Ivan Cicconi NoTav

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Premessa Le pagine che seguono non hanno alcuna pretesa di delineare nuovi scenari della corruzione in Italia a cavallo del xx secolo, dentro il percorso: opere pubbliche, esigenza di modernizzazione e politica. Si propongono soltanto di chiarire le architetture, nuove, messe in atto nel nostro Paese, in modo particolare legate al Progetto di Alta Velocità e qualcos’altro intorno. Dal racconto emerge la conferma dell’attualità della storica espressione di Ernesto Rossi, forse con la necessità di riconsiderare la parola profitti (privatizzazione dei profitti) per declinarla verso la meno nobile ‘affari’, se non ‘rapine’. Il racconto è duro, forse aspro, ma non disperante. è un racconto che invita a guardare la realtà molto grigia che troppo spesso nasce e cresce intorno ai palazzi del potere politico nel rapporto con le grandi imprese e le grandi opere. Sono pagine certamente di verità, dalla quale non si può prescindere pensando alle immense difficoltà che comporterà un progetto di onesto risanamento della vita economica, sociale, politica del nostro Paese. Non dovrebbero favorire pulsioni moralistiche, piuttosto sollecitare quella presa di coscienza che ogni limite, in materia, si sia consumato e che dunque occorra una condanna radicale e definitiva. è anche una sorta di auspicio affinché quanti avranno la responsabilità di governo, nel settore, attingano a quelle residue energie sane ancora presenti nella pubblica amministrazione; stringano rapporti con quanti, tecnici e imprese, abbiano dato segni di competenza ed estraneità al malaffare; mettano cioè in essere processi virtuosi caratterizzati dalla trasparenza. Percorsi non certo facili, lascia intendere questo scritto, oltretutto neanche sufficienti, se non si avrà l’intelligenza e il buon senso di guardare con serena obbiettività ad alcuni movimenti di popolo, come quello della Val Susa e non solo. Questo fenomeno dei cosiddetti No-Tav, in un certo senso, rappresenta un paradigma dell’Italia di questa fase che non si è contrapposto alla modernizzazione, come si è ostinatamente cercato di far apparire, ma 9


ha, anzi, rappresentato e rappresenta un modello da cui non si dovrebbe prescindere. Infatti, esaltando le fondamenta della democrazia, ha fatto emergere – forse non poteva essere disgiunto – competenze e culture tecniche elevate, apparse ancora più grandi di fronte all’insipienza, la superficialità, la grossolanità delle competenze espresse dalle istituzioni. Con il progetto dell’Alta Velocità messo in campo, dicono queste pagine, non si è portata avanti alcuna modernizzazione, anzi si sono prodotti danni seri, si sono distrutte alcune imprese espressione dell’eccellenza tecnica italiana e si è rafforzata quella corruzione che certamente connota la gran parte dei paesi, ma che vede il nostro ancora all’avanguardia nella costruzione di sempre nuovi e sofisticati percorsi essenzialmente finalizzati alla ben nota ‘socializzazione delle perdite’. Queste pagine prendono la luce, quando i rumori sempre più assordanti del declino del mondo cosiddetto sviluppato ci stordiscono, mentre i problemi di bilancio, e non solo, nel paese rendono sempre più incerto il nostro futuro. Eppure, soltanto sul finire del secolo scorso, meno di venti anni fa, l’idea che ormai si fosse alla fine della storia era una certezza biblica; mentre sino ad un anno fa, forse meno, nel nostro paese, oggi in subbuglio come non mai, ogni segno di crisi veniva negato dagli allegri governanti. La forza della concreta realtà economica e sociale nel mondo ha costretto tutte le accademie a riaprire le pagine della storia, mentre queste pagine, mille volte più modeste, disveleranno a molti un dato nascosto nelle pieghe della contabilità dello Stato: alla voragine del nostro debito pubblico noto vanno aggiunti i debiti per miliardi e miliardi di euro occultati nei bilanci delle Spa pubbliche e nei Proiect financing modello Alta Velocità. è banale dire che solo se guarderà in faccia alla realtà economicofinanziaria per quella che è, il nostro paese potrà trovare la forza per uscire dalla crisi che ormai più nessuno è in grado di nascondere. E il libro rappresenta, vorrebbe essere, un contributo per questo percorso.

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LA MADRE DI TUTTE LE BUGIE La pietra tombale sulla bugia del secolo Quella volta feci fatica a spiegare al ministro di Grazia e Giustizia che il project financing per il piano carceri era un’emerita baggianata. Era il settembre del 2000 ed il governo presieduto da Giuliano Amato era impegnato nella elaborazione del documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef) per il triennio 2001-2003. Quella del 2000 fu un’estate particolarmente torrida, a farne le spese furono fra gli altri i detenuti. Nelle carceri, vecchie e sovraffollate, ci furono proteste e ribellioni per le condizioni inaccettabili che il caldo aveva fatto esplodere. Alla ripresa delle attività, il ministro dei Lavori Pubblici si accordava con quello di Grazia e Giustizia per definire il capitolo carceri del Dpef. L’incontro fra i due ministri e le rispettive segreterie tecniche veniva fissato per la metà di settembre. Il piano carceri pensato dal ministero competente prevedeva un intervento davvero straordinario. Nonostante il debito pubblico e la scarsità delle risorse, il piano, a detta del ministro di Grazia e Giustizia, poteva essere attuato attraverso un ampio ricorso al project financing. Il ministro dei Lavori Pubblici, non appena quello della Giustizia pronunciò questa locuzione, lo interruppe immediatamente e rivolgendo lo sguardo verso il capo della sua segreteria tecnica, disse: «vedo l’ingegnere particolarmente perplesso su questa ipotesi finanziaria». Il ministro a quelle parole fece seguire l’invito esplicito all’ingegnere ad esprimere il suo parere in merito a quella magica locuzione. Nella mia testa il commento era lucidamente presente, ma non potevo esternarlo senza tradurlo in una forma meno offensiva. Spiegai con fatica che quell’ipotesi era inattuabile e che le norme in vigore consentivano forse di ricorrere ad altri istituti contrattuali, quali la permuta o il 11


leasing immobiliare. In quel Dpef, e nella conseguente legge finanziaria per il 2001, di project financing per le carceri non ci sarà traccia, ma sarà solo una breve parentesi. Quella locuzione senza significato era ormai sulla bocca della maggioranza degli amministratori pubblici alle prese con la ristrettezza di risorse per investimenti in opere pubbliche. Nel 2002, con i nuovi ministri del governo di centro-destra, proprio questa locuzione diventerà la formula magica per programmi faraonici. Per le carceri si costituisce la società “Dike Aedifica SpA”, per le grandi opere la società “Infrastrutture SpA”, per il patrimonio immobiliare “Patrimonio dello Stato SpA”, per i beni culturali “Arcus SpA”, tutte a totale capitale pubblico. La loro missione, la valorizzazione del patrimonio edilizio-infrastrutturale pubblico e la promozione dell’investimento privato con il project financing. Non produrranno alcuna valorizzazione e tanto meno investimenti privati; alcune finiranno sotto la scure dell’Europa, altre sotto la lente dei magistrati, tutte sotto il controllo delle “cricche” di boiardi di Stato, faccendieri, pseudo-imprenditori e politici di pseudo-partiti. Non saranno però le sole: ne sorgeranno a decine sotto il controllo diretto e indiretto dello Stato e a migliaia sotto il controllo diretto e indiretto degli Enti locali, anche grazie alle riforme che già il centro-sinistra aveva promosso per la privatizzazione dei servizi pubblici locali. Il governo di centro-destra, oltre a varare la cosiddetta Legge obbiettivo per le grandi opere, modificava nel 2002 anche la Legge quadro sui lavori pubblici, riformando la definizione del contratto con il quale si sostanzia il cosiddetto project financing, il contratto di “concessione”. Da quel momento anche nei governi locali, di centro-destra e di centro-sinistra, quella locuzione diventa la parola d’ordine per millantare un coinvolgimento di capitali privati nella realizzazione di opere e nella gestione dei servizi pubblici. Dopo quella riforma della concessione, le infrastrutture pubbliche realizzate con la magia di 12

quella locuzione proliferano, insieme all’esplosione di società di diritto privato, pubbliche o miste, pronte a realizzare opere o gestire servizi pubblici. Le bugie, che con il project financing raccontano gli amministratori pubblici ed i boiardi nominati nelle società controllate o partecipate, hanno consentito in poco meno di dieci anni di impegnare non meno di 150 miliardi di euro fuori bilancio, attraverso prestiti, accesi dai promotori cosiddetti privati, quasi sempre garantiti dal committente pubblico. Prestiti che sono sostanzialmente debito pubblico differito nel tempo, debiti pubblici “a babbo morto”, nascosti nella contabilità di società di diritto privato. La “madre” di tutte queste bugie, la più grande, è stata partorita ben dieci anni prima della legge che ha riformato il contratto di concessione e della contestuale emanazione della Legge obbiettivo per le grandi opere. Il modello di architettura finanziaria e contrattuale disegnato dalle due leggi nei primi anni duemila non era infatti una novità, era già stato definito nella “prima repubblica”, agli inizi degli anni novanta, e sperimentato nella transizione alla “seconda”, mentre, con le leggi di riforma sulle società per la gestione dei servizi pubblici, si creavano anche le condizioni per la sua diffusione a livello locale. Per misurare gli effetti di queste “riforme” dovremo aspettare ancora qualche anno, quando le bugie emergeranno in modo crescente e devastante nel bilancio dello Stato e nelle centinaia e centinaia di bilanci degli Enti locali che hanno mascherato quelle bugie con il project financing. Per la madre di tutte le bugie gli effetti sono invece già noti, la bugia è stata accertata, addirittura certificata da organismi ufficiali dello Stato e dell’Unione Europea. La madre di tutte le bugie è stata soltanto rimossa, senza alcun funerale, in silenzio e all’insaputa di tutti. Un parlamento silente ed un governo di centro-sinistra hanno provveduto a nascondere sotto una gigantesca pietra tombale i suoi numeri clamorosi ed i nomi delle decine di bugiardi che per quindici anni 13


l’hanno raccontata. La “bugia” era stata presentata pubblicamente il 7 agosto 1991, con una cerimonia che aveva visto la presenza del gotha dell’imprenditoria pubblica e privata del nostro Paese. Raccontava che per la prima volta un’infrastruttura ferroviaria sarebbe stata realizzata con il 60% dei costi coperti dal finanziamento privato. Il costo complessivo era quantificato nell’equivalente di 14 miliardi di euro, mentre la sua completa realizzazione era prevista al massimo entro il 1999. Costerà in realtà almeno 90 miliardi e andrà bene se sarà completamente realizzata entro il 2020. L’opera pubblica più grande ed onerosa della storia della nostra repubblica è stata realizzata con il project financing in questo modo: «Sottostimando, minimizzando, andando a dritto di brutto, ci saremmo aspettati almeno che l’opera sarebbe finita prima e che il tutto, alla fine, sarebbe dovuto costar meno. Se presto e bene non stanno insieme, ci si aspetta che possano invece combinarsi almeno presto e male. Oppure, cattiva qualità, ma costi minori. No, qui si riesce nella sintesi, nella summa: male, tempi infiniti». Questa descrizione lapidaria è stata fornita da un magistrato, il dott. Gianni Tei, nella requisitoria pronunciata il 10 aprile 2008 a carico dei responsabili dei danni ambientali causati durante i lavori per la realizzazione della tratta ferroviaria per l’Alta velocità Bologna-Firenze. I responsabili, chi ha eseguito l’opera e chi doveva vigilare sulla sua realizzazione, si sono difesi con argomentazioni che ormai da decenni rimbalzano, senza contraddittorio, sui mass media. Il magistrato non si esime dal commentare: «(...) il valore che si può dare ad affermazioni lette nei documenti e risuonate in questa aula, anche da pubblici amministratori, quali “opera grandiosa realizzata dai migliori specialisti e tecnici”, “tecniche innovative a livello mondiale”, “un’opera di primaria importanza”, “abbiamo le migliori professionalità”. Chiunque vorrà usare questi argomenti dovrebbe prima spiegare perché in questa opera pubblica l’indicazione e fissazione dei tempi e dei costi di realizzazione abbiano avuto una affidabilità pari a quella della lettura di un mazzo di 14

tarocchi da parte di una cartomante». Così dunque si sono realizzati gran parte dei lavori della grande opera partorita dalla madre di tutte le bugie: e intanto presidenti della Repubblica, premiers e ministri continuano a calcare le straordinarie passerelle delle continue inaugurazioni di pezzi e pezzettini di questa infinita infrastruttura ferroviaria. Considerando la sola tratta Bologna-Firenze, la passerella è toccata il 5 dicembre 2009 a Silvio Berlusconi e ad Altero Matteoli; ma prima, per la stessa tratta, nel 2001, era toccata anche a Carlo Azeglio Ciampi e a Pierluigi Bersani e, ancora, nel 2004, a Silvio Berlusconi e a Pietro Lunardi. Nei costi della grande opera ci sono ovviamente anche quelli per le pompose passerelle ma, secondo i cerimonieri, gli italiani possono stare tranquilli perché “i privati” garantiscono la copertura dei costi: per anni questa pura e semplice “bugia” ha consentito di nascondere una clamorosa “truffa” ai danni dello Stato e di tutti i cittadini italiani. Il parlamento italiano, con una norma definita dai magistrati della Corte dei conti “anodina”, ci ha messo sopra una pietra tombale, sotterrando, senza alcun colpevole, la bugia che ha nascosto la più grande truffa del ventesimo secolo. Con cinque semplici righe, contenute nel comma 966 dell’unico articolo della legge n. 296/2006, la Finanziaria per l’anno 2007, si sanciva la seguente previsione economica: «gli oneri per capitale ed interessi dei titoli emessi e dei mutui contratti da Infrastrutture Spa fino alla data del 31 dicembre 2005 per il finanziamento degli investimenti per la realizzazione della infrastruttura ferroviaria ad Alta velocità “Linea Torino-MilanoNapoli”, nonché gli oneri delle relative operazioni di copertura, sono assunti direttamente a carico del bilancio dello Stato». Con ciò si prendeva atto che il “finanziamento privato” per la realizzazione delle infrastrutture per il treno ad Alta velocità, era in realtà, appunto, una pura e semplice bugia. La truffa veniva in questo modo sanata senza che alcuno si esponesse al pubblico ludibrio della colpa grave costituita dagli oneri per 15


capitale ed interessi scaricati sul bilancio dello Stato. Nella discussione in aula su quella Finanziaria il tema che polarizzò il confronto politico e l’attenzione dei mass media fu quello relativo al “ticket sanitario”, pari a circa 800 milioni di euro: su questa cifra i parlamentari si confrontarono a lungo e duramente. Ebbene, il valore del comma 966 era di oltre 15 volte superiore, esattamente 12 miliardi e 950 milioni di euro, 26.000 miliardi circa di vecchie lire. In quel parlamento, su quel comma che certificava quella bugia e scaricava sulla testa di tutti i cittadini una valanga di debiti, non si è sentita una sola parola, non una domanda, nulla: un silenzio tombale. Ignoranza? Personalmente penso proprio di sì, almeno per la stragrande maggioranza dei parlamentari, salvo la rara eccezione di chi per furbizia o per interesse ha preferito o scelto di tacere. La riprova è ancora in quella stessa Finanziaria. Il comma 1364, l’ultimo di quell’unico articolo di quella legge, stabiliva che la previsione contenuta nel comma 966 sarebbe entrata in vigore non dal primo gennaio del 2007, bensì alla “data di pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale dello Stato”. La legge è stata pubblicata il 27.12.2006: in questo modo quella cifra è stata scaricata sul bilancio dell’anno precedente, quello del 2006, con al governo il centro-destra. Solo grazie a questa “furbata” (valutata illegittima nei pareri scritti dai tecnici della due Camere che richiamavano il Governo al rispetto del comma 3 dell’articolo 11 della legge sulla contabilità generale dello Stato n. 468/1978) il rapporto deficit/PIL del 2007 è sceso al 2,4 per cento, mentre quello del 2006 è salito al 4,3 per cento. In occasione delle elezioni politiche anticipate del 2008, proprio queste cifre sono state al centro della campagna elettorale del nascente Partito Democratico. L’arma propagandistica più brandita contro il nascente Popolo delle Libertà è stata quella dello sforamento del 3 per cento nel 2006, mentre il merito più importante rivendicato al centro-sinistra è stato quello di avere abbassato il deficit nel 2007 di ben 2 punti percentuali. Nessuno però ha mai detto che senza quella “furbata” le cifre che 16

si sarebbero offerte al confronto sarebbero state completamente diverse: 3,4 per cento per il deficit 2006 e 3,3 per il 2007, quasi identiche. Non sarebbe cambiato nulla, ovviamente, essendo difficile immaginare una batosta del PD e della sinistra più clamorosa di quella subita nella primavera del 2008. Rimane però la curiosità sul perché, scontata l’ignoranza dei più, nemmeno geni della finanza creativa del centro-destra abbiano mai fatto cenno – prima, durante e dopo quella campagna elettorale – a questo chiaro travisamento delle cifre sul deficit pubblico. Forse ancora per ignoranza? è sempre più difficile poterlo anche solo immaginare. Quel comma 966 della Finanziaria ci è stato imposto dall’Unione Europea che, nell’ambito della procedura di infrazione per deficit eccessivo avviata nel 2005 e chiusa nel 2007, ci ha chiesto esplicitamente di rimuovere la “truffa TAV”, consistente nel tenere il cosiddetto finanziamento privato dell’Alta velocità fuori dai conti pubblici. Ignoranza da parte dei più certamente, ma non dei ministri del Bilancio Tremonti, Siniscalco e Visco, che hanno gestito la procedura e che sono stati costretti ad ingoiare quella “bugia”. Questa storia dunque ha bisogno di essere raccontata e compresa: troppo clamorose sono le cifre, troppo numerose le furbate che la punteggiano, troppo curiosi i silenzi che la circondano. Forse è l’unica storia che caratterizza in modo emblematico la lunga e travagliata transizione dalla “prima” alla cosiddetta “seconda repubblica”. Comincia infatti agli inizi degli anni ‘80, senza soluzione di continuità si svolge fino ai nostri giorni e promette di durare ancora per diverso tempo. Attraversa indenne anche la stagione di Mani pulite. Conoscerla è essenziale anche per capire che cosa sia diventata oggi la Tangentopoli disvelata da quelle indagini.

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Il futuro di Tangentopoli diventato storia Il 17 febbraio 1992 è la data archiviata come l’inizio della stagione del crollo del sistema delle tangenti. Quel giorno la richiesta di arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, da parte del Magistrato che diventerà simbolo di quella indagine, veniva autorizzata dal giudice per le indagini preliminari e dunque eseguita. Il segretario nazionale del partito di appartenenza del malcapitato collettore di tangenti lo definiva, poche settimane dopo l’arresto e alle prime notizie delle confessioni, un povero “mariuolo”. Il segretario forse non aveva tutti i torti, Mario Chiesa era un ladruncolo di periferia che replicava il sistema messo in piedi dalle cupole nazionali delle imprese e dei partiti, e che non disdegnava di fare la cresta sulle tangenti richieste ai piccoli appaltatori che lavoravano con questo committente pubblico minore. Certamente era una figura di secondo piano di fronte ai ladri eccellenti delle cupole nazionali che si misuravano su affari di ben altra dimensione e che le indagini, seguite a quell’arresto, hanno consentito di smascherare. I capi della cupola delle imprese corruttrici, con il comodo racconto della loro condizione di vittime della concussione, li abbiamo visti entrare ed uscire dalle patrie galere nelle centinaia di indagini avviate dai magistrati, nelle molte cause chiuse con il patteggiamento e nei pochi processi che sono arrivati nelle aule dei tribunali prima della prescrizione. I leaders nazionali della cupola dei partiti corrotti li abbiamo invece visti sfilare nell’unico processo immediatamente celebrato, quello relativo alla cosiddetta “madre di tutte le tangenti” distribuita da Raul Gardini e dai suoi accoliti a tutti i vertici dei partiti all’epoca presenti in parlamento. Quel primo processo di Mani pulite, voluto ed imposto da Sergio Cusani, pur mettendo a nudo il sistema di collusione fra politica e affari fu di fatto condotto, per ragioni oggettive ma anche per volontà e strategia del Pubblico Ministero, contro 18

una sola parte dei protagonisti di Tangentopoli, il sistema dei partiti. Quel processo è stato anche l’unico celebrato, e nemmeno fino alla sentenza, dal magistrato simbolo di quella inchiesta. Il PM il 6 dicembre 1994 – a conclusione di una lunga e colorita arringa accusatoria – con una mossa teatrale delle sue abbandona la toga lasciando ai colleghi l’onere di portare avanti le fasi più difficili e meno appariscenti del lavoro del magistrato inquirente, quelle dei processi che i numerosi filoni di indagine avevano fino a quel momento sviluppato. La data di quella mossa teatrale segna l’inizio di una nuova stagione pilotata dai vassalli e valvassori di Tangentopoli, ma anche alimentata dall’abbandono della toga e dalla entrata in politica dell’ex magistrato Antonio Di Pietro. Da quel momento, la qualità del sistema di corruzione, l’oggetto specifico, il contenuto di quelle indagini, scompaiono dalla cronaca e dalla scena politica. L’attenzione ed il confronto vengono spostati sui protagonisti delle indagini, sulle presunte colpe dei magistrati, sulle vicende e gli affari personali dell’ex simbolo di quelle inchieste. In questa stagione, sul contenuto delle indagini la politica registra una totale assenza in sinergia con il silenzio dei mass media. La rimozione dei fatti e del merito di quelle inchieste è totale: saranno solo oggetto di studio di qualche raro cultore della materia. A partire dal 6 dicembre 1994, quella nuova stagione appariva del tutto delineata nei suoi contorni essenziali. Proprio la consapevolezza del processo di rimozione che si avviava con la vicenda segnata da quella mossa teatrale mi spinse a scrivere il saggio La storia del futuro di tangentopoli, uno dei primi usciti sulla materia. Oltre ad analizzare gli aspetti fondamentali del sistema di Tangentopoli e a tipizzare i diversi riti tangentizi disvelati dalle indagini dei magistrati di diverse procure in diversi contesti, descrivevo i primi passaggi di questo processo ed il suo probabile sbocco. La tesi sostenuta in quel libro, pubblicato nel dicembre 1997, risultava così sintetizzata: «Tangentopoli era un Sistema, come tale aveva dei caratteri e mec19


canismi propri che consentivano la celebrazione di alcuni riti tangentizi connessi al contesto politico e imprenditoriale nel quale venivano celebrati: il Rito Ambrosiano della tangente propriamente detta, in un contesto con partiti e imprese collusi ma con strutture di comando nettamente distinte e separate; il Rito Emiliano della sovrapposizione e intreccio fra politica e affari, in un contesto caratterizzato da una forte diffusione di imprese cooperative e aziende municipali, con i vertici sotto il controllo diretto dei partiti; il Rito Mafioso della tangente allargata e del condizionamento della sub-contrattazione, in un contesto nel quale la criminalità organizzata esercita un controllo militare del territorio. Nell’era di Mani Pulite, intendendo con questa locuzione le indagini sviluppate dai giudici milanesi con la presenza di Antonio Di Pietro, si è colpito solo uno di questi riti, quello Ambrosiano. Mani pulite, e soprattutto il suo simbolo, ha spesso incrociato gli altri riti, ma li ha deliberatamente ignorati per non pregiudicare la strategia giudiziaria centrata sulla contestazione del solo reato di corruzione e di quelli a questo eventualmente connessi. Proprio questo “limite” ha reso più efficace quella strategia ed in tal modo ha potuto produrre il terremoto di quegli anni. Un terremoto che però ha prodotto danni consistenti solo sul sistema dei corrotti dediti al rito Ambrosiano, mentre ha solo incrinato il Sistema che consentiva ai corruttori di celebrare anche gli altri riti, invisibili e irraggiungibili con il solo reato di corruzione. Il simbolo di Mani Pulite è stato talmente lontano dai meccanismi strutturali di Tangentopoli fino al punto che, lo stesso sistema dei corruttori, negli stessi mesi in cui fioccavano gli arresti e gli avvisi di garanzia, costruiva un Nuovo Sistema più potente e razionale, quello che si è articolato nell’architettura contrattuale e finanziaria per la realizzazione delle infrastrutture per il treno ad Alta velocità». Alla descrizione della Nuova Tangentopoli, strutturata e decollata durante l’era di Mani Pulite, era dedicato l’ultimo capitolo del libro, “Alta velocità: ovvero la storia del futuro di tangentopoli”. Nella premessa precisavo che «Scri20

vere la storia del futuro può apparire un improbabile esercizio profetico, eppure il Nuovo Sistema presenta una struttura talmente chiara e definita che raccontarne la storia del suo futuro è in realtà molto più semplice che ricostruire o indagare sui caratteri del Sistema che lo ha preceduto». Di quella “storia del futuro” si sono consumati quasi tre lustri e possiamo misurare oggi quanto profetica fosse quella disamina se consideriamo la realtà sotto i nostri occhi. Il libro nero dell’Alta Velocità è un aggiornamento di quel lavoro, è la storia del futuro diventata semplicemente storia, nella quale quella previsione si è realizzata pienamente, ma con contorni ancora più perversi e pervasivi di quelli immaginati. Questo aggiornamento racconta di come quell’architettura contrattuale è diventata un “modello” legalizzato e dunque replicato e diffuso, per la realizzazione di altre grandi e piccole opere o per la gestione di grandi e piccoli servizi pubblici, con altre grandi e piccole “TAV SpA”.

I ladri dell’Alta velocità Hanno subito la gogna mediatica per 1022 giorni, dal 17 febbraio 1992 al 6 dicembre 1994, ma hanno vinto loro. Molti di essi hanno subito l’onta del carcere ed il ludibrio della pubblica opinione, ma erano certi che non sarebbe durata a lungo. Confidavano nella straordinaria intuizione di un protagonista indiscusso di quel sistema, che, ancora prima dell’arrivo di Mani pulite, aveva inventato una nuova architettura per integrare gli affari privati e la gestione della cosa pubblica. In quei giorni quella sua invenzione era ancora in rodaggio ma da lì a poco avrebbe garantito la ricostruzione di una nuova Tangentopoli, senza i rischi della contestazione dei reati che ha consentito la demolizione del vecchio sistema. Il compito di dare corpo a questa straordinaria invenzione fu 21


affidato, dallo stesso inventore, l’allora ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino, al commissario straordinario delle FS Lorenzo Antonio Necci il quale ebbe comunque il merito di traghettare quella invenzione durante tutta la stagione di Mani Pulite. Alla fine di quella stagione il nuovo sistema era già a regime e poteva garantire una ripresa semplicemente straordinaria, con tante risorse e senza ormai inutili mazzette. A dargli il nome ci pensò, diversi anni dopo, Lunardi, il ministro che considerava naturale la convivenza con la Mafia: lo definì “modello TAV” e lo legalizzò con la Legge obbiettivo. L’ultimo capitolo del mio libro del 1997 non era contro l’Alta velocità e tanto meno contro l’ammodernamento e la velocizzazione delle infrastrutture ferroviarie. Il tema non era questo, bensì quello dell’architettura contrattuale e finanziaria, vista come nuovo sistema di relazione fra politica ed affari al riparo dai rischi della contestazione del reato di corruzione strettamente connesso con la celebrazione del rito Ambrosiano della tangente. Così è stato. Quella architettura è diventata un modello che si è riprodotto e diffuso, inquinando sia la politica che gli affari. Quel capitolo del libro mi ha però offerto l’opportunità di incontrare quasi tutti i comitati “NOTAV” nati su tutto il tracciato del Progetto. Grazie a loro, ed alla competenza delle persone con le quali ho condiviso la presentazione e la diffusione di quel lavoro in decine di assemblee, la mia conoscenza si è potuta arricchire di tutti i risvolti tecnici, sociali, ambientali che la sua realizzazione implica e produce. Del resto, chi volesse misurarsi con la ricerca di informazioni, di qualsiasi tipo, sul Progetto TAV, può provare ad attivare un motore di ricerca su internet. Le informazioni più pregnanti le troverà solo sui siti NOTAV, compresi ad esempio gli atti del processo dei magistrati fiorentini contro il Consorzio CAVET (sub-contraente di FIAT SpA e con società capofila Impregilo SpA) per i danni ambientali prodotti nella costruzione della tratta Bologna-Firenze. Solo su questi siti si possono trovare anche le poche in22

formazioni sui progetti ufficiali mai pubblicati sui siti di TAV SpA, RFI SpA o FS SpA, ricchi solo di informazioni generiche, spesso smaccatamente pubblicitarie sulle magnifiche sorti del treno veloce. Men che meno le informazioni possono essere rintracciate nei siti dei general contractor e delle imprese socie che, per grazia ricevuta, hanno avuto in dono il grande affare della progettazione e costruzione delle tratte ferroviarie. L’aggiornamento di quel lavoro era dunque anche un atto dovuto ai tanti cittadini dei tanti comitati che mi hanno consentito di conoscere e capire molto di più di quello su cui mi ero già misurato, di arricchire il bagaglio di dati specifici sulla storia e le implicazioni di quel Progetto e di fornirmi una chiave di lettura della realtà del nostro Paese. La storia dell’Alta velocità è la metafora per eccellenza della recente storia del nostro Paese: ci spiega le principali vicende che hanno segnato la cosiddetta “seconda repubblica”. Quella della privatizzazione delle aziende pubbliche senza i privati e senza liberalizzazioni. Quella dell’ingresso nella moneta unica comunitaria e delle furbizie per eludere le regole europee. Quella dei boiardi di Stato, con la loro corte di faccendieri, al servizio degli interessi privati. Quella dei magistrati e degli avvocati collusi, guidati non dalla legge ma pilotati e al soldo degli indagati. Quella dei conflitti di interesse diffusi, coperti e alimentati dal conflitto di interesse per eccellenza. Quella della questione morale, già negli anni ‘80 declinata nel rapporto perverso fra partiti e istituzioni, nella occupazione delle istituzioni da parte dei Partiti in quanto tali, nella partitocrazia senza partiti e senza politica che usa ed abusa della cosa pubblica. La storia del progetto TAV racconta pure dell’ignoranza di interi parlamenti della “prima” e della “seconda repubblica” e delle dichiarazioni fantasiose di tutti i presidenti del Consiglio e ministri dei Trasporti o delle Infrastrutture di tutti i governi che si sono succeduti. Dal primo, con presidente Bettino Craxi e Claudio Signorile ministro, con i quali a metà degli anni Ottanta si è dato avvio alla follia di un Progetto tecnicamente sba23


gliato, fino all’ultimo, con presidente Silvio Berlusconi e Altero Matteoli ministro, che arricchiscono oggi con quella follia lo spettacolo mediatico della politica. Passando per il governo con Giulio Andreotti presidente e Gianni Prandini ministro, che ha declinato la follia di quel Progetto in truffa, e per il governo con Romano Prodi presidente e con i doppi ministri competenti Antonio Di Pietro e Alessandro Bianchi, che a quella follia e a quella truffa, lasciata più viva che mai, hanno aggiunto la beffa dell’affidamento del servizio AV ad una società privata a trattativa privata per un affare esclusivamente privato. La vera storia dell’Alta velocità è comunque la chiave di lettura indispensabile per capire come il sistema di relazioni fondato sulle tangenti sia stato sostituito da un nuovo sistema che consente la transazione affaristica fra gli accoliti dei partiti dello Stato postkeynesiano ed i cosiddetti manager delle imprese cosiddette private dell’era postfordista, al riparo della contestazione del reato di corruzione. Ci consente di caratterizzare quello che è diventato il modello TAV, oggi replicato negli Enti locali dai mariuoli post-moderni, non più affaccendati a celebrare il rito a rischio della tangente ma trasformati in sanguisughe delle Istituzioni. A questa realtà perversa e devastante è dedicato soprattutto l’ultimo capitolo di questo aggiornamento che, senza la pretesa di caratterizzare gli assetti imprenditoriali e statali del capitalismo contemporaneo, cerca di proporre un’analisi del nuovo sistema di relazioni fra la politica e gli affari, che proprio il modello TAV consente di leggere sia dal lato delle imprese investite dalla riorganizzazione postfordista, che dal lato dello Stato sociale rimodellato dalle politiche postkeynesiane. Ed è ancora questo modello che ci consente di avere una chiave di lettura delle miserie raccontate dalla cronaca quotidiana, le vicende pittoresche o suscettibili di sollecitare la curiosità morbosa, senza alcuna riflessione sul contesto, né sulle ragioni che hanno determinato o che consentono lo sviluppo di tali comportamenti. In questa cronaca si registra la sempre 24

più frequente denuncia bipartisan dell’ineluttabile persistenza del sistema di corruzione. Tutto, secondo questa generica e mistificatoria posizione, continuerebbe come prima, e si accredita così l’idea che tutto sia rimasto come era prima dell’intervento di Mani pulite. Ma non è così. I cambiamenti sono sostanziali e ci disegnano un Sistema ben più vorace e devastante. Lo scambio tangentizio prima celebrato da soggetti distinti e separati è diventato intreccio e compromissione, ed i confini fra politica e affari sono ormai indefiniti. Le Istituzioni sono diventate tavole imbandite per l’abbuffata dei partiti, tutti; delle imprese di diritto privato di proprietà pubblica, tutte; delle imprese private cooptate nel banchetto da boiardi e faccendieri o penetrate nell’affare in cambio di “favori” o “piaceri” ai tanti mariuoli che popolano i cosiddetti partiti della “seconda repubblica”. La descrizione del furto consumato in questi anni a danno del Paese dalla partitocrazia e dal mondo contiguo degli affari, attraverso la ricostruzione della vera storia di questa infrastruttura, non poteva non vedere il riconoscimento delle vicende, sostanzialmente inedite ed occultate, di cui sono state protagoniste due personalità che hanno provato a contrastare proprio questa storia. Un ex ministro dei Trasporti ed un professore scomodo, che hanno cercato di impedire che quella truffa si consumasse. Sono due vicende essenziali da considerare anche per avere la misura della miseria di tutti coloro che nella storia dell’Alta velocità ci sono comunque entrati per interesse, per furbizia, per ignoranza o per stupidità. All’ex ministro ed al professore sono dedicati due capitoli del libro scritti da un bolognese di adozione come loro, che non può nascondere la rabbia di vivere in una città diretta da sindaci che alle passerelle mediatiche per l’Alta velocità non hanno fatto mai mancare la loro presenza silente, inutile, ignorante, offensiva. I ladri ad Alta velocità del modello TAV sono anche questo: disprezzo della verità ed offesa alla memoria di personalità come Luigi Preti e Beniamino Andreatta. Quella di Preti è la storia di un padre della nostra Costitu25


zione che, inascoltato e dimenticato, questa truffa l’aveva riconosciuta e denunciata per primo, fin dall’inizio e prima che si consumasse. Quella di Andreatta è la storia di uno straordinario protagonista della nostra Repubblica che, con competenza e determinazione, ha cercato di smascherare le bugie che quella truffa nascondeva.

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LUIGI PRETI E LA GRANDE TRUFFA La lettera del presidente onorario del PSDI La data della lettera, 17 febbraio 1993, destava da principio solo curiosità. Il caso aveva voluto che fosse stata scritta nel primo anniversario dell’arresto che aveva segnato l’inizio della stagione di Mani Pulite. Singolari però erano il simbolo stampato sulla lettera, in alto a sinistra, il sole nascente con la scritta “socialdemocrazia”, e la firma, in basso a destra, del presidente onorario del PSDI, Luigi Preti. Un simbolo ed un nome che non potevano non evocare, nella mente del destinatario, ricordi ideologici di radicale dissenso, se non addirittura di disprezzo. Fra le prime letture giovanili del destinatario infatti v’era stata anche quella di un famoso libretto di Vladimir Ilic Lenin, scritto in una sola notte, fra il 9 e il 10 novembre 1918, che sarebbe diventato il manuale dei comunisti nella polemica con la socialdemocrazia. Lenin rispondeva ad uno scritto di Karl Kautsky, “La dittatura del proletariato”, con il quale, a difesa dell’ortodossia marxista, rimproverava a Lenin di aver tentato una rivoluzione proletaria in un paese sottosviluppato e accusava il potere bolscevico di essere una dittatura più blanquista che marxista. A un anno dalla “rivoluzione d’ottobre” e nel pieno della fase più critica della rivoluzione russa, la risposta del leader comunista alle accuse di blanquismo provenienti da una voce così autorevole dell’ortodossia marxista doveva essere immediata ed il tono era ben riassunto nel titolo dato al suo scritto: “La rivoluzione proletaria ed il rinnegato Kautsky”. Erano passati molti anni da quelle letture, c’era stato il crollo del muro di Berlino, la dissoluzione dei governi e delle classi dirigenti nei paesi del cosiddetto socialismo reale si era ormai consumata, in Italia il PCI aveva già rinnegato se stesso e si era ridefinito PDS, i partiti della cosiddetta “prima repubblica” 27


zione che, inascoltato e dimenticato, questa truffa l’aveva riconosciuta e denunciata per primo, fin dall’inizio e prima che si consumasse. Quella di Andreatta è la storia di uno straordinario protagonista della nostra Repubblica che, con competenza e determinazione, ha cercato di smascherare le bugie che quella truffa nascondeva. Due grandi personaggi, scomparsi di recente, oltraggiati dai ladri dell’Alta velocità e ignorati dai ladri ad Alta velocità.

