Bimestrale | FEBBRAIO - MARZO 2017 | N. 226 | Italia | Euro 3,90
Calcio
BE €8,00 | F €11,50 | D €9,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT chf 8,50
2OOO La rivista diretta da FABRIZIO PONCIROLI Prima immissione: 12/01/2017
Gare Indimenticabili MILAN-REAL 5-0 IL DIAVOLO DI SACCHI
L’ALFABETO DEI BIDONI
IAN RUSH
L’INGLESE SCONFITTO DALLA LINGUA
EDIZIONE SPECIALE IN OMAGGIO L’ALBUM CALCIATORI 2016/2017
Giganti del Calcio BRUNO GIORDANO “MI VOLEVA LA JUVE MA...”
ESCLUSIVA TECNICI MADE IN ITALY
Storie di Calcio EL LOCO ABREU IL GIRAMONDO DEL CALCIO
L’ITALIA CHE
FUNZIONA
SPECIALE GRAND’ITALIA I VALORI DELLA NAZIONALE
foto Imago/Image Sport
Speciale Maglie LA DIVISA DEL BARÇA STORIA E TRADIZIONE
sommario n.226
Anno 20 n. 1 Febbraio - MARZO 2017
issn 1126-1056
4 LA BOCCA DEL LEONE
di Fabrizio Ponciroli
Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 12/01/2017 Iscritto al Registro Operatori di Comunicazione al n. 18246
6 WALTER MaZZARRI
INTERVISTA ESCLUSIVA di Francesco Fontana
14 roberto DONADONI
6
INTERVISTA ESCLUSIVA di Francesco Fontana
22 I GIOCATORI DEL FUTURO
SPECIALE GRAND’ITALIA
Diretto da
Fabrizio Ponciroli
INTERVISTA ESCLUSIVA di Sergio Stanco
Redazione
REPORTAGE
22
di Sergio Stanco
32
44 ABREU GIRAMONDO
Francesco Fontana, Sergio Stanco, Francesco Scabar, Luca Gandini, Paolo Bardelli, Thomas Saccani, Tania Esposito, Gianfranco Giordano, Carletto RTL.
di Fabrizio Ponciroli
SPECIALE
di Gianfranco Giordano
Fotografie
58 BRUNO GIORDANO
I GIGANTI DEL CALCIO
14
di Paolo Bardelli
68 DERBY DELLA LANTERNA
TC&C S.r.l.
di Luca Gandini
Statistiche
Redazione Calcio2000
RECORD INVINCIBILI
Contatti per la pubblicità:
di Francesco Fontana
84 LUIS Jiménez
DOVE SONO FINITI? di Sergio Stanco
e-mail: media@calcio2000.it
68
58
88 IAN RUSH
L’ALFABETO DEI BIDONI di Fabrizio Ponciroli
Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688
PARTITE DA RICORDARE di Thomas Saccani
98 SCOVATE da CARLETTO RTL
Stampa
Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia Tel. +39 0303543439 Fax. +39 030349805
Distribuzione
92 MILAN-REAL MADRID
Image Photo Agency (imagephotoagency.it), Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca.
Realizzazione Grafica
SPECIALE
76 L’INTER DEL TRAP
Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto.
Hanno collaborato
STORIE DI CALCIO
50 MAGLIE BARCELLONA
TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872 Michele Criscitiello
38 SAN SIRO nazionale
EDITORE
DIRETTORE RESPONSABILE
di Francesco Scabar
32 GIANNI DE BIASI
Calcio2OOO
50
NUMERO CHIUSO IL 28 DICEMBRE 2016
IL PROSSIMO NUMERO sarà in edicola il 10 MARZO 2017
84
www.calcio2000.it Calcio2000 è parte del Network
L'EDITORIALE di Fabrizio PONCIROLI
direttore@calcio2000.it
SIAMO MAESTRI DI CALCIO…
Senza titolo-1 1
N. 226 - FEBBRAIO - MARZO 2017
SPECIALE GRAND’ITALIA
Operazione a premi valida dal 16.12.2016 al 30.06.2017. Regolamento completo su www.calcioregali2017.it
L’ALFABETO DEI BIDONI
IAN RUSH
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EDIZIONE SPECIALE IN OMAGGIO L’ALBUM CALCIATORI 2016/2017
2OOO La rivista diretta da FABRIZIO PONCIROLI Prima immissione: 12/01/2017
Giganti del Calcio BRUNO GIORDANO “MI VOLEVA LA JUVE MA...”
2OOO
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MAXI ALBUM e FIGURINE STREPITOSE Per una collezione ESAGERATA!
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celocelomanca
Bimestrale | FEBBRAIO - MARZO 2017 | N. 226 | Italia | Euro 3,90
LA G SE 2016
Speciale Maglie LA DIVISA DEL BARÇA STORIA E TRADIZIONE
ESCLUSIVA TECNICI MADE IN ITALY
Storie di Calcio EL LOCO ABREU IL GIRAMONDO DEL CALCIO
L’ITALIA CHE
“CON LE 2 AGGIOR
SPECIALE GRAND’ITALIA I VALORI DELLA NAZIONALE
FUNZIONA
foto Imago/Image Sport
I
l nostro amato Bel Paese non se la passa bene… A livello economico, siamo in grande affanno. Lo siamo anche culturalmente e socialmente. Ma mai abbattersi. Un nuovo anno è appena cominciato, la fiducia non deve essere mai persa… E poi, nel calcio, c’è anche chi va a mille allora, soprattutto fuori dai confini nazionali. C’è un’Italia che va, quella dei “maestri di calcio”. Ne abbiamo tanti che ben ci rappresentano in giro per l’Europa (e non solo). Siamo andati a casa di Mazzarri, rigenerato dalla cura Watford… Abbiamo ascoltato De Biasi, un eroe in Albania. Poi ci sarebbero i vari Conte, Ancelotti, Ranieri e tanti altri… Insomma, saremo pure in crisi ma restiamo dei maestri, almeno nell’insegnare calcio. Così come un gran maestro, di calcio e di eleganza, è Donadoni. Siamo partiti da lui, ex CT della Nazionale, per raccontare la Grand’Italia che verrà… Ma, ormai lo sapete, i racconti di calcio sono la nostra passione (e spero anche la vostra)… Abreu, Scopriecome vincere gente che ha tanto da racRush, Giordano Jimenez, fantastici premi* su # che umiliò il Real contare! Ewww.calcioregali2017.it che dire del Milan di Sacchi Madrid? O dell’Inter dei Record griffata Trap? O, ancora, dell’incredibile storia della maglia del Barcellona? Insomma, tanti contenuti per cominciare il nuovo anno con un sorriso… Il calcio deve, sempre e comunque, essere fonte di gusto, gusto profondo e sincero. Sono le passioni che ci permettendo di affrontare le difficoltà che la vita, tutti i giorni, ci pone di fronte… Il 2017 potrebbe essere un anno indimenticabile, dipende soprattutto dal nostro approccio… è come nel calcio. L’approccio alle partite è ciò che fa la differenza tra la vittoria e la sconfitta. Sogni per l’anno nuovo? Calcisticamente parlando mi piacerebbe che, in Europa, Champions o Europa League, le italiane ancora in corsa si facessero valere. E il vostro sogno per questo, speriamo, gratificante 2017 quale è? Sapete che sono curioso…
27/12/2016 19:04:36
“L’insegnante mediocre dice. Il buon insegnante spiega. L’insegnante superiore dimostra. Il grande insegnante ispira…” (William Arthur Ward)
www.calcio2000.it
Calcio 2OOO
3
LA BOCCA DEL LEONE di Fabrizio Ponciroli - foto Image Sport SEMPRE PIÙ STORIA… Direttore, non le ho mai scritto ma questa volta mi sento di farlo. Dopo mesi che compravo Calcio2000 solo per questioni di collezione, finalmente lo compro e lo leggo. Le storie di calcio mi piacciono, era quello che serviva. Le interviste le lasci ai suoi colleghi di Sky che tanto non dicono mai nulla di interessante ma le storie di calcio piacciono e lei le sa scrivere. Finalmente qualcosa che piace anche a me. Bravo Direttore Antonio, mail firmata Grazie, troppo buono Antonio… Onestamente spero di avere sempre più spazio e poterne raccontare sempre di più… Sono certo di avere ancora qualche asso nella manica. BALOTELLI, ALTRA CHANCE? Ponciroli, la seguo sempre, sia su TMW che TuttoJuve e leggo sempre con attenzione quello che scrive perché non è mai banale e non è facile non esserlo. So che lei non ha una simpatia per Balotelli ma mi pare che stia facendo bene in questo periodo al Nizza. Non potrebbe essere arrivato il momento per riportarlo in Nazionale e in Italia? Potrebbe essere cresciuto ed essere pronto. Secondo me gli va data un’altra occasione. Con Cassano quante
MARIO BALOTELLI
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Calcio 2OOO
volte gli si è andati incontro? Grazie per l’eventuale risposta. Saluti da Piacenza. Michele, mail firmata Balotelli, ci risiamo… Hai ragione, non amo particolarmente SuperMario o quello che ne è rimasto di lui. Vero, a Cassano sono state date tantissime occasioni ma non mi pare che sia servito… A mio modesto parere, Balotelli va alla grande in Ligue 1 per il semplice fatto che il campionato francese, con tutto il rispetto, non è competitivo come la nostra bistrattata Serie A o Premier League, Bundes e Liga. Lì deve correre di meno ed è più “libero” di esprimersi. Nazionale? No, guardiamo ad altri, è meglio. CALCIATORI, CHE FORMATO… Direttore Ponciroli, io le scrivo una volta all’anno, esattamente quando esce l’album Calciatori Panini. Da buon collezionista, so che anche lei aspetta quel momento con tanta trepidazione. A me il nuovo album piace tanto, mi piacerebbe sapere che ne pensa lei. Complimenti per tutto, soprattutto per la sezione su i bidoni del calcio. Mi diverte tantissimo leggere di quei giocatori tanto strambi. Luciano, mail firmata È enormeee… Le misure dell’album sono spaziali. Mettere una figurina
CALCIATORI PANINI
della collezione 2016/17 vicino ad una dello scorso anno è incredibile… Sono quasi il doppio come formato. Bello, bello, bello. E poi che emozione il ritorno dei super regali, mi ricordano la mia infanzia. Speriamo di riuscire a portare a casa qualcosa di bello… Approvato, al 100%. Sto già attaccando le figurine e non vedo l’ora di vederlo completo. Peserà 10 kg!!! JUVE, CHE NOIA So Direttore che lei non sarà contento della mia dichiarazione ma che noia questa Juventus. Vincono sempre e per forza aggiungo, chi li può battere? Questi hanno i soldi, possono comprare i più forti e fare tre/quattro squadre. Dai, non è neanche divertente vincere così, no? Però, guarda caso, all’estero non si riesce a vincere. La Juventus sta distruggendo il calcio italiano. Nessuno lo guarda più perché vincono sempre gli stessi. Ci vorrebbero delle regole precise. Scusi lo sfogo Direttore ma non se ne può più della Juventus. Alz78, mail firmata Ricordati il nome la prossima volta, così so a chi rispondo… Allora, andiamo con ordine. Da sempre, in qualsiasi sport, chi vince tanto, troppo, è un fastidio. La Juventus detta legge in Italia
MASSIMILIANO ALLEGRI
PER SCRIVERCI: media@calcio2000.it
da anni. Ha programmato tutto alla perfezione, si è costruita, anzi, ricostruita un DNA vincente. Spende tanto? Vero ma perché incassa tanto… E poi i soldi non sono sinonimo di vittoria (pensi al Leicester o al Lipsia). Credo che il problema sia un altro: nessuno riesce ad emulare la Vecchia Signora, nessuno sta al suo passo. Non vince in Europa? Tutto da vedere e comunque ben si difende, come anche Napoli, Roma e Fiorentina. Denigrare chi vince troppo non serve, meglio impegnarsi per far meglio… MA LA CHAMPIONS? Direttore buongiorno, ho appena comprato Calcio2000. Bellissimo il reportage sul Real Madrid la mia seconda squadra e bellissimo lo speciale sul Derby della Mole. Sono però dispiaciuto perché non trovo la storia della Champions ed ho aspettato due mesi per continuare questa affascinante storia. Le propongo un'idea nel prossimo numero si potrebbero inserire la Champions 1990 (non pubblicata) e la Champions 1992. Che ne pensa? Come sempre buon lavoro a tutta la redazione… Michele, mail firmata Michele, hai ragione ma le assicuro che è solo “una questione di spazi”. Abbiamo talmente tante cose che fatichiamo
a dargli spazio ma la Champions tornerà, è una mia promessa. Magari anche con un reportage stile Real Madrid… Intanto spero le piaccia il racconto di Milan-Real Madrid…
fulcro dell’attacco, il titolare inamovibile. Ma vedrà che tornerà presto di moda… Quando uno sa segnare, è difficile che disimpari completamente a farlo. Avrà modo e tempo di rifarsi.
GABBIADINI, CAMPIONE O NO? Direttore, che ne pensa di Gabbiadini? A Napoli non è riuscito a fare la differenza. Secondo me non è solo per colpa sua. Non l’ha aiutato nessuno e gli hanno subito chiesto di fare l’Higuain, senza dargli spazio e tempo per abituarsi al nuovo ruolo. Bisogna dare fiducia ai giocatori italiani invece si chiese sempre più di quanto si debba. Se fosse stato uno straniero, sono sicuro che ci sarebbe stata più clemenza nei suoi confronti e invece tutti a criticarlo. Complimenti per tutto, anche se mi ammazza sempre il mio Napoli Paolo, mail firmata No, dai, non sono uno che “ammazza” nessuno… Il Napoli è la squadra che gioca il calcio migliore in Italia ma Sarri deve imparare a crescere mediaticamente e nella capacità di far girare gli uomini a disposizione. Gabbiadini? Concordo sul fatto che andrebbe valorizzato di più. Ma penso che Napoli non sia mai stato l’ambiente giusto per Gabbiadini. Ha bisogno di essere il
IL BIDONE DEL SECOLO A ROMA Egregio Ponciroli, ho recuperato il suo libro su I Bidoni del Calcio. Perché non scrive un altro? Mi sono divertito tantissimo a leggerlo. Non sapevo dell’esistenza di questo libro. Ecco perché scrive così bene sui bidoni del calcio su Calcio2000… Ho una domanda secca: sono tifoso della Roma e vorrei sapere da lei quale è stato, a suo avviso, il peggior straniero visto a Roma? Io dico Bartelt. Mi piacerebbe mi rispondesse, anche sulla rivista magari… Luigi, mail firmata Eccomi Luigi… Mamma mia, quel libro è di tanti ma tanti anni fa… Allora, diciamo che ce ne sono stati tanti a Roma, così come in tutt’Italia. Difficile fare un nome ma se proprio insisti, direi che Fabio Junior, anche per il prezzo dell’operazione, è stato, diciamo così, un investimento sbagliato!!! Diciamo che non ha reso come avrebbe dovuto, per essere elegante… Ecco poi ci sarebbe Andrade, un altro che è entrato, di diritto, nella mia hit parade privata…
MAnolo gabbiadini
I BIDONI DEL CALCIO
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INTERVISTA WALTER MAZZARRI
L’AVVOCATO
WALTER Dal miracolo con la Reggina all’equivoco Inter, passando per la nuova sfida inglese. Mazzarri si racconta…
di Francesco FONTANA foto Archivio TC&C
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ALLENATORE VERO
foto Image Sport
Mazzarri ha sempre affrontato ogni sfida a testa alta
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INTERVISTA / WALTER MAZZARRI
D
ecide di raccontarsi, di aprirsi, di mostrarsi. E lo fa nel modo in cui gli riesce meglio, forse l'unico. Dicendo la verità, semplicemente. Perché lui, 'attore', mai lo è stato e mai lo sarà. Lo spiega senza problemi, ammettendo chiaramente che questo, forse, è stato anche un limite nel corso della propria carriera. Ma d'altronde lui è persona genuina, senza filtri. Persona vera. Lo sappiamo bene. A fingere, a sorridere in modo forzato, proprio non gli garba. Walter Mazzarri da San Vincenzo è così, prendere o lasciare.
foto Francesco Fontana - 4
Arriviamo all'aeroporto di London Luton in una fredda giornata di fine dicembre, mezzora di taxi ed ecco il 'Watford FC Training Ground', London Colney, la sua nuova casa, il suo nuovo quartier generale. Ci accoglie nel suo ufficio in tuta, Nike ai piedi, un po' spettinato (ma dopo si sistemerà per la foto di rito post-intervista). Sta mangiando,
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anzi, sta tentando di farlo. "È un problema se iniziamo mentre finisco un po' di yogurt e quella banana?", domanda gentilmente (preferisce stare leggero a mezzogiorno). "Ci mancherebbe, Mister. Non deve nemmeno chiederlo". Di fianco al piatto 3-4 cellulari, uno sopra l'altro. Sembrano carte da gioco, suonano in continuazione. A volte risponde, parecchie no. A un certo punto arriva una chiamata, la suoneria è musica grintosa, lo strumento è la batteria. Tutto vero, tutto preso da un live. È un passaggio di un pezzo di suo figlio Gabriele che ama questo strumento. A quella chiamata, beh... impossibile non rispondere. Ha la faccia un po' stanca, ma sul suo volto si legge la soddisfazione per essere arrivato nel calcio che voleva, nel calcio numero uno al mondo. Nel calcio inglese, in Premier League. La sua nuova, grande sfida. "Eccoci, ora possiamo partire. Va bene se parlo a ruota libera? Preferisco così, tanto poi la sistema lei".
Certo Mister, possiamo partire. Prima parte di stagione in archivio: pollice alto o basso? "Sono contento di come stanno andando le cose, anche se qualche risultato non mi ha soddisfatto totalmente. Credo che, al netto di alcune nostre prestazioni, avremmo meritato di più in termini di punti. Senza dimenticare la perdita di Pereyra, il nostro miglior giocatore che starà fuori per tanto tempo. Ma non posso lamentarmi, sono contento di come sta giocando la squadra, dalla voglia dei ragazzi e dalla crescita di alcuni singoli, oltre che generale. E questo in una Premier League che, secondo me, è ancor più competitiva rispetto a quella dell'anno scorso". La vediamo sereno e molto motivato: era stanco dell'Italia? "Diciamo che, una volta terminata l'esperienza con l'Inter, ho constatato la necessità di misurarmi in altre realtà. E mi riferisco all'estero.
INTERVISTA / WALTER MAZZARRI
Dopo Milano c'è stata la possibilità di continuare in Serie A? "Dopo l'Inter sono arrivate tante offerte, ma non le ho mai prese in considerazione. Volevo altro". Ascoltandola sembra che un ritorno sia pura utopia. "No, non lo escludo. Ora però sono concentratissimo su questa nuova avventura e non penso al domani, ma solo al presente. E il presente si chiama Watford". Perché proprio questo club? "Il calcio inglese mi ha sempre incuriosito, affascinato. Fin dai tempi di Napoli quando incontrammo
“” Una volta terminata l'esperienza con l'Inter, ho constatato la necessità di misurarmi in altre realtà. Volevo l’estero il Manchester City e il Chelsea in Champions League. L'atmosfera era unica, ne fui colpito". Tatticamente parlando, da molti viene considerato come l'interprete 'principe' del 3-5-2: lei si rivede in questa definizione? "Sembra una fase di circostanza, ma il modulo non è l'unica cosa che conta. Un allenatore è bravo quando è abile, astuto e veloce a cambiare atteggiamento quando l'avversario ti ha capito e ormai ti conosce. Lì devi essere pronto, rapido, svelto. Anche a gara in corso". Meglio focalizzarsi e specializzarsi su un unico modulo, oppure
il saper variare è un'arma fondamentale nel calcio di oggi? "Mai focalizzarsi su un'unica situazione. Nel corso degli anni ho cercato di utilizzare diversi moduli: dal 3-5-2 al 3-4-3 fino ad arrivare alla difesa a quattro. Forse qualcuno non ci ha fatto caso, ma quest'anno abbiamo utilizzato anche questo assetto. I miei ragazzi devono riconoscere i codici, io li chiamo così. Questo per me è fondamentale. Noi stiamo lavorando su tre diverse situazioni". Cosa non deve mai mancare da parte dei suoi uomini? "Il successo in campo parte da molto, molto lontano. E ci sono due
foto Francesco Fontana
Penso di aver dato il massimo in Italia e di aver scoperto tutto del nostro calcio, e per come sono fatto io sarebbe stata dura continuare. Sono partito da zero e sono arrivato in cima, mi sono tolto tutte le soddisfazioni possibili. Avevo bisogno di altri stimoli, di nuove sfide. E quindi eccomi qui".
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INTERVISTA / WALTER MAZZARRI
SGUARDO FIERO
foto Image Sport
Ovunque è stato, ha sempre dato il 100% di sé stesso
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INTERVISTA / WALTER MAZZARRI
parole sulle quali ho basato tutto il mio lavoro: regole e rispetto. Senza questo non si va da nessuna parte. Regole e rispetto, rispetto e regole... mai, mai, mai e poi mai devono mancare. Rispetto dei ruoli, rispetto nei confronti dell'allenatore, ma soprattutto rispetto verso i compagni".
“” Nel corso degli anni ho cercato
Più bastone o carota? "Direi entrambi, mi considero il giusto mix. Per i miei giocatori penso di essere una sorta di padre di famiglia che cerca di spiegare con i giusti modi quello che vorrebbe dai propri figli. Se poi non mi seguono, beh... a quel punto giusto usare anche il bastone, seppur a malincuore".
no soldi a sufficienza. Questo penso spieghi molto".
'Lavoro', per lei il termine più importante. Ovviamente c'è bisogno del giusto tempo per poter mettere in pratica le proprie idee. E all'Inter, forse, questo è mancato. "Lasciando perdere l'esonero, perché arrivò poco dopo l'inizio della stagione, e quindi c'è poco da commentare, al primo anno arrivammo quinti. E fu un grande risultato considerando quel particolare momento storico. Per quella situazione, penso che l'Europa sia stata un vero miracolo. E aggiungo che è sbagliato pensare che l'Inter avrebbe dovuto vincere lo Scudetto solo per il nome. Ricordiamo la squadra che ereditai? Tante difficoltà, giocatori a fine carriera o in scadenza e un presidente storico che di lì a poco avrebbe ceduto la società. Pochi avrebbero potuto fare di meglio". C'è della rabbia per come sono andate le cose? "La mia esperienza all'Inter è ricordata come un disastro, ma non è vero. C'era un potenziale che non era da Inter, con 70 milioni di monteingaggi e valori esageratamente diversi rispetto alla squadra, per esempio, di Mourinho. Ma questo qualcuno non l'ha ancora capito. Per spiegare alcuni dei problemi economici di quel momento posso fare l'esempio di Rolando. Era uno dei migliori della mia Inter, ma non venne confermato perché non c'era-
di utilizzare diversi moduli: dal 3-5-2 al 3-4-3 fino ad arrivare alla difesa a quattro
Quanto ha lavorato su Icardi? "Ho dato il mio contributo alla sua crescita. Arrivò dalla Sampdoria che era un ragazzino. Cercai di aiutarlo in ogni modo, penso di essere stato importante nel suo processo di crescita. E oggi è un giocatore affermato, sono felice per lui". Tornando ora indietro di qualche stagione, inevitabile non pensare al miracolo-salvezza con la Reggina. "Certo, ma quasi tutti gli anni ho centrato delle imprese. Ogni stagione ho fatto qualcosa di straordinario raggiungendo risultati che definirei storici. E tutto questo migliorando il bilancio. In ogni posto in cui ho lavorato abbiamo raggiunto grandi obiettivi, sia dal punto di vista sportivo che economico. Ho sempre lavorato sul doppio fronte. Per quanto riguarda la Reggina, tutti pensano all'anno della salvezza, ma il nostro lavoro partì molto prima. C'erano gravi problemi economici, ma pian piano riuscimmo a non affondare risollevando la società, sotto tutti i punti di vista. I bilanci dell'epoca parlano chiaro. Poi ovviamente la storia ricorda quella salvezza, che resta una grandissima impresa. Un vero e proprio Scudetto". Dopo Reggio, grandi cose anche a Genova. "Rispondo citando lo slogan dell'abbonamento dell'epoca: 'Riprendiamoci il gioco'. Conquistammo l'Europa dopo tantissimi anni, facendo ovviamente attenzione al bilancio per il bene della società. Anche a Genova tanti giocatori valorizzati. E
penso a Pazzini, oppure a Palombo che arrivò anche in Nazionale. Tutto bellissimo. Grandi cose, grandi momenti, grandi ricordi". E Cassano? "Probabilmente quello della Sampdoria fu il miglior Cassano di sempre". A Napoli ha invece scalato una montagna: può andare come metafora? "Sì, può andare. Arrivai al secondo anno di Serie A quando c'era Donadoni, un ottimo allenatore. Poi, effettivamente, da quel momento si iniziò a scalare una grande montagna. Il primo anno c'era Quagliarella, non Cavani. Quindi non bisogna parlare solo di Hamsik, Lavezzi e Cavani. C'erano anche molti altri giocatori che riuscimmo a valorizzare". Con De Laurentiis, invece, alti e bassi. "Non proprio. Direi che in generale abbiamo avuto un buon rapporto. Un rapporto di stima e rispetto reciproco. Se il Napoli di oggi è a questi livelli vuol dire che tra di noi c'è stato il giusto feeling. Ci siamo capiti, certi traguardi non si raggiungono in modo casuale. Un allenatore può fare bene se c'è l'appoggio totale del club. E io a Napoli l'ho avuto". Tra i suoi traguardi, qual è quello a cui si sente più legato? "Direi la salvezza con la Reggina e la Coppa Italia con il Napoli, quando sconfiggemmo una grande come la Juventus. Fu il primo trofeo dopo Maradona. Dell'esperienza di Napoli tutto fu straordinario: arrivai trovando un certo tipo di realtà, andai via lasciando un club ormai diventato top".
