Calcio2000 n.229

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Bimestrale

Calcio

AGO SET

2OOO diretto da Fabrizio Ponciroli

3,90€

BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50

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intervista esclusiva conti

“HO TANTI SOGNI, ANCHE AZZURRI” ESCLUSIVA ESCLUSIVA ESCLUSIVA DOVE SONO FINITI?

iESCLUSIVA GIGANTI DEL CALCIO

MARCO NAPPI

MARCO AMELIA

“La foca? Ancora se la ricordano”

FELIPE

“Sogno l’Udinese in Europa”

“Non penso a ritirarmi”

ALFABETO DEI BIDONI Nelson Vivas The Kicking Machine

ESCLUSIVA REPORTAGE

IL RACCONTO DA CARDIFF

SPECIALE ESCLUSIVA

MUNDIAL 1982

“35 anni fa, l’impresa La finale vista dal vivo... in Spagna”

SPECIALE MAGLIE STORICHE La casacca del Celtic

GARE DA RICORDARE La cinquina di Klose


SOMMARIO

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Calcio2OOO

Anno 20 n. 4 Agosto – Settembre 2017 ISSN 1126 105009 70229

BOCCA DEL LEONE 4 LA di Fabrizio Ponciroli CONTI 6 ANDREA INTERVISTA ESCLUSIVA di Fabrizio Ponciroli

LA PANCA 52 SOPRA ALLENATORI FUORI DI TESTA

di Luca Savarese

AMELIA 60 MARCO I GIGANTI DEL CALCIO di Francesco Fontana

Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 10/07/2017 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246

EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872 DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello Diretto da Fabrizio Ponciroli

16 ATALANTA Dietro al miracolo SPECIALE

di Fabrizio Ponciroli

20 FELIPE INTERVISTA ESCLUSIVA di Fabrizio Ponciroli

TESTIMONE 70 ÁLVAREZ: DELLA STORIA SPECIALE INTERVISTA di Luca Gandini

E IL GOL 76 COSTACURTA A 41 ANNI

RECORD DA RICORDARE di Luca Savarese

di Sergio Stanco

36

MUNDIAL1982: Campioni del Mondo SPECIALE

Hanno collaborato Sergio Stanco, Luca Gandini, Gianfranco Giordano, Luca Savarese, Francesco Fontana, Luca Gandini, Stefano Borgi, Thomas Saccani, Carletto RTL. Realizzazione Grafica Francesca Crespi

NAPPI 84 MARCO DOVE SONO FINITI?

Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview.

VIVAS 88 NELSON L’ALFABETO DEI BIDONI

Statistiche Redazione Calcio2000

di Stefano Borgi

COPPA MALEDETTA 28 LA REPORTAGE

Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto, Francesco Fontana.

di Fabrizio Ponciroli

92

IL POKERISSIMO DI KLOSE GARE DA RICORDARE di Thomas Saccani

di Luca Gandini

44 CELTIC MAGLIE STORICHE

Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805 Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688

di Gianfranco Giordano

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SCOVATE DA CARLETTO RTL

Il prossimo numero sarà in edicola il 10 Settembre Numero chiuso il 30 giugno 2017


bocca del leone

la

MA QUALE PRIMAVERA? Signor Ponciroli, mi rivolgo a lei che so essere attento alle questioni nazionali. Ha visto la finale dello Scudetto Primavera? Ha vinto l’Inter. Tutti ad osannare la squadra di Vecchi. Bene, la metà della squadra nerazzurra che ha vinto è composta da giocatori stranieri. Non lo so ma è giusto? La Primavare dovrebbe forgiare giocatori italiani, non sempre e solo stranieri. Così è facile. Prendi i più forti e vinci, sono capaci tutti. A me non piace vedere tutti questi stranieri in campo. Nell’Inter dello Scudetto 89 c’erano Brehme, Matthaus e Diaz. Non mille stranieri. Spero mi risponderà sulla rivista che compro sempre. Antonio, mail firmata Argomento spinoso, caro Antonio… Mi conosci bene, confermo che sono a favore di squadre con sempre più italiani in campo. Sì, nell’ultimo atto, valido per lo Scudetto

Primavera, c’erano diversi giovani stranieri in campo (sia nell’Inter così come nella Fiorentina) ma accade ovunque. Sono giovani che si formano in Italia, di fatto, tra qualche anno, saranno arruolabili dalla Nazionale italiana. Non mi scandalizza, fa parte del nuovo mondo del calcio… Mi scandalizza veder spendere tanti soldi per giocatori stranieri di poco valore, questo sì mi infastidisce. Abbiamo avuto la conferma che, se gli diamo spazio, i nostri giovani sanno fare la differenza, anche a grandi livelli. Continuiamo a dargli fiducia… MILAN DA CHAMPIONS? Direttore, ho letto con interesse l’ultimo numero. Mi piace l’idea di raccontare sempre più storie di calcio. Ma ora le chiedo del mio Milan. Sembravano quattro gatti scappati di casa ma questi cinesi i soldi li hanno. Cosa ne pensa di questo nuovo Milan? A me convince, mi sembra che

ci sia un’idea buona alla base e si ascolta quello che vuole Montella. Secondo lei, Direttore, torniamo in Champions il prossimo anno? Filippo, mail firmata Grazie Filippo, i complimenti fanno sempre piacere… Allora, innanzitutto ricordiamo che, dalla stagione 2018/19, saranno ben quattro le squadre italiane che parteciperanno al massimo torneo europeo. Quindi, una possibilità in più, direi due visto che, ai preliminari, non siamo mai troppo fortunati. Inoltre, concordo… Il Milan si sta attrezzando per tornare ad essere un top club. Acquisti mirati e tanti giovani, un mix perfetto. Curioso di vedere all’opera André Silva. Ritengo che possa essere stato un grande affare… JUVE, TROPPA SICUREZZA Egregio Direttore, ho atteso diversi giorni per scriverle. Passa il tempo ma la

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di Fabrizio Ponciroli

mia delusione per la sconfitta a Cardiff no! Ho speso tanto, ci tenevo, sono andato a Cardiff sicuro che fosse la volta buona ma sono tornato deluso e amareggiato. Troppa sicurezza, non siamo stati umili a dovere. Ci hanno massacrato, nel secondo tempo non abbiamo più giocato. E’ dura da accettare, in Champions ci manca sempre qualcosa. E poi vedere quelli del Real festeggiare come se avessero vinto una Coppa Italia. Per noi sarebbe stato diverso. Sono deluso, molto deluso. Ho paura che sia vero: Higuain non è da finale. Stefano, mail firmata Andiamoci piano… La delusione, ovviamente, è stata tanta ma non dobbiamo dimenticarci della lunga strada che la Juventus ha fatto per arrivare a Cardiff… Non credo che il problema sia Higuain. Certo, non è fortunato nelle finali internazionali ma resta, a mio avviso, uno dei top attaccanti in circolazione e lo vorrei sempre nella mia squadra ideale. Vedrà che, con il passare del tempo, comincerà ad apprezzare il viaggio a Cardiff. Qualche giorno fa, guardando il film Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare, ho sentito questa frase di Jack: “Non è la destinazione ma il viaggio che conta”. Non credo sia stata una sua invenzione ma rende l’idea…

LETTERA A TOTTI Caro Francesco Totti, Così il 28 maggio non sarà solo ricordato per la finale tutta italiana di Champions League, che andò in onda a Manchester nel 2003 e che, ai rigori, vide il Milan prevalere. Il 28 maggio 2017 ci porta in dote il tuo canto del cigno. La Roma non avrà mai vinto una Coppa dalle grandi orecchie, ma stanne certo, ha visto ed amato te, il suo trofeo più prezioso di quella coppa. Si, Francesco dalle grandi orecchie, sempre pronte ad ascoltare le esigenze della sua squadra, fino all’ultimo, disposto anche a mettersi da parte, in panchina ma purché lei, la magica, fosse tranquilla così. Cose difficili da chiedere ad un fantasista, sempre pronto, quasi vocazionalmente, ad occupare il centro della scena. Cose scomode da dire ad un’icona del calcio. Patì sotto Ponzio Pallotta? Eppure tu non hai detto bè, ti sei messo da parte, hai accettato che giocassero altri, che scegliessero altri. Per il bene della tua amata, ti sei tirato indietro e questo atteggiamento è il tuo ultimo e più nobile lascito. Hai vinto scudetto, realizzato gol più caldi di un verso di Pablo Neruda, fatto dribbling che ancora i difensori mica si son ripresi e poi ecco la gemma finale, questo tuo silenzioso farti da parte, consapevole che solo recitando questa parte potevi forse contribuire al benessere della tua Roma. Dispendioso vincere uno scudetto, impegnativo risultare decisivo, difficile brillare, arduo stare a guardare le scene degli altri e sentire che ti preparano un red carpet mentre tu più che il carpet avevi ancora voglia del red e del giallo della tua Dieci in campo, pronta a benedire palloni e a sviluppare le stupite liturgie della tua classe. Grazie Francesco per il cucchiaio all’Olanda, grazie per quelle percussioni di dribbling prima del concerto di quel gol che suona ancora all’Olimpico al Toro, grazie per il tuo stile guascone ma sul pezzo, perché hai fatto vedere che si può essere terribilmente seri e grandemente ilari (l’Ilary nome, invece ti ha guidato e ti guiderà con la tua ciurma di bimbi, che squadrone capitano!) che quando sei chiamato in causa a volte è necessario tirare una mina come il rigore mondiale all’Australia e che quando non sei più coinvolto, devi rimanere signore, a bordocampo. Con un’unica maglia, che piano piano diventa veste, coperta, scudo e vita ed alla fine lettera da buttare giù e poi da leggere davanti a tutti, ma dedicata a ciascuno di quei tutti. Alla faccia di quelli che vanno di qua e di là. Di qua e di là hai portato noi, dentro quel tuo destro cucchiaio e sentenza, delizia ed ebrezza. Buona nuova vita, ora che le tue partite dureranno molto più di novanta minuti e che potrai giocare come fanno i bambini nei cortili d’estate, senza che nessuno ti dica basta. Un abbraccio Francesco

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intervista

Andrea Conti

Ragazzo d’oro, talento straordinario, il concorde dell’Atalanta ha spiccato il volo…

di Fabrizio Ponciroli

ANDREA, I CONTI TORNANO…

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N

el calcio moderno non è così scontato trovarsi di fronte un ragazzo tutto d’un pezzo, di quelli che ogni mamma vorrebbe come figlio… Andrea Conti, rivelazione dell’ultimo campionato con la casacca dell’Atalanta, è, senza dubbio alcuno, un giovane con principi veri, reali, autentici. Lo incontriamo a Bergamo, quella che è diventata la sua città adottiva, in una giornata di pioggia. Non è facile, per chi viene da fuori, orientarsi con i diversi divieti e limitazioni che contraddistinguono il centro città. Nessun problema, Andrea è ultra disponibile e ci scarrozza con grande disponibilità. Incredibile, quasi surreale… Scherza, racconta aneddoti sui compagni di squadra e si concede, senza filtri, come se non avesse nulla da nascondere. In effetti, non ha nulla da nascondere… È, esattamente, la persona che appare: determinato, pronto al sacrificio e con una sicurezza nei propri mezzi da spavento. Merito della famiglia e dei valori imparati nelle giovanili dell’Atalanta, una scuola, con la “s” maiuscola” per i giovani che ambiscono a fare, da grandi, i calciatori… L’intervista prende vita nel suo appartamento. Una chiacchierata tra vecchi amici: “Entrate e non fate caso al macello…”, ci spiega. Apriamo il libro dei ricordi… Come sei finito, da piccino, con un pallone tra i piedi? “Mio padre giocava a calcio, nel lecchese… Ha trasmesso la sua passione a me e a mio fratello, più grande di me”. Sei sempre stato un esterno o ti sei divertito, soprattutto da giovane, a ricoprire altri ruoli?

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intervista Andrea Conti

“Quando ho cominciato, ho fatto anche l’attaccante. Poi, arrivato all’Atalanta, ho fatto prima l’esterno di attacco poi anche il difensore centrale, il tutto nel giro di un solo anno. Infine sono stato posizionato da esterno basso, quella che è la mia posizione attuale”. Chi era il tuo idolo da giovane? “Del Piero è sempre stato il mio idolo. Sia come giocatore che come uomo”.

“Tutti dicono che la vita del calciatore è bella e frivola, non è affatto così. A 15/16 anni vedi i tuoi amici che escono e tu, invece, devi restare concentrato sul calcio” In che modo la tua famiglia ti ha supportato nel diventare un calciatore professionista? “Sarò sempre grato ai miei genitori per i tanti sacrifici che hanno fatto per me. Quando ero ancora piccolo, mi volevano tre squadre: Milan, Inter e Atalanta. Erano venuti tutti a parlare con mio padre che, alla fine, ha scelto l’Atalanta perché credeva nel progetto giovani della società orobica”. Una scelta azzeccata… Quale è stato l’attimo in cui hai capito che avevi le carte in regola per diventare un calciatore professionista? “Terminata una bella esperienza con la Primavera, mi sono affacciato al grande calcio con il Perugia (2013, ndr). Ero giovanissimo, lontano da casa, senza i miei genitori. Non è stato facile ma, appena ho iniziato a giocare, ho capito che quella era la mia strada”. A cosa hai dovuto rinunciare per coronare il tuo sogno? “A tanto… Tutti dicono che la vita del calciatore è bella e frivola, non è affatto così. A 15/16 anni vedi i tuoi amici che escono a divertirsi e tu, invece, devi restare concentrato sulla prossima

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Conti festeggiato dai compagni, ha appena segnato alla Juventus

partita. Quando sei un ragazzino, non è facile rinunciare a tutto questo. Ricordo che mi alzavo alle sette del mattino per andare a scuola e rientravo a casa alle otto di sera…”. Perugia prima, Lanciano poi… Tappa importante per la tua crescita, no? “Lanciano è stata una tappa decisiva per me. È stato il primo anno in cui ho giocato con continuità. L’ambiente era famigliare, mi sentivo a casa. Mi ha formato molto, sia come calciatore che come ragazzo”. Poi arriva la Prima squadra all’Atalanta… Cosa ti ha detto Gasperini la prima volta che ti ha incontrato? “Guarda, il Mister non è molto propenso per parlare a livello individuale. Preferisce sempre parlare al gruppo. Sapevo che era un tecnico molto preparato e che sapeva far crescere al meglio i giovani e, in effetti, così è stato (ride, ndr)”. Sarai d’accordo che, questa trionfale cavalcata dell’Atalanta, resterà negli annali per

sempre. Quando avete iniziato a credere veramente nell’Europa? “Se mi guardo indietro e ripenso a come abbiamo cominciato la stagione… L’inizio è stato molto difficile, abbiamo avuto tante difficoltà. Importante è stata la partita con il Napoli, all’andata (2 ottobre, vittoria Atalanta 1-0, ndr), in cui Gasperini ha deciso di mandare tanti di noi giovani tutti in campo insieme e da lì è partito il tutto…”. Parlando proprio di quella partita con il Napoli… Quando avete scoperto che avreste giocato voi al posto, diciamo così, dei titolari soliti? “Il giorno prima e, la conferma ufficiale, è arrivata alla rifinitura”. Tanti giovani che hanno permesso all’Atalanta di volare. Come è stato possibile? “Difficile rispondere… Sicuramente il fatto che, tra di noi, ci conosciamo da sempre, ha forse aiutato. Siamo cresciuti insieme, siamo amici da una vita. Forse questo ha

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intervista Andrea Conti

aiutato, c’è stata più voglia di sacrificarsi per l’altro, proprio perché siamo amici”.