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LUIGI PRETI E LA GRANDE TRUFFA La lettera del presidente onorario del PSDI La data della lettera, 17 febbraio 1993, destava da principio solo curiosità. Il caso aveva voluto che fosse stata scritta nel primo anniversario dell’arresto che aveva segnato l’inizio della stagione di Mani Pulite. Singolari però erano il simbolo stampato sulla lettera, in alto a sinistra, il sole nascente con la scritta “socialdemocrazia”, e la firma, in basso a destra, del presidente onorario del PSDI, Luigi Preti. Un simbolo ed un nome che non potevano non evocare, nella mente del destinatario, ricordi ideologici e personali di odio, se non addirittura di disprezzo. Fra le prime letture giovanili del destinatario infatti v’era stata anche quella di un famoso libretto di Vladimir Ilic Lenin, scritto in una sola notte, fra il 9 e il 10 novembre 1918, che sarebbe diventato il manuale dei comunisti nella polemica con la socialdemocrazia. Lenin rispondeva ad uno scritto di Karl Kautsky, “La dittatura del proletariato”, con il quale, a difesa dell’ortodossia marxista, rimproverava a Lenin di aver tentato una rivoluzione proletaria in un paese sottosviluppato e accusava il potere bolscevico di essere una dittatura più blanquista che marxista. A un anno dalla “rivoluzione d’ottobre” e nel pieno della fase più critica della rivoluzione russa, la risposta del leader comunista alle accuse di blanquismo provenienti da una voce così autorevole dell’ortodossia marxista doveva essere immediata ed il tono non poteva certo essere quello elegante della polemica letteraria, anzi. Il titolo, “La rivoluzione proletaria ed il rinnegato Kautsky”, è emblematico, così come l’incipit del libretto di Lenin: «“La dittatura del proletariato” (Vienna 1918, Ignaz Brand, pp. 63), uscito recentemente, è uno degli esempi più lampanti del completo e ignominioso fallimento della II 25


Internazionale, di cui da molto tempo parlano tutti i socialisti onesti di tutti i paesi. La questione della rivoluzione proletaria si pone ora praticamente all’ordine del giorno in tutta una serie di Stati. È quindi necessario analizzare i sofismi da rinnegato e la totale abiura del marxismo da parte di Kautsky. I cadetti ci hanno abituati a ragionamenti di questo genere. Tutti i lacchè della borghesia in Russia ragionano così: dateci dunque il benessere generale in nove mesi, dopo una guerra devastatrice di quattro anni, mentre il capitale straniero aiuta largamente il sabotaggio e le rivolte della borghesia in Russia. In realtà non vi è più assolutamente alcuna differenza, nemmeno l’ombra di una differenza, tra Kautsky e un controrivoluzionario borghese». Erano passati molti anni da quelle letture, c’era stato il crollo del muro di Berlino, la dissoluzione dei governi e delle classi dirigenti nei paesi del cosiddetto socialismo reale si era ormai consumata, in Italia il PCI aveva già rinnegato se stesso e si era ridefinito PDS, i partiti della cosiddetta “prima repubblica” erano ormai prigionieri della rete di Mani pulite e quel simbolo del partito socialdemocratico sopravviveva solo a se stesso. I cascami di odio verso quel simbolo avrebbero potuto portare quella lettera nel cestino dei rifiuti; il tempo passato e, soprattutto, la forte curiosità ne salvò la lettura. La lettera di Preti era di pochissime righe, avendo il precipuo scopo di accompagnarne altre due, lunghissime, riservate e personali, che lo stesso Preti aveva inviato qualche giorno prima. Una a Beniamino Andreatta (datata 10 febbraio 1992), all’epoca responsabile economico della Democrazia Cristiana; e l’altra (con data 13 febbraio 1992) al ministro del Bilancio Franco Reviglio. Quella indirizzata ad Andreatta, bolognese di adozione come lo era Preti, era più immediata ed accorata. Cominciava così: «Caro Andreatta, dal punto di vista economico la questione della cosiddetta Alta velocità è sicuramente la più grossa da metà secolo ad oggi per la spesa immensa che comporterebbe. Le Ferrovie Spa parlano di 30 mila miliardi per non allarmare troppo l’opinione pubblica, ma in realtà pensano 26

che si tratterebbe almeno di 50 mila miliardi. Io però, documentandomi come ex ministro dei Trasporti con valorosi tecnici, penso che si arriverebbe a 100 mila. È una cifra da capogiro, ed è una truffa. (...)». L’incipit della lettera ad Andreatta faceva immediatamente archiviare ricordi di militanza politica o riserve ideologiche sulla firma. Il ruolo del destinatario di quelle missive, che era all’epoca segretario della federazione provinciale di un neonato Partito per la Rifondazione del comunismo, passava subito in secondo piano; quella più sollecitata era la competenza professionale dell’esperto di opere e infrastrutture pubbliche, immediatamente catturata dal merito e dal dettaglio con il quale l’ex ministro dei trasporti descriveva l’architettura finanziaria del Progetto TAV. La lettera di Preti ad Andreatta si concludeva con un appello accorato: «Tu sei un uomo di profonda onestà e un economista di grande valore. La Democrazia Cristiana ne deve tenere conto, se vuole evitare che il progetto dell’Alta velocità si realizzi sul serio e se ne dia poi colpa al tuo Partito dopo la catastrofe. Cordiali saluti ed auguri. Luigi Preti». Grazie a quella lettera dell’odiato lacchè della borghesia, ha inizio una continua ed approfondita attenzione che ha portato l’esperto di opere e infrastrutture pubbliche a diventare forse il maggiore esperto dell’architettura contrattuale e finanziaria del Progetto TAV e della truffa ad esso connessa. Luigi Preti è morto il 19 gennaio 2009. Era nato a Ferrara 95 anni prima. Oltre che ministro in diversi governi fu più volte sottosegretario, vicepresidente della Camera, presidente di commissioni parlamentari, deputato per 40 anni. Con Luigi Preti scompariva non solo l’ultimo grande personaggio della socialdemocrazia italiana, ma anche uno degli ultimi firmatari della Costituzione ancora viventi, l’unico non nominato senatore a vita. Dopo di lui restavano in vita solo tre costituenti, tutti a Palazzo Madama, tutti senatori a vita, tutti ex democristiani: l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, 27


Giulio Andreotti ed Emilio Colombo. Parlamentare dalla Costituente, Preti venne chiamato per la prima volta a ricoprire la carica di ministro, alle Finanze, nel 1958, nel secondo governo Fanfani, e tornerà alla direzione di quel dicastero altre due volte (dal 1966 al 1968, nel terzo governo Moro, e dal 1970 al 1972, nel terzo governo Rumor e nel successivo governo Colombo). Oltre alle Finanze ha ricoperto anche altri incarichi di governo: ministro per il Commercio estero (1962 - 1963), ministro per la Riforma della Pubblica amministrazione (1964 - 1966), ministro del Bilancio e della Programmazione economica (1969), ministro dei Trasporti (1973 – 1974). L’ultimo incarico ministeriale lo ha ricoperto ancora al dicastero dei Trasporti (negli anni 1979 – 1980, nel quinto governo Andreotti), proprio nel periodo in cui la lobby dei costruttori avviava la sua pressione sul governo per aprire anche in Italia i cantieri per l’Alta velocità già a pieno regime nella vicina Francia. Con Preti, i pretoriani del ferro e del cemento, trovarono le porte sbarrate. I programmi tecnici e tecnologici dell’Ente nazionale Ferrovie dello Stato, alle dirette dipendenze del ministro, erano orientati in una direzione diversa, stanti le forti differenze dell’assetto infrastrutturale del nostro Paese rispetto a quello della vicina Francia. La scelta dei francesi per un’Alta velocità con linee dedicate al solo trasporto passeggeri era stata valutata non adatta alle esigenze dell’Italia. Proprio in quegli anni si stava lavorando al completamento della nuova tratta “Direttissima” fra Roma e Firenze, concepita e realizzata come linea universale per velocizzare il trasporto di passeggeri e merci con la stessa alimentazione elettrica delle infrastrutture storiche. Analogamente si operava nel campo del materiale rotabile, sul quale si era pure investito in maniera significativa, essendo proprio di quegli anni l’entrata in servizio del primo treno al mondo ad assetto variabile, il famoso Pendolino. Le scelte tecniche e tecnologiche erano queste, e contrastavano decisamente con quelle della vicina Francia. 28

I ministri dei Trasporti che sono venuti dopo Dopo Luigi Preti, nei mitici anni ‘80, la lobby dei costruttori sulla poltrona di quel dicastero hanno trovato invece ministri disponibili a tutto pur di realizzare un qualche interesse per il partito di turno che occupava quella poltrona. Per quasi tutti gli anni ‘80 il partito di turno sarà il PSI, ribattezzato per questo dalla stampa dell’epoca il partito della “falce e carrello”. Sono gli anni dell’esplosione della spesa pubblica, che porterà il debito dell’Italia al primo posto fra i paesi sviluppati; sono gli anni della programmazione e degli investimenti in opere pubbliche pilotati da comitati d’affari con il solo scopo dell’affare per l’affare e relativi annessi e connessi. Solo grazie a questo contesto di scelte sganciate dalle esigenze reali del Paese e di finanza allegra, poteva essere concepito un Progetto privo di qualsiasi logica, assurdo sia dal punto di vista della scelta tecnologica che sul piano delle esigenze di trasporto, utile solo a fare incontrare gli appetiti della lobby del “ferro e cemento” con gli interessi della “falce e carrello”. Dopo Luigi Preti, tutti i ministri che si sono succeduti al dicastero dei Trasporti non hanno mai mostrato la minima consapevolezza sulla scelta tecnologica e trasportistica operata con quel Progetto TAV e tanto meno il minimo dubbio sulla sua scarsa utilità a fronte della valanga di lire e di euro necessaria per la sua realizzazione. Dopo Luigi Preti, tutti i ministri che si sono succeduti su quella poltrona sono stati complici più o meno consapevoli di questa scelta sbagliata e della bugia che ha consentito di consumare una clamorosa truffa. Il primo che diede concretamente avvio all’avventura è stato Claudio Signorile (ministro dal 4.8.1983 al 1.8.1986 e dal 1.8.1986 al 17.4.1987), seguito da Giovanni Travaglini (dal 17.4.1987 al 28.7.1987), da Calogero Mannino (dal 28.7.1987 al 13.4.1988) e da Giorgio Santuz (dal 13.4.1988 al 22.7.1989). I ministri che hanno anche convissuto, senza fare una piega, 29


con la grande bugia del finanziamento privato sono stati Carlo Bernini (ministro dal 22.7.1989 al 12.4.1991 e dal 12.4.1991 al 28.6.1992), Giancarlo Tesini (dal 28.6.1992 al 28.4.1993), Raffaele Costa (dal 28.4.1993 al 10.5.1994), Publio Fiori (dal 10.5.1994 al 17.1.1995), Giovanni Caravale (dal 17.1.1995 al 17.5.1995), Claudio Burlando (dal 17.5.1995 al 21.10.1998), Tiziano Treu (dal 21.10.1998 al 18.12.1999), Pierluigi Bersani (dal 22.12.1999 al 25.4.2000 e dal 25.4.2000 al 11.6.2001), Pietro Lunardi (dal 11.6.2001 al 23.4.2005 e dal 23.4.2005 al 17.5.2006), Alessandro Bianchi e Antonio Di Pietro (dal 17.5.2006 al 8.5.2008), Altero Matteoli (dall’8.5.2008). In oltre 25 anni si sono succeduti su quella poltrona 16 ministri e nessuno di loro, senza alcuna eccezione, ha in nessun modo mai messo in discussione la realizzazione di quel Progetto. Pochi anni prima di morire Luigi Preti scriveva: «Pensavamo di costruire un’Italia democratica composta da uomini onesti, sia di maggioranza sia di opposizione, allo scopo di contribuire all’avanzata economica e sociale del nostro Paese. La nostra Costituzione, che andò in vigore all’inizio del 1948, fu giudicata una delle migliori del mondo, anche all’estero. Ma soprattutto si rivelò un abito molto adatto alle esigenze dell’ Italia di allora». Questa la statura e la sensibilità del personaggio, oggi nemmeno paragonabili con quelle dei lacchè di se stessi che popola il panorama contemporaneo della politica. La riconoscenza a questo padre costituente non potevo tenerla chiusa nei miei ricordi insieme a quelli sul rinnegato lacchè della borghesia. Lo incontrai nella sua casa di Bologna nella primavera del 1998: lo ringraziai per quelle lettere che mi aveva inviato cinque anni prima e gli consegnai il mio libro che raccoglieva la sua isolata denuncia della grande truffa. Il colloquio, intenso e di quelli che segnano la memoria, non fu molto lungo; il peso degli anni, 86, si faceva sentire e non volevo abusare della sua disponibilità. Stima e simpatia sono i sentimenti che ho nutrito per lui da quel momento. A Preti diedero ascolto in pochi. Eppure quelle lettere, arrivate 30

su molti tavoli, avrebbero meritato ben altra attenzione. Una di queste è arrivata anche sul tavolo del capo della Procura di Roma, imponendo l’avvio di accertamenti e dunque l’attenzione del magistrato incaricato di indagare sulla truffa TAV. In questo caso però l’obbligatorietà dell’attenzione fu subito inquinata da altri interessi che nulla avevano a che fare con l’accertamento della verità. Di quell’indagine e del suo inquinamento si ebbe notizia solo diversi anni dopo e grazie ai magistrati perugini che, per competenza, avevano ereditato un filone di un’indagine della Procura di La Spezia. I giudici spezzini, indagando su traffici illeciti di auto ed armi nel porto di quella città, avevano casualmente intercettato i colloqui del faccendiere che le cronache sulle indagini di Tangentopoli avevano collocato “un gradino sotto di Dio”. L’Alta velocità era il tema dominante dei colloqui intercettati ed aveva portato quei giudici a chiedere l’arresto, eseguito il 15 settembre 1996, di Lorenzo Necci. Dalla stessa inchiesta un filone che vedeva coinvolto Antonio Di Pietro sarà, sempre per competenza, trasferito a Brescia e determinerà le immediate dimissioni dell’ex PM che nel frattempo era diventato ministro dei Lavori Pubblici del primo governo Prodi. I risultati del lavoro dei magistrati perugini sugli inquinamenti della attività dei magistrati romani diventano noti il 7 febbraio del 1998: «Nove arresti, trenta indagati, ottanta perquisizioni, duecento investigatori al lavoro (…). L’operazione si chiama “Little Tower”, piccola torre, forse per indicare la roccaforte nella quale vigeva un presunto sistema di corruzione. L’ennesimo scoperto dai magistrati perugini, attraverso intercettazioni, confessioni e rogatorie internazionali. Il nuovo filone corre sui binari dell’Alta velocità e porta in carcere per la prima volta Giorgio Castellucci, il piemme romano, e due avvocati, Fiorenzo Grollino e Astolfo Di Amato. Non solo: agli arresti torna anche “Chicchi”, Pier Francesco Pacini Battaglia, ancora una volta indicato come regista delle operazioni. “Manette da casa” sono scattate per Lorenzo Necci, ex amministratore straordinario delle FS, per Emilio Maraini, ex presidente della partecipata 31


FS Italferr Spa, per Ercole Incalza ex amministratore della TAV Spa e per l’Avvocato Marcello Petrelli consulente della stessa società».1 Il faccendiere più noto dell’era di Mani pulite, Pier Francesco Pacini Battaglia (P.P.B.), il massimo regista delle tangenti della “prima repubblica”, intercettato l’11 gennaio del 1996, parlava dell’indagine e dei magistrati costretti da Preti ad indagare sulla truffa TAV con l’avvocato Marcello Petrelli. Questo il tono delle interlocuzioni: «P.P.B.: ... te devi dire al Sig. Squillante che deve smettere di rompere i coglioni a casa Necci, c’è andato 6 volte; l’avvocato risponde:lui è andato a rompere i coglioni a Necci, facendo il furbo perché questi si chiamano ricatti morali… ha… è per colpa di quella “cimice”, potrebbe avere sentito i colloqui di me con l’amico di Pacini, che cazzo di discorso sarebbe...noi non si è chiesto nulla al Signor Squillante riguardante Necci. Noi si è detto ti diamo 50 milioni e te ne diamo degli altri se te ci chiudi il problema». E infine P.P.B. precisa:«Che smetta di rompere i coglioni, ha beccato già i soldi. Smetti eh io dico...Castellucci becca e incrimina. Quello (Squillante) becca i soldi e ci rompe i coglioni. Io dico che chi becca i soldi sta zitto! Lui becca i soldi e rompe il cazzo».2 L’attenzione a quelle lettere ci avrebbe risparmiato anche la lettura di queste misere intercettazioni. La loro pubblicazione è dunque un atto doveroso di riconoscenza e di attestazione del merito di Luigi Preti per avere per primo riconosciuto e denunciato la grande truffa dell’Alta velocità.

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Italo Carmignani, “Tangenti ad alta velocità: nove arresti”, il Messaggero, 8 febbraio 1998. 2 “Ti diamo altri milioni se ci chiudi il problema”, il Messaggero, 8 febbraio 1998.

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Le lettere di Luigi Preti Il 10 febbraio 1993 così scriveva a Beniamino Andreatta: «Caro Andreatta, (…). Si è detto che una cosa importantissima sarebbe il coinvolgimento dei privati nella società TAV (Treno Alta velocità) nella quale lo Stato avrebbe solo il 40% delle azioni. Non è assolutamente così, perché le quote sottoscritte appartengono per il 90% a banche ed aziende di pubblica proprietà, dato che i privati non si fidano e temono di perdere i quattrini. I cosiddetti privati sono la Banca Commerciale, il Credito Italiano, la Banca del Lavoro, ecc. che sono stati costretti a sottoscrivere piccole quote in quanto sono di proprietà statale e perciò obbligate. Comunque queste società o enti per il momento non sborsano danaro. In gran parte il danaro lo dovrebbe sborsare lo Stato; e per il resto la TAV ricorrerebbe, se ci riesce, a grossi prestiti per i quali lo Stato medesimo sarebbe tenuto a pagare gli interessi. Alla fine, una volta realizzata l’Alta velocità, poiché questa non sarebbe sicuramente attiva come tutte le Ferrovie del mondo, il capitale dovrebbe essere rimborsato dal povero Stato. Si dice che sarebbe una grande e positiva novità il fatto che i contratti con l’Iri, l’Eni e la Fiat sarebbero a “tempi e prezzi certi”. A parte che non sappiamo quali aziende di questi general-contractors dovrebbero fare i lavori, faccio notare che molte di queste sono gravemente sospettate dalla magistratura per le tangenti da esse pagate. È ridicolo dire che si intende realizzare l’iniziativa dell’Alta velocità a causa del disinteresse delle Ferrovie statali negli ultimi tempi. Ma, se questo disinteresse c’è stato, si dovrebbe spendere i danari per mettere a posto tutte quelle linee ferroviarie, soprattutto meridionali, che sono in orribili condizioni. Invece il danaro andrebbe per un impresa nuova. Si afferma che la Francia – paese con una struttura geografica profondamente diversa da quella dell’Italia, che è lunga e stretta – avrebbe realizzato grandi cose con l’Alta velocità. Questo non 33


è vero, perché la Francia si è limitata a rendere più veloci certe ferrovie esistenti con le opportune ristrutturazioni tecnologiche e non ha costruito nuove linee ferroviarie, come si vorrebbe fare in Italia col progetto Alta velocità. Comunque tutti sanno che in Francia si ride di questo progetto, ed è pure notorio che in Spagna si è voluto costruire una nuova linea ferroviaria ad Alta velocità tra Madrid e Siviglia in occasione dell’Esposizione, con esiti disastrosi da tutti i punti di vista, e la magistratura sta indagando sulle grandissime tangenti ricevute da molti che hanno perorato l’iniziativa. Premuto da chi ben si sa il governo ha stanziato 18 mila miliardi per l’Alta velocità nel periodo di 4-5 anni, però sono state poste condizioni, che ancora non si sono verificate, e perciò il piano è tuttora fermo, anche se la Fiat, l’Iri e l’Eni insistono per cominciare, sapendo benissimo, a mio avviso, che lo Stato troverebbe il modo di pagare più del pattuito. I presidenti dell’Iri e dell’Eni, con ciò che i giornali dicono di loro, farebbero bene a non insistere sull’Alta velocità e a non dare prebende a certi giornalisti. I lavori dovrebbero cominciare a Bologna e nella Roma-Napoli. A Bologna però hanno detto di no all’attuale progetto tanto il Municipio del capoluogo emiliano, quanto i piccoli Comuni tra Bologna e Firenze dove dovrebbe passare la nuova linea ferroviaria. Se tutto va bene, i lavori - che dovrebbero avvicinare l’Italia all’Europa secondo le Ferrovie Spa - si farebbero tra Roma e Napoli, dove ci sono già due linee ferroviarie a doppio binario. Si arriverebbe ad avere tre linee con sei binari, mentre la linea Bologna-Verona, che conduce al Brennero e in Germania, è ancora a binario unico. Credo che tu sappia che il capo di Gabinetto del ministro Tesini, che ha convinto costui a sostenere l’Alta velocità, è il Dr. Rossi Brigante, il quale era capo di Gabinetto anche nel precedente Governo col ministro Prandini. Formigoni ed altri democristiani, che hanno inviato ai parlamentari un documento contro l’Alta velocità, hanno avuto contatti con altissimi funzionari delle Ferrovie cacciati da Necci, il quale assume per conto suo in modo da avere persone 34

fedeli e spende somme enormi nelle società da lui inventate. Alla Susanna Agnelli, come consigliere della Tav, toccano ben 400 milioni l’anno. Sugli sperperi di Necci a suo tempo io ho scritto al ministro Costa, che si occupa di queste cose, e ti invio copia, se le vuoi leggere, delle due lettere. So che la Procura della Repubblica di Roma sta occupandosi di cose grossissime, come quella dell’Anas, ma io comunque ho denunziato al capo della Procura il dr. Necci per come ha sperperato i danari dello Stato, regalando soldi da tutte le parti. Penso che tu sappia che nel dibattito in Parlamento quasi tutti i Partiti hanno criticato il Progetto Alta velocità. Tu sei un uomo di profonda onestà e un economista di grande valore. La Democrazia Cristiana ne deve tenere conto, se vuole evitare che il progetto dell’Alta velocità si realizzi sul serio e se ne dia poi colpa al tuo Partito dopo la catastrofe. Cordiali saluti ed auguri. Luigi Preti». A parte i riferimenti alle singole persone, per i ruoli e le responsabilità attribuiti e più o meno accertati, in questa lettera vi era già una descrizione puntuale della truffa ai danni dello Stato connessa con l’architettura finanziaria e contrattuale di quel Progetto. La lettera inviata da Preti al ministro Franco Reviglio, pur riprendendo gran parte delle motivazioni di quella inviata ad Andreatta, ci dice di una interlocuzione già in corso da tempo e contiene un riferimento particolarmente importante, quello ad una delibera assunta dai ministri competenti il 9 dicembre 1992, della quale Preti mette in rilievo punto per punto i limiti. Il 13 febbraio 1993 così scrive al ministro: «Caro Reviglio, rispondo alla tua lettera del 29 gennaio u.s., nella quale fai presente che avete posto alcune limitazioni al progetto Alta velocità. Ciò è vero, ma è anche vero che si tratta di un’impresa sbagliatissima, ideata a suo tempo da Ligato (del quale tu conosci le vicende), respinta da Schimberni (che si dimise soprattutto per questa ragione) e riportata avanti da Necci, un megalomane che anche all’Enichem-Enimont diede prova di una certa disinvoltura. L’attuale ministro Tesini, entrato al mi35


nistero senza conoscere i problemi, si è fatto convincere dal Capo di Gabinetto Rossi Brigante (un uomo che aveva fatto il Capo di Gabinetto con il Ministro Prandini, del quale tutti sanno le vicende per l’ANAS ed altro). Questo Rossi Brigante, che mi sembra continui a rimanere al suo posto malgrado i dubbi avanzati dalla magistratura sul suo operato ai LL.PP., non ha tardato affatto ad accordarsi con Necci per l’Alta velocità. Comincio col dirti che non è in nessuna maniera accettabile la tesi che l’Alta velocità sarebbe “un sostegno allo sviluppo e all’occupazione” nonché “uno strumento utilizzabile per ridare ossigeno all’industria nazionale”. Se si tratta di aiutare la FIAT, l’IRI e l’ENI – che sono i general contractor – per fare guadagnare ad essi qualcosa, può esser compreso da alcuno, ma non da me. L’industria non si sviluppa con questi lavori di costruzione, ma con imprese destinate a durare. D’altro lato, dieci o quindicimila persone eventualmente impegnate per alcuni anni nei lavori dell’Alta velocità sono ben piccola cosa sul fronte dell’occupazione. Senza contare che altri lavori, intesi a mettere a posto tante linee ferroviarie in pessime condizioni già esistenti, darebbero almeno lo stesso risultato. Si dice che la TAV, inventata da Necci, avrebbe il pregio di coinvolgere i privati nella Società. Questo è assurdo, perché io ho l’elenco nominativo degli Enti o Società che dovrebbero sottoscrivere una parte delle azioni, ma questi sono quasi tutti pubblici, a partire dalla Banca Commerciale, dal Credito Italiano, dalla Banca Nazionale del Lavoro, dalla Banca delle Comunicazioni. Il cosiddetto capitale privato non arriva nemmeno al 10%, e dubito molto che venga immediatamente sottoscritto con effettiva disponibilità di denaro. Ho visto che tra i privati ci sarebbe la Fondiaria. Ma non credo che il Gruppo Ferruzzi, il quale oggi la controlla, sia in grado o comunque sia disposto a sborsare denari. La verità è che questa è solo una montatura di Necci per convincere il governo di una “grande novità”, che in realtà non esiste. Tutto sarà pagato dal Tesoro dello Stato, se l’operazione si dovesse fare. 36

La delibera del 9 dicembre ‘92 del Bilancio, del Tesoro e dei Trasporti, della quale tu mi invii copia, stabilisce che lo Stato (ossia le Ferrovie) non dovrà pagare di interessi più di 5.500 miliardi per l’intera costruzione della tratta Torino-MilanoNapoli. Gli eventuali superi dovrebbero essere pagati dalla TAV con i proventi della gestione. Ciò mi pare assurdo, perché non esistono ferrovie attive in nessun Paese del mondo, neppure negli Stati Uniti, dove lo Stato deve dare contributi, perché si tratta di un servizio pubblico. Se la TAV volesse guadagnare, dovrebbe far pagare i biglietti a prezzi elevatissimi, e nessuno prenderebbe più questi treni, destinati a restare vuoti, anche perché i ricchissimi hanno l’aereo personale. Il documento dice che “l’indebitamento assunto dalla TAV dovrà prevedere mediamente tassi di interesse in linea con quelli nel pari periodo applicati allo Stato Italiano”. Tale documento non è scritto troppo bene, ma ritengo di aver capito che cosa vuol significare: ossia che chi farà i prestiti alla TAV non potrà chiedere interessi maggiori a quelli dello Stato. Non so se vi siano banche disposte a chiedere interessi bassi, anche perché l’impresa è molto discutibile, e non vorrei che Necci trovasse un cavillo per interpretare diversamente il testo. Resta comunque fermo che i cosiddetti privati non pagano nulla e che la TAV (ossia Necci, che controlla il Presidente della Società, come il settantaquattrenne Presidente delle Ferrovie spa) dovrà chiedere prestiti. Non ne avrebbe bisogno, se i cosiddetti privati sborsassero il denaro. La delibera dice che le tariffe dovranno essere stabilite in base ai proventi del traffico in modo che sia prodotto un reddito sufficiente almeno a coprire il servizio del debito direttamente o indirettamente a carico dello Stato. Mi sembra di essere nel mondo delle nuvole! Prima infatti si dovrebbero costruire le linee ad Alta velocità (con tutti i costosissimi annessi), e poi successivamente la TAV dovrebbe mettere tariffe tali da coprire il servizio del debito dello Stato. Questo è impossibilissimo. Quando io sarò morto e tu, Necci, Tesini e Barucci sarete vecchi, colui che presiederà al momento 37


la TAV dirà che non è umanamente possibile fare ciò che il documento prevede. Così come io ho sempre detto, pagherà tutto lo Stato dei nostri figli e nipoti. Nel documento si dice che il prezzo forfettario per le nuove tratte non potrà in nessun modo cambiare e i general contrctors dovranno consegnare “chiavi in mano” nei tempi previsti. Sono matematicamente sicuro che i general contractor troveranno il modo di farsi pagare di più, indipendentemente dalla scusa degli scavi archeologici. Poiché l’ENI e l’IRI in quel momento avranno verosimilmente cessato di esistere, coloro che succederanno porranno il problema della maggiorazione delle spese. Per quanto poi riguarda la FIAT, sappiamo benissimo che essa sa facilmente risolvere questi ed altri problemi e lo Stato è sempre verso di essa molto comprensivo. La delibera dice che i general contractor dovranno “prestare fideiussione pari al 20% delle opere da realizzare, maggiorata dell’importo di eventuali anticipi”. È chiaro che la fideiussione dell’IRI e dell’ENI fa ridere: sarebbe lo Stato a fare la fideiussione a sé stesso. Alla fine il documento dice che “il costo delle singole tratte dovrà risultare allineato al costo medio di opere ad alta Velocità” di altri Paesi europei. Se si tratta della Spagna, le spese sono state iperboliche (a parte le tremende tangenti, su cui stanno indagando i giudici spagnoli) e l’Alta velocità tra Madrid e Siviglia si è rivelata un enorme fiasco dal punto di vista sia economico sia gestionale. In Francia le cose vanno un po’ meglio, ma l’orografia francese non ha nulla a che fare con quella della lunghissima, stretta e montuosa Italia. Per concludere ricordo che nel documento si dice che “le singole operazioni finanziarie della TAV saranno approvate dalle Ferrovie dello Stato Spa con apposita delibera del Consiglio di Amministrazione”. Questo significa che decide tutto Necci, perché il Consiglio di Amministrazione sarà manovrato da lui, il Presidente settantaquattrenne è solo una “lustra” e non combatte più nessuna battaglia, e il presidente della TAV non potrà non essere d’accordo con Necci. In sostanza lo Stato non potrà 38

intervenire, se non per sborsare quattrini e il solito Necci, che regala prebende a tutti – compresa la Susanna Agnelli, la quale riceve 400 milioni all’anno - disporrà di soldi del tesoro per fare tutto quello che vuole. Ne avrete voi la responsabilità; e dovete pensar bene prima di dare il via a questa impresa, mentre gran parte delle ferrovie esistenti sono allo sfascio. Cordiali saluti. Tuo Aff.mo Luigi Preti». Le osservazioni di Preti sulla delibera mostravano una conoscenza di quel Progetto decisamente superiore a quella dei ministri competenti, che la storia confermerà in tutta la loro evidenza.

Il silenzio della politica e l’inquinamento della magistratura Lo sperpero di denaro pubblico che Luigi Preti denunciava con quelle lettere si è rivelato di gran lunga superiore alle cifre già allarmanti previste. Da un costo di 30 mila miliardi di vecchie lire siamo arrivati ad oltre 90 miliardi di euro, 180 mila miliardi di vecchie lire. Da un costo medio a chilometro per il quale i ministri competenti avevano deliberato l’allineamento con il costo medio di altre analoghe infrastrutture europee, siamo ad un costo almeno cinque volte maggiore sia di quelle spagnole che di quelle francesi. Per circa quindici anni, Luigi Preti ha scritto lettere che sono arrivate senza alcuna esagerazione su centinaia di tavoli, quelli di tutti i presidenti del Consiglio, di decine di ministri, di molti deputati e senatori di cinque legislature. Nel ricordo della sua segretaria particolare, che lo ha assistito dal 1947 fino agli ultimi giorni prima della sua scomparsa, proprio questa lunga e solitaria battaglia di Luigi Preti è il periodo che riaffiora con maggiore tristezza e sofferenza. Dopo la sua morte i faldoni del suo archivio che per anni hanno accumulato quelle missive sono finiti nella biblioteca del Senato, chiusi in qualche polve39


roso ripostiglio. Chissà se un giorno saranno catalogate e rese disponibili, o fatte sparire per sempre. Se quelle lettere avessero ricevuto l’attenzione che meritavano ci saremmo anche risparmiati l’onere del comma 966 della finanziaria del 2007 e la lettura della relazione della Corte dei Conti, depositata l’11 dicembre 2008, specificatamente dedicata ai “debiti accollati al bilancio dello Stato contratti da FF.SS., RFI, TAV e ISPA per le infrastrutture ferroviarie e per la realizzazione del sistema Alta velocità” . Una relazione che, con linguaggio più forbito, nulla aggiunge alle lettere di Luigi Preti. Scrive la Corte dei conti: «In buona sostanza l’uso del debito pubblico abbondantemente praticato da FF.SS., anche in periodi storici talvolta già lontani nel tempo, e poi scaricato sull’Erario viene trasmesso a generazioni future, senza che sia data alcuna prova che le stesse possano in qualche in modo avvantaggiarsene: non esiste infatti alcuna relazione o documentazione, negli atti a supporto dell’accollo del debito, dalla quale si evinca che allo stesso siano correlati beni pubblici ancora produttivi al momento in cui tale debito finirà di essere pagato. Anzi, le modalità anodine con cui questi debiti vengono assunti lascia intendere che gli effetti sulla distribuzione intergenerazionale delle risorse non siano stati in alcun modo tenuti presenti e neppure calcolati in astratto». Preti metteva in evidenza il rischio della truffa nel 1993, la Corte dei conti ne attesta la realizzazione nel 2008, ben 15 anni dopo. La Corte si esprime pure con pesantissime accuse di responsabilità sia nei confronti del management delle FS, di RFI e di TAV, sia nei confronti di chi avrebbe dovuto vigilare sulla attività di società con il cento per cento di capitale pubblico: «Il Ministero dell’economia e delle finanze e la Cassa Depositi e Prestiti (per la parte di propria competenza nella veste di soggetto incorporante ISPA) non sono stati in grado di rispondere ai quesiti istruttori illustrati: la posizione dei funzionari preposti ai competenti uffici appare piuttosto impegnata a garantire la copertura finanziaria e la puntualità dei pagamenti che ad in40

vestigare sulle cause e gli effetti di questo meccanismo, che tende a trasformare lo Stato in semplice mallevadore di obbligazioni e comportamenti autocraticamente adottati dalle proprie società». La Corte però si ferma qui. Alle accuse, di irresponsabilità all’indirizzo dei manager delle SpA pubbliche e di omissione nei confronti della burocrazia di Stato, non fa seguire alcun provvedimento nei confronti degli accusati, evitando persino di farne i nomi e i cognomi. La Corte dei conti comunque ci attesta che, in oltre quindici anni, una truffa evidente, fondata su di una pura e semplice bugia, non è stata riconosciuta come tale da decine di ministri che si sono succeduti sulle poltrone dei dicasteri competenti, da interi parlamenti di diverse legislature, da autorevoli organi ed autorità dello Stato. La ricostruzione di questa storia dunque è fondamentale anche per capire il perché di un Paese che riesce a non vedere una truffa di dimensioni colossali, che resta silente quando questa viene certificata da leggi ed organi dello Stato e che lascia in libertà i mariuoli che l’hanno ordita o consentita o favorita o tollerata o anche solo colpevolmente ignorata.

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tando persino di farne i nomi e i cognomi. La Corte dei conti comunque ci attesta che, in oltre quindici anni, una truffa evidente, fondata su di una pura e semplice bugia, non è stata riconosciuta come tale da decine di ministri che si sono succeduti sulle poltrone dei dicasteri competenti, da interi parlamenti di diverse legislature, da autorevoli organi ed autorità dello Stato. La ricostruzione di questa storia dunque è fondamentale anche per capire il perché di un Paese che riesce a non vedere una truffa di dimensioni colossali, che resta silente quando questa viene certificata da leggi ed organi dello Stato e che lascia in libertà i mariuoli che l’hanno ordita o consentita o favorita o tollerata o anche solo colpevolmente ignorata.

BENIAMINO ANDREATTA E I LADRI DI VERITÀ La coincidenza vergognosa Nel 1998 avevo inviato ad Andreatta il mio libro in cui riferivo anche delle sue posizioni sul progetto per l’Alta velocità, e spiegavo le ragioni della sua inaspettata nomina a ministro per gli Affari Esteri nel governo Ciampi. Mi ero ripromesso di approfondire quella vicenda, di trovare puntuali conferme anche dalla sua diretta testimonianza: non ne ebbi il tempo e l’opportunità. “Il 15 dicembre del 1999, nel corso di una seduta parlamentare per il voto della Legge Finanziaria, ebbe un grave malore e finì in coma profondo in seguito ad un infarto e alle conseguenze di un’ischemia cerebrale. Venne trasferito d’urgenza all’ospedale San Giacomo di Roma, dopo aver ricevuto i primi soccorsi in aula da parte del medico della Camera e dei deputati Pino Petrella e Pierluigi Petrini rispettivamente medico ed anestesista. Nonostante i pronti soccorsi, prima di essere rianimato Andreatta rimase in stato di sofferenza cerebrale da ipossia per venti minuti, riportandone danni permanenti. I bollettini medici dichiararono da subito che il ministro si trovava in "condizione critica", e venne dichiarato il coma profondo. Il 1 gennaio 2000 venne trasferito a bordo di un mezzo di trasporto militare dal San Giacomo all’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Andreatta rimase fino alla morte in uno stato vegetativo, spegnendosi dopo più di sette anni di stato comatoso il 26 marzo 2007”.1 La notizia, sulla stampa, dell’epilogo del lungo e tragico coma è stata accompagnata da una cinica coincidenza. Quello stesso giorno le grandi imprese cooptate nell’affare TAV acquistavano un’intera pagina sui tre maggiori quotidiani nazionali per pubblicare una “lettera aperta ai cittadini per un 1

. Voce “Beniamino Andreatta”, su enciclopedia telematica Wikipedia.it. 43


giudizio informato sul decreto legge sulle cosiddette liberalizzazioni che ha disposto la revoca dei contratti TAV per le linee Milano-Verona, Verona-Padova e Genova-Milano”. La lettera era in realtà un puro e semplice elenco di insulti, destinatari il parlamento ed il governo nazionali, formulati con la faccia tosta di chi, mentre spende di fatto soldi pubblici, non si perita tuttavia a fornire ai cittadini informazioni stravaganti quando non palesemente false. L’attacco nei confronti del governo era senza precedenti e si riferiva al Decreto Legge n.7 del 31.01.2007, la cosiddetta “lenzuolata” del ministro Bersani sulle liberalizzazioni, che, fra l’altro, disponeva la revoca dei contratti per la realizzazione delle tratte di Alta velocità Genova-Milano, Milano-Verona e VeronaPadova. Il decreto non metteva in discussione la realizzazione di quelle opere: imponeva semplicemente l’espletamento di un gara pubblica per l’affidamento della loro realizzazione e, a tal fine, sanciva la revoca della concessione a TAV SpA e conseguentemente azzerava i sottostanti contratti che la stessa TAV SpA aveva affidato ad altrettanti general contractor. La pagina a pagamento, fatta uscire alla vigilia del voto per la conversione del decreto in legge, contestava l’articolo relativo ai contratti TAV con termini forti e di aperta sfida. Definiva quell’articolo “illegittimo” e “arrogante” e contestava i motivi del provvedimento con un titolo, “è falso”, ripetuto per ben quattro volte. Insieme agli insulti, un terzo di pagina era occupato da un box con il quale si dichiarava di voler garantire la “lnformazione ai cittadini sul progetto, avanzamenti, stato dell’arte del sistema italiano di AV/AC ferroviaria”. Un vero e proprio capolavoro di ipocrisia. La presunta informazione ai cittadini iniziava così: «Per un’Italia più coesa, efficiente e competitiva, agli inizi degli anni ‘90 il governo decideva, con consenso politico unanime, di dotare il paese di oltre 1000 chilometri di nuove linee ferroviarie ad alta tecnologia da Torino a Venezia, da Genova a Milano e da Milano a Napoli, per il trasporto veloce (Alta velocità-AV) 44

di persone e merci e a forte interazione con la rete tradizionale (Alta Capacità-AC)». In quattro righe, apparentemente neutrali, poste in apertura quasi come semplice premessa, viene invece offerta una ricostruzione della nascita del Progetto in cui date, motivi e obbiettivi sono semplicemente inventati, privi di qualsiasi riscontro oggettivo. Assolutamente falso il richiamo al consenso politico unanime. Il Progetto, quel Progetto di AV, prende avvio in realtà a metà degli anni ‘80, mentre proprio agli inizi degli anni ‘90, dopo gli scandali che avevano investito le FS, rischiava di essere letteralmente cancellato. Nel 1989, proprio il commissario straordinario, nominato dal Governo per rimettere ordine nei conti delle Ferrovie dello Stato, aveva liquidato quel Progetto con una affermazione secca: « Se uno ha una Cinquecento che non funziona, non può pensare di risolvere il problema comprandosi una Ferrari». Ancora nel 1992 il ministro del Bilancio in carica Franco Reviglio riprende la metafora e definisce quel progetto come “un motore da fuoriserie montato su un’utilitaria”. La metafora sintetizzava in maniera efficace il parere degli esperti di trasporti più autorevoli dell’epoca e quello della stragrande maggioranza dei tecnici delle FS non compromessi con la lobby del “ferro e cemento”. Gli autori di quella pagina confidavano nel vizio della memoria che da anni praticano le classi dirigenti del nostro Paese. Le rarissime eccezioni che si sottraggono a questo vizio trovano spazio solo quando accadono vicende clamorose. Una di queste voci si è fatta sentire in occasione del tragico incidente ferroviario di Viareggio del 29 giugno 2009: è stata quella di un economista liberale di grande spessore come il professor Giulio Sapelli. è stata l’unica voce che non ha partecipato al coro autoassolutorio dei boiardi delle Ferrovie dello Stato e dei loro sponsor politici e affaristici. Ricordava delle semplici verità: «Il terribile incidente del treno merci di Viareggio e le polemiche sui pendolari (...) impongono una riflessione sul modello complessivo delle Ferrovie italiane. In particolare oc45


corre andare alle radici del tema sicurezza e, per quanto riguarda i passeggeri, riconoscere che le Ferrovie dello Stato non riescono a risolvere il problema. Anzi, si deve con coraggio dire che negli ultimi anni esso non solo si è aggravato, ma ha anche provocato una sorta di divisione sociale e morale e culturale tra italiani di serie A e italiani di serie B: ossia quelli che possono spostarsi – per reddito e per comodità di vita – con la cosiddetta Alta velocità e coloro che invece debbono ricorrere ai più modesti e troppo spesso sporchi e inefficienti treni per pendolari.» 2 Proprio così: questa cosiddetta Alta velocità è all’origine del degrado sociale e morale e culturale del sistema della mobilità su ferro di persone e merci, e comincia in un preciso momento: «Mi viene sempre più alla mente il monito che Mario Schimberni affidò alla memoria storica di questo paese allorché, nominato commissario prima, e amministratore delegato poi, delle ferrovie nel 1988, si convinse che occorreva abbandonare il progetto dell’Alta velocità - che risale a quel tempo - per insistere, invece, su un progetto di riqualificazione dell’intera rete ferroviaria, trasformando i cosiddetti rami secchi in verdi rami di un albero che doveva coprire con la sua ombra tutto il territorio nazionale. Dopo un breve intervallo politico in cui fu lasciato lavorare, Schimberni fu costretto, dietro il paravento del cosiddetto primato della politica, ad abbandonare l’incarico e a dimettersi. Quel primato, nascondeva come sempre, in verità, corposi interessi di lobby oligopolistiche che si pensavano traditi dal piano del grande manager. Visione, peraltro, assai miope, dato che, invece, con esso avrebbero potuto unirsi profitti e responsabilità sociale. Nasceva, così, la faraonica ferrovia italiana che ha socialmente diviso in due l’Italia e ha emarginato il popolo laborioso (...). Monopolio, errate strategie manageriali, frettolose forme di liberalizzazione a bassissimo 2

. Giulio Sapelli, “Ferrovie, modello da ripensare”, Corriere-Economia del

Corriere della Sera, 6 luglio 2009.

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grado di regolazione, insensibilità per i bisogni della gente normale. Occorre cambiare una strategia che si è rilevata fallimentare e rimettere al centro quella ferrovia leggera e verde, che può scorrere per tutto il Paese, così come aveva sognato a suo tempo, prima di essere cacciato dagli oligopoli e dai politici, Mario Schimberni».3 Prima di quell’incarico Schimberni era stato ai vertici della Montedison, della quale era diventato presidente nel 1980 per governare il dopo della gestione di Eugenio Cefis, figura controversa, prototipo di quella che venne definita la borghesia di Stato. Non aveva solo governato brillantemente il dopo-Cefis: aveva allargato la presenza della Montedison arrivando a scalare, alla luce del sole, importanti centri di comando di gruppi industrial-finanziari. La sua avventura in Montedison si concluse quando la sua idea strategica di fare del colosso chimico italiano una grande pubblic company si scontra con i disegni autarchici del cosiddetto salotto buono dell’alta finanza e del suo deus ex machina Enrico Cuccia. Già nell’estate del 1986 Schimberni aveva conquistato il 37% della compagnia assicurativa La Fondiaria, il fiore all’occhiello di Mediobanca, provocando però anche le ire dell’avvocato Agnelli. Con l’uscita di scena di Schimberni, costretto a lasciare il campo, la Montedison, con dietro il gruppo Ferruzzi, gioca con l’ENI la partita delle tre carte della società EniMont che si conclude con la costruzione di quella che Mani pulite ha archiviato come la “madre di tutte le tangenti”. Dopo lo scandalo delle “lenzuola d’oro”, Schimberni è il tecnico ideale per ridare credibilità all’Ente Nazionale delle Ferrovie dello Stato. Il lavoro di risanamento viene subito avviato. Per circa un anno riesce a lavorare senza condizionamenti politico-affaristici, chiude il rubinetto degli investimenti inutili, blocca il progetto dell’Alta velocità con la storica metafora 3

. Giulio Sapelli, “Ferrovie, modello da ripensare”, Corriere-Economia del

Corriere della Sera, 6 luglio 2009.

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della Cinquecento e della Ferrari. Metafora che, a ben vedere, non era del tutto casuale, visto che il capo della lobby di quel Progetto di Alta velocità era il suo ormai acerrimo nemico Giovanni Agnelli. La crisi politica determinata dallo scandalo delle “lenzuola d’oro” nel frattempo era stata risolta ed aveva portato alla formazione del sesto governo Andreotti, figlio dell’ultimo patto consociativo della “prima repubblica”, quello del CAF (dalle iniziali dei protagonisti, Craxi, Andreotti, Forlani). Sulla poltrona del ministero dei Trasporti era arrivato Gianni Prandini, entrato subito in aperto conflitto con le decisioni di Schimberni, mentre su quella del ministero del Bilancio sedeva Paolo Cirino Pomicino, subito in azione come regista e come vero inventore di quella che sarà la nuova architettura finanziaria del Progetto TAV. Il braccio di ferro durerà qualche mese, ma alla fine la avranno vinta i ministri. Prandini e Pomicino, ottenute le dimissioni di Schimberni, possono finalmente nominare un boiardo di Stato più malleabile e che, come gli stessi ministri, garantisse la frequentazione della Tangentopoli che solo di lì a poco sarebbe stata scoperchiata da Mani pulite. Secondo gli autori della pagina pubblicata il giorno della morte di Andreatta, questo era il “consenso politico unanime” con il quale “agli inizi degli anni ‘90” si è dato avvio ad un progetto “per un’Italia più coesa, efficiente e competitiva”: esempio eloquente di storia ad uso e consumo di un Paese con la memoria corta, raccontata da ladri di verità che, per perseguire il loro esclusivo interesse, non disdegnano di mentire anche sui dati strettamente tecnici. Quel Progetto TAV, come era ed è l’Alta velocità francese dalla quale traeva ispirazione, concepito e progettato per il trasporto passeggeri con linee dedicate e indipendenti da quelle tradizionali, diventa, nella vulgata dei lobbisti, “un progetto con linee ferroviarie (...) per il trasporto veloce di persone e merci e a forte interazione con la rete tradizionale”. Che quel Progetto agli inizi degli anni Novanta fosse stato 48

concepito come “un sistema sostanzialmente indipendente dal resto della rete per consentire collegamenti veloci tra le principali città di Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma e Napoli”, lo dice testualmente persino Mauro Moretti, nella sua veste di amministratore delegato di FS SpA, nel marzo del 2007, davanti ai membri dall’Ottava Commissione del Senato. La stessa TAV SpA, cinque anni prima, nel 2002, con un dépliant patinato e pagine multicolori raccontava che “nel 199798 il programma Alta velocità ha subito una radicale revisione, che ha avuto il suo elemento più visibile nel cambio dello stesso nome: da Alta velocità ad Alta Capacità”. Ancora Moretti, sempre di fronte ai senatori, per rivendicare dei presunti meriti, aggiunge che il progetto “..è stato successivamente trasformato in un sistema integrato tra una nuova rete di elevate prestazioni e la corrispondente rete esistente, così da costituire un vero e proprio quadruplicamento merci e passeggeri”. Il balletto delle definizioni, dall’Alta velocità al Quadruplicamento veloce fino all’Alta capacità, non può però occultare la realtà dei fatti. Il progetto contrattualizzato nel 1991, sia per i tracciati delle tratte ferroviarie, sia per il sistema di alimentazione dei treni ad Alta velocità, è rimasto uguale a se stesso con tutti i limiti e le conseguenze di scelte tecniche sbagliate.