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INTERVISTA / WALTER MAZZARRI
Tornando all'Inter, ha avvertito delle difficoltà derivanti dal cambiamento societario in corso, oppure lei e la squadra eravate 'estranei' a quella situazione? "Mi ritrovai all'Inter dopo aver conquistato il secondo posto con il Napoli e aver dato parecchio fastidio alla Juventus. Ma quello era un momento particolare. Non sapevo che Moratti avesse intenzione di cedere la maggioranza, non ne ero al corrente. Quando iniziò il campionato le cose andavano benissimo: ricordo il pareggio con la Juventus, la grande vittoria contro il Sassuolo, un'ottima posizione in classifica e una squadra che stava assimilando le mie idee. A un certo punto eravamo secondi. Questi sono dati oggettivi, non mi sto inventando nulla. E da quel momento, nonostante le mille difficoltà, lavorammo tantissimo finendo il campionato al quinto posto: giocatori in scadenza di contratto e avanti con l'età, problemi economici e altri ostacoli... non credo che questo piazzamento fosse così da buttare. Questi sono dati di fatto, poi la gente può interpretarli a proprio piacimento". Domanda secca: potendo tornare indietro, direbbe nuovamente sì all'Inter? "In quel momento c'erano tante offerte, sia in Italia che in Europa. E tutte da veri top club. Ma scelsi l'Inter per il suo blasone. Era una grande sfida per me, mi intrigava e motivava il fatto di poter allenare in una società di così alto livello. Poi, avendo la possibilità di andare in qualsiasi altra parte del mondo, avrei potuto fare anche valutazioni differenti. Come disse lo stesso Moratti, in quel momento i migliori allenatori italiani erano Conte e Mazzarri. Il presidente sottolineò la bontà del mio lavoro a Napoli, una squadra comunque inferiore alla Juventus. Credo mi scelse proprio per questo". Pensa che il calcio italiano sia stato ingeneroso nei suoi confronti?
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“” Inter? Tante difficoltà, giocatori a fine carriera o in scadenza e un presidente storico in uscita. Pochi avrebbero potuto fare di meglio "Io so quello che ho fatto. Sono il primo critico di me stesso e so dove sbaglio, dove sono bravo e in cosa devo migliorare. Sono abbastanza sicuro di me stesso. Per rispondere alla sua domanda, direi di sì. Vero, verissimo che non mi è stato riconosciuto il giusto merito dall'ambiente, ma non mi riferisco ai tifosi. Loro sono affezionati a me, e vale per tutte le piazze in cui ho lavorato. Milano compresa". Secondo lei, perché è mancato questo riconoscimento? "Difficile che la grande stampa, chiamiamola così, sia dalla mia parte. Anzi, non è successo quasi mai. Ma la colpa è mia, lo ammetto. Non ho mai coltivato questo aspetto del mio lavoro. Non mi è mai importato 'apparire nel mondo dell'apparire'. In questo forse sono stato limitato. Per apparire bisogna coltivare la stampa, io non l'ho fatto". E questo come lo considera? Un pregio o un difetto? "Nella mia carriera ho sempre pensato a lavorare, al bene dei miei giocatori e delle mie società. Lo dico sinceramente, non ho mai avuto tempo ed energie a sufficienza per essere 'bravo' anche davanti alle telecamere. Ecco perché i miei presidenti dovrebbero essere orgogliosi di quanto ho fatto per loro: ho rinunciato ad apparire per dare tutto. Ho prodotto per l'azienda". Nella sua carriera, che ruolo ricopre Ulivieri? "Non è un amico, di più. Una sorta di parente. Voglio però fare una premessa: nella mia carriera sono arrivato dove sono arrivato contando solo ed esclusivamente sulle mie forze. E qui possiamo ricollegarci
anche al discorso dell'apparire. Non ho mai preso scorciatoie, ma solo la strada più difficile: quella del risultato. Essere come sono, diciamo un po' antipatico agli occhi della gente, ha reso il mio percorso ancor più complicato. Tornando a Renzo, lui è stato l'unico che mi ha dato una piccola possibilità, diciamo che all'inizio mi ha regalato una 'mini-bicicletta'. Questo non lo dimenticherò mai. Tra me e lui c'è un rapporto da padre-figlio. Mi ha dato i primi consigli, mi ha insegnato tanto. Gli voglio bene, se avesse bisogno di qualsiasi cosa correrei subito". Perché la gente pensa che sia antipatico? "In campo sono una persona, fuori un'altra. Pensi che i giocatori più giovani vogliono stare con me perché si divertono di più! (Ride, ndr). Fuori dall'ambiente lavorativo mi considero una persona che ama scherzare e con la quale si sta bene, ma mentre si lavora per me non esiste altro. Sono un martello. Ma tutte le persone che hanno lavorato con me, dal magazziniere, ai giocatori fino ad arrivare ai presidenti, mi hanno sempre voluto tanto bene. In tutte le società". Se non fosse diventato calciatore e allenatore, cosa avrebbe fatto? "L'avvocato, senza dubbio. Mi ci vedo alla grande! (Ride, ndr). Sarei stato un ottimo avvocato, sì... aggiudicato. Dico l'avvocato". E un'opzione B? "Il presidente di una squadra di calcio, anche se ho ancora tempo davanti. Chissà in futuro...". Ci pensa al ruolo di commissario tecnico?
INTERVISTA / WALTER MAZZARRI
Sinceramente, non ambisce a una panchina da titolo? "In questo senso l'Inter fu un equivoco. A Milano avrei meritato di lottare per il massimo. Quindi certo, mi piacerebbe e non lo nascondo. Anche se, detto con tutta onestà, avrei meritato una chance di questo tipo già in passato". C'è qualche rammarico nella sua carriera? "Sono molto sereno e sono felicissimo di quanto ho fatto finora. Anche se alcuni non me lo riconoscono, io so di aver fatto delle cose importanti. I tifosi lo sanno, sanno quello che ha portato Mazzarri e quello che ha dato per le loro squadre. Nessun tifoso mi ha mai criticato: a Genova mi vogliono bene, a Reggio ancor di più, a Napoli non ne parliamo. E dico anche a Milano". "Poi ha cominciato a piovere": una volta per tutte, chiariamo questa frase così tanto mal interpretata? "Una situazione assurda. Credo ci sia stato un fraintendimento a livello mediatico e questo mi ha messo in cattiva luce. Era come se fossi diventato stupido nel giro di un mese". La domanda era questa: 'Come spiega questo pareggio casalingo?'. Io, da allenatore, ho risposto molto
sinceramente. Avevamo giocato bene nel primo tempo dopo essere tornati da una trasferta europea. Eravamo stanchi, ci fu anche l'espulsione di Medel. Normale calare fisicamente nel secondo tempo. Io ho detto semplicemente: 'E se a tutto ciò aggiungiamo la pioggia che ha danneggiato il campo rendendolo pesante...'. Cosa c'è di sbagliato nel dire questo? Ma qualcuno mi ha interrotto mentre rispondevo. Se dico che il campo è pesante, dico un'eresia? Per favore... Invece si è montato di tutto e di più. Mi dispiace
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In cosa consiste questa sfida? "Offrire un bel calcio, coraggioso e propositivo in un club che non lotta per il titolo sarebbe una grande soddisfazione. Diciamo che il grande obiettivo sarebbe quello di replicare i successi italiani in Premier League. Mi sono sempre messo in gioco nella mia carriera e voglio fare lo stesso qui. Mi piace stare in un ambiente in cui vengo capito e dove ho il tempo di poter lavorare per poter valorizzare i giocatori, portandoli a un livello più alto. Proprio quello che ho sempre fatto in carriera".
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"Non riesco a guardare troppo avanti nel tempo, non mi riesce proprio. Penso solo al presente. Ora voglio vincere la mia sfida qui, la mia personale sfida".
perché la mia, vera stagione nerazzurra sarebbe stata la seconda. Ma non c'è stato nemmeno il tempo di iniziare. Io ho semplicemente accompagnato l'Inter alla fine di un ciclo, quello dell'era-Moratti". Ora, Mister, testa al futuro e a questa nuova avventura in Premier... "Questo è vero. Ora sono felice al Watford e, come le ho detto, ho un sogno: replicare le imprese italiane anche qui. Il tempo per una panchina da titolo di certo non manca".
Intervista di Francesco Fontana
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GRAND'ITALIA - allenatori
INTERVISTA ROBERTO DONADONI
mister
ELEGANZA
SPECIALE
Donadoni, ossia la dimostrazione che la professionalità paga, sempre e comunque…
di Francesco FONTANA foto Archivio TC&C
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SEMPRE IN PRIMA LINEA
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Donadoni è sempre pronto, ad ogni sfida...
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INTERVISTA / ROBERTO DONADONI
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“” Il progetto che stiamo portando avanti a Bologna mi piace e mi motiva. Sarà un percorso lungo... sarà per sempre. Roberto Donadoni si racconta in questa intervista esclusiva con Calcio2000, in un percorso a tappe per analizzare una carriera in netto divenire. Quella in panchina. Il giusto e doveroso prosieguo dopo una meravigliosa storia da calciatore. Il passato si chiama Lecco, Livorno, Genoa, Italia, Napoli, Cagliari e Parma. Il presente Bologna. Il futuro, chissà. La sua carriera da tecnico è ormai diventata ricca, con tanti capitoli che possono essere raccontati. Dovendo dare un titolo a questo preciso momento, quale sceglierebbe? "Credo sia difficile sceglierne uno in particolare. Diciamo che è una fase della mia vita e della mia carriera che mi soddisfa pienamente. Sono anni molto importanti, questo
sicuramente. Il progetto che stiamo portando avanti a Bologna mi piace e mi motiva. Sarà un percorso lungo, perché parliamo di un progetto a lungo termine, di prospettiva. Ma è bello proprio per questo". Il mondo del calcio cambia velocemente ed è in continua evoluzione: in che modo un allenatore si aggiorna per rimanere 'al passo con i tempi'? "Osservando al meglio tutto ciò che è possibile osservare. Ovviamente se un allenatore ha a disposizione una squadra da allenare è molto più difficile viaggiare e studiare sul posto. Quindi si utilizzano i soliti mezzi. Poi, logicamente, quando un tecnico è fermo è molto più semplice andare all'estero, valutare e valutare realtà diverse. Il percorso è lo stesso un po' per tutti". C'è un modello al quale si è ispi-
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n nome, una leggenda. Semplicemente. A suon di chilometri ha scritto la storia del calcio italiano. Una storia dipinta con pochi colori, quattro sostanzialmente. In primis il rosso e il nero, quelli che ha indossato in mille occasioni, in mille battaglie. Ma soprattutto in mille vittorie. Quelli del Milan, per lui una vera famiglia. Poi il blu. E blu vuol dire Atalanta. Il primo amore calcistico, il club in cui si è formato nel settore giovanile e grazie al quale ha scoperto il calcio vero, il calcio di alto livello, il calcio dei grandi. Grande, aggettivo ad hoc per uno come lui. Perché proprio questo è lo spazio che ricopre nell'immaginario collettivo. Un modello a cui tanti giovani hanno fatto riferimento, un sogno per qualunque allenatore e per qualsiasi presidente, che avrebbe fatto carte false pur di averlo con sé. Ma lui, no, a tradire non ce l'ha mai fatta. E dopo Milano, solo l'estero e un calcio tutto da scoprire tra Stati Uniti e Arabia Saudita. E poco importa se con l'azzurro, il quarto e ultimo significativo colore, ha solamente sfiorato il successo. Lui, grande, lo è comunque. E lo
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INTERVISTA / ROBERTO DONADONI
GIOCATORE VERO Di Francesco Fontana
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n certo Platini lo ha definito il miglior giocatore italiano degli anni '90. Un complimento unico, considerando il mittente e il numero di grandissimi campioni che hanno caratterizzato la storia del calcio di casa nostra in quegli anni. Difficile dargli torto. Perché parliamo di un giocatore universale, un'ala destra completa. In tutti sensi: tecnica sopraffina, spirito di sacrificio assoluto, eccezionale duttilità e ottima visione di gioco, oltre che assist-man di primo livello. In poche parole, l'uomo che tutti gli allenatori avrebbero voluto. Roberto Donadoni ha vinto tutto: 6 Scudetti, 4 Supercoppe italiane, 3 Supercoppe europee, 2 Coppe intercontinentali e, soprattutto, 3 Champions League. Tutte con un'unica maglia, quella che nel corso degli anni è diventata una seconda pelle. Quella del Milan, ovviamente. E che Milan.
ROBERTO DONADONI - LA CARRIERA by FIGURINE PANINI
In campo, è stato uno dei più grandi esterni d’attacco di sempre… 1983-84
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INTERVISTA / ROBERTO DONADONI
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Quali sono i suoi punti di forza e quelli che pensa di dover migliorare? "Bisogna sempre migliorare, anche nei punti di forza. A volte, magari
Quando ha capito che nel suo futuro ci sarebbe stata la panchina? Si sentiva un po' allenatore già in campo? "Devo essere sincero, non pensavo da tecnico già quando giocavo. Penso che tutto si sia sviluppato in modo naturale. La mia carriera da calciatore mi ha formato per questo ruolo, soprattutto durante gli ultimi anni all'estero. Non c'è stata alcuna forzatura. Come ho detto, è stato un processo naturale, senza avere un obiettivo chiaro in testa fin dall'inizio.
Ha utilizzato la parola 'test': quello di Parma può essere considerato come il più difficile tra quelli affrontati finora? "Quella di Parma va sicuramente considerata come un'esperienza estremamente negativa dal punto di vista sportivo. Negativa per via di tutte quelle persone che si sono comportate in un certo modo, fino ad arrivare a quel tipo di epilogo. Ma non porto rancore. Le esperienze come questa servono per crescere e per capire determinate sfumature della vita. In genere sono sempre positivo e tendo a dar fiducia alle persone quando le conosco. Non approccio in modo negativo, diciamo prevenuto. Poi ovviamente frequentandole ognuno di noi trae le proprie conclusioni. Certamente, non dovrebbero mai accadere cose di questo tipo. In quel caso ho dovuto far fronte a situazioni che
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Devo essere sincero, non pensavo da tecnico già quando giocavo. Penso che tutto si sia sviluppato in modo naturale
Il 'test' vero e proprio è arrivato una volta concluso il corso da allenatore. Con il patentino ho avuto l'opportunità di fare anche l'assistente, ma ho preferito lavorare in prima persona sin da subito. Volevo valutare le mia capacità come allenatore".
rato, soprattutto all'inizio? "Sinceramente, non ho mai avuto un modello preciso nel mio percorso formativo. Sono stato fortunato nell'avere tanti grandi tecnici durante la mia carriera, nonostante abbia militato per diversi anni nello stesso club. Le figure cambiano, i personaggi cambiano. Ho incontrato grandi allenatori e grandi persone, quindi ho cercato di 'rubare' qualcosina da tutti loro. Sia dal punto di vista tecnico che caratteriale. Penso che un allenatore debba raccogliere un po' di tutto da tutti, riuscendo ad avere nel proprio bagaglio il giusto mix di ogni componente".
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inconsciamente, si tende a non coltivare una determinata qualità considerandola ormai appurata. Invece non è così. C'è sempre da lavorare, anche sulle proprie qualità. Poi, ovviamente, bisogna concentrarsi soprattutto sulle lacune. Io cerco di essere attento a tutto".
INTERVISTA / ROBERTO DONADONI
Come è possibile che, nel calcio di oggi, possano ancora accadere cose di questo tipo? "Come in tutti gli ambiti della vita, anche il calcio è fatto da uomini. E quando non si fanno le cose come si dovrebbe succede questo. Vuoi per interessi personali, vuoi per furbizia, beh... quello che è successo lo abbiamo visto tutti. Quanto accaduto a Parma è stato brutto per ogni componente: per una società gloriosa, per una piazza importante, per tifosi eccezionali e per i giocatori, assolutamente ragazzi straordina-
“” Da ragazzo ho studiato da geometra. Magari sarebbe stata quella la mia vita. Oppure avrei lavorato con mio padre ri. Ma la cosa triste è un'altra". Vuole togliersi qualche 'sassolino'? "No. Mi limito a dire che un'esperienza del genere dovrebbe insegnare qualcosa a quelle persone che hanno sbagliato. L'aspetto negativo non è l'accaduto in sé, bensì il prosieguo. Ripeto, bisognerebbe imparare dai propri sbagli, invece a volte questo non capita".
ger inglese? "Sinceramente, mi stupisce che in Inghilterra ci sia questa tendenza. Fare tutto da soli, occupandosi sia di aspetti tecnici che extra-campo, non sarebbe facile. Tutt'altro".
Livorno può coincidere con il primo salto di qualità? "Un salto di qualità è dettato da tanti aspetti. Quando giochi tendi a pensare più a livello personale, mentre da allenatore cambia tutto. Hai più responsabilità. E ciò ti obbliga a migliorare".
Capitolo Nazionale: chissà cosa darebbe per poter tirare nuovamente quei rigori... "La verità? Nulla. Non mi piace pensare alla fortuna o alla sfortuna. Queste parole non fanno parte del mio vocabolario. Purtroppo si tende a ricordare le cose che non sono andate bene, ma l'esperienza con la Nazionale è stata estremamente positiva e intensa. Auguro a tutti di poter ricoprire il ruolo di ct. Non ho alcun rimpianto. Ricordo tutto con il sorriso".
Favorevole alla figura del mana-
Talvolta si sottolinea il fatto che,
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non avevano nulla a che fare con il calcio giocato. Noi siamo allenatori, vogliamo pensare solo al nostro lavoro per poterlo svolgere al meglio. Nient'altro. Invece mi sono ritrovato di fronte un gruppo giovane che, tutto ad un tratto, si è ritrovato smarrito e abbandonato. Il mio ruolo, la mia onestà e, soprattutto, l'affetto che provavo nei confronti di quei ragazzi mi ha, in un certo senso, obbligato a comportarmi in un certo modo. Ma non c'è stato nulla di forzato, tutto è stato naturale e fatto con grandissimo piacere e amore verso il mio lavoro".
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GIOCATORE STELLARE
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Abile in panchina, sublime in campo...
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INTERVISTA / ROBERTO DONADONI
Dopo l'addio di Conte, si è presentata la possibilità di tornare? "C'è stata l'occasione, ma ho preferito fare diversamente. Va bene così". Stessa domanda, ma in ottica Milan. "Intende un ritorno da allenatore? Sono sincero, mai". E se un domani chiamasse l'Inter? "Prima di tutto faccio una premessa importante: oggi sono l'allenatore del Bologna, sono felicissimo qui e sono estremamente motivato per questo progetto. Ovviamente non posso nascondere la mia fede rossonera, ma un conto è il sentimento, un altro la professione. Non bisogna confondere le due cose. Quindi, se in futuro dovesse eventualmente arrivare una chiamata dall'Inter con un progetto interessante sul tavolo, beh... lo valuterei certamente. E non mancherei di rispetto a nessuno. Comunque ripeto, sono molto felice al Bologna, voglio dare il massimo". A Bologna, invece, a che punto è arrivato il percorso con patron Saputo? "Parliamo di un progetto che sta an-
“” è una fase particolare per il nostro calcio. La Nazionale è la punta di un iceberg, è giusto dare spazio anche ai giovani
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da ct, manchi la quotidianità del lavoro: lei ha avvertito questo problema? "Poc'anzi ho utilizzato il termine 'intensa'. Ciò non è legato per forza alla quotidianità del lavoro, ma comprende tanti altri aspetti. Ci sono obiettivi importanti e bisogna ottimizzare il tempo a disposizione. Il tempo, chiamiamolo, libero deve essere utilizzato per prepararsi al meglio in vista delle gare che contano, anche perché c'è parecchia pressione per il risultato in un Europeo o in un Mondiale. Durante queste competizioni, rispetto a un club, la pressione è moltiplicata per dieci. Inoltre l'allenatore è meno protetto in Nazionale rispetto al club, perché la Nazionale è la squadra di tutti. Capita che si voglia portare l'acqua al proprio mulino per interessi personali. E un ct deve tener conto di tante problematiche, e non è semplice".
dando avanti per step. Il presidente sta facendo il massimo per poter rispettare i tempi. Ma una crescita deve avvenire in modo graduale, senza fretta. Anche se tutti vorrebbero tutto e subito, soprattutto in Italia. Vorrei inoltre ricordare che Saputo ha fatto e sta facendo un grandissimo lavoro. Ha salvato questa società da una situazione molto pericolosa, mentre oggi ha come obiettivo quello di riportare il Bologna il più in alto possibile. Rispettando il livello della storia di questa grande società. I tifosi devono essere orgogliosi". Senza il calcio, come si sarebbe sviluppata la sua vita? "Da ragazzo ho studiato da geometra. Magari sarebbe stata quella la mia vita. Oppure, chissà, avrei lavorato con mio padre per portare avanti la sua azienda di autotrasporti. Non è facile rispondere a questa domanda. Le cose accadono, e in funzione di ciò ognuno di noi prende una via piuttosto che un'altra". Le piace questa Nazionale? Ventura sta dando spazio a molti giovani. "Credo che questa sia una fase particolare per il nostro calcio. La Nazionale è la punta di un iceberg che necessita di un certo tipo di trasformazione, ed è giusto dare
spazio anche ai giovani. Ed è quello che sta facendo Ventura. La trovo una cosa molto intelligente". Apre a un futuro all'estero? "Sì, assolutamente. C'è già stata qualche occasione in passato, poi non si è concretizzata. Sicuramente è una prospettiva che mi piace". Oggi c'è un giocatore simile a lei? "Non trovo giusto dire che ci siano dei giocatori simili ad altri. Ogni calciatore ha una propria identità, poi chiaramente possono esserci delle determinate caratteristiche che possono avvicinare anche a qualcuno del passato, ma ognuno di noi è diverso. Diciamo unico. I tempi cambiano e la velocità di gioco aumenta costantemente. Quello che si poteva fare 20-30 anni fa oggi è molto più difficile, quindi è complicato fare dei paragoni tra i calciatori di oggi e quelli del passato". Il sogno di Roberto Donadoni. "Questo lavoro ci pone davanti degli obiettivi. Sempre e comunque. L'ambizione è ovviamente quella di puntare al massimo e di arrivare sempre più in alto, cercando di alzare l'asticella. Non è un percorso semplice, ma fino a quando farò questo lavoro sarà questo il mio obiettivo".
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GRAND'ITALIA - giovani
La nuova Italia Mancano le nuove leve, il ricambio generazionale, dietro Buffon, Bonucci, Barzagli, Chiellini, De Rossi, Totti, non c'è nessuno. Quante volte abbiamo sentito queste frasi? Ma siamo davvero sicuri che sia vero e che non siano alibi spesi
Viaggio nei giocatori del futuro e pure del presente…
di Francesco SCABAR foto Agenzia Liverani e @fdlcom
proprio da chi questa situazione ha contribuito a crearla? Noi abbiamo voluto andare oltre i classici luoghi comuni e voluto vederci chiaro. Ruolo per ruolo, nome per nome, siamo andati a scovare i talenti italiani che, probabilmente, meriterebbero
maggior spazio rispetto a quello che non viene loro concesso per motivazioni a volte tecniche, a volte opportunistiche. Come succede nel business reale, anche questo Made in Italy meriterebbe di essere preservato...
