Calcio 2000 n.204

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Mensile | DICEMBRE 2014 | N. 204 | Italia | Euro 3,90

Calcio 2OOO il mensile diretto da FABRIzIO PONCIROLI

Pag.18

INCHIESTA

foto Federico De Luca

TROPPI STRANIERI IN SERIE A Zdeněk ZEmAN

“Poco spazio agli italiani”

EDIzIONE SPECIALE CON L’ALBUM ChAMPIONS LEAGUE 2014-15

34

SPECIALE MILAN

“La Casa Rossonera”

GIUFFRIDA 50 GABRIELE I Re del Mercato

60

PAOLO DI CANIO I Giganti del Calcio


EDITORIALE di Fabrizio PONCIROLI

www.calcio2000.it

direttore@calcio2000.it

N. 204 - DICEMBRE 2014

Mensile | DICEMBRE 2014 | N. 204 | Italia | Euro 3,90

Calcio 2OOO il mensile diretto da FABRIzIO PONCIROLI

Pag.18

INCHIESTA

Calcio

2OOO

foto Federico De Luca

Zdeněk Zeman

TROPPI STRANIERI IN SERIE A

“Poco spazio agli italiani”

EDIzIONE SPECIALE CON L’ALBUM ChAMPIONS LEAGUE 2014-15

34

N

Zdeněk ZEmAN

SPECIALE MILAN

“La Casa Rossonera”

GIUFFRIDA 50 GABRIELE I Re del Mercato

60

PAOLO DI CANIO I Giganti del Calcio

NON CHIEDO LA LUNA, SOLO L’ITALIA…

on è mai facile rinnegare se stessi. Da giovincello, primi anni ’80, andavo pazzo per lo straniero. Tuttavia, allora, era merce rara. In squadra se ne potevano avere due al massimo e, quei due, oltre ad un cognome esotico, avevano anche piedi fatati. Bell’epoca. Ricordo Casagrande, idolo assoluto ancor prima di sbarcare in Italia… Poi, con il passare degli anni, siamo diventati ingordi. Lo straniero si è trasformato da figura rara a fastidiosa ed ingombrante presenza. Siamo stati, letteralmente, invasi da stranieri, per lo più mediocri. E, alla fine, eccoci qua: assuefatti dallo straniero ma incapaci di tornare all’origine. C’è chi mi taccia di essere razzista, calcisticamente parlando. Siamo nel mondo globale, tutti devono avere le stesse possibilità. Scusate, ma personalmente la vedo diversamente. A me piace sentir gridare, dallo speaker dello stadio, anche qualche nome italiano e non per questo mi sento un razzista. Ben vengano gli stranieri, ma in maniera moderata e che almeno abbiano piedi degni. Invece, orde di calciatori non azzurri invadono, da anni, il nostro campionato e tanti, con tutto il rispetto, hanno ben poco a che vedere con quello strumento chiamato pallone. Anche un italiano adottato

come Zeman l’ha capito: troppi stranieri in Italia e tanti senza il pass necessario per calcare i campi della massima serie. E, allora, che fare? Le frontiere non sono più legali, i vivai sono mezzi morti e gli italiani, quelli buoni, costano un occhio della testa. Soluzioni? Sperare che quelle squadre, poche, che puntano su italiani facciano bene, in maniera tale che gli esterofili comprendano che non bisogna per forza avere rose piene zeppe di non italiani per far bene. Altra soluzione? Fare sempre più il tifo per il Made in Italy che ha deciso di emigrare. Se loro fanno bene, altri ci proveranno e più italiani ci saranno in circolazione. Non è molto, lo comprendo, ma è meglio che niente. Ormai siamo in un vortice senza fine ed uscirne sarà complicatissimo. Sapete, a volte invidio mio padre che ha potuto gustarsi un calcio nostrano, da tutti i punti di vista. Vero, senza l’apertura delle frontiere, non avrei potuto vedere dal vivo Maradona e Platini, ma mi sarei evitato anche i vari Vampeta, Oliveira (quello del Milan) e Athirson (i primi tre che mi sono venuti in mente ma la lista completa occuperebbe almeno metà rivista)… Comunque, la mia nuova linea è decisa: tifo all’ennesima potenza per i prodotti doc. Per fortuna Conte mi pare intenzionato a valorizzare anche quelli sconosciuti e questo è già un segnale rimarchevole. Buona lettura…

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sommario n.204 Anno 18 n. 12 DICEMBRE 2014 6 La bocca del leone

Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 - Iscritto al Registro Operatori di Comunicazione al n. 18246

di Fabrizio Ponciroli

8 INTERVISTA ESCLUSIVA

Zdeněk Zeman

di Paolo Camedda

18 INCHIESTA

SPECIALE STRANIERI

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30 SPECIALE

PALLONE D’ORO

di Luca Bargellini

DIRETTORE RESPONSABILE

34 SPECIALE

CASA MILAN

di Pietro Mazzara

Michele Criscitiello

18

44 SERIE B - PRO VERCELLI

di Tommaso Maschio

Redazione

di Pasquale Romano

48 Serie D - RIMINI

di Simone Toninato

50 I Re del Mercato

Hanno collaborato

30

GABRIELE GIUFFRIDA

di Marco Conterio

60 I Giganti del Calcio

PAOLO DI CANIO

70 Storia Champions

League 1970/71

di Gabriele Porri

34

TC&C S.r.l.

di Stefano Borgi

Statistiche

76 DOVE SONO FINITI?

di Fabrizio Ponciroli

CAMPIONATI STRANIERI 78 82 86 90

SPAGNA

Contatti per la pubblicità:

50

di Flavio Sirna

Distribuzione

INGHILTERRA GERMANIA FRANCIA

di Renato Maisani

IL TIFO RACCONTA

60

di Thomas Saccani

IL PROSSIMO NUMERO sarà in edicola il

15 DICEMBRE 2014

Calcio 2OOO

Pieroni S.r.l. via Carlo Cazzaniga, 19 20132 Milano Tel 02 25823176 Fax 02 25823324

www.calcio2000.it

di Carletto RTL NUMERO CHIUSO IL

30 OTTOBRE 2014

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Stampa

di Luca Manes

di Paolo Bardelli

98 SCOVATE DA CARLETTO

e-mail: media@calcio2000.it

Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 - 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 Fax. 030349805

94 PHOTOGALLERY

Redazione Calcio2000

LUCIANO BODINI

Image Photo Agency (imagephotoagency.it), Agenzia Liverani, Photoviews, Federico De Luca, Daniele Mascolo

Realizzazione Grafica

74 ACCADDE A... DICEMBRE

Paolo Camedda, Pietro Mazzara, Pasquale Romano, Simone Toninato, Gabriele Porri,Stefano Borgi, Carletto RTL, Paolo Bardelli, Luca Manes, Flavio Sirna, Renato Maisani, Thomas Saccani

Fotografie

di Fabrizio Ponciroli

Diretto da

Fabrizio Ponciroli Marco Conterio, Luca Bargellini Gaetano Mocciaro, Tommaso Maschio Chiara Biondini

46 LEGA PRO - REGGINA

EDITORE

TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872

di Marco Conterio

Calcio2OOO

Calcio2000 è parte del Network

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LA BOCCA DEL LEONE

PER SCRIVERCI: media@calcio2000.it

di Fabrizio Ponciroli - foto Image Sport

MA LE STATISTICHE?

Caro Direttore, ho sempre letto la nostra/vostra rivista, ma devo dirle con franchezza che mi aspettavo molto di più in queste ultime uscite. Da un lettore di Calcio2000 apprezzo tutti gli sforzi che vengono fatti per migliorare il prodotto, ma a mio avviso ci sono troppe interviste a discapito delle statistiche che ormai stanno scomparendo totalmente. Da amante del calcio spero di cuore che ci sia più spazio per approfondimenti relativi ai numeri dei singoli campionati o giocatori in particolare. Lo speciale Champions League sarebbe stato ancora migliore se fossero state pubblicate le rose complete con i numeri di ogni singolo giocatore nella massima competizione europea. Da come può avere capito sono amante delle statistiche. Ovviamente la mia voleva essere una critica costruttiva. La ringrazio e le invio i miei più cordiali saluti. Andrea, mail firmata Ciao Andrea, comprendo il tuo disagio. Sai che ho un debole per le statistiche, di ogni tipo esse siano ma vogliamo anche provare ad offrire sempre più contenuti esclusivi. Interviste con foto esclusive per intenderci. Comunque ho sempre nel cassetto il foglio delle statistiche e, prima o poi, tornerà d’attualità… ANCORA JUVE-ROMA

Egregio Direttore, il momento in cui le scrivo è giovedì 23 ottobre, il giorno dopo le due disfatte delle compagini italiane in Champions. Non so se è tifoso o no, ma non le sembra che la Roma da compagine simpatica, ambiziosa e che raccoglie apprezzamenti dagli addetti ai lavori stia un po’ mostrando il suo “lato

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Non stiamo parlando di un giocatore qualsiasi ma, a mio avviso, di uno tra i primi cinque fuoriclasse della storia del calcio. Motivo? “Non ne avevo più, non segnavo e ho capito che era giusto finirla lì”. Ecco, credo che, spesso, il momento del ritiro, per un giocatore, sia legato alle motivazioni personali. Dopo una vita sui campi, il momento dell’addio ti può cogliere all’improvviso. Per certi giocatori, questo momento può arrivare prima del previsto. Avere 32 o 38 anni fa poca differenza, se non hai più la voglia di un tempo. Farei poi una distinzione ulteriore. Alcuni dei giocatori che hai citato, hanno detto basta solo alla Nazionale (e qualcuno

oscuro”? I singoli rilasciano interviste che incitano alla violenza negli stadi alludendo a imbrogli degni dell’era Calciopoli (nonostante dicono di analizzare lo scontro diretto con la Juve a mente fredda), salvo poi dopo pochi giorni essere convinti di essere stati superiori ai bianconeri e di poter vincere il tricolore, per non parlare dell’uscita oscena di De Sanctis, in cui dice che Buffon deve imparare da lui come si vince... Al di là dei deliri senza senso dei vari Totti (che ha dimostrato ancora una volta di essere troppo sopravvalutato come persona di calcio, e qui avrei molto da dire su di lui in maniera negativa) e compagnia bella, non crede che dovrebbero smetterla di soldi, non lo abbia ascoltato quasi nessuno…

rilasciare certe dichiarazioni affinché una partita di calcio non si trasformi in una guerra civile? Non crede che la FIGC dovrebbe infliggere pesanti sanzioni a questi piccoli uomini che stanno esasperando i toni incitando alla violenza negli stadi e dintorni? Distinti saluti Vincenzo, mail firmata Premessa: io odio le polemiche e il “post match”, soprattutto se si parla poco di calcio e tanto di episodi. Di JuventusRoma, a mio avviso, si è parlato davvero troppo prima e ancora peggio è andata dopo. Avrei fatto a meno di ogni parola spesa dai protagonisti. Ci metto tutti, giallorossi e bianconeri (penso a Bonucci, ad esempio). Il nostro calcio già ha poco appeal, se poi lo rendiamo ancor più problematico con “battaglie linguistiche” di poco valore, allora siamo proprio destinati a diventare un Paese con un calcio mediocre. Pallotta, americano, è stato l’unico che ha “invitato” a guardare avanti. Peccato che, sebbene sia quello che ci mette i

RITIRI PREMATURI… Buongiorno Direttore, si ricorda di me? Le ho scritto circa due mesi fa e con ritardo mi scuso per il mio sfogo che, rileggendomi, mi è sembrato eccessivo (faccio mea culpa). Questa volta le volevo chiedere un suo parere su una cosa, anche se apparentemente sembra di poca importanza: ogni anno vedo tanti calciatori che si ritirano dal calcio o dalla propria nazionale quando superano appena i 30 anni vedi Ribery, Mertesacker, Thiago (quello del Portogallo), Spinesi, Budan, Accardi, Marianini, e tanti altri ancora. In media tutti questi, fra cui quelli che ho appena citato, hanno all’incirca 32/33 anni, secondo lei è normale? Posso capire gente come Natalino, Pettinari o Deisler che avendo avuto problemi cardiaci hanno dovuto smettere di giocare, o come il grande Van Basten, tanto per citarne uno, che si è ritirato per un grave infortunio. Ma tutti quelli che hanno appena 32 o 34 anni francamente non li capisco: siccome tanti vogliono diventare allenatori o avere comunque un ruolo societario o tecnico non possono

aspettare qualche anno quando avranno 37, 38 o anche 39 anni? Perché tutta questa fretta? Che poi sinceramente mi mette tristezza il fatto che ogni anno sull’almanacco (lo compro da sempre) vedo tanti ritiri in contrapposizione al numero elevato di giocatori classe ‘95 o ‘96. Volevo appunto un suo parere su questo argomento. Aspettando, senza fretta, una sua risposta le auguro buon lavoro. Daniele, mail firmata Caro Daniele, ti rispondo con le parole di Platini. Le Roi, come saprai, ha appeso le scarpe al chiodo a soli 32 anni.

potrebbe anche cambiare idea, come ha fatto Pirlo). In questo caso, credo sia solo un modo per allungarsi la carriera e, magari, lasciare spazio a giovani talenti.

RICEVIAMO & PUBBLICHIAMO LA TOP 11 FIFA Buongiorno Direttore, le propongo un gioco. Basandoci su Fifa 15, mi dà la sua Top 11 preferita da potermi giocare in un torneo che dovrò fare presto? Realizzerò una squadra sulle sue indicazioni, la Top 11 di Calcio2000… Almeno qui non ha limiti di spesa e di nazionalità… Mauro, mail firmata

Bella sfida… Allora mi lascio proprio andare. Vado con un 4-3-3, cercando di dare spazio anche a qualcuno che milita in Italia. Neuer in porta, difesa con Lichsteiner, Bonucci, Thiago Silva e Maicon. Iniesta, Pogba e Pjanic a centrocampo. In avanti Ibrahimovic, Messi e Cristiano Ronaldo. Sbilanciata ma tutti giocatori che adoro… Allenatore? Beh, chiunque.

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INTERVISTA Zdeněk Zeman

INTERVISTa / Zdeněk ZEMAN

ISOLA FELICE

A TUTTO ZEMAN…

Dopo la brutta esperienza di Roma, Zeman ha deciso di ripartire dalla Sardegna

La nuova avventura al Cagliari, la sua carriera in panchina, i mali del calcio italiano e la lotta Scudetto: Zdeněk Zeman si racconta, a modo suo, in esclusiva a Calcio2000… di Paolo CAMEDDA foto Federico De LUCA

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ono passate da poco le 11.30 del mattino e al Centro sportivo Ercole Cellino di Assemini regna la pace. Il Cagliari ha terminato l’allenamento e Zdeněk Zeman si avvicina a noi fischiettando. Ti rendi subito conto di avere di fronte un maestro del calcio italiano, e l’emozione è grande. Ma quello che più ti colpisce è la sua grande umanità, che percepisci distintamente appena il boemo inizia a proferire parola… Lui è l’ultimo rimasto di un calcio artistico, dove la bellezza è la ragion d’essere. Dicono che con Zeman in panchina non si vince ma, alla fine, vince chi si diverte, o no? Mister, dopo l’esperienza negativa di Roma, si aspettava di tornare in Serie A così presto? Cos’ha pensato quando le è arrivata l’offerta del Cagliari e

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cosa l’ha convinta ad accettarla? “Un allenatore penso che speri sempre di poter lavorare. Visto che è scaduto il 30 giugno il contratto con la Roma, ci sono state delle squadre che mi hanno fatto un’offerta. Ho scelto Cagliari perché è cambiata la proprietà e si è parlato di un progetto e a me piace costruire. Sono venuto qui perché mi hanno convinto il progetto e le ambizioni del presidente Giulini”. Quali sono state le maggiori difficoltà che ha trovato finora? “Sul piano dell’impegno non mi posso lamentare dei ragazzi, perché si sono tutti messi a disposizione e finora hanno cercato di fare il possibile. Poi magari durante alcune partite non sempre si riesce a giocare con la mentalità che chiedo io, penso più per abitudine, perché cambiare tipo di gioco è sempre difficile per uno che l’ha fatto per tanti anni in modo diverso”. Qualcuno ha anche sostenuto che il

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INTERVISTa / Zdeněk ZEMAN

CASA ASSEMINI

Il mister ha vissuto nel centro sportivo del Cagliari nei primi mesi: “C’era tanto da lavorare”

INTERVISTa / Zdeněk ZEMAN

suo calcio fosse ‘superato’. Che cosa si sente di rispondere? “Non so cosa rispondere, nel senso che io ho fatto sempre un certo tipo di calcio… Trent’anni fa mi dicevano che fossi 20 anni avanti, 10 anni fa ero sempre 20 anni avanti… Dipende da che lato si guarda…”. Poi è arrivata la grande vittoria sull’Inter a San Siro… Riesce ancora ad emozionarsi per una vittoria in uno stadio così importante? “Ho sempre detto che lo Stadio di San Siro a me piace tanto. Mi piace tanto giocarci, e penso che a San Siro le mie squadre abbiano sempre fatto buona figura, sul piano del gioco, anche se poi magari si perdeva. A Milano sono abituati a vedere un calcio importante e per questo ci hanno sempre rispettato. Fa piacere quando ricevi complimenti per una partita”.

manca la continuità, nel senso che è un giocatore un po’ naif, che c’è ma a volte non si vede. Se lui riesce ad esserci per tutti i 90 minuti può aiutarci tanto…”. Come si trova in Sardegna e cosa le piace di più della vita nell’isola? “Mi piace l’isola. Sono arrivato in Italia nel 1969, e nella mia carriera sono stato anche a Palermo, altra città di mare. A me piacciono il mare e il sole. A parte il fatto che gran parte della Sardegna fa il tifo per la squadra, mi piace proprio il fatto di essere isolati e di poter lavorare in tranquillità. Penso che sia la cosa più importante, poi magari arrivano le voci destabilizzanti dal continente, ma noi qua ridiamo…”.

Quali sono ora gli obiettivi del Cagliari in questa stagione e dove ritiene possa arrivare la squadra nei prossimi anni? “Io penso che ci sia tanto lavoro da fare, ma che possiamo toglierci delle soddisfazioni durante la stagione. Noi dovremmo fare del nostro meglio con tutti gli avversari, poi i conti si faranno alla fine. L’obiettivo, come ha spiegato il presidente Giulini, è una crescita graduale della squadra nel giro di alcuni anni. I ragazzi stanno lavorando bene e i risultati arriveranno”. Chi l’ha stupita di più, fra i suoi giocatori, fino a oggi, e chi pensa possa avere un futuro importante? “Io non voglio fare le classifiche, chi più, chi meno… È una cosa antipatica… Io alleno un gruppo che ha provato a fare del suo meglio, a qualcuno per ora è riuscito di più, qualcun altro spero ci riesca con il tempo. La disponibilità me l’hanno sempre data e cercano di applicarsi su quello che chiedo”. Uno dei giocatori più importanti della squadra è Victor Ibarbo, che anche domenica a San Siro ha fatto una grande prestazione. Dove deve migliorare secondo lei il colombiano e quali sono i suoi margini di crescita? “Secondo me Ibarbo è un giocatore importante, e spero lo diventi di più, perché ha tutte le qualità, fisiche e tecniche. Gli

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I tifosi l’hanno accolta subito con grande affetto. Qual è il suo rapporto con loro? “Mi hanno accolto benissimo, il rapporto è ottimo e spero che riusciremo a ripagarli della fiducia che hanno messo su di me, sul presidente e sulla squadra”. Ha imparato in questi mesi qualche parola di sardo? Il suo volto, come quello di alcuni giocatori, è stato utilizzato per la campagna abbonamenti del club accompagnato da alcuni slogan significativi in ‘limba’… “Finora non ho imparato nessuna parola di sardo, anche perché non lo sento… Per gli slogan mi ci vuole il traduttore… Purtroppo ho vissuto sempre qua nel centro sportivo, e qua il sardo si parla poco.

Ora ho preso casa e vedremo…”. Le piace la cucina sarda? Qual è il suo piatto preferito della cucina locale? “A parte il pesce, che ci dev’essere sempre, a me il maialetto non mi dispiace proprio…”. Quando è arrivato Gigi Riva ha detto che avrebbe avuto piacere a incontrarla. Le chiedo se vi siete visti e come è andata. “Ancora non ci siamo visti. Sono andato al suo ristorante, ma stranamente non c’era… Ci sarà sicuramente occasione in futuro”. Con Ventura lei è il decano degli allenatori della Serie A. Che differenza trova fra il calcio di oggi e quello ‘romantico’ degli Anni Ottanta-Novanta? “Io penso che il calcio non sia cambiato: i campi sono sempre uguali. Poi magari oggi il calcio è più un prodotto da vendere. Prima c’erano soltanto il presidente, l’allenatore e il direttore sportivo, oggi ci sono 50 persone che collaborano per mandare avanti la squadra, anche se secondo me la cosa più importante resta il campo”. Nella sua carriera ha guidato squadre importanti come Lazio e Roma. C’è chi dice che rispetto al potenziale di quelle squadre abbia vinto poco. Se potesse tornare indietro ci sono delle scelte che non rifarebbe? “Dicono che ho vinto poco… Ho vinto 3 campionati, che saranno pochi, ma sono importanti… Poi con le squadre grandi, anche lì… Stavo alla Lazio, ma la Lazio non era quella del 2000, una squadra mondiale che spendeva centinaia di miliardi di lire. Lo stesso la Roma, che ha vinto quando ha speso 80 miliardi per un giocatore. Ai miei tempi avevo il problema di prendere Cafu a 4 miliardi… Poi meno male che li abbiamo spesi. Non possono vincere tutti, e normalmente quelli che spendono di più sono avvantaggiati. Visto che sono arrivato 2°, 3°, 4°, 5° con le squadre di Roma, e che a quei tempi non c’erano quattro squadre in Champions, penso di aver fatto bene… Nell’ultima stagione alla Roma ho portato la squadra anche in finale di Coppa Italia…”. Nello sport conta più vincere o essere degli innovatori (o essere coerenti)?