Beniamino Andreatta e il Progetto TAV Nel dicembre del 1992, l’anno della esplosione di Tangentopoli, il parlamento era chiamato ad approvare una Finanziaria che risulterà la più pesante mai varata, novantamila miliardi delle vecchie lire. Quella storica manovra economica ha potuto vedere la luce grazie soprattutto a Beniamino Andreatta, non solo per le sue competenze ma anche per il fatto che egli rivestiva il ruolo di responsabile economico della Democrazia Cri49


stiana, il partito che garantiva circa il 70% dei voti della maggioranza parlamentare. Fino a quel momento il parlamento non aveva mai approvato o discusso quel Progetto di Alta velocità. Nelle Commissioni parlamentari si era solo espresso un parere non vincolante sul “contratto di programma” sottoscritto il 23 gennaio del 1991 dai ministri dei Trasporti, del Bilancio e del Tesoro con l’Ente Nazionale delle FFSS. Proprio in occasione di quella storica legge finanziaria, il responsabile economico della DC presentò un ordine del giorno, approvato con voto quasi unanime della Camera dei deputati: si chiedeva la revisione radicale di quel Progetto. Con quell’ordine del giorno si riaffacciava minaccioso lo spettro di Schimberni, mettendo a rischio i contratti che TAV SpA aveva da poco firmato con FIAT SpA e tutte le maggiori imprese nazionali delle costruzioni. Il clima, nelle cronache dell’epoca, era esattamente questo: «Prima erano solo i Verdi e qualche voce isolata tra i “cartesiani” delle politiche di bilancio come Nino Andreatta. Poi, a poco a poco il carro degli oppositori ha preso a riempirsi di gente. L’ultimo esempio è quello delle mozioni parlamentari che propongono di rimettere in discussione, più o meno radicalmente, tutto il discorso dell’Alta velocità e che hanno trovato sostenitori un po’ in tutti i partiti».4 Contro quel Progetto prende posizione anche un gruppo di parlamentari della Democrazia Cristiana, e fra questi vi era persino il futuro governatore della Lombardia: «Contro l’Alta velocità ferroviaria arriva un’altra bordata che porta la firma di dieci parlamentari dc, tra cui Vittorio Sbardella e Roberto Formigoni. In una lunga lettera “agli onorevoli colleghi”, i parlamentari mettono sotto accusa il sistema Alta velocità sia nella componente progettuale sia in quella finanziaria. Diversi i capi d’accusa: previsioni “irrealistiche” della domanda, costi di velocizzazione 4

. “Acrobazia in alta velocità”, su Affari-Finanza de la Repubblica, 29 gennaio

1993.

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della rete esorbitanti rispetto all’incremento effettivo di velocità (...). Le vere priorità dovrebbero essere l’universalità contro la specializzazione, l’integrazione contro la separatezza e l’utilizzo della linea esistente anziché la costruzione di una integralmente nuova».5 Proprio questo documento dei parlamentari della DC conteneva le critiche e le osservazioni tecnicamente più puntuali e documentate, e che contestavano alla radice proprio la scelta del modello francese di Alta velocità. Nel frattempo, sotto l’incalzare delle critiche, i ministri competenti per il contratto di programma con le FS, oltre ad alcune limitazioni al progetto decidevano che la tratta ferroviaria fra Milano e Torino si sarebbe dovuta affidare con un gara internazionale. La reazione del capofila della lobby del “ferro e cemento” non si fece attendere: «Martedì 2 febbraio. Più di 20 minuti di telefonata. Da una parte del filo Giovanni Agnelli, dall’altra Giuliano Amato. Tema: l’Alta velocità. Contenuto: segreto, ma ricostruibile. Oggetto: la Milano-Torino. La tratta del percorso che sta viaggiando a passi da gigante verso la gara d’appalto internazionale. Ma che, con un ennesimo colpo di scena, potrebbe tornare presto alla sua vecchia destinazione. Cioè la Fiat, il general contractor che dall’ottobre del 1991 sta lavorando alla progettazione del percorso. Per il gruppo torinese la gara internazionale significa rischiare di perdere una commessa di oltre 3.000 miliardi. Per questo le armi non sono state ancora deposte, nonostante la decisa posizione del ministro dei Trasporti, Giancarlo Tesini, e l’appoggio del responsabile economico della DC, Beniamino Andreatta, primo sostenitore dell’apertura della gara alle altre nazioni della CEE».6 In realtà il contratto firmato un anno prima aveva un valore di 2.100 miliardi di vecchie lire, ma il firmatario Cesare Romiti, all’epoca amministratore delegato di FIAT SpA, sapeva benissimo che la gallina dalle uova d’oro avrebbe fruttato molto di più: lieviterà negli anni fino al 2010 5

. “Alta velocità, il no dei deputati dc”, Corriere della Sera, 29 gennaio 1993.

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. “Ora siamo fermi, ma ripartiamo”, Mondo Economico, 20 febbraio 1993. 51


arrivando al valore di 16.000 miliardi di vecchie lire e con i conti ancora non definitivi. Questo dunque il consenso politico unanime millantato dai lobbisti! Alle loro facce di bronzo non era bastata la pressione che, sempre agli inizi degli anni ‘90, avevano esercitato sui partiti dell’epoca per impedire che Andreatta si occupasse delle bugie che alimentavano i loro affari con quel Progetto. Sull’onda dello scandalo di Tangentopoli, il 5 aprile del 1993, i “referendum Segni” raccolgono una valanga di SÌ. Il Governo Amato, già falcidiato dagli avvisi di garanzia, venne sostituito in pochi giorni da un “governo tecnico”, con l’incarico di primo ministro affidato al Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. è in questa occasione che l’esercito dell’Alta velocità dispiega tutte le sue truppe per archiviare la battuta d’arresto determinata dall’ordine del giorno approvato dal Parlamento e che, fra il dicembre ‘92 e l’aprile del ‘93, aveva determinato una vera e propria guerra dagli esiti tutt’altro che scontati. Nei giorni successivi alla telefonata dell’Avvocato, il governo Amato viene decimato da Mani pulite: era ancora l’epoca in cui l’avviso di garanzia determinava le dimissioni del politico avvisato dell’indagine a suo carico. Il 10 febbraio si dimette Claudio Martelli dalla poltrona di ministro della Giustizia, il 19 Giovanni Goria da quella di ministro delle Finanze, il 21 è la volta di Francesco De Lorenzo dalla Sanità. Nell’inevitabile rimpasto, Amato forse coglie al volo l’occasione per soddisfare la più o meno esplicita richiesta dell’Avvocato di rimuovere dal ministero del Bilancio l’indigesto Franco Reviglio: viene spostato al dicastero delle Finanze. Al Bilancio però, dovendo rimanere in quota DC, andrà l’unico nome pulito e competente disponibile. Nel totale sconcerto della lobby dell’Alta velocità, venne nominato Beniamino Andreatta. Il ministro del Bilancio, il 3 marzo 1993, a pochi giorni dal suo insediamento, convoca i ministri con competenza sul contratto di programma di FS e con firma sua e quella dei ministri dei Trasporti Tesini e del Tesoro Barucci delibera l’affidamento 52

di un incarico alla società di revisione internazionale “Coopers & Lybrand” per la verifica sui costi e la costruzione finanziaria di quel Progetto; con la stessa delibera ne viene decisa la trasmissione al Consiglio di Stato e all’Autorità per la concorrenza, con la richiesta di parere sulla legittimità dei contratti stipulati dalle FS e da TAV. Era un colpo micidiale per l’affare del secolo ma, in un paese affetto dal vizio della memoria, nulla può essere dato per scontato. Il governo Amato chiuse i battenti il 28 aprile del 1993. Il nuovo governo tecnico di transizione era diventato l’ultima spiaggia della lobby del grande affare, un’occasione semplicemente immancabile. Non verrà mancata: anzi, paradossalmente, proprio quel governo di garanzia per l’uscita da Tangentopoli garantirà invece la partenza del grande affare e creerà le condizioni per il rilancio in grande stile di una nuova Tangentopoli. Le iniziative promosse dal ministro del Bilancio Beniamino Andreatta saranno ostacolate o ignorate dai ministri che seguiranno, mentre compiacenti boiardi di Stato, collusi o pressati dalla lobby del grande affare, garantiranno pareri che avrebbero fatto impallidire Ponzio Pilato.

I pareri pilateschi Il parere del Consiglio di Stato venne pronunciato dalla Prima Sezione il primo ottobre del 1993 con una relazione che premette, per far velo alla sua inconsistenza, che «il parere prescinde da qualsiasi valutazione globale circa la complessa operazione posta in essere». La scarna relazione glissa totalmente sulla questione fondamentale dei finanziamenti privati. Il millantato finanziamento da parte dei privati viene puramente e semplicemente ignorato. A base del parere di legittimità dei contratti ultra miliardari, il Consiglio di Stato pone questo unico e fondamentale pilastro: «la circostanza che la TAV è partecipata 53


maggioritariamente da privati (40% Ente FF.SS. e 60% privati) e che, quindi, non è autorità pubblica, né è una impresa pubblica, ai sensi dell’art. 1 e 2 della direttiva n. 90/531». Alla data della firma del parere, con una semplice visura camerale, la Prima Sezione avrebbe potuto avere contezza non solo del fatto che TAV SpA era partecipata al 45% (e non al 40%) da FS ma anche del fatto che la Banca Nazionale delle Comunicazioni (al momento al 100% di FS) aveva una quota del 5,5%, e dunque la maggioranza non solo era pubblica ma era addirittura in capo alle sole Ferrovie dello Stato. Non solo, la stragrande maggioranza dei cosiddetti privati che avevano sottoscritto il capitale sociale erano quasi tutti istituti bancari pubblici, e in quel momento il capitale effettivamente versato - sui 100 miliardi di vecchie lire sottoscritti - risultava essere di 51 miliardi e 100 milioni, tutti versati dall’Ente Statale delle Ferrovie. Il pilastro che reggeva il parere di legittimità del Consiglio di Stato era dunque una pura e semplice bugia: la TAV SpA, proprio ai sensi della direttiva europea richiamata dal Consiglio di Stato, era a tutti gli effetti una autorità pubblica. Per la cronaca è bene ricordare che a presiedere quella Sezione era il presidente del Consiglio di Stato Giorgio Crisci il quale, un anno dopo aver firmato quel parere pilatesco all’ennesima potenza, lasciava la presidenza del Consiglio di Stato ed assumeva quella di Presidente della neonata società FS SpA. L’Antitrust impiegò quasi un anno solo per la fase istruttoria, conclusa il 21 febbraio del 1994. La relazione del commissario Fabio Gobbo, articolata su 59 punti, smontava e demoliva l’architettura finanziaria della Grande Opera e si concludeva con queste note: « Appare indubbio, d’altro canto, che le procedure seguite per individuare i general contractor avrebbero potuto caratterizzarsi per un più elevato grado di trasparenza, non a caso, d’altronde, la direttiva CEE 90/531 impone che dal 1° gennaio 1993 i contratti di fornitura e di lavori conclusi da imprese pubbliche nel settore dei trasporti devono essere oggetto di appalto. Gli stessi requisiti richiesti per la trattativa privata 54

dal citato regolamento per l’attività negoziale dell’Ente Ferrovie dello Stato n. 69T/1987 non sembrano essere stati pienamente soddisfatti. Peraltro, eventuali carenze sotto profili diversi da quello della concorrenza potranno, certamente, essere oggetto di esame delle competenti autorità giurisdizionali, amministrative e contabili, alle quali questo provvedimento verrà trasmesso». La delibera per lo sviluppo della fase istruttoria, dieci scarne righe, che ignorava totalmente il contenuto della relazione, venne approvata a maggioranza con tre voti a favore; due i voti contrari e uno di questi, caso più unico che raro, fu quello del relatore Fabio Gobbo. La conclusione dell’istruttoria e la formulazione del parere definitivo si ebbe molto più tardi, quando ormai la lobby aveva riconquistato il controllo dei centri topici di loro interesse. L’indagine venne chiusa definitivamente il 10 gennaio del 1996 con una delibera ancora più pilatesca della precedente: «Tutto ciò premesso e considerato; delibera la chiusura dell’indagine conoscitiva di natura generale nel settore delle infrastrutture per il servizio di trasporto ferroviario ad Alta velocità. Firmato, il Presidente». Nulla di più, nessun provvedimento, nessuna raccomandazione: tutto va bene madama la marchesa.

La transizione alla nuova Tangentopoli Nella formazione del governo Ciampi, per il ministero dei Trasporti, il veto lobbista su Tesini, che aveva avuto solo la debolezza di ubbidire alle indicazioni del responsabile economico del suo partito, era semplice e scontato. Tesini scompare dalla compagine governativa. La FIAT, in quel ministero chiave, necessitava delle massime garanzie, e dunque ai Trasporti venne imposto un torinese doc, il liberale Raffaele Costa, che, ovviamente, lavorerà per riattivare il Progetto e far dimenticare incarichi e pareri scomodi. Costa era perfettamente a conoscenza 55


della grande truffa dell’Alta velocità e del forte coinvolgimento in quell’affare della Fiat e della famiglia Agnelli. Era stato informato, con ben due lettere. «Sugli sperperi di Necci a suo tempo io ho scritto al Ministro Costa, che si occupa di queste cose, e Ti invio copia, se le vuoi leggere, delle due lettere»: così scriveva a Beniamimo Andreatta l’ex ministro dei Trasporti nella sua lettera riservata e personale del 10 febbraio 1992; Preti non ricevette alcuna risposta, ma è del tutto probabile che quelle lettere dal tavolo di Raffaele Costa siano arrivate sul tavolo del presidente o dell’amministratore delegato dell’amata e rispettata azienda nazionale di Torino. Altro colpo vincente dei lobbisti viene assestato con la nomina a ministro di Paolo Baratta che aveva, fin dall’inizio, partecipato alla costruzione dell’architettura finanziaria di quel Progetto. Baratta era in quel momento membro del Consiglio di amministrazione proprio della TAV SpA, dove sedeva fin dalla data di costituzione, il 21 luglio 1991. Nel CdA della società, garante della bugia del finanziamento privato, rappresentava i cosiddetti privati, e cioè istituti bancari di proprietà pubblica con vertici di nomina diretta o indiretta della partitocrazia. Era già stato presidente dell’ICIPU, il consorzio di credito per le imprese pubbliche, presidente del Crediop, il consorzio di credito per le opere pubbliche, vice-presidente del Nuovo Banco Ambrosiano e dell’Associazione Bancaria Italiana. Come tutti i grand commis di questo Stato occupato dai partiti, anch’egli è sempre al posto giusto al momento giusto. Nel 2007, guarda caso, sarà nominato nel Consiglio di amministrazione di FS SpA, la holding di controllo di tutte le società del gruppo, TAV SpA compresa. Nella composizione del governo Ciampi, la conferma di Beniamino Andreatta come ministro del Bilancio era ovvia e scontata, e così fu, ma solo fino a qualche ora prima della consegna della lista dei ministri al presidente della Repubblica. Solo la notte precedente la mattina della presentazione dei ministri, Andreatta, con una telefonata imbarazzata di Azeglio 56

Ciampi in persona, seppe che il suo dicastero non sarebbe più stato quello del Bilancio. I lobbisti per determinare le condizioni di questo cambiamento ricorsero all’abilità ed alla fantasia non comuni di un altro ex ministro del Bilancio, già caduto nella rete di Mani pulite ma ancora particolarmente attivo: Paolo Cirino Pomicino, il nume tutelare del modello TAV. Il governo Ciampi era anche il primo della storia repubblicana che vedeva la presenza diretta al suo interno dei post-comunisti del PDS: entreranno nella compagine governativa Augusto Barbera (Rapporti col parlamento), Giovanni Berlinguer (Università e ricerca scientifica), Vincenzo Visco (Finanze). La mossa vincente per impedire ad Andreatta di avere il Bilancio fu la proposta, fra i diversi tecnici cosiddetti indipendenti, di Luigi Spaventa, un economista già presente in quel ministero nell’ultimo governo Andreotti, proprio nello staff del ministro Pomicino. Prima della collaborazione come “tecnico” de “‘O Ministro” era stato deputato nella Settima (1976-1979) e Ottava (1979-1983) legislatura, eletto nelle liste del PCI come indipendente. Nella discussione sulla proposta di Legge finanziaria a “legislazione invariata” presentata nel dicembre del 1980 al Parlamento dal ministero del Tesoro diretto da Beniamino Andreatta, fu proprio Luigi Spaventa a sferrare l’attacco più astioso dell’opposizione. La proposta del nome di Luigi Spaventa, attribuita in quota al PDS, fornì la chiave per sottrarre il ministero del Bilancio al professore bolognese. Ad Andreatta, sorpreso e contrariato secondo i testimoni di allora, nello stupore generale, e con il brindisi dei generali del grande affare, venne affidato il ministero degli Affari Esteri. L’ultimo brivido per la lobby, che era riuscita a collocare le persone giuste in quella compagine governativa, si registrò tre giorni dopo il giuramento dei ministri davanti al presidente della Repubblica. Il 29 aprile 1993 la Camera dei deputati è chiamata a votare sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi: la richiesta venne respinta con 57


il voto dei parlamentari della coalizione di governo, senza però quello dei parlamentari del PDS. I ministri Barbera, Berlinguer e Visco rassegnarono immediatamente le dimissioni. Il ministro del Bilancio, in quota PDS, nonostante le pressioni dello stesso partito rimase invece al suo posto. Il 4 maggio, i tre ministri dimissionari vennero rimpiazzati, senza alcun altro spostamento. Luigi Spaventa, dalle cronache dell’epoca collocato fra i Pomicino-boys, rimaneva al Bilancio, mentre il più autorevole economista del momento rimaneva agli Affari Esteri e la lobby dell’Alta velocità poteva finalmente dormire sonni tranquilli. Anche l’ostacolo più duro di quella straordinaria mobilitazione era superato. Con altri, i lobbisti avrebbero potuto anche tentare un abbordaggio diretto, ma la statura morale del personaggio non poteva non consigliare il ricorso a mezzi che solo il disprezzo per la dignità e la verità possono consentire. Negli anni più critici della storia dell’Italia contemporanea, Andreatta non aveva avuto alcun timore a sancire la separazione della Banca d’Italia dal ministero del Tesoro e quando, nel 1981, emerse lo scandalo della P2 fu inflessibile nel rimuovere i funzionari e i dirigenti che comparivano nella lista sequestrata a Licio Gelli. Con lo scandalo della banca vaticana dello IOR, di Roberto Calvi e Paul Marcinkus, Andreatta non esitò ad imporre lo scioglimento del Banco Ambrosiano e la sua liquidazione, ignorando le pressioni politiche e mediatiche che ne volevano il salvataggio con fondi pubblici. Andreatta stesso tenne uno storico discorso in Parlamento riferendo pubblicamente delle responsabilità della banca vaticana e dei suoi dirigenti. Al suo rigore esemplare su quelle vicende inquietanti della storia repubblicana si associarono nello stesso periodo le accese polemiche con gli alleati di governo socialisti: con Gianni De Michelis sulle partecipazioni statali, con Signorile sugli interventi straordinari nel Mezzogiorno e persino con Bettino Craxi che arrivò, bontà sua, ad accusare Andreatta di distruggere l’economia. 58

Andreatta era stato ministro in tutti e cinque i governi che si sono succeduti dal maggio del 1979 al dicembre del 1982. L’ultimo incarico ministeriale era stato quello del Tesoro nel governo Spadolini, e fu proprio una dura polemica di Andreatta con il socialista Rino Formica, passata alla storia come “lite delle comari”, che provocò la caduta di Spadolini e l’insediamento di un nuovo governo, senza il Professore, in questo e in tutti i governi che seguiranno. Il veto socialista e degli accoliti della loggia di Licio Gelli su Beniamino Andreatta durerà per tutti gli anni ‘80 e fino all’esplosione di Tangentopoli. Fino al 1993 non aveva più avuto alcun incarico di governo. è ritornato a fare il ministro solo dopo che Mani pulite aveva quasi azzerato il gruppo dirigente della Democrazia Cristiana, al Bilancio ma giusto per qualche settimana: poco, troppo poco per demolire una bugia che garantiva un esercito di interessi.

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LA VERA STORIA DELL’ALTA VELOCITÀ

La grande cerimonia La storia dell’Alta velocità, nella versione dei ladri di verità, comincia agli inizi degli anni Novanta. Di vero c’è solo il fatto che il 7 agosto del 1991 il Commissario straordinario dell’Ente nazionale delle Ferrovie dello Stato firma la delibera numero 971 alla presenza, fra i molti altri, del ministro dei Trasporti, del presidente dell’IRI, del presidente dell’ENI e dell’amministratore delegato della FIAT SpA. Per l’occasione era stata convocata una conferenza stampa per presentare in pompa magna la più grande operazione di project financing mai realizzata in Italia. Con quella delibera veniva dato ufficialmente avvio alla realizzazione del progetto TAV che, era scritto, aveva «(...) l’obbiettivo strategico di dotare il Paese di una rete di collegamenti ad Alta velocità, in generale su nuove linee da costruire a cura dell’Ente Ferrovie dello Stato, in esse comprese, in via prioritaria, la Milano-Napoli e la Torino-Venezia e, ove ricorrano le condizioni, la Genova-Milano». Di quel Progetto si parlava già da diversi anni, ma in quella delibera – per la prima volta – si sanciva in modo perentorio una straordinaria novità: «il finanziamento degli investimenti sarà coperto con ricorso al capitale privato per una parte rilevante dello stesso, circa il 60% del costo complessivo, restando a carico dello Stato la sola differenza (circa il 40%) nonché l’onere per interessi durante la costruzione e l’avviamento». Il costo previsto era già in quel momento quello delle grandi occasioni e veniva quantificato con una cifra precisa, con la stima persino del costo dovuto all’inflazione: «il costo delle opere da realizzare, sulla base delle stime allo stato disponibili, è stato valutato, a valori correnti e ipotizzando un’inflazione del 5% annuo, in circa lire 30.000 miliardi, per cui il contributo del 40% è stimabile in lire 12.000 miliardi». 61


Ancora più straordinaria era la previsione con la quale si ipotizzava la possibilità del recupero non solo del finanziamento privato ma anche di quello pubblico: «Considerato che qualora il costo reale delle opere da realizzare risulti inferiore alla previsioni o il mercato determini un successo dell’iniziativa superiore alle attese ovvero si realizzino condizioni tali da consentire ulteriori margini di ammortamento del capitale investito (oltre il 60% di parte privata), dovrà intervenire un meccanismo di ammortamento della quota di capitale pubblico erogata in qualità di contributo dall’Ente F.S. alla concessionaria ed eventualmente il rimborso degli oneri finanziari sovvenzionati nel periodo di costruzione ed avviamento». Il fulcro di questo straordinario sogno era una nuova società costituita ad hoc qualche giorno prima della grande cerimonia. Con la stessa delibera si decideva infatti «di attribuire ad una partecipata dell’Ente FS, individuata nella società “Treno Alta velocità - TAV. S.p.A.”, la responsabilità finanziaria e patrimoniale della realizzazione del progetto, affidandole in concessione la progettazione esecutiva, la costruzione e lo sfruttamento economico di linee e infrastrutture per il Sistema Alta velocità secondo criteri, termini e modalità da definirsi nella convenzione attuativa del provvedimento di concessione». Per la progettazione e la costruzione delle infrastrutture però la concessionaria TAV SpA era vincolata ad affidare i contratti a soggetti predefiniti; nella delibera 971 erano individuati attestando «la disponibilità della FIAT SpA ad assumere il ruolo di general contractor esclusivamente come stazione appaltante, fermo restando l’obbligo da parte della medesima di garantire in proprio la realizzazione delle opere ai prezzi ed entro i termini fissati», e nonché « la disponibilità di ENI ed IRI ad assumere ab externo la garanzia di realizzazione delle opere, ai prezzi ed entro i termini prefissati, da parte di soggetti complessi che provvedono direttamente alla esecuzione delle prestazioni e servizi loro affidati dalla concessionaria, e nei quali assumano posizione di rilievo società proprie partecipate». In 62

quella conferenza stampa, la differenza fra la disponibilità di FIAT, quale stazione appaltante, e quella di ENI ed IRI, di garanzia ab externo, venne taciuta e le tre grandi aziende nazionali vennero indistintamente presentate come general contractor impegnati nella consegna “chiavi in mano” delle infrastrutture e come garanti dell’esecuzione con “prezzi chiusi” e “tempi certi”. Oltre alla progettazione e costruzione delle infrastrutture, anche il presidio ed il controllo della esecuzione era vincolato: la delibera stabiliva «di riservare all’Ente FS la facoltà di affidare il presidio della area tecnologica, ingegneristica e sistemica, nonché il controllo della fase esecutiva di realizzazione del progetto ad una propria controllata, individuata nella società “Italferr -SIS.TAV S.p.A.”, con l’obbligo per la concessionaria di stipulare con detta società idonei accordi per la definizione dei reciproci obblighi e dei relativi aspetti economici, da regolarsi secondo condizioni di mercato privato». Il ruolo effettivo dunque che rimaneva in capo a TAV SpA era solo quello di gestire lo “sfruttamento economico”. In quel momento, quell’oggetto insolito non trovava alcuna corrispondenza nelle norme in vigore. Nelle direttive europee sugli appalti pubblici, e nel nostro ordinamento, era rintracciabile solo una definizione della “concessione” strettamente vincolata alla “gestione”, esattamente questa: «La concessione (...) presenta le stesse caratteristiche dell’appalto, ad eccezione del fatto che la controprestazione dei lavori consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera o in tale diritto accompagnato da un prezzo». Nel contratto di concessione, la controprestazione che garantisce al concessionario il recupero dell’investimento necessario alla realizzazione della infrastruttura è, appunto, il “diritto di gestire l’opera”. Secondo le norme in vigore, la TAV SpA dunque, quale concessionaria delle infrastrutture, avrebbe dovuto recuperare l’investimento attraverso la “gestione” del servizio Alta velocità. Nella delibera però di questa previsione non vi era alcuna traccia, la gestione del servizio non era in capo a 63


TAV SpA e quindi non era questa la controprestazione con la quale avrebbe potuto rientrare dell’investimento privato e, forse, restituire il finanziamento pubblico. Anche lo “sfruttamento economico” era dunque una straordinaria novità. La delibera non ne dava una definizione, specificava però il suo contenuto, stabilendo «di riservare in via esclusiva all’Ente FS l’esercizio tecnico delle linee realizzate dalla Concessionaria verso il pagamento di un corrispettivo tale da consentire il recupero e la remunerazione del capitale investito dalla Concessionaria stessa, (..); di affidare ad una controllata dell’Ente F.S., individuata nella società “Treno Alta velocità Commerciale, TAV-CO S.p.A.”, la commercializzazione dei servizi Alta velocità sulle linee realizzate dalla Concessionaria». La TAV SpA non avrebbe dunque recuperato l’investimento gestendo il servizio e vendendo biglietti per il servizio ferroviario AV, bensì attraverso la stipula di due contratti: uno con TAV-CO SpA, incassando, da questa nuova società - che FS avrebbe dovuto costituire per gestire il servizio Alta velocità un canone per l’uso delle infrastrutture; uno con l’Ente FS, con il quale lo stesso Ente, oltre a garantire la manutenzione e l’esercizio tecnico dell’infrastruttura, si impegnava al “pagamento di un corrispettivo tale da garantire il recupero e la remunerazione del capitale investito dalla concessionaria”. In quella storica conferenza stampa, dove era presente il fior fiore della classe dirigente pubblica e privata del nostro Paese, sulle modalità con le quali TAV SpA realizzava il singolare ruolo di concessionario dello sfruttamento economico nessuno ha manifestato il minimo dubbio. La bugia dell’investimento privato era però talmente evidente che solo l’ignoranza di alcuni e l’interesse dei più ha potuto consentire di chiudere occhi, orecchie e bocca di fronte a quella che anche uno studente al primo anno di Economia e Commercio avrebbe definito una pura e semplice truffa ai danni delle casse pubbliche. Il recupero del finanziamento pubblico rimarrà nel libro dei sogni, mentre gli investimenti privati di TAV SpA saranno banali pre64

stiti, tutti garantiti dallo Stato, che stiamo pagando e continueremo a pagare per molti anni. La delibera 971 forniva solo l’importo totale del Progetto.

Voci di costo 7 Agosto 1991

Miliardi di £

Contraente di FS

Oggetto del contratto

Tratte

18.100

TAV Spa

Nodi

2.080

TAV Spa

Materiale rotabile

4.800

Consorzio Trevi

Fornitura di: 100 ETR 500, treni a composizione fissa con 2 motrici e 12 carrozze

Infrastrutture aeree

1.200

Consorzio Saturno

Realizzazione delle linee elettriche e del sistema di controllo e segnalamento per tutte le tratte ed i nodi

Interessi intercalari

1.500

Banche

Interessi durante l’esecuzione dell’opera fino all’entrata in esercizio

Totale

27.680

Progettazione esecutiva e costruzione: MI-BO; BO-FI; FI-RM (adeguamento); RMNA; TO-MI; MI-VR; VR-VE; GE-MI Progettazione esecutiva e costruzione dei nodi di: Napoli, Roma, Firenze, Bologna, Milano, Torino, Verona, Venezia, Genova

(Tab.1 - Costi delle singole voci del Progetto TAV presentato il 7 agosto 1991)

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Le singole voci di costo vennero presentate nella conferenza stampa dal grande cerimoniere Lorenzo Necci. Il costo complessivo era determinato da cinque voci fondamentali (vedi Tab.1). La voce “tratte”, e cioè il costo per la realizzazione di sette nuove coppie di binari per collegare i nodi delle città interessate dalle linee. La voce “nodi”, con i costi per l’adeguamento o la costruzione dei binari di penetrazione nelle stazioni interessate. La voce “materiale rotabile”, cioè il costo dei treni per fornire il servizio ai passeggeri. La voce “infrastrutture aeree”, cui corrispondeva il costo delle linee elettriche e degli impianti di segnalamento per le nuove tratte AV. La voce “interessi intercalari”, infine, col costo del denaro cosiddetto privato, e cioè gli interessi sui prestiti bancari per tutta la durata dei cantieri e fino all’avvio del servizio. La realizzazione delle sette “tratte” ferroviarie era affidata in concessione a TAV SpA, la quale a sua volta si sarebbe avvalsa di altrettanti general contractor; a questi erano affidate la progettazione esecutiva e la costruzione di tutte le “infrastrutture a terra”, associate alla gestione di tutte le attività tipiche di un committente pubblico, come ad esempio la direzione dei lavori, ma anche gli espropri e gli indennizzi ai proprietari di aree ed immobili interessati dai nuovi tracciati. Sempre a TAV SpA, ed a cascata ad altri contraenti privati, era affidata la realizzazione dei “nodi” e cioè sempre e solo delle infrastrutture a terra per la penetrazione nelle stazioni delle città interessate dalle nuove linee. Mentre nel caso delle “tratte” gli interlocutori privati erano già individuati, e con questi TAV SpA firmerà subito i contratti per un importo complessivo di 18.000 miliardi di lire, nel caso dei “nodi” la delibera del Commissario straordinario definiva solo l’impegno di FS ad affidare tale attività a TAV SpA rinviando però la definizione contrattuale ad atti successivi. Per la progettazione e la realizzazione di tutte le “infrastrutture aeree”, e cioè delle linee per l’alimentazione elettrica degli elettrotreni, delle sottostazioni elettriche, degli impianti di se66

gnalamento e per la sicurezza della circolazione, il contratto sarà firmato direttamente dall’Ente FS con il Consorzio Saturno, con la previsione di un costo complessivo di 1.200 miliardi di vecchie lire. Per la progettazione e la fornitura del “materiale rotabile” specificamente progettato per il servizio Alta velocità il contratto invece era già stato affidato direttamente dall’Ente FS al Consorzio Trevi, con un valore della commessa previsto in 4.800 miliardi di vecchie lire per la fornitura di 100 treni ETR 500 a composizione fissa, con due motrici, un vagone ristorante ed undici carrozze passeggeri. Tutti i contratti, ad esclusione di quelli per i nodi, sono stati affidati a trattativa privata con i singoli interlocutori, senza gara e senza il vaglio o la verifica di alcun organo di controllo tecnico, amministrativo o contabile dello Stato. Il costo della voce “interessi intercalari” era previsto in 1.500 miliardi, calcolati ipotizzando un costo del 5% annuo dei cosiddetti investimenti privati per la realizzazione delle “tratte”, con la previsione di una erogazione più o meno lineare nell’arco dei sei anni previsti per la costruzione e l’avvio dell’esercizio. Il costo delle “tratte”, includendo anche la Genova-Milano, che in quel momento non era ancora deliberata, era esattamente di 18.100 miliardi di vecchie lire (inclusi i 100 miliardi previsti per i lavori di solo adeguamento della tratta Firenze-Roma). Il 40% di finanziamento pubblico della voce “tratte” dava una cifra di 7.240 miliardi; aggiungendo le voci di costo pagate direttamente dall’Ente FS, la cifra di finanziamento pubblico era pari 16.820 miliardi, ben diversa dai 12.000 miliardi pubblici ipotizzati nella delibera. Di certo, comunque, con quelle voci e quei contratti era assolutamente impossibile capire da quale calcolo scaturissero i 18.000 miliardi di lire di investimento privato, visto che solo i contratti per le tratte rientravano nel cosiddetto project financing, ed il 60% dell’importo di questi dava una cifra di 10.800 miliardi. Nonostante queste macroscopiche anomalie, il Governo, con 67


il parere di competenza delle Commissioni parlamentari, firmerà con FS il contratto di programma 1991-1993 nel quale si leggerà la cifra tonda di 30.000 miliardi di vecchie lire, con un finanziamento pubblico di 12.000 miliardi e un investimento dei privati di 18.000 miliardi di lire, senza alcuna altra minima specificazione. Nel contratto di programma successivo, 1994-1996, inviato alle Camere il 27 luglio 1995, non si troveranno maggiori dettagli: anzi, il più grande progetto mai realizzato dalle Ferrovie dello Stato era descritto in questo modo:«SISTEMA ITALIANO ALTA VELOCITÀ. A carico dello Stato 14.673 miliardi. A carico dei privati 24.075 miliardi. TOTALE 38.748 miliardi». Due sole righe, ma il totale aveva già registrato, con il progetto ancora sulla carta e nessun cantiere ancora aperto, un aumento del 30%. La grande abbuffata era comunque iniziata, ed eravamo solo all’antipasto. Da quei 30 mila miliardi iniziali siamo arrivati, nel 2010, a spendere o impegnare almeno 120 mila miliardi di vecchie lire, e per realizzare solo una parte di quel Progetto, quella relativa alla linea Torino-Napoli. Mancano ancora da contabilizzare i costi della Milano-Verona-Venezia e della Genova-Milano, con i quali, più o meno nel 2020, si arriverà ad almeno 180 mila miliardi, tutti, proprio tutti, usciti o che usciranno dalle casse pubbliche. La grande cerimonia del 1991 aveva in realtà un solo scopo, quello di arrivare il più in fretta possibile alla firma dei contratti. Solo la “firma” era nell’interesse dei commensali, consapevoli e certi che la grande abbuffata sarebbe stata di gran lunga più ricca rispetto a quanto scritto in contratti che dovevano semplicemente garantire la partenza del banchetto e il posto a tavola. Per tutte quelle voci di costo, l’attendibilità si è rivelata pari allo zero assoluto: sono tutte lievitate a dismisura, ma nessuno ha mai fornito dati aggiornati ed attendibili. Le informazioni sui costi delle “tratte” sono fornite dalle società del gruppo FS in modo incompleto e parziale; poco si conosce del costo dei 68

“nodi”, poco si sa del costo del “materiale rotabile”, pochissimo dei costi delle “infrastrutture aeree”, ancora meno su tutte le opere indotte e inizialmente non previste, comprese le nuove stazioni per l’Alta velocità. Nulla è stato mai detto sulla voce “interessi intercalari”, quella che lieviterà in modo astronomico, oltre il mille per cento, a conferma dell’assurdità sulla quale si fondava l’architettura finanziaria con la quale si è dato avvio a questa costosissima avventura.

La storia ai tempi del ministro “falce e carrello” La data del 7 agosto 1991 segna in realtà la riproposizione di un Progetto che aveva alle spalle già diversi anni e nel quale le scelte tecniche, per le infrastrutture ed il materiale rotabile, erano già state fatte. Quel Progetto portava le firme del ministro dei Trasporti, Claudio Signorile, e del Presidente dell’Ente FS, Ludovico Ligato. Prima di loro si era già lavorato alla realizzazione di nuove infrastrutture per migliorare il servizio ferroviario dal punto di vista anche della velocità, ma è con Signorile e Ligato che la lobby del cemento riesce ad imporre la scelta del modello francese, abbandonando il lavoro serio e competente che era iniziato negli anni ‘60. Già a quegli anni infatti risaliva la scelta della realizzazione della cosiddetta “Direttissima” Roma-Firenze, in assoluto il primo progetto in Europa di infrastruttura per treni veloci. Nello stesso periodo partivano anche i primi studi per migliorare le prestazioni del materiale rotabile, ed anche in questo caso l’Italia sarà la prima in Europa a realizzare treni ad assetto variabile, i famosi “Pendolini”. Proprio sulla spinta di queste esperienze il progetto di velocizzazione della rete e del servizio trova all’inizio degli anni ‘80 una prima traduzione nel Piano Generale dei Trasporti approvato dal Parlamento con la Legge 245/84. Nel PGT si indicava un indirizzo; il Piano non conteneva soluzioni tecniche o 69


tecnologiche; non si parlava comunque di Alta velocità con linee dedicate, bensì di «quadruplicamento ed in via prioritaria sulle direttrici Torino-Milano-Verona-Venezia e Milano-Bologna-Firenze-Roma-Napoli-Battipaglia». I tecnici che avevano definito quel piano, in gran parte di FS e Ansaldo, avevano come riferimento tecnico le esperienze, appunto, della “Direttissima” e del “Pendolino”, con implicazioni che non facevano certo pensare alle scelte fatte nello stesso periodo in Francia con il TGV (Train a Grande Vitesse, Treno a Grande Velocità) sulla Parigi-Lione. Tre erano le opzioni tecniche più significative per l’Alta velocità che si potevano registrare in quel momento nel panorama europeo. Quella del “modello tedesco”, che interveniva sul trasporto merci e passeggeri, tendente a servire anche le città intermedie con un sistema di treni con velocità diversificate non superiori a 250 km/h, realizzato con larghissimo utilizzo delle linee preesistenti rimodernate o integrate. Vi era poi quella del “modello svizzero”, orientato verso la razionalizzazione della rete passeggeri esistente, con la velocizzazione dei servizi intercity con velocità di punta fino a 200/225 km/h ed un cadenzamento di almeno ogni ora di un treno per qualsiasi destinazione della rete e coincidenze in tutte le stazioni alla stessa ora. Vi era infine il “modello francese” che interveniva con la costruzione di nuove linee, impostate con velocità di punta di 300 km/h e con tratte dedicate al solo servizio passeggeri fra aree metropolitane separate da ampie distanze. Rispetto a queste tre opzioni, in Italia, gli esperti di mobilità ferroviaria erano decisamente orientati verso i modelli tedesco o svizzero, in quanto più aderenti alla geografia urbana, all’assetto infrastrutturale e alle esigenze di mobilità del nostro Paese. La lobby delle grandi imprese, con al vertice la FIAT SpA, era invece decisamente schierata per l’adozione del “modello francese”. In pieno clima di Tangentopoli, quando le cupole forti delle imprese e dei partiti decidevano come e quando spendere il denaro pubblico per alimentare il sistema delle tan70

genti, il braccio di ferro per la scelta del “modello” tecnico da adottare durò pochissimo. La “lobby” del “modello francese” vinse a tavolino senza giocare alcuna partita. Il primo atto per l’avvio del Progetto TAV è la decisione dell’Ente Ferrovie dello Stato - su imput del ministro dei trasporti Claudio Signorile - di costituire la prima SpA delle FS, una società specificamente incaricata di progettare e realizzare le nuove linee per l’Alta velocità. Il 25 ottobre 1984 veniva costituita la “Italferr SpA”, una società di ingegneria con oggetto sociale “… la definizione, lo sviluppo e la progettazione di sistemi di trasporto ferroviario ad Alta velocità”. Costituita dal nulla, ma subito impegnata nello sviluppo della progettazione, già alla fine degli anni Ottanta era in grado di vantare il progetto di massima delle nuove infrastrutture. Condizionata dalle scelte tecniche imposte e pilotate dalla Fiat e dalla lobby delle grandi imprese, il progetto sviluppato da Italferr aveva adottato in tutto e per tutto il “modello francese”. Di più, le quattro società di ingegneria scelte come bracci operativi per la produzione del progetto erano tutte prive di esperienze specifiche nel settore e non potevano fare altro che copiare, anche nei minimi dettagli, le scelte tecniche dell’esperienza francese. All’Italferr SpA, oltre alla progettazione di massima, era però stata affidata anche la missione di gestire le gare di appalto per l’affidamento della progettazione esecutiva e della costruzione di tutte le infrastrutture. Il 26 giugno 1991 la stessa Italferr assumerà la denominazione sociale di “Italferr SIS.TAV SpA”. Il presidente, Emilio Maraini, protagonista fino a quel momento degli accordi con i futuri commensali, era a conoscenza del disegno che il nuovo Commissario straordinario, Lorenzo Necci, stava portando avanti con la ridefinizione dell’architettura contrattuale e finanziaria. Nel timore di essere messo da parte nella fase di realizzazione del progetto, Maraini cercava di riaffermare il ruolo che era stato affidato alla società portando in evidenza, anche nella propria denominazione, la missione sociale fissata nello statuto: «progettare e realizzare il 71


Sistema (SIS) per il Treno ad Alta velocità (TAV)». Le preoccupazioni non erano infondate: un mese dopo, il 21 luglio 1991, Necci costituiva la TAV SpA, che verrà presentata in grande stile qualche settimana dopo nella storica conferenza stampa del 7 agosto del 1991. Era in effetti questa la società che di fatto subentrava a Italferr SIS.TAV SpA e che avrebbe dovuto garantire la novità del finanziamento privato. Prima di quella data l’architettura contrattuale e finanziaria presentava delle sostanziali differenze. Sempre nel 1984, infatti, il ministro dei Trasporti aveva definito anche le modalità per la realizzazione delle infrastrutture, prevedendo l’affidamento della progettazione esecutiva e della costruzione attraverso regolari gare di appalto. Non vi era alcuna ipotesi di cosiddetto project financing, nessun tentativo di millantare la presenza di investimenti privati. Per dare corpo alle modalità realizzative previste, il ministro Claudio Signorile, contestualmente alla nascita di Italferr SpA, presentava un disegno di legge che il Parlamento approverà in via definitiva il 17 febbraio 1987 con la Legge n. 80, avente come titolo “Norme straordinarie per l’accelerazione dell’esecuzione di opere pubbliche”. L’articolo 8 della legge sanciva la possibilità di affidare attraverso gara, svolta sulla base di un progetto di massima, un contratto definito dalla legge come “concessione per la progettazione e la sola costruzione dell’opera”, e cioè una forma contrattuale analoga a quella che quindici anni dopo verrà inserita nella Legge obbiettivo per le grandi opere, con la definizione del “contraente generale” quale “concessionario con la esclusione della gestione dell’opera”. Nel frattempo Italferr Spa aveva definito il progetto di massima con quattro società di ingegneria: CTIP SpA, Foster Wheeler SpA, Techint SpA e TPL SpA, cooptate nell’affare senza alcuna gara nel clima consociativo degli anni Ottanta. Una di queste, la TPL SpA, il “Giuda” che ha garantito l’emarginazione di Italferr SpA, sarà l’unica alla quale, anche con la nuova architettura contrattuale, saranno ancora garantite com72

messe per centinaia di milioni di euro. Alla fine degli anni ‘80 dunque il Progetto avrebbe potuto già decollare; erano pronti i progetti di massima ed era in vigore la norma per indire le gare e per affidare la progettazione esecutiva e la costruzione di tutte le infrastrutture per il TAV. Così sarebbe stato se il 25 novembre 1988 non fosse scoppiato nelle FS il clamoroso scandalo definito dalle cronache dell’epoca delle “lenzuola d’oro”. Il ministro Signorile fu costretto a rassegnare le dimissioni, così come tutto il CdA delle Ferrovie dello Stato ed il presidente Ludovico Ligato. Il Governo, presidente del Consiglio Giovanni Goria, nominò immediatamente un Commissario straordinario e la scelta cadde su un tecnico di riconosciuta capacità ed autorevolezza, il dott. Mario Schimberni.