ITALIA, PATRIA DI SANTI, NAVIGATORI E… PORTIERI!
SPECIALE
L’Italia è stata e resta tuttora un faro in tutto il mondo nella metodologia di preparazione dei portieri: nonostante la crisi che ha colpito i nostri vivai, il nostro movimento calcistico continua a sfornare in quantità industriale molti portieri decisamente interessanti, cui però troppo spesso, dirigenti superficiali, procuratori e affaristi spregiudicati penalizzano preferendo guardiani dell’Est Europa o del Sudamerica, questi ultimi quasi sempre fisicamente più esplosivi dei nostri ma tecnicamente più acerbi. È quasi obbligatorio partire la nostra panoramica sui potenziali “eredi di Buffon” partendo da Gianluigi “Gigio” Donnarumma: il portiere del Milan non ha ancora compiuto la maggior età ma è già titolarissimo tra i pali del Diavolo e nel giro della Nazionale di Giampiero Ventura. Donnarumma è un portiere dotato di mezzi fisici strabordanti in rapporto all’età
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(in questo assomiglia un po’ a Neuer): se affinerà la tecnica di base l’eredità di Buffon è in buone mani. Sulla scia del giovane campano abbiamo un altro milanista che sta bruciando le tappe: Alessandro Plizzari, un classe 2000 al Milan da quando aveva cinque anni e mezzo e indicato dagli addetti ai lavori come il possibile nuovo Donnarumma: l’attuale portiere della primavera rossonera infatti ha sedici anni ed è diventato già il terzo portiere nelle gerarchie di Vincenzo Montella. Sia Donnarumma che Plizzari sono la testimonianza più fulgida dell’ottimo lavoro svolto da Alfredo Magni, il preparatore dei portieri portato al Diavolo da Sinisa Mihajlović che sta facendo un lavoro egregio con le giovani leve. Altri nomi promettenti da fare tra gli Under 17 sono quelli di Stefano Greco, classe 1999 portiere della Primavera della Roma (ma cresciuto nel settore giovanile del Lecce), Gabriel
Manuel Meli dell’Empoli. Tra i classe 1998 una menzione la merita Tommaso Cucchietti del Torino (club nel quale milita fin da bambino) già convocato in Prima Squadra fin dal ritiro di Bormio, è lui tra i diciottenni il portiere che potrebbe avere il futuro più roseo. Sull’altra sponda del Po Mattia Del Favero, portiere della Juventus Primavera (ma cresciuto nel Prato), stabilmente nel giro delle nazionali giovanili fin dall’Under 15 è un altro nome indicato per un futuro stabile tra i professionisti, magari in tinte bianconere. Tra gli Under 21 invece la grande protagonista è la scuola portieri dell’Udinese che ha sfornato due portieri che faranno parlare di loro: Simone Scuffet (classe 1996) ed Alex Meret (classe 1997), friulani DOC e prodotti puri e genuini del vivaio delle zebrette che hanno usufruito anche del grande lavoro fatto dai preparatori dei portieri Alex Brunner e Sergio Marcon.
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"PICCOLO" GIGI Neanche 18 anni e già due stagioni da titolare in A nel Milan!
GIANLUIGI DONNARUMMA
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Di Scuffet si è già detto e scritto molto: lanciato titolare da Guidolin nella seconda parte della stagione 2013/14 a soli diciassette anni, dopo alcune prodigiose prestazioni (soprattutto un match a San Siro contro l’Inter dove parò di tutto) fu subito paragonato alla leggenda Gigi Buffon che, tra l’altro, nel suo albero genealogico vanta origini friulane. Dall’estate 2014, dopo aver rifiutato le avance dell’Atletico Madrid per motivi di studio, il giovane Simone ha improvvisamente conosciuto una lenta parabola discendente che l’ha portato a perdere il posto da titolare in favore del greco Karnezīs (che però si è confermato assolutamente meritevole della maglia numero uno) e ad un prestito sfortunato
al Como. Oggi a vent’anni Scuffet è tornato ad Udine a fare la riserva, ma il futuro è ancora ampiamente dalla sua parte. Di un anno più giovane, Alex Meret ha già stregato Antonio Conte, dopo aver fatto a lungo da dodicesimo all’amico Scuffet negli Allievi e in Primavera. L’ex Ct azzurro infatti ha lo scorso maggio l’aveva già convocato come quarto portiere per il consueto ritiro pre-Europeo, dopo aver trascorso un’intera stagione come vice di Karnezīs, oggi Meret difende i pali della Spal in Serie B. Alla fine chi la spunterà tra Scuffet e Meret? Una cosa è certa: l’Udinese è proprio in buone mani per il futuro! Un altro classe 1996 da seguire è Simone Guerrieri, prodotto del vivaio laziale e allievo
di Alessandro Carta che ha svezzato anche Luca Lezzerini, classe 1995 attuale riserva di Tatarusanu nella Fiorentina, già protagonista qualche anno fa nel reality di MTV calciatori Giovani Speranze, oggi in prestito in Serie B con il Trapani di Serse Cosmi. L’ultimo nome da ricordare è quello di Alessio Cragno, portiere classe 1994 attuale titolare dell’Under 21 di Di Biagio e protagonista in cadetteria con il sorprendente Benevento ma di proprietà del Cagliari. Con il pensionamento del vecchio Storari, siamo sicuri che il toscano abbia ottime possibilità di giocarsi le sue chances in Serie A, forse gli manca ancora qualche centimetro di altezza (è alto sul metro e ottanta), ma sopperisce con abbondante personalità.
I "MINISTRI DELLA DIFESA" Oltre che grandi portieri il vivaio italiano ha sempre prodotto grandi, grandissimi difensori, sia sulle fasce che nel settore centrale della retroguardia. L’Italia ha sempre sfornato grandi specialisti del ruolo: arcigni terzini marcatori (Burgnich, Gentile, Bergomi), eleganti e leggiadri fluidificanti (Facchetti, Cabrini, Maldini), ruvidi stopper (Rosato, Morini, Vierchowod, Cannavaro) e infine sontuosi liberi (Picchi, Scirea, Baresi). L’adozione a tappe forzate della zona, specie se interpretata in maniera troppo rigida e dogmatica, ha causato un vero e proprio cortocircuito nei nostri settori giovanili perché adesso capita spesso molti allenatori, fin dalla categoria Esordienti, non insegnino più i principi di tattica individuale come la marcatura, il temporeggiamento, l’anticipo ma si limitino a tracciare sulla lavagna qualche linea per indicare come si fa una diagonale. Il risultato è che
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la maggior parte degli attuali difensori che giocano in Serie A non sa più marcare o non ha la personalità giusta per comandare il reparto. È proprio per questo motivo che negli ultimi anni (Juventus docet) molti tecnici di casa nostra hanno utilizzato il machiavellismo tattico della “difesa a tre” che consente una copertura centrale più “densa” in fase difensiva perché i tre giocatori che giocano al centro hanno una porzione di zona più ristretta da sorvegliare: è proprio per questo motivo che specialisti come Barzagli, Bonucci e Chiellini si sono saputi esaltare con questa tattica difensiva. Chi raccoglierà quindi l’eredità della mitica BBC juventina? Per ora i due aspiranti eredi che si candidano ad essere i successori del terzetto juventino sono Daniele Rugani (classe 1994), già in forza ai bianconeri anche se come semplice apprendista, ed Alessio
Romagnoli (1995) che invece è già titolarissimo nel Milan dopo essere stato acquistato a peso d’oro dalla Roma. Sia Romagnoli che Rugani sono difensori abbastanza simili come caratteristiche, più bravi ad impostare il gioco che nella marcatura: l’ex empolese è ancora abbastanza gracile dal punto di vista fisico mentre il romano denota ancora qualche black out di troppo. Probabile che in futuro i suddetti giocatori, in Nazionale, saranno impiegati in una difesa a tre con Rugani al centro (alla Bonucci per intendersi) e Romagnoli sul centro sinistra. Partendo dagli under 17, il nome che per ora promette di più è quello di Alessandro Bastoni dell’Atalanta, un difensore centrale classe 1999 dotato di un grande fisico ma capace anche di giocare ottimamente il pallone con i piedi. L’altro nome da fare è quello di Luca Pellegrini della Roma (solo omonimo del libero
alessio romagnoli
mattia caldara
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alessio cragno
simone scuffet
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davide calabria
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Alex Meret
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luca pellegrini
daniele rugani
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della Sampdoria scudettata), terzino fluidificante pupillo del grande Bruno Conti che ha come rivale il fiorentino Luca Ranieri, altro terzino mancino che nell’ambiente gigliato viene considerato come l’erede naturale della bandiera Pasqual. Manuel Nicoletti, terzino sinistro del Crotone (ha esordito in Prima Squadra l’anno scorso nell’ultima di campionato) è invece l’elemento più interessante tra i nati nel 1998 tanto da essere stato inserito tra i cinquanta under 17 più forti del mondo dal quotidiano inglese The Guardian. Tra i classe 1997 il nome più promettente è quello di Mauro Coppolaro del Latina (ma di proprietà dell’Udinese), considerato l’erede di Cannavaro non solo per i suoi natali campani e per un banale gioco di rima. Sulla fascia sinistra invece sfreccia Federico Dimarco, laterale mancino che Roberto Mancini con l’Inter ha già fatto esordire in Europa League e che in una piazza tranquilla come Empoli potrebbe già imporsi nella
massima serie a vent’anni non ancora compiuti. Sulla corsia opposta invece promette bene Davide Vitturini, abruzzese doc che Oddo ha già fatto giocare con regolarità in Prima Squadra e che recentemente è stato addirittura opzionato dall’Under 21 di Di Biagio: occhio che questo ragazzo potrebbe davvero bruciare le tappe! Nell’Under 21 c’è grande abbondanza sulle fasce laterali, dove l’Italia può vantare almeno quattro prospetti decisamente interessanti che si stanno imponendo anche nei loro rispettivi club. Sulla fascia destra spazio ad Andrea Conti, classe 1994 ormai titolare nell’Atalanta di Gasperini, e Davide Calabria, altro lombardo di due anni più giovane che al Milan ha già mostrato di aver tutte le carte in regola per giocarsela sia con Abate che con De Sciglio. È a sinistra però che troviamo i prospetti più interessanti: Antonio Barreca, torinese classe 1995 che dopo due anni di prestito in Serie B (Cittadella, Cagliari), si sta imponendo da titolare nel
nuovo Toro di Sinisa Mihajlović che dopo Romagnoli e Donnarumma potrebbe lanciare nel grande calcio un altro giovane. Non è più una novità invece Adam Masina, italomarocchino classe 1994 (nato in Marocco, è stato adottato in tenera età da una famiglia di Galliera nell’hinterland bolognese) che da ormai due stagioni è titolare inamovibile nell’ambizioso Bologna a stelle e strisce. Scarseggiano invece i difensori centrali: tolti Rugani e Romagnoli, non si vedono infatti grandi prospetti capaci di dominare il cuore della retroguardia, anche perché in un ruolo delicato come quello di centrale difensivo è davvero difficile imporsi in un campionato come la Serie A, dove il risultato se non è tutto poco ci manca e l’esperienza è sempre fondamentale. L’unico nome che potrebbe al momento fare da terzo incomodo è quello di Mattia Caldara, centrale difensivo del 1994 che in queste ultime partite di campionato sta incominciando a trovare spazio nell’Atalanta di Gasperini.
IL CIELO è AZZURRO SUL CENTROCAMPO Tradizionalmente il calcio italiano ha sempre avuto il proprio “ventre molle” a centrocampo, un reparto delicato dove un calciatore deve possedere grandi doti d’intelligenza e temperamento e, nell’atto pratico, è costretto a saper fare un po’ di tutto: difendere, impostare il gioco, supportare l’attacco. Storicamente, per indole caratteriale e caratteristiche tecniche e fisiche, i calciatori italiani sanno fare un solo compito anche se fatto bene, perdendosi però quando devono ricercare l’eclettismo a tutti i costi. Nel corso della sua gloriosa storia l’Italia a centrocampo ha prodotto due
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tipologie di calciatore: il classico medianaccio o incursore, cioè un centrocampista dotato di piedi approssimativi ma di gran fiato e gamba nonché continuo nel rendimento, ed il classico “abatino” dai piedi buoni (regista arretrato o trequartista), un giocatore carente sul piano atletico ma sopraffino su quello tecnico e spesso geniale nelle giocate anche se discontinuo per rendimento. La recente moda del tiki taka ha però cambiato questo stato di cose e anche il vivaio italiano, che non produce più i grandi difensori di un tempo, sta curando molto di più l’allevamento di centrocampisti che sappiano interpretare al
meglio le due fasi di gioco. Il giovane più promettente del momento è sicuramente Manuel Locatelli, classe 1998 che negli ultimi mesi è stata l’autentica rivelazione del giovane Milan targato Montella: il giovane lecchese si è distinto per due grandi gol segnati contro Sassuolo e Juve, due precise staffilate da fuori area e per la personalità con la quale sta surrogando l’assenza di Montolivo. In questo momento il Loca viene impiegato dall’allenatore rossonero come perno davanti alla difesa ma in futuro potrebbe disimpegnarsi egregiamente anche da mezzala per sfruttare le sue attitudini all’inserimento
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antonio barreca
danilo cataldi
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marco benassi
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federico dimarco
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bryan cristante
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e alla conclusione a rete. Il viaggio nella classe degli Under 17 parte da Fabrizio Caligara, novarese classe 2000 in forza alla Juventus. Assieme a Moises Kean è ritenuto il giocatore più promettente del vivaio bianconero e come caratteristiche tecniche, oltre per il fatto di essere un piemontese DOC, assomiglia a Marchisio di cui potrebbe diventare presto l’erede. Filippo Melegoni è invece il playmaker dell’Atalanta che ha vinto l’ultimo scudetto Allievi battendo in finale l’Inter ed è stato protagonista assieme a Locatelli nell’ultimo Europeo di categoria giocato in Bulgaria, è lui il classe 1999 più promettente. Giulio Maggiore invece, classe 1998, è nato e cresciuto a La Spezia salvo una breve parentesi nei Giovanissimi Nazionali del Milan (proprio con Locatelli!): messosi in luce nella sorprendente Primavera dello Spezia che ha perso l’ultimo Viareggio contro la Juventus, il giovane aquilotto sta trovando sempre più spazio nell’ambiziosa squadra di Mimmo Di Carlo. Tra gli Under 19 invece Rolando Mandragora, attualmente in forza alla Juventus ma fermo ai box da mesi per un infortunio è sicuramente il giocatore di
spicco. Il giovane napoletano del quartiere Scampia, prodotto del vivaio del Genoa e svezzato da Gasperini (uno che con i giovani ci sa fare), è reduce da una grande stagione in cadetteria con la maglia del Pescara e a gennaio potrebbe fare comodo a molte formazioni di Serie A. Dal punto di vista tecnico Mandragora è un doppione di Locatelli, anche se è un mancino puro: cioè un regista che può giocare anche da mezzala, Oddo lo scorso anno lo ha anche impiegato da centrale difensivo. Un altro 1997 interessante è Simone Pontisso, il “Vieira friulano” prodotto dal settore giovanile dell’Udinese, titolare nell’Under 19 che si sta mettendo in luce con la Spal in Serie B nel ruolo di interno di centrocampo nel 3-5-2 di mister Semplici. Lorenzo Pellegrini (romano classe 1996) è invece una delle sorprese più piacevoli di questo inizio di stagione un po’ travagliato del Sassuolo. Il prodotto del settore giovanile giallorosso, nato calcisticamente come attaccante per la sua stazza robusta, è un giocatore che ama giocare da interno in un centrocampo a tre con facoltà di inserirsi in attacco. Passiamo ai nostri Under 21: parecchi azzurrini di Gigi Di
Biagio si stanno mettendo in mostra nel nostro campionato. Marco Benassi è stato uno delle tante promesse mancate della cosiddetta “Next Generation” interista. Il modenese classe 1994, un classico incursore abile nelle due fasi di gioco, si è però rifatto con la casacca del Torino e grazie agli insegnamenti di Ventura e Mihajlović è diventato uno dei centrocampisti più continui nella nostra Serie A nonché uno dei capitani più giovani d’Europa! Titolare indiscusso nella sua Lazio è anche Danilo Cataldi, centrocampista dai piedi buoni titolare inamovibile da un paio di stagioni nella squadra biancoceleste. Il trio dei moschettieri classe 1994 può essere completato da Roberto Gagliardini, bergamasco purosangue che dopo una lunga gavetta in cadetteria (Vicenza, Spezia) si sta finalmente consacrando con la sorprendente Dea di Gianpiero Gasperini nel ruolo di cursore di centrocampo. Infine tra i classe 1995 va citata un’altra mezzala, Bryan Cristante, prodotto del vivaio rossonero che sta trovando spazio e continuità d’impiego a Pescara dopo un anno e mezzo di apprendistato nel glorioso Benfica.
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manuel locatelli
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PINAMONTI EUROPEO L'attaccante dell'Inter ha già esordito in Europa League a 17 anni
andrea pinamonti
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NON CHIAMATELI BOMBERINI Da Silvio Piola a Luca Toni l’Italia calcistica è stata un’autentica fabbrica di grandi attaccanti, in Europa solo la Germania ha prodotto una quantità di calciatori offensivi di valore paragonabile a quella dell’Italia. Perché l’Italia ha prodotto una così grande quantità di attaccanti di valore? Probabilmente perché dal punto di vista fisiologico gli italiani, che sono una babele di dialetti e un miscuglio di etnie, possiedono nel proprio DNA l’irruenza e lo scatto breve tipica dei latini (i popoli nordici e mitteleuropei invece hanno più fondo e caratterialmente sono più riflessivi e metodici), ma allo stesso tempo sono dotati di doti fisiche superiori rispetto a quello degli altri popoli latini e mediterranei. Se si pensa bene, Francia, Spagna, Portogallo e paesi slavi hanno prodotto una quantità quasi irrisoria di attaccanti se paragonata con l’Italia. La rassegna parte con Moise Kean, ivoriano di Vercelli, il primo “millennial” (è nato infatti nel 2000) del nostro calcio ad aver esordito in Serie A e in Champions League con la prestigiosa maglia della Juventus alla verdissima età di sedici anni. Kean assomiglia molto a Balotelli, sia perché è una prima punta dotata di fisico e piedi buoni sia perché ha un carattere abbastanza esuberante che dovrà stemperare se non vorrà fare la stessa fine del bresciano, pare che Mino Raiola, uno abituato a gestire teste calde, abbia già messo le mani su di lui… Ma c’è un altro giovane attaccante che potrebbe superare lo juventino in quanto a precocità: stiamo parlando di Pietro Pellegri, nato a Genova il 17 marzo 2001. Il giovane attaccante della Primavera genoana allenata da Christian Stellini dovrebbe essere al primo anno di Allievi,
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invece nel suo curriculum vanta già una panchina con la Prima Squadra allenata da Giampiero Gasperini: se dovesse esordire in massima serie prima del suo sedicesimo compleanno Pellegri s’iscriverebbe nel ristrettissimo club dei “quindicenni” assieme a gente del calibro di Amedeo Amadei e Gianni Rivera. Passiamo ai “ragazzi del 1999” dove troviamo Andrea Pinamonti dell’Inter, centravanti alto e dai piedi buoni molto simile ad Ibrahimović. Punto fermo dell’Under 17, il trentino quest’estate è stato già opzionato con la Prima Squadra allora allenata da Roberto Mancini. Stefano Vecchi, suo allenatore nella Primavera l’ha definito “il più forte giocatore allenato nel corso della sua carriera”. Antonio Negro è senza ombra di dubbio il talento offensivo della classe 1998 più promettente: il giovane attaccante centrale originario della Terra dei Fuochi della Primavera di Giampaolo Saurini, ha già all’attivo qualche convocazione con la Prima Squadra allenata da Sarri e vista la falla nell’attacco partenopeo apertosi dopo l’infortunio accorso a Milik è probabile che il ragazzo di Marcianise faccia presto il suo esordio in massima serie nel club per il quale fa il tifo fin da bambino. Nicholas Pierini, figlio di Alessandro (ex difensore di Udinese e Fiorentina) nella stagione sportiva 2015/16 è stato il secondo attaccante italiano più prolifico dopo Negro con i suoi diciannove gol. L’attaccante del Sassuolo, cresciuto nel settore giovanile del Parma e lasciato libero dopo il fallimento della società emiliana, potrebbe esordire presto nella Prima Squadra allenata da Eusebio Di Francesco che in questo scorcio di stagione ha mezza rosa fuori per infortuni di varia
natura. Federico Bonazzoli del Brescia è invece l’attaccante più promettente tra i classe 1997: cresciuto nel settore giovanile dell’Inter e ceduto forse troppo frettolosamente alla Sampdoria nel gennaio 2015 assieme a Duncan per tenere in attivo i bilanci societari (gli acquisti Shaqiri e Podolski infatti furono due bidoni clamorosi), adesso sta cercando di fare il profeta in patria con il Brescia. Un altro nome è quello di Simone Edera, esterno offensivo campione d’Italia con la primavera del Torino e adesso in forza all’ambizioso Venezia di Pippo Inzaghi. Passiamo agli under 21: Alberto Cerri, parmigiano Doc classe 1996, è sicuramente il bomber che promette di più: l’attaccante di proprietà della Juve è attualmente in prestito alla Spal dopo un buon 2015/16 con la casacca del Cagliari poi promosso in A. Centravanti classico, dal fisico statuario e forte di testa, un po’ simile a Luca Toni come caratteristiche (oltre che per provenienza geografica), Cerri si gioca una maglia da titolare nell’Under di Di Biagio con un altro giocatore dalle caratteristiche molto similari, Andrea Petagna. Il triestino classe 1995, nipote d’arte (suo nonno Francesco è stato una bandiera della Triestina negli Anni Cinquanta nonché allenatore della Spal nella decade successiva) cresciuto nel vivaio del Milan è forse il giocatore che è più migliorato dal punto di vista tecnico in questi ultimi mesi, grazie agli insegnamenti di un grande maestro di calcio come Gasperini, allenatore della rivelazione Atalanta. Adesso è diventato un centravanti molto mobile, che sgobba come un mulo sul fronte offensivo per favorire gli inserimenti dei propri compagni da dietro.
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federico bonazzoli
andrea petagna
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GRANDI ALLENATORI GIANNI DE BIASI ALLENATORE INTERNAZIONALE
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De Biasi si è messo in gioco in tanti Paesi
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Quando ha capito di voler fare l’allenatore? “Direi l'ultimo anno da calciatore a Vicenza (1997 ma si è ritirato nel 1990, ndr), ma probabilmente ho sempre saputo che questo sarebbe stato il mio futuro, perché ero già un allenatore in campo, vedevo che i miei compagni mi ascoltavano, avevo la personalità e il carisma per intraprendere questa carriera. Eppure quando ho chiuso la carriera da calciatore, avevo intenzione di fare tutt'altro. Per alcuni anni ho fatto il
promotore finanziario, ma poi la passione, il richiamo del campo e la volontà di mettermi alla prova e dimostrare di poter arrivare in cima a quella famosa montagna, ha prevalso”. Da giocatore, che tipo era? È sempre andato d'accordo con i suoi mister? “Ero un onesto centrocampista, che faceva il suo lavoro. Con i miei allenatori ho sempre avuto un ottimo rapporto, perché ero uno che si metteva a disposizione della squadra. Con Simoni, che ho avuto due anni a Brescia ('78-'80, ndr), ho ancora oggi un legame speciale, ma dovrei citarli tutti e rischio di dimenticarne qualcuno. Ognuno di loro mi ha dato qualcosa e io ho sempre cercato di ricambiare con professionalità”.
Si dice che per un centrocampista sia più facile diventare allenatore: è d'accordo? “No, perché non ne faccio una questione di ruolo, ma di personalità. Una volta si diceva che per fare i portieri o l'ala sinistra si dovesse essere un po' pazzi e quindi era impensabile che giocatori di questo tipo potessero diventare allenatori. Oggi il calcio è cambiato e chiunque può pensare di fare questo mestiere, basta studiare, avere idee chiare e riuscire a farsi seguire dai calciatori. Ricordo la massima di Arrigo Sacchi: “Non bisogna essere stati cavalli per essere dei bravi fantini”. Ha assolutamente ragione, ma bisogna essere bravi ad addestrare i cavalli”. Non si può dire che non abbia fatto gavetta… serve o ne avrebbe fatto
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(prima volta in assoluto in una competizione internazionale). Ripercorriamo le tappe della carriera di un tecnico che si è fatto da solo, che pur di arrivare in cima – come lui stesso ci racconta – ha scalato la montagna. A mani nude e senza imbragatura.