“La più bella gara dell’Atalanta 2016/17? Credo la vittoria sul campo del Napoli. Poi se penso che Caldara ha fatto una doppietta…” Parliamo ancora di Gasperini: un suo pregio e un suo difetto… “Il suo pregio è sicuramente quello di credere ciecamente nei giocatori che ha a disposizione. Ti dà una grande fiducia, sa come stimolarti. Difetto? Mi metti in difficoltà (ride, ndr). Forse ha volte ti chiede tanto, troppo… Non è facile accontentarlo sempre”. Difficile il mestiere sulla fascia. Mi dici l’avversario che ti ha impegnato maggiormente ad oggi?

Una delle tante esultanze in maglia orobica per il funambolo Conti

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“Alex Sandro, l’ho sofferto tantissimo… Ha potenza fisica, tecnica e corsa. È una forza della natura”. Di tutte le partite disputate nella lunga cavalcata all’Europa, quale è stata la più bella?


UNA CARRIERA IN RAPIDA ASCESA

Si è consacrato all’Atalanta, punta alla Nazionale… “Credo che sia importante allenarsi sempre con la giusta concentrazione e determinazione. Se dai qualcosa per scontato, è la volta che inizi ad avere dei problemi”. Parola e musica di Andrea Conti, uno che, dal suo primo giorno con il pallone tra i piedi, non ha mai smesso di chiedere, da sé stesso, il 100%. Approda alle giovanili dell’Atalanta, per volontà del padre, giovanissimo. Cresce insieme a ragazzi che saranno poi suoi compagni di squadra nella splendida Atalanta griffata Gasperini. Nel 2013, a 19 anni, la società orobica decide di mandarlo, in prestito, in Lega Pro. Gioca nelle fila del Perugia, collezionando 16 presenze e tanta esperienza. Al termine della stagione 2013/14, importante salto di categoria: si trasferisce a Lanciano, compagine che partecipa al campionato di Serie B. Disputa ben 24 partite, trovando spesso spazio nell’undici titolare. L’Atalanta capisce che è giunto il momento di richiamarlo a casa e dargli la possibilità di fare la differenza con la casacca nerazzurra. Il 2 dicembre 2015, in Coppa Italia, fa il suo esordio con l’Atalanta (contro l’Udinese, allo stadio Friuli). Curiosamente, anche il suo esordio in campionato, il 6 gennaio 2016, è contro l’Udinese. Deve aspettare il 3 febbraio 2016 per mettere a segno la sua prima rete con gli orobici: accade sul campo del Verona (2-1 il finale, a favore dei gialloblu): “Un’emozione davvero forte, anche perché è stato il mio primo gol da professionista. Peccato che poi abbiamo subito la rimonta del Verona, con gol di Pazzini tra l’altro…”. Termina la sua prima annata in Serie A con 14 presenze e due reti (oltre al Verona, segna anche alla Fiorentina). Ma è la stagione 2016/17 quella della consacrazione. Gasperini gli consegna la fascia e lui ne fa un gran bell’uso. Gioca, di fatto, sempre titolare e mette a referto la bellezza di otto reti, compreso il gol che vale l’Europa, nell’1-1 casalingo con il Milan. Parallelamente dà il suo contributo all’Under 21, aspettando la chiamata in Nazionale, il suo nuovo, grande, obiettivo… Osservando con che rapidità sta bruciato le tappe nella sua lanciatissima carriera, l’Azzurro non dovrebbe tardare a lungo…

“Ce ne sono state tante… Credo la vittoria sul campo del Napoli (0-2, ndr). Poi se penso che Caldara ha fatto una doppietta (ride, ndr)”. A proposito di Caldara, è destinato a diventare un numero uno? “Sì, sicuramente. Penso che lui e Rugani siano molto simili. Faranno benissimo. Poi Caldara è anche uno che vede la porta. Farà benissimo alla Juventus”. E del Papu Gomez che ci racconti? “L’anima dello spogliatoio, il più divertente ma, in campo, uno davvero fortissimo. Fuori dal campo, impossibile non divertirsi con uno come lui”. Ultimamente va di moda lanciare giovani italiani in campo… “Sicuramente, negli ultimi anni, molti più giovani italiani hanno avuto spazio in campo. Credo che sia giusto. Se non dai la possibilità ad un giovane di giocare, come puoi

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intervista Andrea Conti

capire se è all’altezza della situazione?”. Un tuo ex compagno, Gagliardini, ha fatto una buonissima stagione con l’Inter. Ti aspettavi che potesse essere subito così decisivo? “Magari così decisivo no, ma sapevo che era pronto per una grande squadra. Ha grandi qualità e una personalità importante. Prima gli Europei con l’Under 21, ora l’obiettivo è la Nazionale? “È chiaro che è un mio obiettivo, normale che voglia indossare la maglia dell’Italia. Penso che sia un obiettivo di qualsiasi giocatore italiano”. Magari, un giorno, giocherai anche all’estero… “In Italia sto bene. Il calcio inglese non mi sembra adatto al mio modo di vedere il

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calcio. Mi vedo, al massimo, più in un campionato come la Liga, dove c’è più spazio per la tecnica”. Parliamo di Andrea fuori dal campo… Che altri sport segui? “Mi piace molto il basket NBA. Sono un tifoso dei LA Lakers che, purtroppo, in questo periodo non se la passano molto bene… Insieme a D’Alessandro, Gollini e Caldara, quando è possibile, cerchiamo sempre di vederci qualche partita”. è sempre LeBron James il più forte? “Io sono sempre stato un fan di Kobe Bryant, quindi non ho mai amato moltissimo LeBron, anche se, indubbiamente, è un fenomeno”. Il numero uno nel calcio, invece, chi è? Messi o CR7? Chi prenderesti dei due? “Cristiano Ronaldo. Messi è il top ma CR7


lo vorrei sempre nella mia squadra”. La tua vita sociale? Come impieghi il tuo tempo libero? “Esco spesso con i miei amici che, alla fine, sono i miei compagni di squadra all’Atalanta”. Dicono che sei un appassionato di moda… “Mi piace curarmi, tutto qui…” E videogames?

“Quando ci troviamo, solitamente giochiamo a Fifa. Personalmente gioco spesso a Call of Duty”. Quale giocatore italiano dovrebbe esserci nella tua squadra ideale? “Belotti, ha una fame incredibile e sa far tutto. È un attaccante completo, eccezionale. Tutto quello che ha combinato in campo, è solitamente merito suo”.

LA CARRIERA DI CONTI

Stagione Squadra Serie

2013-2014 2014-2015 2015-2016 2016-2017

Perugia Lanciano Atalanta Atalanta

Lega Pro B A A

Presenze

Gol

21 25 15 35

0 0 2 8

* Dati aggiornati al 27/05/2017

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intervista Andrea Conti

I GOL DI ANDREA IN SERIE A

Stagione

Partita N. gol

2015/16 Verona-Atalanta 1 2015/16 Atalanta-Fiorentina 1 2016/17 Sassuolo-Atalanta 1 2016/17 Chievo-Atalanta 1 2016/17 Palermo-Atalanta 1 2016/17 Atalanta-Crotone 1 2016/17 Genoa-Atalanta 1 2016/17 Atalanta-Bologna 1 2016/17 Atalanta-Juventus 1 2016/17 Atalanta-Milan 1 TOTALE 10

Appassionato anche di cinema? “Vado spesso al cinema, non ho un genere preferito. Mi è piaciuto molto ‘Famiglia all’improvviso – Istruzioni non incluse”. Poi ho seguito tutta la saga di Fast & Furious che mi è sempre piaciuta molto, soprattutto il personaggio di Vin Diesel”. Chiudiamo con i tuoi personali sogni sportivi… “Chiaramente, se posso sognare, mi piacerebbe vincere, un giorno qualcosa di importante come un Mondiale o la Champions League, anche se sono consapevole che si arriva a questi traguardi solo con il lavoro quotidiano… Spero di giocare in una grande squadra e di essere un punto fermo della Nazionale che verrà…”. L’impressione è che tanti sogni di Andrea potranno, presto, diventare realtà. Mentre usciamo dal suo appartamento per qualche foto per le vie della città, c’è tempo per qualche battuta fuori intervista. Scopriamo che ama ascoltare ogni tipo di musica e che, se potesse, andrebbe a più concerti possibili. Ci racconta di come sia impegnativo allenarsi

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“Più giovani italiani in campo? Giusto. Se non dai la possibilità ad un giovane di giocare, come puoi capire se è all’altezza della situazione?” con Gasperini, uno che “ti fa lavorare tantissimo, ogni giorno”. Dopo averci indicato dove vivono i suoi compagni di squadra a Bergamo, rende omaggio alla città: “Guarda, io sono di Lecco ma mi trovo talmente bene qui a Bergamo che non torna quasi mai a casa. Sono in debito con questa città”. Un ragazzo d’oro che non dimentica le sue origini… Buona fortuna Andrea!


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SPECIALE Atalanta

Progetti chiari, persone valide e un settore giovanile eccezionale…

di Fabrizio Ponciroli

DIETRO AL MIRACOLO

ATALANTA

L’

Atalanta ha conquistato l’Europa. Un traguardo eccezionale, figlio di una programmazione oculata. Una società sana, attenta, abile a costruirsi i campioni del domani in casa. Il patron Percassi, atalantino vero (dal 1970 al 1977 ha indossato la casacca orobica, con ben 100 presenze totali), ha creato, nel corso degli anni, una macchina perfettamente oliata. Ognuno sa cosa deve fare, nessuna improvvisazione. Con Gasperini alla guida, persona abilissima nell’esaltare i giovani,

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l’Atalanta ha spiccato, letteralmente, il volo, strappando anche il pass per l’Europa League. Tutto parte, tuttavia, dal settore giovanile, il cuore pulsante della società bergamasca. Ne abbiamo parlato con Favini, ex “comandante” del settore giovanili più florido d’Italia e tra i migliori in tutta Europa… Buongiorno Favini, domanda secca: è davvero il settore giovanile il segreto dell’Atalanta? “Certamente. L’Atalanta ha, da sempre, saputo valorizzare al meglio i giovani. Sia


quando ero presente io, sia ora che non ci sono più. Tutto è organizzato al meglio, con gente competente che sa perfettamente come insegnare ai giovani e come farli crescere, sia a livello calcistico ma, soprattutto, a livello umano”. Lei è stato, per circa 25 anni, il responsabile del settore giovanile atalantino… “E’ stato il presidente Percassi a volermi. Ora ho 81 anni (Favini è un classe 1936) e mi occupo d’altro ma, fino ad un paio di anni fa, ero ancora al mio posto, all’Atalanta. Guardi, Antonio Percassi è un uomo di grande esperienza e molto legato all’Atalanta. Sa come comportarsi, ha sempre fatto tutto per il bene dell’Atalanta e, soprattutto, ha sempre avuto un ruolo di riguardo per i giovani, anche perché lui, nell’Atalanta, ci ha giocato”. Un settore giovanile che, quest’anno, ha sfornato tantissimi giovani campioni. Anche un certo Conti…

quanti capolavori Difficile trovare, anche in Europa, una “scuola di talenti” degna dell’Atalanta. Ripercorrendo la storia del settore giovanile orobico si scovano tantissimi giocatori che, cresciuti nell’Atalanta, sono poi approdati a grandi club, lasciando, in diversi casi, anche il segno… Un vivaio estremamente fiorente che ha permesso all’Atalanta anche di incassare importanti cifre, sempre reinvestite sui giovani. Roberto Gagliardini (all’Inter per 25 milioni) e Mattia Caldara (15 milioni, ceduto alla Juventus), sono solo gli ultimi due di una lunga lista di talenti cresciuti a Bergamo. Tra i giocatori in attività, con una storia nel settore giovanile nerazzurro, abbiamo, ad esempio, Manolo Gabbiadini, Alberto Grassi, Davide Zappacosta, Giacomo Bonaventura, Giampaolo Pazzini, Daniele Baselli, Riccardo Montolivo, Simone Padoin, Andrea Lazzari e Andrea Consigli. Senza dimenticarsi di quelli che hanno già appeso le scarpe al chiodo ma, diciamo così, che hanno fatto qualcosa di buono nel calcio. Qualche nome? Luciano Zauri, Domenico Morfeo e Roberto Donadoni…

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SPECIALE Atalanta

“L’ho conosciuto che era un bambino, ora lo vedo correre in campo e fare la differenza. L’ho incontrato qualche giorno fa e gli ho consigliato di non alzare la cresta ma di sfruttare comunque al meglio il momento. Davvero un bel ragazzo…”. Ora si parla dei vari Conti e Caldara ma, dal settore giovanile dell’Atalanta, sono sbocciati fiori di campioni… “Vero, è sempre stato così. Penso ai vari Pazzini, Montolivo o Bonaventura, tanto per citarne qualcuno… Ma, stia sereno, l’Atalanta, grazie all’ottimo lavoro di chi gestisce ora il settore giovanile, ha già tanti nuovissimi campioncini pronti a farsi avanti. C’è continuità nel progetto. Ci sono, ad esempio, tanti giovani di qualità importante a livello difensivo che verranno presto fuori”. C’è un suo ex giocatore al quale è particolarmente legato? “Mi sento con quasi tutti i miei ex giocatori. Diciamo che con Matteoli (ex Inter, ndr) ci sentiamo spesso, anche se, all’Atalanta,

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Matteo e Antonio Percassi, il cuore pulsante dell’Atalanta

non ci ha mai giocato (ride, ndr)”. Comunque, sono felice per tutti coloro che, grazie anche agli insegnamenti avuti nel settore giovanile bergamasco, ce l’hanno fatta”. Ci racconta una sua giornata tipo da responsabile del settore giovanile dell’Atalanta? “Semplice, partivo da Meda, il mio paese, di mattina presto. Alle 9.30 ero a Zingonia