La sepoltura e la resurrezione del Progetto Il Progetto TAV è subito sottoposto dal Commissario ad una attenta valutazione tecnica dei costi e dei benefici: il responso non poteva che essere quello che gli esperti veri, quelli non assoldati dai lobbisti, avevano da tempo formulato. La scelta del “modello francese” ridiventava quello che in realtà era sempre stata: una scelta sbagliata, molto costosa e soprattutto inutile, non adatta a soddisfare le esigenze di mobilità del nostro Paese. Il Commissario straordinario manifesta pubblicamente questo orientamento con una metafora netta ed inequivocabile, celebrando il de profundis di quel Progetto. La decisione si scontra però con gli interessi della più governativa impresa nazionale e di tutto l’esercito bipartisan che questa aveva arruolato. Schimberni, come gli era capitato quando era ai vertici della Montedison, si trova nuovamente ad incrociare gli interessi dell’Avvocato, per di più - in questo caso - intrecciati con quelli di tutti i maggiori gruppi economici 73


del Paese, pubblici, privati e cooperativi. Come due anni prima, sarà costretto a lasciare il campo. Il 15 giugno 1990 viene nominato Commissario straordinario delle FS Lorenzo Antonio Necci. Reduce dal fallito mercimonio EniMont, era la persona giusta, scelta al momento giusto, per garantire proprio il decollo del Progetto TAV, essendo già da tempo un protagonista del grande affare come socio occulto di TPL SpA. Saranno i Magistrati Perugini, ma solo diversi anno dopo, a svelarci come e perché TPL SpA e Necci avevano partecipato al rilancio del progetto cestinato da Mario Schimberni. Prima, ai tempi del mercimonio fra ENI e Montedison, scrivono i giudici, «(...) la TPL SpA è la società da cui Necci nasce ed è rappresentata da Maddaloni Mario, Sebasti Leonello e Tradico Pietro, anch’essi legati a Pacini Battaglia, (...). Non a caso i responsabili della TPL vengono perseguiti per la costituzione di fondi neri, ossia per reati di falso in bilancio per importi nell’ordine di varie decine di miliardi e tra le vicende oggetto dell’indagine giudiziaria si colloca quella attinente alla creazione di fondi extracontabili in TPL, destinati al pagamento di una somma di 5 miliardi (anticipata da Pierfrancesco Pacini Battaglia) richiesta da Gardini, per l’assegnazione a TPL dei lavori di ricostruzione del cracker di Brindisi. Non a caso Pacini Battaglia è stato il gestore dei conti dei responsabili di TPL e di taluni degli stessi sono anche soci della Karfinco: ed è in tale contesto che Necci, ha ricevuto da Pacini Battaglia somme di denaro rilevantissime, nell’ordine di diversi miliardi, di cui non ha fornito valide giustificazioni». Poi, ai tempi dell’affare TAV, «(...) non appare occasionale, l’analogia riscontrabile nel modus operandi evidenziato dai soggetti della “vicenda Ferrovie”, con quello tenuto appena pochi anni prima dai protagonisti della “vicenda Petroli”, con particolare riferimento al preminente ruolo svolto dal vertice societario, in entrambe le circostanze impersonificato da Lorenzo Necci. Così come ricorrente in entrambe le vicende è il vantaggio patrimoniale che tali comportamenti, certamente non 74

realizzabili senza il consenso delle maggiori cariche societarie con potere decisionale, producono per TPL». I giudici perugini scrivevano queste cose il 7 gennaio 1999 nella richiesta di rinvio a giudizio di Lorenzo Necci e di altre 56 persone coinvolte nell’inchiesta sulla corruzione dei magistrati romani per vicende legate all’affossamento delle inchieste sull’Alta velocità. In quell’atto precisavano anche: «La continuità tra le vicende ENI/ENIMONT e FERROVIE/ALTA VELOCITÀ è stigmatizzata in una lettera scritta dal dr. Salvatore Portaluri, ex Presidente di TAV, ad Ercole Incalza, del cui contenuto ha dato ampia conferma in sede di esame testimoniale (...). “Con Mario Maddaloni (TPL) i rapporti venivano tenuti dall’ing. Incalza. Da parte mia non ho mai apprezzato l’atteggiamento ammiccante tenuto da Maddaloni il quale, tra l’altro, aveva esercitato enormi pressioni per l’assunzione dell’ing. Savini Nicci, attuale Direttore Generale di TAV”. Appare evidente che la posizione anomala di TPL sia stata corretta dopo che l’iniziale vertice di TPL (Sebasti, Maddaloni, Tradico) era stato decapitato da “mani pulite”». Mentre TPL, massacrata dalle indagini giudiziarie, era già scomparsa all’epoca della testimonianza dell’ex presidente Portaluri, nel 1998, Savini Nicci, invece, nominato secondo quella testimonianza su pressione della banda di TPL, era ancora il Direttore generale di TAV SpA. Conservava quell’incarico, senza soluzione di continuità, anche dopo che la “bugia” della maggioranza privata e del finanziamento privato di TAV SpA era stata denunciata pubblicamente, nel 1998, dal ministro dei Trasporti in carica Claudio Burlando; dopo che, nel 2005, la bugia era stata formalmente contestata da Eurostat come truffa ai danni dell’Unione Europea; dopo che, nel 2006, era stata riconosciuta come tale e sanata dal Parlamento nazionale con la Legge finanziaria per il 2007; dopo che, nel dicembre 2008, la Corte dei conti rivolge parole di fuoco contro i management di TAV SpA, RFI SpA e FS SpA proprio per quella bugia che aveva portato il Parlamento ad assumere un provvedimento “anodino” nei con75


fronti delle generazioni future. Nel 2010, il manager che più a lungo ha convissuto con quella bugia sarà promosso amministratore delegato. Ovviamente quello di Savini Nicci non è un caso isolato. Tutti i manager di queste stesse aziende pubbliche, che hanno gestito, sostenuto o non si sono accorti della “bugia” che per molti anni ha coperto una “truffa” ai danni dell’UE, dello Stato e delle future generazioni, i vari Incalza, Maraini e Moretti, per citare solo i più noti, se non conservano il loro posto sono stati premiati con incarichi ancora più importanti. Così è avvenuto con l’amministratore delegato di TAV SpA Ercole Incalza e col presidente di Italferr-SIS.TAV SpA Emilio Maraini, scelti dal ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi come bracci operativi per le grandi opere. Nel 2010 Incalza è ai vertici del ministero delle Infrastrutture come capo della struttura tecnica di missione per le grandi opere, e Maraini rappresenta FS nell’Unione Internazionale delle Compagnie ferroviarie, senza disdegnare la presidenza di una società pubblica, Metronapoli SpA, e di una società di ingegneria privata Italsocotec SpA. Così è avvenuto con Mauro Moretti, promosso amministratore delegato della holding FS SpA dal governo Prodi nel 2007 e confermato dal governo Berlusconi nel 2010, il quale si autoassegna anche le poltrone di Presidente di Italferr SpA e di Grandi Stazioni SpA, controllate dalla stessa holding, a garanzia che il controllore ed il controllato siano esattamente la stessa persona. Ovviamente questi manager hanno solo convissuto col disastro economico del Progetto TAV, non si sono accorti di nulla, non hanno alcuna colpa. La colpa di tutto, delle bugie, delle truffe, dei costi fuori controllo, dei tempi dilatati e dei debiti colossali prodotti e scaricati sulle nostre e sulle teste dei nostri figli e nipoti è, ovviamente, tutta e solo di Lorenzo Necci, buonanima.

Il decollo e i contratti di TAV SpA Il 7 agosto 1991 dunque Lorenzo Necci resuscita un progetto che aveva rischiato di essere seppellito. Le lobby del “ferro e cemento” e della “falce e carrello” ripartono con una nuova alleanza garantita dai boiardi di Stato. Il miracolo però viene celebrato con qualche improvvida e affrettata nomina che impedisce di salpare a vele spiegate. Per lo stesso giorno era fissata anche la firma del contratto più importante, quello che garantiva il decollo effettivo del grande affare, il contratto con il quale FS affidava a TAV SpA «La concessione per la progettazione, la costruzione e lo sfruttamento economico delle infrastrutture per l’alta Velocità delle linee Milano-Napoli e Torino-Venezia». Dopo la firma della delibera, nello sconcerto dei general contractor, tutti presenti e rappresentati dai massimi vertici, il contratto viene solo presentato, la firma è rinviata. Le ragioni del rinvio emergeranno subito dopo sulla stampa: «L’Alta velocità è partita ma la battaglia per la presidenza della Tav è ancora aperta. Per ora al vertice della Tav è stato mandato Benedetto De Cesaris, il direttore generale dell’Ente. Ma l’incarico affidatogli è temporaneo. L’amministratore straordinario dell’Ente Lorenzo Necci attende infatti che la DC riesca a trovare un candidato per questa poltrona. La rissa nelle scorse settimane è stata furibonda. Per placare gli animi è dovuto intervenire, a quanto si dice, lo stesso Presidente del Consiglio, che avrebbe chiesto a Necci di trovare una soluzione temporanea, De Cesaris per l’appunto».1 Il gran cerimoniere era riuscito a trovare la soluzione temporanea ma solo il giorno prima della firma si era accorto che De Cesaris non poteva firmare quel contratto, anzi non poteva nemmeno assumere quell’incarico e tanto meno poteva firmare i contratti che TAV SpA avrebbe dovuto affidare ai general con1

. Gennaro Schettino, “FS, ora spunta Santuz per la presidenza Tav”, la Repubblica, 10 agosto 1991.

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tractor. La ragione di questo impedimento si conoscerà quando la stampa annuncerà che è stata trovata anche la soluzione: «Il commissario straordinario delle Ferrovie dovrebbe riuscire a sciogliere questa mattina il “pasticciaccio” della presidenza Tav. A guidare la Tav a luglio era stato mandato Benedetto De Cesaris, l’attuale direttore generale dell’Ente FS. La scelta era caduta su De Cesaris nonostante il divieto assoluto imposto dalla Legge 210 di assumere questi incarichi direttivi in società collegate con le Ferrovie.».2 Proprio così, il presidente della società che doveva firmare il contratto più oneroso della storia di FS era in aperto conflitto di interesse, incompatibile con il ruolo di direttore generale dello stesso Ente. La firma ci sarà, ma solo un mese e mezzo più tardi, dopo la nomina di un nuovo presidente: «L’ultimo nome che circola è quello di Salvatore Portaluri, attuale amministratore delegato dell’Agip di area democristiana. (...). Con l’arrivo di Portaluri potranno essere definiti i contratti con Iri, Eni e Fiat, le tre grandi holding a cui è stata affidata la realizzazione operativa del progetto alta Velocità».3 Il nuovo presidente Portaluri, ultrasettantenne, e l’amministratore delegato Ercole Incalza, di area socialista, il 24 settembre 1991 firmano il contratto con l’Ente FS. Lo stesso giorno affidano alla Italfer-SIS.TAV SpA un contratto “per la prestazione di servizi relativi alla realizzazione del sistema AV”, con un ruolo comunque subordinato e che, qualche anno dopo, porterà la stessa società a cambiare nuovamente la propria denominazione ritornando ad essere semplicemente “Italferr SpA”. La TAV SpA, con il nuovo presidente, che efficacemente Luigi Preti definiva “una lustra”, e con un amministratore delegato protagonista delle cronache di Tangentopoli che segui2

. Gennaro Schettino, “Necci scioglie il nodo TAV”, la Repubblica, 10 settembre 1991. 3 . Gennaro Schettino, “Necci scioglie il nodo TAV”, la Repubblica, 10 settembre 1991. 78

ranno, saranno fedeli e tempestivi esecutori anche nella firma dei contratti con i general contractor, del resto già pronti da tempo. Il 15 ottobre 1991 firmano le sei convenzioni per la progettazione esecutiva e la costruzione delle tratte che componevano le due linee di Alta velocità Milano-Napoli e Torino-Venezia. Due tratte, Torino-Milano e Bologna-Firenze, sono affidate a FIAT SpA; altre due, Roma-Milano e MilanoVerona, a due Consorzi di imprese con aziende dell’IRI al 55%; altre due, Bologna-Milano e Verona-Venezia, ad altrettanti Consorzi con aziende dell’ENI al 52%. La differenza del ruolo, ab externo, di ENI ed IRI dunque si appalesa. TAV SpA firma direttamente con la FIAT i contratti con i quali viene affidata la progettazione e la costruzione di due tratte; la FIAT a sua volta affida la progettazione e realizzazione delle stesse tratte a due Consorzi di imprese, il CAVET per la Bologna-Firenze ed il CAVTOMI per la Torino-Milano, nei quali l’impresa capofila è la sua controllata del settore costruzioni, la Cogefar-Impresit SpA. Tutte le attività affidate da TAV SpA a FIAT sono esattamente quelle che FIAT affida ai due Consorzi, e per questo ruolo da “passa-carte” incasserà il 3% dell’importo complessivo, una sorta di tangente contrattualizzata e legittimata da un contratto fra soggetti di diritto privato. ENI ed IRI invece avranno la decenza, ab externo appunto, di non firmare alcun contratto con TAV SpA, rinunciando alla pseudo tangente che, nel loro caso, quali aziende ancora controllate dallo Stato, sarebbe apparsa alquanto incomprensibile. I contratti con TAV SpA in questi casi saranno firmati direttamente dai Consorzi di imprese con capofila aziende controllate da IRI (con Iritecna) e da ENI (con Snam Progetti), costituiti tutti pochi giorni prima della grande cerimonia: il 29 luglio 1991 i consorzi CEPAVUNO per la Bologna-Milano e CEPAVDUE per la Verona-Venezia, il 6 agosto 1991 i consorzi IRICAVUNO per la Roma-Napoli e IRICAVDUE per la Milano-Verona. Il “pasticciaccio” del presidente aveva dunque impedito la 79


firma non solo del contratto di TAV SpA con FS, ma anche di quelli di TAV SpA con i general contractor, non a caso costituiti alla vigilia della grande cerimonia ed in quella occasione tutti presenti e pronti anche loro alla firma. I prezzi dei contratti comportavano un costo a chilometro, in quel momento, più o meno in linea con quelli delle analoghe infrastrutture già realizzate in Francia e con quelli delle infrastrutture che si stavano realizzando in Spagna per la linea AV Madrid-Siviglia. I prezzi concordati, sui quali si era giurato che erano “prezzi chiusi”, lieviteranno in realtà con una media che nel 2010 arriverà ad oltre il quattrocento per cento. Nella delibera 971/91 si ipotizzava, ove ricorrano le condizioni, la realizzazione della tratta Genova-Milano. Quali fossero queste condizioni non era in alcun modo specificato, ma si realizzeranno comunque nell’arco di qualche settimana. Un’autorevole testimonianza in tal senso ci verrà fornita da Sergio Cusani molti anni dopo. Invitato in Val di Susa nel 2006 a portare la sua testimonianza sull’affare Alta velocità ai tempi di Tangentopoli, racconterà che la spartizione delle sei tratte, fra FIAT, ENI ed IRI, con la cooptazione delle imprese private e cooperative, aveva mandato su tutte le furie il Gruppo Ferruzzi che, reduce come ENI dall’affare EniMont, non poteva tollerare di restare fuori dall’affare del secolo, definito e spartito a tavolino. Le condizioni dunque, grazie anche al pagamento di tangenti, secondo le cronache giudiziarie di qualche anno dopo, non tardano a realizzarsi ed il 16 marzo del 1992 l’Ente FS con un nuovo atto di concessione affida a TAV SpA la progettazione esecutiva, la costruzione e lo sfruttamento economico della tratta AV Milano-Genova. Lo stesso giorno TAV SpA sottoscrive il contratto per la progettazione esecutiva e la costruzione della medesima tratta con un settimo general contractor, il Consorzio COCIV, costituito il 3 dicembre 1991 con la partecipazione di due controllate del gruppo Ferruzzi-Montedison ed altri gruppi imprenditoriali che erano rimasti fuori dalla 80

prima spartizione del grande affare. Grazie al recupero in zona Cesarini del consorzio COCIV, nei sette Consorzi di imprese erano finalmente rappresentati tutti i maggiori gruppi imprenditoriali del momento, nessuno escluso (vedi Tab.2). Le coop bianche con il Consorzio CER recuperate nel ConGeneral contractor firmatari dei contratti con Tav Spa

Milioni di €

Km

€/Km

FIAT Spa per la tratta Torino-Milano (sub-contratto Fiat-CAVTOMI Scrl)

1.074

125

8,6

CEPAVUNO Scrl per la tratta Milano-Bologna

1.482

182

8,2

FIAT SpA per la tratta Bologna-Firenze (sub-contratto Fiat-CAVET Scrl)

1.074

79

13,6

IRICAVUNO Scrl per la tratta Roma-Napoli

1.994

204

9,8

IRICAVDUE Scrl per la tratta Milano-Verona

1.125

112

10,1

CEPAVDUE Scrl per la tratta Verona-Venezia

896

116

7,7

COCIV Scrl per la tratta Genova-Milano

1.585

130

12,2

Totale importo dei contratti affidati ai general contractor

9.230

948

9,7

(Tab.2 - Importo e costo a chilometro dei contratti firmati da TAV SpA con i General contractor) 81


sorzio COCIV; le coop rosse nei consorzi IRICAVUNO e CEPAVUNO e con l’immancabile CMC di Ravenna nel Consorzio CAVET; le imprese dei Cavalieri di Catania, già sospettati negli anni ‘80 di rapporti con Cosa Nostra, nel Consorzio CAVTOMI con il Cavalier Costanzo e nel consorzio CEPAVUNO con il Cavalier Rendo; non poteva mancare, anzi, il cavaliere siciliano della Milano da bere Salvatore Ligresti, in ben due Consorzi, il CAVET ed il COCIV; ovviamente erano presenti tutte le imprese delle grandi famiglie di costruttori associate all’ANCE, dai Caltagirone ai Lodigiani, dai Todini ai Salini, dai Del Favero ai Girola, dai Manzi ai Pizzarotti, dai Del Prato ai Fioroni, dai Federici ai Recchi, sparse in tutti e sette i Consorzi; infine, insieme a Snam Progetti e Iritecna, altre tre imprese di Stato che facevano sempre capo ad ENI ed IRI. La durata dei lavori per la realizzazione di tutte le tratte era prevista in sessantadue mesi, ad eccezione della Bologna-Firenze, tutta in galleria, per la quale i mesi previsti erano settantotto. Entro la fine degli anni ’90, con costi e tempi certi, le tratte, i nodi e le infrastrutture aeree dovevano essere pronte per fornire al Paese il nuovo servizio ferroviario ad Alta velocità.

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TAVOLA RICCA E COMMENSALI ILLUSTRI Il Comitato nodi e il Garante dell’Alta velocità Prima ancora che il primo cantiere fosse aperto, al menù TAV si aggiungono nuove portate e la tavola accoglie nuovi commensali. Già all’antipasto gli assaggi si moltiplicano e l’invito a tavola si estende ad altri ospiti, a volte anche illustri o famosi. L’Amministratore delegato delle FS, il 16 gennaio 1992, con i cantieri ancora di là da venire, firma la delibera numero 1077, questa volta senza molta pubblicità. La deliberazione nasce «dalla necessità di individuare le linee di intervento per la definizione di politiche culturali ed urbanistiche finalizzate da un lato all’ottimizzazione del patrimonio ferroviario, con particolare riferimento agli interventi nelle aree metropolitane, e dall’altro all’analisi delle conseguenze sul territorio derivanti dalla costruzione del sistema italiano ad Alta velocità». La decisione che scaturisce da questa esigenza è quella di istituire «Il Comitato per i nodi e per le aree metropolitane con il compito di studiare un nuovo modello delle funzioni ferroviarie nell’evoluzione del sistema di mobilità e nella trasformazione delle strutture urbane». Oltre al “Comitato per i nodi” viene istituita anche la figura di un “Garante” del sistema Alta velocità e dunque con la stessa delibera si decide che «Il professor Romano Prodi è nominato Garante, con il compito di studiare l’impatto diretto ed indiretto del sistema italiano ad Alta velocità sul territorio e sul sistema produttivo del Paese». Per il Comitato la delibera stabilisce che esso «è composto da: Senatore Susanna Agnelli, Presidente, dal Professor Carlo Maria Guerci, Dott. Giuseppe De Rita, Arch. Renzo Piano». Per lo svolgimento delle attività del Comitato e del Garante, la delibera stanziava la somma di 9.000.000.000 (novemiliardi) di vecchie lire e stabiliva altresì che sia il Comitato che il Ga83


Le coop bianche con il Consorzio CER recuperate nel Consorzio COCIV; le coop rosse nei consorzi IRICAVUNO e CEPAVUNO e con l’immancabile CMC di Ravenna nel Consorzio CAVET; le imprese dei Cavalieri di Catania, già sospettati negli anni ‘80 di rapporti con Cosa Nostra, nel Consorzio CAVTOMI con il Cavalier Costanzo e nel consorzio CEPAVUNO con il Cavalier Rendo; non poteva mancare, anzi, il cavaliere siciliano della Milano da bere Salvatore Ligresti, in ben due Consorzi, il CAVET ed il COCIV; ovviamente erano presenti tutte le imprese delle grandi famiglie di costruttori associate all’ANCE, dai Caltagirone ai Lodigiani, dai Todini ai Salini, dai Del Favero ai Girola, dai Manzi ai Pizzarotti, dai Del Prato ai Fioroni, dai Federici ai Recchi, sparse in tutti e sette i Consorzi; infine, insieme a Snam Progetti e Iritecna, altre tre imprese di Stato che facevano sempre capo ad ENI ed IRI. Al banchetto erano tutti presenti e la grande abbuffata poteva cominciare. Il menù prevedeva una durata del pranzo di 62 mesi, di 78 mesi per la Bologna-Firenze, e dunque la conclusione entro la fine degli anni ‘90. Dall’inizio del 2000, con costi e tempi certi, il materiale rotabile, le tratte, i nodi e le infrastrutture aeree dovevano essere pronte per fornire al Paese il nuovo servizio ferroviario ad Alta velocità. Nel 2010, a quasi 20 anni dall’inizio del banchetto i commensali sono ancora seduti a tavola. Si sono però alzati per brindare in occasione delle innumerevoli celebrazioni per la fine dei lavori di gallerie, ponti e tratte. Brindano e però mangiano ancora, e continueranno a farlo per almeno altri 10 anni. Il menù si è arricchito con nuove portate e con ospiti sempre più numerosi.

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TAVOLA RICCA E COMMENSALI ILLUSTRI Il Comitato nodi e il Garante dell’Alta velocità Prima ancora che il primo cantiere fosse aperto, al menù TAV si aggiungono nuove portate e la tavola accoglie nuovi commensali. Già all’antipasto gli assaggi si moltiplicano e l’invito a tavola si estende ad altri ospiti, a volte anche illustri o famosi. L’Amministratore delegato delle FS, il 16 gennaio 1992, con i cantieri ancora di là da venire, firma la delibera numero 1077, questa volta senza molta pubblicità. La deliberazione nasce «dalla necessità di individuare le linee di intervento per la definizione di politiche culturali ed urbanistiche finalizzate da un lato all’ottimizzazione del patrimonio ferroviario, con particolare riferimento agli interventi nelle aree metropolitane, e dall’altro all’analisi delle conseguenze sul territorio derivanti dalla costruzione del sistema italiano ad Alta velocità». La decisione che scaturisce da questa esigenza è quella di istituire «Il Comitato per i nodi e per le aree metropolitane con il compito di studiare un nuovo modello delle funzioni ferroviarie nell’evoluzione del sistema di mobilità e nella trasformazione delle strutture urbane». Oltre al “Comitato per i nodi” viene istituita anche la figura di un “Garante” del sistema Alta velocità e dunque con la stessa delibera si decide che «Il professor Romano Prodi è nominato Garante, con il compito di studiare l’impatto diretto ed indiretto del sistema italiano ad Alta velocità sul territorio e sul sistema produttivo del Paese». Per il Comitato la delibera stabilisce che esso «è composto da: Senatore Susanna Agnelli, Presidente, dal Professor Carlo Maria Guerci, Dott. Giuseppe De Rita, Arch. Renzo Piano». Per lo svolgimento delle attività del Comitato e del Garante, la delibera stanziava la somma di 9.000.000.000 (novemiliardi) di vecchie lire e stabiliva altresì che sia il Comitato che il Ga83


rante «potevano avvalersi di volta in volta delle strutture e delle professionalità interne ed esterne all’Ente necessarie per il perseguimento degli obbiettivi». A gestire i contratti con il Garante ed i membri del Comitato non sarà però il Commissario straordinario di FS: il compito viene affidato alla Italferr-SIS.TAV Spa. Emilio Maraini, presidente della società, formalizza gli incarichi nel Consiglio di amministrazione del 25 marzo 1992: «Il consiglio di amministrazione, dopo approfondito dibattito, all’unanimità delibera di dare mandato al Presidente del Consiglio di Amministrazione di stipulare con i membri del Comitato per i nodi e le aree metropolitane e con il Garante gli atti contrattuali necessari per l’espletamento dei compiti loro demandanti nell’ambito della istituzione di detti organismi». Il verbale della seduta però prosegue, riservando un’ulteriore portata: «Il Presidente sottolinea le ragioni che consigliano, con riguardo alle prestazioni particolarmente articolate dal punto di vista tecnico richieste al Comitato ed al Prof. Romano Prodi, di avvalersi di strutture professionali esterne da essi prescelte e rispettivamente, la Renzo Piano Building Workshop Srl con sede in Genova e la Nomisma Spa con sede in Bologna». Renzo Piano dunque sceglie come supporto una sua società, mentre Romano Prodi sceglie una società della quale è un autorevole collaboratore. Il contratto con il Garante è quello che avrà la durata più breve. Con l’esplosione di Tangentopoli, molti manager di Stato finiscono in manette. Il 12 maggio 1993 viene arrestato il presidente dell’IRI Franco Nobili con l’accusa di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Alla guida dell’Istituto viene richiamato Romano Prodi. L’abbandono dell’incarico di Garante dell’Alta velocità non determinerà però alcuna conseguenza sul contratto della società che lo stesso Garante aveva prescelto per svolgere le prestazioni particolarmente articolate dal punto di vista tecnico che con quella nomina gli erano state richieste. I costi delle prestazioni del Comitato, del Garante e delle So84

cietà dagli stessi prescelte non sono mai stati resi noti ma sicuramente hanno di gran lunga superato i miseri 9 miliardi di vecchie lire stanziati dalla delibera 1077/92. Miliardi attinti dalle somme che lo Stato annualmente trasferisce a FS per garantire il servizio ferroviario universale e che sono stati dirottati al finanziamento di due organismi e due società che, come lucidamente denunciava Luigi Preti, solo boiardi di Stato dediti alla distribuzione di prebende potevano concepire. Quegli incarichi non avevano alcuna seria utilità per un progetto ormai tutto definito e contrattualizzato. Le nomine del Comitato e del Garante però garantivano il sostegno a, o il silenzio su, un progetto tecnicamente sbagliato e costruito su bugie talmente evidenti che solo con l’invito al banchetto anche di personaggi famosi o illustri il pranzo poteva apparire più degno di essere consumato. Serviva il sostegno o il silenzio di persone autorevoli e in quel momento particolarmente corteggiate dalla politica, come Susanna Agnelli e Romano Prodi. Serviva anche il sostegno o il silenzio di Carlo Maria Guerci, presidente del Cesit, il più importante centro studi sul trasporto ferroviario, nonché consulente di FIAT ferroviaria. Serviva pure il sostegno o il silenzio di Giuseppe De Rita, presidente del Censis e autore del più importante e commentato rapporto socio-enonomico annuale sul Paese. Serviva il sostegno o il silenzio dell’architetto italiano più celebre, per arricchire il banchetto e garantire il posto a tavola ad altri famosi architetti. Serviva ovviamente anche il contratto con Nomisma, per produrre tonnellate di carta che finiranno in qualche cantina, ma che saranno subappaltate a diversi Istituti universitari per comprare il sostegno o il silenzio di numerosi esperti del settore. Il solo contratto di Nomisma assorbirà tutti i 9 miliardi di vecchie lire stanziati con la prima delibera. Quanto ha incassato Prodi non è dato sapere, così come non è stato mai reso noto il costo dei quattro componenti del Comitato; altri 9 miliardi, forse. Nulla si sa sui contratti portati a casa dalla società “Renzo Piano Building Workshop srl”, ma è difficile pensare 85


che il loro importo sia stato inferiore alla cifra incassata da Nomisma. Ancora più ignoto è il lavoro prodotto dal Comitato, non essendoci traccia degli studi che avrebbe dovuto produrre sul “modello delle funzioni ferroviarie nell’evoluzione del sistema della mobilità”, e che poco avevano a che fare con l’unica proposta nota uscita da questo organo, quella di realizzare nuove stazioni per l’Alta velocità. Sugli incarichi e le attività del Comitato, del Garante e delle Società di supporto, anche la guardia di finanza nel 1996, nell’ambito di una inchiesta più vasta disposta dal PM di Roma Giuseppa Geremia, cerca di capire il perché ed il come di questi affidamenti: «le Fiamme Gialle hanno acquisito negli uffici di Fs e della Tav il materiale relativo ai finanziamenti, alle consulenze, agli incarichi di appalto e subappalto e ai rapporti intrattenuti con aziende e sodalizi interessati al progetto, tra cui il Comitato per i nodi. Per questa tranche di indagine sono indagati, oltre a Susanna Agnelli, altre tre persone: sul fascicolo sono indicati i reati di falso in bilancio, truffa ed evasione fiscale (...). Contro ignoti rimangono ancora i fascicoli sulle consulenze affidate a Nomisma (della quale l’ex capo del governo Romano Prodi è stato a lungo presidente del Comitato scientifico) ed al Credit Lyonnais.»1. Le notizie dell’indagine sulla stampa sono del giugno del 1998. Romano Prodi non figurava fra gli indagati, ma per diverso tempo rimase il bersaglio preferito di un quotidiano della famiglia Berlusconi, con una lunga campagna di stampa proprio sulle consulenze affidate fino all’aprile del 1996 a Nomisma. La questione del conflitto di interesse del Professore, come Garante del Progetto Tav e collaboratore autorevole di Nomisma, venne riproposta il 4 maggio 1999 con un articolo molto polemico a firma di Ambrose Evans-Pritchard sull’autorevole “Daily Telegraph”, dopo la nomina dello stesso Prodi a presi1

. Haver Flavio, “Alta Velocità, indagati Romiti e Susanna Agnelli”, Corriere della Sera, 25 giugno 1998, pag. 12. 86

dente della Commissione dell’Unione Europea. Questa volta la risposta, ad un quotidiano ed una firma così autorevoli, non poteva mancare; venne affidata ad un ambiguo comunicato con il quale si precisava che «Il sig. Prodi non ebbe ruolo decisionale nell’assegnazione dei contratti a Nomisma. Inoltre il sig. Prodi non aveva alcun interesse, finanziario o altro, in Nomisma. Non era azionista e non copriva alcun ruolo operativo o decisionale. Era semplicemente il presidente del comitato scientifico della compagnia». L’inchiesta giudiziaria finì nel nulla. A parte gli inquinamenti, che forse hanno orientato questa conclusione, troppo complessa era l’architettura contrattuale di quel Progetto, troppe le leggi ed i decreti di riferimento, troppi gli atti e le società coinvolte, troppe le norme e le competenze necessarie per contestare illeciti che attenevano più al diritto contabile e amministrativo e molto meno a quello penale. Anche questa infatti era la forza di quel Progetto: un’architettura contrattuale e finanziaria complicata ed una rete altrettanto complessa di relazioni contrattuali fra società tutte di diritto privato. Aveva un solo punto debole, la bugia madre di tutte le bugie: quella del finanziamento privato, sulla quale però si sono “distratti”, oltre che i magistrati, tutti gli organi di controllo dello Stato, governi, ministri e interi parlamenti della Repubblica.

Le nuove stazioni AV e la stazione Mediopadana Susanna Agnelli ed i membri del Comitato non avevano commesso alcun reato e potevano dunque consigliare o garantire le decisioni dei boiardi di Stato di dirottare in altre direzioni i soldi pubblici destinati ai pendolari ed ai migranti degli espressi, intercity e treni notturni a lunga percorrenza. Consigliano la progettazione e la costruzione di nuove stazioni, specificamente “dedicate” al servizio per l’Alta velocità, a Torino 87


Porta Susa, a Firenze Belfiore, a Roma Tiburtina, a Napoli Afragola e pure una stazione di interscambio nella zona Vesuvio Est in provincia di Salerno. Grazie al “Comitato per i nodi”, l’Italia è il primo ed unico paese al mondo ad avere concepito e realizzato stazioni “dedicate” al servizio Alta velocità, decentrate rispetto a quelle storiche. I progettisti scelti sono però nomi eccellenti, quasi sempre star internazionali, che consentono di spostare l’attenzione mediatica sul progetto del famoso architetto e nascondere l’assurdità della dislocazione delle stazioni stesse, e la loro scarsa utilità ai fini dell’effettivo miglioramento del servizio ferroviario. Sempre attraverso il “Comitato per i nodi” è passata la decisione di affidare al famoso architetto spagnolo Ricardo Bofil il progetto per la nuova stazione centrale di Bologna, in questo caso con la stazione per l’Alta velocità sensatamente associata a quella storica. Il mega progetto proposto dall’architetto postmoderno catalano ebbe però la sventura di essere presentato a cavallo della storica sconfitta della sinistra che portò sulla poltrona di sindaco Giorgio Guazzaloca. Il progetto, travolto da un mare di polemiche, viene abbandonato e finisce in qualche archivio polveroso. La polvere però non finisce sulla parcella dovuta all’architetto che, ovviamente, sarà regolarmente pagato. Non va nemmeno in archivio la decisione di costruire una stazione specifica per l’Alta velocità e dunque si riaffida la progettazione ad un’altra star internazionale, questa volta giapponese, Arata Isozaki. Se è vero che le polemiche e la vittoria di Guazzaloca hanno prodotto una soluzione più razionale e meno costosa per le casse dello Stato, non è stato così però per le tasche e la salute dei cittadini bolognesi che abitano in via de’ Carracci, adiacente e parallela alla nuova stazione per l’Alta velocità. Per le centinaia di famiglie e di piccoli commercianti di quella strada sarà un inferno per almeno un decennio. Gli incontri e le trattative con i residenti per definire gli in88

dennizzi per i disagi previsti si avviano agli inizi del 2000, dopo che il Comune, la Provincia e la Regione avevano già sottoscritto l’accordo di programma per la realizzazione del nodo. Il disagio per i lavori era previsto per la durata di quattro anni: inizio dei lavori 2004, fine dei lavori 2008. Proprio sulla base di questi presupposti vengono concordati gli “indennizzi” ai residenti e ai piccoli esercenti di via de’ Carracci. Le “bugie” anche in questo caso sono state la norma, ma questa volta non ricadono su impersonali casse dello Stato, bensì sulla testa, sulla vita e sulle tasche di persone in carne ed ossa. I disagi cominciano subito con l’inizio dei lavori, per il rumore e la produzione di polvere, ma sarà il meno. Dopo qualche settimana si registra una incredibile invasione di “ratti” nelle cantine e nei piani terra degli edifici, causata dalla perforazione di alcune fognature con getti di cemento, prodotta dagli ancoraggi sparati sotto le fondazioni degli edifici. Dopo qualche mese nelle case iniziano a comparire delle fessurazioni che si allargano e si allungano di giorno in giorno. Tutti gli edifici prospicienti la via sono più o meno lesionati, in alcuni casi debbono essere evacuati e puntellati per evitare rischi di crolli. Tutto questo accade nel più totale silenzio degli addetti ai lavori e nella più totale disattenzione dell’Amministrazione della città. I cittadini, lasciati soli, sono costretti ad organizzare denunce ed azioni legali. In 650 firmano una azione collettiva di risarcimento per gli sforamenti continui del livello delle polveri “pm 10”, una media di 155 giorni all’anno oltre i limiti di legge. Un’altra causa viene promossa da 500 famiglie e 30 attività commerciali per lo sforamento della durata dei cantieri che era stata assunta per il calcolo degli indennizzi per i disagi da polveri e rumore. I disagi ipotizzati e gli indennizzi erogati si sono rivelati semplicemente ridicoli. La durata effettiva, se andrà bene, sarà almeno il triplo di quella promessa. Per i disagi causati da polveri e rumore i cittadini forse riusciranno ad avere un qualche minimo risarcimento. Un primo riconoscimento delle loro ragioni arriva con una sentenza del 89


Tribunale di Bologna, nel novembre 2010, creando le premesse per la richiesta di risarcimento dei danni alla salute per qualche migliaio di euro, forse, ad essere ottimisti, entro una decina di anni. Il problema vero sarà quello dei costi e degli anni necessari per riparare i danni prodotti dal cantiere TAV agli edifici, e sarà la partita più difficile per le famiglie e i piccoli commercianti coinvolti. Sarà dura per questi far fronte al contenzioso con imprese che lavorano ormai solo con i loro uffici legali e con SpA pubbliche per le quali il tempo è una variabile sconosciuta. Il rischio di dover pagare di tasca propria, o anche solo quello della risoluzione in tempi biblici, è quasi una certezza. Il gioco dello scaricabarile delle responsabilità fra i tanti, troppi, protagonisti che hanno firmato accordi, patti, convenzioni e contratti è infatti iniziato ancora prima delle azioni legali promosse dai cittadini. Come a Bologna anche a Firenze per il “nodo” è previsto il sottoattraversamento della città, al quale però si aggiunge la straordinaria idea di realizzare una nuova stazione sotterranea specificamente dedicata all’Alta velocità, non associata alla storica stazione di Santa Maria Novella. I treni che arrivano da Bologna - compresi i Frecciarossa passano per le due stazioni fiorentine di Castello e di Rifredi prima di arrivare alla stazione di Santa Maria Novella. Quando ripartono per Roma passano per un’altra stazione, quella di Campo Marte. Mentre Santa Maria Novella è una stazione “di testa”, le altre tre sono stazioni cosiddette “passanti”: da qui passano sempre i treni veloci che saltano la fermata di Firenze S.M.Novella. Il sottoattraversamento della città è anche conseguente alla decisione di realizzare una nuova stazione passante solo per i treni ad Alta velocità. Una decisione concepita dal “Comitato per i nodi”, adottata senza colpo ferire dai boiardi di FS ed accolta con entusiasmo dagli amministratori in carica a Palazzo Vecchio e in Regione Toscana. Si ritroveranno tutti a Firenze il 25 Novembre 2002 alla conferenza stampa che presenta “la prima grande opera di architettura realizzata a Firenze 90

dopo molti anni che segnerà l’ingresso nel capoluogo toscano della più importante infrastruttura pubblica oggi in costruzione in Italia, le linee di Alta velocità”. Il perché ci fosse bisogno di una nuova stazione non è stato ovviamente spiegato: il progetto della stazione però era firmato da Norman Foster, una superstar internazionale dell’architettura. Dopo sette anni i cantieri dovevano ancora partire e, nel 2009, con il rinnovo dell’Amministrazione, a far riflettere il futuro sindaco di Firenze sui rischi di replicare l’esperienza bolognese ci ha provato la storica associazione fiorentina “Idra”. Nella campagna elettorale del 2009 Matteo Renzi aveva promesso che questa riflessione si sarebbe aperta. Vinte le elezioni ed insediatosi a Palazzo Vecchio le sollecitazioni e le proposte concrete che il professor Girolamo Dell’Olio, presidente dell’associazione fiorentina, continuerà ad inviare sono rimaste senza risposta. L’unica iniziativa nota ai cittadini assunta dal nuovo sindaco fiorentino sarà quella di condividere e partecipare all’evento del “Capodanno ad Alta velocità” promosso dal collega bolognese Flavio Delbono che, un mese dopo, subirà una “rottamazione” poco onorevole. Se gli amministratori di Bologna spendono tempo e denaro per promuovere eventi che celebrano questa cosiddetta Alta velocità, i colleghi di Reggio Emilia e quelli della Regione non sono da meno. Complice il “Comitato per i nodi”, gli Emiliani si sono inventati - qui però siamo davvero ben oltre la follia dei fiorentini - un’altra nuova stazione per l’Alta velocità. Collocata a nord di Reggio Emilia, nella pianura padana e più o meno a metà fra il nodo di Milano e quello di Bologna, si chiamerà “Stazione Mediopadana AV”. Sarà, è la previsione più semplice che si possa fare, un monumento allo spreco e all’inutilità. La nuova stazione offrirà il servizio a qualche decina, forse un centinaio di passeggeri eccellenti al giorno, che potranno salire, forse, su due o tre Frecciarossa che fermeranno in quella stazione, forse quasi tutti i giorni della settimana. Per la costruzione, finanziata solo con soldi pubblici nazionali ed emiliano-romagnoli, non basteranno 91


100 milioni di euro. Ma il problema sarà la gestione e la manutenzione: nemmeno il più sprovveduto degli amministratori potrebbe avere l’ardire di giustificarne la sostenibilità. Per il progetto però, ovviamente, è stato scelto un altro famosissimo architetto, Santiago Calatrava. L’architetto spagnolo pare che a Reggio Emilia, per qualche congiunzione astrale favorevole, abbia trovato l’eldorado. Nella stessa città, sempre grazie all’Alta velocità, ha progettato tre ponti a vela che sovrastano l’autostrada - segni straordinariamente efficaci per distrarre gli automobilisti che sfrecciano nella pista sottostante - costati tre volte di più di ponti normali. Per la nuova stazione mediopadana si poteva solo sperare che qualche amministratore avesse fatto almeno qualche conto prima di dare corso a questa follia. I conti comunque dovrà farli chi si farà carico di gestire e manutenere il monumento allo spreco e all’inutilità, ovviamente dopo che il ministro di turno avrà celebrato il rito per la cerimonia dell’inaugurazione accompagnato dal presidente della Regione, dal presidente della Provincia e dal sindaco della Città.