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INTERVISTa / Zdeněk ZEMAN

INTERVISTa / Zdeněk ZEMAN

ZEMAN IN FUMO

Il mister e l’immancabile sigaretta: “Smettere di fumare? Ogni tanto ci penso, ma poi continuo”

“Per qualcuno conta più vincere. Io però da allenatore, devo cercare di dare un gioco alla squadra e migliorarla, costruendo qualcosa. E penso che in questo sia abbastanza riuscito, visto che ho mandato in Nazionale diversi giocatori. È questo il lavoro dell’allenatore”. Chi è il giocatore più forte fra tutti quelli che ha allenato nella sua carriera? “Io ho avuto tanti bravissimi giocatori, Campioni del Mondo… Sicuramente sono più legato a Signori per il periodo nella Lazio e a Totti per il periodo nella Roma. Sono due ragazzi che si sono comportati benissimo e hanno sempre aiutato gli altri, sul campo e fuori dal campo”. Quale errore non perdonerebbe mai a un suo calciatore? “Tutti sbagliano: se sbaglio io possono sbagliare anche i giocatori. Tutto si può risolvere, l’importante è che ci sia il rispetto reciproco”. Cosa le piace e cosa non le piace del

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In Italia si portano troppi stranieri che poi chiudono la strada ai talenti italiani calcio di oggi? Se dovesse identificare il “male” del calcio italiano oggi? “Il calcio italiano secondo me è in crisi per un problema economico. Mentre prima in Italia venivano i più forti giocatori al mondo, dai quali poi anche i giocatori italiani potevano imparare e potevano crescere, oggi i migliori non si riesce più a portarli qui. Si portano troppi stranieri che poi chiudono la strada ai talenti italiani che non hanno allora la possibilità

di farsi vedere e di maturare sul campo”. Per la sedicesima giornata, prima di Natale, è in programma Cagliari-Juventus. Sarà una gara particolare per lei? “Per le squadre di provincia, come succedeva col Foggia, affrontare avversari di nome dev’essere uno stimolo, una spinta, per dare qualcosa in più del solito. Ma personalmente non mi interessa se gioco con la Juve, con l’Inter, con il Milan o con la Roma…”. È vero che da bambino tifava Juventus? “Io cerco di spiegarmi, e o non mi capisce nessuno, o lo fanno apposta… Visto che io sono nato nel 1947, e mio zio è stato acquistato dalla Juventus nel 1946, è normale che io sia nato juventino. Ho seguito la Juventus per tanti anni quando mio zio era alla Juventus e ha portato 2 Scudetti alla Juventus. Ero un tifoso e la seguivo. Lo ripeto: per me il problema non è la Juventus, il problema sono le persone che hanno fatto male al calcio italiano, con i farmaci e con Calciopoli. Se quei personaggi sono da più

di 10 anni nei vari Tribunali, forse c’era qualcosa che non andava…”. Fra Roma e Juventus, a suo giudizio, chi ha le maggiori possibilità di vincere lo Scudetto e perché? “Non lo so, il campionato è lungo. Penso che tutte le squadre durante un’annata hanno un periodo di crisi, che può dipendere dai troppi impegni, visto che entrambe giocano in Champions, dagli infortuni o dalle squalifiche, che possono pesare. Ma ritengo che la rosa della Roma dia più ampie possibilità di scelta. Per me se alla Juve salta Tevez va in difficoltà, se alla Roma mancano Totti o Destro è lo stesso…”. Cosa avrebbe fatto Zdeněk Zeman nella vita se non avesse fatto l’allenatore di calcio? “Ho studiato sport all’Università di Praga per fare l’allenatore e quello volevo fare. Se non avessi fatto l’allenatore di calcio avrei allenato in qualche altro sport: pallamano, pallavolo, pallanuoto… Come mi

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Se non avessi Allenato NEL calcio lo avrei FATTO in qualche altro sport: pallamano, pallavolo, pallanuoto è anche capitato all’inizio in Italia”. C’è una cosa per la quale smetterebbe un giorno di fumare? “Ogni tanto ci penso, ma poi, visto che non ho problemi fisici e non ne risento, continuo a fumare…”. C’è mai stata una volta in cui la sua squadra non è partita dall’inizio col

4-3-3? L’ha segnata sul calendario? “L’ultima volta che non ho giocato con il 4-3-3 era in Coppa Italia a Firenze con la Roma, ma per necessità. Avevo tutti gli attaccanti squalificati o infortunati e mi avanzavano difensori…”. Perché, secondo lei, il 4-3-3 è il miglior modulo? Spieghi i pregi, e, se ci sono, i difetti, di questo sistema…“Se lo uso è per i suoi pregi… Per coprire il campo in modo razionale il 4-3-3 è la miglior disposizione. Poi qualcuno sta 10 metri più avanti o 10 metri più indietro… Con questa disposizione il campo viene diviso tutto in triangoli. Difetti non ce ne sono, sennò non lo userei. Tutti dicono che qualsiasi modulo è perfetto, se si fa bene. Per me non è così, perché quando giochi con due attaccanti non c’è equilibrio. Come disposizione base per coprire tutto il campo in lunghezza e in larghezza il 4-3-3 è il modulo perfetto. Poi il discorso è che uno si muove male, gli attaccanti non attaccano, o difendono male, e allora non ci sono più le distanze

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INTERVISTa / Zdeněk ZEMAN

GURU

Per molti suoi “seguaci”, tra cui Stramaccioni, Zeman è semplicemente inimitabile

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Io superato? Trent’anni fa mi dicevano che fossi 20 anni avanti, 10 anni fa ero sempre 20 anni avanti

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INTERVISTa / Zdeněk ZEMAN

INTERVISTa / Zdeněk ZEMAN

ZEMANLANDIA 2

A Cagliari Zeman vuole tornare a stupire: “Il mio sogno è fare bel calcio”

LE MASSIME DI ZEMAN Zeman ha girato tutta l’Italia da Sud a Nord, lasciando ovunque la sua impronta, quel 4-3-3 come marchio di fabbrica indelebile. Amato o odiato, sulla sua carriera è stato scritto un libro e tratto un film. Ecco una carrellata delle sue massime più celebri, recenti e non di Luca PUDDU

“Se non segni, non vinci” “Non meritavamo di perdere, siamo riusciti a fare 900 passaggi, come fa il Barcellona. Loro però sanno perché li fanno, noi ancora no”. “Non ho eredi e non ne voglio: troppi tecnici vedono il calcio come un lavoro e non come un divertimento”. “Non c’è nulla di male ad essere ultimi, se lo si è con dignità”. “Non è vero che non mi piace vincere: mi piace vincere rispettando le regole”. “Il calcio deve uscire dalle farmacie”. “La grande popolarità del calcio nel mondo non è dovuta alle farmacie o agli uffici finanziari, bensì al fatto che in ogni piazza, in ogni angolo del mondo c’è un bambino che gioca e si diverte con un pallone tra i piedi”. “Raramente mi capita di dire una bugia. Per questo mi sento solo. È un mondo, il nostro, in cui se ne dicono tante”.

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fra i reparti. Ma in teoria il 4-3-3 è il modulo perfetto”. Suo figlio è allenatore: non l’ha sconsigliato quando glielo ha detto? Vi scambiate idee? “Mio figlio quando aveva un anno lo portavo al campo di allenamento, lo lasciavo dietro la rete di recinzione e seguiva tutti i miei allenamenti, tutte le mie preparazioni e tutte le mie partite, in Italia e qualche volta anche all’estero. Penso quindi che ne abbia viste tante. Io veramente gli ho sconsigliato in partenza di fare questo mestiere. Visto che si è laureato in Lingue, gli ho consigliato di fare qualcosa di più tranquillo. Questo perché so che lui non ha il mio carattere, è un po’ più emotivo e quando uno è emotivo

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Finora non ho imparato nessuna parola di sardo, anche perché non lo sento… Per gli slogan mi ci vuole il traduttore lo stress, le critiche fanno male. Io invece sono abituato, per me ognuno è libero di dire quello che vuole…”. Gli vuol mandare un messaggio?

“A lui piace fare l’allenatore, quindi finché ha motivazione e gli piace lavorare sul campo gli dico di continuare in questo lavoro applicando le sue idee”. Mister Zeman ha (o ha mai avuto) un sogno professionale? Qual è? “Il mio sogno professionale è sedermi in panchina e divertirmi a vedere la mia squadra giocare a calcio. Vedere un calcio che piaccia a me e alla gente che viene a vederci”. Conclusa l’intervista, Zeman si alza, e prima di andar via ringrazia e saluta con una stretta di mano. La sensazione è che il calcio italiano avrà sempre bisogno di personaggi come lui. Buon divertimento con il Cagliari, mister.

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INCHIESTA STRANIERI IN SERIE A

INCHIESTA / STRANIERI IN SERIE A

Simone Zaza CARLOS TEVEZ

Il bomber della Juve saluta il giovane che spera di emularlo...

QUI PASSA LO STRANIERO L’Italia ha la media età più alta d’Europa ed è la terza per stranieri presenti. Con un record assoluto in casa Inter…

di Marco CONTERIO foto Image SPORT

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vvolto da una nuvola di fumo, il vecchio saggio Zdenek Zeman sentenzia. “Stanno uccidendo i vivai”. Così la nube s’addensa, si contorce attorno all’Italia, strozzando le speranze ed i sogni. E nel gioco senza frontiere che è la Serie A, il dato esemplificativo arriva dall’ultimo campionato disputato. Nelle trentotto partite della A 2013/2014, sono scesi in campo 610 calciatori dei quali soltanto 258 italiani. A farla da padrone gli stranieri, col 58 per cento delle presenze conquistate. L’invasione ha più radici. La sentenza Bosman, il caro prezzi dei talenti nostrani, le mire di alcuni di far affari coi soliti noti, la voglia sfrenata di scoprire la nuova gemma lontano da casa. L’INVASIONE DELLO STRANIERO - Lontano anche dal cuore, però. Perché i chilometri che separano l’Italia dall’Argentina sono migliaia ma è proprio da lì

che arriva il maggior numero di calciatori scesi in campo nell’ultimo campionato. 51, da Diego Milito fino a Nahuel Valentini. Una nazione, quella albiceleste, laddove è semplice trovare l’avo, l’antenato e risalire dunque al discendente con le scarpette ai piedi. Non spaventa lì lo status da extracomunitario, vista l’infornata di oriundi sbarcata sulle coste d’Italia, non fa paura neanche in Brasile. Che, con 49 giocatori scesi in campo, non conquista di poco il primato ma stacca di gran lunga la terza, anch’essa sudamericana. E’ l’Uruguay, pochi milioni d’abitanti ed un talento sconfinato che pullula dietro ogni angolo: 19 quelli impiegati nell’ultima Serie A, poi la Francia con 15, la Spagna con 14, la Colombia con 12, il Ghana con 10 e, appaiate, Svizzera e Slovacchia con 10. Quarantasei nazionalità diverse che, nel complesso, secondo gli studi della Lega Calcio, hanno dato una media età di 26,8 anni. 610 calciatori in tutto di cui, tra italiani e stranieri, solo 67 gli Under 21 esordienti. Dati che fanno sorridere, se paragonati ai record dei migliori

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INCHIESTA / STRANIERI IN SERIE A

INCHIESTA / STRANIERI IN SERIE A

ANTONIO CONTE

Claudio Marchisio Per fortuna qualche campione azzurro c’è ancora...

foto Federico De Luca

Per il CT è sempre più difficile trovare italiani di qualità...

giovani. Perché, nonostante l’invasione dello straniero, il calciatore con più palle recuperate è stato Davide Astori, ora alla Roma ed allora al Cagliari. Quello con più presenze è stato Mattia Perin, portiere del Genoa e quello con più reti segnate, Domenico Berardi, folletto avanzato del Sassuolo. Numeri che, poi, variano da squadra a squadra: l’Inter ha avuto addirittura oltre il 90% del minutaggio complessivo saldamente nelle mani di calciatori stranieri. In media, la metà delle squadre di A ha utilizzato più giocatori di fuori frontiera che italiani. ITALIA FANALINO DI CODA - Il confronto con le altre grandi potenze europee è impietoso, soprattutto se si considera il numero di calciatori formati nei club, ovvero coloro che, per almeno tre stagioni tra i 15 ed i 21 anni, sono cresciuti nel serbatoio della squadra. La percentuale italiana è al minimo europeo, con il solo 8,4%, secondo una statistica del Cies Demographic Study 2014. E se in Scandinavia si superano record

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impensabili, come il 38,9% della Svezia, Francia e Spagna hanno percentuali importanti: 23,6% la prima, 21,1% la seconda. La Germania è più staccata, col suo 16,6%, mentre l’Inghilterra è al 13,6%. L’Italia è ultima, anche dietro Russia e Turchia, fanalino di coda per il futuro dei suoi talenti. Da un recente studio di Tuttomercatoweb.com, nella Serie A ora in corso, ci sono soltanto 35 casi di giocatori passati dal vivaio al mondo dei grandi senza passare dai prestiti. Specifica: i trentacinque hanno almeno giocato una stagione di Serie A o due di Serie B, e almeno 20 presenze con il proprio club. Lo scorso 21 gennaio il CIES Football Observatory ha pubblicato uno studio sulle maggiori leghe della Uefa: 472 club ed 11,653 giocatori. La nazione che accoglie più stranieri è Cipro, davanti alla Premier League con il 60,4% e quello dell’Inter è il record di stranieri in tutta Europa. Una crisi che si esprime anche nelle medie età: l’undici ‘tipo’ della Juventus che ha vinto lo Scudetto è, oggi, di oltre 29 anni, mentre allo scorso gennaio la media della Serie A, di 27,3

anni, era la più alta di tutta Europa (media di 26,8). VIAREGGIO CUP: CHI CE L’HA FATTA - Da sempre la Viareggio Cup regala, al calcio italiano, talenti e prospetti. Che fine hanno fatto quelli delle ultime vincitrici, dal 2005 al 2012? In quel lungo lasso di tempo, degli undici titolari e dei subentrati, nelle finalissime, giocano attualmente in Serie A o in un grande campionato estero solo in 19 su 95. Della formazione della Juventus che vinse la Viareggio Cup nel 2005, il portiere era Nicola Avitabile, che ha interrotto la carriera tra i pro tre anni più tardi alla Scafatese. Rey Volpato e Davide Arigò, tandem d’attacco di quella Juve, giocano ora rispettivamente nel Campodarsego e nell’Asti. Del Genoa, che vinse nel 2007, nessuno gioca oggi nel massimo campionato, l’Inter del 2008 ha regalato, alla A odierna, solo Mattia Destro tra i titolari mentre Mario Balotelli gioca al Liverpool e Luca Caldirola al Werder Brema. Poi tanta B, Lega Pro o talenti che hanno mollato, mentre la Juventus,

che già nel 2005 aveva regalato al calcio che conta Claudio Marchisio, Domenico Criscito, Paolo De Ceglie e Sebastian Giovinco, nel 2009 ha sformato Lorenzo Ariaudo, Luca Marrone, Ciro Immobile ed Albin Ekdal, mentre un anno più tardi Yago Falque. Nel 2011, l’Inter ha messo in mostra il portiere Francesco Bardi, Cristiano Biraghi, Marco Davide Faraoni, Lorenzo Crisetig, mentre la Juve, nel 2012, ha regalato alla A odierna il solo Raman Chibsah. ITALIA DA UNDER - Un’occhiata la merita l’Italia Under 21 che, nel ritorno dei play-off, ha sconfitto la Slovacchia per 3-1. Uno sguardo diretto alla formazione: Francesco Bardi, dell’Inter, gioca titolare nel Chievo Verona. Davide Zappacosta lo fa nell’Atalanta, Matteo Bianchetti è la riserva di Davide Rugani all’Empoli e Cristiano Biraghi è terzino del Chievo Verona. Federico Viviani gioca a Latina, Lorenzo Crisetig a Cagliari, Domenico Berardi al Sassuolo, Federico Bernardeschi fa panchina alla Fiorentina, Davide Be-

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INCHIESTA / STRANIERI IN SERIE A

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Federico bernardeschi Classe infinita, eppure fa panchina alla Fiorentina...

Daniele Rugani

Domenico Berardi

lotti al Palermo e Cristian Battocchio gioca nella Virtus Entella. Il confronto con le altre d’Europa è impietoso, seppur l’Italia sia passata e, clamorosamente, Spagna e Francia no. Partiamo dall’Inghilterra, qualificatasi dopo la vittoria contro la Croazia: Jack Butland è titolare dello Stoke, ma in difesa ci sono Luke Shaw, classe 1995 (dunque più giovane di tutti gli italiani scesi in campo) è terzino del Manchester United. Classe 1994, coetaneo di Rugani, è Eric Dier che, però, gioca titolare nel Tottenham. La Germania, che nell’incontro contro l’Irlanda della Nazionale di Low ha schierato una media età inferiore ai 24 anni, ha un’Under 21 da sogno: Max Meyer, classe ‘95, è talento dello Schalke 04. Marc-Andrè ter Stegen gioca in Champions col Barcellona, Kevin Volland, capitano classe 1992, è capitano dell’Under 21 e cardine dell’Hoffenheim che sta stupendo la Bundesliga. L’eliminazione della Spagna, comunque per mano della Serbia, ha del clamoroso: in formazione, nel ritorno, c’erano il titolare del Barcellona, classe 1995, Munir El Haddadi,

il trequartista del Real Madrid, Isco, e la bandiera d’attacco dell’Athletic Bilbao, Iker Muniain. E la Francia? Bastano alcuni nomi per spiegare tutto: Geoffrey Kondogbia, titolare nel Monaco, Florian Thauvin, nome di punta all’Olympique Marsiglia, Samuel Umtiti milita nel Lione, Aymeric Laporte nell’Athletic Bilbao. Dati incontrovertibili: se il trend è variato in positivo in Italia, visto che i talenti dell’Under giocano in Serie A, in Europa ci sono anche fior di campioncini che militano nelle big. Mentre Juventus, Milan, Inter, Napoli, Roma e via andando, non ne fanno giocare nessuno. E così il fumo s’addensa, mentre il resto d’Europa cerca di vedere la luce in fondo al tunnel.

Talento purissimo, ne sentiremo parlare a lungo...

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E’ della Juventus, sta facendo grande il Sassuolo...

“ITALIA MERCATO CARO. BARCELLONA, CHE OCCASIONI” Pierluigi Casiraghi, storico osservatore di casa Inter, commenta il caro-prezzi dei giovani italiani. “E’ difficile da spiegare; il mercato interno dice chiaramente: ‘se vuoi il ragazzo lo paghi, altrimenti lo porto

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INCHIESTA / STRANIERI IN SERIE A

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MARIO BALOTELLI

MATTIA DESTRO

Ogenyi Onazi

Afriyie Acquah

in prima squadra e lo prendi più avanti’. Io capisco le squadre di Lega Pro, o di B, che danno via un giocatore solo per cifre allettanti. Altrimenti lo fanno esordire e parte per un prezzo più elevato”. Pierluigi Casiraghi è universalmente considerato uno dei migliori scout della storia recente del calcio italiano. Da lungo tempo all’Inter, commenta quella che è la crisi della Giovane Italia. “Quello di prima è un fattore. Poi c’è la forzatura degli agenti, che i ragazzi hanno già a 15 o 16 anni, che spingono per mandarli in una grande squadra ma il percorso diventa un pacchetto che viene a costar caro. Perché all’estero giocano nelle big e qui no? Qui, in Italia, c’è sempre difficoltà a proporre un prodotto nato in casa. Alla Juventus c’è Marchisio, poi Giovinco; al Milan solo De Sciglio, all’Inter la stessa cosa... Almeno in rosa dovrebbero starci, i ragazzi, è questo il problema. Li mandi in prestito, o li vendi, poi ti rivolgi al mercato interno e costano sempre di più. Se io devo prendere un quindicenne o sedicenne in Italia, costa tre volte più che all’estero”. Ecco, è questo il punto focale. “In Spagna,

magari, lo prendi in una squadra di medio livello o, altrimenti, vai al Barcellona che ha una Cantera così florida che non a tutti fa il contratto da professionista. Vedi Keita, Tounkara, Icardi... Tra poco sarà la stessa cosa anche al Real Madrid, dove in prima portano solo il top, mentre gli altri li scartano”. E l’Inter, che ha più stranieri di ogni altra squadra in Europa? “Noi arriviamo sino al livello Primavera, per quel che il lavoro ci richiede; noi dobbiamo portar dei giocatori che escano dal settore giovanile sino ai professionisti. Inter può decidere di cederli, di fare plusvalenza, di metterli in prima squadra; noi abbiamo prodotto molto a livello giovanile, a livello di qualità individuale. Abbiamo iniziato con Pandev e Martins, poi Balotelli, Destro e Biabiany; poi Longo, Livaja e Bessa. Al livello di Primavera la qualità la fanno gli attaccanti e noi abbiamo prodotto tanto, pure a livello economico. Il resto sono decisioni che non sta certo a me commentare. Faccio sempre un esempio: noi gli facciamo fare il classico, l’Università, prendono il top e poi affrontano il mondo del lavoro che non dipende da noi...”.

GIOCHI SENZA FRONTIERE: ECCO LA CONVENZIONE DI COTONOU L’Italia pronta alla recezione degli accordi che equiparano calciatori di 79 Paesi a quelli comunitari.

vigore in Francia, Spagna, Portogallo e Germania. In Spagna, l’accordo risale all’aprile del 2007, con tanti calciatori che da extracomunitari sono stati parificati ai comunitari. La richiesta, anni dopo la sentenza Bosman, partì da una richiesta di Real Madrid e Getafe che precedentemente avevano consultato FIFA e UEFA per tesserare lavoratori (dunque calciatori) provenienti dai paesi dell’ACP. Nel Consiglio Federale della Federbasket del giugno 2012, venne deliberata la recezione degli accordi di Cotonou. Si decise di mettere a disposizione dei club di serie A la possibilità di optare tra due costituzioni diverse del roster. Fermo restando i 5 italiani da portare a referto, da un lato 5 stranieri (comunitari o extracomunitari), dall’altro 3 extracomunitari più 4 comunitari. Ed il primo cestista in Italia fu CJ Wallace, americano naturalizzato congolese e dunque equiparato ai lavoratori comunitari. Quali Paesi verrebbero equiparati con la recezione degli accordi di Cotonou? Oltre a nazioni del Pacifico, come Samoa e Nauru, laddove il calcio è ma-

Cresciuto nell’Inter, ora milita nel Liverpool...

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Altro prodotto nerazzurro, bomber della Roma di Garcia

Il numero degli stranieri in Italia non accenna a diminuire...

L’Italia, stretta nella discussione sul futuro di giovani e vivai, è pronta alla recezione degli accordi di Cotonou. In tema del quale, il Consiglio Federale, si discute già dal 2010. E’ un sistema di partenariato e cooperazione con l’Unione Europea che arriva da lontano, dalla Convenzione di Lomè del 1975 e poi confermato nel 2000 a Cotonou. Riguarda 79 Paesi, di cui 48 dell’Africa subsahariana, 16 dei Caraibi e 15 del Pacifico. I lavoratori di questi Paesi vengono assimilati ai comunitari, dunque liberamente tesserabili. In Italia è già presente la recezione degli accordi nella Federbasket, dal 2010, così come già accade in molte altre parti d’Europa. La richiesta della Lega Calcio alla FIGC, in Italia, risale alla scorsa estate e, per quanto riguarda il calcio internazionale, già è in

Ci sono squadre in cui è difficile trovare giocatori Made in Italy...

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INCHIESTA / STRANIERI IN SERIE A

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Yao Kouassi Gervinho Tanti giocatori mediocri ma anche fuoriclasse come l’ivoriano della Roma...

Michael Essien

Raman Chibsah

teria sconosciuta, tra le più prolifiche di talenti per il football internazionale sono da annotare certamente Angola, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana, Mali, Nigeria, Sudafrica, Senegal, oltre alle varie caraibiche come Giamaica, Suriname e Trinidad e Tobago. Come è recepito questo accordo dal mondo del calcio? L’Avvocato Claudio Pasqualin, procuratore storico di Del Piero ed ora, tra gli altri, di Giovinco, commenta il tutto con un eloquente “resistere, resistere, resistere”. Il Presidente della Lega di B, Andrea Abodi, chiede che venga data “priorità ai vivai italiani”, mentre Moreno Roggi, procuratore, commenta ironico. “Chissà quanto sarà felice il ct Antonio Conte...”.

lo sguardo lassù, perso, perché un giorno così, spesso, non torna mai più. Erano passati pochi mesi, ma a Kingston, Giamaica, splendeva sempre il sole. 8 dicembre 1994. Nasce Raheem Sterling, novello John Barnes oggi, figlio di una terra del vento e non del futbol allora. Il destino lo porta, in tenera età, in Inghilterra e lì mette giovani radici che si saldano e s’inerpicano su, nella scala sociale di chi ha il destino nei piedi. Il Liverpool lo compra giovanissimo, a sedici anni da compiere, dall’Academy del Queen’s Park Rangers, florida accademia di talenti. E poi su, fino alle stelle: oggi, a vent’anni, è l’uomo copertina di una terra che vuol scrollarsi dalle spalle la polvere degli eterni perdenti, di una nazione che da Geoff Hurst in poi ha vissuto di più boria che gloria. L’insuccesso all’ultimo Mondiale brasiliano è l’apice di una generazione d’oro mal sfruttata, quella dei Gerrard, dei Lampard, dei Rooney. Però nella terra d’Albione si pensa già al futuro e lo si fa lanciando talenti, ora da subito, senza timori. Sterling è all’alba del terzo

Arrivato a parametro zero, ultra trentenne

PREMIER LEAGUE: GIOVANI SENZA PAURA Da Sterling a Stones: dopo le recenti delusioni, le big inglesi schierano titolari i loro talenti. Il cielo di Pasadena aveva da poco smesso di piangere lacrime azzurre. Il Divin Codino aveva ancora

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Ben il 58% dei giocatori impiegati lo scorso anno in A è straniero

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Ciro Immobile

C’è chi, per trovare spazio, è stato costretto a volare all’estero...

Raheem Sterling

Jack Wilshere

ventennio della vita eppure è già titolare nell’Inghilterra dei grandi, nel Liverpool, lo è stato in tutte le nazionali col Leone cucito sul cuore. Può contare, l’Inghilterra, su una folta nidiata di talenti che già giocano nelle grandi, a differenza di quel che ora non accade nel Belpaese: Luke Shaw, mister 30 milioni di sterline, è un classe 1995 che sfreccia sulla mancina del Manchester United e già agli ordini di Roy Hodgson. Eric Dier, centrale classe 1994, è titolare nel Tottenham. Calum Chambers, diciannovenne, è anche lui perno centrale della retroguardia dell’Arsenal e già con l’esperta Inghilterra. Tra i grandi son già da considerare veterani Jack Wilshere, che compirà ventitre anni a Capodanno e uomo simbolo della mediana dei Gunners ed il compagno di squadra, un anno più giovane, Alex OxladeChamberlain. Tra i nati dal ‘90 in poi, sono già in Na-

zionale pure Jonjo Shelvey, titolarissimo allo Swansea ora ed al Liverpool in passato; Danny Welbeck, nuovo puntero dell’Arsenal, ma anche Andros Townsend, classe 1991 del Tottenham e pure Jordan Henderson, vicino di reparto di Gerrard. In difesa è già stato chiamato tra i grandi Nathaniel Clyne, classe 1991 del Southampton, la lista s’allunga con Phil Jones, ‘92 dello United, John Stones, ‘94 dell’Everton, Jon Flanagan, ‘93 del Liverpool, Steven Caulker e Kyle Walker, rispettivamente ‘91 e ‘90 di QPR e Tottenham. E questo solo per restare agli Under 24 della difesa, perché in mezzo c’è il talento purissimo del ‘93 Ross Barkley dell’Everton, davanti anche la potenza di Connor Wickham, ‘93 del Sunderland. Tutti titolari nei rispettivi club, nessuno escluso. Perché, dopo cocenti delusioni, nasce una nuova generazione in Inghilterra. Senza paura.

