzo a Firenze si presenta come l’epilogo di una convergenza tra due pensieri fondamentali: la concezione della vita secondo Platone e quella elaborata dalla chiesa dell’epoca Medievale. La tomba dei medici, infatti, nella sua completezza, è una rafNigurazione reale dell’idea vitale, spirituale e intellettuale che si risolve nell’eternità divina. Il concetto ha origine e si sviluppa in uno spazio ideale: la cappella. Ideale perché deNinito da pareti concettuali. Pareti rappresentative, per Michelangelo, di barriere strutturali volte a deNinire uno spazio spirituale‐ intellettuale. In questo spazio, pertanto, non può che dominare un elemento ideale, nato dall’esperienza storica umana e derivato dalle forme naturali, la geometria. La geometria, infatti, separa uno spazio reale da uno spazio platonico: gli archi e i cerchi p o s t i i n u n g i o c o a r m o n i c o e re g o l a to d a l l a proporzionalità sono forma di un principio ideale che deve tradursi in forza. Una forza necessaria ad apporre la giusta resistenza alla realtà empirica che invade e pervade la dimensione spirituale. Le Ninestre, correttamente studiate, trasformano una luce Nisica in luce intellettuale completando così la realizzazione del concetto. In questa nuova dimensione interiore sono integrate le Nigure del giorno, della notte, dell’aurora e del crepuscolo. Quattro statue nelle quali si genera e si sviluppa il concetto vitale. Un pensiero che si avvolge nel gioco dei contenuti. Il senso della vita terrestre si oppone e si completa con il senso della vita ultraterrena. La chiave di lettura è il tempo che con i suoi cicli continui, si realizza nell’eternità divina. In questo armonioso evento si introduce un elemento di discontinuità: il senso del non‐Ninito. Il volto del giorno appena abbozzato e le basi incomplete sono due scelte formalmente uguali ma di signiNicato diverso. Il volto è la rafNigurazione della libertà umana: nulla è premeditato, l’uomo è libero di scegliere il proprio destino. Quest’ultimo diventa quindi la rappresentazione di un concetto tipicamente rinascimentale della mentalità borghese: l’uomo nel duello tra contingenza e coscienza. Il basamento nel quale spicca l’elemento naturale (come la civetta nella Nigura della notte) simboleggia il ricordo della vita terrena. Essenza vitale che emerge anche dal volto dei personaggi attraverso la rappresentazione dei diversi stati d’animo della condizione umana. Analizzando il complesso tomba–Nigure–personaggi possiamo dedurre il concetto dell’esistenza umana in Michelangelo. L’anima umana domina sui cicli temporali che la dividono dall’esistenza terrena. Quest’ultima è eterna e vive in una condizione di contemplazione: la venerazione della vergine con il bambino. Il tempo è il limite metaNisico tra l’eternità divina e la fugacità della vita. Come nella Volta della Sistina, le Nigure inseriscono nella solenne quadratura architettonica, di nitida formulazione prospettica, altri dinamici ritmi divergenti. La loro stessa disposizione piramidale è rotta e complicata, all’interno, da continui contrapposti plastici. E questo moto, dominato da leggi di rispondenza


dialettica, si conclude e si riassume nel nodo di contrappunti che è la statua di Lorenzo, svolti tuttavia in un lento Nluire di masse, dall’ombra dell’elmo sul volto alla alternanza di pose in profondità delle membra. Di fronte è l’altro monumento, con la Nigura di Lorenzo di Urbino in posa meditativa, un atteggiamento pensieroso volutamente contrap‐ posto a quello dell’altro duca. Ai piedi di Lorenzo, l’Aurora e il Crepuscolo, la prima rafNigurata come appena riemersa dal sonno, con un’espressione amara che esprime tutta l’ansia di affrontare il nuovo giorno, l’altro come abbandonato in una dolorosa inerzia, con i lineamenti come offuscati, per effetto del non‐Ninito. Le statue dei duchi sembrano rivolgersi alla contemplazione della Madonna col Bambino, simbolo di vita perenne, che nel progetto originario doveva collocarsi alla loro stessa altezza, al centro del monumento sulla parete dell’ingresso. Di fronte c’è l’altro monu‐ mento, con la Nigura di Loren‐ zo di Urbino in posa medita‐ tiva, un atteggiamento pensie‐ roso volutamente contrap‐ posto a quello dell’altro duca. Ai piedi di Lorenzo, l’Aurora e il Crepuscolo, la prima rafNigurata come appena riemersa dal sonno, con un’espressione amara che esprime tutta l’ansia di affrontare il nuovo giorno, l’altro come abbandonato in una dolorosa inerzia, con i lineamenti come offuscati, per effetto del non‐Ninito. Le statue dei duchi sembrano rivolgersi alla contemplazione della Madonna col Bambino, simbolo di vita perenne, che nel progetto originario doveva collocarsi alla loro stessa altezza, al centro del monumento sulla parete dell’ingresso.


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