I cambiamenti radicali di Cimoli Fra le tante bugie che i boiardi pubblici e privati ci hanno raccontato per fare affari con l’Alta velocità, quella della quale non si è mai esplicitamente preso atto è il millantato finanziamento privato. Per questo si continua a parlare di project financing e a raccontare bugie, modificando l’architettura contrattuale e finanziaria ma solo con lievi aggiustamenti che lasciano intatte le scelte di fondo del topico 1991. Ad ogni cambio dei vertici di FS SpA, si è lasciato solo trasparire gli errori del passato, annunciando però cambiamenti sostanziali. In realtà si sono aggiunti errori ad errori facendo in questo modo lievitare a dismisura i costi. 92

Lo stesso Lorenzo Necci, il 16 0ttobre 1995, firma l’atto con il quale viene modificata la convenzione FS-TAV del 1991, con la previsione di non costituire più la società TAV-CO Spa, alla quale, secondo la delibera 971, era attribuita l’esclusiva della gestione commerciale del servizio AV. Con lo stesso atto si decideva pure che non ci sarebbe più stata la cessione della rete a FS mantenendo di fatto in capo alla stessa TAV SpA anche la gestione dell’infrastruttura. Le modifiche alla convenzione comportavano anche dei cambiamenti nei rapporti fra gli azionisti cosiddetti privati e FS, con la previsione della «(...) mitigazione delle obbligazioni finanziarie di FS nei confronti di TAV, attraverso l’eliminazione dell’obbligo di pagamento del canone C1 e la contestuale introduzione, in sostituzione, di una nuova obbligazione, riconducibile alla fattispecie dell’accollo interno, che operi solo ed esclusivamente in caso di impossibilità temporanea o definitiva di TAV di far fronte al servizio del debito nei confronti degli istituti finanziatori... ». Tradotto in parole semplici chi paga è sempre e comunque lo Stato pantalone. La cosa però più esilarante è che la descrizione di queste straordinarie novità era scritta nell’allegato numero 11 della Relazione al Parlamento presentata dal ministro Burlando nel febbraio del 2007. Con quella Relazione si dava avvio alla verifica del Progetto TAV sancita con la Legge 662 del 23 dicembre 2006 dopo i clamorosi arresti di Necci, Pacini Battaglia ed altri. La Relazione del ministro riprende alla lettera le presunte novità scritte nell’allegato; fra le altre questa: « (...) è utile segnalare al riguardo che l’impegno al rimborso del finanziamento pubblico non era contemplato nelle pattuizioni iniziali del ‘91, ma è frutto di un accordo successivo tra FS e TAV.». A parte il fatto che questo impegno fantasioso e inesigibile era già contemplato nella delibera del 1991, sarebbe interessante sapere chi ha steso quella Relazione, copiando pari pari le “fantasie” contenute negli allegati forniti da FS, e se è rimasto al suo posto anche dopo il 23 marzo del 1998. Quel giorno 93


il ministro Burlando partecipa a Milano ad un importante convegno sui temi della mobilità. Nel suo atteso intervento parla anche del celebrato finanziamento privato del Progetto TAV e, destando lo stupore dell’uditorio, afferma: «(...) quando siamo andati a vedere abbiamo constatato che era una cosa falsa, è bene che si sappia che è finita la quota pubblica del 40%, mentre il 60% dei privati non si è mai visto».2 La bugia per la prima volta veniva pubblicamente denunciata dal ministro dei Trasporti in carica con parole inequivocabili, facendo però nascere il sospetto che egli non avesse nemmeno letto la Relazione che un anno prima aveva consegnato a tutti i parlamentari, ed il dubbio sulla sua effettiva consapevolezza delle affermazioni fatte in quel convegno. Nonostante la denuncia della “bugia”, infatti, nulla si fece per azzerare o comunque ridefinire un’architettura contrattuale e finanziaria fondata su presupposti falsi. Anziché procedere all’azzeramento di una società inutile, costituita al solo scopo di millantare finanziamenti privati, è stata imboccata la strada esattamente opposta. I cosiddetti investitori privati, soci di TAV SpA, sono stati tutti rimborsati della loro quota di partecipazione; in quel momento i soci cosiddetti privati erano 42, tutte e sole banche, con una quota di capitale da 1 a 2 milioni di euro cadauna. Presenti nella società con un capitale di rischio ridicolo, ma pronte per il grande affare del “finanziamento privato”, e cioè quello di “prestare soldi” alla stessa società partecipata, con totale garanzia dello Stato. A nessuno è mai balenato il dubbio di un evidente conflitto di interesse di questa presenza. Se il loro interesse specifico, ovvio e legittimo, era quello di “prestare soldi” a TAV SpA, altrettanto ovvio era l’interesse a fare aumentare il più possibile i costi del Progetto, e dunque accrescere l’esigenza dei “prestiti”. TAV SpA, anziché essere cancellata, viene trasformata in una società al 100% di FS SpA, garantendo così la continuità di 2

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. “TAV fallimento annunciato”, Italia Oggi, 24 marzo 1998.

tutti i contratti dei cosiddetti general contractor, caricando sui conti pubblici tutti gli oneri futuri della bugia del finanziamento privato e premiando gli stessi “privati”, complici ed attori, con il rimborso della loro quota. A gestire questa straordinaria operazione gattopardesca, con il consenso dello stesso ministro che aveva bollato come falsa la partecipazione privata, è stato Giancarlo Cimoli, il boiardo che aveva preso il posto di Necci dopo l’arresto di quest’ultimo nel settembre del 2006. Cimoli, per gli oltre 6 anni che rimane al vertice di FS, millanta in più occasioni cambiamenti radicali al Progetto TAV, ma non modifica nemmeno una virgola della sua architettura finanziaria e contrattuale. Non solo: come il suo predecessore assume il doppio incarico, e la doppia retribuzione, di amministratore delegato di FS e di Presidente di TAV SpA. Risolverà questo conflitto di interesse nel 1999, ma solo dopo insistenti e ripetute richieste del nuovo ministro dei Trasporti Pierluigi Bersani. Darà le dimissioni da presidente di TAV SpA ma rimarrà seduto nel mega-Consiglio di amministrazione della stessa società accanto a Mauro Moretti, futuro suo successore, a Giuseppe Sciarrone, futuro amministratore delegato di NTV, Nuovo Trasporto Viaggiatori, la società privata che gestirà il servizio Alta velocità, ed altri nove boiardi di Stato, tutti in rappresentanza di un unico socio, FS SpA. A chiedere invece un importante cambiamento, quello di azzerare i contratti di TAV SpA con i general contractor affidatari delle tratte ancora in fase di progettazione, fu proprio il successore del ministro Burlando. Per dare attuazione a questo indirizzo, lo stesso ministro, di fronte all’inerzia dell’amministratore delegato, fu costretto a presentare senza successo prima un emendamento ad un disegno di legge per la conversione di un decreto, poi un progetto di legge mai arrivato in aula. Riuscì a far diventare norma la sua richiesta di azzerare i contratti TAV con l’articolo 131 della Legge finanziaria per il 2001. All’inizio del 2000, fra le tratte ancora in fase di progettazione vi era ancora la Torino-Milano. Su pressione della FIAT 95


e della nuova proprietà di Impregilo, Cimoli, nonostante il progetto di legge già depositato in Parlamento che ne prevedeva l’azzeramento, accelera la firma dell’atto integrativo per l’apertura dei cantieri. La firma con il general contractor FIAT SpA ci sarà prima che quella previsione, il 1 gennaio 2001, diventasse norma di legge. Salvato l’azzeramento del contratto, la tratta cambia ufficialmente la sua collocazione. Il Progetto TAV, fino a quel momento era stato deliberato e pubblicizzato con due linee, la verticale Milano-Napoli e la trasversale Torino-Venezia, più l’appendice della Genova-Milano. Da quel momento la Torino-Milano non sarà più nella linea trasversale Torino-Venezia e nel famoso Corridoio europeo numero cinque, bensì nella nuova linea Torino-Napoli, entrando, come appendice, o come non si sa, nel famoso Corridoio europeo numero uno. Con il cambio del governo nel 2001, Cimoli, confermato sulla stessa poltrona, continua a millantare i cambiamenti radicali del Progetto. Convocato dalla Ottava Commissione del Senato, il 10 aprile 2003, racconta che « (...) inizialmente si prevedeva di costruire la TAV con il 40 per cento dello Stato ed il 60 per cento del mercato con il take or pay; progetto che feci saltare.». Ovviamente non era cambiato nulla, anzi: ma questo gli consentiva di raccontare che «(...) con la stima dei passeggeri, dei ricavi eventuali e del pedaggio nel frattempo definito, feci presente al Governo di allora, che si disse d’accordo, di prevedere il 60 per cento di finanziamento pubblico ed il 40 per cento di risorse private.». Cimoli, sempre davanti ai senatori, conclude il suo racconto in libertà facendo intendere che questa sua straordinaria intuizione ha ispirato la costituzione, ad opera del creativo Giulio Tremonti, di ISPA, lnfrastrutture SpA, ed annuncia ai senatori la quadratura del cerchio per il finanziamento della “nuova” linea di AV: «Attraverso ISPA canalizziamo la Torino-Napoli, ad eccezione della trasversale, di cui ancora non conosciamo il costo, con tratte altamente redditive e molto costose come la Milano-Torino, che 96

sarà finanziata - tre gruppi di banche sono molto interessate - con le condizioni sopra descritte. Tutto viene finanziato. I soggetti coinvolti sono Trenitalia ed RFI. Qualcuno paga per linee nuove e, in funzione del numero di passeggeri, si può ripagare il debito avendo allungato la concessione da 40 a 60 anni. In questa ipotesi, credo che lo Stato dovrebbe pagare circa otto miliardi di euro nell’arco di una trentina di anni. L’impegno è quindi meno gravoso; ciò che è più importante è che se tutto questo viene attuato, l’Alta velocità è praticamente finanziata». Che la Milano-Torino fosse molto costosa i conti finali lo confermeranno chiaramente, ma che fosse anche “altamente redditiva” era già in quel momento una previsione ospitata solo nella fantasia del grande manager. Il modello di esercizio di quella tratta prevedeva il passaggio di 160 coppie di treni al giorno, 120 per i passeggeri e 40 per le merci. Nel 2010 sulla nuova tratta di AV/AC Milano-Torino passano 9 coppie di treni al giorno per passeggeri e non passa nessun treno merci. Previsioni sbagliate? No, erano semplicemente invenzioni per giustificare la realizzazione di una nuova tratta assolutamente inutile ed a “redditività” negativa. Cimoli stava raccontando delle storie che i senatori hanno bevuto, in alcuni casi, con entusiasmo. Il presidente della Commissione, definendo le parole del manager un grande disegno strategico, chiude la seduta nel modo più degno per celebrare le storie raccontate in quell’aula: «Il fatto che una società (Ispa, ndr), sia pure pubblica, si fa carico della realizzazione di un’opera così strategica come continuiamo a ritenere l’Alta velocità non può che farci piacere anche perché viene esternalizzata rispetto alle forze del bilancio dello Stato». Nel 2005 l’Unione Europea certificherà che quelle “storie” erano delle “favole” e per questo dovevano essere cancellate dai documenti contabili delle società di diritto privato, TAV SpA e Infrastrutture SpA, perché indebitamente tenute fuori dalla contabilità nazionale. Il Parlamento, nel dicembre del 2006, accoglierà questa prescrizione dell’UE, decidendo di li97


quidare ISPA e di trasferire nel debito pubblico tutti i debiti accumulati per l’Alta velocità “esternalizzata”. Nel frattempo, il presidente della Commissione era diventato addirittura questore dello stesso ramo del Parlamento ed il grande manager, dopo le favole raccontate dal vertice di FS, era stato spedito a raccontare storie al vertice dell’Alitalia e lì, pure, sappiamo com’è finita.

I costi taroccati e quelli ignorati da Moretti e Cipolletta Con le parole in libertà non scherza nemmeno il vertice nominato dal governo Prodi nel 2006; anche in questo caso l’occasione è data da un’audizione sempre nella stessa aula dell’Ottava Commissione del Senato. L’amministratore delegato Mauro Moretti ed il presidente Innocenzo Cipolletta, convocati nel marzo del 2007, raccontano la loro versione della storia. Con le informazioni fornite, consegnano ai senatori dati dettagliati sui costi delle infrastrutture per l’AV, pure confrontati con quelli di altri Paesi. Le cifre fornite indicano un costo medio per le tratte italiane, in quel momento in esercizio, di 32 milioni di euro a km, rispetto ai 10 della Francia ed ai 9 per la Spagna. I dati indicano anche la lunghezza complessiva delle linee o tratte in esercizio alle quali quei costi si riferiscono: 564 km per l’Italia, 1.548 km per la Francia e 1.030 km per la Spagna. Fornendo un costo di due terzi superiore a quello degli altri Paesi giustificano dettagliatamente i tanti motivi dello scarto, compresi quelli delle modifiche tecniche intervenute dopo la presunta trasformazione del Progetto da Alta velocità nella indefinita Alta capacità. Segnalano pure quelli dovuti al contraente generale che “ha posto la Committenza in una condizione di minore capacità negoziale rispetto al ricorso ad una competizione di mercato tra soggetti qualificati”: concedendo così un 98

contentino al ministro dello Sviluppo economico del governo in carica che di quella forma di affidamento aveva chiesto l’azzeramento. Fra i motivi più onerosi, secondo i super pagati vertici delle FS, vi era quello della fase di «approvazione, da parte delle competenti autorità Territoriali e Locali, del progetto che ha quasi sempre comportato onerose ricadute in termini di appesantimento delle opere da realizzare e di allungamento dei tempi di esecuzione, gravando altresì il Progetto, in numerosi casi, di ineludibili obiettivi di riqualificazione delle aree attraversate estranei alle finalità proprie dell’opera ferroviaria». Colpa dunque anche degli Enti locali, che hanno appesantito i costi ed allungato i tempi, proponendo però, si dice, ineludibili obbiettivi ai quali FS non si è potuta sottrarre anche se estranei, si dice, all’opera ferroviaria. L’inventario dei maggiori costi fornito ai senatori era riassunto puntualmente: «Modalità di affidamento, 6 M; Specifiche progettuali, orografia e sismicità del territorio, 7 M; Prescrizioni ambientali e territoriali, 6 M; Antropizzazione del territorio e acquisizione delle aree, 2 M». Il totale dei costi giustificati dalle differenze di contesto e modalità realizzative era di 21 milioni di euro a chilometro. Secondo i campioni del management di Stato le infrastrutture per l’Alta velocità in Italia sarebbero costate, scalando dal costo complessivo i maggiori oneri esattamente descritti, più o meno come in Francia e Spagna, 11 M/Km. Anche concedendo alla ipocrisia di Moretti e Cipolletta il beneficio d’inventario dei maggiori costi così puntualmente elencati, i conti però non tornano. Moretti e Cipolletta, pur ammettendo alcuni limiti, ma solo per il passato, hanno fornito ai senatori delle cifre taroccate che hanno consentito di nascondere uno scarto, nel confronto con Francia e Spagna, ben più clamoroso, esattamente il doppio di quello presentato. Il costo medio a chilometro è il risultato del rapporto fra il costo complessivo delle infrastrutture considerate ed il numero 99


di chilometri lungo i quali queste si sviluppano. Bene, nel caso italiano il costo complessivo assunto era di 18.000 milioni di euro, esattamente il costo sostenuto per realizzare solo le “infrastrutture a terra” delle “tratte” Torino-Novara (85 km), FirenzeRoma (241 km) e Roma-Napoli (204 km). La somma di queste tratte, però, che è di 531 km, non corrisponde alla cifra utilizzata per il rapporto e scritta nei documenti forniti ai senatori, che era 561 Km. Il costo era dunque solo quello delle “tratte”, senza quello dei “nodi”, mentre i chilometri erano sia quelli delle tratte che quelli dei nodi. Ma questo era solo il tarocco più veniale, portava il costo a km da 32 a 34 milioni di euro. Il tarocco clamoroso era un altro, quello di avere incluso nel calcolo anche la tratta Firenze-Roma, una furbata degna di un premio al disprezzo dell’intelligenza. Con quel Progetto di Alta velocità quella tratta non ci entrava assolutamente nulla e nulla aveva a che fare con le caratteristiche tecniche delle “linee dedicate” francesi e spagnole. La Firenze-Roma, quando il Progetto TAV è decollato era già in funzione. È stata concepita e realizzata come linea veloce ed universale, per passeggeri e merci, con un sistema di alimentazione classico, lo stesso delle linee storiche. Costruita attraverso normali gare di appalto, affidate e gestite direttamente da FS. Escludendo dal calcolo la furbata della Firenze-Roma, il costo a chilometro delle nuove tratte italiane di AV/AC, in quel momento in esercizio, Torino-Novara e Roma-Napoli, confrontabili con quelle francesi e spagnole, sale ad una media di 55 milioni di euro a km. Ma non basta: nei casi esteri il costo considerato includeva ovviamente anche quello delle “linee aeree”, assente invece in quello italiano. Infine, mentre in Francia e Spagna le linee considerate sono state realizzate direttamente dalle società statali, SNCF e RENFE, con soldi dello Stato e attraverso normali contratti di appalto, in Italia lo Stato si è fatto carico direttamente degli “interessi intercalari”, per i cosiddetti finanziamenti privati, per il tempo della costruzione e fino all’avvio dell’esercizio. Ovviamente i prestiti dovranno essere restituiti con relativi interessi 100

e, comunque, pur escludendo dal calcolo - come dovrebbe essere fatto - il costo attualizzato di questo onere finanziario futuro, gli interessi intercalari sugli stessi prestiti non possono non essere considerati un costo di costruzione a tutti gli effetti. Alla fine, facendo un confronto omogeneo, senza tarocchi, le nuove tratte AV italiane, in quel momento in esercizio (Torino-Novara e Roma-Napoli, 290 km), sono costate 63,4 milioni di euro a chilometro, a fronte del costo a chilometro della principale linea francese (Parigi-Lione, 417 km) di 10,2 milioni, e della principale linea spagnola (Madrid-Siviglia, 470 km) di 9,8 milioni. Anche prendendo per buone le precise e dettagliate ragioni dei maggiori oneri consegnate ai senatori, rimane da spiegare che cosa hanno finanziato i 31,4 milioni di euro a chilometro che mancano all’appello. Per la prossima audizione, sarebbe bene chiedere al vertice delle FS, oltre ai chiarimenti su questo clamoroso buco relativo solo al costo delle “tratte”, di fornire un rendiconto su tutte le “voci” di costo del Progetto AV presentato e celebrato nel 1991. Da quello dei “nodi” a quello delle “infrastrutture aeree”, da quello del “materiale rotabile” a quello degli “interessi intercalari”: e solo per rimanere alle voci che nel Progetto del 1991 erano previste e quantificate. Ovviamente non sarebbe sgradito che il Parlamento fosse informato sulle voci di costo che in quel Progetto non erano previste, ma che nel corso del banchetto si sono aggiunte con l’invito esteso ad altri commensali. Quella dei costi diretti sostenuti dalle Società, FS SpA, TAV SpA, Italferr SpA, RFI SpA, Infrastrutture SpA, che hanno gestito, in toto o per la parte di competenza, le attività connesse con il Progetto. Quella dei costi sostenuti dalle medesime società per Comitati, Garanti, studi, consulenze, incarichi a persone e società, attinenti o connessi. Quella dei costi sostenuti per la progettazione e la realizzazione delle nuove stazioni per l’Alta velocità, compresa quella “Mediopadana”. Quella dei costi per tutte le opere, compensative o indotte, finanziate con soldi pubblici e che non sono passate at101


traverso i contratti dei general contractor. Sarebbe infine gradito che fosse fornita almeno una stima di altre voci che sono certamente di difficile quantificazione ma che non sono meno importanti delle precedenti, anzi. Quella dei danni ambientali provocati dai lavori dei general contractor, sui quali si sono già specificamente misurati i magistrati della Procura di Firenze per la Bologna-Firenze e di Milano per la Genova-Milano. Quella del contrasto della corruzione e della criminalità organizzata che ha visto impegnate le forze di polizia con quasi tutte le Procure della Repubblica delle città dei nodi delle nuove linee dell’Alta velocità, oltre a quelle di La Spezia e di Perugia. Quella dei danni prodotti sull’industria nazionale sia dal Consorzio Trevi nel settore del materiale rotabile, che dal Consorzio Saturno nel settore del segnalamento ferroviario. Quella delle risorse pubbliche, trasferite annualmente dallo Stato a FS SpA per gestire il servizio ferroviario universale, che surrettiziamente e indebitamente sono state dirottate sul servizio AV offerto al 5% degli utenti dei servizi ferroviari. Quella del danno scaricato sulle tasche e sulla qualità della vita del 95% degli utenti delle ferrovie per l’evidente peggioramento del servizio universale determinato dalle scelte tecniche, dalle modalità finanziarie e contrattuali nonché dalla stessa tempistica con la quale le voci di costo del progetto TAV sono state definite e consumate.

La Legge obbiettivo Solo in un Paese che riesce a non vedere un furto così clamoroso può succedere che gli strumenti che hanno consentito di consumarlo siano assunti addirittura come modello legalizzato per realizzare le grandi opere. Con la Legge obbiettivo, la n. 301/2001, fra le deleghe che questa affidava al Governo vi era anche quella di definire un 102

nuovo istituto contrattuale, quello dell’ “affidamento a contraente generale”. Il principio fissato nella legge non era riferito al contratto bensì al contraente ed era esattamente questo: «(...) il Contraente Generale è distinto dal Concessionario di opere pubbliche per l’esclusione della gestione dell’opera eseguita». La definizione conseguente, data dal Governo con il decreto legislativo 190/2002, non aveva nulla da invidiare alla straordinaria invenzione dello “sfruttamento economico” attribuito dalla delibera 971 alla “Concessionaria” TAV SpA. In questo caso però la definizione del Contraente Generale come “Concessionario” senza “la gestione dell’opera” (cioè del corrispettivo tipico della concessione) non era in realtà una novità. Era esattamente quello che la Legge 80/1987, proposta all’epoca dal Ministro Signorile, definiva appunto “Concessione di sola costruzione”. L’articolo 8 della Legge Signorile però aveva una durata limitata e la Corte europea nel giugno 1992 ne aveva valutato il contrasto con la direttiva 71/305/CEE. Lo stesso Parlamento italiano con l’art. 19 della Legge “anti-tangentopoli”, la n. 109/1994, ne aveva sancito la definitiva cancellazione dal nostro ordinamento. Il ministro Lunardi, nella relazione introduttiva del decreto legislativo, per reintrodurre proprio questo istituto contrattuale, arriverà perfino a scrivere che nell’Alta velocità la forma di affidamento del general contractor aveva consentito di rispettare tempi e costi dei contratti. Con il Contraente generale dunque le grandi opere della Legge obbiettivo partono con gli stessi impegni che il commissario straordinario delle FS aveva assunto con la firma della delibera 971/1991: il tarocco dei tempi certi e prezzi chiusi. Con la delibera del CIPE n.121 del dicembre 2001, con la quale si identificavano le opere della Legge obbiettivo, alle linee ad Alta velocità del progetto del 1991 se ne aggiungono diverse altre. Il costo di queste nuove linee AV (vedi Tab.3) è stimato in oltre 77 miliardi di euro. Le risorse stanziate al dicembre 2009, 103


Nuove tratte e linee AV nei programmi della Legge Obbiettivo

Costi Ufficiali nel Dpef 2008-2012 M

Nostre stime 2009 M

Impegni di spesa Dicembre 2009 M

Quota italiana della Tratta internazionale AV Torino-Lione

4.686

7.500

349,0

Tratta AV Bruzolo-Torino

2.375

4.400

0,0

Quota Italiana della Tratta internazionale AV Verona-Monaco

3.000

6.700

260,0

Tratta AV Fortezza-Verona

8.000

9.500

0,0

Linea AV Venezia-Trieste

6.129

12.500

29,4

Linea AV Salerno-Reggio Calabria e Messina-Palermo-Catania

12.291

28.500

54,0

Linea AV Napoli-Bari

4.920

8.200

550,0

Totale

41.401

77.300

1.242,4

(Tab.3 - Costi e impegni di spesa per le nuove linee di AV inserite nella Legge obbiettivo)

con la Legge obbiettivo, erano esattamente il 2,9% dei costi indicati nei documenti ufficiali di programmazione, in gran parte vecchi o sottostimati. Rispetto a stime più veritiere le 104

somme stanziate erano appena l’1,6% delle risorse effettivamente necessarie. Se consideriamo anche le tratte del Progetto TAV del 1991 che sono ancora da realizzare, le risorse da mettere in campo si avvicinano ai 100 miliardi di euro, ed anche in questo caso le risorse disponibili rappresentano solo il 2,8% di quelle effettivamente necessarie. Nel 2006 il Centro-sinistra vince le elezioni con un programma nel quale si impegnava esplicitamente a superare la Legge obbiettivo e cancellare dal nostro ordinamento l’istituto contrattuale del contraente generale. Nei due anni del Governo Prodi non si è vista nemmeno una traccia della modifica di queste norme speciali. Il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro non ha trovato nemmeno il tempo di presentare almeno un progetto di legge. Il tavolo politico del CIPE ha continuato ad approvare i progetti di questo elenco di sogni che svaniscono solo quando a sognare non sono le lobby con molti interessi e forti legami con il potere. È il caso ad esempio della linea AV “SalernoReggio Calabria e Messina/Palermo/Catania”, in bella mostra nelle “grandi opere” prioritarie fino al 2008 con una previsione di costo di 12.291 milioni di euro. Nel Dpef 2010-2013 non si trova più alcun riferimento all’AV/AC per questa linea ma solo qualche riferimento al semplice e indefinito “potenziamento” di qualche tratta con una previsione di costo di qualche centinaio di milioni. Al contrario, quando gli interessi della lobby del “ferro e cemento” ci sono, la follia del sogno diventa realtà ed a garantire questo passaggio è - si continua a raccontare - il cosiddetto “finanziamento privato” del mitico project financing. Proprio su queste opere anche presidenti di Regioni, di Province e sindaci di grandi Comuni scommettono il loro futuro politico, a prescindere dalla “sostenibilità” per le casse pubbliche e dalla “utilità” per i loro territori, calpestando anche le ragioni ed i diritti dei loro stessi cittadini. L’esempio della Torino-Lione è quello più emblematico. 105


L’esempio della Torino-Lione Il CIPE, con la procedura della Legge obbiettivo, il 15.12.2003 approva il progetto preliminare della tratta internazionale di questa linea con una stima dei costi della quota italiana di 2.278 milioni di euro. Sempre con un progetto preliminare, nel 2010 - e senza alcun cantiere aperto - la stima della quota italiana salirà ad oltre 8 miliardi di euro. Non cambiano invece le stime di traffico, per le quali l’unica domanda plausibile che si porrebbe una normale Commissione tecnica di valutazione è se a proporre quell’opera siano dei marziani o degli imbroglioni. Succede però che, a differenza del governatore, del presidente e del sindaco del capoluogo che sollecitano l’inserimento nella Legge obiettivo e poi applaudono per la sua agognata approvazione, nei territori interessati della Val di Susa ci siano cittadini molto informati e che da anni conoscono bene quelle stime e sanno bene quanto siano prive di fondamento. In questo caso, allora, dalla sede politica del CIPE si passa a quella del ministero dell’Interno che, su richiesta del ministro delle Infrastrutture, invia l’esercito e le forze dell’ordine per aprire i cantieri. Ci hanno provato nel dicembre 2005 e, per la prima volta, il TAV è stato fermato dalle ragioni di chi, semplicemente, vuole che alla base delle decisioni di realizzare infrastrutture pubbliche, l’interesse pubblico ci sia veramente, e sia quanto meno dimostrato. La scelta di approvare in sede politica il progetto, con la procedura speciale della Legge obbiettivo, comporta comunque la definizione di un quadro programmatico che ne giustifichi l’utilità sociale e la sostenibilità economica. In questo caso però diventa molto più difficile garantire la valutazione indipendente di un progetto presentato su di un tavolo politico come una bandiera, e da un ministro, per giunta, personalmente interessato. I risultati di questa scelta si sono visti con le dram106

matiche immagini del Seghino, di Mompantero e di Venaus che dal 31 ottobre a fine dicembre 2005, in una valle militarizzata, hanno polarizzato l’attenzione mediatica nazionale. Meno note però, e prive di riscontro negli stessi media, sono le modalità di approvazione e di gestione del progetto che quelle drammatiche vicende hanno provocato. A presentare quel progetto è stato un ministro delle Infrastrutture che, con una sua Società di Ingegneria lavorava proprio sulla tratta per la quale chiedeva l’approvazione del CIPE. L’impresa del ministro lavorava sul versante francese, ma il finanziamento richiesto all’Italia era esattamente il 67% dell’intero importo preventivato, mentre solo il 33% della tratta internazionale era sul territorio italiano. Dunque il ministro chiedeva soldi per finanziare i lavori anche della sua impresa. Lo staff tecnico che ha garantito al ministro la gestione di quel progetto vedeva la presenza, in posizione di comando, di Ercole Incalza, già amministratore delegato di TAV Spa, ed Emilio Maraini, già presidente di Italferr SIS TAV SpA. Che fossero esperti di Alta velocità non poteva essere messo in discussione, ma che fossero nelle condizioni di fornire al ministro consigli e valutazioni disinteressate c’è sicuramente da dubitare; anzi, probabilmente erano le persone meno indicate, e forse anche in una posizione di dubbia legittimità. Entrambi erano stati indagati, e poi rinviati a giudizio, per diversi reati connessi proprio con il Progetto TAV e la parte offesa per quei reati era, fra gli altri, il ministero delle Infrastrutture dal quale erano regolarmente retribuiti. Questo dunque il progetto approvato in sede politica e per il quale Lunardi, Incalza e Maraini hanno chiesto nel dicembre 2005 l’intervento dell’esercito, della polizia e dei carabinieri. Dopo le drammatiche vicende del 2005, i cittadini ed i sindaci della Val di Susa sono anche riusciti a far uscire il progetto dalle procedure della Legge obbiettivo e a far ritornare la valutazione di quell’opera su di un tavolo tecnico. Si confidava nel ritorno alla ragione, alla valutazione di merito, al confronto 107


sui numeri, al calcolo dei costi e dei benefici di quell’opera. Il primo marzo del 2006, con un decreto del presidente del Consiglio, si istituiva anche un Osservatorio del ministero delle Infrastrutture “con rappresentanti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dei dicasteri della Salute, dell’Ambiente e delle Politiche Comunitarie e degli esperti designati dagli enti territoriali interessati, Regione Piemonte, Comune e Provincia di Torino, Comunità Montane dell’Alta e Bassa Valle di Susa, Comuni della Gronda di Torino”. Con lo stesso decreto, Silvio Berlusconi nomina il Commissario-presidente dell’Osservatorio e la scelta cade sull’architetto Mario Virano, un ex comunista, amico e compagno di partito del segretario del maggiore partito di opposizione, Piero Fassino. Già insieme nella segreteria della Federazione del PCI a Torino negli anni Ottanta, Virano era stato al ministero della Giustizia nel 2000 come esperto economico del ministro Fassino. Era anche stato nominato dal ministro Lunardi nel 2001 nel Cda dell’ANAS, dopo che lo stesso ingegner Lunardi era stato consulente della Sitaf SpA, concessionaria dell’autostrada del Frejus, nella quale l’architetto Virano era amministratore delegato. Il neopresidente annuncia subito un orientamento promettente sulle finalità dell’Osservatorio: «Fin dall’inizio ho apertamente condiviso l’idea dei sindaci che la discussione debba avvenire a partire dal “se” e non solo “come”, valutando “l’opzione zero” e “l’impatto cumulativo” delle infrastrutture sul territorio». I primi quaderni tecnici prodotti dall’Osservatorio in effetti sembravano confermare il primato della valutazione del “se”, ed i numeri forniti con quei primi approfondimenti in sede tecnica offrivano una risposta quasi univoca. Le stime e le previsioni di traffico, condivise e sottoscritte da tutti i rappresentanti degli Enti rappresentati, disegnavano un quadro programmatico univoco: quella nuova linea non serve. O l’inutilità certificata in sede tecnica, però, non è stata illustrata ai vertici degli Enti più importanti rappresentati a quel tavolo, o la volontà di questi stessi ormai prescindeva dalle logiche del confronto di 108

merito. Forse sono da sommare i due motivi insieme, in quanto pare proprio che la Torino-Lione sia diventata un dogma, un assunto ideologico, indiscutibile. Quell’opera, nella volontà e nelle parole dei ministri delle Infrastrutture, Lunardi con la difesa militare, Di Pietro con una ipotesi di progetto presentato all’UE per avere un qualche finanziamento, Matteoli col progetto nell’elenco delle opere anticrisi, e ancora nelle parole dei presidenti della Regione Bresso e Cota, del presidente della Provincia Saitta, dei sindaci Chiamparino e Fassino e di molti altri esponenti politici, rimane ancorata ad un quadro programmatico che, in sede tecnica, è stato semplicemente demolito. I numeri dicono che quella nuova linea non è necessaria. Loro continuano a ripetere che è indispensabile. Qualche tecnico di quel tavolo ha provato a difendere la verità acclarata, di fronte alle sempre più fantasiose esternazioni del politico di turno; uno lo ha fatto anche con una lettera aperta al ministro dopo l’ennesima dichiarazione ancorata a scenari privi di qualsiasi riscontro: «Illustrissimo Sig. Ministro, La disturbo, come ho già fatto in altra occasione, scrivendole in qualità di membro dell’Osservatorio Tecnico sul nuovo collegamento ferroviario tra Torino e Lione e a seguito dell’incontro con gli amministratori locali svoltosi ieri, 30 luglio 2009, presso la prefettura di Torino. Ella, in quel contesto, ha presentato uno scenario di cui l’Osservatorio come tale non era consapevole; (...) ciò che Lei ha comunicato ai presenti è stato che se il nuovo tunnel di base non si farà il traffico raggiungerà la paralisi nel giro di una decina di anni. Se è così si prospetta una situazione di assoluta emergenza in quanto, come Lei sa, la data ufficiale di entrata in funzione del tunnel di base è il 2024, non solo, ma il programma di completamento delle opere di adduzione sul versante francese prevede scadenze che vanno anche al di là del 2030. Per altro, Lei ci ha detto, questo allarmante scenario non era presentato alla leggera ma derivava da studi effettuati da suoi consulenti. Mi spiace che, essendo il 109


suo ministero parte dell’osservatorio, nessun suo funzionario abbia mai fatto menzione di queste previsioni, che sicuramente, se conosciute, avrebbero dato una svolta importante ai nostri lavori torinesi. Vorrei pregarla ora di far cortesemente pervenire all’Osservatorio gli studi e le analisi di cui dispone, in modo che in quella sede, istituita anche a questo scopo, se ne possa discutere dal punto di vista tecnico. La pregherei anche di invitare gli autori degli studi a venire in Osservatorio per illustrare direttamente le loro risultanze. È molto importante che ciò avvenga in quanto tutte le audizioni di esperti di varia tendenza effettuate fin qui avevano prospettato scenari diversi da quello che apprendiamo ora (...). Se riterrà di rispondere gliene sarò fin d’ora grato. La pregherei però, nel caso, di farlo nel merito; l’Osservatorio è un organismo tecnico e pertanto la logica che in esso vale è quella che si basa su numeri e ragionamenti comprovabili. Ci sono altre logiche che però valgono in sedi diverse. Personalmente sono sensibile solo ad argomentazioni di ordine razionale». Alla lettera non c’è stata alcuna risposta. Gli studi effettuati sono rimasti ignoti così come i consulenti del ministro che li avevano effettuati. Nessuno si è mai presentato per illustrare le risultanze di quello scenario drammatico che il ministro aveva presentato ai Sindaci della Val di Susa e della Val Sangone. A scrivere quella lettera era il professor Angelo Tartaglia, docente di Trasporti al Politecnico di Torino, apprezzato e riconosciuto come uno dei maggiori esperti del settore e fra i pochi con una conoscenza approfondita di quel progetto. Era, fra l’altro, il tecnico che da vari mesi era sottoposto alle critiche più feroci dei comitati NOTAV, soprattutto per l’uso politico distorto delle risultanze tecniche di quel tavolo e che Tartaglia ancora accoratamente con quella lettera cercava di difendere. Nonostante la sua onestà intellettuale ed il contributo decisivo che ha fornito a quel tavolo, le sue argomentazioni razionali sono diventate carta straccia e proprio le logiche di altre sedi che richiamava nella sua lettera erano quelle che contavano ve110

ramente, sopra e contro la logica dei numeri. La sua colpa è stata solo quella di essere caduto nella trappola ordita da un presidente che, nella gestione di quel tavolo tecnico, doveva perseguire un solo obbiettivo, quello della realizzazione di quel progetto. Proprio l’impegno che, alla vigilia dell’insediamento di quel tavolo, il presidente dell’Osservatorio aveva assunto per la valutazione del “se”, e dunque anche della eventuale “opzione zero”, era infatti una delle tante bugie che da sempre accompagnano questo Progetto. Quella possibilità, nel decreto che istituiva l’Osservatorio e che lo nominava presidente, non c’era, anzi, al contrario, ed a chiare lettere, si affermava che quello era il progetto che si doveva realizzare e, con un breve accenno, faceva riferimento solo ad “eventuali modifiche”. Tecnicamente, la sua nomina era e rimane quella di “Commissario straordinario per la realizzazione della nuova linea AC/AC Torino-Lione”. L’Osservatorio è e rimane un organismo utile solo a millantare un coinvolgimento del territorio che non vi è mai stato. Non è un caso che il testo di quel decreto sia rimasto sconosciuto per molti mesi al pubblico, e così quella “bugia” ha consentito al presidente di costruire una raffinata trappola, nella quale anche i rappresentanti dei sindaci della Val di Susa sono in parte caduti, e di sbandierare un presunto accordo storico, quello cosiddetto di “Prà Catinat”, presentato alla Francia ed all’Unione Europea come il via libera alla realizzazione della grande opera con il consenso di tutti i Comuni della Val di Susa. Un accordo mai votato da alcun Consiglio comunale e mai sottoscritto da alcun sindaco, bensì un puro e semplice verbale scritto dal Commissario-presidente, un capolavoro di affermazioni ambigue dalle quali è stato estratto solo quello che conveniva e che la cassa di risonanza dei mass media ha fatto diventare addirittura un esempio di partecipazione e condivisione di scelte urbanistiche. Quando però gran parte dei sindaci, che erano stati presi per i fondelli, sono stati rieletti nel 2009, e con un programma che 111


ribadiva la contrarietà all’opera, proveranno nuovamente a chiedere chiarezza al momento della ricostituzione dell’Osservatorio, le finzioni della partecipazione e delle scelte condivise, verranno messe subito da parte. La risposta alle loro legittime ragioni, depurate dal mai esistito accordo di Prà Catinat, uscirà da Palazzo Chigi l’8 gennaio del 2010 con un comunicato stampa, condiviso dai presidenti della Regione Bresso e della Provincia Saitta, con il quale il governo “constata che la nuova Comunità Montana, con riferimento alla nuova linea Torino-Lione non si connota con un profilo di sensibilità politico-istituzionale idoneo a rappresentare il pluralismo delle Comunità locali presenti sul territorio”. Ed a questa esilarante constatazione fa seguire addirittura il criterio in base al quale i Comuni ricadenti negli ambiti territoriali interessati dai tracciati potranno partecipare al tavolo dell’Osservatorio: «Comuni ricadenti in tali ambiti che dichiarano esplicitamente la volontà di partecipare alla miglior realizzazione dell’opera nel quadro della miglior tutela e valorizzazione del territorio e del rispetto del calendario europeo». Anche per la nomina dei propri rappresentanti in un tavolo senza poteri si partecipa solo se si è favorevoli alla realizzazione della Torino-Lione. Il decreto che seguirà, ancora a firma di Silvio Berlusconi, confermerà ovviamente presidente dell’Osservatorio l’odiato comunista Mario Virano. Il gioco delle tre carte non ha risparmiato nemmeno la decisione sottoscritta a palazzo Chigi, sotto il governo Berlusconi nel 2005, e poi sbandierata dal governo Prodi nel 2006, di escludere la Torino-Lione dalle procedure speciali della Legge obbiettivo: gestita scientemente per illudere ed ingannare gli amministratori della Val di Susa. Quella decisione aveva trovato un riscontro persino in una sentenza che non lascia margini ad interpretrazioni ambigue. Il Consiglio di Stato, VI Sezione, con la sentenza n. 4482 del 23.8.2007 dichiarava «improcedibile per cessata materia del contendere il ricorso in appello proposto dalla Comunità Montana Bassa Valle di Susa e 112