Classe 1994, gioca nei Reds ed è già nel giro della Nazionale...

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Altro giovane nazionale inglese, pilastro dell’Arsenal di Wenger...

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SPECIALE PALLONE D’ORO

di Luca BARGELLINI

SPECIALE/ PALLONE D’ORO

LIONEL MESSI

57 EDIZIONI

Ben quattro trionfi per il fuoriclasse del Barcellona...

Spesso discusso ma indiscutibilmente affascinante: il Pallone d’Oro

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foto Daniele Buffa/Image Sport

Football a 24 carati Dal 1956 ad oggi il “Pallone d’Oro” ha dato la misura del talento mondiale. Storie e miti senza tempo.

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ognare, fortunatamente, non costa niente. Così, per chiunque, chiudere gli occhi e immaginarsi con il Pallone d’Oro fra le mani è una cosa tanto semplice quanto magnifica. Il mondo del calcio è una fucina di sogni, di fantasie che diventano realtà. Ecco, questo è ciò che rappresenta il Pallone d’Oro dal 1956 ad oggi. Un alloro per i realizzatori di sogni. Cinquantasette edizioni, una serie infinita di storie da raccontare e un numero incalcolabile di folli, geni, sognatori da scoprire ed imparare ad amare. Instituito da France Football, nel corso degli anni, è diventato un premio tanto ambito quanto discusso. Fino all’edizione 1994, per vincerlo era necessario essere di nazionalità europea. Un, calcisticamente parlando, clamoroso autogol che, per fortuna, è stato presto risolto (Maradona avrebbe, probabilmente, vinto diversi allori se le regole negli anni ’80 fossero state diverse). Dicevamo: prestigioso ma anche motivo di incredibili ed infinite disquisizioni. Anno 1986: il Pallone d’Oro finisce nelle mani

di Belanov. Ha fatto benissimo ai Mondiali ma, di fatto, è uno sconosciuto alle grandi platee. Sbaraglia concorrenti come Lineker e Butragueno, non proprio dei rincalzi. In realtà sono diversi gli anni in cui nessuno ha osato mettere in dubbio le votazioni, come nel caso delle “triplette” dei vari Cruyff, Platini e van Basten… Su un fatto non ci sono dubbi: il Pallone d’Oro è anche un perfetto asset pubblicitario. Avere in rosa un vincitore del trofeo rende più appetibili sul mercato. Ne sa qualcosa il Barcellona. I blaugrana sono il club con più Palloni d’Oro nella storia, ben 10 (compresi i quattro di Messi), tre in più dell’odiato Real Madrid (il settimo trionfo è recente, visto che è arrivato grazie a Cristiano Ronaldo lo scorso anno). Lontani i tempi in cui Milan e Juventus la facevano da padrone (otto successi a testa). Kakà (2007) e Nedved (2003, Cannavaro, vincitore nel 2006, era già del Real Madrid) gli ultimi a centrare il sontuoso traguardo. E l’Inter? Solo due firme, seppur prestigiose: uno grazie al mitico Matthaus (1990), l’altro con quel Ronaldo (1997) che, ancora oggi, è il più giovane vincitore del premio con i suoi 21 anni e tre mesi (Messi, se vi in-

teressa, ci è riuscito a 22 anni e cinque mesi). Record difficile da battere, così come quello del “vecchietto” Matthews, il primo a vincerlo (1956, allora militava nel Blackpool) e pure quello con più primavere sulle spalle (41 anni). Quando vinse un portiere… Lev Yashin (Russia - Dinamo Mosca. Pallone d’Oro 1963) Nel dicembre 1963 avvenne una sorta di miracolo calcistico. Un qualcosa che mai più è accaduto. Il Pallone d’Oro non finì nelle mani del bomber di turno o del più classico dei funamboli. Il premio fu conquistato dal più improbabile dei vincenti. Un portiere. Lev Yashin. Bandiera della squadra del Ministero degli Interni dell’URSS, la Dinamo Mosca, l’estremo difensore classe 1929 è tutt’ora considerato il migliore dell’intera storia del calcio. Esagerato? Possibile. Un mostro sacro del calcio italiano come Sandro Mazzola, però, nel 1963 dopo un rigore paratogli dal colosso russo in un Italia-URSS disse: “Yashin era un gigante nero: lo guardai cercando di capire dove si sarebbe tuffato e solo tempo dopo mi resi conto che doveva avermi ipnotizzato. Quando presi la rincorsa vidi che si

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SPECIALE/ PALLONE D’ORO

PLATINI, IL RE Le Roi ha vinto il Pallone d’Oro in tre occasioni

buttava a destra: potevo tirare dall’altra parte, non ci riuscii. Quel giorno il mio tiro andò dove voleva lui”. Parole chiare, con un significato netto e preciso. Yashin non ha avuto eguali dal giorno della sua vittoria fino ai giorni nostri. E così probabilmente sarà ancora per molto tempo. La vittoria del folle… George Best (Inghilterra - Manchester United. Pallone d’Oro 1968) Parlare di George Best in termini di mito è estremamente semplice. La sua vita dissoluta, l’aura del bello e dannato, l’etichetta di “quinto Beatles” rendono il campione del Manchester United praticamente immortale. La realtà parla anche di altro. Parla di un talento cristallino, bruciato nell’arco di undici anni. Best aveva solo 28 anni quando la sua stella intraprese la via del declino. Eppure il suo palmares già annoverava tutto quello che un calciatore pro-

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IL GRANDE VAN BASTEN

MESSI NON SI ACCONTENTA

Tre titoli anche per l’ex stella del Milan...

fessionista potesse sognare, compreso un Pallone d’Oro. Una edizione, quella del 1968, che vide il premio francese a forte tinte britanniche: dietro al fenomeno di Belfast si posizionò, infatti, Sir Bobby Charlton, colonna e capitano dello stesso United. Fra i due non ci fu mai un gran rapporto. Troppe le differenze per trovare una linea comune. Eppure Matt Busby, tecnico di quei leggendari Red Devils, sapeva che assieme avrebbero fatto faville. Best, però, era la vera arma in più, il campione decisivo. “Appena possibile, date la palla a George”, soleva dire per preparare le sue partite. Peccato che il mito abbia bruciato troppo presto il campione. Ci saremmo divertiti tutti molto di più. Le triplette “italiane” Michel Platini (Francia - Juventus. Pallone d’Oro 1983, 1984 e 1985) Se da ragazzino fai finta di firmare autografi storpiando il tuo cognome per

La Pulce punta al quinto sigillo

inserire il nome del tuo idolo, Pelè, e al momento di fornire le generalità per la compilazione dei documenti d’identità scrivi “calciatore” come professione, il calcio non può che essere nel tuo destino. Questo è solo l’inizio della grande epopea del pallone di Michel Platini, il genio francese che riuscì a vincere per la prima volta nella storia tre trofei del “Pallone d’Oro” consecutivamente. La storia di “Le Roi” parla di emigrazione dalla provincia novarese, di un amore vero per il pallone e di sana ambizione. Nel maggio 1987 dopo la sua ultima partita in Serie A Platini disse: “Ho giocato nel Nancy, perché era la mia città e la migliore della Lorena, nel Saint-Etienne, perché era la migliore in Francia e nella Juventus perché era la migliore al mondo”. Bastano queste poche parole a spiegare il carattere del più grande giocatore francese di tutti i tempi. Gianni Agnelli, l’avvocato in persona, era innamorato follemente del suo cal-

cio, passionale e divertente, tanto che per averlo arrivò a spendere 148 milioni di lire pur di vederlo in bianconero. “L’abbiamo comprato per un tozzo di pane e lui ci ha messo sopra il foie gras”, dirà successivamente il numero uno di Torino. Un amore, quello fra Platini e la Vecchia Signora, che ha resistito alle polemiche, ma anche e soprattutto al tempo. Nessun numero 10 bianconero ha più fatto ciò che “Le Roi” è stato in grado di fare. Marco van Basten (Olanda - Milan. Pallone d’Oro 1988, 1989 e 1992) Chiunque ami il calcio non può non conoscere “Il Cigno di Utrecht”, al secolo Marco van Basten. Il centravanti olandese, protagonista assoluto della rivoluzione rossonera del Milan di Arrigo Sacchi, è stato per molto tempo il prototipo dell’attaccante moderno. Veloce, grande fisico e piedi da fuoriclasse vero. Un talento immenso, purtroppo

foto Agenzia Liverani

foto Andrea Ninni/Image Sport

foto Daniele Buffa/Image Sport

foto Matteo Gribaudi/Image Sport

SPECIALE/ PALLONE D’ORO

RONALDO, IL PIU’ GIOVANE A 21 anni, il brasiliano ha vinto il suo primo Pallone d’Oro

mal sorretto da caviglie fragili come il cristallo. Una menomazione che lo obbligò a salutare il calcio giocato troppo presto, a soli 30 anni. Al Milan trascorre sette stagioni, di cui solo cinque a pieno regime, ma bastano per incidere il suo nome nella storia. Quattro scudetti, quattro Supercoppe Italiane, tre Champions League, tre Supercoppe UEFA e due Coppe Intercontinentali: ecco qual è il bagaglio del fenomeno olandese. Più tre indimenticabili Palloni d’Oro. Diego Armando Maradona di lui disse: “Van Basten è una macchina da gol che si è rotta ad un passo dalla vetta”. Rimane comunque un mito. Il re dei re… Lionel Messi (Argentina - Barcellona. Pallone d’Oro 2009, 2010, 2011 e 2012) Quattro titoli, ad onor del vero, tre come Pallone d’Oro Fifa (nel 2010 c’è stata la fusione tra l’antico Pallone d’Oro France Football e il Fifa World Player

of the Year). Nessuno ha vinto più trofei di lui. Messi, l’artista del Barcellona, è il re dei re, colui che vanta più scettri (tra l’altro il quinto, lo scorso anno, gli è sfuggito per un soffio). Giocatore nato nell’ombra di Maradona, a suon di titoli, la sua storia l’ha scritta e pure a caratteri cubitali. Che sia già leggenda è un fatto, che possa vincere altri titoli molto probabile. Difficile dire se sarà ancora lui a trionfare quest’anno. Cristiano Ronaldo, forte di due successi, punta al terzo e poi, nell’anno del Mondiale, c’è una Germania intera che spinge per dare merito ad uno dei propri fenomeni (Muller?). Storicamente il Pallone d’Oro è in grado di regalare sorprese inattese. Tuttavia una certezza ce l’abbiamo: considerata la nostra più che disastrosa spedizione in Brasile, sarà improbabile vedere uno dei nostri alzare il trofeo che tutti vogliono. Il Pallone d’Oro, da qualche anno, è affare d’altri ma resta comunque di grande fascino…

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SPECIALE CASA MILAN

di Pietro MAZZARA

foto Daniele MASCOLO

SPECIALE/ CASA MILAN

NUOVA SEDE

Il Milan cambia casa per nuovi trionfi

A CASA DI BARBARA Calcio2000 ha visitato la nuova sede del Milan, un progetto innovativo, al passo con i tempi e dal futuro roseo‌

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SPECIALE/ CASA MILAN

I

cambiamenti sono spesso sinonimi di innovazioni. Cambiare per migliorare è certamente qualcosa di positivo ed è quello che ha pensato Barbara Berlusconi quando è entrata a far parte del Consiglio d’Amministrazione del Milan il 20 aprile 2011. Ci voleva qualcosa di nuovo, che potesse far spiccare nuovamente il club anche in un ambito aziendale, che era stato fin troppo oscurato dai grandi risultati sportivi ottenuti fino a quel momento dalla squadra. Un club da considerare come un’azienda che potesse guardare al futuro con qualcosa di nuovo da proporre ai suoi clienti, ovvero i tifosi. Nasce da queste intuizioni, e non solo, l’idea di dare un nuovo quartier generale al club, una struttura futuristica che possa essere considerata un punto di riferimento per tutti. La nuova casa del Milan diventa una realtà tra la fine del 2012 ed il 2013, quando Barbara Berlusconi individua nella zona della vecchia Fiera di Milano il punto giusto per realizzare un progetto ambizioso ma che, nel medio periodo, consentirà al Milan di incamerare ulteriori introiti per aumentare il suo fatturato. La location è quella che si colloca alle spalle dei vecchi padiglioni di Fiera Milano City, un’area che, nelle idee del comune di Milano, dovrà rappresentare un nuovo polo d’attrattiva della città ed ecco che, uno dei palazzi principali della zona, di proprietà della Vittoria Assicurazioni, viene individuato come l’ideale per rendere così operativo, l’addio alla storica sede di Via Turati 3 che ha visto in Ricardo Kakà l’ultimo giocatore di livello firmare il suo contratto nella vecchia sala delle coppe. Il trasferimento dei vari uffici si completa nelle ultime settimane del 2013, con Adriano Galliani che è tra gli ultimi a lasciare il suo vecchio ufficio, collocato al terzo piano della scala B. Un cambiamento epocale per un club, come quello rossonero, abituato da sempre ad innovare e che in molti non pensavano potesse essere così imminente. Ma si è trattato anche di un cambio necessario, visto che in via Turati non era possibile ampliare ulteriormente gli spazi a disposizione della società, con alcuni dipartimenti che erano dislocati

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SPECIALE/ CASA MILAN

tra di loro, mentre nella nuova struttura c’è maggior compattezza e più facilità di comunicazione. Il progetto è stato seguito dall’architetto Fabio Novembre che ha coinvolto Barbara Berlusconi in ogni singola fase della realizzazione di Casa Milan. Ogni dettaglio è stato curato in maniera meticolosa dall’ad rossonera che, spesso, si è recata in cantiere per controllare di persona lo stato d’avanzamento dei lavori. Quella che è stata inaugurata ufficialmente lo scorso 19 maggio, è una sede moderna, polivalente e in grado di essere individuata dai tifosi come un nuovo simbolo della società. Non è un caso che la stessa Casa Milan abbia un suo logo ufficiale che, quest’anno, campeggia sulla seconda maglia della squadra. Ma come è strutturata la nuova sede rossonera? Il palazzo è composto da quattro piani, ognuno dei quali svolge una funzione specifica. Il primo piano è dedicato a Milan Lab e a quello che sarà il suo centro di ricerca che coinvolgerà non solo il lavoro svolto a Milanello, ma anche quello effettuato al Centro Sportivo Vismara per le giovanili. Nel suo settore specifico, un unicum in Italia che al Milan sperano possa dare dei frutti importanti. Il secondo piano è caratterizzato dagli uffici amministrativi della società, dalla gestione stadio ed eventi relativi all’intrattenimento dei tifosi e da quelli riservati al progetto giovani. È presente anche un ufficio dedicato ai dirigenti del settore giovanile. Al terzo piano invece troviamo uno dei punti più vissuti della sede ovvero la sala stampa “Beppe Viola”, dove sono avvenute tutte le principali conferenze stampa degli ultimi mesi, da quelle commerciali, alle presentazioni dei giocatori fino a quella per l’approvazione del bilancio societario. La sala stampa, di grande impatto, è dotata di oltre 50 posti a sedere, di una cabina regia cablata che ha consentito le dirette televisive di tutti gli eventi svolti lì dentro, oltre alle uscite audio per le telecamere. Alle spalle della sala stampa troviamo il lounge “Seconda pelle”, un ambiente sobrio, ma allo stesso tempo raffinato dotato anche di una terrazza che, lo scorso 6 giugno, ha ospitato il pranzo del presidente Berlusconi nel giorno della sua prima visita alla sede. Guardando agli aspetti operativi, al

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SPECIALE/ CASA MILAN

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L’ORGOGLIO DI BARBARA

Una nuova sede per creare ancor più business, sempre in stile Milan terzo piano si trovano gli uffici della direzione comunicazione, dall’area commerciale, dell’area marketing e il dipartimento digital. Il quarto e ultimo piano è da considerarsi la vera e propria stanza dei bottoni del club, perché è quello dedicato alla dirigenza. È qui che si trovano gli uffici di Adriano Galliani e Barbara Berlusconi, ma anche del direttore organizzativo Umberto Gandini e del direttore sportivo Rocco Maiorino. Ma, come ovvio, non poteva mancare l’ufficio presidenziale che si trova nel punto più estremo della struttura e che fornisce, dalle sue vetrate, una visione mozzafiato di Milano. Silvio Berlusconi ne ha preso possesso lo scorso 6 giugno promettendo a tutti che, presto, sarebbe tornato ad occuparlo. Ogni piano è munito di almeno una sala riunioni, ognuna delle quali porta il nome di un’area che ha fatto o la storia di Milano o del Milan e così troviamo la sala dedicata a San Siro, alla vecchia sede di via Turati, ma anche quelle che richiamano posti fondamentali per la città come il Duomo, il Castello e via Montenapoleone. La struttura poi viene completata da due parcheggi sotterranei: il primo dedicato ai dipendenti mentre il secondo, una volta ultimato, sarà dedicato a tutti coloro che vorranno usufruire delle attività commerciali che arricchiscono Casa Milan, facendola diventare un pezzo pressoché unico nel panorama calcistico mondiale. Al ristorante “Cucina Milanello”, per esempio, i tifosi possono godersi le partite sui maxi schermi e gustare un menù ricco che varia a seconda della squadra contro la quale giocano i rossoneri. Nel corso dell’estate, Casa Milan ha trasmesso tutte le partite della nazionale raccogliendo un grande successo di pubblico. Lo Store e la biglietteria, infine, sono altri due servizi che stanno ingranando e che stanno dando dei risultati soddisfacenti.

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Casa Milan è il primo grande progetto della figlia di Silvio...

UN CAMBIO EPOCALE Dopo 47 anni, il Diavolo ha una nuova dimora, pronta per festeggiare nuovi trionfi… Cambiare casa dopo 47 anni non è mai facile. Perché quelle mura sono piene di ricordi che profumano ancora di vittorie e di campioni che hanno scritto

pagine indelebili della storia rossonera. Ma spesso le opportunità portano a fare delle scelte diverse da quelle dettate dal cuore, come ha confermato Barbara Berlusconi il giorno dell’inaugurazione di Casa Milan: “Ci dispiace aver salutato una sede storica come quella in via Turati, che ci ha ospitato per quasi 50 anni. Casa Milan sarà anche un punto di incontro, non sarà solo un luogo di lavoro per i dipendenti del club”. È qui che la società, dopo anni di invasioni in via Turati, vuole tornare a festeggiare i suoi futuri successi ma non solo. Casa Milan è diventata il centro nevralgico di tutte le principali attività del club. Lo scorso 10 luglio, ad esem-

pio, il raduno ufficiale della squadra si è svolto proprio nel nuovo quartier generale. Un evento che ha raccolto quasi 5000 persone e che ha visto i giocatori impegnati in varie attività negli stand del Milan Village. La nuova sede è piaciuta a tutti, anche a Silvio Berlusconi che di recente ha affermato: “Casa Milan è la più bella sede di una squadra di calcio al mondo. Devo fare i complimenti a mia figlia Barbara per aver realizzato questo grande progetto”. Da sottolineare come la vendita della vecchia sede rossonera, oggi divenuta un complesso di uffici, ha fruttato al club circa 11 milioni di euro, come evidenziato dall’ultimo bilancio societario.

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SPECIALE/ CASA MILAN

MONDO MILAN

SPECIALE/ CASA MILAN

RICORDI INDELEBILI Nel museo, tutto evoca grandi trionfi rossoneri

QUANTI CAMPIONI

Non mancano le maglie dei tanti fuoriclasse del Diavolo

è IL MUSEO INTERATTIVO, un luogo che evoca emozioni incredibili… L’attrazione più suggestiva della sede è certamente il museo “Mondo Milan”. Un percorso che va dal 1899 ai giorni nostri e che ripercorre, anno dopo anno, tutte le stagioni rossonere. Negli anni delle vittorie, indicate con il colore rosso, sono presenti degli schermi contenenti contributi esclusivi dei protagonisti che raccontano in prima persona, con aneddoti vari, i trionfi da loro vissuti. Molti i cimeli esposti. Tra questi, nella prima area, ci sono pezzi unici come la maglia più vecchia della nazionale italiana indossata dall’allora milanista De Vecchi nel 1912, il pallone della finale di Coppa dei Campioni del 1963 vinta a Wembley contro il Benfica, le scarpe di Gunnar Nordhal e una maglia indossata dal Nils Liedholm. La seconda area storica del museo è caratterizzata dall’epopea berlusconiana. Qui, tra le memorabilia esposte, troviamo gli appunti di Pietro Carmignani preparati in occasione della finale di Coppa Intercontinentale del 1990, la cravatta di Galliani indossata nella finale di Atene del 2007 con il Liverpool e le scarpe di Daniele Massaro con le quali realizzò la doppietta nella finale del 1994 contro il Barcellona. La parte centrale del museo rossonero è caratterizzata dalla suggestiva sala delle coppe, mentre il tour si conclude con la mostra dei palloni d’Oro vinti dai giocatori del Milan. Ogni visitatore del museo Mondo Milan, all’ingresso, viene dotato di un braccialetto interattivo in base al quale può personalizzare la sua esperienza, scegliendo autonomamente i contenuti che ritiene più importanti. Prima di varcare la porta che introduce nel primo salone, i visitatori vengono accolti da una citazione di Barbara Berlusconi dall’alto impatto emotivo: “La nostra storia non è il passato, è il modo che abbiamo scelto per presentarci al futuro. È spettacolo, è passione. Questo è il Milan: una questione di cuore. Il nostro, il vostro”. Il coinvolgimento del tifoso,

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dunque, parte subito con una scarica di adrenalina purissima che viene acuita poco prima di lasciare la sala dei palloni d’oro dove c’è un’altra citazione, questa volta di Silvio Berlusconi, a chiudere il tour: “Domani sogneremo altri traguardi, inventeremo altre sfide. Cercheremo altre vittorie che valgano a realizzare ciò che di buono, di forte e di vero c’è in noi. In tutti noi che abbiamo nel cuore questa ventura di intrecciare la nostra vita con un sogno che si chiama Milan”. Una volta finita la visita, l’esperienza può essere rivissuta grazie al museo digitale. Sulla falsa riga dei tour dei musei degli altri club europei, anche quello di Mondo Milan si conclude nello store che vanta centinaia di articoli che vanno dal materiale tecnico a quello brandizzato Casa Milan. Ma il nuovo museo rossonero, che ha ricevuto visite da parte di tifosi di tutto il mondo, è pronto ad ampliare i sui orizzonti. In attesa di ricevere altri cimeli ed essere arricchito con nuove vittorie, la struttura verrà presto aperta anche alle scuole con percorsi educativi e conoscitivi su misura, che possano aiutare i tifosi del domani a capire cos’è stato, non solo per il calcio ma anche per la città, il Milan nel corso dei suoi 115 anni di storia.