UN PROGETTO AMBIZIOSO L’Atalanta non resta con le mani in mano, neppure ora che la società è un punto di riferimento per tanti club, italiani e non… C’è da pensare al futuro, c’è da investire, soldi e risorse, sul nuovo stadio di proprietà. Grazie ad un’offerta da 8,6 milioni di euro, il lungimirante patron Antonio Percassi si è aggiudicato il vecchio Comunale. Ora che l’acquisto è diventato ufficiale, tutti al lavoro per dare vita, il prima possibile, al nuovo, avveniristico, impianto. La nuova casa dell’Atalanta ospiterà 24.000 spettatori e avrà molti punti in comune con i bellissimi ed accoglienti stadi inglesi. Si punta su una forma rettangolare con le curve che non saranno più nella consueta impostazione a semicerchio. Prevista una totale copertura, seggiolini in ogni punto e, ovviamente, niente barriere per vivere il calcio “dal vivo”. Non mancherà una sezione dedicata alla storia dell’Atalanta (un museo che possa far capire a tutti cosa è stata e cosa è la Dea) e, per rendere la vita allo stadio ancor più intrigante e divertente, diversi punti ristorazione. Il progetto è ambizioso: c’è la volontà di presentare il nuovo stadio, completamente rifatto, per la prima giornata della stagione 2020/21. Fattibile? L’Atalanta ha già dimostrato, nel corso della sua storia, di saper programmare il futuro al meglio…

e iniziavo gli appuntamenti con i responsabili delle società minori. Non ho mai voluto parlare troppo con società grandi, non era quello l’obiettivo. Poi, nel pomeriggio, stavo a guardare allenarsi i ragazzi, osservandoli e discutendo con gli allenatori”. Ma come si scopre se un ragazzino ha le carte in regola per diventare un giocatore importante? “Bisogna avere un po’ di occhio e tanta esperienza. Poi, certo, ci possono essere sorprese in positivo e in negativo ma, in generale, si capisce se un ragazzino può farcela. Fondamentale anche l’aspetto della famiglia e dei valori che si porta dietro”. A proposito di questo, Conti, come tanti giocatori cresciuti nell’Atalanta, ha tanta umiltà e valori sani e la testa sulle spalle… “Questo si cerca di fare all’Atalanta, è fondamentale far crescere i ragazzi nella maniera corretta”. Insomma, l’Atalanta ha un futuro roseo davanti a sé, giusto? “C’è un progetto chiaro, trasparente e la voglia di migliorarsi. La famiglia Percassi e lo staff dell’Atalanta hanno le idee chiare. La continuità non è mai venuta a mancare”. Se lo dice Favini, c’è da giurarci…

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intervista Felipe

Due chiacchiere con Felipe, il brasiliano che, a Udine, è diventato uomo e ha messo radici…

di Fabrizio Ponciroli

COME WOLVERINE, IMMORTALE…

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o attendiamo nello show room dell’Adidas in Corso Como, a Milano. Ha appena chiuso, purtroppo con una pesante sconfitta, la comunque più che positiva stagione 2017/18 con la sua amata Udinese. “Scusate, sono ancora arrabbiato per la sconfitta con l’Inter, che figuraccia…”, esordisce. Dopo qualche battuta con tutti i presenti, eccolo pronto per un tuffo nel passato, nel suo passato… Allora Felipe, apriamo il tuo libro dei ricordi. Come nasce la tua passione per il calcio? “Sono nato con il pallone tra i piedi. Ho avuto la fortuna di avere un papà che ha giocato a calcio, arrivando fino alla Serie B brasiliana e questo mi ha aiutato. Ricordo che, al mio paese, c’era una piazza dove andavamo tutti a giocare. Giocavamo per strada…”. Chi era il tuo idolo da ragazzino? “Guarda, il mio idolo è sempre stato Gamarra che, in Brasile, ha fatto una carriera super. Era considerato tantissimo, ai livelli di Maldini e Nesta, per capirci”. Quello dell’Inter… “Sì, esatto… Diciamo che all’Inter non si è visto il vero Gamarra e qualcuno mi ha anche preso in giro ma, vi assicuro, in Brasile era un fenomeno”.

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intervista Felipe

Si racconta che, da giovane, eri un attaccante… “È vero. Ho cominciato come attaccante, giocavo a calcio a 5. Poi, a 13 anni, mi sono dato al calcio a 11. Considerato che, all’epoca, non ero affatto magro, gli allenatori di allora mi hanno invitato a giocare più indietro, dove potevo correre di meno (ride, ndr). Così ho fatto il terzino e pure il centrocampista”. E come sei finito a fare il difensore centrale in maniera stabile? “È stata colpa di Gerolin (ex giocatore dell’Udinese, ndr)… È stato lui a dirmi: ‘Tu sei alto, faresti bene in difesa’….E così è andata”. Ci racconti come è avvenuto il tuo passaggio all’Udinese? “In realtà Gerolin (osservatore Udinese, ndr) non era venuto per vedere me. Era venuto per Roberto Rivelino che aveva una storia curiosa. I fratelli si chiamavano Diego Maradona e Michel Platini. Per fortuna mio papà non ha esagerato con i nomi, nonostante amasse il calcio (ride, ndr). Co-

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munque, mentre era qui per Roberto Rivelino, hanno saputo di me. Gli hanno detto che ero bravo, di buona statura e con parenti italiani e così mi hanno fatto un provino”.

Il mio sogno è, con lo stadio nuovo a Udine, riuscire a riportare questa squadra in Europa. È il mio sogno prima di chiudere con il calcio Ora vogliamo sapere del provino… “Ricordo che eravamo nella Casa dell’Atleta. Faceva un gran caldo. Gerolin si è messo gli scarpini e ha giocato la partita, con me, in difesa, al suo fianco. Io, ovviamente, non sapevo chi fosse. A fine provino, mi hanno chiesto se me la sentivo di andare ad Udine. Avevo solo 15 anni”. E tu che hai risposto? “Udine? Non sapevo neanche dove fosse… Per fortuna mio padre sapeva tutto, sapeva che all’Udinese aveva giocato Zico e questo mi ha rincuorato. Così ho deciso di provarci, anche se per mia mamma è stata dura. Ero giovanissimo, avevo solo 15 anni, lei non voleva che partissi ma mio padre che, da piccolo, non aveva potuto fare provini importanti perché gli era stato proibito, visto che studiava in una famiglia di preti, mi ha lasciato la libertà di decidere da solo. Così sono partito per l’Italia e, in particolare, per Udine”. Come è stato l’impatto con la città di Udine? “Inizialmente è stato bruttissimo. Ricordo che ci allenavamo verso le sei del pomeriggio. Faceva freddo, tanto freddo. Io poi sono arrivato a gennaio… Per fortuna non ho mollato. Mio padre, quando chiamavo a casa, obbligava mia mamma a non piangere per paura che tornassi per lei”. Primo allenatore ad Udine, un certo Spalletti… “Mi ha formato lui. I due giovanissimi di


Da quando è tornato a Udine, Felipe sogna di riportare i friulani in Europa

quell’anno (stagione 2002-03, ndr) eravamo io e Muntari e lui ci stava sempre vicino, ci aiutava, giorno dopo giorno, a migliorare. Io, allora, non usavo il piede destro e, grazie a Spalletti, ho imparato a calciare anche di destro. Mi è sempre piaciuto perché era diretto, ti diceva quello che pensava in faccia. Parlava con tutti allo stesso modo”. Hai giocato tanti anni nell’Udinese. Ci fai sapere chi sono stati i tre compagni di squadra davvero top con cui hai giocato? “Allora, fammici pensare… Te ne dico uno per ruolo… Tra i difensori, dico Sensini. Non era più giovanissimo quando è tornato a Udine ma, ragazzi, che qualità. Non era veloce, non era alto eppure era per-

fetto in difesa. Ho imparato tantissimo da Sensini. A centrocampo dico Pizarro, uno che, con la palla, faceva quello che voleva. In avanti è dura, ho giocato con tanti attaccanti di qualità Penso a Iaquinta che era un animale vero, nel senso buono del termine, ma dico Sanchez. Già allora si capiva che era un fuoriclasse. Comunque ho avuto tanti compagni forte, gente come Handanovic, Candela, Di Natale, D’Agostino, Quagliarella, Asamoah, Isla, Zapata, Inler… e ce ne sono tanti altri”. Come stai ora a Udine? “Alla grandissima. Mi piace come si comportano i tifosi. Loro ci tengono ma non sono mai invadenti. Magari ti fanno la bat-

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intervista Felipe

tuta ma, se perdi due gare di fila, ad Udine non succede nulla. L’importante è fargli capire che anche tu ci tieni alla maglia dell’Udinese ed è quello che, da veterano, cerco di insegnare ai giovani che arrivano a Udine. Ad esempio, anche quando si perde, soprattutto in trasferta, credo sia importante andare a salutare, sempre, i tifosi che hanno seguito la squadra, magari facendo centinaia di chilometri”. Tra i tanti giovani nella rosa di Del Neri c’è un certo Samir… “Samir è davvero forte… L’ho detto subito che aveva doti importanti. I sei mesi a Verona l’hanno fatto maturare molto. Ha forza, tecnica ed è giovanissimo (classe 1994, ndr)”. Udinese ma anche Fiorentina, Siena, Parma, Cesena e poi parleremo anche dell’Inter… “Cesena è l’esperienza, fuori da Udine, che mi ha esaltato di più. Ricordo che ci siamo salvati quando quasi nessuno ci credeva, tipo quest’anno il Crotone. Dicevano che eravamo spacciati ma, grazie ad un gruppo davvero unito, ce l’abbiamo fatta. In quella squadra c’era Jimenez che, quell’anno, è stato incredibile”.

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Arrivo a Udine? Inizialmente è stato bruttissimo. Ricordo che ci allenavamo verso le sei del pomeriggio. Faceva freddo, tanto freddo. Io poi sono arrivato a gennaio E l’esperienza a Parma? “Incredibile, siamo passati dall’aver conquistato l’Europa League al fallimento. Sapevo che c’erano problemi di liquidità, infatti avevo anche spalmato il mio contratto su più anni. Purtroppo poi è crollato tutto, è stata durissima, davvero”. Raccontaci invece il tuo approdo all’Inter… “Devo ringraziare mia moglie e Cassano”. Spiegaci meglio… “Dopo aver rescisso con il Parma, mi erano arrivate delle offerte, anche dall’estero, ma


IL GOL AL BARCELLONA

13 gol in carriera ma uno è rimasto nel cuore di Felipe e non solo… Ad oggi, in 325 presenze da calciatore professionista, tutte in Italia, con le maglie di Udinese, Fiorentina, Cesena, Siena, Parma e Inter, Felipe ha segnato 13 gol totali: “Non segno molto, circa uno all’anno”, scherza… Il suo personale record sono i quattro gol messi a referto durante la stagione 2005/06, quella in cui l’Udinese ha disputato i gironi di Champions League. E, proprio nella massima competizione europea, Felipe ha firmato la sua personale prodezza. Si gioca al Camp Nou. Il Barça va in vantaggio con Ronaldinho ma i friulani trovano il pareggio: “Il gol al Barcellona è stato un momento top della mia vita. Quando ho fatto gol (su azione da calcio d’angolo, ndr), non mi sono reso conto subito di quello che era accaduto. Mi sembrava impossibile. Ricordo che, qualche giorno dopo, mi hanno fatto vedere una foto in cui c’era il tabellone della partita con risultato di 1-1, reti di Ronaldinho e Felipe… Pazzesco, indimenticabile. Peccato che poi ne abbiamo presi quattro ma questo è un dettaglio. C’erano 5.000 tifosi dell’Udinese al Camp Nou. Ancora oggi mi parlano di quel gol e di quella partita. Sono felice che il mio nome ne faccia parte”.

io volevo aspettare la proposta giusta. Mia moglie insisteva sul fatto che l’Inter stava cercando un difensore, lo dicevano tutti i giornali. Allora ho deciso di fare una telefonata a Cassano per saperne di più. Ci eravamo trovati bene, insieme, a Parma, lo conoscevo bene. E Antonio mi ha detto. ‘Ci penso io, dammi cinque minuti e ti richiamo”. Dopo cinque minuti, in effetti, mi ha richiamato, dicendomi che mi aveva fatto una grande pubblicità. Ecco, non so se sia stato anche per Cassano ma poi sono andato all’Inter per davvero. Certo, ho giocato poche partite ma, grazie ai quei quattro mesi, sono rinato, ho ritrovato la fiducia che avevo perso a Parma. È stato importante per me”.

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intervista Felipe

Poi sei tornato a casa, all’Udinese… Continuerai a giocare a calcio fino a quando? “Guarda, sono tornato ad Udine ma con “Fino a quando non lo so. Io voglio andare uno spirito diverso. Mi sentivo bene, avevo avanti, mi sento bene fisicamente e vedo che più autostima. Per questo dico che i mesi ragazzi di 20 anni, quando c’è da recuperaall’Inter mi sono serviti, anche se ho giocare, sono costretti a lavori differenziati. Questo to pochissimo”. mi fa ben sperare (ride, Giochi, in Serie A, dal ndr)”. Ho giocato con 2002. Ci dici tre attacE il giorno che smettetantissimi campioni canti che ti hanno fatto rai? Cosa farai? all’Udinese. Scelgo lavorare parecchio? “Non ho nessuna idea di “Inzaghi su tutti. Era un cosa farò quando smetSensini, Pizarro e incubo, pesante davveterò. Intanto sto facendo uno tra Sanchez e ro. Poi dico Ibrahimovic, il patentino da allenatore, un altro durissimo da su consiglio di mia moIaquinta in attacco affrontare. E Trezeguet, glie”. ma sono stati davvero uno che non toccava mai Fuori dal campo, che tantissimi… la palla ma, quando la tipo è Felipe? toccava, ti faceva gol”. “Mi piace stare molto Come mai non hai mai giocato all’estero? con la mia famiglia. Quando non gioco, pen“Ad essere sincero, non ho mai voluto anso a tutt’altro fuorché il calcio. Non sono una dare all’estero. Ho sposato un’italiana e persona molto mondana. Anche come viaggi, mi sono sempre trovato bene in Italia. Foramo la tranquillità. Non amo posti esotici o se perché sono venuto qui giovanissimo. con tanta gente. Ecco, non sono da Ibiza, non O, magari, non è mai arrivata la proposta lo sono mai stato. Sono più uno ‘da Udine’ che giusta”. un brasiliano”.