Val Cenischia, nel presupposto che il progetto di realizzazione per la realizzazione della linea ferroviaria Torino-Lione, approvato dal CIPE con la delibera 113/2003, sia stato stralciato dall’ambito applicativo della Legge 443/2001 e ricondotto nell’alveo delle procedure ordinarie ex art.81 del DPR 616/1977». Il ministero delle Infrastrutture, dal 2006 al 2009, ha convocato solo delle pseudo “riunioni preparatorie” della Conferenza dei servizi. Fino al Maggio del 2010 una vera e propria Conferenza dei servizi non è stata mai convocata e nelle cosiddette riunioni preparatorie i Comuni interessati non hanno mai visto alcun progetto definitivo o preliminare. Nella più totale disinformazione dei sindaci, Il 17 maggio 2010 la società LTF (Lyon Tourin Ferroviaire) pubblica sulla stampa l’avviso per l’avvio del “procedimento finalizzato alla dichiarazione di pubblica utilità mediante l’approvazione, ai sensi dell’art. 166 del D.Lgs. 163/06 del progetto definitivo del cunicolo esplorativo de La Maddalena sito nel Comune di Chiomonte (To) facente parte della nuova linea Torino-Lione, parte comune Italo/Francese, tratta in territorio italiano”. Con lo stesso avviso comunica “che il cunicolo esplorativo de La Maddalena è progettualmente necessario ai fini della realizzazione del collegamento ferroviario Torino-Lione che rientra nell’ambito del primo Programma delle Infrastrutture Strategiche di cui alla Deliberazione del 21 dicembre 2001, n. 121/2001 (Legge Obbiettivo) del Comitato Interministeriale per la programmazione Economica (CIPE)”. Il presunto “cunicolo esplorativo”, per il quale LTF avviava la procedura per la dichiarazione di pubblica utilità, era in realtà una “galleria di servizio” analoga a quella che aveva determinato lo stralcio della Torino-Lione dalla Legge obbiettivo. All’origine della decisione di stralciare la Torino Lione dalla Legge obbiettivo vi era stato proprio il tentativo di apertura del cantiere per la galleria di servizio che nel progetto approvato dal Cipe nel 2003 prevedeva l’imbocco a Venaus. 113


Quello definito “cunicolo” è, da progetto definitivo depositato, una galleria con un diametro di 6 metri e della lunghezza di quasi 8 chilometri che, dal punto di imbocco sito nel comune di Chiomonte, raggiunge la galleria di base della nuova linea Torino Lione in territorio francese. Nelle stesse carte depositate si scopre addirittura che LTF definisce quello presentato non come nuovo progetto ma semplicemente come Variante Tecnica della galleria di Venaus. Il tentativo di nascondere la verità non inganna però la Comunità montana della Val di Susa e della Val Sangone, che invia un esposto dettagliato alle diverse Autorità competenti con il quale si denuncia «(…) il comportamento del Committente, contraddittorio ed omissivo, teso a tenere nascosto ai cittadini ed alle istituzioni una verità: l’opera che si intende realizzare è non solo del tutto simile alla galleria di servizio di Venaus, ma addirittura per LTF è formalmente proprio la stessa. Quella che oggi viene presentata al pubblico come nuova opera eufemisticamente ribattezzata “cunicolo esplorativo” o “cunicolo geognostico”, viene invece trattata formalmente come semplice variante del progetto della galleria di servizio di Venaus già affidata e contrattualizzata con l’impresa CMC”. Non solo si ricorre alle procedure speciali della Legge obbiettivo per un’opera che era stata esplicitamente stralciata da questo perimetro, ma si tenta anche di aggirare le norme sulla concorrenza come giustamente la Comunità montana denunciava con lo stesso esposto: «(...) se LTF con questa definizione formale di “variante tecnica” ha aggirato o intende aggirare le norme europee e nazionali sull’affidamento dei contratti pubblici, il comportamento illegittimo è ad avviso degli scriventi talmente palese e clamoroso che merita solo poche righe di commento. Quello già affidato, o che LTF ha chiaramente intenzione di affidare a trattativa privata alla CMC, è comunque una nuova opera, da realizzare in un sito ed in un anno totalmente diversi da quelli per i quali è stata espletata la gara per l’affidamento della galleria di servizio di Venaus. Di certo si 114

tratta di un’opera del tutto similare, ma ai fini della concorrenza anche se fosse la stessa identica opera, l’indizione di una gara ad evidenza pubblica non può in alcun modo essere aggirata». L’avviso per il cunicolo esplorativo era però solo un assaggio della faccia tosta dei ladri dell’Alta velocità. Qualche settimana dopo, in piena estate, esattamente il 10 agosto, LTF pubblica un nuovo avviso con il quale annuncia il deposito del progetto preliminare della soluzione di tracciato in Italia in variante della tratta internazionale della nuova linea Torino-Lione. Anche in questo caso la procedura viene avviata con richiamo esplicito alle norme speciali della Legge obbiettivo. Un richiamo palesemente illegittimo; la Torino-Lione era fuori dal perimetro di applicazione della Legge obbiettivo, agli atti non risultava alcun documento che consentisse anche lontanamente di richiamare quelle norme speciali. L’esposto degli amministratori della Val di Susa e della Val Sangone alle autorità competenti poneva semplicemente questioni di rispetto della legalità, della corretta spèndita di denaro pubblico e di garanzia della concorrenza. Sui quotidiani nazionali non si è letta alcuna notizia in merito a questa palese e arrogante violazione delle norme, e nessuno dei tanti paladini di questi pilastri fondamentali del funzionamento di un paese civile si è fatto vivo. In molti invece si erano pronunciati nel dicembre del 2005. Per un paio di settimane, dopo che il 6 dicembre le immagini drammatiche della carica notturna delle forze di polizia al presidio di Venaus avevano fatto il giro del mondo, le firme più prestigiose di giornalisti e politici si sono esercitate a scrivere articoli su articoli e dotti editoriali. Quasi tutti favorevoli alla realizzazione della nuova linea Torino-Lione. Un docente dell’Università di Ancona con i sui studenti iscritti al corso di “Analisi delle Politiche Pubbliche” proprio su questi articoli avevano realizzato “un itinerario di lettura per mostrare come le ragioni del sì alla Tav in Val di Susa sarebbero state recuperate dagli archivi e dai documenti pertinenti e 115


poi comunicate, spiegate e come esse sarebbero affiorate senza troppa fatica nel dibattito pubblico, benché con le semplificazioni e le carenze normali della comunicazione giornalistica”.3 Il docente, Antonio Calafati, racconta: «abbiamo iniziato a sfogliare i quotidiani e discutere gli articoli più importanti via via pubblicati sull’argomento, articoli nei quali le ragioni del sì, ne ero sicuro, le avremo trovate, anche se solo delineate, anche se discutibili. E ho scelto, per questo esercizio, tre quotidiani di indiscussa autorevolezza e grande diffusione: Il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa ». Lo studio, avviato e condotto senza alcun pregiudizio, è arrivato a queste conclusioni: «non è stato trovato niente, niente che assomigli a una ragione, a una argomentazione razionale. Accorgersi, prima sorpresi e poi sconcertati, dell’incapacità di giornalisti e politici di organizzare un pensiero sul tema della Tav in Valdisusa che abbia un significato, una logica, un senso. Accorgersi di come giornalisti e politici siano, tuttavia, a favore dell’opera, risolutamente, ostinatamente, inspiegabilmente. Iniziare cercando le ragioni del sì alla Tav in Val di Susa e terminare riflettendo, sconfortati, su che cosa possa essere accaduto ai nostri maggiori quotidiani. Giungere a pensare che, forse, il declino italiano nasce da qui, da questa incapacità del giornalismo italiano di fornire un resoconto attendibile, pertinente e fondato, degli effetti delle politiche pubbliche. Un giornalismo che ci impedisce di pensare collettivamente». Nel 2010 non si è vista alcuna grande firma commentare il nuovo progetto preliminare depositato da LTF; eppure, sia sul metodo, che sul merito, cose da dire non mancavano di certo. Il nuovo progetto contiene addirittura le stesse previsioni di traffico di quello approvato dal Cipe nel 2003, vengono semplicemente traslate di 7 anni. Quelle previsioni di traffico, che supportano la scelta della costruzione di una nuova linea, nei sette anni trascorsi, non solo non si sono verificate ma hanno

registrato un andamento esattamente opposto. Secondo le valutazioni ufficiali di FS l’attuale infrastruttura può garantire un traffico di merci fino a 32 milioni di tonnellate, nel 2003 si prevedeva il raggiungimento di questo volume nel 2015. Dal 2003 al 2010 il volume di traffico non solo non è aumentato ma è addirittura diminuito del 72 per cento. Nel 2010 sono transitate 2,4 milioni di tonnellate di merci, il 7,5% della potenzialità consentita dalla linea storica. Marziani o imbroglioni? Nessun giornalista e nessun politico, che nel dicembre del 2005 sosteneva le ragioni del sì, ha provato a misurarsi con questo quesito. Non si faranno vivi, nemmeno dopo che a Chiomonte il Ministero degli interni, cercherà di replicare quello che a provato a fare sei anni prima a Venaus, con lo stesso drammatico risultato. Perché le ragioni del no dei Valsusini sono fondate su dati inoppugnabili, mentre quelle del sì sono nel limbo di una ideologia sostenuta solo da bugie clamorosamente smentite dalla realtà. Perché il confronto non è questione di ordine pubblico, ma è questione etica. Perché in Valdisusa è in discussione le ragioni della verità e la prova della democrazia.

3

. Antonio Calafati, Dove sono le ragioni del sì, Edizioni SEB 27, Torino 2006

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117


I COSTI VERI DELL’ALTA VELOCITÀ Gli “interessi intercalari” e il costo vero del Progetto TAV Quanto ci è costata la cerimonia celebrata il 7 agosto del 1991, e quanto ci sono costate o ci costeranno tutte le bugie con annesse consulenze, opere aggiuntive, opere indotte e nuove stazioni che si sono aggiunte alla madre di tutte le bugie? Ci hanno provato in molti a formulare questa domanda. Una risposta minimamente affidabile non è mai arrivata. La misura del valore di tutte le bugie raccontate in questa storia è data proprio dalla variazione del costo preventivato per il project financing nel 1991. La stima dei costi per gli “interessi intercalari”, quelli dovuti alle banche, per i cosiddetti prestiti privati, per il solo periodo della durata dei cantieri, erano stati quantificati in 1.500 miliardi di lire (770 milioni di euro); nel 2010 la stima è di 8.700 milioni di euro. Gli oneri finanziari, solo per la fase di realizzazione delle infrastrutture, passerebbero così da un valore unitario 100 stimato da FS nel 1991 ad un valore pari a 1.130, con un aumento di oltre il mille per cento. La voce interessi intercalari è quella che registra la più alta variazione, dal doppio al triplo delle altre voci di costo preventivate per il Progetto TAV nel 1991 (vedi Tab.4). Del tutto sconosciuti sono invece i costi sostenuti per opere ed attività che nei preventivi del 1991 non erano stati evidenziati o presi in considerazione. Quelli che almeno dovrebbero essere considerati per una corretta valutazione dei costi effettivi sostenuti, o da sostenere, sono sintetizzabili in tre voci. Quella dei costi diretti (personale e servizi) e indiretti (studi, consulenze, comitati, progetti, pubblicità, etc.) sostenuti dalle società interamente a capitale pubblico: FS SpA, TAV SpA, Italferr SpA, RFI SpA, e Infrastrutture SpA. Quella dei costi per le “opere compensative o indotte” concordate con gli Enti locali 119


Voci di costo progetto TAV 1991 (in milioni di )

Dati ufficiali 1991

Stime 2010

Indice 2010 (1991=100)

Tratte

9.254

48.700

526

Nodi

1.064

8.400

789

Materiale rotabile

2.454

8.200

334

Infrastrutture aeree

614

3.200

521

Interessi intercalari

770

8.700

1.130

Totale voci ufficiali progetto TAV 1991

14.156

77.400

547

Studi, progettazione e realizzazione delle nuove stazioni per lalta velocità con finanziamenti pubblici

non previsto

6.350

Costi diretti (Struttura) e indiretti (Comitati, garanti, consulenti, conferenze, promozione , pubblicità, etc.) sostenuti da FS, RFI, TAV, Italferr, ISPA, per lAlta velocità

non previsto

3.900

Opere indotte e/o compensative connesse con lalta velocità fuori dai contratti per le tratte stipulati con i general contractor

non previsto

9.200

Totale voci non previste

Totale costi progetto TAV

19.450 14.157

96.850

684

(Tab.4 - Variazione delle voci di costo del Progetto TAV, dal 1991 al 2010) 120

nelle conferenze dei servizi e fuori dai contratti affidati ai general contractor per la realizzazione delle tratte e dei nodi. Quella, infine, già segnalata, per la realizzazione delle nuove stazioni AV dedicate. Per le SpA pubbliche la stima è pari a 3.900 milioni di euro, per le opere compensative è di 9.200 milioni di euro e per le nuove stazioni 6.350 milioni di euro. Il progetto presentato il 7 agosto 1991, stimato e contrattualizzato con una cifra complessiva pari a 14.156 milioni di euro, è oggi lievitato a 96.850 milioni di euro. Fatto 100 il costo nel 1991, nel 2010 siamo ad un costo stimato pari a 684 e, comunque, anche non includendo le voci di costo non considerate nel progetto presentato nel 1991, si è passati da un indice 100 ad un indice di 547, con un aumento percentuale del 447%. Anche sui tempi di realizzazione il disastro TAV non scherza. Nel 1991 avevano promesso non solo costi ma anche “tempi certi”, e avevano giurato che non avrebbero superato i sette anni. Dopo venti anni quel Progetto è stato realizzato per circa i due terzi e per il suo completamento ce ne vorranno almeno altri 10. Nel 2020, quando il Progetto sarà completato, dalle casse pubbliche saranno usciti circa 100 miliardi di euro; nel frattempo i cittadini italiani avranno già iniziato a pagare i rimborsi e gli oneri finanziari del cosiddetto finanziamento privato scaricato nel debito pubblico. Le stime indicano in un importo di circa 2.200 milioni di euro la quota media annua, da versare per circa 30 anni, necessaria per l’estinzione dei debiti contratti con gli istituti bancari. Da queste cifre disastrose non emerge però il dato più perverso. Alla data del suo completamento nel 2020, il costo, nelle stime più attendibili, sarà di 96.850 milioni di euro: ma da dove sarà arrivata questa montagna di soldi? Le stime anche in questo caso sono abbastanza facili da fare, essendo fondate su 20 anni ormai consolidati, e 10 da valutare sulla base di un modello ormai altrettanto noto nel suo funzionamento. Nei bilanci annuali dello Stato le cifre che riscontriamo come espressamente stanziate per l’Alta velocità in questo periodo 121


ammonteranno a poco più di un terzo del costo complessivo, mentre poco meno di un terzo saranno i prestiti delle banche accesi da TAV SpA e da Infrastrutture SpA fino al 2005, e successivamente da FS SpA e RFI SpA. Manca all’appello una cifra più o meno pari ad un terzo dell’importo complessivo. Sono circa 30 miliardi di euro spesi per il Progetto TAV, ma che sono finiti nel bilancio di FS sotto voci di spesa che poco o nulla hanno a che fare con l’Alta velocità. Lo Stato ogni anno con il contratto di programma trasferisce alle FS le risorse necessarie per garantire il servizio ferroviario universale: nel periodo di riferimento mediamente una cifra di circa 4 miliardi di euro all’anno. Bene, ogni anno i boiardi delle società di Stato hanno sottratto circa un quarto di queste risorse al servizio universale per coprire i costi per realizzare le infrastrutture, nodi e linee aeree, e per acquistare il materiale rotabile, ETR 500, per il servizio Alta velocità. Tutti i cittadini italiani hanno pagato, stanno pagando e pagheranno la bugia del finanziamento privato, mentre, per offrire un servizio di mobilità veloce al 5 per cento degli utenti ferroviari, al restante 95 per cento sono stati e saranno scippati circa un miliardo di euro ogni anno, per trent’anni.

I general contractor e i costi delle“tratte” Anche per la linea già in esercizio, la Torino-Napoli, i costi complessivi sono ancora sconosciuti. I costi noti sono solo quelli sostenuti per la realizzazione delle singole “tratte”, la cui realizzazione è stata affidata ai general contractor (vedi Tab.5).

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Nuove tratte AV della linea Torino-Napoli

Contratti 1991 milioni di 

Dati Fs 2006 milioni di 

Stime 2010 milioni di 

Indice Costo di costo /km nel 2010 1991 (1991=100)

Costo /km 2010

Torino-Milano

1.074

7.788

8.300

773

8,6

66,4

Milano-Bologna

1.482

7.150

7.950

536

8,1

43,7

Bologna-Firenze

1.074

5.954

6.700

624

13,6

84,8

Roma-Napoli

1.994

6.235

7.200

360

9,8

35,3

TOTALE LINEA TO-NA

5.624

27.127

30.150

536

9,4

51,1

(Tab.5 - Costi delle infrastrutture a terra delle nuove tratte della linea Torino-Napoli)

Fatto 100 il valore complessivo dei contratti firmati nel 1991, nel 2010 ha raggiunto un importo equivalente di 536. La tratta Bologna-Firenze registra il valore del costo a chilometro più elevato, giustificato dal fatto che questa è quasi tutta in galleria; registra però anche un aumento dell’indice di costo complessivo nettamente superiore alla media, secondo solo a quello della tratta Torino-Milano. In tutti e due i casi il general contractor è FIAT SpA, ed il capofila dei due Consorzi sub-affidatari è Impregilo SpA: la più grande impresa nazionale del settore delle costruzioni, passata dalla FIAT nelle mani della famiglia Romiti e poi in quelle delle banche e dei monopolisti delle Autostrade, i due gruppi economico-finanziari che fanno capo a Marcellino Gavio e alla famiglia Benetton. La linea Torino-Napoli comprende anche la tratta FirenzeRoma, non ricompresa in quelle affidate ai general contractor, in quanto già in esercizio dagli anni ‘80; per questa tratta erano 123


previsti solo lavori di adeguamento. L’adeguamento non riguarda però il sistema di alimentazione elettrica dei treni: concepita negli anni ‘60, insieme al Pendolino, è alimentata con corrente continua a 3kV. I costi di adeguamento previsti erano quantificati in 51 milioni di euro, sono stimati nel 2010 in 950 milioni di euro, con un indice che, fatto 100 il preventivo del 1991, arriva a 1863 nel 2010. Il costo preventivato per tutte le tratte della linea Torino-Napoli, compreso l’adeguamento della Firenze-Roma, era nel 1991 di 5.675 milioni di euro, nel 2010 è salito a 31.150 milioni di euro, con un indice che passa da 100 a 549. Nessuno dei contratti, nel 2010, nemmeno quello della tratta NapoliRoma, in esercizio dal 2006, è ancora chiuso. Contenziosi molto consistenti, ad esempio, sono aperti per i lavori realizzati nella tratta Bologna-Firenze, ai quali si dovrebbero aggiungere i danni ambientali, quantificati nel 2009 dal Tribunale di Firenze in 900 milioni di euro. I giudici hanno condannato il CAVET al risarcimento di 180 milioni euro, ma anche su questi pende un contenzioso con TAV SpA alla quale la FIAT chiede l’eventuale rimborso in caso di condanna definitiva del CAVET. Per le tratte con i cantieri che nel 2010 non sono ancora aperti le stime dei costi sono ancora più problematiche. Quelli indicati in questo caso rappresentano solo il valore minimo che ci si può attendere, alla fine della grande abbuffata (vedi Tab.6). La Verona-Venezia registra il valore più basso del parametro di costo a chilometro. Il motivo è dato dal fatto che il contratto con il Consorzio IRICAVDUE ha registrato nel 2001 lo scorporo della sub tratta Padova-Venezia, che è stata realizzata da RFI attraverso gare di appalto, mentre la sub tratta Verona-Padova di 76 km è rimasta in capo al general contractor. Nel costo indicato pesa dunque quello decisamente inferiore che si è registrato per la realizzazione della sub tratta Padova-Venezia, confermando, se ce ne fosse bisogno, l’onerosità del sistema di affidamento del contraente generale. 124

Tratte della linea Milano-Venezia e Genova-Milano

Contratti 1991 milioni di 

Dati Fs 2006 milioni di 

Stime 2010 milioni di 

Indice Costo di costo M/Km nel 2010 1991 (1991=100)

Costo M/Km 2010

Milano-Verona

1.125

5.735

6.400

569

9,8

57,1

Verona-Venezia

896

5.455

5.900

658

7,7

50,9

Genova-Milano

1.585

4.979

5.500

347

12,2

101,8

Totale tratte

3.606

16.169

17.800

494

10,1

63,1

(Tab.6 - Costi delle tratte AV nel 2010 ancora prevalentemente in fase di progettazione)

La Genova-Milano in apparenza registra un aumento dell’indice del costo complessivo decisamente inferiore rispetto alla media, mentre, al contrario, il costo a chilometro vede un aumento record, ben 200 punti sopra la media dell’indice del costo a chilometro delle tre tratte. Per questa tratta il contratto firmato nel 1992 prevedeva la realizzazione di un tracciato di 130 chilometri, che si sviluppava fra Genova Principe e Milano Rogoredo. Il progetto originario viene bocciato una prima volta dalla Commissione Valutazione di Impatto Ambientale del ministero dell’Ambiente, il 2 giugno del 1994. La stessa Commissione il 4 maggio del 1998 si esprime ancora sul progetto ripresentato dal consorzio COCIV. Alla Commissione pervengono 104 osservazioni da parte di privati cittadini, associazioni ambientaliste e di categoria. Il parere finale del Comitato dettaglia le osservazioni al Progetto in ben 24 punti. Le osservazioni, sul quadro programmatico, espresse in quel parere sono semplicemente disarmanti: «1) la finalità primaria dell’opera, collegamento passeggeri veloce Ge-Mi, appare ge125


nerica e non è circostanziata la consistenza qualitativa e quantitativa dei benefici socio-economici che conseguono alla riduzione del tempo di percorrenza. Relativamente al traffico merci, non risulta giustificata la realizzazione dell’intera Ge-Mi come soluzione al problema, di natura più limitata, del “terzo valico” appenninico; 2) l’intero procedimento di stima e previsione dei traffici è esplicato in modo generico e non sufficientemente circostanziato perché possa essere ripercorso e valutato; 3) la stima dei traffici attuali appare sovradimensionata rispetto altre stime sempre di ambito FS e parimenti appaiono sovradimensionate le previsioni di crescita del traffico risultanti dalle simulazioni modellistiche, addirittura doppie rispetto a quanto assunto inizialmente dallo stesso studio di impatto ambientale, e questo sia per il traffico passeggeri che per il traffico merci, per l’area vasta come per la direttrice specifica». La stessa Commissione di Valutazione avrebbe sicuramente espresso lo stesso identico parere tecnico, cinque anni dopo, senza la Legge obbiettivo che ha cambiato le procedure di approvazione per le “grandi opere”. Con le nuove norme verranno approvate tutte le tratte che ancora erano al palo e le nuove linee di Alta velocità che nel tempo si sono aggiunte a quelle del 1991. Dopo la bocciatura del 1998, nel 2003, viene approvato, sul tavolo politico del CIPE, anche il progetto della Genova-Milano, ribattezzato con nome di “Terzo valico dei Giovi”. La lunghezza della nuova tratta di AV si riduce da 130 a 54 chilometri, di cui 39 in galleria, per collegare Genova a Tortona. A Tortona la nuova tratta si congiunge con la linea storica Piacenza-Milano, mentre poco prima di Tortona, all’altezza di Novi Ligure, è previsto un raccordo tecnico con la linea storica per Torino. La “tratta” in sostanza diventa un “trattina” che collega Genova alle linee storiche sia per Milano che per Torino. Ma c’è anche un’altra novità, emblematica degli errori tecnici originari. Come per le altre tratte, il progetto di partenza prevedeva infrastrutture aeree alimentate con corrente alternata a 126

25kV, per garantire la sostenibilità di un forte traffico e velocità fino a 300 km/h. Le previsioni di traffico erano ovviamente gonfiate fino all’inverosimile ma, anche con quelle assurde previsioni, progettare una tratta di quella lunghezza con infrastrutture che consentono di raggiungere i 300km/h di velocità era già oltre il limite della ragionevolezza. La riduzione della nuova tratta a 54 km ha ovviamente imposto di adottare lo stesso sistema di alimentazione delle linee storiche, consentendo comunque una velocità di punta di 250 km/h e una maggiore integrazione del traffico ferroviario merci e passeggeri. Nonostante il ridimensionamento non è però cambiato il costo, rimasto esattamente uguale a quello del progetto bocciato cinque anni prima. Non è cambiato nemmeno il general contractor che è sempre il consorzio COCIV, nel quale però i soci vendono e comprano le quote di partecipazione, registrando alla fine una presenza addirittura al 94,5% di Impregilo, a conferma della appetibilità del controllo di general contractor che per grazia ricevuta sono i maggiori commensali del banchetto ad Alta velocità. Sia il COCIV che gli altri due Consorzi, IRICAVDUE per la Milano-Verona e CEPAVDUE per la Verona-Venezia , hanno rischiato per ben due volte la perdita del contratto. Nel 2001 con la Legge Finanziaria e nel 2007 con il Decreto Legge n.7, la cosiddetta lenzuolata Bersani. In entrambi i provvedimenti si sanciva la decadenza dei contratti firmati da TAV SpA con i general contractor, e il successivo riaffidamento degli stessi attraverso gare di appalto in linea con le direttive europee. I tre Consorzi hanno salvato i contratti grazie ai cambi di maggioranza, con i nuovi esecutivi che hanno immediatamente provveduto all’azzeramento delle norme varate dai precedenti: nel 2002 con il collegato alla Finanziaria e nel 2008 con il Decreto legge anticrisi di Tremonti, n. 112. In entrambi i casi la formula utilizzata è stata la stessa: «Per effetto delle revoche i rapporti convenzionali stipulati da Tav spa con i contraenti generali in data 15 ottobre 1991 e in data 16 marzo 1992 conti127


nuano senza soluzione di continuità». Nella legge del 2008 la titolarità dei contratti però passava di mano: veniva tolta a TAV SpA ed attribuita a RFI SpA. Tremonti, memore della bugia del finanziamento privato, che l’Unione Europea gli fece ingoiare, non poteva certo tollerare la sopravvivenza di TAV SpA. Le magnifiche sorti della società che doveva garantire la più grande operazione di project financing mai tentata in Europa, finiranno in una liquidazione in sordina, senza cerimonie, anzi, nell’assoluto occultamento della sua scomparsa. Eppure anche per liquidare l’incubatrice della madre di tutte le bugie del Progetto TAV ci vorrà tempo e denaro a causa di tutti i contenziosi che aveva in piedi con i general contractor che hanno realizzato le tratte della linea Torino-Napoli.

I “nodi” e la navigazione a vista La realizzazione dei nodi, e cioè delle tratte di penetrazione nelle stazioni ferroviarie delle città interessate, era inizialmente prevista a carico di TAV SpA. L’inerzia e la mancanza di competenze di questa società “scatola vuota”, avevano portato già nella seconda metà degli anni ‘90 allo scorporo di questo compito in RFI SpA, quale gestore di tutte le infrastrutture ferroviarie dello Stato. Il nodo più grande è quello di Milano. Sul nodo confluiscono tre tratte di Alta velocità (una in meno dopo il ridimensionamento della tratta Ge-Mi). I lavori per la realizzazione delle tratte, affidati ai general contractor, si fermano a diversi chilometri dalla Stazione. La tratta che arriva da Bologna, ad esempio, si ferma a Melegnano, a circa 20 chilometri dalla Stazione Centrale di Milano. Fino a Melegnano il sistema di alimentazione elettrica è a “25kV, corrente alternata”; da questo punto in poi il sistema di alimentazione diventa quello delle linee storiche, tutte alimentate a “3kV, corrente continua”. 128

Nel nodo di Milano, e così in tutti i nodi, i treni veloci utilizzano le stesse linee storiche dove transitano anche i treni merci e quelli passeggeri per pendolari e a lunga percorrenza. Dopo l’entrata in esercizio delle nuove tratte AV, i disservizi indotti su tutti i servizi tradizionali sono più o meno evidenti in tutti i nodi della linea Torino-Milano. Nessun nodo delle stazioni delle città interessate (Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli) era al momento, dicembre 2009, risolto in via definitiva; proprio il ritardo con il quale si è avviata questa parte del Progetto, con l’entrata in esercizio delle nuove tratte, l’effetto imbuto sui nodi è diventato e resterà per diversi anni particolarmente critico. Sul nodo di Bologna confluiscono due nuove tratte dedicate. La tratta che arriva da Milano si ferma a Lavino, a circa 10 chilometri dalla Stazione Centrale, mentre quella che arriva da Firenze si ferma all’altezza di Rastignano a circa 7 chilometri. Il progetto del 1991 prevedeva una soluzione analoga a quella del nodo di Milano, con un innesto “a raso” delle nuove tratte sulle linee storiche. A metà degli anni ‘90 però, nella “Conferenza dei servizi”, convocata secondo la normale procedura di approvazione dei progetti che investono competenze autorizzative di diversi soggetti, la proverbiale capacità degli amministratori Emiliani riesce ad imporre una soluzione completamente diversa, il passaggio in galleria sotto la città. Lo “straordinario risultato” ottenuto dalla Regione Emilia-Romagna, dalla Provincia e dal Comune di Bologna, farà scuola. Subito dopo, nella conferenza dei servizi per il nodo di Firenze, su di un progetto che prevedeva una razionale e poco impattante soluzione “a raso”, anche gli amministratori della Regione Toscana, della Provincia e del Comune di Firenze riescono ad imporre la soluzione in galleria. La soluzione in galleria, inventata a tavolino, nella trattativa politica, ha portato alla realizzazione, secondo la definizione che all’epoca diede il più famoso architetto Bolognese, Pierluigi Cervellati, alla realizzazione di una “diga sotterranea” in una 129


città con un sottosuolo che presenta un equilibrio idro-geologico che solo i posteri ci dirà se e come sarà modificato e quale impatto produrrà sulle migliaia di edifici sovrastanti. Occorre ricordare, per la verità, che, nell’accordo di programma per il nodo, gli amministratori Emiliani avevano anche conquistato un altro impegno delle FS, quello della contestuale realizzazione della rete per il Servizio Ferroviario Metropolitano (S.F.M.) di superfice. La diga sotterranea per l’Alta velocità è stata realizzata, mentre il S.F.M. è rimasto nel cassetto. Era forse la cosa più seria e più sensata di quell’accordo, purtroppo non aveva dietro alcuna lobby interessata, e i tre Sindaci che sono venuti dopo, Guazzaloca, Cofferati, Del Bono, forse non hanno mai letto quell’accordo di programma e comunque non hanno mai detto e fatto nulla. Grazie alla diga sotterranea però, per i pendolari e tutti i treni a lunga percorrenza normali, per diversi anni il servizio è peggiorato e non migliorerà almeno fino alla fine dei lavori del nodo e della connessa stazione per l’Alta velocità. Il costo della voce “nodi”, per le città della linea Torino-Napoli, era stimato da FS nel 1991 in 810 milioni di euro. Attribuendo il valore 100 al costo del 1991, passa a 341 nelle stime fornite da TAV SpA nel 2003, a 447 in quelle di RFI SpA nel 2006 e a 802 nelle nostre stime del 2010, equivalente a 6.500 milioni di euro. Pur evidenziando la difficoltà della valutazione dei costi attribuibili interamente al servizio Alta velocità, e dunque anche i limiti delle nostre stime, certo è che i costi per i “nodi”, sostenuti e da sostenere, sono tutti coperti dai trasferimenti dello Stato al gruppo FS per gli investimenti e la gestione del servizio universale.

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Le “infrastrutture aeree” e l’italianità Per la progettazione e la realizzazione delle infrastrutture aeree (elettrodotti, sottostazioni elettriche, impianti di segnalamento e sicurezza, ecc.) di tutte le tratte, l’attività è stata affidata ad un unico consorzio di imprese, il Consorzio Saturno. Il contratto viene firmato il 17 gennaio 1992 ma gli accordi con FS erano precedenti alla grande cerimonia del 7 agosto del 1991. Il Consorzio infatti era stato costituito il 24 luglio del 1986, già ai tempi di Ligato e Signorile. Anche in questo caso l’affidamento del contratto non ha seguito alcuna procedura ad evidenza pubblica e nessuna verifica di mercato. Le stime di costo per questa voce sono quelle più problematiche, nell’arco di due decenni non si registra neppure una minima “indiscrezione”. Il costo annunciato nel 1991 per tutte le linee era pari a 614 milioni di euro; nelle nostre stime azzardate, forse per difetto, è arrivato a 3.200 milioni di euro. Fatto 100 il costo annunciato nel 1991, diventa 521 nel 2010. Proprio le linee aeree sono uno degli elementi critici della millantata integrazione delle nuove linee di AV con le linee storiche. Sulle linee tradizionali il sistema di alimentazione elettrica è fornita con corrente continua di 3kV, nelle nuove tratte è invece stato adottato un sistema di alimentazione con corrente alternata a 25kV (sospetto cancerogeno), scelta già fortemente contestata dai maggiori esperti dell’epoca. Nel 1997, con l’avvio della verifica parlamentare, imposta con il comma 15, articolo 2, Legge 23 dicembre 1996, n. 662, il ministro dei Trasporti e quello dell’Ambiente nominano una Commissione Interministeriale incaricata di effettuare una approfondita valutazione. Fra le nomine di esperti esterni spiccano quelle del professor Marco Ponti, docente di economia dei trasporti al Politecnico di Milano e del professor Francesco Perticaroli docente di sistemi elettrici per i trasporti nello stesso Politecnico. La Commissione il 20 ottobre 1997 consegna il rapporto conclusivo al governo. A parte la valutazione complessiva di quel 131


Progetto, e le puntuali critiche sulle scelte tecniche operate fino a quel momento, la relazione si concludeva con la richiesta di alcune verifiche. Proprio per le infrastrutture aeree, in particolare per la Torino-Venezia, in quel momento ancora solo sulla carta, chiedeva in modo esplicito: «La convenienza dell’elettrificazione in “corrente alternata monofase a 2x25kV”, rispetto alla soluzione a “3 kV corrente continua”, va accertata effettuando una convincente confronto tecnico ed economico che tenga conto, in particolare, dei costi sia degli impianti fissi sia dei mezzi di trazione». D’altro canto, proprio su quella linea, sia la lunghezza delle tratte sia la domanda di traffico passeggeri, sconsigliava decisamente l’adozione di un sistema di alimentazione per garantire una velocità di 300 km/h ed una frequenza di un treno ogni 3 minuti. Contro quella relazione si scatenarono i general contractor e lo stesso Consorzio Saturno, con al rimorchio i boiardi di TAV ed FS pronti a fornire dati ed analisi di comodo per contrastare le conclusioni di quel lavoro. Nelle valutazioni contrapposte a quelle della Commissione Interministeriale si arriva persino a sostenere che «tenendo conto di tutte le tipologie d’opera la riduzione stimata di costo a causa della diminuzione della velocità sulla tratta Milano-Bologna è pari a circa il 2% rispetto all’ammontare complessivo della tratta mentre se rapportata all’intero costo della Milano-Firenze più Roma-Napoli la riduzione di costo rappresenta lo 0,7%». Gli estensori di queste valutazioni arrivavano addirittura a fornire il calcolo della differenza di costo delle singole voci delle infrastrutture a terra, per treni a 300 o a 250 km/h, fino a due cifre decimali oltre lo zero:« rilevati 2,05%; trincee 1,20%, viadotti 0,23%, gallerie naturali 7,30%». I geni matematici, per le tre voci finali di costo, con le quali si riassumevano le differenze di costo su tutta la linea Milano-Napoli, con un sistema di alimentazione a 25kV c.a. oppure con 3kV c.c., ricavate come media ponderale rispetto ai costi delle varie tratte, fornivano esattamente 132

queste cifre:«Opere Civili, 2,97%; Armamento O,91%; Impianti Tecnologici, nessuna variazione». Mentre la Relazione conclusiva del Commissione Interministeriale non arriverà mai sui tavoli dei parlamentari, a circolare invece saranno proprio le analisi con due cifre decimali su voci di costo che sono aumentate mediamente del 400% e delle quali gli stessi geni matematici non hanno mai dato conto. Nonostante tutto il ministro dei Trasporti sembrava comunque orientato ad una revisione del progetto per le linee TorinoVenezia e Genova-Milano, pur senza mettere in discussione i contratti in essere. Il ministro però non avrà il tempo di assumere alcuna decisione. Il 9 ottobre 1998 la fiducia richiesta dal governo Prodi, con un solo voto di scarto, non viene concessa. L’occasione per i lobbisti dell’Alta velocità, come successo in altre analoghe circostanze, viene colta al volo. Il ministro che andava raccontando che il finanziamento privato era una cosa “falsa” e che era orientato a qualche “lieve” cambiamento del Progetto Alta velocità, non poteva più restare su quella poltrona. Il 21 di ottobre si insedia il primo governo D’Alema, fra i soli due ministri che scompaiono dalla compagine governativa ci sarà proprio Claudio Burlando, e quello dei Trasporti sarà l’unico ministero che vedrà il cambio anche di tutti i sottosegretari. La poltrona, e non a caso, sarà rivendicata da Rinnovamento Italiano, il gruppo parlamentare promosso da Lamberto Dini che, già nel 1995, con il suo governo tecnico, aveva dato una spinta finanziaria decisiva al decollo del Progetto TAV. Il nuovo ministro sarà Tiziano Treu che, con tutto il rispetto per le sue straordinarie competenze sul diritto del lavoro, su quella poltrona stava come i cavoli a merenda. Per i lobbisti sarà una passeggiata. Quelle analisi, con la seconda cifra decimale, porteranno il nuovo ministro a chiedere la nomina di una nuova Commissione Interministeriale; eppure proprio quelle analisi erano già state oggetto di valutazione e, proprio la loro totale inattendi133


bilità, aveva portato la precedente Commissione a chiedere “un convincente confronto tecnico ed economico”. Quelle valutazioni erano esattamente quelle contenute nell’allegato 6 della Relazione consegnata un anno prima al Parlamento per l’avvio della verifica del Progetto TAV. La verifica parlamentare si concluderà il 28 luglio 1999 con il voto della Camera che approverà una risoluzione finale a firma di sei parlamentari di tutto il Centro Sinistra meno Rifondazione, un capolavoro del nulla che raccomanda di procedere senza alcuna significativa revisione di quel Progetto. Insieme alla risoluzione viene approvata, come parte integrante, la relazione della nuova Commissione Interministeriale, trasmessa alla Commissione Trasporti della Camera esattamente il giorno prima del voto sulla risoluzione che chiudeva in via definitiva la verifica Parlamentare. La prima Commissione aveva lavorato per circa un anno, svolgendo 20 riunioni di lavoro e scrivendo una Relazione di un centinaio di pagine nella quale venivano analizzati tutti gli aspetti di un progetto particolarmente complesso. La seconda ha svolto qualche riunione nell’arco di due mesi ed ha prodotto una Relazione di sette pagine nelle quali sono letteralmente ignorati gli aspetti finanziari, contrattuali, di redditività, della domanda e dell’offerta del servizio. Anche la seconda Commissione aveva visto la nomina di due esperti esterni: il professor Eugenio Borgia, ordinario di Pianificazione dei Trasporti presso l’Università di Roma e il Professor Alfonso Capasso, titolare del corso di Sistemi Elettrici per l’Energia presso la stessa Università. Ad informarci su questi esperti fu un “libro bianco” sulla verifica parlamentare:«Il professor Eugenio Borgia è rintracciabile, oltre che all’Università, anche presso gli uffici della società Aic Progetti Spa, con sede a Roma in via della Camilluccia 589/C. Nel relativo sito Internet, la società elenca, fra le principali referenze, i lavori in corso, avviati nel 1994, per la realizzazione delle gallerie artificiali sulla tratta ferroviaria ad Alta velocità Roma-Napoli, 134

affidati a trattativa privata al Consorzio Iricav Uno. Ancora più interessante ed articolato il doppio ruolo dell’esperto di alimentazione elettrica prescelto dal Ministro dei Trasporti. Sul professor Capasso ricade, infatti, l’aspetto forse più delicato e decisivo dell’intera procedura di verifica, essendo l’unico all’interno del Gruppo ad avere i titoli professionali idonei per esprimere valutazioni definitive sul sistema di alimentazione elettrica. Il professore componente del Gruppo di verifica è infatti anche progettista consulente per conto dei Consorzi privati autori dei medesimi progetti sottoposti a verifica. Per qualcuno, all’interno del Ministero e della società TAV, questa non è certo una sorpresa visto che le convocazioni per il professor Capasso erano indirizzate al suo ufficio in Corso d’Italia 83 a Roma, cioè nella sede romana di Fiat Engineering Spa (progettista della To-Mi e della Bo-Fi) e dove vi sono gli uffici del Consorzio CAVET (titolare della progettazione e realizzazione della tratta Bo-Fi) e dove ha sede l’Ufficio Gestione Tecnica Affidamenti del Consorzio Saturno (titolare della progettazione e realizzazione delle infrastrutture aeree)».1 I due tecnici ovviamente hanno espresso un parere diverso da quello dei due che li avevano preceduti. Un parere a dir poco lacunoso ma erano i tecnici giusti scelti, o suggeriti, al momento giusto per dare continuità a quel Progetto e, come amavano ripetere i suggeritori, per garantire alle imprese italiane la possibilità di una esperienza strategica. Proprio l’affidamento al Consorzio Saturno, senza alcuna gara, trovava infatti la sua motivazione esplicita nella difesa dell’industria nazionale, e nella esigenza di garantire all’italianità una straordinaria prospettiva sui mercati internazionali. I protagonisti di questa difesa nazionale lo mettono anche per iscritto sempre 1

. Enrico Fedrighini, a cura di, Libro bianco, Alta Voracità Ferroviaria: breve storia della verifica compiuta dagli esperti del Governo sulla più grande opera pubblica di questo secolo, Commissione Trasporti della federazione provinciale di Milano del Partito di Rifondazione Comunista, Novembre 1999. 135


nello stesso allegato 6 della richiamata Relazione del ministro dei Trasporti con la quale si era avviata la verifica Parlamentare: «(...) è da notare che le realizzazioni per l’AV a 300 km/h verranno portate a termine tutte da imprese italiane appartenenti al Consorzio Saturno. SIRTI, ANSALDO, SASIB, ABB tra le altre sono imprese che, oltre ad essere presenti nel Consorzio, partecipano attivamente agli sviluppi e alle sperimentazioni delle nuove soluzioni in corso di elaborazione per i sistemi di comando controllo e telecomunicazioni per l’Alta velocità. Si ritiene inoltre che la presenza di imprese italiane nei progetti di sviluppo dei sistemi europei AV costituisca una notevole opportunità di partecipazione imprenditoriale sul mercato europeo, oggi particolarmente orientato ad investimenti nel settore dell’Alta velocità ferroviaria». I geni del calcolo con la seconda cifra decimale dovrebbero anche spiegare perché è successo esattamente l’opposto. Il Consorzio Saturno, oltre a provocare una crisi irreversibile delle imprese italiane, è diventato il vettore per la “sperimentazione delle nuove soluzioni di comando e di controllo per l’Alta velocità”, delle multinazionali straniere. In quell’allegato, i boiardi di FS si dimenticavano di segnalare che fra le altre imprese appartenenti al Consorzio c’era già la francese “Alstom Transport System SpA”, un peccato veniale per non mettere in crisi l’italianità della scelta. Ma proprio il contratto facile e ben remunerato, anziché stimolare le capacità di competere ha dato uno contributo decisivo alla bancarotta delle imprese italiane. Agli inizi del 2000, la ABB Dacom SpA viene incorporata nella multinazionale inglese Balfour Beatty Rail SpA, la SASIB Railway SpA viene incorporata nella Alstom ferroviaria SpA. Nel 2006 la compagine societaria del Consorzio Saturno vedeva la presenza di sei soggetti che si spartivano le commesse ed i lavori per le infrastrutture aeree, tre italiani e tre stranieri: SIRTI, ANSALDO TRASPORTI, ANSALDO SEGNALAMENTO, ALSTOM FERROVIARIA, ALSTOM TRASPORTI, BALFOUR FERROVIARIA. Nel 2009 l’Ansaldo 136

apre le trattative con una multinazionale Canadese e nel 2011, con tutta probabilità, lascerà il posto nel Consorzio Saturno alla Bombardier Transportation. Con questa Alta velocità, con questi contratti, con queste bugie, questi sono i risultati.