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SPECIALE/ CASA MILAN

PROGETTO GLOBALE

SPECIALE/ CASA MILAN

INTERATTIVITà

A Casa Milan si può “entrare in contatto” con la storia

Dopo pochi mesi, la nuova casa rossonera è già un successo… Ma Casa Milan non è solo un progetto per il Milan, lo è per tutta la città di Milano e non solo. Il suo alto tasso attrattivo ha fatto sì che, da quando è stata aperta ufficialmente al pubblico, la nuova sede milanista è stata visitata da oltre 50 mila persone per un incasso complessivo che supera i due milioni di euro. Il giorno della presentazione alla stampa, il direttore dell’area commerciale Jaap Kalma, ha affermato: “È un progetto nuovo ed innovativo. Le nostre aspettative sono quelle di chiudere il primo anno di attività di Casa Milan con circa 100 mila visitatori complessivi”. Ad oggi, quel dato sembra essere ampiamente raggiungibile visto il trend sempre più positivo che vede, quotidianamente, molti tifosi recarsi in via Aldo Rossi. Il flusso maggiore lo si ha soprattutto nei giorni delle partite visto che i dati ufficiali parlano di una media di oltre 3000 visite nei match-day. Dopo i primi 100 giorni di attività, Barbara Berlusconi ha dichiarato: “Casa Milan è già una sfida vinta dal punto di vista commerciale, ma soprattutto perché è già diventata la casa di tutti i tifosi milanisti. È già entrata nel cuore di tutti noi rossoneri”. Difficile darle torto ma il progetto non si fermerà qui. Casa Milan, ad oggi, rappresenta qualcosa di unico che potrà aprire le porte a nuovi mercati, finora poco esplorati, per la società rossonera. Non è un caso, infatti, che molti imprenditori esteri, siano rimasti affascinati dal piano aziendale che ruota attorno al quartier generale milanista, con richieste di informazioni pervenute, nei mesi scorsi, da ogni parte del mondo. Un progetto manageriale e industriale che ha come obiettivo quello di far crescere il brand Milan nel mondo anche grazie a qualcosa che gli altri club italiani non hanno. Nel business plan di Barbara, Casa Milan, soprattutto nei Emirati Arabi, potrebbe rappresentare anche il nome di un eventuale parco giochi

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LA STANZA DEI TROFEI

Imperdibile la visita nel luogo magico, quello delle grandi vittorie...

tematico da realizzare sulla falsa riga del Ferrari World, progetto al quale Jaap Kalma aveva lavorato nella sua precedente esperienza nella dirigenza della scuderia di Maranello. “Casa Milan nasce per il desiderio di creare un contatto tra società, giocatori e tifosi. Noi lavoriamo e portiamo avanti questa passione per i tifosi e quindi di questo sono felicissima”. (Barbara Berlusconi, 10 luglio 2014) Quel che pare evidente è che Casa Milan possa avere un boom di visite nel corso del periodo dell’Expo 2015 che si terrà proprio a Milano. Il giro turistico della città sui pullman metterà nel suoi luoghi da visitare proprio via Aldo Rossi che, nei prossimi mesi, sarà facilmente raggiungibile grazie all’imminente apertura della nuova fermata della metropolitana. Il marchio Milan, all’estero, è il più forte tra i club italiani e questo potrebbe essere anche un elemento a favore dell’incremento di accessi giornalieri alle proprie attività. Infine, tra gli obiettivi del club, ci sarebbe quello di organizzare un proprio tour per i gruppi che preveda la visita sia alla sede sia a quello che, nei piani, dovrebbe essere il nuovo stadio. Perché il fine ultimo, oltre a quello commerciale, è quello di far sentire i milanisti sempre a… Casa.

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SERIE B PRO VERCELLI

di Tommaso MASCHIO

SERIE B/ PRO VERCELLI

spostato al centro dell’attacco e così ho trovato maggiore continuità sotto porta e sono andato a segno con regolarità”.

L’EROE DI SEMPRE Marchi è un simbolo per la Pro Vercelli...

VOGLIA DI STUPIRE Tanti sogni, tra cui quello di giocare in A...

Ettore Marchi, eroe della promozione, vuole confermarsi in B: “Poi sogno la A. Ma non ci penso”

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inizio a Gubbio, sua città natale, poi in giro per la provincia fra Trieste, la Romagna e Portogruaro. Il Sassuolo che si appresta a diventare grande, la puntata al Sud con il Benevento e infine la storica Pro Vercelli. Questo il giro d’Italia di Ettore Marchi, attaccante duttile e generoso, con due promozioni in B conquistate e una in Serie A sfiorata alle spalle, un presente che si chiama Pro Vercelli e un obiettivo ben preciso in testa: confermarsi bomber in serie cadetta e salvare la propria squadra. Senza voli pindarici, ma con l’ambizione propria di un calciatore che ha sempre lavorato sodo tenendo i piedi ben piantati per terra. A Gubbio sei nato e cresciuto e lì hai esordito fra i professionisti più di 10 anni fa. Che ricordi hai di quel momento? Che emozioni hai provato? “Il ricordo è bellissimo, perché sono nato a Gubbio ed esordire a casa propria è sempre qualcosa di speciale. Certo erano tempi diversi, c’era ancora la C2, ma restano indelebili. Ricordo che alla seconda di campionato incontrammo il Gualdo,

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Onestamente non ho alcun motivo per andare via da Vercelli una rivale storica, e per me fu molto bello e speciale scendere in campo contro di loro e giocare quella sfida”. Nel 2007 doppio salto in avanti. La Serie B con la Triestina e tanti prestiti in giro per l’Italia: Sangiovannese, Bellaria e Portogruaro. “A Trieste nei primi 3-4 anni andai in prestito in giro per l’Italia e furono tutte esperienze importanti sia per la mia crescita come calciatore che come uomo. Inoltre mi sono tolto delle belle soddisfazioni come la promozione in Serie B con il Portogruaro”. Proprio coi veneti conquisti la tua prima promozione in serie cadetta. Una promozione storica. “Ho ricordi fantastici di quella stagione.

Arrivammo primi davanti a due squadre importanti come Hellas Verona e Pescara, che sono un lusso per quella categoria e che adesso stanno facendo grandi cose rispettivamente in Serie A e Serie B. Tutti i ricordi di quell’anno sono più che positivi”. Nel 2011 vai a Sassuolo, sfiori la promozione in Serie A, ma non resti. Hai qualche rimpianto per non essere rimasto in Emilia? “Non ho rimpianti per aver lasciato il Sassuolo, anche perché fui io a voler andare a Benevento. Sfiorammo la Serie A perdendo solo nei play-off contro la Sampdoria e sono contento che la squadra sia poi riuscita a essere promossa e restare nella massima serie. Ho ancora buoni rapporti coi ragazzi che sono rimasti da quell’avventura. In generale però non mi guardo mai indietro, ma sempre in avanti”. Benevento e infine la Pro Vercelli. Qui hai anche trovato maggiore continuità sotto porta. “Quando sono arrivato a Vercelli, il mister ha cambiato il mio modo di giocare e il mio ruolo: prima giocavo più largo, quasi da ala, mentre Scazzola mi ha

Chi è Ettore Marchi? Chi sono i suoi idoli calcistici? “Non ho mai avuto idoli calcistici e non ho mai aspirato ad assomigliare a qualcuno in particolare. Penso solo a me stesso e a lavorare per migliorarmi sempre di più imparando dai giocatori più esperti che ho incontrato in questi anni. Lavoro duramente ogni giorno per poter dare il meglio di me il sabato in campo. In generale sono un tipo tranquillo, che ha avuto foto Andrea Ninni/Image Sport

L’Ettore di Vercelli

In estate hai detto: “Via dalla Pro solo se mi cacciano”. Una bella dichiarazione d’amore? “Qui mi sono trovato benissimo fin da subito sia con la piazza che con la società. Ho trovato un gruppo fantastico e per questo motivo in estate pronunciai quella frase a mo’ di battuta. Onestamente non ho alcun motivo per andarmene via da Vercelli”.

la fortuna di avere una famiglia solida al suo fianco”. foto Matteo Gribaudi/Image Sport

foto Andrea Ninni/Image Sport

Cosa puoi dirci di questo allenatore giovane e già vincente? “Mister Scazzola è come lo si vede da fuori. Un grande lavoratore che prepara ogni gara in ogni dettaglio, fino al più piccolo particolare. Quando si lavora così tanto e bene, è normale che i risultati arrivino prima o poi e nel suo caso sono arrivati fin da subito con la promozione in B al primo tentativo”.

Quali obiettivi ti poni per questa stagione e per il futuro? “Per me l’obiettivo è sempre dare il massimo per raggiungere i traguardi che la squadra si pone. Non penso ai gol e non mi pongo obiettivi precisi. Non faccio voli con la fantasia, ma tengo i piedi per terra. Ora voglio solo confermarmi in Serie B e

restarci assieme a questa squadra”. La Serie A non rientra fra i tuoi pensieri? “Ovviamente l’ambizione c’è e la Serie A resta un sogno per tutti quelli che fanno questo mestiere. Però ora non è nei miei pensieri, non voglio fare il passo più lungo della gamba. So che queste parole possono far sembrare che non abbia ambizioni, ma non è così. Sono solamente realista”.

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LEGA PRO REGGINA

di Pasquale ROMANO

LEGA PRO/ REGGINA

CLASSE NON MENTE

TORNARE A NAPOLI

Roberto sogna di diventare protagonista al San Paolo...

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acchiappasogni. Giovanissimo, Roberto Insigne ha già assaporato la magia del San Paolo, ineguagliabile per ogni napoletano verace

come lui. La voglia di riprovare quel brivido è immaginabile, l’attaccante campano ha le idee chiare e la determinazione per tramutarle in realtà: “Non lo nascondo, il mio sogno è quello di tornare al Napoli, al fianco di mio fratello Lorenzo. Esordire in Serie A con lui in campo è stato qualcosa di indescrivibile, una splendida emozione che voglio riprovare”. La società partenopea, per farlo crescere e consentirgli di scendere in campo con maggiore continuità, nella scorsa stagione lo ha ceduto al Perugia. Gli umbri dopo una splendida cavalcata sono volati in B, Insigne dopo una buona partenza ha fatto ‘crac’: “Al primo anno tra i professionisti ho subito centrato la promozione, ovvia la notevole soddisfazione. Peccato per l’infortunio (frattura del quinto metatarso del piede destro, ndr) che mi ha tenuto

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per qualche mese lontano dal rettangolo verde, ma credo di aver comunque contribuito al successo della squadra”. Cercato da diverse società nel corso dell’ultimo calciomercato, Insigne ha scelto la Reggina per ripartire dalla riformata Lega Pro: “È vero, ho ricevuto tante proposte. Ho preferito la Reggina per il suo trascorso importante e l’abitudine che ha nel fare crescere giovani calciatori. Ho chiesto un consiglio a mio fratello Lorenzo, lui mi ha assicurato che a Reggio Calabria avrei trovato l’ambiente giusto”. Con la società amaranto, Insigne ha ripreso le fila di un discorso iniziato tempo fa…: “Sarei potuto venire alla Reggina alcuni anni fa, dopo un provino però decisi che a 14 anni era meglio rimanere a Napoli, per crescere vicino alla famiglia”. Rapido e imprevedibile, con un sinistro affilato, l’attaccante napoletano in questa stagione è partito con il turbo. Difficile immaginare un impatto migliore in maglia amaranto. Con sei realizzate nelle prime sette giornate,

Insigne è il capocannoniere dell’intera Lega Pro. Magica la prima domenica di ottobre: la tripletta realizzata contro il Cosenza lo consegna alla storia del club calabrese. E gli permette di portarsi il pallone a casa, prima di cederlo all’amata: “Dopo averlo firmato l’ho regalato alla mia fidanzata, ci tenevo. È stata una giornata perfetta, l’importante però era ottenere i tre punti. Dopo qualche risultato negativo volevamo reagire e l’abbiamo fatto nel migliore dei modi. Dobbiamo proseguire su questa strada”. La formazione allenata da Cozza non ha ancora chiaro l’obiettivo all’orizzonte, dopo un inizio di stagione tra alti e bassi. Insigne prova ad alzare l’asticella: “Abbiamo le potenzialità per arrivare in zona play off, dobbiamo essere più concreti negli ultimi sedici metri. Nessuno può negare, però che siamo una squadra che gioca a calcio, con una mentalità offensiva e voglia di imporsi contro tutti gli avversari”. Esterno destro nel tridente schierato da Cozza, Insigne può ‘rubare’ i truc-

foto F.De Luca

Roberto sogna Napoli per dimostrare di Valere il San Paolo. A REGGIO CALABRIA cerca il pass per la gloria…

chi del mestiere a un prestigiatore evergreen come Di Michele: “Largo a destra nel tridente è la zona di campo dove mi sento maggiormente a mio agio, posso giocare, però anche da trequartista o seconda punta. Peccato per

l’infortunio di Di Michele, anche perché con una squadra giovane come la nostra la sua esperienza serve doppiamente”. Desideri e aspirazioni in cima alla salita di una carriera appena iniziata.

La volontà di raggiungere il traguardo è legata a una passione giovanile: “Da bambino andavo matto per la bicicletta, pedalavo tutti i giorni e immaginavo avrei fatto il ciclista. Una volta toccato il pallone però, l’ho posata e mai più ripresa…”

2 TALENTI IN FAMIGLIA di Pasquale ROMANO Lorenzo e Roberto, due fuoriclasse nati sotto lo stesso tetto…

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na baciato dal destino e stessa voglia di stupire con il pallone tra i piedi. Uno scatto dalla panchina per esultare a un gol del fratello, ha catturato l’attenzione di Mazzarri durante un Napoli-Palermo, nel gennaio del 2013. Il risultato oramai al sicuro (3 a 0 in favore dei campani) ha favorito l’esordio in Serie A di Roberto Insigne. Debutto accompagnato da una battuta del tecnico toscano (‘Ehi bambino, scaldati ed entra in campo’): “Ringrazio Mazzarri per la gioia che mi ha regalato, si tratta di un tecnico bravo dentro e

fuori dal campo. A mio fratello mi lega un rapporto particolarmente intenso, ci sentiamo spesso e io gli chiedo qualche consiglio”. Lorenzo Insigne e il Napoli. L’affetto dei tifosi azzurri non è ai massimi storici, del resto ogni vero amore che si rispetti ha i suoi alti e i suoi bassi: “Personalmente sono molto contento di Lorenzo, quando scende in campo fa sempre il suo dovere. Lui sente come nessun altro quella maglia, e nonostante qualche fischio dei tifosi dubito la lascerà mai”. Zeman l’allenatore che ha aiutato Insigne senior ad esplodere, in un rapporto produttivo per entrambi: “È vero che il tecnico boemo è stato importante

foto F.De Luca

L’ALTRO INSIGNE…

foto Giovanni Evangelista / Tuttolegapro.com

Come il fratello Lorenzo, anche Roberto ha i numeri del campione

per Lorenzo, ma è vero anche il contrario. Si devono ringraziare a vicenda, Zeman è stato bravo a tirare fuori delle qualità che mio fratello già aveva”. Il poster in camera, da ragazzino, era in ‘bianco e nero’. L’idolo però è a colori...: “Del Piero il giocatore che più ho ammirato quando ero piccolo. Ma se devo indicare il preferito non ho alcun dubbio. Da sempre e per sempre sarà mio fratello...”

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SERIE D RIMINI

di Simone TONINATO

SERIE D/ RIMINI

L’ANIMA DEL RIMINI

Ricchiuti è il punto di riferimento dei biancorossi

IN A CON IL CATANIA

SI RIPARTE DA “CHICO”… Gli antichi fasti sono lontani ma il Rimini ha voglia di tornare grande, con Ricchiuti al TIMONE...

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piagge e mare al sole della riviera adriatica o all’ombra del Tempio Malatestiano, basterebbe questo per accontentarsi, ma Rimini è anche altro, Rimini è anche e soprattutto una città di calcio. Protagonista di un caso curioso, la prima telecronaca trasmessa da una tv privata fu l’incontro Rimini – Spal del 5 dicembre 1971, la compagine biancorossa vanta un quinto posto in serie B nel 2006/07 come miglior risultato assoluto, nel torneo in cui i primi tre posti vennero occupati da Juventus, Napoli e Genoa; non proprio le ultime arrivate del calcio nostrano. Tra le altre cose, all’epoca allenato da Leonardo Acori, quel Rimini fu l’unica squadra insieme ad Albinoleffe e Spezia a non perdere nel doppio confronto con la “Vecchia Signora” di Deschamps. Di quella squadra, retrocessa due anni più tardi e capitolata fino alla serie D, non è rimasto più nulla, ad eccezione di Adrian Ricchiuti (“Chico” per i riminesi), che dopo le parentesi Catania ed Entella, ha deciso di tornare per riportale il Rimini nel calcio che conta. In serie A hai giocato 86 partite, in B

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la bellezza di 215 segnando 38 gol. La tua carriera dice che con la serie D Ricchiuti c’entra poco. Perché hai deciso di tornare? “E’ semplice, tifo Rimini, qui ho la famiglia e con questa maglia mi sono tolto tante soddisfazioni. Sono innamorato di questa città”. Quindi non c’entra il fatto che tu abbia segnato cinquantacinque gol con il Rimini e il record di Cinquetti sia a sole sei lunghezze? “Il mio compito è innanzitutto quello di dare una mano a questa squadra con la mia esperienza. Ci sono tanti ragazzi e io mi sento responsabile, devo dare il buon esempio …anche perché oltre che giocatore sono il primo tifoso. Poi cercherò di battere il record di Cinquetti, mi auguro di riuscirci”. Prima accennavi alle tante soddisfazioni che legano te a questa squadra. Scegliamone una, che ci dici del gol segnato a Buffon, fresco campione del Mondo, in quel Rimini – Juve 1-1 del settembre 2006? “Quello è un ricordo incredibile, mi auguro che un giorno il Rimini possa gio-

care in Serie A e spero di poter essere vivo per vederlo. Altrimenti penso che un Rimini-Juventus di campionato sia irripetibile, perché credo che la Juve in B non ci andrà mai più”. Da capitano, dove pensi possa arrivare questo Rimini? Ha le carte per centrare la promozione? “La squadra è stata costruita per vincere, ma è dura perché è un torneo molto competitivo e difficile. In serie D si gioca meno e si corre tanto, ci sono i ragazzini di 16-17 anni che corrono come matti. Ma noi abbiamo un solo risultato, la squadra è importante, quindi non ci resta che cercare di vincere il campionato. Mi sento molto responsabilizzato”. Rispetto alla squadra con cui hai fatto la serie B è cambiata tutta la dirigenza, anche mister e gruppo sono nuovi, come ti trovi? “E’ vero, è cambiato tutto, società, dirigenza, di vecchio non c’è più nessuno. Io mi trovo molto bene, il gruppo è valido e se stiamo incontrando qualche difficoltà è perché dobbiamo entrare nella mentalità della nuova categoria. Anche la squadra è tutta nuova, ma ci stiamo compattando

foto Credits Ufficio Stampa Rimini

foto Credits Ufficio Stampa Rimini

Bandiera del Rimini ma anche con un passato siciliano...

ADRIAN RICCHIUTI per recuperare i punti persi”.

così, l’importante è scendere in campo”.

In passato hai fatto l’attaccante, ma non solo. Qui con mister Acori giocavi in avanti, poi a Catania hai fatto anche l’interno di centrocampo, di certo non ti si può rimproverare nulla sulla versatilità. Ma, potendo scegliere, in che zona del campo preferisci giocare? “Il mio ruolo naturale è la seconda punta. A Catania ho fatto il centrocampista e mi sono trovato molto bene, qui al momento non so in che ruolo posso giocare, perché ho fatto solo mezzora domenica (Mezzolara – Rimini del 12/10 ndr). Detto questo non sono troppo interessato al ruolo, dove mi mette il mister gioco, mi va bene

Ti sei detto innamorato di questa città e lo hai dimostrato tornando. Dato che oltre ad essere un calciatore sei anche un tifoso, ci parli del rapporto tra la città di Rimini e la squadra? Sempre sul tema tifosi, per tutto il mondo Pastore è “El Flaco”, Lavezzi è “El Pocho”, perché tu sei “Chico”? “Dopo la retrocessione si è creata una falla e la gente è ancora un po’ scettica, sta a noi riportarla allo stadio con i risultati e con le vittorie. Se riusciamo a fare risultati importanti la gente ci mette un attimo a ritornare allo stadio, come ha sempre fatto, è questo il segreto. Sul

mio soprannome in realtà non c’è un motivo particolare, semplicemente vengo dall’Argentina e i tifosi hanno deciso di chiamarmi “Chico”, tutto qui”. Hai 36 anni e il tuo contratto dura solo per questa stagione. Sai già cosa farai dopo? Magari andrai ad allenare come fanno ed hanno fatto molti dei tuoi colleghi? “Intanto va bene per un anno, poi si vedrà. In questo momento non voglio pensare ad altro, solo concentrarmi al massimo per disputare questa stagione nel migliore dei modi. Per il futuro ci sono tante idee, ma in questo momento devo pensare a fare bene sul campo. Ad oggi è questo il mio lavoro”.

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I RE DEL MERCATO GABRIELE GIUFFRIDA

I RE DEL MERCATO / GABRIELE GIUFFRIDA

GUARDIOLA SULL’AGENDA Nell’ultima pagina, la foto di Pep Guardiola, ora manager del Bayern

LA MIA FIESTA DEL CALCIO Da Sacchi a Hemingway, dal chiringuito a Formentera a Pochettino al Tottenham: storia di un INNAMORATO dEL pallone. di Marco CONTERIO foto Image SPORT

C’

è del profondo romanticismo, nell’amore malato di Gabriele Giuffrida per il calcio. Apre l’agenda e sorride. La figurina di Pep Guardiola in ultima pagina. Perché il football, in senso lato, è un rock ragionato e studiato, ma pure istinto e arte. Ama Roberto Baggio, che è la prima pennellata su una tela vergine, venera Arrigo Sacchi, che in confronto è il più scientifico dei matematici. “Sono un ragazzo normale”. La storia parte così. Ma ha radici ben più profonde. “Mio padre ed i miei nonni avevano gallerie d’arte come La Barcaccia e La Gradiva a Firenze, ma anche a Roma e Forte dei Marmi. Mio nonno, per esempio, ha lanciato De Chirico”. C’è poco di surrealismo, nelle parole di Giuffrida, l’uomo con la valigia con dentro Fiesta di Hemingway e tanta voglia di conoscere il mondo. “Faccio un lavoro bellissimo:

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viaggiare tanto ti arricchisce; ho visto posti incredibili e questo per me è ancor più sorprendente”. Perché? “Sono un abitudinario. Quasi un sedentario. Però, così, mi godo Roma, la mia Roma, come da turista, due-tre giorni alla settimana. Ed è bella, ancor più bella”. Suona davvero romantico. Artistico. “Il mio gusto per l’estetica ha prevalso su tutto il resto, con le conseguenze del caso. Anche nel calcio: guardo alla tecnica, alla cura del gesto, che ha spesso la prevalenza sulla parte pratica”. Eppure adora Sacchi, l’inventore di un calcio quasi scientifico. “Ero innamorato del suo metodo e modulo, ma anche di Baggio, come ora di Guardiola e pure di Mourinho. Sono facce di una stessa medaglia, materia di studio per un malato di pallone come me. Pensi che dal 1986 ho registrato tutte le gare

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I RE DEL MERCATO / Gabriele GIUFFRIDA

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Giuffrida in estate ha portato el Niño al Milan

I RE DEL MERCATO / Gabriele GIUFFRIDA

“” Dal 1986 ad oggi ho registrato Ogni gara dei Mondiali

2006: PUNTO DI ROTTURA Dopo Calciopoli, via al grande entusiasmo

dei Mondiali. Dalla prima all’ultima”. Non è bello ciò che è bello. “È un concetto relativo. La bellezza di Sacchi è diversa da quella di Guardiola. Io ascolto tutto e parlo soprattutto con chi ne sa più di me. Sono un egoista, in questo senso, perché tendo ad immagazzinare tutto. Anche nel mio lavoro, ho come riferimento i più bravi. Non lo dico per piaggeria: Branchini, Bozzo, Berti, Tinti, sono competitor da cui imparare”. È giovane ma ha già macinato chilometri, col pallone nella valigia. “Ed il saldo, nel calcio, non è mai globalmente positivo. Penso a quest’ultima estate...”. Ci tuffiamo subito su Torres. “Se vuole da Hernandez”. Chicharito? “Già. Da Javier Hernandez, che era al Manchester United. Esco dalla sede del Milan, felice per aver chiuso l’operazione Torres, sulla quale torniamo tra poco. Trovo sul cellulare un messaggio del procuratore, con cui stavo per chiudere l’affare. Mi disse che non si sarebbe fatto, perché si era inserito il Real Madrid”. Scusi, ma qui scappa la notizia. “Non ci allarghiamo: Javier Hernandez, a fine agosto, era molto vicino ad una società italiana. Ma non dirò quale...”. Un’estate ricca, però, con una grande soddisfazione: Fernando Torres al Milan. “Una passione adolescenziale. Quando uno è forte, è forte, e Fernando lo è ancora, come allora. Sono amico dell’agente di Torres, Margarita Garay, con cui ho condotto altre operazioni in passato in Spagna. Volevo fare Torres in Italia, da tempo, ma ogni volta c’era un motivo per non chiudere o per non riuscirci. Stavolta ce l’abbiamo fatta, era il momento

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I RE DEL MERCATO / Gabriele GIUFFRIDA

I RE DEL MERCATO / Gabriele GIUFFRIDA

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Coi calciatori è come con le ragazze: a volte vuoi convincerti che sia quella giusta

giusto. Il Milan l’ha scelto e lui ha scelto il Milan”. Certo che dall’amare Sacchi al chiudere Torres-Milan, il passo è lungo. “Riparto da lontano, allora. Faccio lo scientifico, poi studio legge, sempre vivendo a Roma. Nel frattempo mi divertivo a vedere le partite, ero malato di calcio a tal punto che con mio fratello Valerio e con mio padre, colui che ci ha trasmesso la passione, riuscivamo a vedere tutta la A grazie alle antenne a basse frequenze. Un amore che è sempre andato in crescendo, esploso ad Italia ‘90”. Il Mondiale delle notti magiche. “Ha cambiato le persone, le ho viste felici. C’era un’Italia diversa, erano le notti del ‘prima che finisse tutto’. O che iniziasse a finire, almeno. Però ho ricordi belli, indelebili. Di un’atmosfera, appunto, magica. E poi c’erano Baggio e Schillaci...”.