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uando Madonna fece scandalo negli Anni '80 indossando la maglietta con scritto “Italians do it better”, di certo non si riferiva al mestiere di allenatore. Oggi, però, potremmo rubarle l'idea e renderla più morigerata, applicandola al mondo pallonaro. Ranieri che vince la Premier con il Leicester è solo l'emblema dei nostri connazionali, che seduti su panchine straniere fanno miracoli. Ancelotti è da anni che gira l'Europa collezionando “tituli”. Conte che prende il Chelsea dopo un settimo posto e lo trascina in vetta, è solo un altro (splendido) esempio. Non vale meno, però, l'impresa realizzata da Gianni De Biasi, capace di portare la “sua” Albania ad una storica qualificazione agli Europei di Francia 2016
Intervista a Gianni De Biasi, che ha portato l'Albania a una storica qualificazione ad Euro 2016 di Sergio STANCO foto Image Sport Calcio 2OOO
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“” Oggi il calcio è cambiato e chiunque può pensare di fare questo mestiere, basta studiare, avere idee chiare e farsi seguire… volentieri a meno? “Io l'ho fatta tutta (ride, ndr). A me è servita, perché l'esperienza non la puoi recuperare lavorando. Poi, se sei stato un grande calciatore e ti consentono di partire dall'alto, sinceramente perché rinunciare? Tornassi indietro, però, non cambierei mai il mio percorso, sia perché mi è stato utilissimo, sia perché non ho usato scorciatoie. C'è chi ha la fortuna di poter viaggiare in autostrada e chi, come me, deve arrivare al traguardo attraverso i sentieri di montagna”. Ha sentito Emanuelson INSIEME A CONTE
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Due grandi tecnici, due menti di calcio
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secondo il quale in Italia si gioca per raccomandazione? Vale anche per allenatori? “Mah, non credo che sia una novità, né che altrove non ci siano situazioni simili. Devo dire, però, che nella mia carriera ho avuto anche io diverse opportunità per entrare in alcuni “potentati”, chiamiamoli così, ma ho sempre preferito fare da solo. È vero, però, che alcune ultime esperienze vissute mi avevano un po' nauseato, tanto che quando ho subito l'ultimo esonero mi ero ripromesso di non allenare più in Italia. Oggi non ne
sono più così sicuro (ride, ndr), ma allora ero davvero amareggiato per alcune situazioni che mi erano successe e per come ero stato trattato...”. Parla dell'esonero di Udine? “Sì, ma non solo. A Udine sono stato licenziato dopo tre mesi di lavoro (stagione 2009-2010, ndr). In Italia non si dà tempo all'allenatore e alle prime difficoltà lo si caccia. Quando mi hanno concesso il tempo, i risultati li ho sempre portati. Basta guardare alla storia, i numeri parlano chiaro. A Torino ho perso il
conto di quante volte Cairo mi abbia esonerato, ma ogni volta che mi ha richiamato ho sempre raggiunto l'obiettivo e nell'unica volta che non l'ha fatto, il Torino è retrocesso. Non sopportavo più questo modo di fare, per questo quando è arrivata l'offerta dell'Albania ho pensato che potesse essere l'occasione giusta per staccare...”. Mai avuto titubanze nell'accettare questa avventura? “Certo che sì. Anzi, all'inizio avevo proprio rifiutato, ma dopo ho parlato con la federazione, loro avevano scelto me tra tanti candidati e io avevo bisogno di un'esperienza nuova. Per questo, alla fine, ho deciso di accettare, pur sapendo che si sarebbe trattato di un salto nel vuoto, perché io non conoscevo nulla
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IL MIRACOLO ALBANIA
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De Biasi ha reso l'Albania una nazionale di tutto rispetto
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“” Non mi spaventa nulla, ogni nuova avventura è utile per crescere dal punto di vista professionale dell'Albania, se non che erano albanesi Tare e Bogdani che giocavano da noi (sorride, ndr). Ma il lavoro non mi ha mai spaventato, quindi ci siamo messi all'opera e anche in questo caso il duro impegno ha pagato”. Difficile il salto da allenatore a commissario tecnico? “Diverso, sicuramente, perché da CT devi concentrare il lavoro in un tempo ristrettissimo. La pianificazione è fondamentale, così come la preparazione delle sedute che deve essere improntata all'essenziale. Detto questo, se riesci ad organizzarti non è molto diverso da quello che fanno gli allenatori di club. C'è lo stesso spirito e la stessa passione”. GRANDI COSE COL TORO
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In Italia ricorda gli eccellenti risultati con i granata
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Nessuna nostalgia del profumo dell'erba? “Sì, quella è inevitabile, perché quando uno fa una cosa che gli piace, vorrebbe farla tutti i giorni, ma noi siamo ripagati dal fatto che quando scendiamo in campo, l'erba ha un profumo speciale, perché rappresentiamo una nazione intera e questo si sente. Sono emozioni difficili da spiegare, ma anche impossibili da dimenticare”. Immaginiamo i festeggiamenti per la qualificazione all'Europeo... “È stata una cosa spettacolare, ma quello che mi inorgoglisce di più è che, quanto abbiamo fatto, ha avvicinato il paese all'Europa, e intendo non solo in senso calcistico. La nostra esperienza ha fatto capire
a tutto il popolo albanese che il lavoro paga, che se si fanno le cose con serietà nessun obiettivo è precluso, che si può sognare. Questo secondo me è l'insegnamento più importante che abbiamo lasciato”. La qualificazione con l'Albania è stata probabilmente una delle maggiori soddisfazioni della sua carriera, ma anche come tecnico in Italia ha ottenuto ottimi risultati: qual è quello che le è rimasto più nel cuore? "Ce ne sono tanti, ma se devo dirne uno, dico il campionato vinto con il Torino (2005-2006, ndr): siamo partiti dal fallimento precedente e abbiamo costruito la squadra in corsa, riuscendo comunque
a trovare una quadratura nel corso della stagione e arrivando al culmine della promozione davanti a più di 50mila tifosi granata in visibilio. Impossibile dimenticare certe emozioni. Porto nel cuore, però, anche la cavalcata che abbiamo fatto con il Modena, dalla C alla A in due stagioni e la salvezza in A in cui pochi credevano (1999-2003, ndr)". Tornando al Toro, con il quale ha avuto un rapporto controverso fatto di risultati eccezionali, esoneri e richiami: che effetto le fa vederlo ora così in alto? "Un bellissimo effetto, anche perché sono rimasto affezionatissimo alla piazza. Anche con Cairo, al di là della differenza di vedute in alcune occasioni, ho mantenuto un ottimo rapporto. Sono contento che dopo un periodo di apprendistato il presidente abbia capito che dare continuità al progetto è
la cosa fondamentale. Con Ventura l'ha fatto e ha ottenuto risultati, ora spero che continui a farlo anche con Mihajlovic, perché sta facendo un grande lavoro". A proposito di Ventura, a breve con l'Albania affronterà la “sua” Italia: che effetto le farà? E, soprattutto, che effetto le fa ripensando che sarebbe potuto essere lei sulla panchina azzurra? "A questo ormai non pensò più. C'è stato un momento in cui siamo stati molto vicini, ma alla fine quello che conta è che ora su quella panchina siede Ventura, che per altro sta facendo un ottimo lavoro. Spero che per lui che glielo riconoscano, al di là dei risultati, anche se in Italia è difficile andare oltre al risultato. Alla prima sconfitta, sai che polemiche! Giampiero, però, sta portando avanti un progetto interessantissimo, fondato su giovani di livello, che finalmente stanno trovando il loro spazio. Penso ad esempio a Belotti, ma anche ad Insigne, Benassi,
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“” Miglior ricordo in Italia? Ce ne sono tanti, ma se devo dirne uno, dico il campionato vinto con il Torino a tutta l'Atalanta. All'Italia di Ventura auguro ogni bene, perché se lo merita. Ovviamente spero che faccia sempre bene, tranne contro l'Albania (ride, ndr). Per me sarà una gara speciale, inutile nasconderlo, ma ormai ho una certa esperienza per non farmi sopraffare dalle emozioni". Dopo un risultato storico come quello raggiunto con l'Albania, quale obiettivo può porsi? "Non saprei, al momento sono concentrato sul mio lavoro, in futuro si vedrà. Non escludo nulla, né l'ipotesi di rientrare in un club, né quella di fare un'altra esperienza in una nazionale o all'estero. Non mi spaventa nulla, ogni nuova avventura è utile per crescere dal punto di vista professionale. Se poi parliamo di sogni, allora mi piacerebbe
mettermi alla prova in uno dei tornei top in Europa e vincere un campionato di prima divisione, perché li ho vinti tutti tranne uno di Serie A". Ha parlato di un'esperienza all'estero: lei ne ha vissute diverse e ultimamente molti altri allenatori italiani stanno ottenendo ottimi risultati. Secondo lei qual è il segreto? "Tralasciando l'aspetto tattico, in cui credo siamo maestri come scuola italiana, noi abbiamo una cura del dettaglio quasi estrema. Non lasciamo nulla al caso, non diamo niente per scontato, studiamo tutto, dall'aspetto atletico, alla dieta particolareggiata, arrivando al carattere del giocatore. Questo, secondo me, fa la differenza. E poi sappiamo adattarci. Faccio
un esempio: quando sono arrivato in Spagna (Levante 2007-2008, ndr) ho provato a inculcare una settimana di lavoro tipicamente italiana, con doppi allenamenti. Ma laggiù il pomeriggio è “descanso” (riposo, ndr), falli lavorare anche cinque ore al mattino, ma non chiedere loro di allenarsi al pomeriggio (ride, ndr). Abbiamo dovuto cambiare le nostre abitudini, perché ti devi anche calare nella realtà in cui operi, altrimenti non solo non ottieni risultati, ma rischi di non riuscire a entrare in sintonia con l'ambiente". Maniacali, ma flessibili e tremendamente bravi. Questo il segreto del successo dei nostri allenatori lontano dall'Italia. Noi li critichiamo, all'estero diventano eroi. Non è che stiamo sbagliando qualcosa?
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REPORTAGE
San Siro Nazionale Italia-Germania raccontata dagli spalti di uno degli stadi più belli del Mondo. Forse il più bello… di Sergio STANCO
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ndare a vedere una partita della Nazionale è sempre un'emozione. E poco importa che sia un'amichevole - ammesso che una sfida contro i tedeschi possa essere definita amichevole - perché Italia-Germania ha sempre il suo fascino. Quello del 4-3 di Messico '74, o quello di Madrid '82 di "pertiniana" memoria, o ancora quello di Svizzera e Austria 2012 in cui brillò la stella di SuperMario Balotelli. Personalmente, però, quello a cui siamo più legati, è quello di Dortmund nell'indimenticabile Mondiale 2006. Il prologo alla splendida notte di Berlino. Sarà perché abbiamo avuto la fortuna di viverla dal vivo, ma anche perché
la cornice dello splendido impianto di Dortmund ne ha probabilmente acuito il fascino. Già perché vincere contro 60mila tedeschi che ti urlano contro, e dopo una settimana di pizza, spaghetti, mandolini e mafiosi, è decisamente una “goduria”. La cornice, dicevamo, non è un aspetto secondario dello spettacolo. Perché vedere l'Italia è sempre un piacere, ma quando gli Azzurri giocano a San Siro lo è ancor di più. E si potrebbe anche trascendere dal mero aspetto calcistico: non a caso una delle più belle esperienze mai vissute al Meazza è stata quella di Italia-Nuova Zelanda. Di rugby. Conserviamo ancora il video dell'Haka degli All Blacks come fosse
REPORTAGE / UNA PARTITA dellA NAZIONALE
STADIO LEGGENDARIO Italia-Germania, una sfida mai banale...
una reliquia e a ripensarci oggi vengono ancora i brividi. Ci sono monumenti - perché di questo parliamo nel caso di San Siro - che hanno un'aurea di fascino unito a misticità che è difficile descrivere. E la vivi anche da fuori: paradossalmente ti fermi ad ammirare lo stadio, sai che dentro non sta giocando ancora nessuno, ma nella tua testa risuonano i boati come se Mariolino Corso si fosse appena dilettato nella sua ennesima "foglia morta" o come se le treccine di Ruud Gullit stessero ancora sfrecciando durante una delle sue inarrestabili cavalcate. Ne sono passati di campioni a San Siro, ma di fatto non se ne sono mai andati, perché le loro gesta lo animano ancora. Ne abbiamo
CALCIO2000 PRESENTE L'accredito per la nostra testata a San Siro
visti di stadi storici (Bernabeu, Maracanà, Camp Nou, Stamford Bridge), ma nessuno di questi ci trasmette le stesse emozioni. Chiamatelo, se volete, patriottismo. Lo stesso che il 15 novembre ci guida verso il Meazza con ottimismo, nonostante si giochi contro la Nazionale campione del Mondo e noi, invece, si sia “infognati” nell'ennesima rivoluzione. Di là una Germania che ormai gioca a memoria, ha un tecnico ormai saldato alla panchina e che ogni anno rifocilla la prima squadra di giovani in grado di dare respiro ai più anziani (ammesso che si possa considerare anziano il 27enne Müller); di qua l'ennesimo nuovo CT alle prese con i soliti problemi di amalga-
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REPORTAGE / UNA PARTITA dellA nAzionale
LA FORMAZIONE AZZURRA L'Italia non vuole mai sfigurare con i tedeschi
ma e difficoltà a raccattare undici uomini buoni che giochino almeno un pochino nelle rispettive squadre di club infarcite di stranieri. Eppure, qualcosa sta cambiando ed è forse anche questo che ci fa avvicinare a San Siro con ingiustificata (sulla carta) fiducia. Perché Belotti ci ricorda Vieri e Immobile Signori. Perché, dietro, Romagnoli e Rugani sembrano essere candidati perfetti per rinverdire la stoica fama della difesa italica. Perché il Sassuolo e l'Atalanta stanno sfornando talenti con la pala e Berardi, Politano, Pellegrini, Caldara, Gagliardini, Petagna (senza citare gli ormai maturi Verratti, Insigne e compagnia) ci fanno guardare al futuro con ottimismo (si veda il nostro speciale sulla "nuova Italia" per conferma). Dunque, tornando a noi, arriviamo allo stadio 40
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sereni, con l'atteggiamento di quelli che non hanno nulla da perdere e solo da guadagnare da una sfida contro i campioni del Mondo, come pomposamente si presentano i tedeschi (sulla carta è ineluttabile, ma c’è un Europeo di mezzo che non è finito tanto bene e che fanno finta di non ricordare). In realtà, proprio come gli Azzurri, la squadra di Low è pregna di giovani di belle speranze, mentre i pezzi grossi son rimasti a casa. Tocca a Müller, Gundogan e Hummels tenere alta la bandiera dell'esperienza, mentre da noi, a parte Buffon, Bonucci e De Rossi, gli altri li possiamo tranquillamente definire neofiti. Sarà anche per questo che non c'è il pubblico delle grandi occasioni. Insomma, un conto è scomodarsi per Neuer, Khedira e Kro-
os, un altro – con tutto il rispetto – per Leno, Weigl e Rudy. Che diventeranno probabilmente fenomeni, ma che di certo oggi non esaltano le folle. Oppure sarà perché da lì a qualche giorno San Siro ospiterà il derby. O anche perché la crisi costringe le famiglie a sacrificare il sacrificabile. In ogni caso portare, quasi 50mila persone per un'amichevole infrasettimanale a metà novembre con temperature polari, è comunque un ottimo risultato. E la cosa che più inorgoglisce, è vedere tanti bambini: frotte di pargoli elettrizzati in code raffazzonate in attesa di varcare la zona di prefiltraggio. Poi ci saranno solo i tornelli a dividerli da un'esperienza che, probabilmente, non dimenticheranno mai (lo sappiamo bene, perché ancora ricordiamo il primo
Mundialito a San Siro come fosse la finale di Berlino). L'attesa è già spasmodica, come conferma il vociare imberbe. Scene, ahi noi, che non siamo abituati a vedere così spesso in stadi italiani ormai bunkerizzati. Ma anche questo è Nazionale. Entriamo allo stadio e come di consueto ne respiriamo il profumo. Usciamo dal tunnel per accedere agli spalti e ci assale il solito brivido di eccitazione. Uno sguardo alle curve, abitudine di campionato, per cibarsi della loro passione e dei loro colori. Questa volta, ovviamente, nessuno striscione nella Nord, mentre in Sud c'è una maglia gigante della Germania col numero 12 e un centinaio di tifosi tedeschi al seguito. Tanti professionisti del selfie e anche un nutrito gruppo di fans di Gagliardini arri-
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REPORTAGE / UNA PARTITA dellA nAzionale
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LA FORMAZIONE TEDESCA L'Italia è sempre un problema per i teutonici
LE INDICAZIONI DEL MISTER Ventura, il nuovo condottiero azzurro
I TIFOSI TEDESCHI La loro presenza non manca mai, neppure in amichevole
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REPORTAGE / UNA PARTITA dellA nAzionale
L'ARIETE BELOTTI - Attenzione al nuovo bomber azzurro
IL FUTURO DELL'ITALIA - Donnarumma, talento super precoce
Italia-Germania: sfida senza fine
Ogni volta che si incontrano, capita sempre di tutto… Sentiamo ancora un dolore al cuore ogni volta che ripensiamo ai rigori di Zaza e Pellé di Bordeaux. Fa male uscire così da un Europeo giocato alla grande. Un’occasione d’oro sprecata, come ha confermato di recente anche Antonio Conte ai microfoni di Sky: “Sono sicuro che se fossimo passati, avremmo avuto grandi possibilità di vincere l’Europeo”. Sono passati già più di 6 mesi da quella sera, ma Zaza ancora non ci dorme la notte: “Quell’errore mi perseguita”. Ma quello del 2 luglio scorso è solo uno dei tanti capitoli della grande rivalità italo-tedesca, ma è anche il primo (e ci auguriamo anche l’unico) che abbia arriso ai nostri “cugini”. Già, perché nel “derby” di Bordeaux, per la prima
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volta in una competizione europea o mondiale, è stata la Germania a passare il turno (o vincere la competizione). Nelle precedenti occasioni, invece, si era sempre dovuta inchinare al predominio azzurro. Non ha portato bene, però, perché poi ci penserà la Francia ad eliminare i ragazzi di Low in semifinale. A noi restano ancora in mente, invece, i vividi (e ben più importanti) ricordi di Spagna ’82 (ItaliaGermania 3-1 con vittoria del terzo titolo Mondiale), o quelli di Varsavia nel 2012 (Germania-Italia 1-2 semifinale dell’Europeo poi perso in finale contro la Spagna), o ancora quelli di Dortmund 2006 (Germania-Italia 2-0 prologo della vittoria di Berlino contro la Francia). Non li abbiamo vissuti dal vivo,
TABELLINO PARTITA Italia-Germania 0-0 ITALIA (3-4-3):Buffon (1’ s.t. Donnarumma); Rugani, Bonucci, Romagnoli (1’ s.t. Astori); Zappacosta, De Rossi, Parolo, Darmian; Eder (23’ s.t. Bernardeschi), Belotti (43’ s.t. Sansone), Immobile (44’ s.t. Zaza). (Perin, De Sciglio, Antonelli, Izzo, Cataldi, Gagliardini, Bonaventura, Verratti, Candreva, Insigne, Lapadula, Pavoletti). All. Ventura. GERMANIA (3-4-2-1): Leno; Höwedes, Mustafi, Hummels (1’ s.t. Tah); Kimmich, Weigl (25’ s.t. Götze), Rudy, Gerhardt; Goretzka (15’ s.t. Gnabry), Gundogan; Müller (15’ Volland). (Ter Stegen, Hector, Henrichs, Meyer, Gomez). All. Löw. ARBITRO: Soares Dias (Por).
purtroppo, ma abbiamo racconti per interposta persona e immagini sbiadite di quella che secondo molti resta la partita del secolo: 17 giugno del ’70, a Città del Messico si gioca un’Italia-Germania da infarto. Il gol decisivo di Rivera rimarrà per sempre nella mente e nel cuore di tutti quegli italiani che ebbero la fortuna di
assistere a quel match epico. Fu talmente importante quella gioia, che quasi nessuno ricorda la successiva delusione della finale (4-0 contro il Brasile, con gli Azzurri arrivati svuotati dopo l’impresa in semifinale). O forse nessuna la ricorda, perché battere la Germania ha semplicemente un gusto speciale, che cancella tutto il resto.
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REPORTAGE / UNA PARTITA dellA nAzionale
BONUCCI, SEMPRE CONCENTRATO - Mai lasciare spazi alla squadra tedesca
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SUBITO AGONISMO - Non è mai una partita come le altre
CI PENSA PAROLO - Non si passa dalle parti del centrocampista della Lazio
vati dalla vicina Bergamo (con tanto di stendardo) a vivere la giornata storica del loro idolo. Entrano le squadre per il riscaldamento e il boato è trascinante, San Siro tracima di passione: Buffon va verso la porta ed è accolto da un fragoroso applauso. È lui il più osannato degli azzurri e non può essere altrimenti. Gli altri "torellizzano" con scarso impeto. Tanti sorrisi tra i giocatori. E non solo perché la gara non è di quelle decisive (eufemi-
smo), ma proprio perché in questa Nazionale si respira davvero un'aria fresca, frizzante e serena. Sarà l'incoscienza della gioventù. "Nonno" Ventura, però, richiama tutti i “nipotini” all'ordine, li catechizza e li rimette in riga. Si comincia a fare sul serio. Si parte con l'inno tedesco, come (maleducata) consuetudine fischiato dagli spalti italici. Ci vuole ancora l'intervento da campione di Buffon, che fa partire l'applauso della “maggioranza silenziosa”,
E POI C'è BUFFON - Una sicurezza tra i pali, il nostro faro...
ad evitarci una ennesima brutta figura in mondovisione. Poi il "Mameli", cantato a squarciagola da un San Siro ormai in ebollizione. Forse il momento più bello e dai decibel più alti di tutta la serata, perché poi la partita regala tanto impegno, qualche buona giocata, una discreta Italia e poco altro. Forse ci sarebbe voluto il gol di Belotti, che nel finale è andato a sbattere contro il palo, per rialzare la cresta e chiudere in bellezza. Poco male,
perché lo zero a zero non toglie il sorriso ai bambini, che scendono i gradoni e guadagnano l’uscita con lo stesso entusiasmo con cui erano arrivati. E mentre noi lasciamo un San Siro ormai nudo, nelle nostre orecchie risuona il boato: chissà cosa sarà successo. Avrà segnato Altafini? O magari Beccalossi ha fatto un altro tunnel. E il primo, assurdo, istinto, è quello di rientrare. Il secondo, ben più razionale, di non uscirne mai più.
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STORIE DI CALCIO ABREU GIRAMONDO
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QUANTE SQUADRE Abreu ha indossato tantissime maglie...
Abreu, l’uomo dei record: 23 squadre in 22 anni di carriera di Fabrizio PONCIROLI foto Agenzia Liverani
IL GIRAMONDO DEL
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STORIE DI CALCIO / ABREU GIRAMONDO
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i sono giocatori che non sono strutturati per restare, nello stesso medesimo luogo per tanto tempo. Washington Sebastian Abreu Gallo, noto semplicemente come Abreu, può essere visto come un classico nomade. Per lui, di professione attaccante, ciò che è importante è il viaggio, non la meta. La sua carriera, sin dagli inizi, è stata, infatti, contraddistinta da innumerevoli viaggi. Recentemente, El Loco (uno dei suoi soprannomi) è stato messo sotto contratto dal Bangu, club brasiliano. Jorge Varela, presidente del club, ha spiegato così la scelta di affidarsi al 40enne bomber uruguaiano: “L'arrivo de El Loco è parte di un progetto del club di ristrutturazione e rilancio. Stiamo anche lavorando su un progetto di marketing per fruttare al meglio la sua immagine”, le sue parole a ESPN. Ma cosa ha mai di così speciale Abreu? Basta sfogliare il suo curriculum per capire che, il buon Abreu, di speciale ha il numero di maglie indossate. I conti sono presto fatti. In ben 22 anni di carriera, l’uruguaiano originario di Minas, ha giocato, compreso il Bangu, per ben 23 club calcistici professionistici. Dai primi passi mossi nel Plaza Rivera, una società di ragazzini di Minas, fino all’ultimo contratto, il 28esimo della sua impressionante e longeva carriera, firmato con il Bangu. Ancor più rimarchevole il fatto che Abreu abbia visitato, per motivi calcistici, ben nove Paesi. L’uruguaiano ha, infatti, disputato almeno una partita in Uruguay, Argentina, Messico, Spagna, El Salvador, Brasile, Paraguay, Israele e pure in Grecia (con l’Aris Salonicco). Non male per un giocatore che, come numero di maglia, si è sempre affidato al numero 13, notoriamente, almeno per diverse culture, portatore di sventure. Si pensi che, in un’occasione, è pure riuscito ad usare il 113… Un calciatore con la valigia sempre in mano ma che, grazie a questi innumerevoli trasferimenti, ha conquistato dei primati difficilmente superabili. Ad oggi, risulta il massimo goleador della storia del calcio uruguaiano (368 gol, dato aggiornato all’8 maggio 2016). In carriera ha segnato in più di 20 derby. In particolare è l’unico giocatore ad aver segnato, con entrambe le maglie, nel Clasico Regio, il famoso derby messicano tra Tigres e Monterrey. Come se non bastasse è il giocatore, in attività, con più gol nella Copa Libertadores. Statistiche notevoli
IDOLO IN URUGUAY Con la sua Nazionale, ha lasciato il segno...