Il “materiale rotabile” ed il flop dell’ETR 500 Quella del “materiale rotabile” è la voce di costo sulla quale si dovrebbero avere le maggiori certezze essendo l’unico contratto delle voci topiche del 1991 che è stato chiuso, eppure notizie sul costo effettivamente sostenuto per questa fornitura non è mai stato reso noto. Le trattative per la fornitura del materiale rotabile erano partite nel 1984 con il presidente di FS Ludovico Ligato e si inquadravano nella logica del Progetto che aveva come riferimento il “modello francese”. Gli studi vengono affidati ad un raggruppamento di imprese costituito da FIAT FERROVIARIA SpA, ANSALDO TRASPORTI SpA, BREDA COSTRUZIONI FERROVIARIE SpA, ABB TECNOMASIO SpA e FIREMA CONSORTIUM S.c.r.l.. Anche in questo caso il motivo dell’italianità fu alla base delle trattative senza alcuna gara ad evidenza pubblica. Il 27 luglio 1989 le stesse società fondano il Consorzio Trevi s.r.l., con oggetto sociale “il coordinamento della attività delle consorziate per studi, progettazione e costruzione di treni ad Alta velocità, denominati ETR 500”. Il contratto, di 4.800 miliardi di vecchie lire, prevedeva la progettazione e la costruzione di 100 treni ETR 500 nella composizione standard di undici carrozze passeggeri, 4 di prima e 7 di seconda classe, una carrozza ristorante e due motrici. La sigla ETR, sta per Elettro Treno Rapido, il numero 500 indica la serie della produzione. Il primo elettrotreno entrato in servizio nelle nostre ferrovie è stato l’ETR 200, mentre il più noto, in servizio nel 1952, è 137


stato l’ETR 300, che, secondo l’enciclopedia Wikipedia: « è stato l’orgoglio delle ferrovie italiane per oltre 30 anni, almeno fino all’introduzione dei Pendolini. Pur non essendo propriamente un treno ad Alta velocità, l’ETR 300 può essere accomunato per profili di servizio e innovazione ai recenti ETR 500, e come questi ultimi era stato pensato per servire sulla principale linea italiana, la Milano-Bologna-Firenze-Roma. Come quest’ultimo è a cassa fissa e non ad assetto variabile». Anche la fornitura dell’ETR 500 è emblematica degli errori all’origine di questo Progetto. Sul piano tecnologico, siamo agli stessi livelli di un treno progettato ed entrato in funzione 50 anni prima, con composizione fissa, con più carrozze, più lunghe e più leggere. Le aziende del Consorzio Trevi, grazie a questa commessa, facile e ben retribuita, oggi sono tutte in gravi difficoltà e comunque prive di un prodotto di punta sui mercati internazionali. Il Progetto TAV, anche in questo caso, è servito a questo: distruggere le capacità innovative che l’industria nazionale fino a quel momento aveva espresso. L’ETR 500 è stato il flop più clamoroso della industria ferroviaria di tutti i tempi. Pagato a peso d’oro da FS, prodotto solo ed esclusivamente per FS, oggi è già vecchio e privo di qualsiasi prospettiva di mercato. Un flop talmente clamoroso che le magnifiche sorti strombazzate nel 1991 hanno portato persino Trenitalia a chiedere di interrompere la fornitura di questo “carrozzone” e determinare la liquidazione del Consorzio Trevi. In sordina, senza comunicati, senza conferenze stampa, con gli italiani in vacanza, esattamente il 3 agosto del 2009, il Consorzio, che doveva garantire prospettive straordinarie all’industria nazionale, viene posto in liquidazione e l’ETR 500 da quel momento non viene più prodotto. La Breda Costruzioni Ferroviarie, già impegnata nella progettazione e produzione dell’ETR 300, passato alla storia come il “settebello”, dopo quarant’anni si era ritrovata a lavorare su un materiale del tutto simile e privo di qualsiasi significativa innovazione; sarà costretta già nel 2000 a fondersi con un altro 138

partner in crisi, la Ansaldo Trasporti, dando vita ad AnsaldoBreda Trasporti spa sotto il controllo di Fintecna, l’azienda pubblica erede dello smantellamento dell’IRI. Sorte non migliore toccherà alla ABB Tecnomasio Trasporti che sarà acquistata dalla multinazionale canadese Bombardier. Più devastanti e beffardi, per l’industria nazionale, sono però gli effetti prodotti dal partner che ha pilotato la formazione del Consorzio Trevi, Fiat Ferroviaria SpA. Nella crisi che investe la capogruppo FIAT SpA nel 2000, una delle decisioni assunte per risanare il bilancio è quella di vendere alcuni pezzi che avevano un discreto valore. Fra questi vi era Fiat Ferroviaria SpA, una delle poche aziende del gruppo con un portafoglio di commesse importante: viene venduta alla multinazionale francese Alstom. L’interesse del colosso francese non era certo determinato dalla commessa ormai in esaurimento dell’ETR 500 che Fiat ferroviaria aveva quale partner del Consorzio Trevi. L’interesse era un altro e cioè quello per il brevetto che Fiat ferroviaria deteneva grazie alla invenzione tutta italiana del “Pendolino”. Negli anni Sessanta tutte le amministrazioni ferroviarie dei paesi europei, di fronte alla forte espansione del trasporto su gomma si erano poste il problema della riqualificazione del servizio ferroviario. Solo la Francia scelse quasi subito la strada della realizzazione di “nuove” linee ferroviarie “dedicate”, senza curve o con raggi di curvatura molto ampli, per il collegamento veloce fra aree metropolitane. Negli altri paesi, come l’Italia, la Gran Bretagna, la Svizzera, la Germania si pensava invece al miglioramento delle infrastrutture esistenti e soprattutto alle prestazioni dei convogli ferroviari, pensando ad un materiale rotabile che consentisse di velocizzare il servizio e di minimizzare le forze centrifughe che si producono sui convogli nelle curve strette delle linee ferroviarie tradizionali. Proprio l’Italia vinse questa gara per l’innovazione. Già nel 1969, Fiat Ferroviaria, grazie alla stretta collaborazione con i tecnici della Ansaldo e delle Ferrovie dello Stato, realizzò l’ETR Y 0160, il primo prototipo di automotrice con cassa 139


oscillante alla quale venne attribuito il soprannome di Pendolino. Il primo Pendolino, l’ETR 400, entrava in servizio già nel 1976 sulla linea Roma-Ancona e verrà utilizzato come un vero e proprio laboratorio viaggiante per migliorare la tecnologia del pendolamento. Il 29 maggio 1988 entra in servizio una evoluzione del primo pendolino, due coppie di ETR 450 sulla linea Roma-Milano. Svolgono il servizio passeggeri con partenza simmetrica da Roma e Milano alle ore 7 ed alle ore 19. Tempi di percorrenza, da orario, puntualmente rispettato, 3 ore e 58 minuti. Con l’orario invernale 1988-1989 il servizio dei Pendolini si estende a Torino e Napoli. La composizione dei treni da 5 viene elevata a 9 carrozze con un’offerta di 340 posti. Nel maggio 1989 venivano attivati collegamenti con Venezia, Salerno e successivamente Bolzano. Nel 1991 e 1992, l’ETR 450 effettua servizi veloci anche sulle tratte Milano-Ancona e Roma-Rimini. La relazione Milano-Ancona effettuava le fermate di Bologna, Cesena, Rimini, Riccione, Cattolica, Pesaro e Senigallia, il tempo di percorrenza nel primo anno di servizio tra Milano e Senigallia era di sole 3 ore, portato a 3 ore e 18 minuti l’anno successivo. Oggi, grazie al progetto TAV ed alla Fiat, il brevetto del Pendolino, frutto di anni di lavoro dei tecnici ferroviari italiani, è passato in mano alla Alstom, garantendo alla industria ferroviaria francese prospettive di mercato straordinarie. Il Pendolino circola già in quasi tutti i paesi europei, dalla Spagna alla Finlandia, dall’Inghilterra alla Slovenia, dal Portogallo alla Germania, ma si appresta ad arrivare in Russia ed in Cina dove la Alstom, grazie al Pendolino, si è assicurata commesse per centinaia e centinaia di milioni di euro. Negli stabilimenti italiani della Alstom però le ricadute non ci sono. Nello stabilimento di Savigliano, dove è nato il Pendolino, fra il 2005 e il 2007 un centinaio di interinali sono stati espulsi e nel 2010 per le maestranze storiche si parla di 150 esuberi. Situazioni altrettanto critiche sono denunciate dai sindacati nell’ex stabilimento di Fiat ferroviaria di Milano. A Col140

leferro gli operai ex Fiat sono persino ricorsi al sequestro di tre dirigenti della multinazionale francese, che il 6 ottobre 2009 si erano presentati davanti agli operai annunciando che la fabbrica sarebbe stata chiusa entro nove mesi, hanno ottenuto che entro fine dicembre la Alstom presentasse un nuovo progetto industriale, ma nulla lascia ormai presagire anche una minima speranza di riconversione. Dati precisi sulla fornitura dell’ ETR 500 non si conoscono, ma quello che è certo è che anche questi sono fuori della contabilità ufficiale del Progetto TAV e dunque anche questi sono stati coperti con i trasferimenti dello Stato per la gestione del servizio ferroviario universale. Nelle stime che si possono fare debbono essere considerati anche i costi per la nuova strategia di marketing, quella della nuova livrea dell’ETR 500, rifatta con vernice idrosolubile e con il nuovo nome “Frecciarossa”. La sola fornitura delle vernici a basso impatto ambientale per 11 convogli, fatta a Trenitalia dalla società Inver SpA di Minerbio in provincia di Bologna, è costata 200 milioni di euro. Il contratto del 1991 quantificava in 2.454 milioni di euro la fornitura di 100 ETR500. La produzione si è fermata a circa tre quarti della quantità prevista. La stima, anche in questo caso in assenza di cifre note, ci porta a quantificare in 8.200 milioni di euro questa voce di costo (includendo la fornitura effettiva e quella necessaria per completare la previsione del contratto del 1991). Fatto 100 il valore fissato nel contratto del 1991 siamo arrivati a 334. I boiardi di Stato avevano garantito, e continuano a raccontare, che grazie alle nuove tratte per l’Alta velocità percorse solo dai treni veloci, sulla linea storica si sarebbero liberate straordinarie potenzialità per migliorare e rafforzare l’offerta dei servizi universali a breve, media e lunga percorrenza. È successo esattamente il contrario, da subito, con l’entrata in esercizio delle prime tratte di Alta velocità. Il peggioramento dei servizi ferroviari sulle linee storiche si può misurare con un semplice confronto degli orari ferroviari. Un solo esempio, 141


per riprendere quello già citato del “Pendolino”. Nel 2009, il viaggiatore che voleva andare da Milano a Senigallia lo poteva fare con un Eurostar City, senza cambiare treno, in 4 ore e 23 minuti: un’ora e 5 minuti in più del servizio fornito con il Pendolino 18 anni prima. Se lo stesso viaggiatore voleva metterci meno tempo, poteva prendere a Milano il Frecciarossa alle 15,30, scendere a Bologna e prendere alle 16,56 un Eurostar City, scendere a Rimini e prendere alle 18,07 un treno Regionale e scendere a Senigallia alle ore 19,00; ci avrebbe messo, se fortunato con le due coincidenze, 3 ore e 30 minuti: 12 minuti in più che nel 1991. Nel 2010 la combinazione più breve per lo stesso viaggio è sempre la stessa: parte alle 14,25 con il Frecciarossa, cambia e riparte con un Eurocity da Bologna, cambia e riparte da Rimini con un regionale ed arriva a Senigallia alle ore 17,57: 19 minuti in più del 1991, sempre a condizione di vincere la scommessa di due cambi. Con un solo cambio a Bologna e la combinazione Frecciarossa e treno regionale, può arrivare a Senigallia in 3 ore e 45 minuti: 27 minuti più che nel 1991. Se invece volesse salire a Milano e scendere a Senigallia senza fare alcun cambio, il viaggiatore nel 2010 non troverà alcun treno disponibile. Dovrebbe andare meglio sulla direttrice nella quale alle linee storiche si sono aggiunte le nuove tratte “dedicate” per i treni veloci, forse. Dal 14 dicembre 2008, dopo la inaugurazione della nuova tratta di Alta velocità Milano-Bologna, l’ETR 500, riverniciato e ribattezzato Frecciarossa, offriva il servizio Milano-Roma, da orario, quasi mai rispettato, in 4 ore e 13 minuti. Il servizio no-stop sulla stessa linea era offerto dal Frecciarossa in 3 ore e 59 minuti: un minuto in più del servizio offerto dal Pendolino nel 1988. Dal 15 dicembre 2009, con la entrata in esercizio anche della nuova tratta Bologna-Firenze, si può andare da Milano a Roma in 3 ore con il servizio diretto senza le fermate di Bologna e di Firenze. Per risparmiare un’ora, quella solo promessa dall’orario di Trenitalia, lo Stato ha speso circa 50 miliardi di euro. A pagare sono tutti i cittadini italiani, mentre a risparmiare un’ora 142

per spostarsi in treno fra Roma e Milano sono fra lo 0,01 e lo 0,03 per cento della popolazione italiana. Grazie alla Fiat, ed alla lobby del cemento, l’Italia ha speso decine e decine di miliardi di euro per un’infrastruttura che potrà migliorare il servizio ferroviario solo per chi si sposta sulla linea Torino-Milano-Bologna-Firenze-Roma-Napoli, solo per chi parte e arriva in quelle stazioni e solo per chi ha i soldi per pagare quel servizio, e cioè fra il 4 ed il 6 percento di tutti gli utenti del servizio ferroviario. Per il 95% dei passeggeri che utilizzano tutti gli altri servizi ferroviari offerti sulla infrastruttura storica, non solo la qualità del servizio, ma anche gli stessi orari sono peggiorati in modo evidente. Per i treni a lunga percorrenza, da Roma a Milano, da orario ferroviario, oggi si viaggia in 6 ore e 30 minuti o 7 ore con gli Intercity ed in 8 ore o 8 ore e 30 minuti con gli Espressi, con tempi di percorrenza che sono fino al 30 per cento maggiori di quelli offerti dell’orario ferroviario di cinque anni prima per gli stessi treni. Quello che cambia, dunque, è anche l’offerta del servizio, con gli Espressi e gli Intercity che sulla linea Roma-Milano sono letteralmente scomparsi. Secondo l’orario ferroviario del 2010, mentre i Frecciarossa (109 euro in prima e 89 euro in seconda) sono giornalmente 36, gli Intercity (62 euro in prima e 46 in seconda) sono solo 5 e le tradotte degli Espressi (32 euro e 50 centesimi) sono solo 3. Siamo l’unico paese in Europa con questa offerta squilibrata ed anche quello con la tariffa più alta per la seconda classe del servizio AV, quella che questo sistema di offerta costringe ad utilizzare. Ovviamente non va meglio per i servizi a breve percorrenza. Sono peggiorati in modo evidente anche questi e sono quelli sui quali si concentra poco meno del 90 per cento della domanda. I vertici delle FS conoscono perfettamente questi numeri, ma continuano a puntare tutto sulle poche tratte AV dedicate, dimenticando e impoverendo tutto il resto: «Circola semiclandestino in pochissimi uffici delle Ferrovie a Roma, un documento che è una bomba. In quelle pagine l’amministratore Fs, Mauro Moretti, mette implicitamente il bollo aziendale su ciò 143


che in molti avevano intuito alla luce delle prime settimane di esercizio dell’Alta velocità Torino-Salerno (...). Ecco le cifre dell’Azienda. Trasporto regionale: riduzione dei passeggerichilometro da 28.615 milioni previsti originariamente a 23.410 nel 2011, un passeggero ogni cinque dato per perso. I treni-chilometro scendono dai 229 milioni precedenti a 193, 20 per cento in meno. I volumi del servizio universale si riducono del 13 per cento rispetto agli anni passati e del 15 per cento nei confronti con le previsioni contenute nel piano 20072011. Drastico arretramento anche per i convogli a media e lunga percorrenza: 23.332 milioni di passeggeri-chilometro rispetto ai 25.241 del 2006 e ai quasi 29.000 del piano precedente. Per il traffico internazionale, poi, si prepara un vero e proprio tonfo: meno 40 per cento (...). Le Fs a doppia andatura, alla ricerca di risultati sfavillanti e sprint su poche tratte, ma sempre più povere sul resto dei binari, non sono affatto lo sbocco inevitabile dell’Alta velocità, ma il punto d’arrivo di una scelta perseguita dall’attuale dirigenza dei treni ». 2 Succede dunque quanto era perfettamente prevedibile: i viaggiatori-chilometro, e cioè tutti i biglietti ferroviari venduti da FS per i chilometri percorsi con ogni singolo biglietto, complessivamente diminuiscono. Ma si riduce l’uso del servizio ferroviario non perché sia cambiata la domanda, bensì perché è cambiata l’offerta. Si riduce la domanda del trasporto regionale, perché l’offerta oltre ad essere pessima è stata anche ridimensionata. Si riduce però anche la domanda sul trasporto a media e lunga percorrenza; ma dentro questo dato sono inclusi oltre ai Frecciarossa anche gli Intercity e gli Espressi, diurni e notturni. Il calo in questo caso è tutto e solo dovuto alla drastica riduzione del servizio a media e lunga percorrenza sulla linea storica di Intercity ed Espressi. I viaggiatori-chilometro sul Frecciarossa, ovviamente, essendo praticamente solo questa l’offerta di Trenitalia, aumen2

. Daniele Martini, “Un passeggero perso ogni cinque, l’Alta velocità si man-

gia la rete regionale”, Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2010.

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tano in maniera significativa ma meno della perdita che si registra sulle stesse distanze sui servizi non di Alta velocità. La sbandierata liberazione delle tracce sulla linea storica non è servita però nemmeno per incrementare il trasporto delle merci: anzi! L’assenza di investimenti e di strategia in questo settore, proprio con l’entrata in esercizio delle nuove tratte di AV, si è tradotta in una totale e irresponsabile rinuncia all’offerta del servizio: «Treni merci addio. L’Italia si avvia a conquistare anche il record di primo paese d’Europa senza un servizio cargo pubblico su rotaia. (...) Dal 2006 al 2010 il traffico è sceso da 68 milioni di treni a chilometro a 42 milioni. Nel 2009 il calo è stato superiore al 30 per cento e quest’anno è previsto un altro arretramento dell’8. La quota di traffico su ferro è ormai appena il 6 per cento del totale delle merci trasportate, la metà della media europea. (...). Alla fine del primo mandato e all’inizio del secondo, il bilancio dell’era Moretti per le merci è in netto passivo. Il nuovo amministratore tratta il settore come una cenerentola, peggio, come una zavorra di cui liberarsi perché non fa utili, proprio come il trasporto pendolari e quella passeggeri sulle lunghe percorrenze. Per Moretti, e per il governo che gli lascia mano libera, solo i treni redditizi, i Frecciarossa, Argento e similari, sono meritevoli di attenzione. Con buona pace della natura pubblica delle Fs, azienda di proprietà del ministero dell’Economia, tenuta all’erogazione di un servizio universale per cittadini e merci.».3 Per il momento Moretti pensa ad altro, ma qualcuno prima o poi sarà costretto a fare i conti dei danni sociali ed economici che questa miope strategia ha prodotto e produrrà sull’economia complessiva del nostro sistema dei trasporti. Il governo non ha fatto nemmeno una piega quando, tagliando circa 800 milioni di euro al trasporto pubblico locale con la finanziaria 2010, l’azienda sussidiata dallo Stato annuncia nello 3

. Daniele Martini,”Addio ai treni per le merci esultano i camion”, Il Fatto Quotidiano, 4 agosto 2010. 145


stesso anno (nel numero 7 della superpatinata rivista “La Freccia”) l’arrivo “del treno del futuro, ultramoderno, flessibile ed ecocompatibile. Il nuovo treno superveloce della serie 1000 sfreccerà sui binari italiani dal 2013. Surclassando anche i convogli giapponesi e pronto a guidare l’industria ferroviaria dei prossimi vent’anni”. Esattamente venti anni prima, Necci annunciava l’arrivo degli ETR 500 con gli stessi riferimenti alla velocità e alle magnifiche sorti della nostra industria ferroviaria. Con le tratte realizzate, tutte molto più corte di quelle giapponesi, ma anche di quelle francesi e spagnole, gli ETR 500 possono coprire le distanze fra i nodi con una velocità media compresa fra i 150 ed i 180 chilometri all’ora, potendo tenere una velocità di punta di 300 solo per il dieci, massimo il venti per cento della lunghezza delle tratte. Orbene, con il disastro del consorzio Trevi sotto i nostri occhi, qualcuno ha la faccia tosta di annunciare una spesa di almeno 1.200 milioni di euro per l’acquisto di 50 treni che dovrebbero viaggiare a 360 km/h su queste “trattine” di AV, e di presentare questa scelta, sempre nella stessa rivista patinata, con un’enfasi a dir poco indecorosa: «Il treno del futuro è innovazione tecnologica, glamour e massimo confort per i passeggeri, attraverso forme fluide, generate dall’alternarsi di superfici concave e convesse, e una nuova filosofia del colore. Che insieme condensano una inequivocabile promessa di vitalità e movimento, segno che le FS sono oggi in grado di lanciare la sfida al mercato e di rispondere a qualsiasi new coming, in casa e oltre confine». La “new coming” alla quale Moretti lanciava la sfida era la società alla quale i ministri Bianchi e Di Pietro avevano garantito il “pacco dono” del servizio AV a partire dal 2011. Una sfida, con queste premesse, con un esito scontato. Dopo il trasporto aereo anche quello su ferro, ma solo per il servizio più conveniente, passerà di mano. Questa disastrosa strategia delle FS è finanziata per ben due terzi da sovvenzioni dello Stato, e solo grazie a queste il bilan146

cio economico dell’azienda pubblica resta per il momento in equilibrio. Di questi due terzi però nessuno ha mai verificato quanto è stato e viene effettivamente utilizzato o investito per i servizi sussidiati. Di certo una parte consistente di queste risorse è stata ed è dirottata, surrettiziamente, sul servizio che invece viene spacciato come redditizio e senza sussidi.

Il “pacco dono” per i campioni del made in Italy Al fallimento dell’esperienza dell’ETR 500, alla perdita del Pendolino e ai costi economici e sociali che il fallimento del Consorzio Trevi ha prodotto, si aggiunge addirittura anche la beffa della gestione del servizio ferroviario dell’Alta velocità. Anche in questo caso, impegni solenni e vincolanti diventano col tempo parole prive di riscontro che si risolvono nell’esatto opposto. Nella delibera n. 971 firmata dall’amministratore straordinario dell’Ente Ferrovie dello Stato il 7 agosto 1991, si sanciva, all’articolo 4, che «l’esercizio e l’utilizzo delle infrastrutture realizzate dalla società concessionaria è riservato, in via esclusiva, alla gestione unitaria dell’Ente Ferrovie dello Stato». La riserva vincolante della gestione del servizio era conseguente all’impegno di recuperare con la gestione del servizio il cosiddetto investimento privato. La previsione era naturalmente irrealistica, ma almeno il vincolo della esclusività del servizio in capo alle FS era previsto ed era ovviamente una condizione indispensabile per recuperare almeno una parte di quell’investimento, di fatto, tutto e solo pubblico. Almeno questo il firmatario della delibera del 1991 lo aveva previsto. Purtroppo però in questa storia non vi sono limiti all’indecenza e così la faccia tosta di Necci quasi impallidisce di fronte alle facce di bronzo dei boiardi e dei loro sponsor politici che sono venuti dopo. 147


TAV-CO SpA, la società che FS si era impegnata a costituire per la gestione in esclusiva del servizio Alta velocità, non è stata e non sarà mai costituita. Non solo dunque quegli investimenti non saranno mai recuperati, ma addirittura sarà una società privata a lucrare i profitti della gestione. Questo capolavoro è stato realizzato a favore di una società nuova di zecca che, priva di esperienza, senza alcun materiale e senza dipendenti, è riuscita ad avere nel giro di qualche mese la licenza per l’esercizio di servizi ferroviari, il rilascio del titolo autorizzatorio per l’accesso all’infrastruttura, un Decreto legge del Governo Prodi, la conversione in legge dello stesso decreto nei due rami del Parlamento e un contratto decennale per la gestione del servizio Alta velocità. La società, Nuovo Trasporto Viaggiatori SpA, viene costituita l’11 dicembre 2006 e presentata in pompa magna con una conferenza stampa il 12 gennaio 2007. I soci fondatori presentano la nuova società come se fosse un operatore ferroviario con in tasca già tutti i titoli e requisiti previsti dalle norme, tutto viene dato per scontato ed acquisito e le agenzie di stampa battono la notizia: «Sfida della qualità, ad Alta velocità, di due alfieri del made in Italy: Luca di Montenzemolo e Diego della Valle. L’annuncio della nascita di Nuovo Trasporto Viaggiatori Spa, capitale un milione di euro, partecipata da Finanziaria Sviluppo (Montenzemolo), da Fa.Del (Della Valle) e da Servizi Imprenditoriali di Giovanni Punzo (tre quote ciascuno di 31,7%) e Giuseppe Sciarrone (5%) lascia intravedere nuovi scenari nel trasporto passeggeri su rotaia (...). Missione della società, spiega intanto lo stesso nuovo player ferroviario, è l’effettuazione di servizi viaggiatori sulle nuove linee ad Alta velocità, attraverso l’offerta di servizi ad alta qualità (...). L’iniziativa ha trovato il plauso dello stesso ministro dello Sviluppo Economico Pierluigi Bersani. È davvero una bella notizia, ha commentato infatti il Ministro dal vertice governativo di Caserta, la norma che introdussi nel 2001 si proponeva di favorire lo sviluppo industriale nel settore ferroviario anche 148

per il potenziamento delle reti. Si stanno determinando infatti enormi spazi perché la concorrenza a beneficio del consumatore non sia un gioco a somma zero ma l’occasione straordinaria di sviluppo del servizio».4 Il ministro, da buon liberale, aveva immaginato un altro film, perché quello che sarà girato - ad essere buoni - con la sua totale distrazione, sarà completamente diverso. Forse andrà bene se per il consumatore il gioco sarà a somma zero, ma quello che è certo è che la somma per lo Stato sarà assai sotto lo zero. Già il 6 febbraio 2007 il ministero dei Trasporti concede alla scatola vuota NTV SpA, in quel momento una società con nemmeno un dipendente a libro paga, la licenza di Operatore Ferroviario. Il 28 luglio 2007 il ministro dei Trasporti Bianchi firma un inedito “Protocollo d’Intesa”, con il quale NTV viene accreditata come società di gestione del servizio Alta velocità ed impegna RFI SpA, quale gestore dell’infrastruttura, alla definizione del contratto di servizio. Al primo punto del Protocollo si stabiliva che «il ministro dei Trasporti provvederà a concludere, nei termini di legge, il procedimento per il rilascio del titolo autorizzatorio per l’accesso all’infrastruttura nazionale citato in premessa, con specifico provvedimento». L’impegno del ministro sarà ottemperato senza fare attendere un solo minuto l’amministratore delegato di NTV: lo firmerà seduta stante. Rintracciare però anche solo qualche generico riferimento, che potesse dare legittimità a quel Protocollo d’Intesa, nelle norme in vigore in quel momento, è fatica sprecata: era semplicemente un’invenzione estemporanea. Si trattava di un contratto con evidenti profili di illegittimità, comunque contestabile da chi aveva un interesse legittimo da tutelare. I boiardi di FS e di Trenitalia, o altri potenzialmente legittimati, si sono guardati bene dal contestarlo formalmente. In silenzio resterà anche il Ministro delle Infrastrutture Antonio 4

. “Montenzemolo e Della Valle nell’alta velocità”, La tribuna di Treviso, 13 gennaio 2007

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Di Pietro, sotto la competenza del quale era la vigilanza delle infrastrutture ferroviarie, e dunque le attività di RFI. L’unica norma riferibile a quel Protocollo era il comma 2, articolo 8, Legge 166/2002, che prevedeva esattamente il contrario: «Per i servizi di trasporto ferroviario viaggiatori di interesse nazionale (...), il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti provvede, allo scopo di incentivare il superamento degli assetti monopolistici e di introdurre condizioni di concorrenzialità dei servizi stessi ad avviare procedure concorsuali per la scelta delle imprese ferroviarie per l’erogazione del servizio (...)». Nonostante gli impegni sottoscritti dal ministro con il Protocollo, nei soci di NTV c’era ancora qualche preoccupazione proprio per quella norma che richiamava condizioni di concorrenzialità e procedure concorsuali. Il clima politico non era dei migliori ed il rischio di una crisi che facesse cadere un governo con ministri così disponibili, prima che l’affare fosse blindato, era troppo alto. Per il presidente della Fiat arrivare per le vie brevi al Presidente del Consiglio, dopo i probabili rapporti intrattenuti solo qualche settimana prima per la nomina a presidente di FS SpA del suo ex segretario di Confindustria Innocenzo Cipolletta, non era certamente un problema. Il primo ottobre del 2007, il Consiglio dei ministri approva il Decreto legge n. 159, motivato da “interventi urgenti per lo sviluppo e l’equità sociale”. Al comma 2 bis dell’articolo 9, proprio quella norma che ancora destava qualche preoccupazione nei campioni del made in Italy, viene modificata: «All’articolo 8 della Legge 1 agosto 2002, n.166, e successive modificazioni, i commi 2 e 3 sono sostituiti dai seguenti». Inutile aggiungere che nel nuovo testo scompaiono i riferimenti sia alle procedure concorsuali che alle condizioni di concorrenzialità. Il Decreto legge il 29 novembre 2007 viene convertito definitivamente nella Legge n. 222. La storia si ripete, ma i protagonisti e la loro statura cambiano. Nel 1992 Giovanni Agnelli aveva chiamato il presidente del Consiglio per tutelare gli interessi ed i destini della Fiat nel Progetto Alta velocità. Quindici anni dopo è possibile che il 150

nuovo presidente della Fiat abbia chiamato il nuovo presidente del Consiglio per garantire un affare che nulla aveva a che fare con gli interessi ed i destini della stessa Fiat. Con l’affare ormai blindato, il 17 gennaio 2008 le agenzie annunciano che sono in corso le trattative per il più importante acquisto di materiale rotabile degli ultimi decenni: 25 treni ad Alta velocità da 500-600 posti da consegnare in un paio d’anni a partire dal 2010. Gli alfieri del made in Italy trattano con tre multinazionali, la Alstom francese, la Siemens tedesca e la Bombardier canadese. Di imprese italiane contattate, nemmeno l’ombra: nessun invito a fare offerta, nemmeno al Consorzio Trevi produttore del materiale per l’Alta velocità nazionale. La trattativa si concluderà nel gennaio del 2008 ed il contratto verrà firmato con la multinazionale francese. Solo in questo momento qualche quotidiano avanzerà qualche timida critica: «Le due anime di Luca di Montenzemolo. Quando veste l’abito della Confindustria, o della Fiat, raccomanda “comprate italiano”. Ma quando assume il ruolo di futuro ferroviere, seppure ad Alta velocità, dove compra i treni? In Francia (...). La NTV ha ordinato 25 treni ad Alta velocità alla francese Alstom, per una cifra di circa 700 milioni. Per altri 10 sarebbe stata sottoscritta un’opzione. Il tricolore francese, dunque, ha vinto ancora una volta sul tricolore italiano. L’Agv (derivato dal celebre Tgv) è stato preferito al prodotto “made in Italy” a disposizione, quell’ETR 500 del Consorzio Trevi, che tutti conoscono perché da una quindicina d’anni è attivo sui binari nazionali ».5 Bisognerà invece aspettare quasi due anni per leggere sulla stampa nazionale le modalità con le quali lo Stato ha affidato il servizio Alta velocità ai campioni del made in Italy: «L’affidamento del servizio viaggiatori dell’Alta velocità, a trattativa privata, a NTV, il cui profitto potrebbe sfiorare i 600 milioni di euro, è un vero e proprio “pacco dono” del governo Prodi a 5

. “Montenzemolo predica l’italianità e compra il TGV”, Il Giornale, 12 gennaio 2008. 151


industriali con la passione dell’editoria, ragione per cui non è stato mai aperto dai giornali che si sono limitati a descriverne il bel colore della carta e la raffinatezza del fiocco».6 Con il contratto di servizio in cassaforte ed i treni in arrivo, l’affare è già assicurato. Prima ancora di iniziare a fornire il servizio e raccogliere il frutto del “pacco dono”, i prodi cavalieri rivalutano il misero capitale investito in NTV e fanno pagare a peso d’oro l’ingresso di nuovi ospiti. Già nel gennaio 2008, le agenzie battono la notizia dell’ingresso del gruppo bancario Intesa Sanpaolo con una quota del 20%, pari ad un esborso di circa 60 milioni. Giuseppe Sciarrone andrà al 4%, Luca Cordero di Montenzemolo, Diego Della Valle, Giovanni Punzo scenderanno al 25,3% ciascuno, ma con l’investimento iniziale super-rivalutato. Il gruppo bancario guidato da Giovanni Bazoli e Corrado Passera, oltre al capitale versato per acquisire il 20% del capitale della società NTV, mette pure a disposizione i soldi per acquistare i treni, 750 milioni di euro. A giugno arrivano nuovi soci e, fra questi, con una partecipazione al 20%, una società controllata al 100% da SNCF, la società statale francese omologa delle nostre FS. La notizia esce sui quotidiani solo nell’ottobre del 2008 e provocherà soltanto qualche mal di pancia al viceministro delle Infrastrutture e Trasporti Roberto Castelli, che avanzerà la richiesta di una “commissione che ricostruisca in maniera cristallina l’iter della vicenda”. La commissione ovviamente rimarrà solo nella fantasia del viceministro. Nel 2010 i soci che compaiono sul sito ufficiale di NTV sono: «Totale MDP Holding, 33,5%; IMI Investimenti, 20,0%; SNCF/VFE-P, 20,0%; Generali Financial Holdings FCP-FIS, 15%; Nuova Fourb, 5%; MaIs, 5%; Reset 2000, 1,5%». Nella compagine, oltre a Intesa Sanpaolo (con la controllata IMI) e SNCF (con la controllata VFE-P), si aggiunge Alberto 6

. Sandra Amurri, “Arrivano i treni privati”, Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2009. 152

Bombassei (con Nuova Fourb) e Isabella Seragnoli (con MaIs). Nel sito, della Generali Financial Holdings non viene detto nulla, nemmeno che si tratta di una società con sede in un paradiso fiscale, il Lussemburgo. Quasi sicuramente la società lussemburghese fa capo alle Assicurazioni Generali di Trieste, ma chi siano effettivamente i soci rimane un mistero, come misteriosa è la ragione della sede lussemburghese per la partecipazione ad una società italiana. Già nel 2009, fra l’altro, a questa società era subentrata la “Winged Lion FCP-FIS Sub-Fund 1”. Il socio fondatore più piccolo, Giuseppe Sciarrone, è socio unico di Reset 2000. I tre grandi campioni dell’imprenditoria nazionale, forse pronti a scappare, si sono accuratamente nascosti. Curiosa e senza alcuna spiegazione nel sito ufficiale è infatti la segnalazione della partecipazione al 33,5% della “Totale MDP holding”. Sembrerebbe la ragione sociale di una società, in realtà “Totale” è da intendere come somma delle partecipazioni di “MDP holding” in NTV. Una società con questo preciso nome nella banca dati delle Camere di Commercio è però introvabile. Si trovano invece quattro semplici s.r.l.: MDP Holding Uno, MDP Holding Due, MDP Holding Tre, MDP Holding Quattro. Tutte e quattro le MDP holding hanno lo stesso Consiglio di amministrazione, composto da: Luca Cordero di Montenzemolo, presidente a tempo indeterminato; Diego Della Valle, consigliere a tempo indeterminato; Gianni Punzo, consigliere a tempo indeterminato. Tutte e quattro hanno gli stessi soci con le stesse quote di partecipazione: MCG holding Srl (amministratore unico Luca Cordero di Montenzemolo), 33,3%; Fa.Del Srl (amministratore unico Diego Della valle), 33,3%; Servizi Imprenditoriali Srl (amministratore unico Gianni Punzo), 33,3%. La Uno, la Due e la Tre hanno un capitale sociale di 90.000 euro, la Quattro un capitale di 12.000 euro. Le tre società di controllo e le quattro MDP holding controllate garantiscono l’occupazione, secondo i bilanci depositati, ad un numero di dipendenti che risulta pari a zero. 153


Sono esattamente le quattro MDP holding che fanno il “Totale” della partecipazione del 33,5% in NTV, ma con quote tutte diverse: la Uno con il 18,96%, la Due con il 9,27%, la Tre con il 5,21% e la Quattro con il 5,00%. I tre grandi imprenditori sono partiti nel dicembre 2006 con il 95% di una società con un capitale di 1 milione di euro. Grazie al “pacco dono” di Bianchi, Di Pietro, Bersani e di tutti i ministri del governo Prodi, la scatola vuota è stata riempita e già nel 2008 il regalo ha consentito di fare affari straordinari con gli aumenti e la rivalutazione del capitale investito. Nel 2010, ad ancora un anno dall’inizio della gestione del servizio, dal 95% di una scatola vuota con un capitale di 1 milione di euro scendono al 35,5%, ma in una società con un patrimonio netto di 264 milioni di euro. Per questi campioni degli affari senza rischi, l’interesse per la gestione del servizio è pari a zero. L’affare, prima ancora dell’avvio del servizio, è già stato realizzato. Le MDP Uno, Due, Tre e Quattro sono pronte a passare di mano e fare incassare ai campioni del made in Italy ulteriori plusvalenze del “pacco dono” fatto loro da un governo con un presidente del Consiglio già Garante dell’Alta velocità, un ministro dello Sviluppo economico paladino della concorrenza, un ministro dei Trasporti comunista contrario alle privatizzazioni e da un ministro delle Infrastrutture alfiere della legalità. NTV con 25 nuovi treni Agv (Automotrice à grande vitesse) della Alstom, italiani solo nel nome, “Italo”, e nella livrea, “rosso ferrari”, dalla fine del 2011 inizierà ad offrire il servizio sulle direttrici più convenienti coprendo circa il 70 per cento delle corse offerte nel 2010 da Trenitalia; l’azienda di Stato - nello stesso momento - si presenterà con una flotta di 60 ETR 500, 29 ETR 400 e 19 ETR 600 (il nuovo pendolino prodotto ed acquistato sempre dalla Alstom). Trenitalia offrirà il servizio AV con una flotta di 108 treni per coprire tragitti di circa il 30 per cento superiore a quello coperto da NTV con una flotta di 25 treni. Nonostante che i numeri dicano chiaramente quali saranno i costi di gestione e manutenzione delle flotte e quali potranno es154

sere i ricavi delle due aziende in competizione, Trenitalia lancia nel 2010 una gara per l’acquisto di altri 50 treni superveloci che dovrebbero viaggiare a 360 chilometri l’ora. La gara sarà vinta dalla multinazionale canadese Bombardier con al rimorchio la AnsaldoBreda. Contro l’aggiudicazione ricorrerà in tribunale la Alstom con il risultato di ritardare ancora l’arrivo dei nuovi treni inizialmente previsto per il 2013. I primi due o tre “Zephiro”, il nome del nuovo treno che dovrebbe affiancare il Frecciarossa, andrà bene se arriveranno nel 2014, quando i bilanci di Trenitalia avranno già accumulato un buco insostenibile. C’è solo da augurare ai ministri che nel 2007 hanno confezionato il “pacco dono” a NTV, ed a quelli che nel 2010 hanno consentito una spesa pubblica miliardaria per una fornitura inutile, di essere su quelle stesse poltrone quando il governo in carica dovrà decidere, come avvenne per l’Alitalia, i destini della nostra compagnia di bandiera delle ferrovie.