Via alle prime operazioni di mercato. “Thiago Gosling al Genoa, Maximiliano Pellegrino all’Atalanta, Artur al Cesena e tanti altri che non hanno cambiato la storia del calcio italiano, magari, ma sicuramente la mia. Anche per questo inizio a seguire con grande attenzione il Sudamerica, dove avevo contatti con Brasile ed Argentina”.

malità. “Lo ripeto, mi ritengo un ragazzo normale. Sulla strada incontrai Luciano Marangon. Fu lui a presentarmi Diego Maradona jr e Zenga jr, i miei primi giocatori, che portai al Genoa. Lo conobbi a Formentera in un chiringuito sulla spiaggia. Lui conosceva il mondo del pallone, da ex calciatore, le dinamiche televisive. Io, col tempo, ero entrato in contatto con molti calciatori, che erano miei coetanei, se non più grandi di me. Marangon non seguiva il calcio e capii che quella era una via propedeutica per il raggiungimento del mio obiettivo. Mi occupavo, tra le altre, della gestione delle ospitate dei calciatori in televisione: Ronaldo il Fenomeno a ‘C’è Posta per Te’. Kakà sempre a Mediaset, poi Adriano, anche Figo. Tutti i top all’epoca”.

NOTTI MAGICHE

Italia ‘90: il Mondiale che ha raccontato un’Italia felice

Tanto che, a proposito di luoghi, volti e nomi che cambiano una vita, passiamo a Rodrigo Palacio. “Chiamai un amico in Argentina che ci organizzò un meeting. ‘Vengo se incontro Rodrigo’, gli dissi e ci mise in contatto. Sapevo che era malato di un videogioco per la Playstation in particolare, PES, che in Argentina usciva successivamente. Glielo portai, apprezzò e da lì nacque il bel rapporto che ci lega anche oggi. E grazie a lui ho conosciuto Roberto De Pietri, che per me è come un fratello maggiore”. Palacio, dal Boca, non arrivò però subito in Italia. “Ci provammo con Juventus e Lazio. Un giorno, con Fabrizio Preziosi, figlio del presidente del Genoa, andai in Argentina: Fabrizio è uno che vive di prime impressioni. Si piacquero ed il matrimonio

Il calendario scorre. 2006. Odissea nel calcio italiano. “Fu il punto di rottura. Come quando cade un muro, come, fatte le debite e dovute proporzioni, per la caduta del Comunismo in Russia. Ci fu un nuovo inizio, un big bang, si aprirono possibilità per molti. Ci fu anche grande entusiasmo e, con quello, anche una buona dose di fortuna. Che credo sia un’attitudine”.

Poi, da passione, il calcio diventa lavoro. Ed in tutte le storie, c’è qualcuno o qualcosa che ti aiuta a tracciare la via. “Quando racconti la tua storia, vorresti sempre dire qualcosa di epico, perché vorresti fosse interessante per qualcuno. Io però non ho nulla di epico da raccontare”. È il bello e lo straordinario della nor-

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Con mio fratello Valerio ho un ristorante ad Ibiza ed uno a Miami fu subitaneo: il Genoa fu abile nel battere club del calibro di Atletico Madrid e Valencia, per un giocatore per il quale il Boca aveva detto di no a quattordici milioni dal Barcellona nella stagione precedente”. L’Argentina è un tango che ritma nel sangue. Che non se ne va più. Così diventa il suo leitmotiv. “Se parliamo di argentini, parliamo anche di Hernan Crespo. Con l’Avvocato Gianluca Chibbaro, che gestiva l’immagine, abbiamo iniziato ai tempi a collaborare: si trovò bene e ci chiese lui di seguirlo. È la soddisfazione più bella, quando accade. È un collezionista di attimi giusti, Hernan, una persona a cui sono molto legato. Per me è come un ‘milonguero’, è come un ballerino di tango con le scarpette da calcio che trasmette emozioni dentro e fuori dal campo”. Argentina, ovvero Mauro Boselli. “È una storia bella, quella di Mauro”. Fuori fa un gran caldo. Stiamo qui, comodi, e sentiamo con calma. “Lo osservavo con attenzione quando era al Boca Juniors, poi andò al Wigan, in Inghilterra, dove era in difficoltà. Roberto Martinez, ora manager dell’Everton, mi disse che lo volevano in tanti. Facemmo un affare col Genoa: sei mesi, in prestito, a cifre alte. E lì arriva la parte bella della storia, con Enrico Preziosi”. Prego. “Tutto fatto, tutti d’accordo, al momento delle visite lo staff sanitario trova però uno stiramento di quattordici millimetri. Preziosi, alle una di notte, chiamò Mauro per dirgli ‘ti aspetto, ti aspettiamo. Questa è la tua famiglia’. Mi spiace per la Sampdoria, fece un gol pesantissimo in un derby storico, ma ha scritto in poco

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FAMIGLIA DI CLASSE Gabriele Giuffrida con il fratello Valerio

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Prima di andare al Real, Hernandez è stato ad un passo dal venire in Italia tempo una pagina gloriosa di un club importante come il Genoa. Va come credo: dal bene, nasce il meglio. Sempre”. Artista e filosofo. È così che ha convinto Leandro Castan? “Bravissimo ragazzo, gran difensore, Leandro. Lo conobbi in Brasile, dopo aver incontrato il padre. Ci lavorammo per tutto l’inverno e poi lo portammo in Italia, alla Roma, che cercava uno con le sue caratteristiche e che già lo conosceva bene”. Estate 2014, salto temporale non male. Però la trattativa per il rinnovo è stata una bella sudata... “C’è stato anche un momento ‘nevrotico’, di stallo, visto che c’era anche il caso Benatia. Però abbiamo superato ogni momento di tensione ed è finita in modo bello”. A questo punto ci dice come... “Feci un video, dal mio cellulare, a Leandro dove diceva con un sorriso contagioso ‘Direttore, lo sa, io voglio firmare il nuovo contratto’. Alle 7 la mattina andammo in sede e facemmo tutto prima della partenza degli Stati Uniti. È stato il passo giusto per stemperare gli animi”. Se le dico London Calling? “Dico Mauricio Pochettino. Che soddisfazione portarlo al Tottenham, e pure che prestigio. Un rapporto nato ai tempi dell’Espanyol, lo conobbi grazie al mio amico Ramon Planes, allora direttore sportivo del club catalano. È sempre stato bello vedere le squadre di Pochettino giocare e per me è stata una grande soddisfazione: un italiano che porta un tecnico argentino dal Southampton ad una squadra di Londra così importante come il Tottenham. C’erano agenzie importantissime in corsa, la soddisfazione

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I RE DEL MERCATO / Gabriele GIUFFRIDA

‘GIVE ME THE MONEY’

DA BOSELLI A CASTAN

La dedica ironica di Crespo a Giuffrida

Maglie e dediche speciali nell’ufficio

è doppia, perché è anche stata la scelta giusta per lui. Mauricio è un perfezionista, un creativo, un lavoratore infaticabile, un soggetto unico nel calcio di oggi”. Ci racconta anche le sue ‘stalle’, ovvero i colpi non messi a segno? “Vede, per me coi calciatori è come con la ‘ragazza giusta’. O almeno presunta. Sei stordito dall’infatuazione calcistica: prendi la sbandata e trovi sempre la ragione per pensare che sia la persona giusta per te. Ed a volte può capitare di prendere decisioni sbagliate”. E nel caso del calciatore? “Nilmar, l’attaccante brasiliano. Ci sono state occasioni per portarlo in Italia, ma non è mai andata, per un motivo o per un altro”. Nelle ultime sessioni, tra gli altri, ha portato in Italia giovani top come Sanabria e Jedvaj. C’è però una storia b-side da raccontare: quella di Thiago Cionek. “Era in Terza Divisione in Brasile. Extracomunitario, fece un provino con l’Atalanta che però non poteva prenderlo. Scoprimmo che aveva antenati in Polonia, così chiamai Boniek. Cionek fece tre anni al Jagellonia, poi è arrivato in Italia con Padova prima e Modena ora. Fino all’esordio in Nazionale, contro la Germania, che è stata una vera emozione per tutti”. Il Sudamerica l’ha segnata, profonda-

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Torres al Milan? Una passione adolescenziale mente. Anche il Paraguay. “Con un nome, quello di Nelson Valdez: abbiamo cambiato sei squadre in quattro anni e dovunque è andato, è stato sempre il più amato. Ha sempre fatto benissimo ma... Ovunque tranne che in Italia”. Lo dice con il sorriso, Giuffrida. “Sono i casi e gli incroci della vita. Ma io sorrido spesso, mi ritengo fortunato. Sono fortunato. Viaggio, conosco persone nuove, amo stare tra la gente, che sia per un aperitivo sulla spiaggia a Formentera o nel nostro ristorante ad Ibiza”. Il vostro... Ristorante? “Si chiama Piccola Cucina: è ad Ibiza, ne abbiamo anche uno a Miami. Non parlo di calcio tutto il giorno, ma cerco tutto quel che produca qualcosa, in ogni ambito. E... Beh, il ristorante ad Ibiza è...”.

te su un locale simile da aprire e... Comprammo quello”. Scusi, ma sa cucinare? “Io? No, assolutamente”. Dorme bene? “Sì ma...” Non si preoccupi. È per sapere cosa sogna. “Un giorno, forse, fare il direttore sportivo. Mi piacerebbe molto, anche se non so come gestirei l’aspetto negoziale e dei rapporti, se ‘inquinato’ dall’adrenalina dei novanta minuti della tua squadra”. Però sarebbe un’altra tappa bella del suo viaggio da appuntare sulla sua agenda. Già. Quella con la figurina di Guardiola stampata in fondo. Ma non c’è mai un’ultima pagina, in un viaggio. Sorride ancora, Giuffrida, mentre porge il suo taccuino. Parte con una scritta. ‘Devi sempre avere un altro posto dove andare’. Così il viaggio continua.

‘Figo’. Ci passa il termine? “Sì, dai. Fico. Ci vengono tanti campioni e protagonisti del calcio, per me è un vero piacere, nonché una passione”. Ma come nasce l’idea? “Da mio fratello Valerio. Era in vacanza ad Ibiza e vide un locale chiamato Sushi Point. Così li contattammo per avere drit-

Intervista di Marco Conterio

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I GIGANTI DEL CALCIO / PAOLO DI CANIo

I GIGANTI DEL CALCIO Paolo DI CANIO

IO DI CANIO

Campione in campo, unico nel suo genere

EMIGRANTE AZZURRO

Uno dei primi a mettersi in gioco all’estero, uno dei pochi a dire sempre quello che pensa: Paolo di Canio…

di Fabrizio PONCIROLI foto Image SPORT

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I GIGANTI DEL CALCIO / PAOLO DI CANIO

I GIGANTI DEL CALCIO / PAOLO DI CANIO

VINCERE SEMPRE

CUORE LAZIO

Di Canio ha un solo obiettivo: battere l’avversario

Legatissimo ai colori biancocelesti

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o sempre avuto un debole per Paolo Di Canio. In campo mi mandava in solluchero, fuori dal campo ho sempre apprezzato il suo essere sempre fedele al suo modo di pensare, mai schiavo di niente e nessuno. Forse, a causa del suo carattere indomabile, si è perso qualche treno ma, per fortuna, è rimasto il solito inafferrabile Di Canio. Ora è a bordo di Fox Sports, deciso a raccontare il calcio a modo suo… Buongiorno Paolo, è un piacere sentirla commentare il grande calcio inglese su Fox Sports… Da dove nasce questa scelta? “Dal mio istinto e dalla mia passione per il calcio inglese. Mi viene naturale commentare il calcio, mi appassiono poi, onestamente, il calcio inglese fa ormai parte del mio DNA. Fox Sports lo sa: io ho lavorato con tanti gruppi ma cercavo un luogo dove poter parlare di calcio e non dove fare salotto con inutili polemiche”. Hai parlato di istinto, forse proprio quello che ti ha portato, da calciatore,

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Sono sempre stato curioso. Da piccolo, al subbuteo, giocavo con la squadra del Celtic a lasciare l’Italia e sperimentare altri campionati… “Sono sempre stato curioso. Da piccolo, al subbuteo, giocavo con la squadra del Celtic, a conferma della mia voglia di provare sempre qualcosa di nuovo e diverso. Quando ho vinto lo scudetto con il Milan (stagione 1995/96 ndr), ho capito che era giunto il momento di andare via dall’Italia. Da noi c’erano i grandi campioni, il calcio era al top, ma io volevo qualcosa di differente. Così sono andato in Scozia, al Celtic, dove ho trovato un calcio di guerrieri. È stata un’esperienza davvero costruttiva…”. Credi di essere cambiato lontano

dall’Italia? “Certo che sono cambiato. L’ambiente esterno ti condiziona sempre. In Italia avevo già girato tante città, ognuna diversa dall’altra, ma andare all’estero mi ha aperto la mente ancor di più. Io, ad esempio, non conoscevo l’inglese e ho dovuto applicarmi per imparare la lingua. Volevo calarmi nel ruolo, non solo fare il turista che sa giocare a pallone…”. Dopo il Celtic, ecco l’Inghilterra… “In Inghilterra, allo Sheffield, ho dovuto ricominciare tutto da zero. Nuovo Paese, nuove abitudini, anche la lingua, di fatto, era molto diversa…” Ma, da calciatore, hai avvertito quell’atmosfera di “vero calcio” di cui tutti parlano quando si soffermano sul calcio inglese? “Sì, l’ho avvertita… Quando entri in campo, in un campo inglese, tutto è diverso. Attenzione, anche da noi c’è grande passione, lo dice uno che ha giocato alla Lazio, ma in Inghilterra è tutto diverso. Ogni gara era il massimo, in Italia ti esalti solo per qualche gara di cartello. Da loro, se vinci o perdi non fa differenza, a patto che hai dato il massimo. Ti

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I GIGANTI DEL CALCIO / PAOLO DI CANIO

SUPERSTAR INGLESE

In Premier, Di Canio è diventato una leggenda

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“” In Inghilterra

SUPER COMMENTATORE

A Fox Sports, Di Canio è un talent straordinario

ogni gara era il massimo, in Italia ti esalti solo per qualche gara di cartello racconto un aneddoto: alle prime gare con lo Sheffield, quando perdevamo, io ero dispiaciuto. Uscivo dallo stadio con la testa bassa, cercavo di far capire il mio stato di delusione al pubblico e, invece, loro che facevano? Mi caricavano, mi dicevano di non abbattermi, che sarebbe andata meglio la partita successiva… Pazzesco… E così, la gara successiva, eri ancora più carico e voglioso di far bene. Meraviglioso”. Tutto l’opposto rispetto all’Italia… “Guarda a me procura un gran fastidio quello che sta accadendo ora da noi. Si cerca, in ogni modo, di esaltare il nostro calcio attuale quando, in realtà, c’è poco da esaltare. Io penso male del nostro calcio, a tutti i livelli. Il calcio italiano è in un momento disastroso. Lasciamo fuori la Juve di Allegri o la Roma di Garcia, il resto non c’è. Si dice che non ci sono più soldi. Ok, uno come Di Maria da noi non viene, eppure spendiamo oltre 20 milioni per Hernanes…”. Insomma, il calcio italiano non ti convince proprio… “Si parla tanto di queste riforme che dovrebbero salvare l’Italia ma, al di là di discutere sul numero di squadre che debbano partecipare ai vari campionati, non mi pare di vedere nulla di concreto. Io so solamente che, ogni anno, in Italia ci sono squadre che iniziano la stagione con qualche punto di penalità e questo non è il massimo, anzi, all’estero, ci penalizza molto. Diamo l’impressione di non essere un calcio serio”. Ma alleneresti in Italia? “Credo di avere una chance su un milione di allenare in Italia. Io ho le mie idee. Secondo me deve essere l’allenatore a fare la squadra, non il direttore sportivo.

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I GIGANTI DEL CALCIO / PAOLO DI CANIO

IL RAGAZZO DEL QUARTICCIOLO

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MAI BANALE

La verità, a qualsiasi costo...

di Thomas SACCANI Dal quartiere romano sino alla Premier League, sempre con la fantasia al potere… Scoperto da Angelucci durante una partita della Pro Tevere Roma, la sua prima squadra, Di Canio impiega pochissimo a mettere in mostra le sue grandi qualità. A 18 anni gioca già in Serie C2, con la Ternana. A 20 anni, con la casacca della Lazio, fa il suo esordio nella massima serie (contro il Cesena). Nello stesso anno punisce anche la Roma, festeggiando sotto la curva giallorossa. Nel 1990 finisce alla Juventus dove ha modo di conquistare una Coppa Uefa. Dopo una stagione al Napoli, va al Milan dei campionissimi dove risulta decisivo per la conquista dello scudetto 1995/96 (cinque gol in 22 presenze). Conquistato il tricolore, decide di mettersi in gioco all’estero. Va in Scozia, al Celtic, dove viene votato giocatore dell’anno. Decide poi di sperimentare la Premier League. Indossa la casacca dello Sheffield Wednesday, dove resta per circa un anno e mezzo. Nel dicembre del 1998, ecco la chiamata del West Ham. Ben quattro stagioni e mezza con gli Hammers, con 51 gol in 137 gare. Tanti gli episodi da ricordare come il famoso gesto, durante la sfida Everton-West Ham (gara fermata con la mano per non approfittare di un infortunio occorso al portiere avversario Gerrrard), che gli vale il premio Fair Play dell’anno. Gioca la sua ultima annata in Inghilterra al Charlton, prima di tornare in Italia. Torna nella sua Lazio e torna anche a segnare nel Derby, con festeggiamenti simili a quelli messi in scena 16 anni prima… Prima di ritirarsi, fa in tempo a divertirsi anche con la Cisco Roma. Poi, inizia l’avventura da allenatore. Allo Swindon, club disastrato, conquista la promozione in League One e vola fino ai quarti di FA Cup. Al Sunderland si salva la prima stagione, nella seconda il rapporto si conclude prima del previsto. In attesa di tornare in sella, accetta di divertirsi a commentare il calcio inglese a Fox Sports…

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FUTURO MISTERIOSO

PREOCCUPATO DALL’ITALIA

Di Canio si sente allenatore ma ha anche altre idee...

Il calcio italiano non piace affatto a Paolo...

Ti faccio un esempio: da noi parlano più i direttori sportivi che gli allenatori mentre, in Inghilterra, di tante squadre non si sa neppure chi sia il direttore sportivo. Prendiamo Garcia. Un allenatore che sta portando una filosofia speciale in Italia, eppure si mette l’operato di Sabatini al suo stesso livello”. Quindi a che condizioni alleneresti una squadra italiana? “Potrei farlo solo a patto che si respiri una mentalità nuova. Io ho solo vinto dove sono stato come allenatore e mi piacerebbe poter lavorare in un club con la massima libertà possibile. Insomma, avere carta bianca e non sempre dei dirigenti che mi condizionano. Non credo che accadrà tanto facilmente”. Ma c’è qualche allenatore che ti piace? Qualcuno che ti fa ancora godere quando guardi il calcio? “Il nuovo modello di gioco del Borussia Dortmund mi piace molto. Klopp ha davvero fatto qualcosa di interessante. Ha

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Credo di avere una chance su un milione di allenare in Italia. Io ho le mie idee e non le cambio proposto un gioco moderno, di atleti moderni che, oltre ai muscoli, ci mettono anche una velocità impressionante. Se penso a 15/20 anni fa, quando giocavo io, noto delle differenze incredibili. Ai miei tempi, ogni squadra, aveva, al massimo, due o tre giocatori grossi, ora sono tutti grossi. Il calcio si sta evolvendo e anche il modo di giocare deve evolversi”. In questo calcio, molto muscolare, non si rischia di offuscare il talento vero? “No, il contrario, ora il talento si nota me-

glio proprio, perché è più difficile fare la differenza in campo. Se non sei un fenomeno, fatichi ad eccellere, di conseguenza, se hai talento, non passi inosservato”. Dove ti vedi tra cinque anni? “Mi vedo allenatore, magari con qualche bel trofeo in bacheca, oppure a condurre un programma televisivo, un mio format in cui mi piacerebbe spiegare le caratteristiche peculiari di ogni calcio e calciatore. Far capire perché si comprende, al volo, se un giocatore proviene dal calcio australiano o dall’Europa del Nord, ad esempio…”. Ci rivedremo tra cinque anni per sapere la strada intrapresa da Paolo Di Canio… Per il momento ci basta e avanza aver compreso, se mai ce ne fosse bisogno, che uno come Paolo è davvero la classica mosca bianca in un calcio dove è sempre più difficile trovare persone che hanno il coraggio di dire ciò che pensano… Onore all’emigrante che ha ancora l’azzurro nel cuore…

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SPECIALE STORIA COPPA DEI CAMPIONI

SPECIALE COPPA DEI CAMPIONI/ 1970-1971

UN PROFETA DEL CALCIO Cruyff ha ridisegnato le regole del gioco del pallone...