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IL NOMADE ITALIANO
In Italia, nessuno ha giocato in più squadre di Nick Piede Caldo Se Abreu è il giramondo del calcio a livello internazionale, Nicola Amoruso è il “nomade del calcio italiano”. Il bomber
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a cui vanno aggiunte due partecipazioni ai Mondiali (2002 e 2010) e una Copa America vinta (2011). Insomma, un vero e proprio totem che, di recente, ha rivelato come il calcio non fosse nel suo destino. Abreu, da giovane, aveva una passione viscerale per la pallacanestro, sport in cui se la cava più che egregiamente. Eppure, nel calcio, ha dimostrato di saperci fare. Ma perché El Loco? Beh, come definire uno che, in un quarto di finale, quindi ad eliminazione diretta, di un Mondiale (2010), segna, nella lotteria dei rigori, il penalty decisivo con tanto di “panenka”, cucchiaio in italiano? La conferma di una natura da ribelle, da uomo indomabile che ha sempre fatto di testa sua. Forse il vero motivo per cui non è mai riuscito a trovare la sua vera e stabile dimora. Nonostante il soprannome da duro (spesso stampato, insieme alla scritta Abreu, sulle sue tante maglie da gioco indossate), viene descritto come un ragazzo “casa e famiglia”, con valori forti. Un esempio? Nel 2011, quando milita nel Botafogo, decide di aderire ad una particolare campagna contro il razzismo. Nella sfida contro il Flamengo, indossa una scarpa nera e una bianca… Incredibilmente, ovunque è stato, tranne qualche eccezione, ha sempre lasciato un ricordo indelebile. Al Botafogo, ad esempio, ci fu una protesta vibrante quando il club decise di lasciarlo andar via… Appunto, il Botafogo, forse il club che più di ogni altro è rimasto nel cuore de El Loco: “La passione per questo club è sempre forte in me, così come il sogno di tornarci”, le sue parole in una recente intervista a Radio Tupi. Ora una nuova sfida con la casacca del Bangu, dopo aver, 2014, dato spettacolo nel ruolo di commentatore TV ai Mondiali. Ma quando smetterà di giocare? “Non bisogna mai guardare all’età di un giocatore ma al fatto se gioca bene o male”, la ricetta del giramondo Abreu…
HA VISTO TUTTO IL MONDO Pellegrinaggio continuo, visti tutti i continenti
STORIE DI CALCIO / ABREU GIRAMONDO
nativo di Cerignola ha collezionato ben 380 presenze nel massimo campionato italiano, mettendo a segno la bellezza di 113 reti. Il suo record, però, riguarda il numero di squadre, di Serie A, in cui ha militato. Nick Piede Caldo, uno dei suoi tanti soprannomi, ha, infatti, indossato la maglia di 13 diverse formazioni della massima divisione italiana. Nell’ordine lo si è visto con le casacche di Sampdoria, Padova, Juventus, Perugia, Napoli, Como, Modena, Messina, Reggina, Torino, Siena, Parma e Atalanta. Un primato difficilmente imbattibile… Per chi non lo ricordasse, Amoruso ha anche una bacheca ricca di trofei. In particolare con la Juventus, ha vinto, tra i tanti titoli conquistati, tre Scudetti e pure la Coppa Intercontinentale (1996). Giramondo e pure vincente…
NESSUNO COME LUTZ
Abreu è ancora lontano dal mitico Pfannenstiel È talmente orgoglioso del suo primato, da averci scritto anche un libro: “Inarrestabile - Le mie avventure come Globetrotter”, nella versione italiana. Stiamo parlando di Lutz Pfannenstiel, portiere tedesco che può vantare, nel suo curriculum, la sua militanza in 25 club professionistici. Sebbene, a livello di titoli, la bacheca sia piuttosto triste (un campionato finlandese e una Coppa di Finlandia), il buon Lutz è, ad oggi, il calciatore con più maglie indossate a livello professionistico. Il portierone ha viaggiato, letteralmente, per tutti i 5 Continenti, difendendo, tra le altre, i colori di club come Nottingham Forest (Inghilterra), Penang FA (Malesia), Sembawang Rangers (Singapore), Dunedin Technical (Nuova Zelanda), Calgary Mustangs (Canada), Atletico Aichinger (Brasile) e Ramblers (Namibia). La sua vita, calcistica e non, è ricca di episodi straordinari, tutti raccontati nel suo libro. Quando giocava in Nuova Zelanda, è finito sui giornali per aver acciuffato un ladro che gli aveva sottratto dei beni personali, compresa la sua maglia da portiere. Racconta di aver giocato in “oltre 600 stadi di calcio”, citando la magnificenza del Maracanà in Brasile. Divertente i suoi aneddoti sul
IL MITICO LUTZ C'è qualcuno che ha fatto meglio di Abreu
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calcio a Singapore con gli scarafaggi che infestavano gli spogliatoi. Un giramondo del calcio, diventato, da qualche anno, allenatore e, all’occorrenza, osservatore (dell’Hoffenheim). Uno che, nel 2002, ha anche rischiato di lasciarci le penne sul campo da calcio. A causa di un duro scontro con un giocatore dell'Harrogate Town (Lutz militava nel Bradford), il portiere perde conoscenza e smette di respirare per ben tre volte. Viene salvato grazie alla respirazione bocca a bocca. Un invito a smettere? “Mi risvegliai tre ore più tardi in ospedale e sette giorni dopo ero di nuovo fra i pali, anche se la mia fidanzata era incinta di sette mesi: un vero irresponsabile”, le sue parole post incidente…
TUTTE LE SQUADRE DI ABREU
1995-96: Defensor Sporting Club (URU) 1996-98: San Lorenzo (ARG) 1998-04: Deportivo La Coruña (SPA) 1998: Gremio (prestito) (BRA) 1999-00: Tecos (prestito) (MEX) 2000-01: San Lorenzo (prestito) (ARG) 2001: Nacional (prestito) (URU) 2002-03: Cruz Azul (prestito) (MEX) 2003: America (prestito) (MEX) 2004: Tecos (prestito) (MEX) 2004-05: Nacional (URU) 2005-06: Sinaloa (MEX) 2006: Monterrey (MEX) 2007: San Luis (MEX) 2007-08: Tigres (MEX) 2008: River Plate (prestito) (ARG) 2008: Beitar Jerusalem (ISR) 2008-09: River Plate (ARG) 2009: Real Sociedad (prestito) (SPA) 2009-10: Aris Salonicco (GRE) 2010-12: Botafogo (BRA) 2012: Figueirense (prestito) (BRA) 2013-15: Nacional (URU) 2013-14: Rosario Central (prestito) (ARG) 2015: Aucas (prestito) (ECU) 2016: Sol de America (PAR) 2016: Santa Tecla (EL SAL) 2016: Bangu (BRA)
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Ecco la lista dei club in cui ha militato El Loco…
CHI LO FERMERà? Abreu continua a divertirsi, evitando di pensare al futuro
SPECIALE / MAGLIe STORIChe BARCELLONA
MAGLIE STORICHE
I COLORI BLAUGRANA Il Barcellona è un’istituzione, la sua maglia ne è la conferma…
di Gianfranco GIORDANO
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SPECIALE
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SPECIALE / MAGLIe STORIChe BARCELLONA
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e origini del calcio a Barcellona risalgono alla fine del XIX secolo, quando la borghesia cittadina e la colonia straniera si dilettavano in varie attività sportive tra cui il football. I primi incontri di calcio, di cui c’è una vaga traccia documentata, vennero disputati all’Hipódromo de Can Tunis da inglesi residenti in città nel 1889 e, a partire dall’anno seguente, vennero organizzati match con le comunità inglesi di città vicine. Il 27 dicembre 1892, come riporta il giornale “La Dinastia”, il Club de Regatas organizzò una partita di calcio contro una selezione di membri della comunità inglese: i membri del Club de Regatas in maglia blu ed i sudditi di Sua Maestà in maglia rossa. Nel 1894 venne fondata la Sociedad de foot-ball de Barcelona che svolse un’attività agonistica relativamente regolare, a seguire venne ufficializzata la squadra del Club de Regatas e vennero fondate le squadre della Facultad des Ciencias e del Club Velocipédico, oltre ad altre realtà meno organizzate. Dopo due anni di fervente attività il calcio ebbe un periodo di stallo fin quasi a scomparire. Nel 1898 intanto arriva a Barcellona il 21enne svizzero Hans Max Gamper Haessig, meglio conosciuto con Joan Gamper, il quale a dispetto della giovane età aveva alle spalle un notevole curriculum sportivo, esperienze nel rugby e nel ciclismo oltre che nel calcio, aveva già partecipato alla fondazione del FC Zurigo nel 1896 oltre ad aver militato nel Basilea e nel Lione. Quasi subito Gamper fa amicizia con membri della comunità straniera e con loro gioca a calcio, il suo sogno però è fondare una squadra. Conosce Jaime Vila del Gimnasio Tolosa e gli espone i suoi progetti, Vila però rifiuta le proposte di Gamper, probabilmente all’origine ci sono motivi religiosi in quanto i membri del Gimnasio Tolosa sono cattolici mentre Gamper ed i suoi amici sono protestanti. Il 22 ottobre del 1899 Gamper mette un annuncio sul giornale Los Deportes, dichiarando la sua intenzione di fondare una squadra di calcio. Il 29 novembre, nella sede del Gimnasio Solé in Calle Montjuïc del Carme 5, veniva costituito il Foot-Ball Club Barcelona. Erano presenti gli svizzeri Joan Gamper, Otto Kunzle e Walter Wild, l’inglese John William Parsons, il tedesco Otto Maier ed i catalani Lluís d’Ossó, Bartomeu Terradas, Enric Ducal, Pere Cabot, Carles Pujol e Josep Llobet. Presidente venne eletto l’elvetico Wild. Al momento della fondazione vennero scelti i colori blu e rosso scuro, molto probabilmente in riferimento alle divise del Basilea, squadra svizzera in cui aveva militato ed era stato capitano Gamper. Questi rimarranno per sempre i colori del club, negli anni cambierà lo stile rispetto alle prime divise, anche i colori muteranno tonalità in base ai periodi ed ai materiali usati, ma il Barcellona sarà sempre blaugrana. Il nuovo club giocò la sua prima partita l’8 dicembre 1899, contro una selezione di giocatori inglesi residenti in città, nel velodromo di Bonanova, la prima divisa era quindi composta da una camicia blu e rossa a quarti, pantaloni bianchi e calzettoni neri. Come in tutte le squadre dell’epoca i giocatori provvedevano personalmente alle loro divise, di conseguenza ogni giocatore aveva una maglia diversa dalle altre: nel primo Barcellona alcuni giocatori hanno maglie con i colori invertiti e lo stemma compare solo su un paio di casacche. Il 23 dicembre del 1900 venne giocato il primo derby contro la Sociedad Española de Fútbol, che successivamente prenderà la denominazione di Español, partita a carattere amichevole che terminò a reti bianche. Le camicie a quarti rimangono in uso fino al 1910, anno della prima vittoria in Copa de España, nella stagione successiva arrivano delle vere maglie a
STAGIONE 1899
STAGIONE 1910-11
STAGIONE 1946-47
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SPECIALE / MAGLIe STORIChe BARCELLONA
sette strisce verticali con collo a girocollo chiuso da laccetti. A partire dalla stagione 1912/13 un piccolo cambio cromatico, i pantaloncini diventano neri, mentre la maglia ha tre strisce verticali con un collo a camicia sempre chiuso da laccetti. Nella stagione 1920-21 la maglia ha il collo a V blu, i pantaloncini diventano blu. Per tutta la decade la maglia rimane quasi invariata, nel corso delle stagioni cambia solo lo stile del collo, a volte a V a volte a girocollo, in alcune stagioni blu ed in altre blugranata. Una stagione anomala è il 1928/29, quando la striscia verticale è granata e non blu. Con il passare degli anni la divisa è ormai consolidata, nella stagione 1934/35 viene tolto lo stemma societario dalla maglia, tornerà in maniera definitiva nella stagione 1941/42, la stagione successiva compaiono i calzettoni blu, ormai siamo arrivati alla divisa che rimarrà quasi invariata negli anni successivi. Nella stagione 1950/51 approda a Barcellona Ladislao Kubala, uno dei più grandi calciatori della storia, e compaiono i bellissimi calzettoni blugranata a righe orizzontali. Il 24 settembre 1957 viene inaugurato il Camp Nou, i padroni di casa vincono contro una selezione di Varsavia per 4-2, questa è una stagione importante perché il Barcellona vive il suo primo trionfo europeo, la Coppa delle Fiere. Era la prima edizione del trofeo riservato a città che erano sedi di fiere internazionali, il torneo durò due anni e mezzo, dal dicembre 1955 al maggio 1958, e parteciparono rappresentative cittadine e non squadre di club. La finale, in doppia partita, venne vinta dalla rappresentativa catalana, che in realtà era il Barcellona ed in effetti la coppa fa parte dell’albo d’oro dei Blaugrana, contro il London XI. Dovendo rappresentare la città la squadra disputò le partite del torneo con una divisa composta da maglia bianca con pantaloncini e calzettoni azzurri oppure con maglia azzurra e pantaloncini bianchi. Sul petto lo stemma cittadino, nelle fotografie dell’epoca si vedono gli accompagnatori con la tuta del Barcellona. Gli anni passano, arrivano Cruijff, Neeskens, Simonsen e tanti altri campioni ma la bellissima divisa blugranata rimane invariata, solo il collo cambia in base alle stagioni climatiche, girocollo nel periodo invernale e collo a V o a camicia con apertura profonda nei periodi caldi. Negli anni '70 il fornitore è la ditta spagnola Monthalt, in quel periodo fornitore di molti club spagnoli, anche se non mette il logo sulle divise. La rivoluzione arriva nella stagione 1980/81, il Barcellona firma un contratto di sponsorizzazione con la ditta catalana Meyba, fondata negli anni '40 da Josep Mestre e Joaquim Ballbé (Me y Ba). Nella prima stagione del sodalizio il Barcellona comincia con la classica maglia di cotone a tre strisce e con il collo a V, con il passare dei mesi arriva una nuovissima divisa in tessuto sintetico, le strisce sono un po’ più strette con collo a camicia blugranata, niente marchio del fornitore. In quella stagione i portieri, come succede spesso all’epoca, hanno una divisa fornita da un’altra marca, in questo caso la Adidas. Nella stagione successiva la maglia è identica ma compare il logo del fornitore sul petto. Nel 1982/83 arriva Maradona e la Meyba propone una maglia quasi uguale, il collo mantiene lo stesso stile ma di colore completamente blu, le strisce si allargano e sulle maniche compare una striscia granata a richiamare il logo del fornitore. Il Barcellona ha rimandato il più possibile le scritte pubblicitarie sulle sue casacche, un’eccezione è avvenuta nel 1990, il 27 ed il 29 luglio i Blaugrana hanno disputato due partite amichevoli in Giappone, nel contratto della tournèe era contemplato che sulle maglie dei Catalani comparisse il marchio della Japan Airlines. Per non “sporcare” la maglia, il Barcellona
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STAGIONE 1958
STAGIONE 1960-61
STAGIONE 1971-72
SPECIALE / MAGLIe STORIChe BARCELLONA
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LA MAGLIA DEI CAMPIONI Chi indossa la casacca del Barรงa deve essere un fuoriclasse...
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SPECIALE / MAGLIe STORIChe BARCELLONA
STAGIONE 2011-12 Charles Puyol
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STAGIONE 1974-75
STAGIONE 1981-82
I 5 LOGHI: L'evoluzione dei loghi che si sono succeduti nella storia del Barcellona
STAGIONE 1990
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SPECIALE / MAGLIe STORIChe BARCELLONA
STAGIONE 1991-92
STAGIONE 1992-93
STAGIONE 1994-95
decise di giocare con la terza maglia, di colore azzurro. Nel 1992-93 l’italiana Kappa diventa il nuovo sponsor tecnico, il marchio torinese presenta una maglia a quattro strisce con collo a camicia blu, sulle maniche e sui pantaloncini strisce bianche a richiamare il logo del fornitore. Queste strisce bianche, mai viste prima sulle divise dei Blaugrana, creeranno parecchie polemiche tra i tifosi. Nella stessa stagione, la Kappa propone una divisa diversa per le partite di Coppa Intercontinentale e Supercoppa europea, le strisce blugranata sono cinque e sul petto compare, sopra lo stemma del club, una Coppa dei Campioni a ricordare che i Catalani sono i detentori del trofeo. Questa divisa, senza la coppa, verrà indossata fino alla stagione 1996/97. Per l’ultima stagione come fornitore, 1997/98, la Kappa propone due divise diverse, una per il campionato, maglia abbastanza tradizionale con le strisce larghe al cui interno è presente una riga sottile in colore contrapposto ed una per la Coppa dei Campioni, la maglia è a strisce larghe che partono dal collo per poi allargarsi ed i colori sono più vivaci. Ci avviciniamo alla fine del millennio e, con un ultimo cambio di fornitore, si passa dalla Kappa alla Nike. La prima stagione la ditta americana fornisce una divisa tradizionale, le strisce sono larghe ed il collo a V è bicolore. Nel 1999/2000 si celebrarono i cento anni del club, per l’occasione la Nike ripropose, in stile moderno, la maglia degli esordi blugranata a quarti con maniche blu scuro, anche il collo a camicia è blu di tonalità scura con bordino rosso. Nel nuovo millennio il Barcellona si piega alla legge del merchandising, ogni anno una nuova maglia un po’ diversa da quella precedente. Si vedono maglie con strisce larghe e con strisce strette, nella stagione 2008/09 la maglia è blugranata a metà, nel 2010/11 e nella stagione seguente il collo è stranamente giallo ed pantaloncini rossi e la stagione seguente viene presentata una maglia molto strana con 18 strisce di spessore variabile, sempre in questa stagione compare per la prima volta uno sponsor, la Qatar Foundation, mentre il logo dell’Unicef, presente sulle maglie dalla stagione 2006/07, viene spostato nella parte posteriore. Nella stagione 2012/13 la Nike azzarda una maglia molto particolare, blu scura con fascia centrale rosso scuro con i contorni che si fondono. Nella stagione 2013/14 nuovamente strisce sottili, per fortuna di una tonalità classica, con collo giallo a V, una boccata d’ossigeno nella stagione seguente con una maglia di stampo classico con cinque strisce e poi l’abominio della passata stagione, una maglia blu su cui spiccano quattro righe orizzontali rosse molto alte, ciliegina sulla torta i pantaloncini pure rossi. Nella stagione attuale per fortuna si torna ad una divisa di stampo classico, chissà per quale motivo negli ultimi anni la Nike si è sforzata di abbruttire una maglia tanto semplice quanto bella. La seconda divisa del Barcellona a partire dal 1913, le pochissime volte che serviva quando i Blaugrana giocavano contro il Pontevedra o contro il Levante, era tradizionalmente composta da maglia bianca con pantaloncini e calzettoni blu. Detto della Coppa delle Fiere, il Barcellona giocò con la maglia bianca una decina di partite in Europa, l’ultima volta in bianco si giocò il 7 marzo 1979 ad Ipswich in Coppa delle Coppe. Nel frattempo la rivalità tra Barcellona e Real Madrid era cresciuta a dismisura, se agli albori gli incontri erano completamente amichevoli negli anni '70 si era arrivati ad un’accesa rivalità tendente all’odio. La vittoria di Franco nella Guerra Civile, con le sue leggi contro le libertà di espressione dei Catalani, contribuì ad accelerare la rivalità tra le due formazioni e il club blaugrana divenne un punto di riferimento per il popolo catalano.
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SPECIALE / MAGLIe STORIChe BARCELLONA
STAGIONE 2014-15 Neymar
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STAGIONE 1998-99
STAGIONE 1999-2000
BARCELLONA SUBBUTEO: Nel catalogo HW del Subbuteo il Barcellona è il numero 19, classica divisa rossoblu con pantaloncini blu e calzettoni, stranamente, bianchi con risvolti in tinta.
STAGIONE 2011-12
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SPECIALE / MAGLIe STORIChe BARCELLONA
STAGIONE 2014-15
Il mancato ingaggio di Di Stefano nel 1953, incendiò ulteriormente gli animi. Agli occhi dei tifosi divenne inaccettabile vedere la loro squadra indossare la maglia bianca, il colore degli odiati rivali, così nel 1975 il Barcellona cominciò ad indossare una bellissima maglia gialla con fascia trasversale e bordi blugranata. In quegli anni la fascia del capitano, a rimarcare l’identità catalana, è gialla e rossa a righe orizzontali. Successivamente, negli anni '80, la striscia divenne verticale sulla parte destra del petto. Il giallo venne abbandonato nel 1984, a seguito di una serie di sconfitte, e si passò all’azzurro ed al rosso, sempre con la striscia blugranata sul petto. Nella finale di Coppa Campioni 1991/92, vinta nei supplementari contro la Sampdoria, il Barcellona utilizzò una divisa completamente arancione con inserti blugranata, si dice in onore di Cruijff. La Kappa propose delle divise prima verde acqua e poi arancione, con l’arrivo della Nike si sono viste maglie di diversi colori, diverse ogni anno, tra queste molto apprezzate dai tifosi le maglie ispirate ai colori della bandiera catalana, la Senyera. La maglia dei portieri del Barcellona non ha mai avuto un colore definito, nei primi anni si preferiva il bianco o il nero, successivamente si sono viste maglie di vari colori, i più usati il rosso, il blu, il verde ed il grigio oltre al nero. Sulla prima casacca del club compariva lo stemma cittadino, il primo stemma sociale comparve nel 1910 quando, su iniziativa di Juan Gamper, venne indetto un concorso tra i soci per realizzare un disegno capace di rappresentare il club. Vinse Carles Comamala, già giocatore tra il 1903 ed il 1912. Si trattava di uno scudo a forma di pentola essenzialmente diviso in due parti, nella parte superiore la bandiera di Sant Jordi e la bandiera della Catalogna, nella parte inferiore una serie di strisce blu granata ed un pallone da calcio, in mezzo una banda orizzontale con il monogramma FCB. Nel corso degli anni lo stemma è rimasto sostanzialmente lo stesso, pur con diversi aggiustamenti stilistici, l’ultimo nel 2002. Nel 1941, con l’introduzione delle leggi che proibivano l’uso delle lingue straniere, la denominazione del club divenne Club de Fútbol Barcelona, quindi cambiò anche il monogramma all’interno dello stemma che ritornò come alle origini nel 1974.
STAGIONE 2015-16
STAGIONE 2016-17
STAGIONE 2013-14
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ATTACCANTE DI CLASSE Giordano, uno che ha sempre fatto la differenza
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I GIGANTI DEL CALCIO BRUNo GIORDANO
BRUNO, NESSUNO E CENTOMILA
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Dalle lacrime allo scudetto, tutte le vite di Bruno Giordano
di Paolo BARDELLI foto Agenzia Liverani
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I GIGANTI DEL CALCIO / BRUNO GIORDANO
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e bandiere non esistono più, questo ritornello ci accompagna da diversi anni ed è innegabile che contenga una verità, ma raramente ci chiediamo davvero il perché di questo cambiamento. Molti danno la colpa ai "troppi soldi che girano intorno al calcio", ma questa non è una risposta esauriente. Vivere da bandiera è molto più di una lunga militanza, è legarsi nella buona e nella cattiva sorte al destino di una maglia, anche (soprattutto?) nel momento di dirle addio. Quello di Bruno Giordano non è un nome qualsiasi per i tifosi della Lazio, il ragazzo di Trastevere che diventa campione e raccoglie la pesante eredità di Giorgio Chinaglia.