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LA CARRIERA DI FELIPE

Stagione Squadra

Presenze

2002-2003 Udinese 2003-2004 Udinese 2004-2005 Udinese 2005-2006 Udinese 2006-2007 Udinese 2007-2008 Udinese 2008-2009 Udinese 2009-gen. 2010 Udinese gen.-giu. 2010 Fiorentina 2010-gen. 2011 Fiorentina gen.-giu. 2011 Cesena 2011-2012 Fiorentina 2012-2013 Siena 2013-2014 Parma 2014-feb. 2015 Parma feb.-giu. 2015 Inter 2015-2016 Udinese 2016-2017 Udinese

4 19 35 50 15 25 24 3 21 6 7 3 35 25 12 4 27 32

Gol 0 0 1 4 1 2 2 0 0 0 0 0 0 0 1 0 1 1

* Dati aggiornati al 27/05/2017

Passioni extra calcio? “Il cinema mi diverte molto, ho un debole per la fantascienza. Diciamo che i film su Wolverine, ad esempio, mi divertono molto. Ultimamente mi è piaciuto tanto Zona d’ombra, con Will Smith”. Basta con i videogames? “Ogni anno porto la consolle per giocare in ritiro, visto che ci sono tanti ragazzi, ma poi fini-

sce sempre che resta nell’armadietto”. Se ti guardi indietro, hai qualche rammarico? “Tutti mi dicono che forse potevo fare qualcosa in più nella mia carriera ma credo che ognuno abbia il suo percorso. È andata così perché doveva andare così e ne sono felice”. Ultima domanda: il tuo sogno, sportivamente parlando? “Il mio sogno è, con lo stadio nuovo a Udine, riuscire a riportare questa squadra in Europa. È il mio sogno prima di chiudere con il calcio”. Al momento dell’intervista, non sappiamo se Felipe resterà o meno ad Udine, quella che è, da anni, la sua casa. La speranza è che l’avventura in bianconero possa proseguire. In un’era in cui le bandiere sono sempre più difficili da trovare, vedere un giocatore, come Felipe, innamorato perso della maglia che indossa è una rarità. L’augurio è di restare a lungo a Udine e coronare il sogno di tornare in Europa, magari per una nuova apparizione al Camp Nou…

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Anche a distanza di 35 anni, l’impresa degli azzurri al Mundial di Spagna ‘82 continua ad emozionare intere gener azioni di sportivi.

CAMPIONI DEL MONDO!

CAMPIONI DEL MONDO!

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I è finita, Germania Ovest battuta, siamo Campioni del Mondo Foto Liverani

n vent’anni non ho mai assistito a una simile partitaccia. Se la nostra Nazionale è questa, meglio tornare a casa. Non era certo iniziata con il piede giusto, l’avventura dell’Italia al Mondiale di Spagna ‘82. La striminzita vittoria per 1-0 contro i portoghesi dello Sporting Braga in un’amichevole dai modestissimi contenuti tecnici e il conseguente sfogo con cui il presidente federale Federico Sordillo sfiduciava, di fatto, il c.t. Enzo Bearzot e tutta la sua truppa, fecero capire ai tifosi azzurri che ci sarebbe stato soffrire e non poco, in quella contraddittoria estate. Del resto, venivamo da una stagione in cui, già a novembre, avevamo visto tutti i nostri club eliminati nelle tre Coppe europee. La stessa Nazionale, nel 1982, non aveva ancora vinto una partita, rega-

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lando “spettacoli” sulla falsariga di quello offerto a Braga pochi giorni prima dell’inizio del torneo. A gettare benzina sul fuoco, come sempre, anche buona parte della stampa, che, oltre a puntare il dito contro Bearzot per il gioco “noioso” e “arcaico”, non aveva risparmiato al c.t. pesanti critiche per la convocazione dell’attaccante Paolo Rossi, fermo da due anni a causa della squalifica per il calcioscommesse, in luogo di quel Roberto Pruzzo che, invece, si era appena laureato capocannoniere del campionato per la seconda volta consecutiva. IL PIANTO DI VIGO Coloro che si aspettavano una pronta riscossa dell’Italia, rimasero però delusi. Inseriti in un girone insidioso ma non insormontabile, con Polonia, Camerun e Perù, gli Azzurri non fecero altro che confermare la crisi di gioco e la condizione fisica approssimativa già evidenziate nelle amichevoli pre-Mondiale. Debuttammo a Vigo, fresca cittadina del

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Un anno tinto d’azzurro

Quanti titoli mondiali per lo sport italiano in quell’indimenticabile 1982. Non solo calcio. In quel 1982, nobilitato dal trionfo Mundial degli Azzurri di Enzo Bearzot, l’Italia dello sport seppe farsi onore in alcune tra le discipline più famose e praticate. A luglio, ai mondiali di scherma tenutisi a Roma, la nazionale femminile di fioretto, trascinata dalla fuoriclasse veneziana Dorina Vaccaroni, conquistò il titolo a squadre in un’edizione funestata però dalla morte in pedana del sovietico Vladimir Smirnov, il più forte fiorettista del mondo. Nel motomondiale, il 27enne marchigiano Franco Uncini, su Suzuki, si laureò campione nella classe 500. Dopo il trionfo di Marco Lucchinelli l’anno prima, Italia ancora protagonista nella classe regina del motociclismo. A fine agosto, dalle acque del lago Rotsee di Lucerna, sede dei campionati mondiali di canottaggio, arrivò il ruggito dei fratelli campani Giuseppe e Carmine Abbagnale, che, con il fedele timoniere Peppiniello Di Capua, si aggiudicarono la medaglia d’oro nella specialità dei due con. Come dimenticare, poi, l’impresa del ciclista Giuseppe Saronni nella prova in linea su strada ai mondiali di Goodwood, Inghilterra. Il suo scatto rabbioso a 150 metri dal traguardo, a lasciarsi alle spalle l’astro nascente Greg LeMond, coprì di gloria uno degli sport più amati nel nostro Paese. A ottobre, ecco il capolavoro del romano Daniele Masala ai mondiali di pentathlon moderno disputatisi proprio nella sua città. Disciplina durissima per atleti completi, il pentathlon prevede gare nell’equitazione, nella scherma, nel tiro a segno, nel nuoto e nella corsa. Il 27enne poliziotto fece suo il titolo nella prova individuale. Nell’anno più tragico della sua storia, con la morte di Gilles Villeneuve e l’incidente che stroncò la carriera a Didier Pironi, la Ferrari riuscì comunque a vincere il mondiale di Formula Uno nella categoria costruttori. Ma nessuno, quella volta, ebbe voglia di festeggiare.


Fondamentale l’apporto di Paolo Rossi, l’uomo del Mundial

Conti al Mundial ha fatto impazzire chiunque sulla fascia

nord della Spagna, il 14 giugno. Avversaria, la Polonia di Grzegorz Lato e del futuro juventino Zibì Boniek, forse la nostra rivale più quotata. Prestazione non eccezionale, risultato da non buttare via: lo 0-0, pur senza grosse emozioni, in fin dei conti stava bene ad entrambe. Quattro giorni dopo, contro il Perù, iniziammo bene e andammo anche in gol con la funambolica ala destra Bruno Conti, ma nella ripresa sparimmo dal campo. I sudamericani, trascinati dall’anziano asso Teofilo Cubillas, ci misero all’angolo, reclamarono un rigore sacrosanto (per fortuna non assegnato...) e, a pochi minuti dalla fine, trovarono un meritato pareggio. L’indignazione di stampa e opinione pubblica iniziò a dilagare in tutto il Paese. Solo una convincente vittoria contro il Camerun, compagine emergente del calcio africano, avrebbe messo a tacere, almeno in parte, le malelingue. E invece fummo un pianto. Ciccio Graziani, generoso attaccante della Fiorentina, ci portò in vantaggio

al ‘60, ma, solo un minuto dopo, Gregoire M’Bida approfittò di uno svarione difensivo e fece 1-1. Un’Italia abulica, priva di idee e a corto di fiato, passava il turno al secondo posto dietro alla Polonia e davanti al sorprendente Camerun solo grazie a una benevola differenza-reti. Inevitabili i processi sommari e i veleni. A finire nel mirino della critica, l’habituè Bearzot, reo di insistere con un Rossi lontano parente del “Pablito” ammirato quattro anni prima in Argentina. Contemporaneamente, la ridda di voci su un astronomico premio-qualificazione finito nelle tasche degli Azzurri e grottesche illazioni riguardo una presunta relazione omosessuale tra lo stesso Rossi e il terzino Antonio Cabrini, fecero traboccare il vaso della sopportazione. A tutto c’è un limite. “D’ora in poi, silenzio-stampa”, questa fu la risposta data dai senatori azzurri e da Bearzot alle critiche ormai fuori controllo. Da lì in avanti, a parlare sarebbe stato solo il campo.

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LA METAMORFOSI Argentina e Brasile. Ecco i nostri avversari nel gironcino dei quarti di finale. La prima passava il turno, le altre tornavano a casa. Chi poteva mai credere che l’Italietta vista nella prima fase potesse arginare la forza e la fantasia delle grandi scuole sudamericane? L’Argentina, campione del mondo in carica e con un Diego Armando Maradona in più, l’affrontammo il 29 giugno, nel catino ribollente di Barcellona e dello stadio Sarrià. Tutto a un tratto, la squadra spenta, timorosa e svogliata di pochi giorni prima, lasciava il posto a un undici finalmente brillante e convinto dei propri mezzi. L’arcigno marcatore Claudio Gentile si prese cura di Maradona e non gli diede tregua. Gli assi juventini Antonio Cabrini e Marco Tardelli, innescati dal solito Brunetto Conti, fecero breccia nella retroguardia biancoceleste

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e ci regalarono il 2-0. Nemmeno il gol in chiusura del libero sudamericano Daniel Passarella ci spaventò. L’Italia era tornata. I fantasmi di Vigo, solo ricordi lontani. Già, ma il Brasile? Ora c’era da vedersela con i maestri del calcio-samba: Junior, Falcão, Socrates, Zico coi suoi numeri, Éder con le sue fucilate. Secondo gli esperti, mai i brasiliani avevano schierato una Seleção più forte di questa. Paura? Macchè. Il Sarrià colmo fino all’inverosimile. All’appello mancava solo lui. Il più discusso, il più criticato. Pablito. Che rispose, finalmente, nella


Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

maniera più rabbiosa possibile: con quella leggendaria tripletta che fece piangere i verdeoro e delirare l’Italia del pallone. Da Trieste a Palermo, una marea azzurra si riversò nelle piazze a festeggiare un trionfo che, per prestigio, ebbe lo stesso impatto emotivo del 4-3 alla Germania Ovest di Messico ‘70. Eravamo ormai inarrestabili. Nemmeno la Polonia, priva oltretutto dello squalificato Boniek, poté minimamente impensierirci in semifinale. Il solito Rossi, ispirato da un monumentale Conti, schiantò la formazione dell’Europa dell’est e ci regalò una nuova finale mondiale a dodici anni di distanza da quella perduta 4-1 contro il Brasile di Pelè. LA MORALE DI UNA FAVOLA Ormai volavamo sulle ali dell’entusiasmo. Avremmo sì affrontato la Germania Ovest senza uno dei fari del nostro gioco, il fiorentino Giancarlo Antognoni, infortunato, ma nessuno osò immaginare un epilogo a noi sfavorevole. Nemmeno quando, nel primo tempo, Cabrini sciupò malamente un calcio di rigore. Il trionfo azzurro era solo questione di tempo. Nella ripresa, al ‘12, il solito opportunismo di Rossi tradusse in rete un cross di Gentile. Più tardi, fu Tardelli a trovare il raddoppio e a lanciarsi in una delle esultanze più emblematiche nella storia del nostro sport: quell’urlo intriso di gioia, passione e voglia di rivalsa. All’81’ ci fu gloria anche per Spillo Altobelli, abile a finalizzare

una splendida azione corale. Sandro Pertini, il Presidente della Repubblica, non riuscì a contenere il proprio entusiasmo mentre tutto il Bernabeu si colorava di azzurro. E pazienza se il tedesco Paul Breitner accorciò le distanze all’83’. Il “Campioni del mondo!” esclamato tre volte dal telecronista Nando Martellini, annunciava agli italiani che la Coppa era già in volo per Roma. Indimenticabile, a fine partita, la commozione del nostro capitano Dino Zoff, iridato a 40 anni, la gioia composta e misurata del povero Gaetano Scirea, e quell’Enzo Bearzot, prima bersagliato dalle critiche e ora osannato, che veniva portato in trionfo dai suoi ragazzi, loro sì, gli unici a non avergli mai voltato le spalle. Eravamo campioni del mondo ed era giusto così, ma quante ne avevamo passate. Le incertezze della vigilia, una condizione che non cresceva, un gioco spento e prevedibile. La crisi di Rossi, le polemiche feroci che non risparmiarono nessuno, il conseguente silenzio-stampa. E poi, la rinascita. Le gambe che iniziavano a girare, il gruppo unito, sempre di più, intorno al proprio allenatore. I gol che fioccavano: quelli di Pablito, ma non solo. E, soprattutto, l’indomita forza d’animo di una generazione di campioni a cui non saremo mai grati abbastanza. Spagna ‘82 fu, in fin dei conti, una lezione per tutti. Perché insegnò al mondo che, stando uniti e credendo nei propri sogni, anche gli italiani potevano realizzare qualcosa di speciale.

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Dino Zoff racconta il Mundial ’82: “Una storia italiana” A tu per tu con uno degli eroi di quella cavalcata indimenticabile… In questi 35 anni tante domande sul Mundial, a quale Dino Zoff si è stufato di rispondere? “Sul mondiale mi vanno tutte bene. Le uniche cose che mi mettono in difficoltà sono le richieste di parere su un giocatore attuale, eventuali paragoni, ecc. Mi mettono in imbarazzo. Rivivere i giorni del Mundial, invece, mi fa sempre piacere. Non posso dare un giudizio su un collega o un giocatore, non

mi sembra giusto, perché posso influenzare altri con il mio parere. Questa è una cosa che voi giornalisti non volete capire”. Un rapporto stretto, suo malgrado, quello che l’ha legata alla stampa. Prima della Coppa, alcuni sono arrivati a dubitare della sua buona vista. “Quelle sono esasperazioni, molto spesso sono tentativi di essere spiritosi ed è questa la fregatura. Molti

Il legame tra Zoff e il mondo del calcio è sempre all’insegna dell’autentica passione