CI PENSA CRUYFF

Dopo l’impresa del Feyenoord, tocca all’Ajax salire sul tetto dell’Europa. Il calcio olandese domina…

foto Agenzia Liverani

di Gabriele PORRI

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l Feyenoord manca la tripletta e, vinti i titoli europeo e mondiale, arriva secondo in campionato dietro l’Ajax. La presenza di due olandesi costringe l’UEFA a un turno preliminare, con l’Austria Vienna che si qualifica a spese del Levski-Spartak di Sofia, rimontando

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il 3-1 dell’andata. L’edizione 1970/71 della Coppa dei Campioni vede l’assenza dei club che fino a quel momento hanno fatto la storia della competizione: Real e Barcellona, Inter e Milan, Manchester United e Benfica. Le uniche ad avere vinto una coppa sono il Feyenoord, appunto, e il Celtic. Gli scozzesi restano presto soli, quando i campioni in carica vengono clamoro-

samente buttati fuori dai rumeni dell’Arad, che sfruttando la regola dei gol in trasferta, passano agli ottavi con due pareggi. A Rotterdam segna Florian Dumitrescu al quarto d’ora, poi pareggia Wim Jansen. I successivi 65 minuti sono un assalto alla porta di Gornea, ma i rumeni resistono e portano a casa il pareggio. Al ritorno il Feyenoord è appena diventato campione del mondo a

spese dell’Estudiantes e pensa di vincere facilmente in Transilvania. Happel motiva i suoi quasi irridendo gli avversari: «Una qualificazione dei rumeni a nostre spese sarebbe come l’ottava meraviglia del mondo», afferma l’austriaco. L’UTA Arad, che in patria è chiamato, come la Juventus, “Vecchia signora”, riesce a inchiodare il risultato sullo 0-0 e al termine della gara migliaia di tifosi aspettano il Feyenoord e soprattutto il suo allenatore davanti all’albergo, al grido di «Happel, Happel, ha ha ha.» Tuttavia, l’avventura dei ragazzi di Nicolae Dumitrescu durerà poco. Il calcio olandese può comunque contare sull’Ajax di Rinus Michels, la squadra del calcio totale, dove tutti corrono e sanno coprire ogni zona del campo. La generazione dei Cruyff e dei Neeskens negli anni è cresciuta ed è arrivata vicino alla vetta europea nel 1969, sconfitta dal Milan. Nonostante le premesse, il primo turno contro il Nentori Tirana non è esaltante, in Albania i “Lancieri” si fanno rimontare due gol di Suurbier, poi all’Olympisch arriva un 2-0 comodo. Niente a che vedere con la baldanza del Celtic, che nei primi due turni segnano 24 gol ai finlandesi del Kokkola e agli irlandesi del Waterford, subendone solo 2 da questi ultimi. Desta impressione anche il 16-0 complessivo del Borussia Mönchengladbach, all’esordio nella competizione, ai danni dei ciprioti del Larnaca, anche se questa volta i tedeschi non faranno strada. Non ci sono altre sorprese al primo turno, oltre all’eliminazione dei detentori. Fa bene il Cagliari di Scopigno, che elimina il Saint-Étienne. Il nuovo Sant’Elia è stracolmo di tifosi di tutta l’Isola, che già dopo soli 7’ esultano per il gol Riva. Al 20’ Nené sigla il 2-0 e un’altra rete di “Rombo di tuono” porta la qualificazione al sicuro. Al ritorno i transalpini mettono in difficoltà Albertosi, ma si devono accontentare del gol del Pallone d’oro africano, il maliano Salif Keita. Il secondo turno è difficile, di fronte alla squadra del “Filosofo” Manlio Scopigno c’è l’Atletico Madrid. Andata ancora al Sant’Elia, che si rivela ardua come da previsioni. Nonostante ciò, Riva segna poco prima del riposo. Raddoppia “Bobo” Gori, Riva sbaglia il terzo e un’indecisione di Tomasini favorisce Luis Aragones, che sigla il 2-1. Norbert Hof è uno che, giocasse oggi, verrebbe soprannominato “pitbull”. Uno che quando ti si attacca morde e scalpita. Gioca nel

Wiener Sport-Club e con la squadra del quartiere viennese di Dornbach ha incrociato il Cagliari in un doppio confronto in Mitropa nel 1968, terminato in rissa. Non l’ha dimenticato e, quando il 31 ottobre c’è Austria-Italia al Prater, falcia Riva con cattiveria e gli procura la frattura di tibia e perone, a un quarto d’ora dal termine. La prima partita giocata dal Cagliari dopo l’incidente è il ritorno al Manzanares, ma i rossoblu, sotto choc e svuotati di ogni velleità, perdono 3-0 con tripletta ancora di Aragones. Gli ottavi di finale portano anche la novità dei rigori che sostituiscono il lancio della monetina come tie-breaker dopo 210’ di assoluta parità. Joe Royle, dell’Everton, è stato un buon attaccante con quasi 500 presenze in campionato e sei in nazionale, ma passa alla storia anche come primo rigorista di Coppa dei Campioni. Royle si fa parare il tiro da Kleff, di fronte al pubblico attonito di Goodison Park e subito dopo di lui, Sieloff segna. L’equilibrio tra Everton e Borussia si è spezzato, dopo il doppio 1-1 del campo. Niente però è perduto per i Blues, che recuperano subito grazie al goal di Ball e all’errore di Laumen, che spara a lato. Finisce 4-3 per gli inglesi, è Ludwig Müller a sbagliare l’ultimo rigore, complice la gran parata di Rankin. Il manager dell’Everton Catterick commenta così: «Continuo a pensare che i rigori per decidere queste sfide sembrano un circo, ma non riesco a pensare a una soluzione migliore, se non si può giocare lo spareggio.» Gioiscono gli inglesi e, con loro, passano anche Stella Rossa (6-1 complessivo all’Arad), Legia Varsavia, Carl-Zeiss Jena, Panathinaikos e Ajax. La partita tra i campioni d’Olanda e il Celtic è il clou dei quarti di finale. Ad Amsterdam, se ne vanno due terzi di gara senza gol, per la gioia degli ospiti. Poi, al 62’ Cruyff con un gran tiro batte Williams. Otto minuti e arriva un gol direttamente da punizione di Hushoff e al 90’ è Keizer a dare il 3-0. Al Celtic Park, nonostante il gol di Johnstone al 27’, la sconfitta dell’andata è troppo dura per essere ribaltata. La Stella Rossa sfida il Carl-Zeiss, due anni dopo la rinuncia dei tedeschi orientali per la diatriba seguita alla “Primavera di Praga”. In Turingia, i padroni di casa hanno la meglio di misura, inoltre gli jugoslavi perdono per il ritorno il loro giocatore migliore, Dzajic, espulso e squalificato per quattro turni per rissa in campo. I biancorossi belgradesi, però, re-

agiscono al ritorno e vincono 4-0. In semifinale li aspetta un sorprendente Panathinaikos, allenato dal mostro sacro Ferenc Puskas e trascinato dalla punta Antonis Antoniadis. È proprio l’attaccante mancino a gelare Goodison Park, con un potente tiro dal limite dell’area piccola, ma al 90’ David Johnson pareggia. Il ritorno al Nikolaidis di Atene vede le squadre bloccate sullo 0-0 e il Panathinaikos taglia il traguardo della semifinale, tuttora unica greca della storia. La prima semifinale è quella tra Ajax e Atletico, con i Colchoneros che ai quarti hanno eliminato il temibile Legia Varsavia grazie ai gol in trasferta. Entrambe le semifinali sono vinte in rimonta. L’Ajax soccombe di misura al Manzanares per il gol del basco Javier Irureta, ma pareggia i conti con Keizer dopo soli 9’, con una bomba su punizione. Il pubblico di Amsterdam attende paziente un secondo gol che non arriva, ma al 76’ Roberto fa una papera su tiro da fuori di Suurbier, a cui fa seguito un altro errore del portiere spagnolo, che sbaglia l’uscita favorendo il gol a porta vuota di Neeskens. Nell’altra semifinale, Ostojic illude con la sua tripletta la Stella Rossa, nel 4-1 casalingo di fronte a 100.000 spettatori. Quando si deve rimontare, si dice che un gol in avvio è determinante. Il Panathinaikos lo trova subito con Antoniadis: Dujkovic è battuto in uscita. Non accade nulla fino all’intervallo, poi è ancora Antoniadis, dopo 9’. Manca un solo gol ai greci per una storica rimonta, che puntualmente arriva per merito di Kamaras. A Wembley, sarà AjaxPanathinaikos. Da una parte ci sono i greci della leggenda Puskas, con Antoniadis (10 reti) che insidia il suo record, il Pana del leader Domazos, il “generale”, sposato con la popstar Vicky Moscholiou. Dall’altra Cruyff, Neeskens e il calcio totale dell’altro e più famoso “generale”, Rinus Michels. L’equilibrio è subito spezzato quando van Dijk, su cross dalla sinistra, incrocia di testa e batte Ikonomopoulos. Sono solo le parate del portiere greco a evitare il tracollo; nella ripresa i “verdi” prendono possesso del centrocampo con Domazos ed Elefterakis. Stuy, però, non corre pericoli e a due minuti dal fischio finale Cruyff lancia il giovane subentrato Haan per il 2-0. La classe dell’Ajax prevale sul coraggio dei greci e per la seconda volta di fila un club olandese si aggiudica il trofeo. Ed è solo l’inizio…

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SEMIFINALE 1

SEMIFINALE 2

FINALE

STELLA ROSSA-PANATHINAIKOS 4-1 (2-0)

AJAX-PANATHINAIKOS 2-0 (1-0)

Mercoledì 14 aprile 1971, ore 21 MADRID (Stadio “Manzanares”) Arbitro: Gerhard SCHULENBURG (GER) Spettatori: 40.000

Mercoledì 14 aprile 1971 BELGRADO (Stadio “Crvena Zvezda”) Arbitro: Erich LINEMAYR (AUT) Spettatori: 100.000

Mercoledì 2 giugno 1971, ore 19:45 LONDRA (Stadio “Wembley”) Arbitro: John Keith TAYLOR (ENG) Spettatori: 83.179

ATLETICO MADRID: RODRI, Francisco MELO, Isacio CALLEJA (cap.) [68’ José Luis CAPON], ADELARDO (cap.), Jesús MARTINEZ JAYO, Iselín Santos OVEJERO, José Armando UFARTE, Javier IRURETA, Luis ARAGONES, José Eulogio GARATE, ALBERTO [76’ Igancio SALCEDO] Commissario tecnico: Marcel DOMINGO.

STELLA ROSSA: Ratomir DUJKOVIC, Milovan DJORIC, Mile NOVKOVIC, Vladislav BOGICEVIC, Branislav KLENKOVSKI, Miroslav PAVLOVIC, Jovan ACIMOVIC, Slobodan JANKOVIC, Stanislav KARASI, Stevan OSTOJIC, Zoran FILIPOVIC Commissario tecnico: Miljan MILJANIC.

AJAX: Heinz STUY, Velibor VASOVIC (cap.), Wilhelmus SUURBIER, Bernardus HULSHOFF, Reiner Johannes RIJNDERS [46’ Horst BLANKENBURG], Johannes NEESKENS, Gerardus MÜHREN, Jesaia SWART [46’ Arend HAAN], Johannes CRUYFF, Dick VAN DIJK, Petrus KEIZER Commissario tecnico: Marinus MICHELS.

AJAX: Heinz STUY, Velibor VASOVIC (cap.), Wilhelmus SUURBIER, Bernardus HULSHOFF, Rudolf KROL, Reiner Johannes RIJNDERS, Johannes NEESKENS, Jesaia SWART [85’ Dick VAN DIJK], Gerardus MÜHREN, Johannes CRUYFF [76’ Horst BLANKENBURG], Petrus KEIZER Commissario tecnico: Marinus MICHELS. Rete: 43’ Javier IRURETA. Ammonito: 48’ Reiner Johannes RIJNDERS.

Mercoledì 28 aprile 1971, ore 20:15 AMSTERDAM (Stadio “Olympisch”) Arbitro: Antonio SBARDELLA (ITA) Spettatori: 65.000

Mercoledì 28 aprile 1971 ATENE (Stadio “Apostolos Nikolaidis”) Arbitro: José Maria ORTIZ DE MENDIBIL (ESP) Spettatori: 27.000

AJAX: Heinz STUY, Velibor VASOVIC (cap.), Wilhelmus SUURBIER, Bernardus HULSHOFF, Horst BLANKENBURG, Reiner Johannes RIJNDERS, Johannes NEESKENS, Jesaia SWART, Gerardus MÜHREN, Johannes CRUYFF, Petrus KEIZER Commissario tecnico: Marinus MICHELS.

PANATHINAIKOS: Vasilis KONSTANTINOU, Ioannis TOMARAS, Frankiskos SOURPIS, Aristidis KAMARAS, Dimitris KALLIGERIS [56’ Kostas ATHANASOPOULOS], Giorgios VLAHOS, Dimitrios DOMAZOS (cap.), Panagiotis FILAKOURIS, Anthimos KAPSIS, Harilaos GRAMMOS, Antonis ANTONIADIS Commissario tecnico: Ferenc PUSKAS.

ATLETICO MADRID: RODRI, Iselín Santos OVEJERO, Francisco MELO, Jesús MARTINEZ JAYO, QUIQUE, Javier IRURETA, EUSEBIO, ALBERTO, José Armando UFARTE, Luis ARAGONES (cap.), Igancio SALCEDO Commissario tecnico: Marcel DOMINGO. Reti: 8’ Petrus KEIZER, 76’ Wilhelmus SUURBIER, 85’ Johannes NEESKENS.

PANATHINAIKOS: Panayotis IKONOMOPOULOS, Ioannis TOMARAS, Giorgios VLAHOS, Konstantinos ELEFTHERAKIS, Aristidis KAMARAS, Frankiskos SOURPIS, Harilaos GRAMMOS, Panagiotis FILAKOURIS, Antonis ANTONIADIS, Dimitrios DOMAZOS (cap.), Anthimos KAPSIS Commissario tecnico: Ferenc PUSKAS. Reti: 5’ Dick VAN DIJK, 87’ Arend HAAN.

STELLA ROSSA: Ratomir DUJKOVIC, Milovan DJORIC, Mile NOVKOVIC, Vladislav BOGICEVIC, Branislav KLENKOVSKI, Miroslav PAVLOVIC, Jovan ACIMOVIC, Slobodan JANKOVIC, Stanislav KARASI, Stevan OSTOJIC, Zoran FILIPOVIC Commissario tecnico: Miljan MILJANIC. Reti: 1’ e 54’ Antonis ANTONIADIS, 65’ Aristidis KAMARAS.

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Johan Neeskens

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Scudetti In “Figurine Doppie”, 60 anni di finali e la Uefa Youth League, Panini fa sul serio…

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Johan Cruijff

TEMPO DI “UEFA CHAMPIONS LEAGUE 2014-2015”

PANATHINAIKOS-STELLA ROSSA 3-0 (1-0)

RITORNO

RITORNO

PANATHINAIKOS: Panayotis IKONOMOPOULOS [72’ Vasilis KONSTANTINOU], Ioannis TOMARAS, Frankiskos SOURPIS, Aristidis KAMARAS, Konstantinos ELEFTHERAKIS, Giorgios VLAHOS, Dimitrios DOMAZOS (cap.), Panagiotis FILAKOURIS, Anthimos KAPSIS, Harilaos GRAMMOS, Antonis ANTONIADIS Commissario tecnico: Ferenc PUSKAS. Reti: 15’ Stevan OSTOJIC, 39’ Slobodan JANKOVIC, 46’ Stevan OSTOJIC, 55’ Aristidis KAMARAS, 70’ Stevan OSTOJIC.

AJAX-ATLETICO MADRID 3-0 (1-0)

di Thomas Saccani

STATISTICHE

ATLETICO MADRID-AJAX 1-0 (1-0)

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SPECIALE COPPA DEI CAMPIONI/ 1970-1971

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in edicola “UEFA Champions League 20142015”, la nuova collezione di figurine Panini dedicata all’élite del calcio europeo. Si tratta della nona raccolta consecutiva realizzata dalla casa modenese su licenza ufficiale UEFA, un appuntamento imperdibile per i collezionisti italiani. Questa nuova raccolta è articolata in ben 634 figurine adesive, di cui 64 in speciale materiale olografico metal, da raccogliere nell’apposito album di 96 pagine. Vi sono rappresentate le 32 squadre europee che quest’anno prendono parte alla fase a gironi della più prestigiosa competizione per club, tra cui ovviamente le italiane Juventus e Roma. Nella collezione “UEFA Champions League 2014-2015”, ogni club ha una doppia pagina con i propri dati storici e statistici, comprensivi dei trofei UEFA vinti in passato, i piazzamenti nelle ultime cinque edizioni di Champions oltre che nella rispettiva Lega di appartenenza, con relativo palmares nazionale. Ciascuna squadra è rappresentata dalle figurine di 18 giocatori, 11 dei quali vanno a comporre la formazione tipoi; vi è anche uno speciale sticker dedicato ad una delle stelle del club. Proprio le 576 figurine “giocatore”, a seguito del generale apprezzamento dei collezionisti nella passata edizione, sono realizzate anche quest’anno nel formato “doppio”: da una parte la foto del calciatore, da incollare nella sezione della squadra di appartenenza, dall’altra una mini-figurina con le statistiche e i dati anagrafici dello stesso calciatore, da attaccare nell’apposita sezione speciale di ogni girone (un formato innovativo che quest’anno viene esteso anche ai loghi ufficiali delle 32 squadre partecipanti)…

La raccolta “UEFA Champions League 2014-2015” presenta al suo interno anche altre sezioni. L’inizio dell’album è dedicato alla parte istituzionale con 3 figurine relative a pallone ufficiale, trofeo e messaggio sul “Fair play”, oltre alla speciale figurina con il logo Panini. Notevole la parte dedicate alle finali (la finale di Berlino 2015 sarà infatti la sessantesima). Chiudono la collezione la sezione dedicata alla UEFA Women’s Champions League, che contiene l’Albo d’Oro e la figurina del Wolfsburg campione in carica, e la nuovissima sezione dedicata alla UEFA Youth League, nella quale trova spazio la figurina con il trofeo. Spazio anche al multimediale di ultima generazione: la collezione “UEFA Champions League 2014-2015” sarà infatti supportata dall’applicazione gratuita Panini Collectors. Ritorna anche la UEFA Champions League 2014-15 Official Virtual Sticker Collection, presentata da Unicredit, per collezionare anche online e accessibile grazie ai codici stampati sul retro delle figurine “metal”.


ACCADDE A DICEMBRE

di Stefano BORGI

ACCADDE A/ DICEMBRE

LA MAGIA ALLA VIOLA

L’UOMO DEI CAPOLAVORI Del Piero ha realizzato innumerevoli gol da leggenda...

Del Piero ha segnato valanghe di gol in carriera, eppure il capolavoro messo a segno contro la Fiorentina resta una chicca indimenticabile…

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omanda: quanti gol ha fatto Del Piero in carriera? È presto detto: 290 nella Juventus e 27 in Nazionale. In tutto, considerando anche il Padova in Serie B e l’esperienza al Sidney, fanno quasi 350. Altra domanda: qual è il gol più famoso realizzato da Del Piero? Qualcuno potrebbe rispondere: “tutti quelli segnati... alla Del Piero”. Vale a dire, tiro liftato di destro nel ‘sette’ alla sinistra del portiere. Oppure il gol contro il River Plate, nella finale intercontinentale del 26 novembre 1996: sempre di destro, sempre all’angolino alto. E invece, se riguardate qualsiasi servizio sulle gesta del “pinturicchio” bianconero, il gol che non manca mai è quello del 4 dicembre 1994. Il gol del 3-2 alla Fiorentina. Sarà perché era la prima stagione di Alex da titolare, forse perché la Juve perdeva 2-0. O ancora, perché realizzare un gol in quel modo sembrò impossibile ai più. Insomma, quell’esterno destro al volo resta il gol più famoso (e più bello) di Alessandro Del Piero.

foto Liverani

VIALLI vs. BATISTUTA - La stagione ‘94-’95 fu una specie di anno zero per entrambe le squadre. La Fiorentina, appena risalita nella massima serie, era chiamata a ricostruirsi una verginità dopo l’incredibile retrocessione del ‘93. Gabriel Batistuta era il leader incontrastato, e proprio il “re leone”, sette giorni prima, aveva sgretolato lo storico record del bolognese Pascutti (13 gol consecutivi nelle prime 11 giornate di campionato). Dall’altra parte la Juventus, affidata per la prima volta a Marcello Lippi,

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reduce da nove anni di digiuno (l’ultimo titolo risaliva al 1986) e da un triennio di Trapattoni che aveva prodotto una misera (si fa per dire) Coppa Uefa. Un giovanissimo Del Piero sostituiva Roberto Baggio (infortunato), dal mercato erano arrivati Ferrara, Tacchinardi, Deschamps e Paolo Sousa. C’era poi Gianluca Vialli. Di lui Torricelli dirà: “Io ho giocato con tanti campioni, con Del Piero sono amico fraterno. Ma se devo dire il compagno più decisivo che ho avuto, dico Gianluca Vialli”. Anche in quella famosa partita? “Certo - prosegue Moreno. Gianluca ci dette la carica, fece addirittura doppietta. Gianluca ci credette fino alla fine. Poi, è chiaro, se Alex non inventava quel gol a questo punto stavamo a parlare d’altro”. E Batistuta? Il bomber argentino, proprio quel 4 dicembre, interruppe la serie di gol consecutivi. Mise lo zampino nelle prime due reti viola, lottò come un “re leone”, ma alla fine i tre punti andarono alla Juve. Alla Juve di Vialli e Del Piero. RIMONTA DECISIVA - Juventus-Fiorentina giunge alla 12° di campionato. La classifica recita Parma in testa con 24 punti, Juve seconda con 23, Fiorentina terza con 22 (i viola finiranno la stagione al 10° posto). Lazio quarta con 21. Il Milan campione d’Italia? Staccatissimo con appena 14. Tra i bianconeri Conte è squalificato, assenti anche Deschamps, Di Livio e Fusi. Nella Fiorentina manca Di Mauro, Ranieri schiera un 4-3-1-2 con Robbiati trequartista dietro alla coppia d’attacco Baiano-Batistuta. Ed è proprio l’esile fantasista a dare il via all’azione del vantaggio gigliato: è il 25’, lancio in profondità per Batistuta, Peruzzi respinge sui piedi di Baiano (per l’occasione capitano) che in scivolata realizza

l’1-0. Appena 11 minuti dopo sempre Batistuta “spizza” per l’inserimento di Angelo Carbone che, con un destro sotto la traversa, batte per la seconda volta Peruzzi. Alla fine del primo tempo i viola conducono per 2-0. La partita, e forse l’intera stagione bianconera, si decide negli ultimi 20’. Al 73’ Ravanelli, dalla sinistra, crossa al centro dove Vialli di testa anticipa Marcio Santos realizzando l’1-2. È questo il momento decisivo: Vialli (al 100° gol in campionato) suona la carica, si getta nella rete viola e prende il pallone, strappandolo a Toldo. Che accenna un sorrisino. La differenza tra le due squadre sta tutta in quell’espressione: grintosa, quasi cattiva quella di Gianluca, accondiscendente, quasi arrendevole quella di “Francescone”. E infatti, da lì in poi sarà un monologo bianconero: al 76’ Alessandro Orlando mette in mezzo per Ravanelli, ponte per Vialli (testa, spalla, non si capisce...) che di destro fa 2-2. Fino all’87’, quando la storia scatta una fotografia che l’accompagnerà per il resto dei suoi anni. Sempre Orlando dalla tre-quarti getta in avanti, palla nei pressi del vertice sinistro dell’area viola, Del Piero si coordina e con l’esterno destro mette nel “sette” alla destra di Toldo. Sembrava impossibile, ma la Juve vince una partita praticamente già persa. Da quel giorno è un crescendo rossiniano. Certo, non mancano i passi falsi come la doppia sconfitta nel derby, gli 0-3 con Roma e Lazio, l’inopinata sconfitta casalinga contro il Padova. A fine stagione, però, arriverà il 23° scudetto con 10 punti di vantaggio sulla Lazio e la vittoria in Coppa Italia (in finale contro il Parma) per un “double” di grande prestigio. Quel giorno è nata la Juve mondiale di Lippi.

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DOVE SONO FINITI LUCIANO BODINI

di Fabrizio PONCIROLI

DOVE SONO FINITI/ LUCIANO BODINI

12 CON ONORE

CON L’ETERNO ZOFF Bodini è stato un “12” di estremo valore...

Portiere vero, Bodini ha saputo essere grande anche senza una maglia da titolare…

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uando hai davanti mostri sacri come Zoff e Tacconi, diventa difficile farsi trovare pronti. Eppure Luciano Bodini ha sempre saputo onorare il suo ruolo, quello del 12esimo, al meglio. Poi c’è quella finale di Supercoppa con il Liverpool giocata con la maschera… Atalanta, Cremonese, Juventus (tanta, per 10 anni), Verona e Inter (di sfuggita), la carriera di Luciano Bodini è stata lunga e longeva. Definito il “12esimo per eccellenza”, ha dovuto confrontarsi, in particolare alla Vecchia Signora, con grandissimi numero uno come Zoff e Tacconi. Per nulla intimidito, si è ritagliato il suo spazio… Lo abbiamo incontrato… Buongiorno Luciano, allora partiamo dal perché sei diventato un portiere… “Il mio babbo ha sempre giocato a calcio. In famiglia il calcio era di casa. Mio fratello mi spediva, da piccolo, in porta e calciava, così mi sono appassionato al ruolo del portiere”. E come sei entrato nel calcio che conta? “Fu sempre grazie al mio babbo. Mi portò, insieme a mio fratello, all’Atalanta. Loro volevano mio fratello, che giocava mezz’ala. Il mio babbo disse: ‘Se volete la mezz’ala, dovete prendervi anche il portiere’… Così è iniziato il tutto”.

foto Agenzia Liverani

Con l’Atalanta subito protagonista… “Vero, a 17 anni andai in panchina in Serie A. Feci anche diverse partite, a causa dell’infortunio occorso al titolare Rigamonti”.

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Quanto è stato importante andare all’Atalanta (1974-77, ndr)? “Tanto, in realtà dovevo andare al Perugia, da Castagner… Feci molto bene, volevo anche restare ma l’Atalanta mi rivolle indietro…”.

E nel 1979 arriva la chiamata della Juventus… “Bortolotti mi disse che io, insieme ad altri, tra cui Tardelli, saremmo andati alla Juventus. Sapevo che sarei stato il 12esimo, ma anche che Zoff non era più giovanissimo…”. Eppure Zoff non ti ha lasciato tanto spazio per metterti in mostra… “(Ride) Mi ha fregato. Doveva ritirarsi ed invece è andato avanti fino a 40 anni…”.