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Uomo d'azione con generalità del filosofo Giordano Bruno (anche lui, guarda caso, diviso tra Roma e Napoli), per definire la sua classe bastano le parole del calciatore filosofo per antonomasia. "Tra i tanti eredi che mi hanno assegna-
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Sono entrato alla Lazio bambino, me ne sono andato da uomo to, l'unico nel quale mi sono riconosciuto è Bruno Giordano", parole e musica di Johann Cruyff, uno che di calcio ne capiva. Destro, sinistro, parliamo di uno degli attaccanti più tecnici nella storia del calcio italiano, il paragone con il 14 oranje tiene ma non è la sola classe a definire il personaggio. Tanto diverso da Chinaglia, potente ma sgraziato, Giordano ha conquistato un popolo con i piedi ma soprattutto con le lacrime, senza poter tuttavia bissare i successi di Long John. Altra storia, altra Lazio, quella toccata a Bruno vive un periodo sfortunato, il coinvolgimento nello scandalo calcioscommesse è la mazzata che gli nega
gioie in nazionale in nazionale, perdendo il Mundial del 1982 che ha scolpito nella pietra i nomi di una generazione d'oro. Le soddisfazioni sono arrivate a Napoli, una storia MaGiCa, tanto per usare il nomignolo che i tifosi hanno affibbiato a un tridente che ha fatto sognare. Maradona, Giordano, Careca (o Carnevale), “ovunque nel mondo” gli ricordano quel tridente. Ma c’è molto alto altro nella storia dell’attaccante romano, che ha ripercorso con noi le tappe di una carriera strepitosa. La tua storia parte da Trastevere, quartiere tradizionalmente giallorosso. Romanista anche tuo padre? “È una mezza verità, ha la fama di quartiere prettamente romanista ma ci sono anche tantissimi laziali". Da bambino però eri interista, esatto? "Certo, io sono del '56 quando ero piccolo c'era la Grande Inter: Sarti, Burgnich e Facchetti.. Era normale innamorarsi di giocatori simili”. Grandi giocatori hai trovato anche
I GIGANTI DEL CALCIO / BRUNO GIORDANO
UOMO DAI GOL PESANTI
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Ovunque è stato, ha sempre lasciato il segno
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I GIGANTI DEL CALCIO / BRUNO GIORDANO
alla Lazio. Cosa resta della trafila nei settori della Lazio? "Sono andato lì che ero un bambino, me ne sono andato da uomo con una famiglia. C'è tutta la mia crescita calcistica ma soprattutto umana, ricordi indelebili, ho conosciuto tante persone alle quali sono ancora legato da amicizia. Sedici anni, è una vita. La mia vita”. Una storia che ha poco a che fare con il calcio moderno... "Oggi ogni sei mesi si cambia, sono pochi i giocatori che restano tanto in una società. Le bandiere non ci sono più, ma se uno ha la fortuna di restare tanto può instaurare un rapporto che va al di là del calcio, un vero legame con la città, con la gente. Qualcosa che ti cambia la vita".
foto Luigi Putignano/TuttoLegaPro.com
5 ottobre '75: il passaggio di Chinaglia "Sembrò quasi un passaggio di testimone. Sono stato fortunato, perché già esordire era un sogno, segnare il primo gol in A mi ha fatto conoscere subito. Forse, senza quella partita avrei fatto carriera con qualche ostacolo in più. Credo che quel match sia stato fondamentale, mi ha dato sicurezza, mi ha fatto amare ed è
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Lo scandalo calcioscommesse? Mi rode ancora stato tutto più semplice. Giorgio andò in America e quella maglia rimase lì, sul tavolino, Maestrelli la dette a me e io l'ho portata per sempre, volendola in qualsiasi squadra in cui sono andato. Mi piaceva, mi apparteneva, la sentivo mia". Un inizio difficile con Maestrelli, ha fatto bene a preservarti all'inizio? "Sì, sicuramente. Era un momento difficile per la squadra, io ero il più giovane e lui giustamente si è affidato a giocatori che conosceva, che gli davano più sicurezza. Però mi teneva sempre in considerazione facendomi sentire importante e quando Chinaglia se ne andò mi dette il numero nove senza pensarci. A Maestrelli devo tantissimo, come devo tanto a Corsini che mi ha permesso di esordire. Maestrelli è stato un gigante, perché ha saputo stimolarmi e mandarmi in campo in un
momento complicato, dandomi responsabilità ma anche una certa serenità. Tutti sottolineano lo spessore umano, passa quasi in secondo piano quanto fosse un grande allenatore. Era un grande uomo ma anche un grandissimo tecnico". Abbiamo parlato degli incroci con Chinaglia, si è molto detto e scritto di un rapporto difficile tra voi. È vero? "Io con Giorgio ho avuto sempre un rapporto straordinario, lo ammiravo quando da piccolo facevo il raccattapalle e poi ho avuto la fortuna di giocare con lui ed è stato anche il mio presidente. Io l'ho sempre visto come un mito, solo in una stagione c'è stato un periodo di frizione a causa dei risultati, ma abbiamo chiarito tutto anni dopo ed è proseguita un'amicizia che mi ha onorato". Hai seguito la Lazio anche in B: mai avuto dubbi? "Tante squadre mi volevano, io però ragionavo come una bandiera, pensavo a rappresentare la mia città e la mia squadra. Ho dovuto fare questo passo alla fine perché, sotto la gestione di Giorgio, erano finiti i soldi e fu proprio lui a chie-
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dermi di andare a causa delle difficoltà economiche. La Lazio, tranne il periodo Cragnotti, non ha mai avuto presidenti straordinari sotto il profilo economico. Io sarei rimasto, ma da una parte Chinaglia, dall'altra il Napoli che mi voleva, Allodi e Maradona mi chiamavano spesso e alla fine ho accettato".
delle meraviglie con Diego e Careca. "Ovunque nel mondo, qualsiasi tifoso del Napoli per prima cosa mi dice 'MaGiCa'. Rimarrà nella storia ed è una bella cosa".
Ed è lì che è nato MaGiCa, il tridente
A Napoli ti sei cimentato nei panni di attore, ne 'Quel ragazzo della Curva B', e di cantante per l'inno? Ti sei divertito? "Ci siamo divertiti tantissimo, eravamo una cosa sola con la tifoseria e in quel
La giustizia ordinaria stabilì l'innocenza. Oltre al danno, la beffa? “È stato incredibile, c'erano solo le chiacchiere di una persona che non conoscevo, un tale che aveva un negozio di frutta. È successo a me, come a tanti altri come Manfredonia, Albertosi e Paolo Rossi. È successo e mi ha privato di un Mondiale, non riesco a capacitarmi a distanza di 36 anni. È il più grande rimpianto, se avessi fatto qualcosa avrei accettato ma
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Oltre all'attacco, chi è stato un uomo chiave di quella squadra? "Direi Bruscolotti e Bagni, sono stati giocatori cardine soprattutto per quanto riguarda la personalità. In un ambiente come Napoli, che ti pressa tantissimo, per vincere è necessario essere uomini di quel tipo".
Come mai non è scoccato l'amore con la Nazionale? "Avevo un ottimo rapporto con Bearzot, ma una squalifica assurda (quella relativa al Calcioscommesse, ndr) mi ha tolto l'Europeo dell'80 e il Mondiale dell'82, al pari degli altri sarei stato anche io in quella Nazionale perché ero in azzurro dal 1978. Quella squalifica assurda mi ha tolto qualcosa di sensazionale".
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Tra tutti i club, perché proprio Napoli? "Con Allodi c'erano già stati contatti quando era a Firenze, ha sempre avuto un pallino per me, io stravedevo per lui perché secondo me è il più grande dirigente italiano di sempre. Poi c'era Diego, che telefonava. Mi hanno convinto perché c'era un progetto importante, che di lì a poco ha dato grandi risultati. Potevo andare in altre squadre, in primis la Juventus, ma ho capito subito di aver fatto la scelta giusta".
Il numero nove mi apparteneva, l’ho sempre sentito mio
periodo rappresentavamo la squadra ma soprattutto la città. Abbiamo accettato senza dubbi. Poi abbiamo fatto anche l'inno, canto io, canta Diego, è stato magnifico rappresentare una grande città come Napoli".
Hai capito subito che avreste vinto? "No, subito no. Però c'erano i presupposti per vincere, perché se una squadra prende Allodi e Maradona vuol dire che vuol fare le cose nella maniera giusta".
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L’ORO DI NAPOLI Di Paolo Bardelli
La formula MaGiCa che rovesciò l’Italia del pallone…
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iordano Bruno è nato a Nola, in provincia di Napoli, poi si è trasferito a nella Capitale, curioso che Bruno Giordano abbia fatto il percorso inverso a quello del noto pensatore. Tanti gol con la maglia della Lazio, alla quale ha lasciato un pezzo di cuore, le grandi gioie però sono arrivate all'ombra del Vesuvio. Un momento storico nella storia di un club e di una città intera, scudetto e Coppa Italia nell'indimenticabile stagione 1986/1987. Una corazzata, che in Diego trovava la sua arma più devastante, ma è miope attribuire tutto il merito al Pibe. Maradona è arrivato al San Paolo nell'estate 1984, con Napoli è stato amore a prima vista, ma per i trofei c'è bisogno di un po' di pazienza. Italo Allodi crea pezzo dopo pezzo un ingranaggio perfetto, nell'estate del 1985 arriva Giordano, lungamente corteggiato, l'anno dopo si aggiunge Carnevale, che con il Pibe e l’ex laziale dà vita al primo MaGiCa, così era soprannomi64
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UN SUPER TRIO
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Insieme a Maradona e Careca, un terzetto fantastico
nato il tridente delle meraviglie che dava spettacolo al San Paolo. Nell’estate del 1987 fu il turno di un altro fuoriclasse, Careca, acquistato per una cifra pari a 4 miliardi di lire. E la formula fu nuovamente MaGiCa. Il miglior Napoli della storia, tra le migliori squadre di sempre in Italia. Capitan Bruscolotti, il leggendario "Pal 'e fierro", la promessa Ciro Ferrara, Bagni, De Napoli, Garella, tanti sono i nomi che hanno portato all'accoppiata Scudetto-Coppa Italia, ma il tridente è leggenda. Maradona - Giordano - Carnevale (poi, Careca), una cavalcata iniziata il 1 settembre 1986 con un gol del Pibe a Brescia. La vittoria per 3-1 con la Juve a Torino fa capire a tutti che il Napoli fa sul serio, Giordano realizza il secondo gol del match, da lì il cammino partenopeo è inarrestabile e culminerà il 10 maggio 1987 con la conquista del titolo. Il secondo nella storia napoletana, il tricolore torna al Sud sconvolgendo la geografia del calcio nostrano.
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ho preso quella squalifica senza aver fatto nulla. E ancora mi rode".
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Le gioie però sono arrivate con l'Under 21. "Otto gol in sedici partite, per tanti anni sono stato il capocannoniere. Sono stato molto felice, poi con Vicini ho fatto il fuori quota e segnato contro la Cecoslovacchia. In azzurro ho fatto sempre il mio, anche in Nazionale maggiore, ma c'era una grande concorrenza e poi quell'assurda squalifica". Ascoli e Bologna, quali sono i ricordi
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Mi voleva la Juve, ma Allodi e Maradona insistevano.. del finale di carriera? "Ho scelto io di concludere in maniera tranquilla, nessun trauma. Dopo Allodi, ho conosciuto Rozzi e loro sono stati i miei testimoni di nozze nel '90. Due per-
sone straordinarie. Anche a Bologna mi sono trovato bene, ho preferito chiudere ad Ascoli dove ho segnato il centesimo gol in A. Sarei potuto restare a Napoli, ma sarebbe stato difficile giocare sempre e io ne avevo bisogno". Poi la panchina, un po' di amaro in bocca per aver raccolto così poco? "Non sono soddisfatto per niente! Non mi è mai stata data la possibilità di allenare squadre con società alle spalle, le volte che ho avuto questa fortuna ho fatto buone cose. A Reggio Emilia, Messina e
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Crotone c'era una struttura dietro, negli altri casi si parla di società che di lì a poco sono fallite. E non puoi fare l'allenatore se non hai un club". Anche una parentesi all'estero, al Tatabánya, cosa ti ha lasciato quell'esperienza? "In Ungheria sotto l'aspetto sportivo è andata bene, una grande rincorsa, ma poi anche là ci sono stati problemi economici. Ho preferito andarmene, non c'erano più le condizioni per restare per me e per i calciatori, poi infatti la rosa si
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I giocatori di oggi non vivono d’emozioni, usano il calcio per arrivare ad altro è svuotata perché erano finiti i soldi e non sapevano come andare avanti. Ma
comunque è stata una bella esperienza". Concludiamo tornando al punto di partenza, quel 5 ottobre '75: dopo il gol, le lacrime. Questo modo di vivere il calcio è morto? "Non so cosa sia cambiato, dovremmo chiederlo ai giocatori di oggi perché non riescano a vivere di emozioni. È tutto già programmato, conta solo la scritta sulla maglia. Il calcio era la nostra vita, fine primo e ultimo, oggi sembra solo un modo per arrivare ad altro, cose che puoi permetterti solo se giochi a calcio".
GIOVANISSIMO E GIà FORTISSIMO Giordano è salito alla ribalta in tenera età...
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SPECIALE / DERBY DELLA LANTERNA
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UNA GARA UNICA Il Derby della Lanterna, la partita di Genova...
Tutto il fascino di Genova e del suo Derby della Lanterna, la piĂš antica stracittadina del calcio italiano di Luca GANDINI - foto Agenzia Liverani
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SPECIALE / DERBY DELLA LANTERNA
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Baird;
De Galleani, Ghigliotti; Pasteur I, Spensley, Ghiglione; Leaver, Bocciardo, Dapples, Bertollo, Le Pelley. Ecco la storica formazione del Genoa che l'8 maggio 1898, che superando dopo un'estenuante battaglia i padroni di casa dell'Internazionale Torino al Velodromo Umberto I, iscriveva il proprio nome sulla prima edizione del campionato italiano di calcio. Un manipolo di pionieri del pallone provenienti da Gran Bretagna, Italia e Svizzera, a testimoniare lo spirito profondamente multinazionale di quello che è tuttora il club più longevo in attività, essendo stato fondato da un gruppo di gentlemen inglesi di stanza in città il 7 settembre 1893. In quel triangolo Torino-Milano-Genova, sinonimo della crescita industriale del nostro Paese e del dominio delle grandi società del Nord sulla scena calcistica, il Genoa fu la prima potenza egemone. Con perentorietà, i liguri si imposero anche nelle due stagioni successive, per arrendersi solo in finale al Milan nel 1901. Il 9 marzo 1902, in occasione della quinta edizione del campionato, il girone lombardo-ligure propose l'attesissimo scontro tra i genoani e la seconda forza cittadina, l'Andrea Doria. Come prevedibile, la spuntarono per 3-1 i plurititolati rossoblu, ma poco importa: quel giorno, il mitico campo di Ponte Carrega, la casa del "Grifone" sulle rive del torrente Bisagno, aveva inaugurato il primo "Derby della Lanterna", mai disputatosi nel massimo torneo calcistico italiano. Una classicissima che oggi, 115 anni dopo, con il Genoa opposto ai discendenti dell'Andrea Doria (la Sampdoria, ovviamente), continua ad appassionare e a dividere il popolo genovese. Se oggi la situazione è vissuta sotto il segno dell'equilibrio, agli albori del XX secolo erano però sempre e solo i rossoblu a dominare. L'Andrea Doria mise i bastoni tra le ruote ai rivali solo una volta, nel 1907, eliminandoli dalla corsa al titolo e centrando un dignitoso terzo posto conclusivo. Inevitabilmente, l'astio tra le due compagini non tardò a varcare i limiti del rettangolo di gioco. Nel 1913 ecco infatti esplodere uno tra i primi grandi scandali legati al calcio. Successe che il presidente del Genoa offrì ai giocatori doriani Aristodemo Santamaria ed Enrico Sardi, 1.600 Lire a testa affinché cambiassero casacca. Non essendo il professionismo ancora contemplato, l'inghippo venne scoperto da un cassiere della banca in cui i due campioni si erano recati per riscuotere gli assegni. Costui, tifoso dell'Andrea Doria, provvide a denunciare il tutto, facendo multare e squalificare i due "reprobi", peraltro poi graziati dalla puntuale amnistia.
LA CURVA GENOANA: Cuore e passione, il Grifone al suo meglio
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PUNTO DI
FUSIONE Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il Genoa era la regina del calcio italiano con 7 titoli nazionali, e anche nel primo dopoguerra si confermò sodalizio vincente, aggiudicandosi il campionato sia nel 1923 che nel 1924. Ma la sua grande epopea era avviata a concludersi con l'introduzione del girone unico, tanto che, già nel 1933/34, il Grifone incappava nella sua prima retrocessione. La stagione successiva fece la sua comparsa in Serie A l'altra forza emergente cittadina, la Sampierdarenese, brava a tenere alto il nome del capoluogo ligure con una meritata salvezza. E finalmente, nel 1935/36, il massimo campionato vide per la prima volta il derby tra Genoa e
LA CURVA BLUCERCHIATA: Tutti uniti per il bene della Samp
Sampierdarenese. I rossoblu si imposero sia all'andata che al ritorno, ma la salvezza arrise ad entrambe, con in più l'orgoglio per il portiere della Samp, Bruno Venturini, vincitore della medaglia d'oro ai Giochi Olimpici di Berlino con la Nazionale. Genoa, Sampierdarenese e il redivivo Andrea Doria. Il primo campionato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale fu testimone di un fatto inedito e mai più ripetuto. Per la prima e unica volta, tre squadre di una stessa città militarono contemporaneamente in Serie A. I risultati non furono però granché e a ciò si aggiunsero i guai economici della Sampierdarenese, a un passo dal fallimento, e sportivi dell'Andrea Doria, condannato a ripartire dalla Serie B la stagione seguente a causa della ristrutturazione dei calendari. La soluzione migliore venne trovata il 12 agosto 1946, quando, dalla fusione delle due società, prese vita l'Unione Calcio Sampdoria. La maglia fu un perfetto gemellaggio cromatico tra il biancoblu doriano e il biancocerchiato della Sampierdarenese, mentre la voglia di stupire era quella di una debuttante per niente intimorita dal blasone degli ingombranti vicini del Genoa. Già nel 1946/47, la Sampdoria si aggiudicò infatti entrambi i derby. All'andata, sotto gli occhi del Presidente della Repubblica Enrico De Nicola, fu 3-0 con le reti di Pinella Baldini, Fabio Frugali e Gustavo Fiorini. 3-2, invece, al ritorno, in un Marassi semi-sommerso dalla pioggia. Miglior inizio non poteva dunque esserci per i blucerchiati, ormai destinati a scavalcare un Grifone sempre più in difficoltà. Tripudio doriano (5-1) anche nel campionato 1948/49, poi, due stagioni dopo, il colpo di grazia, con la doppia affermazione che condannò in pratica il Genoa alla seconda retrocessione.
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L'ATTUALE PATRON: Preziosi, il presidente del Genoa
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EMOZIONI
SENZA FINE C'è un dato che testimonia quanto fosse evidente il predominio cittadino blucerchiato in quegli anni. Tra il 1950/51 e il 1959/60, le squadre si incontrarono 16 volte in campionato. 7 volte vinsero i doriani, 7 volte finì in pareggio e solo 2 furono i successi genoani. Una supremazia corroborata anche dalle 7 volte su 8 in cui la Samp si piazzò davanti ai cugini in classifica. Del resto, quando le cose non vogliono girare non c'è niente da fare. Lo pensarono sicuramente i tifosi genoani nella gara di andata della stagione 1956/57. Grifone avanti di 2 reti e tutti pronti a festeggiare, finché non si scatenò la reazione doriana, con il provvisorio 2-2 siglato dagli assi Eddie Firmani e Ernst Ocwirk e l'autogol decisivo di Benedetto De Angelis a gettare nello sconforto il popolo rossoblu. Era un gran periodo, quello, per la Sampdoria. Nel 1960/61, con il già citato austriaco Ocwirk, con il geniale svedese Nacka Skoglund e con il bomber Sergio Brighenti, arrivò addirittura il quarto posto, miglior risultato mai conquistato fino ad allora, il tutto addolcito dalle difficoltà di un Genoa disperso in Serie B. Quando finalmente il Grifone tornò a vincere entrambi i derby (stagione 1964/65), ci si mise la malasorte ad accanirsi nuovamente sui colori rossoblu: Sampdoria 29 punti e salva, Genoa 28 e prima delle retrocesse. Ma l'euforia dei doriani durò poco, visto che, l'annata successiva, in B sarebbero caduti pure loro. Derby al calor bianco anche negli anni '70. Il Genoa, precipitato in una spirale di imbarazzante mediocrità con tanto di capitombolo in C, lanciò di nuovo la sfida ai cugini nel massimo campionato 1973/74. Quello che avrebbe dovuto essere l'anno
SFIDA STELLARE: Chi vince il Derby, fa festa a lungo...
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del riscatto rossoblu si trasformò invece nell'ennesima beffa: derby d'andata perso con un'autorete e ultimo posto in classifica sinonimo di retrocessione. Dall'altra parte, la goduria blucerchiata, con la Sampdoria che chiuse il campionato al penultimo posto e quindi destinata alla B, ma provvidenzialmente salvata dalle retrocessioni a tavolino di Foggia e Verona. Evidentemente è scritto nel destino che la rivalità tra Genoa e Doria riservi sempre dei colpi di scena. Come nel 1976/77. Stavolta furono i rossoblu a prendersi una clamorosa rivincita. Il 2-1 del ritorno firmato da Oscar Damiani e Roberto Pruzzo si rivelò determinante ai fini della retrocessione in B di Marcello Lippi e compagni. Storie di sfide e vendette incrociate. I derby, in fondo, sono anche questo.
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DESTINI
MANTOVANI E VIALLI: Icone del mondo Sampdoria
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OPPOSTI 22 ottobre 1978. Quinta giornata del girone d'andata del campionato cadetto. Il successo per 2-0 del Grifone firmato dalla doppietta del solito Damiani rappresentò l'ultima affermazione rossoblu prima di una serie negativa di 12 anni e 12 derby senza vittorie in competizioni ufficiali. Un blackout coinciso, non a caso, con il periodo più glorioso della Sampdoria, quello segnato dalla presidenza di Paolo Mantovani. Classe 1930, romano di nascita ma trapiantato da anni a Genova, fondatore di una società petrolifera e di una compagnia armatrice, subito disposto a investire nel club le "palanche" necessarie per inaugurare un'età dell'oro mai conosciuta prima sulla sponda blucerchiata del Bisagno. Grazie alle competenze del direttore sportivo Paolo Borea, di un valido allenatore quale "il sergente di ferro" Eugenio Bersellini e a una nidiata di campioni coltivata con cura e passione, il Doria conquistò il suo primo trofeo nell'estate 1985: la Coppa Italia soffiata in finale al Milan. Dopo il deludente undicesimo posto dell'anno dopo, Mantovani decise di puntare su un vecchio lupo di mare come Vujadin Boškov, allenatore jugoslavo già ex di Feyenoord e Real Madrid, pronto ad assecondare al massimo gli estri e le personalità dei suoi scudieri. Innanzitutto la straordinaria coppia di attaccanti Gianluca Vialli-Roberto Mancini, rispettivamente l'istinto goleador e il genio illuminante. Il portiere Gianluca Pagliuca, fisico poderoso e riflessi felini, che nelle giornate di grazia dava persino l'idea dell'invincibilità. Una difesa collaudata ad arte grazie all'intesa tra lo stopper Pietro Vierchowod, il libero Luca Pellegrini e i terzini Moreno Mannini e Amedeo Carboni. E poi, in mezzo al campo, la corsa e l'esperienza di Fausto Pari, dello spagnolo Víctor e del brasiliano Toninho Cerezo a garantire sacrificio e qualità. La scorpacciata di successi doriana fu solo una conseguenza. Nel 1988 ecco la seconda Coppa Italia, l'anno dopo arrivarono la convincente esperienza europea, con la finale di Coppa delle Coppe poi persa contro il più esperto Barcellona, e la terza coccarda tricolore, dopo uno schiacciante 4-0 al Napoli di Maradona e Careca. Ma la Samp poteva e voleva fare meglio. Acquistati nel frattempo altri due pezzi da novanta come lo scarsocrinito Attilio Lombardo, degno erede delle grandi ali destre italiane, e come il regista Beppe Dossena, i blucerchiati si ripresentarono in Coppa delle Coppe decisi al colpaccio. E ce la fecero, battendo in finale l'Anderlecht con doppietta di Vialli e regalando alla città di Genova il primo e unico trofeo continentale.