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di Paolo Bardelli giornalisti, per risultare simpatici, si lasciano andare ad affermazioni gratuite. A volte, pesanti. Ma è il nostro mondo”. Però Dino Zoff ha zittito tutti... “Non si zittisce nessuno (ride, ndr)! Le chiacchiere si zittiscono da sole”. Vero, ma immaginiamo la vita di Paolo Rossi se non fosse diventato capocannoniere Mundial. Su di lui ne hanno dette di tutti i colori: addirittura una relazione ‘particolare’ con Cabrini. “Erano le solite battutine, che in un contesto difficile come quello in cui trovavamo, apparivano diverse da quel che erano. Ma era proprio una ‘menata’ quella (ride, ndr)! Quando sei un personaggio pubblico, devi rispondere pubblicamente a tante cose, poi se un giornalista esagera quello è un altro discorso”. Figura pubblica, quasi un monumento: cosa significa essere Dino Zoff? “Ci sono alcuni che volano sulle nuvole, io mi sento perfettamente normale. Sono io. Certo che fanno piacere tutti gli attestati di stima, ma quello che conta è rimanere se stessi”. Zoff taciturno: è vero o è un luogo comune? “Non credo proprio sia vero, anzi, potremmo stare qui a chiacchierare fino a domani e mi farebbe molto piacere. Sono sempre stato restio a dire le solite cose, allora per non rischiare di essere banale preferivo un cortese ‘no’. Le mie risposte chiaramente erano banali, non intendevo prendere posizioni e ‘menavo il can per l’aia’, una cosa che non puoi fare sempre”. E, nonostante ciò, il ‘taciturno’ è diventato portavoce unico della nazionale. Come è successo? “I media sono stati feroci, soprattutto nei confronti di Bearzot, con termini sempre più sprezzanti per giudicare una partita o una persona, non c’era modo di fermare questo meccanismo. A un certo punto ci siamo detti che era inutile commentare ogni volta, il silenzio-stampa è stato uno strumento di difesa. Bearzot era un personaggio istituzionale, forse non era

nemmeno d’accordo con questo metodo, però noi avevamo bisogno di tranquillità. Abbiamo deciso di risolverla in campo, non serviva più ripetere sempre le stesse cose”. Bearzot, quanta forza è servita per sopportare tutto? “Quando sento allenatori che al giorno d’oggi si lamentano per una piccola contestazione mi vien da ridere! Noi siamo un paese senza memoria, Bearzot ha ricevuto vere e proprie violenze morali”. La stampa sembrava certa che gli azzurri in Spagna sarebbero andati malissimo. Perché? “Ma perché, come ho già detto, questa nazione non ha ricordi. Bastava tenere a mente il grande mondiale di quattro anni prima, in Argentina, magari se io avessi giocato un po’ meglio saremmo andati in finale. La squadra, più o meno, era la stessa e allora perché è diventata improvvisamente disastrosa? Era solo una presa di posizione contro Bearzot, che ha portato il 90% dei giornalisti ad attaccarlo. Non c’erano vere ragioni”. Un inizio complicato, poi la svolta contro l’Argentina: cosa è scattato? “I primi incontri sono i più complicati, perché c’è un carico di responsabilità enorme. Se esci, torni a casa con i cellulari e non mi riferisco ai telefoni, ma ai mezzi della polizia! Questo carico pesava, passato quello scoglio la squadra ha giocato come sapeva”. Sembrava un girone semplice e invece... “C’era anche la Polonia, una gran bella squadra, che poi abbiamo ritrovato in semifinale”. La partita a carte con Pertini, un’immagine scolpita nell’immaginario italiano. Eravate coscienti di scrivere la storia del paese? “Ci rendevamo conto, la gente era con noi. Era l’ovvia conclusione di un crescendo rossiniano: parti dileggiato e poi le cose si trasformano, la paura che diventa entusiasmo. È una storia italiana”.

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La lunga e prestigiosa storia della casacca del leggendario Celtic…

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COME ON THE HOOPS

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lasgow è la più grande città della Scozia e si può considerare la capitale calcistica del paese, pur con tutto il rispetto per le squadre delle altre città che hanno scritto pagine gloriose di storia del football. Qui si è disputata la prima partita tra due squadre nazionali, 30 novembre 1872 sul prato dell’Hamilton Crescent, reti bianche tra Scozia ed Inghilterra e la Nazionale scozzese continua a giocare le sue partite in questa città. Il 9 luglio 1867 venne fondata a Glasgow la prima squadra di calcio scozzese, il Queen’s Park, negli anni seguenti cominciarono l’attività Rangers e Third Lanark nel 1872, Partick Thistle nel

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1876 e Clyde nel 1877. In quegli anni di fine XIX secolo, i successi dell’Hibernian FC di Edimburgo ispirarono la comunità irlandese di Glasgow, in città e dintorni vivevano all’epoca 250.000 persone di origine irlandese, a fondare un club. A convogliare le forze fu Fratel Walfrid, un padre marista originario della contea di Sligo. Il 6 novembre 1887 si tenne una riunione presso la chiesa di St Mary’s a Calton, con l’intento di fondare una squadra di calcio, il cui scopo sarebbe stato quello di raccogliere fondi per la comunità più povera dell’East End della città. Durante la riunione vennero decisi denominazione e colori sociali, Celtic in onore delle origini dei


fondatori, così come il verde ed il bianco colori dell’Irlanda. All’inizio l’Hibernian giocò diverse partite amichevoli con il Celtic e prestò anche alcuni dei sui giocatori al neonato club di Glasgow. Alla fondazione del Celtic avevano contribuito anche John Glass, un costruttore del Donegal, e Pat Welsh, un sarto dal passato non molto limpido. I due guardavano alla crescita del professionismo nel calcio inglese e nel 1888, senza l’approvazione di Fratel Walfrid e degli altri membri del direttivo del club, ingaggiarono otto giocatori dell’Hibernian offrendo loro un compenso economico, peraltro illegale. Le conseguenze per l’Hibernian furono catastrofiche ed il club di Edimburgo, privo dei giocatori migliori, andò vicino al fallimento. Il 28 maggio 1888 il Celtic disputò la prima partita ufficiale, un incontro amichevole contro i Rangers vinto 5-2, la prima rete venne segnata da Neil McCallum. All’epoca le partite tra i due club erano davvero amichevoli, la rivalità sportiva ed extra sportiva nacque più avanti, in questa occasione venne coniato il termine Old Firm. I Bohys, la “h” venne aggiunta per una rappresentazione fonetica della pronuncia irlandese, scesero in campo con una maglia bianca con collo a camicia verde chiuso da laccetti, sul petto un ovale rosso con al centro una croce celtica verde, pantaloni neri e calzettoni neroverdi a righe orizzontali. Nella stagione 1889 e seguente la maglia divenne bianco verde a strisce verticali con collo a girocollo chiuso da bottoni, pantaloni neri e calzettoni neri come da uso dell’epoca. Nella stagione 1891/92 maglia quasi uguale con collo a girocollo bianco chiuso da laccetti, i pantaloni diventano bianchi mentre i calzettoni rimangono neri. Intanto il 20 agosto 1892 viene inaugurato il Celtic Park, stadio che ancora oggi ospita le partite dei Bohys, la terra per il campo arrivava dal Donegal. Dal 1893, e fino al 1898, il colletto diventa a camicia bicolore chiuso da bottoni, i pantaloni sono neri. Nella stagione 1898/99 colletto bianco a girocollo chiuso da laccetti, i pantaloni sono di nuovo bianchi. Nelle stagioni

1888

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1903 1904

1922 1923

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1901/02 e seguente il collo, sempre di colore bianco, è a camicia chiuso da laccetti, i pantaloni sono bianchi ed i calzettoni verdi. Il 15 agosto 1903, vittoria 2-1 contro il Partick Thistle, arrivano finalmente le righe orizzontali, gli hoops, che caratterizzeranno il Celtic fino ai giorni nostri. Era una maglia molto semplice, bianca e verde a righe orizzontali con collo a girocollo chiuso da tre bottoni, pantaloncini bianchi e calzettoni neri. Ci sono anche versioni con il collo chiuso da laccetti, nel corso degli anni compaiono risvolti verdi o bianco verdi sui calzettoni. Nelle stagioni 1919/20 e seguente il collo è a camicia di colore bianco, poi si torna alla versione precedente che rimane in voga fino alla stagione 1935/36, a partire dalla stagione 1932/33 i calzettoni diventano biancoverdi a righe orizzontali. Dal 1936/37, e fino alla fine del 1962 la maglia presenta un collo a camicia bianco chiuso da bottoni, i calzettoni sono verdi con due sole righe bianche. Dall’inizio del 1963 fino alla fine della stagione 1971/72 collo a girocollo bianco, i calzettoni nel frattempo sono diventati bianchi, la vera divisa del Celtic, il kit con cui gli Hoops vinsero la Coppa dei Campioni a Lisbona il 25 maggio 1967. Un successo storico, la prima coppa con le grandi orecchie vinta da un club britannico, in quella finale scesero in campo undici giocatori nativi di Glasgow e dintorni, anche l’allenatore Jock Stein era nato nei dintorni della città. In quella stagione il Celtic vinse tutte e cinque le competizioni a cui partecipò. Il pri-

* Foto Subbuteo da http://www.celticdream.it

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portiere

mo aprile 1970 il Celtic gioca ad Elland Road la semifinale di andata di Coppa Campioni contro il Leeds United, entrambe le squadre hanno pantaloncini e calzettoni bianchi. L’arbitro, il tedesco occidentale Gerald Schulenberg, non solleva problemi per la maglia biancoverde ma impone agli ospiti di cambiare i calzettoni, gli Scozzesi non hanno al seguito abbigliamento supplementare e tocca ai padroni di casa intervenire prestando agli ospiti dei calzettoni di colore rosso arancio che davano al Celtic l’idea di indossare i colori della bandiera irlandese. Quindici giorni dopo toccò al Leeds United giocare con i calzettoni rosso arancio, per la cronaca il Celtic vinse entrambe le partite. Nella stagione 1972/73 compare il tipico collo a camicia chiuso davanti da un triangolo, il tutto di colore bianco, molto in voga nei paesi britannici in quegli anni. Nella stagione 1976/77 la maglia è invariata ma compare per la prima volta il logo del fornitore, la britannica Umbro, mentre nella stagione successiva compare lo stemma sociale che rimarrà per sempre sulle divise dei Bohys. Nell’autunno del 1979 compare un collo a V, completamente bianco, sulle divise bianco verdi, dalla stagione 1982/83 il bordo a V avrà una striscia verde in mezzo. Nella stagione 1984/85 arriva per la prima volta il logo di uno sponsor commerciale, la fabbrica di infissi e verande CR Smith che sarà sponsor del Celtic per molti anni. Nella seconda metà degli anni 80 le maglie cambiano ogni biennio e dagli anni 90, sempre per motivi commerciali, ci sarà una nuova maglia ogni stagione. Nonostante le maglie in continua evoluzione il Celtic è riuscito a mantenere uno stile sobrio e tradizionale, molto belle le maglie Umbro della metà anni 90, all’intermo delle righe verdi erano riportati il logo del fornitore prima ed il nome del club poi. Nel biennio 2001/2003 compare per la prima volta un inserto nero nel collo, riproposto in altre due occasioni nelle stagioni successive, questa è la maglia della finale di Coppa UEFA 2003 persa a Siviglia contro il Porto. Nel 2005,

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Ambrose, per cinque anni ha indossato la casacca del Celtic

dopo trent’anni, cambia il fornitore delle divise, si passa dalla Umbro alla Nike. L’azienda statunitense nei primi anni si mantiene in linea con la tradizione poi lancia due maglie un po’ diverse, nella stagione 2012/13 disegno classico e pulito ma con righe più sottili rispetto al solito, questa è la stagione del 125° anniversario del club, ricorrenza ricordata da un logo particolare, lo sponsor commerciale è molto più piccolo del solito, mentre nel biennio successivo le righe sono nuovamente spesse ma, viste da vicino, ogni riga è composta da sette righe verdi molto sottili. A questo punto è necessario aprire una parentesi sulla numerazione dei giocatori del Celtic. La prima squadra ad indossare maglie numerate è stata l’Arsenal nel 1928, su indicazione del manager Chapman, in Scozia i numeri divennero obbligatori per tutte le squadre nel 1950, per tutti ma non

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per il Celtic. Il segretario del club Robert Kelly si oppose alla numerazione, asserendo che i numeri sulla schiena avrebbero rovinato l’estetica della maglia, come dargli torto? Solo il 14 maggio 1960, in una partita contro

Il calore dei tifosi del Caltic non ha confini... Tutti pazzi per la maglia biancoverde


lo Sparta Rotterdam, comparvero i numeri ma sui pantaloncini e non sulle maglie. Il 6 agosto 1960, partita a Sedan per un torneo amichevole, vennero proposti dei numeri gialli sulla maglia a cerchi, ma il risultato fu deludente così si continuò a giocare con i numeri sui pantaloncini, davanti e dietro di colore verde. Il 5 novembre 1975, per obbligo della UEFA, i numeri comparvero per la prima volta sulle maglie in una partita ufficiale, match di ritorno di Coppa delle Coppe contro il Boavista. All’inizio della stagione 1994/95 la Scottish Football League impose al Celtic di mettere i numeri sulle maglie, il club rispose all’obbligo inserendo i numeri sulle maniche ma dopo poche settimane, in seguito ad un’ulteriore specifica della SFL, i numeri vennero messi sulla schiena dei giocatori. Fino agli anni 70 il Celtic ha giocato molto raramente con una divisa alternativa, probabilmente veniva usata solo nel caso di partite con altre squadre che indossavano maglie a righe orizzontali. Dal 1910 fino al 1936 vennero usate maglie verdi, in alcuni casi con collo bianco e non mancarono righe orizzontali o V sempre di colore bianco. Eccezioni al verde nelle stagioni 1925/26, maglia completamente bianca, 1926/27, maglia a scacchi biancoverdi, e 1929/30, nuovamente maglia bianca. Dopo la seconda guerra mondiale, stagione 1948/49, venne usata una maglia bianca con collo verde a camicia e trifoglio sul petto, dalla stagione seguente e fino al 1964 vennero aggiunte le maniche verdi. Dal 1964/65 si tornò alla maglia verde con pantaloncini dello stesso colore, molto elegante la divisa all green. Negli anni 70 ed 80 vennero indossate perlopiù maglie di colore giallo o verde, eccezioni la maglia neroverde a strisce verticali dal 1973 al 1976 e la maglia bianca della stagione 1982/83. Molto apprezzate le maglie verde acqua con bordi verdi abbinate a pantaloncini e calzettoni verdi usate nel triennio 1983/86. Nei tempi moderni anche le divise alternative hanno avuto un continuo cambiamento ma i colori usati sono quasi sempre stati nero, giallo, verde e

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bianco. Per la stagione 2016/17 è stata proposta un’inusuale maglia fucsia come terza divisa, riprende il colore dei biglietti per la finale di Lisbona per ricordare i cinquant’anni del trionfo europeo. La maglia dei portieri del Celtic fino ai primi anni 90 è sempre stata verde o gialla, venne usato anche il rosso con una certa frequenza negli anni 60 e 70. Negli anni 90, erano gli anni dei portieri vestiti come tubetti di Smarties, si perse la tradizione, recuperata negli ultimi anni in cui è stato inserito il grigio con una certa frequenza. Sulla maglia degli esordi, 1888/89, era presente una croce celtica. Nella stagione 1925/26 sulla divisa da trasferta venne ricamato un trifoglio verde, sempre le origini irlandesi. Il trifoglio ritornò, solo sulle divise da trasferta, tra il 1948 ed il 1964. Lo stemma sociale venne introdotto in maniera definitiva nel 1977/78, un quadrifoglio verde in campo bianco circondato da un bordo verde importante con all’interno denominazione ed anno di fondazione del club. Nel 2007, per ricordare il quarantennale della vittoria di Coppa dei Campioni, piccolo restyling del logo con la

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denominazione rimpicciolita e l’aggiunta di una stella a sopra lo stemma. Nella stagione del centenario venne creato uno stemma apposito, una croce celtica a sormontare il quadrifoglio all’interno di un cerchio con le date a ricordare i cento anni di vita del club. Il quadrifoglio venne usato per la prima volta nel 1908 quando il presidente del club fece coniare una medaglia con un quadrifoglio, per premiare i giocatori che in quella stagione avevano vinto quattro trofei, Scottish League Championship, Scottish Cup, Glasgow Cup e Glasgow Charity Cup. Il logo con il quadrifoglio venne usato nuovamente nella stagione 1935/36, stampato sul porta abbonamento, negli anni successivi divenne lo stemma ufficiale che accompagnava le pubblicazioni del club. Nel catalogo HW del Subbuteo il Celtic è il numero 25, classica divisa a cerchi bianchi e verdi con calzoncini e calzettoni bianchi. È presente anche la versione da trasferta di metà anni 70, numero di catalogo 78, la maglia a strisce verticali nere e verdi con calzoncini e calzettoni neri.