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Platini? Fuori dal comune. Nessuna emozione in campo, E col PALLONE faceva quello che voleva Esce di scena Zoff ma entra Tacconi… “Inizialmente non si sapeva chi sarebbe stato il titolare tra noi due. Il Trap mi parò molto in quel periodo, dicendomi che avrebbe capito se avessi lasciato la Juventus ma, onestamente, come facevo ad andarmene dalla Juventus? Così sono rimasto”. E ti sei tolto anche delle belle soddisfazioni, no? “Assolutamente… Mi ricordo con grande piacere la Supercoppa Europea contro il Liverpool. Fu bellissimo, giocai con la maschera perché avevo il naso rotto, ma fu bellissimo davvero. Bello anche il ricordo della semifinale di Coppa Campioni contro il Bordeaux… Gara tirata, ricordo un gol salvato su conclusione di Tigana…”. Si racconta che avresti dovuto giocare anche la finale dell’Heysel… “Tacconi veniva da un periodo non esaltante, il Trap mi disse che l’avrebbe pro-

vato e poi avrebbe deciso. Alla fine giocò lui. Non era in forma ma era Tacconi…”. Una finale, quella dell’Heysel, che è ancora una ferita aperta… “Un ricordo bruttissimo. Per tutta la gara ebbi mal di stomaco. Sembrava di essere in guerra, quando vedi dei morti in diretta non te lo puoi dimenticare. Non ho neanche esultato e non lo faccio neppure oggi”. Torniamo alla Juventus di quegli anni. A chi era più legato? Che ci dici di Platini? “Grande squadra, grande gruppo, eravamo tutti amici. Sicuramente Scirea è quello che ho più nel cuore. Ci sentivamo sempre, è stata dura la sua scomparsa per me. Platini? Fuori dal comune. Nessuna emozione in campo, faceva quello che voleva con il pallone. Ricordo che amava giocare anche a carte e, anche lì, era furbo. Solitamente eravamo io e Bodini contro lui e Zoff. Anche a scopa era bravo…”. Dopo la Juventus, ecco Verona e, di striscio l’Inter… “A Verona sono stato un solo anno, all’Inter ci volevo andare perché sono sempre stato interista. Mi spiace non aver giocato una partita, ma è stata comunque una bella esperienza”. Cosa ne pensi dei portieri italiani di oggi? “Beh, Buffon è ancora una sicurezza ma, ai miei tempi, ce n’erano davvero tanti forti. Zoff, Albertosi, lo stesso Pizzaballa, davvero tanti. Speriamo nei nuovi, vediamo come andranno i vari Perin, Bardi, Scuffet…”. Luciano, segui ancora il calcio? Pensi mai a tornarci? “Solo da sportivo, da tifoso, non mi interessa fare altro”. Per il campo, abbiamo già dato…

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LIGA SPAGNA

di Paolo BARDELLI

IL NUOVO CONDOTTIERO

Figliol Prodigo

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er me andare via è una grande sconfitta, non sono riuscito a trasmettere quello che volevo. Non sono riuscito a dare il 100% e a mettere sul campo le idee che volevo. Lascio non per colpa di qualcuno, ma perché non riesco ad allenare la squadra come vorrei. Mi sento scarico”. Sono passati poco più di due anni da quando Luis Enrique ha pronunciato queste parole al momento di lasciare Roma, a rileggerle ora non sembra neppure di parlare dello stesso uomo che oggi con piglio da condottiero guida il Barcellona, guardando tutti dall’alto in basso. Molto è cambiato ma la sincerità è sempre la stessa, Luis Enrique non è tipo da inventare realtà di

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comodo, non l’ha fatto a Roma e non lo fa ora che è tornato in casa blaugrana. I fischi non lo spaventano e lui non si tira indietro quando c’è da fare una scelta impopolare. L’onestà intellettuale prima di tutto. A Roma non è riuscito a farsi capire, non ha avuto tempo e non era pronto, a Barcellona lo conoscono bene. Otto stagioni con addosso la casacca blaugrana costellati da numerose vittorie, poi tre come allenatore della squadra B, conquistando uno storico terzo posto in Segunda Division. Ora il terzo atto, quello decisivo. Prima, però, ricostruiamo il percorso dell’asturiano, a cominciare dalla sua avventura romana. Correva l’anno 2011, il mondo del calcio era in piena luna di miele con Guardiola e il suo tiki-taka, come tutti i

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Luis Enrique è tornato a casa e sta rilanciando il Barcellona, a suon di idee in stile blaugrana…

marchi vincenti anche questo vanta(va) numerosi tentativi d’imitazione. L’ambiziosa proprietà giallorossa decise di legarsi a un tecnico giovane, con il DNA blaugrana e il titolo di erede designato di Pep. Le cose non sono andate come sperato, tante idee ma poca esperienza, i pensieri di Luis Enrique si sono schiantati contro la realtà di una Serie A ,che non concede tempo per esperimenti. Il possesso palla come religione, problemi difensivi e tanti giocatori spostati di ruolo. Al cospetto di una piazza vorace si presentò un allenatore che sembrava sbarcato da Marte, l’asturiano scelse fin da subito la via dell’onestà. Arma a doppio taglio, un paese abituato a frasi di circostanza e parole acchiappa-consenso. Inflessibile per quanto riguarda la disciplina nello spogliatoio, tanto da punire De Rossi per un ritardo di qualche minuto. Ma poi fu proprio lo stesso centrocampista uno dei suoi difensori più sinceri: “È l’allenatore più bravo che abbia avuto”, queste le parole del centrocampista. La strada verso una nuova Roma vincente è cominciata proprio sotto la guida dell’a-

foto Marco Iorio/Image Sport

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Dopo il Tata Martino, panchina ad un’ex leggenda blaugrana

sturiano, tosto ma democratico, i giocatori ne hanno compreso le qualità senza tuttavia riuscire a capirlo a pieno. Stesso discorso vale per la piazza, in molti chiedevano la testa dello spagnolo già a dicembre, la stima per l’uomo non è mai stata in discussione, semmai era evidente che Roma non fosse il posto per lui, tanto che i tifosi per esprimere vicinanza nei suoi confronti esposero lo striscione “más que un entrenador” sulla falsa riga del motto blaugrana. Loro avevano già capito tutto. Discreta la prima parte della stagione, con barlumi di bel gioco, all’aumentare della pressione Luis arrivò in parte a tradire se stesso con un atteggiamento più accorto e fu quella la sua principale sconfitta, molto più di alcune discutibili scelte tattiche. In particolare ricordiamo José Angel, esterno mancino dal profitto disastroso. Il giovane allenatore non lesinò piccole e grandi rivoluzioni, come l’iPad per spiegare gli schemi o la presenza di Antonio Llorente, professione: mental coach. Le cose iniziarono male, eliminazione dall’Europa ad agosto, e finirono ancora peggio, settimo posto

LUIS ENRIQUE

e conseguente mancata qualificazione europea. Doveva essere un “progetto”, termine che risuonava come un tormentone dalle parti di Trigoria in quei mesi, il matrimonio invece durò meno di un anno. Luis Enrique è rimasto segnato da questa esperienza e ha deciso di prendersi un anno sabbatico. Nell’estate 2013 il ritorno in panchina, al Celta Vigo. Ottimi i risultati alla guida dei galiziani, la squadra giocava un calcio meraviglioso e come premio arrivò una salvezza tranquilla. La chiamata del Barcellona quest’estate è arrivata come qualcosa di naturale, era scritto nel destino, ma servivano le condizioni ideali. I blaugrana, reduci dalla deludente esperienza Martino, volevano un volto noto: e chi meglio di un vecchio amico per riprendere il discorso interrotto? Luis ha fatto tesoro della lezione italiana e, a livello tattico, ha mostrato maggiore flessibilità. Il suo Barcellona è aggressivo, fa una densità che toglie il fiato agli avversari, difesa alta e rinnovata. Una delle scelte più clamorose fatte da Luis Enrique riguarda proprio

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LIGA SPAGNA

STORIA DI UN LIBRO…

Corti su Luis Enrique: “Forse non eravamo pronti noi, più probabilE CHE non FOSSE pronto lui”…

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foto Insidefoto/Image Sport

ansas City 1927 ha raccontato le ultime stagioni romaniste in modo scanzonato e romantico, una pagina Facebook che in breve si è trasformata in fenomeno e ha dato vita a un libro. Abbiamo raggiunto Simone Conti, che insieme a Diego Bianchi ha raccontato l’epopea dell’asturiano sulla panchina giallorossa. “Senza Luis, Kansas non sarebbe stata la stessa cosa. All’improvviso ci siamo ritrovati catapultati in un mondo di motivatori, ipad a bordocampo e terzini improbabili. Kansas City 1927 è nato senza dubbio per gioco, ma anche per provare a sdrammatizzare quello che succedeva partita dopo partita, ci è sembrato l’unico modo per sopravvivere alla stagione calcistica. A Luis abbiamo voluto bene. Fino alla fine. Ma forse non eravamo pronti noi, più probabilmente non era pronto lui, sicuramente c’era un grande scollamento tra la persona bella che ti faceva essere orgoglioso di avere in panchina uno così, e l’allenatore irrisolto che ti faceva disperare per le scelte di campo che spesso faceva. La revolucion è andata in porto con tre anni di differita, c’era un problema di delay sul segnale”.

il pacchetto arretrato con l’esclusione di Piqué a favore di Mathieu, elemento voluto con fermezza dal tecnico e pagato profumatamente. Ha riportato Rafinha alla base dopo averlo allenato a Vigo, mossa che denota pure una maturata consapevolezza circa l’importanza di avere fedelissimi. Disciplina ferra, questa è rimasta la stessa, multe e sanzioni per indisciplinati e ritardatari. È solo uno dei punti di un vero e proprio vademecum che, stando a quanto riporta la stampa spagnola, l’asturiano avrebbe imposto alla maniera del Mourinho di Madrid. Da sottolineare come tra le regole in questione ci sia anche un giro di vite per quanto riguarda l’uso dei so-

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cial network: ognuno è responsabile di quello che condivide. Ciò che ne è derivato è un avvio da record, mai una squadra era stata in grado di vincere le prime quattro gare della stagione senza incassare gol. La fase difensiva è al centro del progetto, ciò non vuol dire che Luis Enrique sia stato fulminato sulla via del catenaccio, ma è in non possesso che la sua squadra dà il meglio. Maggiore la varietà di soluzioni tattiche, dopo tutto neppure Guardiola disdegna più il lancio lungo talvolta. Mettere in discussione pure Xavi è una prova di attributi, le scelte però non sono in discussione e il tecnico asturiano le difende con le unghie e con

i denti al cospetto dei giornalisti. “Che abbiano 34 o 20 anni i giocatori vogliono essere sempre titolari, ma il giorno in cui lo farò giocare voi mi chiederete perché non giocano Iniesta o Rakitic. Il gioco del Barcellona è un po’ cambiato – spiega il mister - ma la filosofia è sempre la stessa, io ho impostato il modo di giocare in base alle caratteristiche di chi c’è”. Il rapporto con la stampa è teso, proprio per volontà dell’allenatore, che stavolta non aspetta le critiche ma attacca per primo. E pure questa scelta è figlia degli insegnamenti romani. È un Luis Enrique “post-ideologico” se, il tikitaka senza se e senza ma è alle spalle. La forza delle idee però è la stessa.

Pensi che fossero preventivabili questi successi sulla panchina del Barça? “Sì, era prevedibile, ma sicuramente non in questi tempi. Degli sprazzi di calcio bello ed efficace si erano visti anche a Roma, quello che era mancato era la capacità di adattare le proprie convinzioni al materiale umano che si ha a disposizione. Dopo la Roma, davanti a Luis c’erano due strade: quella dell’intransigenza e quella dell’apertura mentale. La prima può farti diventare Zeman, la seconda può anche farti diventare allenatore del Barcellona. Durante la stagione con il Celta Vigo ha riallineato l’intelligenza dell’uomo (mai in dubbio, neanche a Roma) a quella dell’allenatore. Essersi dimostrato un manager in grado di gestire un gruppo e di portarlo ad ottenere buoni risultati è stato sufficiente per permettergli di accedere al bonus che lo aspettava. Quando parlo di bonus intendo che dopo la gestione Martino e la tragedia Vilanova, l’ambiente Barça aveva decisamente bisogno di un uomo figlio della tradizione blaugrana, e Luis si è trovato al posto giusto, nel momento giusto, dopo la stagione giusta. Ci sono pochi dubbi sul fatto che oltre al suo curriculum sia stata valutata anche la sua provenienza, ma questo non vuol dire che non possa dimostrarsi all’altezza della situazione e meritarsi pienamente ex post una panchina così prestigiosa”.

Il futuro di Luis sembra roseo, quello di Kansas City 1927 quale sarà? “Kansas vive. Di una vita sua che ormai prescinde da noi due, che però comunque siamo vivi, a scanso di equivoci. Abbiamo scritto dopo la vittoria sul Cska perché eravamo felici e perché avevamo il tempo di farlo, ma anche perché era una situazione inedita: non avevamo mai potuto scrivere di Champions su Kansas. È stato bello farlo, ed è stato bello leggersi tutti i commenti (non ne abbiamo mai saltato uno da quando esiste la pagina) il giorno dopo. Però rimane il fatto che abbiamo molto meno tempo da dedicare alla scrittura. Comunque scriveremo ancora, non sappiamo quando e come, ma sappiamo che quel momento lì in cui pubblichi la scheda e iniziano ad arrivare i primi commenti e capisci che anche stavolta in qualche modo sei arrivato a qualcuno, e l’hai fatto emozionare o più spesso semplicemente ridere e svagare per un quarto d’ora. Beh, quel momento lì è proprio bello”.

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PREMIER LEAGUE INGHILTERRA

di Luca Manes

LIVERPOOL ALLA SBARRA

GIOSTRA REDS

2014, un anno strano per un club storico. Il Liverpool si interroga…

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icchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Difficile dare un giudizio definitivo sull’intenso, a tratti esaltante, in altre occasioni tragico 2014 del Liverpool FC. L’anno che volge al termine sarà infatti ricordato per la splendida rincorsa a quel titolo di campioni d’Inghilterra che manca addirittura dal 1990 (quando la Premier ancora non era stata fondata...), ma anche per l’inaspettato crollo nel momento decisivo, segnato dalla beffa interna con il Chelsea e il rocambolesco pareggio al Selhurst Park. Impossibile non citare le trame eleganti, il bel gioco espresso dal team allenato dal nuovo idolo della Kop Brendan Rodgers, l’esplosione de-

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finitiva del guizzante Raheem Sterling e del neo-titolare dei Tre Leoni Jordan Henderson, il fiuto del goal di Dean Sturridge, ma è altresì difficile scordarsi del doloroso addio a Luis Suarez, di un mercato estivo che ha sollevato più di una perplessità (con Mario Balotelli subito sul banco degli imputati) e una difesa che continua a rappresentare il tallone d’Achille della squadra. Fuori dal campo di gioco sono arrivate notizie incoraggianti: nei primi mesi del 2015 inizieranno i lavori di espansione dell’Anfield Road, in particolare della stagionata Main Stand. In realtà alle spalle della tribuna è già stata demolita la fila di case sulla Lothair Road, e altre abitazioni saranno presto buttate giù nelle altre due vie nei pressi della

Main Stand. L’investimento è di quelli importanti: 260 milioni di sterline (oltre 300 milioni di euro), ma entro la stagione 2016-17 si conta di portare la capienza totale dell’arena da 45.500 a 58.500 posti. Un po’ quanto successo all’Arsenal, con il passaggio da Highbury ad Ashburton Groves (ovvero all’Emirates Stadium), con la differenza che i Reds potranno continuare a giocare nel loro tempio rimodernato. La proprietà a stelle e strisce sta quindi cercando di riportare il Liverpool sulla vetta del football inglese e continentale. Di certo la partecipazione alla Champions League dopo cinque lunghi (e frustranti) anni di assenza è un segnale confortante. Meno confortanti

sono le prestazioni del primo segmento di 2014-15. Inutile girarci intorno: l’assenza del “pistolero” uruguayano si fa sentire, eccome. Mancano i goal (31 in tutto il 2013-14), ma anche la sua capacità di scardinare le difese avversarie e di duettare con Sturridge e Sterling. La scommessa Balotelli per ora non si è rivelata vincente e già si parla – forse in maniera un po’ prematura – di acquisti nella sessione invernale del mercato. Non che l’enfant du pays Rickie Lambert (centravanti vecchio stampo, molto grintoso ma non certo con piedi da fuoriclasse) e i difensori Dejan Lovren, Javi Manquillo e Alberto Moreno, abbiano troppo impressionato i fedelissimi della Kop e gli addetti ai lavori. Metteteci pure uno Steven Gerrard che va per i 35 e un Coutinho meno scintillante rispetto al passato e capirete perché i Reds sono già troppo lontani dal vertice della Premier e stanno palesando alcune inattese difficoltà in Champions League, nonostante un girone molto abbordabile. Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, però, c’è da tessere le lodi di quello

foto Agenzia Liverani

foto Buffa/Image Sport

Alti e bassi per uno dei club più amati d’Inghilterra

che, nella nostra umile opinione, è uno dei più fulgidi talenti espressi dal calcio inglese – ed europeo – negli ultimi anni: Adam Lallana. Superato l’infortunio che lo ha tormentato nelle prime settimane della nuova campagna, il buon Adam ha dimostrato di valere i 25 milioni di euro pagati per assicurarsi i suoi servigi. Comunque è costato meno di Luke Shaw, che per il momento non si sta dimostrando all’altezza del suo ex compagno al Southampton. Lallana sarebbe sicuramente piaciuto a un fine intenditore come Bill Shankly. Il manager scozzese senza il quale l’epopea del Liverpool non avrebbe mai visto la luce. Colui che prese i Reds nei bassifondi della Seconda Divisione e nel corso di pochi anni li condusse nell’olimpo del calcio mondiale. Nel caso dell’allenatore più amato dai tifosi dei Reds le statistiche non dicono tutto. Tra i suoi pari è quello che ha incamerato meno trofei, “solo” sei (tre campionati, due FA Cup e una Coppa Uefa), ma nei suoi tre lustri ad Anfield Road aveva seminato talmente bene che i suoi successori

Brendan Rodgers

(ed ex collaboratori) Bob Paisley e Joe Fagan hanno raccolto una cornucopia di frutti, tra cui le quattro Coppe dei Campioni fra il 1977 e il 1984. In queste settimane è uscito in Italia, edito dalla casa Editrice Il Saggiatore, Red or Dead, libro che narra le imprese di Shankly alla guida del Liverpool. Autore dell’opera l’affermato scrittore inglese David Peace, che, dopo il fortunato Il Maledetto United, si è di nuovo cimentato con il tema calcistico. Con un pizzico di successo in meno, o almeno noi abbiamo preferito il racconto dei catastrofici 44 giorni trascorsi da Brian Clough alla guida del Leeds United a metà degli anni Settanta. Nella sua ultima fatica Peace trasmette però al meglio la sensazione di quanto Shankly fosse adorato dalla metà rossa di Liverpool, che lo venera ancor oggi come una divinità, e come lo scozzese ritenesse a sua volta la Kop, quella con solo posti in piedi e niente seggiolini, un luogo sacro. Ma leggendo le pagine di Read or Dead, si capisce anche come il grande Bill sia stato l’allenatore che più

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Certo, non mancano gli aneddoti, come quando a Leeds Shankly fece salire sul pullman della squadra un gruppo di tifosi in trasferta, oppure quando tenne il discorso alla squadra prima

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di una celebre sfida con il Manchester United, usando gli omini del Subbuteo per indicare la “santa trinità” Law-BestCharlton. Qua e là compaiono le frasi taglienti che tanto hanno contribuito a creare il personaggio (“se sei primo sei primo, se sei secondo non sei nulla”), ma la netta impressione è che Peace voglia soprattutto mettere più in evidenza la bontà d’animo di Shankly. “Dopo tanti personaggi negativi”, ha ammesso lo stesso autore, “volevo raccontare la storia di una brava persona”. Per questo è l’ultimo segmento di Red or Dead ad apparire più riuscito. Splendido, a tratti commovente è il suo duetto in radio con l’ex primo ministro laburista Harold Wilson, a parlare di football e politica, di quel socialista ante-litteram che rispondeva al nome del sommo poeta Robert Burns e di quando anche Shankly, a soli 14 anni, si immergeva nelle viscere di Glenbuck per guadagnare la paga giornaliera che spettava ai minatori. Anch’egli, come i suoi connazionali e illustri colleghi Jock Stein e Matt Busby, iniziò il percorso lavorativo picco-

Raheem Sterling

nando le rocce per cavarne carbone. Ma gli anni della pensione per il grande Bill sono anche pieni di delusioni e rimpianti. Rimpianti per non aver dedicato più tempo alla famiglia, delusioni per come lo aveva trattato (male) dopo il ritiro il Liverpool e per la brutta china che stava prendendo il suo amato football, soprattutto perché c’erano troppi soldi in giro. Stava iniziando il distacco, lo scollamento tra i calciatori, figli della working class, e la loro stessa fascia sociale di provenienza, ora, in piena epoca di corporate football divenuto irreversibile. La sua consolazione erano i tifosi. Rispondeva sempre alle lettere, ai messaggi che gli scrivevano. Non rinunciava mai a scambiare due parole di persona con i supporter dei Reds che nel settembre del 2013, il mese in cui Shankly, se fosse stato ancora vivo, avrebbe compiuto 100 anni, lo hanno ricordato con una splendida coreografia che ha coinvolto tutta la Kop e con uno striscione che dice tutto: “ha reso felice la sua gente”. Ora spetta a Rodgers provare a imitarlo, aprendo un nuovo ciclo di trionfi in patria e in Europa.

foto Agenzia Liverani

di ogni altro aveva cercato di applicare il socialismo al football. “Nessuno è più importante del team, non esistono prime donne e solo aiutandosi tra di loro i giocatori possono raggiungere i risultati sperati”. La base della filosofia calcistica di Shankly viene citata spesso nelle oltre 700 pagine del libro, per buona metà incentrato sulle 15 stagioni passate dallo scozzese ad Anfield Road. Proprio questa prima parte, però, è la meno convincente di Read or Dead. Quasi ossessivo il resoconto degli infiniti match giocati dai ragazzi in rosso, tra elenco dei marcatori, risultati e presenze allo stadio, inframezzati dalla descrizione, anche quella tremendamente ripetitiva, della routine quotidiana di Shankly. L’idea di rendere, così facendo, la meticolosità del personaggio poteva essere anche apprezzabile, ma la nostra impressione è che Peace si sia fatto prendere troppo la mano.

Steven Gerrard

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MARIO BALOTELLI

foto Imago/Image Sport

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PREMIER LEAGUE INGHILTERRA

WEMBLEY, ADDIO FASCINO Può contenere 90.000 persone, MA spesso è mezzo vuoto…

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opo il fallimento Mondiale forse c’era da aspettarselo: i tifosi inglesi hanno incominciato a disertare Wembley (posti a sedere, ben 90.000). Per il match contro la Norvegia erano in 40mila, contro San Marino 55mila. Entrambi sono record negativi (il primo per un’amichevole, il secondo per una partita di qualificazione a una competizione internazionale). C’è di che preoccuparsi? Sì, ma non tantissimo. È vero che decenni di clamorosi insuccessi e cocenti delu-

sioni hanno ridotto al minimo sindacale l’entusiasmo e la fiducia dei supporter dei Tre Leoni, però va anche detto che specialmente nel caso del girone di accesso a Euro 2016 la formula (le prime due passano automaticamente) non ha certo aiutato. Vincendo in Svizzera l’Inghilterra si è già aggiudicata metà del biglietto per la fase finale della competizione. Oltre Manica qualcuno si chiede se non sarebbe stato meglio giocarli altrove gli incontri di qualificazione, specialmente quelli contro le squadre più deboli. Certo, sarebbe stata una buona occasione per riempire un impianto in cui casomai la nazionale aveva giocato solo durante gli anni della ricostruzione di Wembley. Ma proprio qui sta il punto. Il nuovo stadio è costato così tanto (oltre 750 milioni di sterline) che va sfruttato quanto più possibile. Quindi non solo finali di Coppa, ma anche semifinali e atti decisivi dei play off. E già si parla di farci giocare un team londinese. No, non ci riferiamo né al Chelsea né al Tottenham, ma a una possibile franchigia di football americano da aggiungere a quelle della NFL...