BOMBER PRUZZO: è diventato grande con il Grifone
SPECIALE / DERBY DELLA LANTERNA
CLASSIFICA Cannonieri All Time derby della LANTERNA #
Giocatore
Gol
SEGNATI CON
1
BALDINI
6
4 SAMPDORIA - 1 ANDREA DORIA - 1 GENOA
2
BASSETTO
5
5 SAMPDORIA
TREVISAN
5
5 GENOA
MILITO
4
4 GENOA
ISPIRO
4
4 GENOA
MANCINI
4
4 SAMPDORIA
BARISON
3
2 GENOA - 1 SAMPDORIA
CONTI
3
3 SAMPDORIA
DAMIANI
3
3 GENOA
EDER
3
3 SAMPDORIA
DA SILVA
3
3 SAMPDORIA
FIORINI
3
2 SAMPIERDARENENSE - 1 SAMPDORIA
PAVOLETTI
3
3 GENOA
ROSELLI
3
3 SAMPDORIA
TORTUL
3
3 SAMPDORIA
VIALLI
3
3 SAMPDORIA
4
7
* in grassetto giocatori in attività
La meravigliosa creatura di Mantovani, non ancora sazia, lanciò ora l'assalto allo Scudetto. E così, quel 1990/91 divenne l'anno magico per i cuori blucerchiati, con la cavalcata conclusasi in un soleggiato pomeriggio di maggio sul tappeto verde di Marassi. Samp-Lecce 3-0: Cerezo, Mannini, Vialli. Dopo 67 anni, Genova tornava sul trono d'Italia. “Questo Scudetto - scriveva sulla Gazzetta dello Sport del giorno dopo Candido Cannavò - ha qualcosa di diverso: è già nato bello, poi strada facendo è diventato bellissimo”. Il senso dell'impresa doriana era tutto lì.
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DALL'EUROPA
ALLA B E il Genoa? Il Genoa dovette suo malgrado abituarsi a condividere la scena con un vicino sempre più ambizioso e spavaldo. Non furono rari gli episodi di scherno di cui, a volte poco elegantemente, alcuni esponenti doriani si resero protagonisti. Come quella volta in cui mister Boškov si lasciò scappare un: “Perdomo? Se libero mio cane in giardino gioca meglio”, riferendosi a un poco felice acquisto uruguayano dei cugini. Mancini, addirittura, propose di cambiare nome allo stadio di Marassi: “Perché è intitolato a Luigi Ferraris? Era un genoano! È ora che cambi nome”, dimenticando però che Ferraris, oltre a essere stato un giocatore rossoblu, era anche un eroe di guerra insignito della medaglia d'argento al valor
IL PASSATO DI DAMIANI: Visto, con orgoglio, in maglia Genoa
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SPECIALE / DERBY DELLA LANTERNA
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IL GRANDE MANCIO Il genio che ha reso grande la Sampdoria
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militare. Insomma: la situazione per il Grifone non era per niente semplice, in quel periodo. Occorreva una scossa. Che arrivò, finalmente, proprio nell'anno 1990/91. Il presidente Aldo Spinelli, imprenditore attivo nel ramo dei trasporti, il tecnico Osvaldo Bagnoli, un tipo taciturno ma gran conoscitore di calcio, e una rosa all'altezza avevano confezionato una stagione in linea con il blasone e le aspettative del sodalizio rossoblu. Diedero una lezione ai cugini in uno dei derby più esaltanti di sempre, quello del 2-1 genoano griffato dalle prodezze del capitano Stefano Eranio e del brasiliano Branco, inframmezzate dell'ininfluente cucchiaio di Vialli su rigore. Così, a fine anno, Genova si ritrovò con la Samp campione e il Grifone al quarto posto, preludio ad una stagione di successi in campo europeo. Boškov e ciurma, dopo una marcia travolgente, approdarono in finale di Coppa dei Campioni, ma si arresero ancora una volta al più smaliziato Barcellona, mentre gli uomini di Bagnoli, in Coppa UEFA, dopo aver espugnato l'Anfield Road di Liverpool, cedettero solo in semifinale contro i futuri campioni dell'Ajax. Un viaggio nella gloria destinato a finire presto. Già dopo la finale di Wembley, Vujadin Boškov e Gianluca Vialli diedero l'addio alla Samp. Nell'ottobre 1993, ancora giovane, si spegneva Paolo Mantovani e così per i blucerchiati iniziò un lento declino sfociato nella malinconica retrocessione del 1999. Anche per i rossoblu il baratro era dietro l'angolo, visto che già alla fine del campionato 1994/95 erano condannati al ritorno in cadetteria.
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SPECIALE / DERBY DELLA LANTERNA
VIALLI E BOSKOV: Simboli di una Samp vincente
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LA SERENITÀ
SEMPRE AL MASSIMO: Il Derby si gioca fino all'ultimo...
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RITROVATA ♪♫Onda su onda, il mare mi porterà alla deriva, in balia di una sorte bizzarra e cattiva♫♪ cantava il genovese Bruno Lauzi. I flutti tempestosi del calcio del 2000 inghiottirono in pieno le speranze e le ambizioni dei tifosi rossoblucerchiati. Per anni, la Serie B rimase l'unico, modesto palcoscenico in cui le duellanti poterono sfidarsi. L'epoca d'oro dei pionieri genoani che dominarono l'Italia all'inizio del '900 e le imprese della sbarazzina e inarrestabile Samp di Paolo Mantovani erano ormai un ricordo lontano. Solo con la forza della tifoseria e grazie all'intervento dei Garrone, famosa dinastia di petrolieri, il cuore blucerchiato della città tornò a battere con orgoglio, fino a riconquistare la Serie A e, addirittura, la Champions League. Accadde nel 2010, quando le prodezze della coppia offensiva Antonio Cassano-Giampaolo Pazzini sembrarono far rivivere per un attimo le gesta dei "Gemelli del Gol" Vialli e Mancini. Il sogno svanì in un baleno, al playoff contro un indomabile Werder Brema, ma intanto il Doria è tornato stabilmente ad occupare un posticino al sole nel massimo campionato. Lo stesso vale per il Grifone, che con l'avvento di Enrico Preziosi, l'industriale dei giocattoli, da ormai una decina d'anni si è ripresentato a testa alta nella classe regina. Per ora ci si accontenta di un sostanziale equilibrio, con la salvezza come obiettivo minimo e qualche sporadica puntata europea. È un po' poco? Forse sì. Per ciò che rappresenta nella storia, una città come Genova, da sempre all'avanguardia, in cui è germogliata l'idea di un'Italia unita e così generosa nel dare al Paese personalità di spicco nel campo della cultura e dell'arte, meriterebbe di rivivere, anche nel calcio, il proprio sogno tricolore.
PAZZINI E CASSANO:Ad un passo dalla Champions League-
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record invincibili UN GRANDE BINOMIO
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Pellegrini con il Trap, duo vincente
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INTER
L’INTER DEL TRAP Con il Trapattoni alla guida, i nerazzurri compiono un’impresa leggendaria…
L’
di Francesco FONTANA dersi, alla fine della stessa, un numero. Eccezionale, clamoroso: 58. Ovvero il bottino totale in campionato, quota mai raggiunta da nessuno nei tornei con 2 punti a successo. Ben 26 affermazioni in 34 match, 6 pareggi e solamente 2 sconfitte, la seconda inoltre ininfluente al netto del titolo già matematicamente conquistato. 'Zenga, Bergomi, Brehme, Matteoli, Ferri, Mandorlini, Bianchi, Berti, Diaz, Mattheus, Serena'. Tempi diversi, un altro calcio. Totalmente. Si giocava con la marcatura a uomo. Lo Zio e Ferri stretti sulle punte avversarie, Mandorlini il libero staccato. Brehme, regista difensivo, fungeva da terzino fluidificante. Bianchi un po' il Candreva di oggi,
mentre Berti e Mattheus erano fenomenali nella doppia fase. Tanto mediani quanto micidiali incursori. Fondamentale anche Matteoli (una sorta di regista 'alla Pirlo'), con Serena punta centrale e Diaz che gli girava intorno. Poco da dire, che squadra. L'inizio non fu però semplicissimo. Parola proprio di Riccardo Ferri, uno dei 'titolarissimi': "A parte la striscia di sette vittorie consecutive, voglio ricordare quel campionato partendo con un episodio in particolare. E non propriamente positivo. A inizio stagione, era agosto, giochiamo contro la Fiorentina. Coppa Italia, campo neutro a Piacenza. Perdiamo. Prestazione deludente, brutto risultato. Tutti aspettavamo una sfuriata
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Inter dei record. Fortissima, con personalità e carattere da vendere, semplicemente indimenticabile. Nonostante le vittorie degli anni successivi. E che vittorie. Perché si parla dell'Inter di Mancini, imbattibile in Italia. Capace di dominare e porre le basi per lo squadrone di 'tutto'. Quello di Mourinho, artefice della vittoria totale, il Triplete. Quel gruppo, però, formato dagli 'uomini del Trap', è comunque riuscito a centrare un'impresa unica. Colmare il gap con le altre big che fino che a quel momento avevano dettato legge, compattarsi con il prosieguo della stagione e go-
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IL BIGLIETTINO DEL TRAP
Di Francesco Fontana Prima della stagione, il tecnico aveva scritto, su carta, i suoi desideri…
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iovanni Trapattoni. L'uomo di mondo, l'uomo di tutti. L'uomo che ha fatto bene ovunque, nonostante abbia lavorato in club importantissimi, leggendari, ma rivali tra di loro. E probabilmente, anzi, sicuramente, questo è stato il suo più grande successo: vincere e farsi voler bene da tutti. Mica facile. Come non facile fu la stagione dei record. Un'annata che, come spiegato da Riccardo Ferri, non partì nel modo migliore, con la caduta sul campo neutro di Piacenza in Coppa Italia a inizio stagione che mise a serio rischio la panchina del Trap. Sembrerà clamoroso, ma questa era la situazione in quel preciso momento. Non piacque infatti a Ernesto Pellegrini quella eliminazione nella seconda fase per mano della Fiorentina (3-4 il risultato finale), che quindi pensò a un cambio-tecnico immediato. Questo il grande 'rischio' che passò nella testa dell'allora presidente nerazzurro, ma per sua fortuna i 'senatori' si opposero (Giuseppe
Bergomi e Andrea Mandorlini in primis, seguiti a ruota da tutti gli altri leader). Una grande mossa, a dir poco. E c'è anche un retroscena che riguarda l'estate che portò al campionato del trionfo: Trapattoni preparò un bigliettino con una lista di giocatori che, a suo dire, avrebbero permesso all'Inter di conquistare lo Scudetto. Con tanto di chiosa finale: "Con questi acquisti il titolo sarà nostro". Detto, fatto. Via Alessandro Altobelli (in rotta totale con il tecnico, andò alla Juventus dopo undici anni in nerazzurro), ecco Andreas Brehme, Lothar Matthaus, Alessandro Bianchi, Nicola Berti e Ramon Diaz, arrivato quasi per caso dopo le visite mediche (con esito negativo) di Rabah Madjer, attaccante algerino soprannominato 'Il tacco di Allah'. Fortuna? Forse sì, ma solamente in questo caso. Per il resto, tante e grandi intuizioni. Tutte pianificate, scelte a tavolino. Volute e cercate fortemente. E quel bigliettino che il Trap conserva ancora oggi, beh... vale più di una reliquia. Perché come lui stesso ha ammesso in più di una circostanza, è proprio all'Inter che si è sentito allenatore al 101%, a 360°, nonostante arrivasse da una realtà eccezionale come quella della Juventus. Ma a Milano fu manager totale, con grande potere decisionale. E oggi quel foglietto di carta vale (quasi) quanto le immagini che ritraggono i giocatori in festa dopo il successo sul Napoli. Senza quelle poche righe, chissà, nulla di tutto ciò sarebbe diventato realtà.
UNA CAVALCATA TRIONFALE Di Francesco Fontana
Ecco tutti i risultati dell’Inter del Trap…
78
Partita
Ris.
Data
Partita
Ris.
09.10.1988
Ascoli-Inter
1-3
19.02.1989
Inter-Ascoli
3-1
16.10.1988
Inter-Pisa
4-1
26.02.1989
Pisa-Inter
0-3
23.10.1988
Verona-Inter
0-0
05.03.1989
Inter-Verona
1-0
30.10.1988
Inter-Roma
2-0
12.03.1989
Roma-Inter
0-3
06.11.1988
Inter-Sampdoria
1-0
19.03.1989
Sampdoria-Inter
0-1
20.11.1988
Como-Inter
1-2
02.04.1989
Inter-Como
4-0
27.11.1988
Inter-Cesena
1-0
09.04.1989
Cesena-Inter
1-2
04.12.1988
Pescara-Inter
0-2
16.04.1989
Inter-Pescara
2-1
11.12.1988
Milan-Inter
0-1
30.04.1989
Inter-Milan
0-0
18.12.1988
Inter-Juventus
1-1
07.05.1989
Juventus-Inter
1-1
31.12.1988
Lecce-Inter
0-3
14.05.1989
Inter-Lecce
2-0
08.01.1989
Inter-Bologna
1-0
21.05.1989
Bologna-Inter
0-6
15.01.1989
Napoli-Inter
0-0
28.05.1989
Inter-Napoli
2-1
22.01.1989
Inter-Lazio
1-0
04.06.1989
Lazio-Inter
1-3
29.01.1989
Atalanta-Inter
1-1
11.06.1989
Inter-Atalanta
4-2
05.02.1989
Inter-Torino
2-0
18.06.1989
Torino-Inter
2-0
12.02.1989
Fiorentina-Inter
4-3
25.06.1989
Inter-Fiorentina
2-0
Calcio 2OOO
foto Agenzia Liverani
Data
foto Agenzia Liverani
Brehme e Matthaus
foto Agenzia Liverani
INTER
TRAPATTONI e FERRI
Calcio 2OOO
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record invincibili del Trap, invece no. A sorpresa, a fine match, il mister tranquillizza tutti. Ma non solo. Riesce a darci la carica necessaria per quella stagione. Infatti da quel momento le cose cambiano. Il gruppo si unisce alla grande. E man mano abbiamo acquisito sempre più consapevolezza nei nostri mezzi".
IL TRAP
"Spesso si usa questa frase nel mondo del calcio: 'Giocare anche per l'allenatore'. Si sente fin troppo, anche a sproposito. Ma io voglio essere sincero. Lo pensavo e lo facevo veramente. Mi sentivo in debito nei confronti di Trapattoni. Lui scelse me e non Collovati. Dovevo dimostrargli che aveva preso la decisione giusta. Non posso fare altro che ringraziare il mister. Grazie a lui ho fatto il salto di qualità come giocatore e come uomo".
I TEDESCHI
"Andreas e Lothar (Brehme e Matthaus, ndr) erano diversi rispetto agli altri stranieri che arrivavano in Italia in quel periodo. All'epoca non erano tantissimi, e la maggior parte di loro faceva molta fatica nella fase di adattamento al nostro calcio, ma loro no. Qualche difficoltà con la lingua, questo sì, ma niente di più. Riuscirono a contribuire in modo decisivo al salto di qualità della squadra".
I MOMENTI
"Il primo, come detto, la gara di Piacenza e il successivo discorso del Trap. Il secondo non è un episodio, bensì un cambiamento a livello psicologico. Con il passare dei giorni e delle settimane aumentava la consapevolezza di poter lottare ad armi pari contro quelle squadre che fino a quel momento ci avevano
LA PARTITA DA RICORDARE
Di Francesco Fontana Inter-Napoli, il momento dell’apoteosi…
C
ome spiegato dallo stesso ex difensore di Crema - uno che ha l'Inter nel cuore - fu quello contro il Napoli del 28 maggio 1989 il match della storia. Vantaggio di Careca al 36' con un tiro potente che batte Zenga all'angolino, ma la fortuna, proprio nel giorno più importante, non può voltare le spalle. Nella ripresa conclusione di Berti, deviazione di Fusi, traiettoria improvvisa e Giuliani battuto: è 1-1, palla al centro. Più tardi, dopo il sospiro di sollievo di un 'Meazza' tutto esaurito (palo di Careca, ancora lui), ecco la svolta. Una svolta che parla tedesco. Minuto 39. Punizione dal limite, sul pallone c'è Brehme: la barriera si muove in anticipo, tutto da rifare. Stesso copione al secondo tentativo, la terza tocca a Matthaus. L'ex Bayern Monaco parte forte sferrando un destro preciso e rabbioso che si insacca nell'angolino alla destra di Giuliani. È apoteosi Inter, lo Scudetto dei record è tuo. Dieci anni dopo l'ultima volta, il popolo interista può festeggiare e applaudire quella squadra. Forse non la più forte della storia nerazzurra, ma sicuramente quella che era, è e resterà l'Inter del Trap. L'Inter dei record. Per sempre.
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Calcio 2OOO
IL TABELLINO DELLA GARA
INTER-NAPOLI 2-1 INTER: Zenga; Baresi (46' A. Bianchi), Ferri, Mandorlini; Bergomi, Brehme; Matteoli, Berti, Matthäus; Diaz (89' Verdelli), Serena. All.: Trapattoni. NAPOLI: Giuliani; Corradini, Francini, Renica, Crippa; Alemão (73' Bigliardi), Fusi, De Napoli; Careca, Maradona, Carnevale. All.: Bianchi. Reti: 36' Careca (N), 49' aut. Fusi (I), 83'Matthaus (I) Arbitro: Agnolin
messo in difficoltà. E mi riferisco al Milan di Sacchi, non un Milan qualsiasi, alla Juventus e al Napoli di Maradona. Il terzo, beh... inevitabile pensare alla partita proprio contro il Napoli. Quel match rappresentò il coronamento di un sogno".
LA STORIA
"Ovviamente è un orgoglio per noi essere entrati nella storia, non solo dell'Inter, ma in quella del calcio italiano in generale. Credo però che sia sbagliato fare dei paragoni con le squadre di Mancini e Mourinho. Qualitativamente parlando noi eravamo inferiori. Avevamo undici titolari più un paio di giocatori, massimo tre, dello stesso livello. Non c'era una panchina così lunga ed era difficile giocare in più competizioni. Spesso eravamo costretti a giocare con problemi fisici e a stringere i denti. Fu un'annata massacrante, ma per fortuna meravigliosa".
INTER
IL CAPOLAVORO DEL TRAP
foto Agenzia Liverani
All'Inter ha creato un gruppo formidabile e inarrestabile
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S
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DOVE SONO FINITI PURO TALENTO
foto @FDLCOM
Tante squadre, mai la vera consacrazione
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Calcio 2OOO
Luis Jiménez
Il Mago d’Arabia
I
foto Morini
Intervista a Luis Jimenez, tanti anni in Italia, che ha trovato una seconda giovinezza tra Emirati e Qatar. di Sergio STANCO
n Italia ha fatto bene, ma forse al di sotto delle sue reali possibilità. D’altronde da uno che in Patria avevano soprannominato “El Mago”, ci si aspetta sempre qualcosa fuori dall’ordinario. E se non sempre Luis Jimenez ci è riuscito, forse è anche per colpa di una situazione un po’ surreale nella quale, suo malgrado, si è trovato invischiato. In ogni caso, i tifosi di Fiorentina, Inter, Parma, Cesena si sono comunque goduti alcune delle sue mirabolanti giocate, poi è toccato a Dubai e ora sarà il Qatar a beneficiarne. Anche se “El Mago” non ha dimenticato l’Italia e da noi ci tornerebbe molto volentieri… Partiamo proprio dall'inizio: come sei arrivato in Italia? “Ero giovanissimo, avevo solo 18 anni e sono venuto per fare un provino. Alla fine l’ho fatto alla Ternana e al Parma e sono tornato a casa con due contratti (ride, ndr). Dovevo solo decidere dove andare. Il Parma ai tempi aveva una rosa eccezionale, c’era gente come Almeyda, Taffarel, Lamouchi e trovare spazio non sarebbe stato facile. In più l’offerta della Ternana era superiore, perché il Parma aveva già qualche problema economico e infatti dopo sono falliti. Alla fine scelsi la Ternana, anche se era in Serie B, perché ho pensato che sarebbe stato meglio per la mia carriera, avrei potuto giocare di più e fare un po’ di esperienza in un calcio difficile come quello italiano”. Invece è stato l’inizio del tuo incubo… “All’Italia mi legano tanti ricordi, molti molto belli, altri meno, ma sinceramente non vale la pena rivangare il passato. Fintanto che a Terni c’erano Agarini e Capozzucca sono stato bene, poi quando è cambia-
ta proprietà ho avuto qualche problema. Ho girato molto in prestito e pur facendo bene e avendo molte richieste, non sono mai riuscito a trovare una soluzione definitiva. Tuttavia, non ho rimpianti, magari ho sbagliato qualche scelta, questo non lo nascondo, ma altre volte mi sono trovato in situazioni in cui ero sopraffatto dagli eventi e qualcun altro decideva la mia vita”. Fino a quando nel 2011, a 27 anni, prendi una decisione drastica… “Sì, ero ancora in ballo per trovare una sistemazione, da Terni non riuscivo ad avere risposte e allora ho deciso di liberarmi con l’Articolo 17. Solo che se ti avvali di questa regola, devi cambiare federazione. In Europa il mercato era chiuso e allora ho deciso di trasferirmi negli Emirati. Non mi pento della scelta, perché a Dubai sono stato bene e abbiamo raggiunto grandi traguardi, ma certo la Serie A era un’altra cosa…”. Nostalgia del nostro paese e del nostro campionato? “Tanta, perché del vostro paese mi piace tutto: le città, lo stile di vita e ovviamente il calcio. Appena posso ancora oggi torno in vacanza, perché ho lasciato tanti amici, persone che mi sono state vicino nei momenti difficili e che non dimenticherò mai”. E allora perché non tornare? “Beh, ci fosse la possibilità non me la lascerei sfuggire, ma ormai a 32 anni, e senza passaporto comunitario, è praticamente impossibile. Le società acquistano solo per fare affari e poi rivendere, chi se lo prende un vecchietto come me (ride, ndr)?”. Tornando alla tue esperienza da noi:
In Italia ho girato molto in prestito e pur facendo bene e avendo molte richieste, non sono mai riuscito a trovare una soluzione definitiva c’è qualche rimpianto, qualche errore che non rifaresti? “Non mi guardo indietro e sinceramente non li chiamerei rimpianti, ma se potessi tornare indietro probabilmente non lascerei la Fiorentina. Nel 2006 Prandelli mi ha fortemente voluto a Firenze e con lui avevo un grande rapporto, credo che sia uno dei migliori tecnici che io abbia mai avuto, a fine anno sarei dovuto rimanere, invece ho deciso di cambiare aria. Col senno di poi è stato un errore”. A proposito di tecnici, tu sei stato allenato anche da un certo Mourinho… “Un fenomeno, una persona eccezionale, che ha un carisma fantastico, di lui parlano male solo gli avversari (ride, ndr). Vi racconto un aneddoto: dopo la prima stagione all’Inter c’erano molte voci sul mio conto, lui mi convocò nel suo ufficio, chiuse la porta e mi disse: “Non stare a
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DOVE SONO FINITI VISTO OVUNQUE
Ibra? Il giocatore più forte con cui io abbia mai giocato. Il carattere? Io non ho mai avuto problemi, ma solo perché gli stavo simpatico
In Italia ha indossato diverse casacche...
leggere i giornali, tu non vai da nessuna parte. Conto molto su di te”. In quel momento mi sono sentito apprezzato come mai in tutta la mia carriera. Un allenatore e un uomo straordinario”.
All’Inter l’apice della tua carriera, con due scudetti (2008-2009) e una Supercoppa italiana (2008), ma poi? “Poi succede che torno a Terni convinto che i nerazzurri mi riscattassero, invece la Ternana mette di più nella busta e riscatta la comproprietà. Da lì al Parma, poi al Cesena, fino a quando non ho deciso di andare a Dubai. All’Inter sono stato benissimo e pur di andarci avevo rinnovato il contratto con la Ternana, cosa che poi mi è costata carissimo. Però era un’opportunità troppo importante, sognavo un grande club fin da quando ero partito dal Cile e andando a Milano ho coronato il mio sogno”. Il momento più bello della tua carriera? “Sicuramente la convocazione in Nazionale, che era il sogno di quando ero ragazzino. Quelle sono emozioni che mi resteranno dentro, che non dimenticherò mai”. A proposito del Cile, qualche rimpianto per non essere stato protagonista delle due vittorie in Coppa America?