1995 1996 1996 1997

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allenatori fuori di testa

di Luca Savarese

SOPRA LA PANCA L’IRA È FUNESTA Ogni tanto, all’improvviso, partono in quinta: c’è quello che inveisce in campo, quello che zittisce tutti in conferenza stampa, quello che quando ha finito i verbi, usa le mani o i piedi. Sono gli allenatori furiosi, che hanno fatto e fanno storia per sfoghi spiazzanti, reazioni fortissime, parole intrise di sfida. Una squadra da scudetto. Si, della rabbia.

“C

antami o calcio l’ira dei tuoi molti allenatori che moti danni addusse alla squadra avversaria, ai tifosi, a te stesso...” Potremmo parafrasare il proemio dell’Iliade, non ce ne voglia Omero, ed applicarlo a quel particolare microcosmo degli allenatori, che per un motivo o per l’altro, nella storia del calcio e nel calcio delle storie, hanno gridato, sfogando ira, proponendo frasari coloriti, addirittura vere e proprie hit parade e, quando proprio non riuscivano a dirlo a parole, hanno usato le mani ed i piedi. Sentirli e rivederli, per credere. Ma, tra una vena scoppiata e qualche nervo saltato, non hanno solo fatto danni, anzi, al contrario, sono diventati personaggi, paladini di chi vorrebbe dire molto, ma non trova il modo di farlo. Oggi, per dirla con il linguaggio interattivo, sono molto googlati. Per esempio, in calce ad una serata tra amici, per diminuire il tasso di sbadigli, cosa si fa? Via a cercare sullo smartphone

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il famigerato e transgenerazionale “Strunz” del Trap, Il “Cosa è diventato il calcio? Una giungla c...” di Alberto Malesani, il “Se famo il tre a tre vengo sotto la curva” di Sor Carletto Mazzone. Ecco che subito torna l’attenzione e la serata tocca dei picchi di divertimento clamorosi. Forse, il paradosso, sta tutto qui: più i comportamenti sono fuori dalle righe e lontani dalla minima misura, e più fanno scattare ironia e simpatia, e, per stare nel gergo attuale, i like piovono, a go go. In fondo, lo aveva capito anche il filo olandese Bernard de Mandeville, nella sua Favola delle api, quando sosteneva che vizi privati siano incredibilmente capaci di creare pubblici benefici. Anche se ai suoi tempi, tra il 1600 ed il 1700, non c’erano ancora allenatori, né scatti, né bottigliette che volavano e vaffa che partivano. È un vizio o virtù che attraversa il calcio ed il suo tessuto, gonfiando quaderni di aneddoti, creando almanacchi di questi luminari, amati od

odiati, a seconda delle campane, e dei gusti. Fenomeno appannaggio del calcio iper visivo e stra spettacolare del XXI secolo? Niente affatto. Spulciare tra i campionati antecedenti alle invasioni mediatiche attuali, per credere. Derby che giochi ira che vivi, panchine calde come tizzoni bollenti. Curioso che Toro-Juve del 1973 e JuveToro del 2017, abbiano un denominatore comune: due comportamenti irosi. Dalla panca, alla reazione di pancia, il passo è breve. 9 dicembre 1973 a Torino tira aria di derby. Toro senza Pulici, Juve senza Furino. Primo tempo a reti bianche. La tensione, se durante le altre gare è intensa, in questo derby della mole è al cubo. La Juve segna con Cuccureddu su un’uscita, abbastanza rivedibile, di jaguaro Castellini. Ad un certo punto, ci pensa lui, Gustavo Giagnoni, mister granata, ad accendere la stracittadina. Franco Causio gli passa accanto e lo guarda provocatoriamente, batte la mani in segno di sfottò, quasi a fargli

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allenatori fuori di testa

notare che ormai il derby è della Juve, mica del Toro. Giagnoni, è tecnico ruspante e pittoresco, che in seguito sarà al Milan e che divenne famoso forse non tanto per un suo credo tattico quanto per il suo inseparabile colbacco. Causio continua a mandargli occhiate poco ortodosse e Giagnoni non resiste: va verso il barone, sposta il guardalinee e gli assesta un pugno degno del miglior Benvenuti. Dirà poi questo improvvisato boxeur della domenica qualche anno più tardi: “Per fortuna che lo presi allo zigomo, altrimenti se lo avessi colpito al mento o nel centro della faccia, a quest’ora sarei in galera. Ero mortificato quando mi accorsi quello che avevo fatto, però i tifosi del Toro mi portarono in trionfo”. I tifosi della zebra se lo legano al dito, quelli granata ne dipingono quadri e ne producono santini. Condanne e rivincite dei mister docili a perder trebisonda. A proposito, curiosa l’etimologia del termine: nell’antichità la città di Trabzon, sul Mar Nero, era un faro importante per molte navi, se lo perdevano di vista, vagavano nel buio. Quanti allenatori hanno perso di vista il faro ed il lume della ragione. L’ultimo derby della mole ha visto scoppiare la vena a Sinisa Mihajlovic, per la verità, mai stato molto calmo ma sempre iper partecipe delle sfide sia ieri da calciatore che oggi da allenatore. Nell’ultima occasione il mister di Vukovar non ha digerito il secondo cartellino giallo ai danni del suo centrocampista, il ghanese Afriyie Acquah. L’entrata su Mandzukic risulterà in seguito sulla palla è vero, ma è pur vero che i tacchetti hanno e non poco ringhiato durante il tackle. Sinisa è un iradiddio, non lo riesce a fermare Attilio Lombardo, il suo vice, non lo placano neanche gli altri componenti della panchina. Se avesse tra le mani l’arbitro Valeri, come un omino giocattolo, lo lancerebbe dalla Mole. Così il Toro che stava giocando alla grande ed era in vantaggio grazie ad una perla su punizione di Ljajic, si ritrova improvvisamente senza un centrocampista e senza il suo al-

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IL CALOROSO FASCETTI

Uno che non ha mai avuto problemi a dire ciò che pensava… Viareggino classe 1938, ha giocato come centrocampista in diverse squadre, tra cui Bologna e Lazio. Poi eccolo in panchina. Una squadra, il Varese, un anno, il 1979, dove inizia il suo viaggio di tecnico ruspante e sempre controcorrente. Si deve a lui il lancio di Antonio Cassano, a fine 99’, nel Bari. Fascetti, nella sua lunga e bellissima carriera, è andato spesso controcorrente “Io per vivere ho bisogno di essere contro qualcosa o qualcuno, lo spirito critico è fondamentale per tenere le menti giovani ed in moto contro l’appiattimento delle intelligenze. Poi più sento qualcosa di strano più dico come la penso io”. Quindi prima di tutto rimanere se stessi “Son partito in panchina a Varese, ho cercato di fare un certo tipo di gioco, senza essere legato in modo dogmatico a nessuno schema. Sento dire che la zona è meglio dell’uomo o viceversa, pensare che un solo modulo sia vincente è assurdo, il vero calcio non è quello di Fascetti o di Sacchi, bisogna sapersi adattare a cambiar modulo, anche durante la partita”. La vitalità di un allenatore da cosa deriva, dalla sua formazione, dalla sua continua necessità di trovare sfide? “Io sono innamorato di questo gioco, grato di averlo vissuto prima in campo e poi in panchina. Tante volte l’ho fatto bene, altre no, ma ho sempre cercato di essere un tipo estroso e di partire sempre da me, non porto il cervello all’ammasso...”.


lenatore. Fuori due in un colpo solo. La Juve, troverà le contromisure e riuscirà ad infilzare il Toro con un gol di Higuain in pieno recupero. Ma lo show di Sinisa è appena cominciato. Nel salotto buono delle interviste arriva cattivo ai microfoni di Sky e se si scaglia con Vialli, che ha appena sottolineato il poco tasso di fallosità di quell’intervento dieci anni prima. “Questo non è fallo, è palla, e si vede. Tocca la palla pulita, guarda”. Anche se l’ex bomber di Samp e Juve fosse un omino giocattolo, farebbe una brutta fine tra le mani di Sinisa. È da Toro non ci piove. Molti ne stigmatizzano la furia d’analisi, altri ne applaudono il coraggio. Una cosa è certa: il curriculum di allenatore da sopra la panca l’ira è funesta per Sinisa, è stato aggiornato e potentemente. Tra il Giagnoni d’antan ed il Sinisa d’attualità, la strada è lastricata di brutte reazioni, un tantino contrarie a quel senso della misura che Aristotele teorizzava nei suoi scritti. Ma il filosofo greco,

Mai fare arrabbiare uno come Mihajlovic, un guerriero vero

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allenatori fuori di testa

mica allenava! Giovanni Trapattoni da Cusano Milanino, nella sua carriera aveva marcato anche Pelé. Ma, quel giorno del 1998 da allenatore del Bayern Monaco, proprio non riuscì a marcare la sua rabbia con la stampa bavarese. Il suo famigerato “Strunz!”, altro non era che un riferimento al centrocampista Thomas Strunz, sempre rotto in quella stagione, ma che in Italia ben si sposava con la parolaccia. Fece audience, da Monaco di Baviera alle italiche case di ringhiera, non si parlava d’altro. Dallo sturm und drang allo strunz und trap. Movimenti e tendenze. Passano gli anni, ma li sfoghi grossi continuano e le reazioni spropositate, crescono. 30 settembre 2001, allo stadio Rigamonti le rondinelle del Brescia affrontano la dea atalantina, derby lombardo da cardiopalma. Roberto Baggio, apre le marcature. Rabbiosa reazione atalantina che trova prima il pareggio con Gigi Sala, poi il sorpasso con Cristiano Doni. Di testa, Comandini, fa persino triplicare la gioia bergamasca e sprofondare nel buio i bresciani. I tifosi orobici si scatenano e nei loro baccanali

Malesani, altro tecnico di grande vigore, lo sanno bene in Grecia

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Ovunque è stato, il Trap non ha mai risparmiato nessuno... Sempre sul pezzo

fanno partire qualche insulto di troppo a Carlo Mazzone, che siede sulla panchina bresciana. Mister navigato e dall’orecchio fino. Sente infatti qualcosa che non gli piace provenire dalla curva nerazzurra, qualche parola che ha a che fare con sua madre. Cerca la sfida, vuole zittire una ciurma di sguardi che lo dileggiano: “Se famo il 3 a 3 vengo sotto la curva”. Una promessa, sul 3 a 1 per l’Atalanta, travestita da minaccia. Carlo avvia così una rimonta unica. Baggio gli dà una mano segnando le reti che rimettono in vita il Brescia e fanno correre all’impazzata Mazzone. Sembra un puledro sprovvisto di fantino, ma quel palio particolare non si disputa a Siena ma si gioca a Brescia. Nessuno riesce a fermare Sor Carletto, senza staffe, senza paura, con l’eroico furore costruisce una risposta di corsa, corre rispondendo. Baggio ha consegnato al Brescia un punto insperato. Ma quella partita l’ha vinta lui, Carlo Mazzone da Roma, e imperatore, a Brescia, dove sintetizza e nobilita, in quella sua folle processione, tutte le reazioni del mondo. Anno che arriva, staffe che saltano agli allenatori. Sembrano palline saltellanti su un piano inclinato infinito. Malesani, nel 2005, si concede un’esperienza all’estero. Sceglie la Grecia ed il Panathinaikos, Ate-


ne e i suoi miti. Infatti fa una conferenza stampa che diventa epica dove ci va giù così duro che forse nemmeno Dracone, il legislatore antico, che da quelle parti sembrava far le leggi col sangue. “Cosa ridete cosa, io ho la coscienza pulita, non criticate mister Varidoianis, aiutatelo c...”, solo per citarne un estratto. Il genere letterario continua, questa volta nessuna lingua straniera, ma un italiano che ogni due per tre cede al turpiloquio, con una fisiognomica che va dove la porta la bile. La malcapitata interprete non riesce a stargli dietro. Del resto chi riesce a tenere il passo di questi fuoriclasse della reazione? Sociologi e psicologi hanno provato a studiare il fenomeno. Lo piscoterapeuta Paolo Cozzaglio, ammette che: “Gli allenatori di calcio sono tipi strani. Devono difendere undici fragilità da un sacco di ostacoli e loro stessi, mica sono invulnerabili. È bene che si esercitino nell’arte del distacco, cercando di dare il giusto peso alle situazioni, ma non sempre tutto questo, in istanti di immani pressioni, può risultare chiaro”. L’a-

nello opprime chi lo possiede ci ha insegnato la saga del Signore degli Anelli. Anche il facile sbottare opprime chi lo possiede, ci insegna l’epopea degli allenatori dalle staffe deboli. 2011, una semplice Fiorentina-Novara di campionato si trasforma in una guerriglia tra Delio Rossi ed Adem Lijaic. Il mister romagnolo lo sostituisce. Il fantasista serbo esce applaudendolo scherzosamente e dicendogli qualche parolone. Delio diventa Hulk Hogan e gliene suona di santa ragione (anche se una ragione così brutale non è mai santa). In mezzo insulti pesanti alla madre del tecnico, che non ci passa sopra ma passa sopra il suo giocatore. La triste sagra continua. Parma-Catania, prima giornata del campionato 2007-08. Silvio Baldini, mister del Catania, ad un certo punto da un calcione nel didietro a Mimmo Di Carlo, allenatore del Parma. Poi ci sono quelli che si concentrano sulla guerra fredda, ma che alza la temperatura, no botte da orbi ma parole torvi. Ecco Mourinho, con un collier di lessico sottile ma mai banale, preparato con

NON SOLO IN ITALIA

E le cose all’estero non cambiano. Anche due mostri sacri come Simeone e Wenger son caduti in tentazione... Prassi o modus vivendi non solo nostrano. Certo, un carattere perennemente grintoso ne facilita la nascita. Spagna, agosto 2014 l’Atletico Madrid sta giocando il ritorno di Supercoppa contro il Real. Diego Simeone vuole far entrare Juanfran. Il cambio avviene ma con qualche secondo di troppo. Il Cholo mica ci passa sopra ma passa una mano sopra la nuca dell’assistente arbitrale. Nessuna carezza, non è il tipo, ma un buffetto, per la serie: “Perché ci hai messo così tanto?”. E tante sono anche le giornate di squalifica che si becca: 8. Questa contagiosa allergia isterica attecchisce su tutti i signori della panca; non solo i mister passionali ne sono soggetti, ma anche quelli il cui amico fedele sembra essere il self control. Arsene Wenger vanta laurea in ingegneria all’Università di Strasburgo ed una specializzazione in economia, ma durante il match contro il Burnley nel gennaio 2017, più che gli studi poté la collera: spintone al quarto uomo, 4 turni di stop ed una multa salata. “Non esiste antidoto per i mali della panchina”, ha detto in più di un’occasione Jorge Valdano, punta dell’Argentina mondiale del 1986. Sempre secondo Valdano, i piedi dei calciatori decideranno sempre maggiormente rispetto alla testa dell’allenatore. Lui, lo fece ma poi smise iniziando a dedicarsi alla scrittura. I suoi nervi, ringraziano per la scelta.