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BUNDESLIGA GERMANIA

di Flavio SIRNA

FORZA DI OSARE

LARGO AI GIOVANI

Nessun campionato è come la Bundes: qui i talenti hanno modo di crescere e diventare campioni veri…

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ltre ai molti big, sparsi tra le rose delle solite potenze che rispondono al nome di Bayern, Dortmund e Bayer, la Bundesliga 2014-2015 ha il pregio di essere la vetrina perfetta anche per molti giovani interessanti che hanno tutte le carte in regola per poter presto indossare maglie più prestigiose (con tutto il rispetto per i loro attuali club). In questa carrellata ci soffermiamo su alcuni di questi diamanti grezzi, già pronti a lasciare il segno. Ecco poi c’è anche da parlare di un “giovane” di nome Di Matteo, fresco di nuova nomina… Hakan Calhanoglu (Bayer Leverkusen, classe 1994) - Cresciuto nelle giovanili

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del Karlsruhe, ha cominciato a far intravedere le sue qualità con la maglia dell’Amburgo (casacca con la quale verrà ricordato per una conclusione-goal da distanza siderale). Quest’estate le Aspirine lo hanno acquistato dagli anseatici per circa 15 milioni di euro. E l’inizio di stagione del ragazzo sembra valere l’investimento: centrocampista sopraffino (soprattutto trequartista), Calhanoglu ha la capacità di utilizzare entrambi i piedi. Ne sa qualcosa il Benfica, trafitto da un suo splendido calcio di punizione in Champions League. Numeri d’alta scuola per un giocatore che pare un predestinato… Antonio Rudiger (Stoccarda, classe 1993) - Cresciuto nelle giovanili del Dortmund, è arrivato allo Stoccarda nel

ROBERTO DI MATTEO

febbraio del 2011. Dopo un periodo di trafila nella squadra Under 19 ed in quella B, ha fatto il suo esordio in Bundesliga nel 2012. Da quel momento in poi ha cominciato a scalare posizioni all’interno della rosa, sino a collezionare 30 presenze (2 goal) nella stagione 20132014. Possente fisicamente (191 cm di altezza), Rudiger è un difensore centrale che possiede anche una discreta velocità nel movimento ed un ottimo stacco di te-

sta, che ne fa un pericolo costante anche in fase offensiva (sui corner). Di lui si è accorto anche Low, che lo ha convocato per la prima volta in Nazionale nel maggio del 2014 e gli ha consegnato una maglia da titolare contro l’Irlanda. Lucas Piazon (Eintracht Francoforte, classe 1994) - Acquistato nel 2012 dal Chelsea per 7,5 milioni di euro, il ragazzo di San Paolo è stato considerato per qualche tempo l’erede di Kakà. Con la maglia Blues non riesce a sfondare, anche perché i vari allenatori londinesi non gli danno la fiducia che (forse) meriterebbe. Comincia così il suo pellegrinaggio che lo ha portato prima al Malaga e poi al Vitesse, dove comincia finalmente a fare vedere di che pasta è fatto, mettendo a segno 12 goal nella sua prima ed unica stagione orange. Le sue prestazioni stuzzicano l’Eintracht, che lo prende in prestito dal Chelsea. Trequartista di nascita, visto il suo piede sensibile e la sua buona capacità sia di servire i compagni che di concludere (ne sa qualcosa l’Amburgo, vittima di una sua incredibile punizione), Piazon appare in grado di

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In Germania non c’è la paura di lanciare le promesse del futuro...

potersi ben destreggiare anche come ala sinistra. Dovesse dimostrare finalmente di essere definitivamente maturato, nella prossima stagione Mourinho, che di giocatori come lui avrebbe bisogno per il suo 4-2-3-1, gli permetterà di fare ritorno in Premier League. Leon Goretzka (Schalke 04, classe 1995) - Nonostante Julian Draxler indossi ancora la maglia della compagine di Gelsenkirchen, in molti lo considerano, in quanto a talento, l’erede del forte esterno teutonico. Più possente dal punto di vista fisico, appare maggiormente adatto ad occupare una posizione centrale o come centrocampista o come trequartista (Draxler può invece fungere anche da esterno d’attacco). Dopo aver collezionato 30 presenze e 4 goal nel 2013-2014, quest’anno è stato fermato da un problema muscolare (strappo). Di Matteo, nuovo allenatore dello Schalke 04, potrà averlo nuovamente a disposizione tra un po’ di tempo e, siamo sicuri, saprà valorizzarlo nel migliore dei modi. Di lui si è accorto anche Low, che lo ha convocato in Nazionale lo scorso

Hakan Calhanoglu

maggio. Il talento è tutto lì da vedere e, carta d’identità alla mano, l’impressione è che di questo ragazzotto sentiremo parlare ancora a lungo. Il meglio deve ancora arrivare… Thorgan Hazard (Borussia Monchengladbach, classe 1993) - Due anni in meno rispetto al celebre fratello Eden, nel 2012 è stato acquistato insieme a lui dal Chelsea. A differenza del fratello, costato 40 milioni di euro e subito protagonista, è stato mandato in Belgio a farsi le ossa con la maglia dello Zulte Waregem, dove ha collezionato 70 presenze e 12 goal. Nonostante questo il Chelsea decide di mandarlo a giocare nuovamente in prestito in un campionato maggiormente competitivo come la Bundesliga. Principalmente trequartista, dotato di un buon tiro, Thorgan è comunque capace come Eden di poter giocare anche come esterno nel 4-2-3-1. Le sue prestazioni vengono monitorate dai Blues. Ha cominciato bene la stagione, soprattutto in Europa League, dove ha messo a segno tre reti in due partite. Dovesse continuare su questo filone, non è

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da escludere che Mourinho la prossima estate possa realizzare il suo sogno, ossia quello di giocare titolare in una big insieme al fratello. Ovviamente tutto dipenderà dalle sue prestazioni in casacca Monchengladbach… E intanto c’è un “giovane”, in questo caso allenatore, che è tornato in auge. Stiamo parlando di Roberto Di Matteo. Avevamo lasciato il 44enne tecnico italiano fresco di esonero. Dopo aver centrato, nella sorpresa generale, la Champions League con il Chelsea (2011/12), Di Matteo, qualche mese più tardi, era stato sollevato dall’incarino, complice una sonora sconfitta, proprio in Champions, contro la Juventus. Due anni più tardi, più o meno, il buon Di Matteo si è rifatto vivo. Ancora il blu come colore dominante ma questa volta di stampo tedesco. Si è preso lo Schalke 04. Un rimpiazzo di Keller? No, tutt’altro. Un contratto fino al 2017, per portare avanti un progetto importante con il club di Gelsenkirchen. Una sfida ambiziosa che Di Matteo ha accettato con entusiasmo. I primi risultati gli hanno dato ragione. Di lui si dice che

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Leon Goretzka

paghi un carattere troppo docile, forse la verità non è proprio questa… In tanti hanno ritenuto che l’exploit con il Chelsea sia stato una casualità. Al timone dello Schalke 04, Di Matteo vuole dimostrare che, invece, ha le doti per essere un allenatore di prima fascia… La rosa a disposizione non è da applausi, anche se Huntelaar, Boateng, Draxler, tanto per fare qualche esempio, non sono nomi proprio sconosciuti (si vocifera che potrebbe anche arrivare un certo Torres, ora al Milan ma vecchia conoscenza di Di Matteo ai tempi dell’esperienza ai Blues). Giocatori a parte, l’impressione è che la Bundes sia il luogo perfetto per il nativo di Sciaffusa. In Germania apprezzano i tecnici veri, quelli che hanno lo sguardo fiero e sanno prendersi le proprie responsabilità. Come se non bastasse, siamo di fronte ad una persona sincera, di quelle che non sanno mentire. Lo abbiamo aspettato per ben due anni ma ora ce lo godiamo, nella speranza che possa zittire tutti i critici. Chissà che ne pensa Abramovich… C’è purtroppo anche chi, nonostante

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Thorgan Hazard

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BUNDESLIGA GERMANIA

Lucas PIAZON

sia giovane, deve fare i conti con una sfortuna nerissima. Stiamo parlando di Thiago Alcantara. Dopo aver avuto grossi problemi fisici lo scorso anno, il talento 23enne del Bayern Monaco si è fatto male nuovamente e, questa volta, in maniera decisamente grave: rottura parziale del legamento collaterale mediale del ginocchio destro. Di fatto, stagione compromessa… Una mazzata per lo spagnolo che, dopo aver dovuto saltare il Mondiale, si è fermato due giorni dopo aver ripreso ad allenarsi con i compagni: “Sono deluso e disperato, perché sempre io? Ma non mollo e mi batterò di nuovo…”, il commento, struggente, dello stesso Thiago Alcantara… La speranza del Bayern e del mondo del calcio in generale è che la sfortuna smetta di accanirsi contro un talento purissimo che, con la casacca del Barcellona, aveva incantato tutti, tanto da convincere i bavaresi a mettere sulla bilancia 20 milioni (più bonus) per portarlo a Monaco. Dalla sua la giovane età, un motivo in più per non farsi abbattere. Per il tecnico Guardiola una perdita dolorosa. Il Pep ha voluto personalmente lo spagnolo…

MA LA GERMANIA? Il successo in Brasile sembra essere già lontano anni luce…

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opo aver fatto festa per il Mondiale conquistato meritatamente in Brasile nel luglio del 2014, la nazionale tedesca si è ritrovata nel mese di agosto per preparare le qualificazioni ad Euro 2016. Le cose però non stanno andando come previsto. Se fa poco testo l’amichevole persa in casa per 4-2 contro l’Argentina, non era sicuramente in programma lo stentato avvio nei match ufficiali. Vittoria a fatica contro la Scozia, sconfitta in Polonia e pareggio casalingo contro l’Irlanda.

Tali risultati negativi non possono sicuramente essere spiegati solamente dall’appagamento e dall’addio di elementi di personalità come Lahm e Mertesacker. Come ha spiegato uno dei leader del gruppo, Toni Kroos, i ragazzi di Low sono forse un po’ troppo sicuri dei loro (tanti) pregi, da pensare che non sarà per forza necessario mettere tutto quello che hanno in campo per arrivare ad un risultato positivo. A parziale scusante c’è da sottolineare come Low stia anche cercando di far inserire negli oleati meccanismi della squadra nuovi giocatori. Contro l’Irlanda per esempio c’erano in campo i due gialloneri Ginter (centrocampista centrale) e Durm (terzino), Draxler (che a poco a poco diventerà, siamo sicuri, un nuovo titolare), il possente Rudiger e il naturalizzato Bellarabi. Per molti addetti ai lavori non c’è quindi motivo di preoccuparsi. È certo però che nelle prossime uscite, oltre ai goal, ci vorranno prestazioni come si deve per poter nuovamente ripartire. Il titolo di Campione del Mondo impone ai teutonici di non sbagliare più. Tutti lo sanno, dal Ct ai giocatori…

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LIGUE 1 FRANCIA

di Renato MAISANI

UN VERO DURO

IL FASCINO DE “EL LOCO”

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e il tuo soprannome è “El Loco” qualcosa di stravagante, per lo meno, l’avrai pur fatta. Nel caso specifico del “Loco” Bielsa, ben più di qualcosa. Nato a Rosario il 21 luglio del 1955, Marcelo Bielsa ha avuto la sua prima panchina nel 1990 e, in ventiquattro anni di carriera è riuscito in un qualcosa che raramente riesce ad un allenatore, vale a dire ottenere una tifoseria propria, un nutrito gruppo di appassionati di calcio che continua a seguirlo e a tifare per lui e per le squadre che, di volta in volta, dirige. Perché Bielsa è “loco” sì, ma è anche – e soprattutto – bravo. Bravo, schietto, moderno e diretto: insomma, uno di

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quei personaggi che fa soltanto bene al mondo del calcio. A Marsiglia, in pochi mesi, hanno imparato ad amarlo e non soltanto per gli ottimi risultati raccolti alla guida dell’OM, ma anche per la sua bizzarra verve comunicativa e per i curiosi siparietti inscenati dentro e fuori dal terreno di gioco. Un personaggio unico ma anche, dicevamo, un allenatore brillante. Le sue squadre non sempre vincono, ma comunque divertono. E, soprattutto, mai deludono. Al ‘Velodrome’ impazziscono per lui, i tifosi dell’OM tornano a sognare il titolo numero 10, reputato un’utopia fino a qualche mese fa. E la Francia tutta, ma non solo, si gode il gioco di Gignac e compagni, ma anche i singolari exploit del ‘Loco’ che impazzano sul web.

foto Alterphotos/Image Sport

mai banale, perfezionista nato, Bielsa è uno che insegna “come vivere il calcio”, parola di Zanetti…

Vivere da vicino Bielsa è un qualcosa di unico. Così lo hanno raccontato in tanti, la maggior parte di coloro i quali sono stati allenati da lui. “Bielsa mi ha spiegato come vivere il calcio”, una frase che rimane scolpita nella memoria specialmente se a pronunciarla è uno come Javier Zanetti, che sul tema ‘Come vivere il calcio’ potrebbe tenere convegni ed organizzare corsi di formazione. Dedizione maniacale al lavoro, metodi non sempre usuali ma efficaci, rispetto per tutti e un pizzico di scaramanzia, che non guasta mai. Il “Loco” è anche, ma non solo questo. Emiliano Gabrielli, tifosissimo dell’Ahtleic Bilbao e Presidente della Peña Leones Italianos – il fans club dedicato al club basco – ci racconta il Bielsa conosciuto durante l’avventura a Bilbao. “Ho avuto la fortuna di conoscere Bielsa personalmente in occasione di una trasferta a Lione e quell’incontro fu particolarmente significativo. Gli dissi di essere onorato di conoscerlo e lui mi rispose che, al contrario, si sentiva onorato di conoscere dei tifosi capaci di arrivare dall’Italia pur di assistere ad una partita del Bilbao”. Umile, Bielsa, come pochi

foto Imago/Image Sport

foto Giuseppe Celeste/Image Sport

Bielsa è uno dei nuovi grandi personaggi del torneo francese...

nel calcio moderno. Durante la sua avventura alla guida dei ‘Leones’, durata dall’estate 2011 al giugno del 2013, fece sognare il popolo del ‘San Mames’, sfiorando persino la vittoria dell’Europa League, persa in finale contro l’Atletico Madrid di un incontenibile Radamel Falcao. Nella prima delle sue due stagioni in terra basca, Bielsa centrò anche la finale di Coppa del Re, anch’essa persa contro il Real Madrid. “In quegli anni però – ricorda Gabrielli – era sempre un piacere veder giocare quella squadra. Non vincemmo niente (l’Athletic arrivò 10° nella stagione 2011-2012 e 12° in quella successiva, ndr), ma abbiamo visto un calcio esaltante, divertente, propositivo. E poi Bielsa ha sempre trovato il modo per interessarci, per appassionarci ancor di più”. Parole che lasciano trasparire lo splendido ricordo lasciato dal ‘Loco’. Sin dall’inizio, a Bilbao, Bielsa si fece infatti notare per scrupolosità e attenzione, ma anche per la correttezza e l’estremo rigore morale. Il presidente dell’Inter, Massimo Moratti, raccontò di essere stato vicinissimo ad ingaggiarlo nell’estate del 2011, salvo poi incassare il ‘no’ del

Hakan Calhanoglu

tecnico. In seguito, alcuni rumors circolati in Italia, attribuivano all’allenatore argentino una presunta ammissione di pentimento. Emiliano Gabrielli, però, ci tiene a ribadire che “Bielsa non ha mai ammesso pubblicamente di essersi pentito di aver scelto il Bilbao anziché l’Inter. Piuttosto, in occasione della conferenza stampa di presentazione, dichiarò di non aver nemmeno valutato né ascoltato, la proposta ricevuta da Moratti, poiché aveva già dato la sua parola all’Athletic e non sarebbe certo tornato sui propri passi. Nessun pentimento, poi, nonostante quanto si scrisse in Italia”. E risulta facile crederlo poiché uno come Bielsa difficilmente prende una decisione senza ponderarla in tutti i suoi aspetti e, di conseguenza, difficilmente arriva a pentirsi. Scrupoloso, Bielsa, a livelli più che mourinhiani. Storico fu il suo discorso tenuto in occasione della conferenza stampa di presentazione della candidatura alla presidenza del club da parte di Urrutia. Il ‘Loco’, che sarebbe appunto divenuto l’allenatore soltanto in caso di elezione di Urrutia, prese la parola per presentarsi e, a sorpresa, non si lasciò andare

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ai classici proclami o alle solite banalità. “Tutt’altro – ricorda sorridendo Gabrielli – Quel giorno, quando tutti si attendevano una semplice presentazione del progetto sportivo, Bielsa iniziò a sciorinare i dati di ogni singolo giocatore del Bilbao, partita dopo partita, spiegandone pregi e difetti e sbilanciandosi già su coloro i quali sarebbero stati utili alla causa, secondo il suo modo di intendere il calcio”. Un atteggiamento che colpì tutti, tifosi e addetti ai lavori. E che, secondo qualcuno, diede un contributo non indifferente alla schiacciante vittoria di Urrutia. Nel curriculum di Bielsa, oltre ai tre campionati vinti in Argentina (2 col Newell’s ed 1 col Velez) fa bella mostra di sé la medaglia d’oro conquistata alle Olimpiadi di Atene del 2004, sicuramente il punto più alto della carriera del tecnico . Ma il “Maestro” – così lo definiscono molti dei suoi fans – è riuscito nella grande impresa di lasciare il segno anche laddove non ha raccolto trofei. La sua avventura come commissario tecnico del Cile, ad esempio, fu tutt’altro che banale. Chiamato a dirigere ‘La Roja’ nel 2007, la trascinò con un girone elimina-

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torio praticamente perfetto ai Mondiali sudafricani del 2010, dove la Nazionale cilena si arrese soltanto al cospetto del Brasile agli ottavi di finale. Anche in quella occasione, però, Bielsa non si smentì e, fedele al proprio credo, schierò anche in quell’occasione una squadra iper-offensiva con quattro giocatori d’attacco. Il Cile perse, ma i cileni riempirono d’orgoglio il loro petto. Prima dell’esaltante esperienza a Bilbao, Bielsa aveva già assaporato il calcio spagnolo, ma non abbastanza per poter tracciare un bilancio. Chiamato alla guida dell’Espanyol nell’estate del 1998, infatti, Bielsa si dimise in fretta e furia per rispondere alla chiamata dell’Argentina che, finita l’era Passarella, decise di affidare a lui la panchina della Selección. Ma durante la sua breve permanenza in Catalogna, tuttavia, Bielsa riuscì a far parlare di sé anche in Italia: in occasione di un’amichevole disputata a San Benedetto del Tronto contro la Juventus, infatti, mister Lippi non gradì il gioco duro dei catalani, ma Bielsa gli rispose per le rime, dando vita ad un vero e proprio battibecco. Quel

giorno, la Juventus uscì dal campo sconfitta e Del Piero, dopo appena 35 minuti di gioco, si fece espellere scalciando un avversario perché stufo di essere costantemente vittima di contrasti duri durante un’amichevole d’agosto. Ma Lippi non fu l’unico allenatore italiano col quale Bielsa si scontrò a muso duro: nel 2008, infatti, al termine di una partita tra il suo Cile e l’Italia olimpica di Casiraghi, vinta per 1-0 dagli Azzurri, piuttosto che fare i complimenti al selezionatore italiano, Bielsa lo rimbrottò in diretta tv con un inequivocabile: “Pelotazos al nueve, por arriba...eso no es jugar” e cioè “Palla all’attaccante e via, questo non è giocare a calcio”. Inusuale, starete pensando. Beh, non più di un allenatore che – per avere una visuale più ampia del campo d’allenamento – era solito seguire la seduta arrampicandosi su un albero posto all’altezza del centrocampo. Sì, sempre lui, un giovane Bielsa alla guida del Newell’s Old Boys, da immaginare accovacciato su un tronco con tanto di penna e taccuino a seguito. Perché se il tuo soprannome è “El Loco” qualcosa di stravagante, per lo meno, l’avrai pur fatta.

foto Agenzia Liverani

foto Giuseppe Celeste/Image Sport

LIGUE 1 FRANCIA

I RITI DEL ‘LOCO’ Scaramantico fino alla follia, Bielsa non lascia nulla al caso…

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ra le peculiarità di Marcelo Bielsa ruolo sicuramente importante ricopre l’aspetto scaramantico del suo carattere. Come molti ‘latini’, infatti, l’allenatore nato e cresciuto a Rosario porta con sé dei piccoli riti, gesti che se coincidenti con risultati positivi, il tecnico è solito ripetere ad oltranza. “Durante la sua militanza a Bilbao – ci racconta il n°1 del fan club dell’Athletic Bilbao in Italia, Emiliano Gabrielli - ricevette delle immaginette sacre da alcune suore alle quali aveva fatto una donazione: qualche giorno dopo, in occasione

del derby con la Real Sociedad li posizionò sulla panchina. Il Bilbao vinse e lui ripeté quel rito altre volte”. Anche a Marsiglia, sebbene in pochi mesi di militanza, Bielsa si è fatto notare a più riprese in seguito a comportamenti decisamente curiosi. Come ad esempio bere un caffè in panchina, proprio nel bel mezzo del match. Oppure, come accaduto in occasione del match contro il Tolosa, alzarsi per dare delle disposizioni ai propri giocatori per poi risedersi proprio sul caffè posizionato frattanto lì da uno dei suoi assistenti. Lì dove? Beh, uno come Bielsa può accontentarsi di star seduto in panchina? Ovviamente no. Il ‘Loco’ segue le partite del suo OM ‘comodamente’ seduto su una cassetta solitamente adibita al trasporto delle bevande energetiche. Scelta che, in maniera virale, ha scatenato l’ilarità dei tifosi dell’OM. Alcuni di loro, pur di emulare il loro nuovo mito, hanno assistito alle partite della loro squadra del cuore davanti alla tv seduti su cassette identiche, pubblicando poi le simpatiche foto sui social network. Che dire? Se non è Bielsa-mania, poco ci manca...

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PHOTOGALLERY IL TIFO RACCONTA

PHOTOGALLERY / IL TIFO RACCONTA

IL CALCIO DEI TIFOSI di Thomas SACCANI

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l bello del calcio è spesso raccolto in pochi attimi. Riuscire a fotografarli è un’arte e, soprattutto, il modo migliore per raccontare ciò che accade. Nulla avrebbe senso senza la presenza del pubblico. I tifosi sono l’essenza stessa del mondo del pallone, doveroso un tributo per raccontarne la vera passione…

STRISCIONE DELLA CURVA NORD GENOA-Sampdoria 28.9.14 Serie A

STRISCIONI PER TOTTI ROMA-Hellas Verona 27.9.14 Serie A

STRISCIONI PER TOTTI ROMA-Hellas Verona 27.9.14 Serie A

STRISCIONE DELLA CURVA SUD SAMPDORIA-Roma 25.10.14 Serie A

STRISCIONE ITALIA-Azerbaigian 10.10.14 Qualif. Europeo 2016

STENDARDO PER INZAGHI MILAN-Juventus 20.9.14 Serie A

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PHOTOGALLERY / IL TIFO RACCONTA

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COREOGRAFIA CURVA FIESOLE FIORENTINA-Inter 5.10.14 Serie A COREOGRAFIA JUVENTUS-Roma 5.10.14 Serie A

STRISCIONE DELLA CURVA NORD LAZIO-Torino 26.10.14 Serie A

COREOGRAFIA CURVA SUD ROMA-Bayern Monaco 21.10.14 Champions League

SPETTACOLO CURVA NORD INTER-Napoli 19.10.14 Serie A

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scovate da CARLETT ANCELOTTI

CUADRADO

Abbiamo trovato su Instagram anche il Mister del Real Madrid in versione turista! A Madrid? Assolutamente no: Toledo!

Rimanendo in casa viola, ecco i due colombiani italiani: Cuadrado e Guarin dell’Inter in trasferta con la Nazionale colombiana a New York.

BECKHAM Un bel ritratto del campione inglese insieme al proprietario del PSG, lo sceicco Al-Thani, e al difensore brasiliano Thiago Silva

BERHAMI Il trio svizzero con trascorsi in squadre italiane in ritiro durante le qualificazioni europee. Berhami adesso all’Amburgo, Seferovic anche lui in Germania all’Eintracht Francoforte e l’unico superstite in Italia, Inler del Napoli.

BORJA VALERO Il passato e il presente della Fiorentina. Il campione e bomber argentino Batistuta impegnato in una gara di golf con il centrocampista spagnolo in forza alla squadra viola Borja Valero.

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IN COLLABORAZIONE CON

Emergenza alimentare Italia 18a giornata nazionale della

colletta alimentare

DEL PIERO All’esordio nella sua nuova esperienza indiana, un ritratto personale e divertito del campione, ex Juventus, Alex Del Piero

FALCAO Reduce dal brutto infortunio che gli ha fatto saltare i mondiali brasiliani, ecco una bella immagine del campione colombiano Falcao all’interno dello spogliatoio della sua nuova squadra: il Manchester United.

NARGI Un bel quadretto quello presente nella foto dell’ex velina Federica Nargi, compagna di Alessandro Matri, qui con un po’ di amici, tra i quali si riconosce l’ex centrocampista di Milan, Fiorentina e Lazio Christian Brocchi.

Il DJ/Speaker di RTL 102.5 Carlo CARLETTO Nicoletti seguirà i profili Instagram e Twitter dei giocatori più importanti del pianeta Calcio e ci segnalerà le foto e i tweet più divertenti e particolari. Segnalate quelle che magari potrebbero sfuggirgli scrivendogli al suo profilo Instagram e Twitter: @carlettoweb

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