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LA TANGENTOPOLI DELLO STATO POST-KEYNESIANO Dai ladri ai mariuoli del modello Tav È stato pubblicato nel febbraio del 1950. L’autrice era morta sette anni prima e si chiamava Simone Weil. Il titolo non poteva essere più esplicito: “Manifesto per la soppressione dei partiti politici”.1 Uno dei maggiori intellettuali del ventesimo secolo, André Breton, così ne commentava il contenuto: «Contro l’esercizio della servilità e le forme aggressive a cui essa dà origine, è giunta l’ora che si contino coloro che stimano, con Simon Weil, che la soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro. Inutile dire che questa soppressione (è il motivo per cui preferisco l’espressione messa al bando) non potrà, pena uno snaturamento assoluto, risultare da un atto di forza: non può che concepirsi al termine di un’impresa, abbastanza lunga, di disincanto collettivo». Simone Weil sosteneva la tesi che i partiti sono strutturalmente ladri di verità e di giustizia. Il suo ragionamento aveva tratti di nobiltà e aveva poco a che fare con le miserie della cronaca quotidiana dei partiti di oggi. La sua riflessione era dedicata prevalentemente al meccanismo di oppressione spirituale e mentale che il partito esercita sull’individuo. La portava però a trarre conclusioni che andavano ben oltre la dimensione dell’individuo ed a proporre una visione dei beni collettivi straordinariamente profetica: «I partiti sono un meraviglioso meccanismo in virtù del quale, in tutta l’estensione di un Paese, non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo di discernere, negli affari pubblici, il bene, la giustizia, la verità. Ne ri1

. Simon Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Castelvecchi Editore, 2008. 157


sulta che – eccezione fatta per un piccolo numero di coincidenze fortuite – vengono decise e intraprese soltanto misure contrarie al bene pubblico, alla giustizia e alla verità. Se si affidasse al diavolo l’organizzazione della vita pubblica, non saprebbe immaginare nulla di più ingegnoso. Se la realtà è stata un po’ meno cupa, questo è accaduto perché i partiti non avevano ancora divorato ogni cosa. Ma è stata realmente un po’ meno cupa? Non era cupa esattamente quanto il quadro qui delineato? La Storia non l’ha mostrato?». Certo, i partiti non sono stati solo questo; in alcuni casi sono stati anche meccanismi straordinari di acculturazione o di liberazione ma, sui tempi lunghi della storia, Simone Weil forse aveva ragione. Oggi comunque possiamo dirlo: i partiti sono diventati meccanismi di occupazione delle istituzioni e delle società pubbliche, nelle quali divorano risorse e beni pubblici. Sono loro i ladri di tutto, ad Alta velocità di nome e di fatto nel caso qui descritto, perché proprio questa Grande Opera è la rappresentazione più calzante dei modi e degli strumenti con i quali le oligarchie dei partiti di oggi, con le loro corti di produttori postfordisti e di boiardi postkeynesiani, ci rubano tutto. Ci hanno rubato anche la storia vera di questa costosissima infrastruttura, seppellendo la bugia clamorosa che era alla base della sua architettura finanziaria, insieme alle colpe di chi l’ha definita, gestita, coperta o ignorata per molti anni. La bugia però si è diffusa insieme all’architettura che la occultava con la locuzione magica del project financing, diventando un modello, il “modello TAV”, replicato con una progressione geometrica. L’eredità della bugia seppellita è nota e già pesa nelle casse pubbliche. Solo il tempo ci dirà quando le casse pubbliche non potranno più sopportare il peso delle eredità delle migliaia di bugie nascoste nei modelli replicati. I ladri ad Alta velocità non commettono reati, non sono perseguibili per i furti che quotidianamente ci sottraggono ingenti risorse pubbliche ma anche verità, informazione, democrazia. Ci hanno rubato anche la politica, ci hanno scippato i partiti, 158

lo strumento, indefinito, che l’articolo 49 della Costituzione mette a disposizione dei cittadini “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Un profeta disarmato, dal suo stesso partito, già trenta anni fa aveva lucidamente descritto questo furto: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero». Il profeta era Enrico Berlinguer, che ci consegnò una nitida fotografia dei ladri in una celebre intervista rilasciata il 28 luglio 1981 ad Eugenio Scalfari. Il tema trattato in quell’intervista fu archiviato come la “questione morale”. Ripescata di tanto in tanto è stata progressivamente distorta e semplicisticamente associata al tema della corruzione. Ma quella posta e lucidamente decritta in quella intervista era una questione ben più importante: «I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali (...). Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le operazioni che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente e del clan cui si deve la carica.» Questa è l’occupazione che oggi possiamo concretamente misurare. Quella posta era più propriamente la “questione democratica”, che il modello TAV oggi ci ripropone in termini ben più gravi di quelli che potevano essere letti trenta anni fa. Le vicende che la cronaca quotidiana oggi ci racconta, la casa o la banca del politico di turno, la escort o i lavori per il boiardo di Stato, ci parla non più di ladri ma di semplici marioli che popolano partiti di plastica intenti ad occupare strutture e società pubbliche, lucrando favori o anche solo semplici privilegi. I par159


titi modello TAV sono diventati strutture private, gestite da privati, a tutela dell’interesso privato, popolate da occupanti ed occupati disseminati nelle strutture pubbliche e parapubbliche. La questione democratica risiede soprattutto nella cattura delle istituzioni e delle risorse pubbliche da parte di una partitocrazia veicolata da partiti virtuali, senza alcun vincolo normativo. Anche questo era stato detto: «La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto-boss. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e luoghi». La questione morale è la tangentopoli senza tangenti, è il furto legalizzato dei beni pubblici, è il modello TAV.

La Tangentopoli postfordista e postkeynesiana Alla diffusione del modello TAV non sono estranei i processi di ristrutturazione che hanno investito gli apparati produttivi nell’era della cosiddetta globalizzazione. La rappresentazione più efficace che ne è stata fornita è la trasformazione della struttura “piramidale” della impresa fordista in una organizzazione che assomiglia sempre di più ad una enorme “ragnatela” di attività e cicli di lavorazione dispersi nello spazio e legati fra di loro da una miriade di appalti e subappalti. La grande impresa fordista, gerarchica e rigida, implosiva e radicata nel territorio, è diventata una grande impresa “virtuale”, piatta e flessibile, dispersa e senza radici, un’enorme ragnatela composta da tante ragnatele sempre più piccole. Al vertice c’è il ragno più grande, che sceglie di volta in volta i ragni ai quali appaltare lavori e servizi, i quali a loro volta sono lasciati liberi di subappaltare le stesse attività a ragni sempre più piccoli, e così via fino al singolo artigiano, o al lavoratore 160

autonomo, o atipico, o interinale, o in grigio, o in nero. Un tratto fondamentale dei moderni modelli di organizzazione dell’impresa è l’enorme distanza che si frappone fra il capitale ed il lavoro vivo nelle forme declinate durante l’era del capitalismo regolato e condizionato dalla divisione in blocchi prima del crollo del muro di Berlino. Ma questa distanza è resa possibile soprattutto da un altro carattere fondamentale di questo processo di scomposizione: la “fuga dalle regole”. È la legalità, storicamente determinata da quel modello (nei contratti collettivi di lavoro) e dal welfare (nelle leggi e strutture di sostegno) che proprio quel modello consentiva ed alimentava, che viene progressivamente demolita, prima con prassi atipiche, poi con nuove norme che le legalizzano. È la straordinaria frantumazione dell’impresa fondata sul lavoro dipendente a tempo indeterminato, sul quale si fondava la raccolta di risorse certe e controllabili, che ha contribuito a determinare la crisi dello Stato sociale, ridimensionando le risorse garantite dal salario indiretto. Anche nelle cosiddette politiche neoliberiste, i cambiamenti sono caratterizzati dalla “fuga dalle regole” che si erano storicamente determinate con le politiche keynesiane strettamente connesse con il capitalismo fordista. Pure in questo caso la legalità, storicamente data, viene progressivamente demolita con prassi atipiche e norme che ne conseguono per la loro legalizzazione. Il tradizionale appalto pubblico, ad esempio, viene progressivamente soppiantato da altri istituti contrattuali atipici, quali il project-financing o il general-contractor, utilizzati e sperimentati per realizzare grandi opere, e poi replicati e diffusi a livello locale per la realizzazione o la gestione di opere o servizi pubblici tout court. Alla possibilità offerta alle grandi imprese di acquisire sul mercato domestico commesse senza competizione, che aveva, con Tangentopoli, già prodotto un totale disinteresse verso l’innovazione tecnologica e l’investimento in ricerca e sviluppo, si aggiunge lo svuotamento, la parcellizzazione, la frantumazione e la dispersione dei saperi. L’ormai evidente trasforma161


zione in scatole vuote delle grandi imprese italiane rappresenta però anche un forte handicap per la qualificazione della struttura produttiva della piccola e media industria. Una grande impresa, infatti, garantita da un mercato oligopolistico e ormai priva di innovazione e organizzazione tecnologica, abbassa inevitabilmente la qualità delle relazioni industriali e scarica sulla piccola e la media impresa una competizione tutta giocata sui fattori più poveri e di basso profilo. Non è un caso che siamo il Paese con gli indici più alti di lavoro nero, lavoro grigio, lavoro precario e infortuni sul lavoro, e dove la fuga dalle regole sconfina sempre più spesso nella illegalità. Se la fuga dalle regole e l’illegalità sono ciò che caratterizza maggiormente i processi di ristrutturazione della “fabbrica” e dello “Stato” post-moderni, anche i sistemi di corruzione non possono non registrare nuove forme o modelli di funzionamento. Il sistema illegale di Tangentopoli, così, tende verso una sorta di legalizzazione. Apparentemente un paradosso, in realtà una conseguenza del tutto logica. Il sistema di Tangentopoli poggiava su due pilastri nettamente distinti: il sistema delle imprese e il sistema dei partiti, i quali, con una transazione occulta e giustapposta ai rapporti fra Stato e mercato, orientavano la gestione degli investimenti per lavori e servizi pubblici. Vi era poi un terzo soggetto, che svolgeva il ruolo di intermediario, e cioè i cosiddetti tecnici (interni ed esterni alla pubblica amministrazione), incaricati del controllo tecnico-amministrativo della relazione contrattuale che garantiva i flussi economici necessari per la copertura delle varianti o integrazioni da loro attestate. Alcuni magistrati, non a caso, definirono quello di Tangentopoli come “sistema della triangolazione”. I pesi ed i caratteri dei protagonisti potevano anche essere differenti nei diversi contesti economici e territoriali, ma i ruoli erano comunque definiti: di indirizzo e di controllo quello dei partiti, di coordinamento e gestione quello delle imprese, di intermediazione e validazione quello dei tecnici. 162

Oggi la pratica della corruzione (non riferita allo specifico reato, ma intesa in senso lato) permea in modo più strutturale e pericoloso la pubblica amministrazione, e comunque richiede nuovi e più raffinati paradigmi di indagine e di lettura. Il reato di corruzione, e cioè il reato che in modo prevalente ha caratterizzato le indagini di Mani pulite, non è più quello che caratterizza la relazione illecita fra politica e affari e, soprattutto, sono venuti meno i presupposti per la sua contestazione. Con i cambiamenti intervenuti nel contesto produttivo e di mercato, i corruttori (il sistema delle imprese di Tangentopoli), nella nuova condizione soggettiva (l’organizzazione postfordista), si sono anche adattati alle nuove “regole”, di mercato e contrattuali, determinate dalle politiche di privatizzazione e/o liberalizzazione del cosiddetto Stato postkeynesiano. Gli stessi tecnici hanno mutato la loro posizione di semplici intermediari, assumendo un ruolo di diretti interlocutori della “collusione tangentizia senza tangenti”. La totale disapplicazione delle norme sulle incompatibilità e ineleggibilità ha favorito e sollecitato una presenza più diretta dello stesso mondo degli affari nella politica e nelle istituzioni. Non di meno, il clamoroso ed irrisolto tema del conflitto di interessi ai massimi vertici del governo del Paese ha favorito la rimozione del tema e la diffusione di questo fenomeno anche a livello locale. Di più, grazie ad un sistema dei partiti senza alcuna regola, il mondo delle imprese e degli intermediari ha potuto sfornare attori della politica, con imprenditori e tecnici che entrano direttamente nel sistema dei partiti e con essi invadono ed occupano le istituzioni. La scomparsa dei partiti della cosiddetta “prima repubblica” (i più colpiti dalla contestazione del reato di corruzione) ha spinto i tecnici, prima semplici mediatori, ad assumere un ruolo di protagonisti attivi nel rapporto col mondo delle imprese, anche per proprio conto. D’altro canto proprio questo attestano le ripetute denunce del procuratore generale della Corte dei conti in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, in 163


questi ultimi anni: i reati contro la pubblica amministrazione aumentano, ma in questi sono sostanzialmente assenti i politici in senso stretto, mentre ne risultano investiti quasi esclusivamente i cosiddetti boiardi di Stato. Paradossalmente, il ruolo di intermediazione parassitaria è passato nelle mani dei partiti post Tangentopoli, organizzazioni virtuali, ragnatele di vassalli del boss che si intrecciano con quelle di imprenditori postfordisti e boiardi postkeynesiani. I tratti di illegalità che caratterizzano questo nuovo equilibrio sono stati oscurati o rimossi anche grazie alla sostanziale depenalizzazione dei due reati che erano strettamente collegati a quello della corruzione: il falso in bilancio (per gli imprenditori) e l’abuso di ufficio (per i politici e i tecnici). In virtù di questo modello, però, diventa anche impossibile perseguire il reato di corruzione, venendo a mancare il presupposto per la sua contestazione, quello della qualifica di “pubblico ufficiale” o di “incaricato di pubblico servizio”, che costituisce la premessa per la contestazione dei reati contro la pubblica amministrazione. Queste qualifiche scompaiono infatti o si perdono nel mare magnum delle società di diritto privato e nel sistema di istituti contrattuali con i quali si privatizzano anche le funzioni della committenza pubblica.

Il debito pubblico e le politiche keynesiane alla rovescia La profonda mutazione nel rapporto fra pubblico e privato è stata favorita anche dai convulsi cambiamenti normativi che regolano il funzionamento e i ruoli nella pubblica amministrazione. Le norme, ad esempio, per la dirigenza e per lo spoil system nella pubblica amministrazione, quelle per le privatizzazioni dei servizi pubblici economici, quelle per l’affidamento di appalti pubblici, per citare solo i casi che più direttamente hanno consentito o addirittura stimolato la diffusione 164

del modello TAV nella gestione della spesa pubblica. Le leggi e i provvedimenti assunti su questi temi, spesso concepiti e definiti con l’obbiettivo di contrastare la corruzione o rendere più efficiente la gestione della spesa pubblica, si sono invece rivelati veicoli essenziali per garantire la costruzione di un nuovo equilibrio corruttivo fra il mondo degli affari e quello della politica, adattato ai cambiamenti che si sono prodotti nella fabbrica e nello Stato. Alla separazione della responsabilità politica da quella tecnico-amministrativa, introdotta per contrastare la corruzione del politico attraverso la firma condizionante del tecnico, si è giustapposta una riforma della dirigenza nella quale lo spoil system non comporta la rescissione del contratto di dirigente ma solo il cambiamento della funzione assegnata. In questo modo i contratti di dirigente nella pubblica amministrazione si sono moltiplicati a dismisura e restano contratti a vita anche quando il governo o la giunta di turno decide con lo spoil system di non assegnare alcuna funzione. Nelle polemiche sul lavoro nel pubblico impiego sono stati coniati diversi appellativi ad effetto. Fra questi quello di “nulla facenti”. Bene, c’è solo una fascia di lavoratori nel pubblico impiego per la quale l’uso di questo appellativo può avere un riscontro oggettivo, in tutti gli altri casi invece è comunque arbitrario. Solo nella fascia dei dirigenti pubblici è formalmente prevista la categoria, appunto, dei “nulla facenti”. Categoria che inevitabilmente si espande, tanto più quanto più frequente è il tournover dei governi o delle giunte, diventando un esercito di riserva sempre più disponibile a fornire la sua servitù al ministro o all’assessore di turno in cambio della funzione assegnata. I ruoli sono stati separati, ma la dipendenza dalla politica è diventata vassallaggio. Anche per le riforme che hanno investito la gestione dei servizi pubblici economici (acqua, rifiuti, energia, trasporti) gli effetti sono stati esattamente opposti a quelli attesi o promessi. Le finalità dichiarate erano quelle di rendere più efficiente la gestione 165


attraverso processi di privatizzazione come premessa per garantire la competizione di mercato. Grazie al mercato, e alla libera concorrenza, gli effetti promessi erano ovviamente quelli di fornire servizi migliori e con prezzi competitivi che il monopolio pubblico non poteva garantire. Le riforme per la liberalizzazione dei servizi pubblici si sono tradotte invece in un puro e semplice processo di trasformazione delle aziende di diritto pubblico in società di diritto privato, nelle quali rimane pubblica la totale proprietà, o comunque il controllo pubblico, ma alle quali la gestione dei servizi continua ad essere affidata senza alcuna gara. Ad oggi, le riforme dei servizi pubblici hanno semplicemente prodotto: privatizzazione senza liberalizzazione. Una privatizzazione senza privati, o comunque con una presenza pubblica nella proprietà sempre maggioritaria, alla mercé dei partiti per la lottizzazione di presidenti, Consigli di amministrazione e Collegi sindacali, quando non si arriva a spartire anche le assunzioni di personale. Una sorte non migliore è occorsa alle norme che regolano gli appalti pubblici per lavori, servizi e forniture. Sembra passato un secolo dal dibattito che accompagnò la definizione della Legge quadro sui lavori pubblici, n. 109/94, cosiddetta Merloni, e cioè il primo e unico tentativo di farla finita con la Tangentopoli scoperchiata all’epoca dalle numerose indagini della magistratura. Quella legge fu la sintesi di un ampio confronto, di approfondite indagini, di numerose audizioni e di diverse proposte di legge di iniziativa parlamentare. Nella sua versione originaria, tradusse questo lavoro in alcune condizioni essenziali imposte alle amministrazioni pubbliche per l’affidamento di un appalto: la previsione urbanistica e la programmazione dell’opera; la definizione di un progetto esecutivo; l’effettiva disponibilità delle risorse necessarie per la sua realizzazione; il divieto di esternalizzare le funzioni tipiche del committente, con l’esplicita cancellazione della concessione di committenza. L’allentamento di questi vincoli è iniziato con la Legge 216/1995, la cosiddetta Merloni bis, ed è proseguito con la 166

Merloni ter e ancora con la quater e con altre norme di modifica contenute in decine di leggi e decreti, prima e dopo la emanazione del Codice unico dei contratti pubblici, con il D.lgs. 163/2006. I principi che erano stati posti a base della Merloni originaria sono stati completamente stravolti fino al punto che le norme oggi consentono di praticare l’esatto opposto di quello che ispirò il legislatore del 1994. Da un contesto normativo nel quale l’amministrazione aggiudicatrice era di fatto vincolata all’affidamento di “contratti di appalto di sola esecuzione”, siamo passati a un sistema di norme che consentono di ricorrere a istituti contrattuali attraverso i quali si attua una sostanziale esternalizzazione di tutte o di gran parte delle funzioni tipiche della committenza. Istituti nei quali la privatizzazione della progettazione, della designazione dell’impresa, della direzione dei lavori e, nel caso del contratto di concessione, della gestione dell’opera non è però mai accompagnata ad alcun rischio di mercato in capo allo stesso soggetto privato. I poteri e le scelte si trasferiscono in capo ai privati, o nel diritto privato, ma i rischi e relativi oneri rimangono sempre e per intero in capo al soggetto pubblico. Con le modifiche del quadro normativo, quello della “TAV SpA” dunque è diventato un “modello” imitato e replicato anche a livello locale, con società di diritto privato, SpA o Srl, che si sono moltiplicate con una progressione impressionante; senza parlare della concorrenza sleale nei confronti degli operatori economici che ancora confidano in un mercato libero e competitivo. Le società, promosse o controllate dalle Regioni e dagli Enti locali, sfuggono all’applicazione delle norme del diritto pubblico o producono comunque una privatizzazione della spesa di denaro pubblico. Stiamo parlando di una marea di attività controllate, determinate o gestite da presidenti e Consigli di amministrazione “nominati”, e nelle quali il ruolo e i rapporti fra politici, tecnici e imprenditori si confondono, in un magma economico tale da fare invidia a quelli dei paesi del socialismo reale, se ancora fossero in vita. 167


Le “TAV SpA” replicate a livello locale possono egualmente praticare il “modello TAV” dei debiti a “babbo morto”, grazie alla modifica della definizione del contratto di concessione (Merloni quater, 2002), che oggi consente - con il cosiddetto project-financing - di sostituire il corrispettivo tipico della concessione, dato dal “diritto di gestire” l’opera o il servizio, con un “prezzo” totalmente garantito dal committente pubblico. Con il modello TAV si realizza la combinazione perversa fra la privatizzazione della committenza pubblica e la finzione del finanziamento privato, con il risultato di realizzare opere di pessima qualità a costi più alti, e di propiziare la produzione di debiti futuri. La catena perversa, l’abbiamo visto, è sempre la stessa: il committente pubblico affida in “concessione” la progettazione, costruzione e gestione dell’opera pubblica ad una società di diritto privato (SpA), ma con capitale tutto pubblico (TAV SpA appunto, ma pure Stretto di Messina SpA o Quadrilatero SpA, per restare nell’ambito delle grandi opere). Ma è proprio a carico di questo concessionario di diritto privato, il cui capitale è tutto pubblico, che rimane il rischio della “gestione” e dunque del cosiddetto project-financing (debiti a babbo morto) adottato per la realizzazione dell’opera. La SpA pubblica serve solo per millantare il finanziamento privato (prestiti o prodotti finanziari garantiti dai soci pubblici della SpA) e per garantire al contraente generale, che è il soggetto privato vero e proprio, il pagamento per intero e subito del costo della progettazione e della costruzione, mentre mantiene per sé (e cioè al pubblico) il rischio della gestione (ovvero i debiti futuri). Siamo dunque all’esatto ribaltamento delle politiche keynesiane del secolo scorso. Col modello TAV infatti, prima si consegnano soldi e affari alle imprese, e poi si chiede ai cittadini di ripianare il debito: un Keynes alla rovescia, si dà ai ricchi e si fa pagare ai poveri.

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Il debito occulto e la catastrofe prossima ventura La diffusione del cosiddetto project-financing e delle società di diritto privato controllate o partecipate dalle Regioni e dagli Enti locali, con le quali le politiche keynesiane capovolte stanno proliferando a livello locale, è semplicemente incredibile. Stiamo parlando non di qualche decina di miliardi di euro, bensì di centinaia di miliardi di debiti che si sono già accumulati e che emergeranno solo fra qualche anno nei bilanci correnti dello Stato e degli Enti locali che si sono avventurati in queste operazioni. Diffusione di nuovi istituti contrattuali atipici ed esplosioni di società di diritto privato controllate direttamente o indirettamente dal pubblico stanno scavando una voragine nei bilanci futuri, tutta ancora da misurare, ma che non tarderà a produrre i suoi effetti. Da un contesto (quello della cosiddetta “prima repubblica”) nel quale lo Stato aveva fondato Enti e Istituti pubblici controllati e regolati per legge (qualche decina) e gli Enti locali più significativi gestivano alcuni servizi pubblici con aziende di diritto pubblico (qualche centinaio) regolate per legge, siamo passati ad un contesto che, pur in assenza di dati precisi, può essere stimato in un migliaio di SpA o Srl controllate direttamente o indirettamente dallo Stato, ed oltre ventimila SpA o Srl controllate direttamente o indirettamente dalle Regioni e dagli Enti locali. Due soli esempi, uno statale ed uno locale, giusto per comprendere la dimensione delle opportunità che queste società offrono al sistema dei partiti senza regole. L’Ente Nazionale per le Ferrovie dello Stato, “Ente” appunto regolato e gestito in base ad una legge dello Stato e nel rispetto delle norme sulla contabilità pubblica, viene trasformato nel 1994 in società di diritto privato, FS SpA. L’Ente nel 1991 aveva il controllo di due sole società, costituite grazie ad altrettante leggi che avevano autorizzato l’Ente in tal senso: Italferr SpA e TAV SpA. Nel 2010, FS SpA è una holding che esercita il con169


trollo su 59 società, nelle quali le nomine dei presidenti, dei Consigli di amministrazione e Collegi sindacali sono formalmente sotto il controllo esclusivo di FS SpA: circa 350-400 nomi, gestiti dal presidente e dall’amministratore delegato pronti a raccogliere i “suggerimenti” del ministro o del sottosegretario anche per garantire la nomina di loro stessi. Nei servizi pubblici locali, un esempio è quello di Hera SpA, società oggi quotata in borsa. Nel 1999 l’AMIU, azienda municipalizza dell’igiene urbana di Bologna, e ACOSER, azienda consortile per i servizi gas e acqua di gran parte dei comuni della provincia di Bologna, si fondono dando vita a SEABO SpA. Negli anni successivi la nuova società promuove la fusione con società analoghe nate anch’esse da ex aziende municipalizzate nelle province limitrofe, fino alla nascita di Hera SpA. La società oggi gestisce servizi pubblici in un territorio che dieci anni prima vedeva la presenza di 8 aziende municipalizzate o consortili che, per legge, avevano Consigli di amministrazione composti ciascuno da 5 persone, tutte scelte, per legge, con procedure pubblicistiche e con voto segreto espresso dai singoli consiglieri comunali su di un solo nome. Oggi Hera SpA è una holding che gestisce le nomine degli organi di 12 società partecipate e di 37 società controllate. Siamo passati da 8 aziende che comportavano la nomina di 40 persone con procedura pubblicistica, voto segreto e gettoni definiti per legge, a ben 50 società ed alla cooptazione di 250-300 nomi senza alcuna procedura trasparente e con laute indennità definite dagli stessi Consigli di amministrazione. La società capogruppo vede un CdA composto da 21 consiglieri, di cui 18 cosiddetti indipendenti, impegnati solo nella partecipazione alle riunioni dell’organo. Nella relazione sulla attività della società per il 2009 si dà conto dello svolgimento di dieci riunioni del CdA con una durata media di due ore. L’indennità erogata a ciascun consigliere, presente o non presente alle riunioni, è stata di 100.000 euro: 5.000 euro all’ora per il consigliere presente a tutte le riunioni, 25.000 euro all’ora per il consigliere presente 170

a due riunioni. I casi FS SpA ed Hera SpA sono più o meno rappresentativi delle centinaia di aziende che fanno capo allo Stato e delle migliaia che fanno capo agli Enti locali. Stiamo parlando di società che operano in un regime di diritto privato, che tendono ad essere fuori dalle regole e dal controllo della contabilità pubblica. Di società con attività economiche controllate, determinate e gestite da presidenti e Consigli di amministrazione nominati dai partiti, da questi partiti, e nelle quali il ruolo e i rapporti fra politici, tecnici e imprenditori si confondono e diventano sempre più intercambiabili e intercambiati. Di società dove la spesa pubblica non è pilotata dalla transazione occulta della tangente, ma è diventata puramente e semplicemente carne di porco azzannata senza intermediazioni dalle oligarchie della partitocrazia senza partiti e dalle élite del mondo degli affari senza imprese. Dalla seconda metà degli anni 2000 in tutte le relazioni annuali della Corte dei Conti ed in quelle di quasi tutte le Sezioni regionali questo fenomeno è evidenziato in modo drammatico; una per tutte, quella delle Marche del 2008: « Numerose indagini si sono incentrate sugli sprechi nelle società partecipate, sprechi che stanno purtroppo assumendo una dimensione di assoluto rilievo. Una parte degli analisti ha ormai raggiunto il convincimento che le società partecipate rappresentino una vera e propria aggressione alla libera concorrenza dei mercati, non incrementino l’efficienza della spesa pubblica, non migliorino la qualità dei servizi, favoriscano il ricorso a modalità clientelari nella gestione e nelle assunzioni del personale. (...) Gli effettivi poteri di governo dei servizi pubblici vengono inesorabilmente trasferiti alle società partecipate, con alterazione della trasparenza democratica conseguente al forte rischio (se non alla certezza) di una perdita di ruolo dell’amministrazione conferente nella definizione degli standard operativi e dei livelli di costo, destinati quest’ultimi ad incrementarsi secondo dinamiche esponenziali non coerenti con le logiche del bilancio pubblico». 171


Secondo i dati delle Camere di Commercio, i bilanci depositati nel 2008 dalle società che vedono la partecipazione dei Comuni sono 6.134. Il numero però riguarda le società che vedono una partecipazione diretta dell’ente pubblico, non ci dice quante sono le società che queste stesse controllano. Secondo un’indagine dell’AidaPa,2 relativa ai 20 Comuni capoluogo di regione, le società direttamente partecipate sono 282, mentre quelle direttamente e indirettamente controllate o partecipate sono 1103. Il numero complessivo delle società di diritto privato controllate o partecipate direttamente e indirettamente dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni è stimabile in non meno di 20.000, a garanzia delle poltrone per ventimila presidenti, per almeno centomila consiglieri e per sessantamila revisori. A contrastare questo fenomeno ci hanno provato due ministri, gli unici che almeno hanno mostrato consapevolezza sulla delicata situazione della finanza pubblica prodotta da queste società. Ci hanno provato, ma con i buoi già fuori dalla stalla, ed i colleghi bovari che remano contro, i loro provvedimenti non hanno prodotto alcun risultato, quando non hanno provocato effetti addirittura opposti a quelli auspicati. Ci ha provato il ministro Pierluigi Bersani con l’articolo 13 del decreto Legge n. 223/2006, la famosa lenzuolata sulle liberalizzazioni. Il decreto stabiliva che tutte le società, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali “(...)non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società ed enti”. La immediata mobilitazione dei bovari delle ex aziende municipalizzate, sponsorizzati da una collega di governo dello stesso partito del ministro, già con la Legge di conversione, n. 248/2006, ottenevano la esclusione della applicazione della norma “alle società operanti nei servizi pubblici locali”, circa 2

. “Pagella ai Comuni-holding”, Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2011.

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il quaranta per cento in numero e circa l’ottanta per cento per il volume d’affari. I giudici del Consiglio di Stato sono intervenuti diverse volte sui tentativi di elusione della norma Bersani. Nella adunanza plenaria n.1/2008 ci consegnano questa lettura delle finalità del divieto sancito dalla norma: «Il divieto rimarca la differenza tra concorrenza “per” il mercato e la concorrenza “nel” mercato disvelando le sue plurime rationes essendi: tutela dell’imprenditoria privata e della leale concorrenza, repressione della greppia partitica e burocratica». Che l’obbiettivo della norma, anche nelle intenzioni del ministro, fosse anche quello di ridimensionare le opportunità per la greppia è certamente credibile, ma il risultato è stato esattamente quello opposto. La norma, stante il fatto che nessuna delle società interessate è stata sciolta o ceduta a terzi, ha prodotto un aumento della spesa pubblica, in quanto chiamata a garantire i fatturati che queste società, per la verità una parte poco significativa, acquisivano nel libero mercato. Ha prodotto anche, proprio nelle poche società che esprimevano una discreta vitalità nel mercato dei servizi, ed una relativa autonomia dal sistema della lottizzazione partitocratica, un processo di omologazione, con la riconduzione delle stesse nell’alveo delle società protette, garantite e lottizzate. Le greppie partitiche e burocratiche sono rimaste sostanzialmente le stesse ma oggi sono alimentate da una quantità di “fieno” a dir poco tre, quattro volte maggiore. È successo infatti che, mentre con il comma 720 dell’unico articolo della Legge finanziaria per il 2007 si ammorbidiva ulteriormente l’art. 13 della Legge Bersani, al comma 725 si introduceva una norma sui compensi per i presidenti e, per la prima volta, si generalizzava la attribuzione di indennità a tutti i componenti dei consigli di amministrazione. Una sorte non migliore è occorsa anche al tentativo del ministro Tremonti, anche lui ci ha provato con un Decreto legge, n. 78/2010, in origine ancora più draconiano: sanciva il divieto 173


di costituire società per i comuni con popolazione sotto i 30.000 abitanti e la possibilità di detenere la partecipazione in una sola società per i comuni fino a 50.000 abitanti. La scadenza per ottemperare alla prescrizione era fissata al 31.12.2010. Anche in questo caso, grazie alla mobilitazione del partito di governo più vicino al ministro, la norma viene subito depotenziata. Già con la Legge di conversione, n. 122/2010, la scadenza viene spostata al 31.12.2011 e la effettiva applicazione viene demandata ad un decreto interministeriale per la definizione delle modalità attuative “nonché ulteriori ipotesi di esclusione dal relativo ambito di applicazione”. Solo qualche mese dopo, nel febbraio 2011, con la conversione in legge del Decreto “mille proroghe” la scadenza slitta di altri due anni e viene fissata al 31.12.2013, offrendo ai bovari il tempo necessario per intervenire con qualche altro provvedimento per cancellare anche questa tiepida norma.

Corruzione liquida e partiti catalizzatori di illegalità Nel febbraio 2010 i Magistrati fiorentini, nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere dei protagonisti del sistema di corruzione connesso con la realizzazione delle opere per il G8, prendono a prestito la definizione che gli stessi protagonisti danno del nuovo sistema: «(..) il delitto oggi contestato e in relazione al quale si richiede la maggiormente afflittiva tra le misure cautelari, maturata nell’ambito di un sistema non a caso definito “gelatinoso” non dagli inquirenti ma da alcuni degli stessi protagonisti di tale inquietante vicenda di malaffare, che ben potrebbe essere ribattezzata “storia di ordinaria corruzione”». La definizione ancora più calzante del nuovo sistema di corruzione, viene proposta dagli stessi magistrati fiorentini nel febbraio 2011 quando firmano la richiesta di rinvio a giudizio 174

di Salvatore Ligresti, dell’ex assessore Graziano Cioni ed altri per l’affare dell’area Castello a Firenze. L’atto di accusa, passa sotto silenzio. Fra i pochi commenti apparsi nella stampa nazionale, quello di un giornalista di lungo corso ne coglie la novità e ce ne offre una sintesi straordinariamente efficace: «Archiviata la classica “mazzetta”, italico reperto storico armai praticato soltanto ai bassi livelli, è adesso la “corruzione liquida” che furoreggia nelle alte sfere. La mazzetta è riservata all’usciere o all’impiegato di concetto che fa saltare una fila o mette in vista una pratica in cima alle altre. Per il resto, non più volgari passaggi di banconote come quei milioni di lirette che Mario Chiesa, il nonno di tangentopoli (...). Ma appalti truccati, incarichi, consulenze, assunzioni, nomine, carriere, favori, case, gioielli, festini, escort. L’inventiva della nuova corruzione sembra non avere limiti quando capita che qualche serata di sesso venga ricompensata con una poltrona ministeriale, un seggio in parlamento o in consiglio regionale (...). Non classiche mazzette, ma un lavoro in Fondiaria Sai per il figlio di Cioni, un appartamento per un’amica dell’assessore e altri vari benefici, tipo quelli cui ci ha abituato lo scandalo della Protezione civile con le case, le consulenze, gli arredi e i massaggi del sottosegretario Bertolaso, fanno coniare ai pm fiorentini la tipologia della “corruzione liquida” per sostenere nell’udienza preliminare anche le accuse di concussione e turbativa d’asta». 3 Proprio così, il modello TAV consente alla corruzione di assumere la forma del contenitore della spesa pubblica che di volta in volta ospita il politico o il boiardo di turno. La corruzione liquida però è il portato inevitabile di un’altra liquidità, quella dei partiti postmoderni. Il sistema delle mazzette era governato da partiti solidi, nei quali i “tesorieri” controllavano il flusso delle tangenti per il 3

. Alberto Statera, “Le mazzette sono fuori moda. Tra carriere, case, escort la corruzione è liquida”, la Repubblica, 14 febbraio 2011 175


finanziamento occulto. Non a caso, nel processo per la madre di tutte le tangenti, ad essere condannati, oltre ad alcuni segretari, sono stati tutti i tesorieri dei partiti dell’epoca compreso quello del neonato partito della Lega Nord. I partiti liquidi della seconda repubblica, senza forma, senza regole, senza tesorieri, non hanno più l’esigenza del finanziamento occulto, la loro massa gelatinosa si adatta e occupa tutte le pieghe dei contenitori della spesa pubblica: in prima persona col saccheggio dei bilanci dello Stato e degli Enti Locali e, sempre di più, con la maschera di soggetti privati nel cosiddetto project financing e nelle società di diritto privato controllate da soci pubblici. Le forme solide dei Partiti della prima repubblica si sono tramutate in masse fluide che si adattano ai contenitori istituzionali o societari della spesa pubblica: « e i “fluidi” sono chiamati così perché non sono in grado di mantenere a lungo una forma, e a meno di non venire versati in uno stretto contenitore continuano a cambiare forma sotto l’influenza di ogni minima forza. In un ambiente fluido, non si sa se attendersi un’inondazione o una siccità, sarebbe meglio esser pronti a entrambe le eventualità». 4 Secondo il filosofo della “modernità liquida”, la società liquida è però prigioniera del presente, le sue élite sono senza rotta, navigano a vista, invadono tutte le pieghe del potere rimanendo prigioniere della loro forma. Uno storico dell’età antica, sulla natura del potere contemporaneo, ci propone questa dicotomia: « L’idea che “il potere” stia, da qualche parte, remoto, invisibile, inattingibile ma influentissimo, e quella opposta, secondo cui esso è, invece, incarnato dai quotidianamente visibili e imperversanti “potenti” (che ogni giorno ci ricordano, o forse ci rinfacciano, di averli eletti) hanno, ancorché contrastanti, entrambe larga diffusione». La risposta dello storico è proposta con una domanda

retorica: «O la competizione fra le due sfere – potere visibile e potere remoto – trova alla fine il suo (imprevisto) inveramento nella pervasiva corruzione della politica, sospinta gagliardamente sul terreno affaristico?».5 Il modello TAV è la rappresentazione plastica della risposta implicita nella domanda retorica dello storico. Con questo modello, le élite della politica e degli affari hanno realizzato questo inveramento, liquido, consentendo al potere visibile e al potere remoto di integrare, intercambiare e confondere i ruoli, di sostituire la selezione delle strutture solide con la cooptazione delle formazioni liquide. Se le oligarchie “distinte” e “selezionate” della prima repubblica, nell’era di Tangentopoli, hanno prodotto fra gli anni ‘70 e ‘80 un debito pubblico arrivato al 120 per cento del PIL nazionale, quelle “integrate” e “cooptate” della seconda, col modello TAV, in poco meno di dieci anni, hanno scavato una voragine nascosta, nei project financing e nella contabilità delle società di diritto privato a capitale pubblico, ormai prossima a quella visibile nella contabilità ufficiale. Solo la diga delle bugie e del furto di verità consente di nascondere questa enorme massa liquida di debito pubblico nascosto. Una diga comunque destinata ad essere frantumata e rasa al suolo. In queste condizioni, per le strutture della società invase dal potere liquido «non c’è da aspettarsi che durino a lungo. Non sopporterebbero tutto quell’infiltrarsi, trasudare, gocciolare, versare: in breve tempo sono destinate a inzupparsi, ammollirsi, ammuffire e decomporsi.». Consola, ma è una magra consolazione il dopo di questa decomposizione: « Le autorità di oggi verranno derise o disprezzate domani, le celebrità saranno dimenticate, gli idoli che fanno tendenza saranno ricordati solo nei quiz televisivi, le novità predilette saranno gettate nella spazzatura, le cause eterne saranno cacciate a spintoni da altre cause che si proclameranno eterne anch’esse, i poteri indistruttibili si appanneranno e scom-

4

. Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, a cura di Benedetto Vecchi, Editori Laterza, 2006 176

5

. Luciano Canfora, La natura del potere, Editori Laterza, Bari 2009 177


pariranno, potenti istituzioni politiche od economiche verranno fagocitate da altre ancora più potenti o semplicemente svaniranno, titoli azionari a prova di bomba diventeranno titoli bombardati, promettenti carriere di una vita si riveleranno vicoli ciechi. Sembra di vivere in un universo di Escher, dove nessuno, in nessun punto, è in grado di distinguere una strada che porta in cima da una china discendente».6 La corruzione liquida, non per ultimo, crea anche condizioni decisamente più favorevoli per chi con l’illegalità ha un rapporto fondativo. In questo contesto le mafie e la borghesia mafiosa trovano un campo ideale di adattamento. A queste sono offerti spazi straordinari dalla frantumazione e fuga dalle regole delle imprese, dalla autoreferenzialità irresponsabile delle burocrazie, dalla presenza diffusa, confusa e mascherata del ceto politico nelle istituzioni e nelle SpA collegate, dalla assenza dei partiti nella società, ma vivi, vegeti e ben radicati nella spesa pubblica e nelle SpA lottizzate. Come si possa pensare di contrastare la corruzione o le mafie senza che vi sia la benché minima regola che indirizzi l’azione dello strumento più importante, nella nostra Costituzione, per la formazione del consenso e per il governo delle istituzioni, è forse l’inganno più devastante che può essere perpetrato nei confronti dei cittadini. Il partito, questi partiti oggi, in Italia, a fronte di una presenza abnorme sia nelle istituzioni che nell’economia, che non trova riscontro in nessun Paese al mondo, non hanno ancora una benché minima definizione giuridica, che stabilisca come si costituiscono, come vivono, come si gestiscono. Se per le istituzioni, per gli affari, per la formazione del consenso e per il contrasto alle mafie esiste un problema di applicazione efficace di regole date, o di adeguamento delle regole al mutato contesto, per i partiti esiste invece un problema puro e semplice di definizione: che cosa sono? Se i partiti della cosiddetta “prima repubblica” sono scomparsi, con loro sono scomparse anche le prassi solide che li hanno storicamente caratterizzati, gli statuti e le regole che al178

meno garantivano la partecipazione dei cittadini alla selezione delle oligarchie. Quello che la Costituzione indica come lo strumento fondamentale per la formazione del consenso e per il concorso dei cittadini al governo delle istituzioni rimane qualcosa di indefinito, con partiti che oggi sono tutto ed il contrario di tutto, e comunque pseudo-organizzazioni caratterizzate da prassi che alla selezione dal basso hanno sostituito la cooptazione dall’alto. Tutto è consentito ai mariuoli di questi partiti liquidi grazie ad un articolo 49 della nostra Costituzione che ha fissato un principio fondamentale, sul quale si dovrebbe fondare la democrazia nel nostro Paese, ma che non è mai stato tradotto in norma. “I cittadini sono liberi di associarsi in partiti politici”, sancisce la nostra Carta. Come, con quali regole e con quali garanzie di pari e trasparenti opportunità per tutti i cittadini? Non è stato mai definito, e così per i boss e sottoboss non ci sono regole da rispettare né per la fondazione né per il funzionamento delle loro camerille o federazioni di correnti. Grazie al modello TAV i partiti, con le loro corti di mariuoli, hanno radicalmente mutato il proprio rapporto con la spesa pubblica. Se prima essa era pilotata dalla transazione occulta e giustapposta della tangente, oggi la spesa pubblica stessa si è trasformata tutta in “pseudo-tangente”, con la quale un ceto politico di partiti di plastica, manager di imprese virtuali e boiardi dai facili costumi possono scambiarsi favori e ruoli senza inutili mazzette per partiti inesistenti. Nel sistema degli anni Ottanta lo scambio illecito era gestito da centri di comando occulti e comunque con pratiche “giustapposte” al normale funzionamento del sistema di relazione pubblico-privato. Nel sistema attuale lo scambio non è più giustapposto ma coincidente con la relazione economica. La “mazzetta”, definita e gestita dalla “cupola” a Milano o dal “tavolino” in Sicilia, alimentava e garantiva il funzionamento di un sistema con un sovrapprezzo di qualche dieci per cento. Il modello assunto invece dalla nuove pratiche è quello che rea179


lizza le infrastrutture per il Treno ad Alta velocità con una “tavolata” che consente di spendere cinque volte di più di quello che si spende in Spagna o in Francia per realizzare infrastrutture identiche. Se la committenza pubblica nella Tangentopoli degli anni ‘80 era eterodiretta dalla scambio dietro le quinte, oggi è occupata e gestita dai nuovi protagonisti che, come nel gioco delle tre carte, la fanno semplicemente scomparire trasferendo ruoli e risorse fuori dalle regole del diritto pubblico. Il potere liquido di questo sistema dei partiti, alleato al luogo comune secondo il quale dai partiti non si può prescindere nelle democrazie rappresentative, ostacola anche la semplice riflessione sulla opportunità o meno della loro abolizione o messa al bando. Se davvero non si possono abolire, almeno si traduca in norma il principio delineato nell’articolo 49 della nostra Costituzione. È la condizione minima anche solo per poter immaginare di contrastare la corruzione e la criminalità organizzata, di impedire lo spreco di beni e risorse pubbliche, di salvare il Paese dalla catastrofe. Senza la definizione di regole per la formazione e la gestione dei partiti, qualsiasi riforma elettorale che metta mano alle regole del consenso, o qualsiasi riforma della pubblica amministrazione che detti regole per i tecnici, i politici e i rapporti coi privati, consegnerebbe comunque il governo dei processi a questi partiti indefiniti, che - dentro e grazie al trionfante modello TAV - sono diventati, strutturalmente, catalizzatori di illegalità e ladri di risorse, ladri di democrazia e ladri di futuro: appunto, ladri di tutto.

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