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allenatori fuori di testa labor limae. Abile sofista, il portoghese, parole graffianti più di unghie di un gatto sopra una lavagna. “Io non sono un pirla” “Prostituzione intellettuale” e “Zero tituli” fecero il giro del mondo e dei taccuini prima di finire dentro ai suoi manuali. Per non dimenticare il gesto delle manette esposto in un Inter-Samp dopo che i nerazzurri rimasero in 9. Insomma, software ed hardware di uno Special One. Anche Rudi Garcia quando allenava la Roma non ci vide più dal nervoso: nel bel mezzo di un RomaJuve, infastidito che gli venisse fischiato tutto contro, s’improvviso violinista e via a mimare il suono di quello strumento. Molteplici furono le interpretazioni, sulla presunta musica arbitrale che era sempre la stessa, una fu la sanzione: espulsione, diffida e multa. Ce n’è di ogni quando la panchina diventa un ring dove sferrare colpi proibiti, fisici, verbali, gestuali. La sedia più famosa del Torino è quella alzata al vento di

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Amsterdam da Emiliano Mondonico, perché nella finale di ritorno della Uefa 92 l’arbitro non vide un rigore grosso come una casa per un fallo di un giocatore dell’Ajax contro Cravero. Per non dire dei fiumi di parole dell’uomo del fiume Serse Cosmi, di Eugenio Fascetti il cui slogan al vetriolo era: “Io sono iscritto ad un solo partito, il mio”, degli sfoghi tra il serio e il faceto di Eziolino Capuano, che alla conferenza stampa di presentazione sulla panchina dell’Arezzo disse: “Vedere l’Arezzo in D è come vedere Belen barista”. Se fossero un film? Altrimenti ci arrabbiamo, se fossero un quadro, L’urlo di Munch, se fossero un romanzo? L’Orlando, anzi L’allenatore furioso. Sono semplicemente loro gli allenatori dalla vena che ogni tanto prende fuoco. Da prendere per quello che sono, magari strizzando l’occhio a qualche loro simpatico detto, ma come si dice con i materiali infiammabili, tenere lontano dalla portata dei bambini.



cio l a c l e d i t Gigan Amelia non si è mai tirato indietro e, Marco Amelia di Francesco Fontana

soprattutto, è sempre tornato in sella…

L’UOMO DELLE SFIDE

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arriera ricca, sotto tutti i punti di vista. Maglie storiche indossate, alcune a sorpresa, e la fortuna, il grande privilegio di aver fatto parte della Nazionale per tanti anni. La presenza di Gianluigi Buffon per lui non ha mai rappresentato un problema, perché essere il ‘vice’ o il ‘terzo’ in un periodo in cui i grandissimi portieri si sprecavano nel nostro calcio rappresenta un grandissimo successo personale di cui andrà per sempre molto orgoglioso. Come grandissimo, anzi, storico e per sempre nella mente di tutti è il traguardo ottenuto in Germania undici anni fa. Con quella coppa alzata al cielo di Berlino insieme a un gruppo straordinario guidato da un allenatore che lo era, anzi, lo è altrettanto. Un gruppo di cui lui ha fatto parte, diventando campione del mondo a soli 23 anni. Questa è la storia di Marco Amelia, portiere classe ‘82 con tanto da raccontare, tanti compagni da elogiare, tante divise speciali con cui è cresciuto. Una storia che parte da lontano, che parte da Roma. La ‘sua’ Roma: “I ricordi sono tantissimi - racconta in esclusiva per Calcio2000 -. Alcuni un po’ sbiaditi perché sono passati molti anni, ma quelli più belli, i più importanti, sono ben impressi nella mia mente e non potrò mai dimenticarli. Sono entrato per la prima volta nel centro

sportivo di Trigoria quando ero un ragazzino, ho giocato in tutte le squadre del settore giovanile fino all’arrivo in Prima Squadra con cui ho vinto lo Scudetto 2001. Fu un anno meraviglioso, indimenticabile. Non avrei mai e poi mai potuto chiedere di meglio”. E in panchina non c’era un allenatore qualunque... “Forse parliamo del miglior allenatore del mondo (Capello, ndr). A Roma ha fatto la differenza cambiando tantissimo, sotto tutti i punti di vista. Soprattutto a livello di mentalità. La piazza e l’ambiente non erano abituati a lavorare e pensare in un certo modo, ma in questo senso il mister ha migliorato tutto e tutti. Ha aiutato ogni giocatore, compresi noi giovani che eravamo parecchi: penso al sottoscritto, De Rossi, D’Agostino e Lanzaro”. C’è un ricordo, un insegnamento in particolare che è poi servito nel corso della sua carriera? “Non avevamo modo di lavorare spesso con lui, in genere si affidava a Galbiati, il suo preparatore dei portieri. Ma una cosa la ricordo molto bene: mi ha insegnato a farmi trovare sempre pronto e, tecnicamente e tatticamente parlando, a rimettere in gioco velocemente la palla una volta entrato in possesso della stessa: azione conclusa, sfera tra le mani e sguardo immediatamente rivolto al compagno meglio posizionato. Lavorava

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Marco Amelia

Quando è stato chiamato dal Diavolo, non ha avuto nessuna esitazione

moltissimo sulle ripartenze veloci. Questo mi è rimasto ed è servito nel corso della mia carriera”. Sulla Nazionale, invece, potrebbe scrivere un libro. “Il privilegio di averne fatto parte è immenso, l’azzurro ha rappresentato un grandissimo sogno. Ho lavorato con dei miti come Buffon e Peruzzi, e il bicchiere è sicuramente mezzo pieno e non considero una sfortuna il fatto di aver condiviso quegli anni con il più forte del mondo. C’era tantissima concorrenza in quel periodo, molti erano i portieri di assoluto livello e già essere considerato come il ‘terzo’ era motivo di grandissimo orgoglio, una soddisfazione enorme. Poi, essendo più giovane, sono cresciuto studiando e osservando Gianluigi e Angelo, che poi da piccolo

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era il mio grande idolo. Un po’ brucia il fatto di aver perso la maglia azzurra una volta approdato al Milan, dove giocai molto meno rispetto a prima, ma tant’è. Sono comunque estremamente felice della mia avventura in Nazionale, senza alcun dubbio”.

“Il periodo migliore? Sicuramente il periodo dal 2004 al 2008 con la maglia del Livorno. Grandi stagioni, sia dal punto di vista personale che di squadra”


A proposito di Milan, tanti suoi colleghi in passato hanno sottolineato le difficoltà di lasciare un club del genere, considerato unico per varie ragioni: condivide? “Senza dubbio, il Milan è una società unica. Quando si presentò quella occasione avevo grandissimo entusiasmo, non si può rifiutare una squadra del genere. Inoltre avevo, e conservo tuttora, un debole per questi colori. Sin da piccolo. Il Milan ha una storia incredibile, un fascino particolare e quando chiamò il dottor Galliani accettai subito, senza alcun tipo di esitazione. Avevo tante offerte e a Milano c’era la concorrenza di Abbiati, questo è vero, ma ero motivatissimo per questa nuova avventura. Era un sogno che si realizzava. Tutti mi hanno fatto sentire importante, anche se forse resta un rammarico”. Il riferimento torna all’azzurro? “L’Italia fu una conseguenza. Dico che avrei potuto lasciare il Milan un po’ prima, magari al terzo anno. Ma è facile parlare a posteriori. In ogni caso sono riuscito a giocare le mie partite, purtroppo non quante avrei voluto. Anche per questo la Nazionale si allontanò. Questo è un piccolo rammarico, anche se, credetemi, lasciare una società del genere è molto, molto difficile”. L’appuntamento con un’altra big, però, è stato solo rimandato. “Arrivò l’occasione del Chelsea, chi lo avrebbe mai immaginato. Si fece male Courtois, quindi il club valutò le varie opportunità sul mercato per la sostituzione. In quel momento stavo per firmare con un club della Serie B italiana, ma ci furono delle piccole problematiche che ritardarono la conclusione della trattativa. A posteriori, una fortuna. Perché arrivarono i Blues che mi contattarono attraverso lo staff di Mourinho. Andai a Londra, mi valutarono dal punto di vista fisico e firmai il contratto. Fu un’esperienza meravigliosa, indimenticabile”. La Premier League è realmente così distante dal calcio italiano? “Credo che il calcio italiano abbia molto da imparare da quello inglese, i nostri dirigenti

devono attingere dal loro modo di lavorare e pensare. Si punta tantissimo sulla valorizzazione del singolo finalizzata alla crescita del gruppo. E i risultati si vedono. I valori del calciatore non sono solo tecnici, ma soprattutto fisici e agonistici. E questo crea l’ambiente che noi tutti vediamo da fuori, il pubblico è al settimo cielo in ogni partita. Tutti i match

Amelia ha sempre stimato enormemente il modo di allenare di Capello

Grazie a Lippi ha fatto parte della spedizione al Mondiale 2006

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rappresentano un evento. La Premier League è un campionato bellissimo, forse l’unica pecca consiste nella parte tattica. Sono un po’ indietro rispetto a noi, ma sul resto sono un esempio”. Che ricordo ha di Mourinho? “È superfluo parlare dell’allenatore, sufficiente ricordare quello che ha vinto. Preferisco sottolineare le qualità umane di questo uomo. Ha una sensibilità unica che contagia tutti, poi è un fenomeno a pretendere, riuscendoci, il meglio da ogni calciatore. Purtroppo il mio periodo è coinciso con quello per lui più difficile: forse il gruppo era in parte logoro e appagato dai successi degli anni precedenti, ma il suo modo di lavorare resta eccezionale. Ogni giorno mette tutto sul campo, il 100% per rimanere al top”. Ha conosciuto molto bene e lavorato anche con Lippi: ci sono dei punti in comune tra i due? “Certo, il discorso è molto simile. Anche in questo caso credo sia superfluo parlare di un allenatore che ha vinto ovunque, preferisco porre l’attenzione sull’aspetto uma-

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no: il gruppo, il gruppo e ancora il gruppo. Il gruppo viene prima di tutto. Ho vissuto il mister non nella quotidianità di un club, ma come commissario tecnico, potendo comunque ammirare tutte le sue grandi doti. Era bravissimo a motivare tutti, anche i calciatori che avevano meno spazio. A me e Peruzzi ripeteva sempre che il nostro ruolo era molto importante e che avremmo dovuto essere d’esempio per la squadra. Faceva sentire tutti importanti allo stesso modo. Questo è il punto in comune tra Mourinho e Lippi”. Tra i tanti ‘capitoli’ della sua carriera, quale considera il migliore? “Sicuramente il periodo dal 2004 al 2008 con la maglia del Livorno. Grandi stagioni, sia dal punto di vista personale che di squadra. Siamo partiti dalla Serie C arrivando fino all’Europa. Incredibile, perché parliamo di un club piccolo come quello toscano. Per me sono stati anni speciali passati con una maglia altrettanto speciale. A Livorno sono diventato uomo e mi sono affermato come calciatore”.


LA CARRIERA DI MARCO

Dalle giovanili a Roma fino al titolo di Campione del Mondo… Uno dei migliori prodotti del settore giovanile della Roma negli anni ’90. Può essere così riassunta la prima parte di carriera del campione del mondo ’82, che dopo gli iniziali passi mossi nella squadra della Lupa Frascati si fa notare dagli osservatori giallorossi che lo inseriscono nella propria cantera. Intuizione azzeccata, a dir poco, perché il giovane Marco si guadagna la stima di tutto l’ambiente, compresa quella di un certo Fabio Capello che decide di aggregarlo al gruppo che nel giugno 2001 avrebbe poi vinto lo storico tricolore. La tappa successiva lo porta invece a Livorno in quello che rappresenta il ‘battesimo’ nel calcio dei ‘grandi’. Il primo anno lo trascorre da ‘vice’ di Andrea Ivan, (nella vecchia Serie C1), mentre è con Roberto Donadoni che disputa la prima stagione da titolare, in Serie B. Ben 35 partite in campionato che gli valgono il grande salto in Serie A con la maglia del Lecce (club che nel frattempo lo aveva acquistato con la formula del prestito con diritto di riscatto della comproprietà): 13 presenze e un giocatore che comincia a dimostrare le proprie qualità anche ai livelli massimi. Dopo la parentesi di Parma (dove trova la concorrenza di un big come Sébastien Frey) arriva il momento del definitivo salto di qualità. Ancora in Toscana, ma questa volta con tanta più esperienza e sicurezza: il patron Aldo Spinelli lo riscatta definitivamente e in quel momento inizia il grande periodo che porta alla maglia della Nazionale italiana con continuità. Dal 2004 al 2008 prestazioni super in amaranto, ottime annate culminate con la Coppa UEFA 2006-2007, l’apice personale e di squadra. Probabilmente questo è il miglior Amelia visto in carriera, come ammesso dallo stesso nel corso di questa intervista. Archiviato questo indimenticabile periodo, altri cambiamenti. Questa volta si vola in Sicilia per vestire il rosanero del Palermo, club con cui firma un contratto quadriennale: un periodo troppo lungo al netto della reale durata di questa esperienza, perché nonostante il duello vinto con Alberto Fontana, Marco cambia squadra. Ora è tempo di Liguria, è tempo di Genoa (scambio di portieri con Rubinho). E anche con il Grifone c’è un dualismo, con un’altra sfida per i ‘guantoni’ da titolare da vincere, con Alessio Scarpi. Detto, fatto. Ma nonostante ciò anche questa avventura dura una solamente 12 mesi. La grande chiamata non tarda però ad arrivare, perché tocca al Milan fare affidamento sulle prestazioni del classe ’82 di Frascati. Una scelta forse rischiosa per via della presenza del titolare Christian Abbiati, che alla fine lo limita dal punto di vista del minutaggio: qualche ‘gettone’ in Champions League e 29 presenze in Serie A. Troppo poco per un portiere del suo livello. Dopo uno Scudetto (2010-2011) e una Supercoppa Italiana (2011) per un totale di 41 partite, l’ormai ex numero 1 rossonero decide di salutare Milano. Gli anni che seguiranno saranno particolari al netto del tipo di progetto scelto (vedi Rocca Priora e Lupa Castelli Romani, tra campo e ruoli sia da presidente che da direttore tecnico), ma che riserveranno comunque una grande sorpresa. Tra il Perugia (2015) e Vicenza (2017), ecco la grande opportunità di conoscere un calcio meraviglioso come quello inglese potendo lavorare al fianco di uno dei migliori allenatori del mondo: quel José Mourinho che nell’ottobre del 2015 lo sceglie come ‘secondo’ di Asmir Begovic dopo l’infortunio di Thibaut Courtois. Una chiamata che ovviamente non può rifiutare. Questa la grande sorpresa, sicuramente inaspettata, per un portiere importante del nostro calcio. Un portiere che punta a essere protagonista in campo per almeno altri due anni, prima di intraprendere una nuova carriera: quella di allenatore. Questo il futuro di Marco Amelia. Lui, abituato a guidare e dirigere da dietro che, in fin dei conti, ha già deciso che continuerà a farlo. Semplicemente da un’altra prospettiva.