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Calcio 2OOO
foto Image Sport
In quell’Inter c’era anche un certo Ibra… “Un altro fenomeno, il giocatore più forte con cui io abbia mai giocato. Il carattere? Io non ho mai avuto problemi, ma solo perché fortunatamente gli stavo simpatico. Non vorrei mai essere nei panni di uno che gli sta antipatico, perché ho visto cosa rischiano… (ride, ndr)”.
Ci poteva stare anche Jimenez? “Ci poteva stare, ma non c’ero (ride, ndr), anche perché c’era un gruppo di giovani molto forti. Si è alzato il livello, anche grazie a gente come Sanchez e Vidal. Ora sono in tanti a giocare in grandi squadre, a fare esperienza in campionati importanti, mentre ai miei tempi non era così. In ogni caso, non sono uno che tifa contro, anzi, mi sono messo la sciarpa e ho sostenuto i miei connazionali, esultando come un matto quando abbiamo vinto”. Hai citato Vidal, forse il miglior calciatore cileno in assoluto e uno dei
migliori centrocampisti al mondo: sei d’accordo? “Certo che sì, Arturo è un vero “animale” (ride, ndr). Io ho giocato con lui in Nazionale ancora ai tempi del Leverkusen e già allora lui si era messo in testa di diventare uno dei migliori al Mondo. Qualcuno lo prendeva per pazzo, ma la fiducia che aveva nei suoi mezzi e la sua grinta erano già eccezionali a quei tempi. Alla fine ha avuto ragione lui, ma io non ho mai avuto dubbi, perché vedevo la sua determinazione e la sua voglia di arrivare”. Com'è la vita tra Dubai e Qatar? E il li-
Luis Jiménez
POTEVA DARE DI PIù Classe infinita, gli è mancata un po' di continuità
foto @FDLCOM
A Dubai sono molto organizzati, il livello del campionato è buono e si vive benissimo. In Qatar si vive bene ma sono indietro rispetto a Dubai
vello dei campionati? “A Dubai sono molto organizzati, il livello del campionato è buono e ovviamente si vive benissimo. In Qatar si vive altrettanto bene, ma il livello e le strutture non sono come quelle di Dubai, c’è ancora molto da lavorare”. Sono già pronti per i Mondiali? Il caldo sarà un fattore? “No, non sono pronti e sinceramente
non so come faranno. Credo che avranno qualche difficoltà. Il caldo poi sarà un grande problema perché qui ci sono temperature assurde d’estate. A me sembra impossibile si possa giocare, ma vedremo…”. Tornando a te: hai già deciso cosa fare da grande? “Ma no, dai, sono ancora piccolo (ride, ndr). L’idea è giocare ancora qualche
anno, ora vedo come va qui in Qatar e se no andrò altrove. Poi, ovviamente, l’obiettivo è di rimanere nel mondo del calcio, ma sinceramente non so ancora in quale veste. Al momento non ci ho ancora pensato seriamente, perché credo di poter fare ancora qualche anno da calciatore a buoni livelli”. Appunto. E se qualcuno in Italia avesse bisogno di un 32enne cileno ancora in grado di fare magie, basta un fischio…
LA carriera di LUIS Jiménez
foto Morini
Stagione
Squadra
PRESENZE
RETI
2002-2003
Ternana
8
1
2003-2004
Ternana
34
10
2004-2005
Ternana
35
12
2005-gen. 2006
Ternana
16
3
gen.-giu. 2006
Fiorentina
19
3
2006-gen. 2007
Ternana
0
0
gen.-giu. 2007
Lazio
16
2
2007-2008
Inter
22
4
2008-2009
Inter
8
0
2009-gen. 2010
West Ham
12
1
gen.-giu. 2010
Parma
12
1
2010-2011
Cesena
32
9
2011-2012
Al-Ahli
30
15
2012-2013
Al-Ahli
31
17
2013-2014
Al-Ahli
34
11
2014-2015
Al-Ahli
37
17
2015-2016
Al Nasr
34
8
2016-2017
Al-Arabi
2
0
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L’ALFABETO DEI BIDONI IAN RUSH
di Fabrizio PONCIROLI
Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
IAN, IL GALLESE SFORTUNATO
S
Chiamato a raccogliere l’eredità di Platini, Rush delude le aspettative…
arebbe ingiusto definire Ian Rush un bidone del calcio. Stiamo parlando di una leggenda vivente, di uno che, con la casacca del Liverpool, ha vinto da protagonista, una sfilza di trofei da far rabbrividire, comprese due Coppa dei Campioni. Rush è stato un bomber eccezionale, capace, nella magica stagione 1983/84, quella dell’indimenticabile Triplete dei Reds (campionato inglese, Coppa di Lega e Coppa Campioni), di segnare la bellezza di 47 gol in 65 gare stagionali. Numeri da urlo. Oggi è sulla bocca di tutti la prolifica MSN (Messi, Suarez e Neymar) del Barcellona ma, negli anni ’80, il duo Rush-Dalglish era altrettanto straordinario: “Kenny (Dalglish, ndr) era un giocatore eccezionale. Non correva, non pensava… Non ho idea di cosa facesse ma so che era speciale. Lui mi gridava sempre: ‘Quando ho la palla, corri e cerca di arrivare in tempo… e la palla arrivava’… La gente, 88
Calcio 2OOO
spesso, mi dice se la nostra relazione fosse telepatica. Penso che fosse così, per il fatto che non capivo metà delle cose che mi diceva”, le parole di Rush al The Sun sul suo grande compagno di squadra ai tempi del Liverpool. Insomma solo lodi per Rush, a parte la sua parentesi italiana. Abituato alle grandi sfide (penultimo di dieci fratelli), all’inizio della stagione 1986/87, annuncia al popolo dei Reds che, al termine dell’annata, lascerà Anfield per una nuova avventura: la Juventus. La delusione dei tifosi del Liverpool è enorme, ma Ian li ripaga con un’altra stagione meravigliosa, con 40 gol a referto, di cui 30 in campionato. Così, dopo sette anni di successi, lascia l’Inghilterra per la l’Italia. La Vecchia Signora, per strapparlo alla concorrenza, sborsa circa sette miliardi delle vecchie lire. Il gallese, al suo arrivo a Torino, viene accolto come una star. Da subito viene indicato come l’erede designato di Platini. Appunto, Le Roi… Nell’estate del 1987, quella in cui Michael Jackson lancia il singolo Bad, la Juventus
L’ALFABETO DEI BIDONI / IAN RUSH
L'ASSO DEL LIVERPOOL
foto Agenzia Liverani
Fenomenale con i Reds, non ha inciso a Torino...
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L’ALFABETO DEI BIDONI / IAN RUSH
IL RICORDO DI BODINI
LA CARRIERA DI RUSH
Di Fabrizio Ponciroli
foto Liverani
“Era un bravo ragazzo, con grandi doti, ma non si è mai ambientato”
L
uciano Bodini, nelle sue 11 stagioni bianconeri, dal 1979 al 1989, ne ha visti tanti di campionissimi. Il portiere ricorda perfettamente l’arrivo di Rush alla Juventus: “Platini non ne voleva più sapere di giocare e la società decise di puntare sul gallese. Appena arrivato, si è visto subito che era un grande giocatore. In allenamento, mostrava colpi importanti. Insomma, a mio parere, era un grande giocatore”. Eppure, nel suo unico anno alla Juventus, pochissime luci e tante ombre: “Ha sofferto tremendamente il passaggio dall’Inghilterra all’Italia. Non capiva la nostra lingua e, quindi, si sentiva un po’ spaesato. Ricordo che, come avevamo fatto per Brady, altro giocatore di lingua inglese, facemmo di tutto per aiutarlo. Soprattutto Pasquale Bruno, arrivato insieme a lui alla Juventus proprio quell’anno, cercò in tutti i modi di dargli una mano. Ian, tra l’altro, era anche un bravissimo ragazzo, molto disponibile ma non riusciva proprio a comunicare e questo lo frenava, sia fuori che dentro al campo”. Bodini ha una sua personale teoria sul fallimento del gallese: “Quando scendeva in campo, si vedeva che era spaesato. Al Liverpool era abituato ad un certo tipo di calcio, qui gli chiedevano di fare tutto, non solo i gol. Non giocava con lo spirito giusto, si vedeva che non era a posto con la testa. Infatti, a fine stagione, ha fatto di tutto per tornare in Inghilterra. Sono certo che, se fosse rimasto alla Juventus, superando il problema della lingua, avrebbe fatto davvero tanti gol. Lo ripeto, a livello di doti calcistiche, la Juventus aveva scelto bene. Purtroppo non è stato capace di ambientarsi nella maniera corretta”. 90
Calcio 2OOO
foto Agenzia Liverani
Luciano Bodini
Stagione
Club
Divisione
Presenze
Gol
1978–79
Chester City
Third Division
1
0
1979–80
Chester City
Third Division
38
17
1980–81
Liverpool
First Division
9
0
1981–82
Liverpool
First Division
49
30
1982–83
Liverpool
First Division
51
31
1983–84
Liverpool
First Division
65
47
1984–85
Liverpool
First Division
44
26
1985–86
Liverpool
First Division
56
33
1986–87
Liverpool
First Division
57
40
1987–88
Juventus
Serie A
39
14
1988–89
Liverpool
First Division
32
11
1989–90
Liverpool
First Division
48
26
1990–91
Liverpool
First Division
48
26
1991–92
Liverpool
First Division
31
9
1992–93
Liverpool
Premier League
42
22
1993–94
Liverpool
Premier League
49
19
1994–95
Liverpool
Premier League
50
19
1995–96
Liverpool
Premier League
29
7
1996–97
Premier League
43
3
Premier League
14
2
1997–98
Leeds United Newcastle United Sheffield United
First Division
4
0
1998–99
Wrexham
Second Division
24
0
1999–2000
Sydney Olympic
National Soccer League
3
1
1997–98
L’ALFABETO DEI BIDONI / IAN RUSH
UNA STAGIONE BUIA
foto Agenzia Liverani
In bianconero poche gioie e tanti momenti da dimenticare
dice addio a Platini. Il francese non ne ha più, ha voglia di fare altro. La Juventus cambia completamente faccia. Oltre a Platini, anche tanti altri salutano i colori bianconeri, gente come Serena, Manfredonia, Pioli, Briaschi, Caricola e Soldà. La dirigenza decide così di affidarsi, per la rifondazione, al gallese proveniente da Liverpool, sperando di rinverdire i fasti di Charles, altro gallese che, con la Juventus, aveva fatto faville. Lo stesso Charles si dice entusiasta dell’arrivo del connazionale: “Farà più gol di me”, dichiara senza paura di sbagliarsi. Si sprecano grandi elogi nei suoi confronti. Da “profeta” a “messia”, tutti sono convinti che Rush sia la scelta giusta. Per brindare al meglio l’accordo con i bianconeri, Ian decide di convolare a nozze con Tracey (il 3 luglio, a Flint). Il viaggio di nozze, alla Mauritius, pare gli sia stato regalato da Boniperti in persona. La neonata famiglia Rush sbarca a Torino con grande entusiasmo. L’inizio è in linea con le aspettative. Va in gol, regolarmente, nelle varie amichevoli estive. Segna pure alla prima ufficiale con il Lucerna poi, però, il 24 agosto, si infortuna contro il Lecce. È un problema muscolare di non poco conto: distrazione muscolare, con lesione di fibre superficiali al retto femorale sinistro, recita il bollettino medico. Resta così ai box per 40 giorni, proprio quando stava iniziando a carburare. Al rientro qualcosa si rompe. Il gallese pare un pesce fuor d’acqua. Non riesce ad ambientarsi, in particolare a livello culturale. L’italiano è una chimera tanto da arrivare a dichiarare, durante un’intervista rilasciata alla Repubblica, che “…l' unico con cui mi trovo è Laudrup, lui e la sua fidanzata parlano bene l' inglese, così Tracy e io non ci sentiamo mai soli”. Scende in campo, per difenderlo, Boniperti: “La nostra fiducia in lui è immutata. Non ci passa per la testa che il Rush italiano sia diverso, meno bravo di quello che giocava nel Liverpool. Le sue difficoltà sono quelle di tutte le punte straniere arrivate quest'anno”, le sue parole ai media di allora. Peccato che le altre punte straniere sbarcate in Italia
insieme a lui, i vari Gullit, Voller e Careca, di gol ne trovino a bizzeffe. Nonostante un carattere mite e una disponibilità verso il prossimo straordinaria, in antitesi con i modi di fare di Platini, Rush comincia ad isolarsi completamente dal resto del gruppo. Al di là di qualche sprazzo di pura classe e rabbia (come la doppietta rifilata al Pescara di Leo Junior), Rush non decolla. Al termine della sua prima travagliata stagione, il gallese entra in crisi. Non vuole più stare a Torino. Mentre la squadra inizia il ritiro pre stagione 1988/89 in quel di Bouchs, lui si rintana a Flynt, in Galles, la città in cui ha sposato Tracey. Si racconta di una forma acuta di varicella ma è la nostalgia il vero male che attanaglia Ian. Il gallese chiede a Boniperti di lasciarlo tornare al Liverpool. I buoni rapporti tra i due club portano alla buona conclusione della trattativa. Chiude così la sua deludente parentesi italiana con soli sette gol in campionato (in 29 presenze). Segna una doppietta al Pescara, va in rete contro Avellino, Empoli e Napoli ma è con il Torino che si scatena. Segna nel derby d’andata il gol, in collaborazione con il difensore granata Rossi, del definitivo 2-2 e, al ritorno, trova all’88’, il guizzo che regala la vittoria ai bianconeri (2-1). Non contento, nello spareggio di fine stagione per andare in Coppa Uefa, proprio contro il Toro, è lui a segnare, durante la lotteria dei rigori, il penalty della vittoria. Da ricordare, nella sua breve avventura bianconera, anche la quaterna rifilata, in Coppa Italia, al Pescara di Galeone (alla fine, in Italia, chiuderà con 39 presenze e 14 gol totali). Lampi del vero Rush, quello che, al suo ritorno al Liverpool, torna a splendere, a suon di gol e trofei. Eh sì perché, Juventus a parte, Rush ha sempre dimostrato di essere un attaccante di primissima fascia. Peccato, fosse rimasto un altro anno alla Juventus, magari avrebbe ingranato… Ma la Juventus, al termine della nefasta stagione 1987/88, aveva già trovato il suo sostituto: un certo Zavarov… Ma questa è un’altra storia, con un esito ancor più disgraziato.
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STORIA PARTITE DA RICORDARE
di Thomas SACCANI
foto Agenzia Liverani
Mostruosamente FORTE
Arrigo Sacchi e Silvio Berlusconi
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Una delle partite più esaltanti dell’era Sacchi: Real Madrid umiliato…
pochi giorni dalla partita, arriva un messaggio, comune, da parte dei Milan Club: “… Invitiamo tutti i tifosi milanisti, ad indossare, in occasione del match di ritorno con il Real, un capo d’abbigliamento di colore rosso oppure nero o di portare una sciarpa o una bandiera… Perché se il Bernabeu è stata una bolgia, San Siro deve essere un inferno!”. A due settimane dall’impresa del Bernabeu (1-1 il finale), il Milan di Sacchi ospita il Real Madrid. In palio un posto
nella finalissima di Coppa Campioni. Nonostante la “lezione” subita tra le mura amiche, Beenhacker crede nelle qualità del suo Real: “Noi dobbiamo segnare un gol, questo è chiaro, ma siamo sempre stati capaci di farlo in tutte le precedenti trasferte di Coppa”, le parole del tecnico dei blancos. È il 19 aprile 1989, a Milano si respira una gran voglia di festa. Rispondono in 73.112 alla “chiamata alle armi” in un San Siro più simile ad un cantiere che ad un impianto di calcio, complici i lavori di ristrutturazione in vista di Italia 1990. La voglia di volare in finale di Coppa Campioni è tanta, anche perché, segue a pag. 96
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UN MILAN STELLARE
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Anche il Real non può nulla contro la miglior squadra d'Europa
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STORIA / PARTITE DA RICORDARE
“NOI ERAVAMO UNA SQUADRA”
LA RESA DEL BIONDO
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Di Thomas Saccani Giovanni Galli non ha dubbi: “Loro dei campionissimi ma non giocavano coralmente”
Di Thomas Saccani A San Siro si compie il fallimento di Schuster
n porta, in quel Milan che disintegrò il Real Madrid delle tante stelle, Butragueno e Hugo Sanchez in particolare, c’era Giovanni Galli: “Quella è stata una delle più grandi partite dell’era Sacchi. Abbiamo vinto 5-0 ma non è stata così facile come potrebbe sembrare. Venivamo dall’1-1 del Bernabeu. Un buon risultato ma anche pericoloso. Poi, però, in campo non abbiamo sbagliato nulla. Eravamo concentrati, sapevamo quello che dovevamo fare e l’abbiamo fatto”. L’ex portiere rossonero sottolinea i pregi di quello strepitoso Milan: “Noi eravamo una squadra mentre loro erano dei campionissimi che non giocavano in maniera corale. Il merito va soprattutto a Sacchi. Esprimevamo un gioco nuovo, diverso che, probabilmente, ha mandato in tilt le certezze di quel Real Madrid e non solo, visto che, alla fine, abbiamo portato a casa anche la finale”. Galli non ha dimenticato l’incredibile atmosfera vissuta all’entrata in campo: “San Siro non era colmo ma di più… C’erano più persone di quante ne potessimo immaginare. Una cornice eccezionale che ci ha dato una spinta importante per vincere. Comunque, fino al gol di Gullit (3-0, ndr) non la sentivo ancora chiusa la partita”. Ripensando alle tante vittorie dell’era Sacchi, l’ex numero uno ha una sua personale visione: “Non ho ancora capito se sono state le vittorie a darci tante certezze o le nostre certezze a portarci tante vittorie. Resta il fatto che abbiamo vinto tanto, proponendo un gioco nuovo e mai visto prima, su questo non ci sono dubbi”.
n Spagna, il popolo del Real, credeva nella remontada. Troppi i talenti in rosa per non crederci. San Siro poteva essere espugnato. Beenhacker, si racconta, aveva riposto grande fiducia soprattutto in uno dei suoi uomini guida, ossia Bernhard Schuster. Il tedesco, pagato a peso d’oro (allora percepiva uno stipendio pari a tre milioni di vecchie lire al giorno, uno sproposito), doveva essere l’uomo in grado di “svegliare” il Real. Di fronte, un altro classe 1959, ossia Carletto Ancelotti, chiamato, tra l’altro, a prendere il posto di Evani infortunato (quindi obbligato a giocare in una posizione diversa rispetto al solito). La storia racconta che, in quella partita, Schuster fu fallimentare mentre Ancelotti fu l’eroe di serata, con pure la gioia del primo gol del match. Schuster, dopo la insipida prova a San Siro, di fatto, divenne un problema al Real Madrid (venne salutato, senza lacrime, al termine della stagione seguente). Tanti insulti e poche partite per un giocatore di cui, un anno prima, si era tanto parlato in ottica mercato, con diversi accostamenti alla Juventus. La sconfitta di Schuster fece da contraltare all’esaltazione di Ancelotti. Dato per finito al suo arrivo al Milan (1987) ma voluto da Sacchi a tutti i costi, Carletto confermò, in quella partita, di essere un giocatore unico, capace di fare la differenza in campo, anche se non più al meglio della condizione fisica. IL TABELLINO DELLA GARA
MILAN – REAL MADRID 5 - 0 MILAN G.Galli, Tassotti, P.Maldini, Colombo (64’ F.Galli), Costacurta, Baresi, Donadoni, Rijkaard, Van Basten, Gullit (56’ Virdis), Ancelotti. Allenatore: Sacchi.
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REAL MADRID Buyo, Chendo, Gordillo, Michel, Sanchis, Gallego, Butragueno, Schuster, Hugo Sanchez, Martin Vasquez, Paco Llorente. Allenatore: Beenhakker Reti: 18’ Ancelotti, 25’ Rijkaard, 45’ Gullit, 49’ Van Basten, 59’ Donadoni. Arbitro: Ponnet (Belgio). Spettatori: 73.112.
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ANCHE FRANK
Tanti i fuoriclasse agli ordini di Sacchi, tra cui l'eclettico Rijkaard
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in campionato, il Milan è lontano dal vertice. A livello di uomini, Sacchi deve rinunciare ad Evani, k.o. in allenamento. Per stemperare la tensione, Mendoza, allora presidente del Real Madrid, va a pranzo con Berlusconi, numero uno del Diavolo. Lo stesso Cavaliere “avvisa” l’arbitro Ponnet: “Con il Real dovremo giocare con la stessa energia dell’andata e questo il Milan farà. Di diverso ci aspettiamo solo una conduzione arbitrale che non ci danneggi…”. Chiaro riferimento ai torti arbitrali subiti al Bernabeu. San Siro è, come richiesto dai Milan Club, caldissimo. C’è anche spazio alla commozione. Prima del fischio d’inizio, per ricordare le vittime della tragedia di Sheffield (la purtroppo tristemente nota Strage di Hillsborough), accaduta qualche giorno prima, la Curva Sud intona un toccante “You’ll Never Walk Alone”. Un momento da brividi, l’antipasto di una serata da consegnare ai posteri. Dopo un inizio di marca spagnola, il Diavolo torna a giocare divinamente, proprio come accaduto nell’incontro d’andata. La corazzata di Sacchi è straripante. Al 18’, è Ancelotti, uomo faro del Diavolo di Sacchi, a sbloccare il punteggio con un bolide che trafigge Buyo. L’1-0 non è ancora abbastanza per archiviare la pratica. Trascorrono 7’ e Rijkaard, su imbeccata di Tassotti, di testa firma il 2-0. Ma la mazzata definitiva arriva a pochi secondi dall’intervallo con un altro colpo di testa, questa volta di Gullit. Nella ripresa c’è spazio per festeggiare ancora con Van Basten e Donadoni. In meno di un’ora, cinque gol al Real di Butraguego e Hugo Sanchez. Il Real, di fatto, scompare dal campo, trafitto da ben cinque
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reti, tutte pesantissime… È la consacrazione del credo di Sacchi. L’esaltazione del popolo rossonero è incontenibile. Il Diavolo stacca il biglietto per la finalissima di Barcellona (che vincerà, con un secco 4-0, ai danni della Steaua Bucarest). Sacchi, stremato, nel post match, è comunque lucido nell’analizzare la prova dei suoi ragazzi: “È stata una bella vittoria, ottenuta contro una grandissima squadra. I primi 8/10 minuti eravamo un attimino lunghi e meno aggressivi di come avremmo dovuto essere. Superato quel momento abbiamo giocato alla grande. È un vero peccato che di partite così un allenatore ne viva così poche…”, commenta il tecnico della nuova era, vincente, rossonera. Più “duro” si dimostra Van Basten: “Il 5-0 non è troppo pesante, se avessimo giocato la ripresa con la stessa determinazione e forza del primo tempo, avremmo potuto segnare ancora”, racconta l’olandese, quasi a voler evidenziare lo strapotere del suo Milan. Il giorno seguente, i complimenti per il Milan si sprecano. Per la Gazzetta dello Sport è un “Milan Imperial”. Tuttosport racconta di un “Ciclone Milan”. I media spagnoli si concentrano sul fallimento di Beenhakker, indicandolo come il vero colpevole della debacle dei blancos. El Pais, quotidiano di Madrid, è lapidario: “El Madrid humillado en Milan”. A distanza di quasi 30 anni, la rovinosa sconfitta patita a San Siro è ancora ricordata, dai tifosi del Real, come una delle batoste peggiori della gloriosa storia del club. Tutto il contrario per il popolo rossonero che non ha mai dimenticato e mai dimenticherà la grande impresa del 19 aprile 1989…
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Sempre attivissimo sui social la bandiera della Juventus. Ci sta facendo capire che sta lavorando ad un video nuovo.
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Rimaniamo in Premier con questo scatto divertente in famiglia dell'attaccante e capitano del Manchester United Rooney.
CANNAVARO In qualche parte nel mondo il capitano della Nazionale Campione del Mondo 2006 si dedica alla brace.
Il DJ/Speaker di RTL 102.5 Carlo CARLETTO Nicoletti seguirà i profili Instagram e Twitter dei giocatori più importanti del pianeta Calcio e ci segnalerà le foto e i tweet più divertenti e particolari. Segnalate quelle che magari potrebbero sfuggirgli scrivendogli al suo profilo Instagram e Twitter: @carlettoweb
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