“La Nazionale? Il privilegio di averne fatto parte è immenso, l’azzurro ha rappresentato un grandissimo sogno. Ho lavorato con dei miti come Buffon e Peruzzi” 65


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Marco Amelia

Domanda d’obbligo finale: cosa farà da grande? “Non penso ancora a ritirarmi, per quello che c’è ancora tempo. Mi sento bene sia dal punto di vista fisico che psicologico e ho voglia di allenarmi tutti i giorni. Quando quest’ultimo aspetto mancherà, beh... vorrà dire che smetterò. Poi il sogno è quello di diventare allenatore. Penso proprio sia il mio ruolo ideale, me lo dicono tutti e sto già iniziando a pensare in parte come tale. Ancora 2-3 anni in campo, poi questa sarà la mia strada”. Storia recente, invece, la brevissima esperienza di Vicenza: perché ha deciso di lasciare dopo solo pochi mesi? “Ho scelto questo club sostanzialmente per due motivi, entrambi importanti: il blasone e l’importanza storica del Vicenza e, soprattutto, perché avevo e ho tuttora grandissima voglia di giocare. Purtroppo le cose non sono andate come avrei voluto, per una serie di circostanze. In un primo momento eravamo riusciti a venir fuori da una brutta situazione di classifica, poi per via di vari problemi siamo stati risucchiati nella zona pericolosa fino ad arrivare alla retrocessione. Mi dispiace tantissimo, avevo voglia di far bene, di mettere la mia esperienza al servizio del gruppo e di cambiare la mentalità. Purtroppo ci sono stati vari ostacoli, inoltre in una categoria difficile come la Serie B. Quello che avevo previsto non si è poi verificato, è stata una sconfitta anche personale e alla fine ho addirittura chiesto scusa alla dirigenza. Purtroppo mancava la professionalità, non mi ritrovavo in tutto questo. La voglia di rimettermi in gioco era talmente tanta che avevo accettato il salario minimo, nonostante la possibilità di scegliere altre squadre con stipendi importanti. Questo spiega credo tutto circa le mie motivazioni per la causa. Il rammarico è grande, e nonostante il mio percorso da calciatore professionista, fortunatamente caratterizzato da tante soddisfazioni, considero questa esperienza come una sconfitta”.

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“PUO’ ESSERE ANCORA UTILE”

Orsi ha un debole per Amelia: “Parliamo di un grande giocatore” Insieme al portiere campione del mondo, Fernando Orsi ha raggiunto la salvezza con il Livorno dopo aver accettato la chiamata di Aldo Spinelli per sostituire l’esonerato Daniele Arrigoni nella stagione 2006-2007. Il suo ricordo non può che essere positivo, e la disamina tecnica ancor più veritiera perché Nando è stato a sua volta un ottimo portiere: “Parliamo di un grande giocatore, con qualità tecniche e fisiche indiscutibili. Purtroppo c’è del rammarico, perché penso che avrebbe potuto fare di più al netto delle sue doti. Insieme conquistammo la salvezza nel 2007 al termine di un percorso importante in cui le sue prestazioni si rivelarono decisive. Il mio ricordo è ottimo, senza dubbio. Non potrebbe essere altrimenti. Marco è una persona eccezionale e un ottimo portiere che potrebbe essere importante per il calcio italiano anche oggi”. potrebbe essere altrimenti. Marco è una persona eccezionale e un ottimo portiere che potrebbe essere importante per il calcio italiano anche oggi”.


“Non penso ancora a ritirarmi, per quello che c’è ancora tempo. Mi sento bene sia dal punto di vista fisico che psicologico e ho voglia di allenarmi tutti i giorni”

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LA CARRIERA DI MARCO

Stagione

Squadra

Serie

Presenze Gol

2000-2001 Roma A 2001-2002 Livorno C1 2002-2003 Livorno B 2003-gen. 2004 Lecce A gen.-giu. 2004 Parma A 2004-2005 Livorno A 2005-2006 Livorno A 2006-2007 Livorno A 2007-2008 Livorno A 2008-2009 Palermo A 2009-2010 Genoa A 2010-2011 Milan A 2011-2012 Milan A 2012-2013 Milan A 2013-2014 Milan A 2014-gen. 2015 Rocca Priora Promozione gen.-giu. 2015 Perugia B ago. 2015 Lupa Castelli Romani LP ott. 2015-2016 Chelsea Premier League feb.-giu. 2017 Vicenza B

0 0 7 -5 37 -42 14 -27 2 -4 33 -54 39 -45 38 -55 * 33 -48 35 -47 35 -56 8 -12 14 -15 13 -20 6 -9 1 -1 1 0 2 -1 0 0 4 -5

* 1 gol segnato ** Dati aggiornati al 27/05/2017

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SPECIALE

Carlos Alberto álvarez di Luca Gandini

A tu per tu con Carlos Alberto álvarez, famoso attaccante argentino degli anni ‘70 e ‘80 che ha vissuto in prima persona alcuni momenti destinati a lasciare un segno nella storia del “fútbol”.

TESTIMONE DELLA STORIA

I

l calcio sudamericano, la sua incomparabile passione e la sua voglia di primeggiare, oggi come ieri. Perché se è vero che il gioco più bello del mondo è nato in Inghilterra, che i più celebri campioni militano qui in Europa, e che da ormai qualche anno le più importanti manifestazioni mondiali sono appannaggio quasi esclusivamente di club e Nazionali del vecchio continente, è altrettanto innegabile che senza lo stile, la fantasia e la “garra” di potenze quali Brasile, Argentina e Uruguay, il calcio, anzi, il “fútbol”, non sarebbe lo stesso. Con questa convinzione abbiamo dunque deciso di inaugurare una nuova rubrica in cui dare voce a loro: i protagonisti di quella scuola sudamericana che così tanto ha contribuito e così tanto contribuisce a fare della “pelota” lo sport più popolare e seguito al mondo. In questo numero partiamo dall’Argentina e da un personaggio che di cose interessanti da raccontare ne ha parecchie. Il suo nome è Carlos Alberto Álvarez, ma laggiù, nella terra delle Pampas, è più conosciuto come “Bartolo”. È nato a Buenos Aires il 3 marzo 1952, ed è stato un famoso attaccante negli anni ‘70 e ‘80. Era in campo il giorno in cui un suo giovane compagno, un tale Diego Armando Maradona, faceva il suo esordio tra i

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Tra gli avversari più tosti mai affrontati, spicca il nome di Daniel Passarella

professionisti con la maglia dell’Argentinos Juniors. Come “delantero” del Boca Juniors ha vinto la Coppa Libertadores e la Coppa Intercontinentale; nell’Independiente è stato compagno d’attacco di un altro storico numero 10 del calcio argentino, Ricardo Bochini, mentre come allenatore delle giovanili del Racing Avellaneda ha visto crescere Diego Milito, il Principe del triplete nerazzurro. Un protagonista e testimone della storia. Questo e molto altro è “Bartolo” Álvarez. Che tipo di attaccante era Carlos Alberto Álvarez? Quali erano le sue caratteristiche tecniche? “Ero un attaccante di buona tecnica e abile nel controllo di palla con entrambi i piedi, sebbene fossi destro naturale. Se non riuscivo a trovare spazi, amavo retrocedere di qualche metro e unirmi al gioco dei centrocampisti, per poi ripresentarmi in zona-gol sfruttando l’effetto-sorpresa. Di testa non ero un fenomeno, ma il mio gioco aereo era comunque accettabile. C’è qualche attaccante del presente o del

recente passato in cui le è capitato di rivedersi? “Mescolando le varie caratteristiche e fatte le dovute proporzioni, mi identifico con Carlos Tévez”. In che anno e con quale squadra debuttò tra i professionisti? “Debuttai nel 1971 con la maglia del Racing Avellaneda, una squadra molto famosa in quegli anni, perché nel 1967 si era laureata campione del Sudamerica e del mondo. È un club che per me significa molto, perché mi ha dato l’opportunità di fare tutta la trafila nel settore giovanile e di esordire tra i professionisti nel calcio argentino”. Il soprannome con cui è conosciuto in Argentina è “Bartolo”. Ci racconti: da cosa o da chi deriva? “Nacque ai tempi del Racing. Durante un allenamento che precedeva l’inizio della stagione, effettuando alcuni esercizi con il pallone che si concludevano con il tiro in porta su un campo dal terreno irregolare, mi capitò un paio di volte di colpire la palla molto male. Così mi si avvicinò l’allenatore,

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SPECIALE

Carlos Alberto álvarez dal piccolo Argentinos al giil maestro Juan José Pizzuti, gante Boca? che mi disse: “Cosa fai, Bar“Chiaramente cambiavatolo?”. Da quel momento tutno gli obiettivi. Al Boca, ora ti i miei compagni iniziarono come allora, si chiede sema soprannominarmi in quel pre di primeggiare in qualsimodo”. asi competizione”. Nel 1975 il passaggio all’ArCosa che le riuscì: con il Boca gentinos Juniors, dove, il 20 contribuì infatti alla conquiottobre 1976, fu testimone sta di due titoli internazionadell’esordio ufficiale tra i li importantissimi: la Coppa professionisti di un giovaIntercontinentale edizione nissimo compagno chiamato 1977 e la Coppa Libertadores Diego Armando Maradona. edizione 1978. In Coppa InChe tipo era il “Pibe de Oro”? tercontinentale superaste il “Ho avuto la fortuna di far temibile Borussia Mönchenparte di quella squadra. gladbach. Che duelli furono Quando esordì con la ma- Una foto recente del grande Álvarez, contro i tedeschi? glia dell’Argentinos Juniors stella del calcio latino “Il Borussia era una grande contro il Talleres di Córdoba, quadra. Ricordo che avevano il danese Allan Diego aveva solo 15 anni. Entrò in campo nel Simonsen, Pallone d’Oro in carica, e diversi secondo tempo sull’1-0 in favore dei nostri nazionali tedeschi campioni del mondo nel avversari. Purtroppo non riuscimmo a ribal1974, come Berti Vogts, Herbert Wimmer e tare il risultato, ma fece un paio di numeRainer Bonhof. Li allenava Udo Lattek, l’uri che valsero da soli il prezzo del biglietto. nico tecnico ad aver conquistato le tre prinL’aspetto caratteriale che più risaltava di cipali coppe europee con tre club diversi. La Diego era la sua disponibilità ad ascoltare i gara di andata la giocammo alla Bombosuggerimenti dei compagni più anziani”. nera di Buenos Aires e pareggiammo 2-2. Nella sua autobiografia, lo stesso Diego Io entrai nel secondo tempo in sostituzione racconta che l’Argentinos dei suoi esordi di Daniel Pavón. Ci complicammo un po’ la era, prima ancora di una squadra di calcio, vita, però grazie allo spirito battagliero di un gruppo di veri amici. È d’accordo? quel gruppo eravamo fiduciosi di centrare “Sì, era un gruppo di buoni giocatori e ral’obiettivo. E infatti, nel ritorno di Karlsruhe, gazzi eccezionali”. il Boca vinse 3-0 dominando”. Con quella maglia, lei seppe conquistare In realtà i vostri avversari avrebbero doil titolo di capocannoniere del campionato vuto essere gli inglesi del Liverpool, camargentino 1977 con 27 gol. Dunque la sua pioni d’Europa in carica, che però avevano intesa con Maradona era ai massimi livelli? preferito rinunciare al duello. Pensa che “Senza dubbio. Era un giocatore dalla quaavreste potuto superare anche i Reds? lità inarrivabile e velocissimo, con cui mi in“Io credo di sì, perché eravamo una squadra tendevo alla perfezione. Quella, tra l’altro, fu forte e loro ci temevano”. la prima volta che un giocatore dell’ArgentiLe piace la formula del Mondiale per Club nos Juniors si laureava capocannoniere. Dei FIFA o preferiva la cara, vecchia, Coppa In61 gol totali della squadra, io ne segnai 27 tercontinentale? “Preferivo le finali di una e Diego 13”. volta”. Grazie a quell’impresa, arrivò la chiamata Che tipo di calcio esprimeva quel Boca? di un gigante del calcio argentino e mon“Era una squadra compatta con giocatori di diale: il Boca Juniors. Come fu il passaggio

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qualità che conoscevano i pregi e i difetti dei compagni e la cui parola d’ordine era “sacrificio””. A quei tempi, il vostro allenatore era il famoso Juan Carlos Lorenzo, un personaggio conosciuto anche qui in Italia per via delle sue esperienze sulle panchine di Lazio e Roma. Ce lo descriva. “Era un allenatore che non lasciava nulla al caso. A seconda dell’avversario ci preparava nella maniera adeguata e quando entravamo in campo sapevamo cosa fare, mettendo tantissima pressione sui nostri rivali”. Pochi mesi dopo aver alzato la Coppa Intercontinentale, vinceste anche la Coppa Libertadores, il massimo alloro sudamericano. Che tipo di sfide erano quelle? Immaginiamo durissime... “Avendo il Boca vinto l’edizione precedente,

nella Coppa Libertadores 1978 entrammo in gioco a partire dalle semifinali, dove ci toccò affrontare in un triangolare con gare di andata e ritorno i brasiliani dell’Atlético Mineiro e i nostri cugini del River Plate. La squadra che avrebbe totalizzato più punti in quel raggruppamento si sarebbe poi qualificata per la finale. Furono sfide durissime, perché l’Atlético Mineiro era una grande squadra, forte di quel Toninho Cerezo per anni centrocampista della nazionale brasiliana e protagonista nel campionato italiano. Il River era il nostro rivale storico, per di più imbottito di molti giocatori che, solo poche settimane prima, avevano dato alla nazionale argentina il suo primo titolo mondiale. Nonostante ciò, terminammo il girone imbattuti, dopo aver bloccato il River sullo 0-0 alla Bombonera e avendolo sconfitto al

Álvarez ha visto crescere un ragazzo di nome Diego Milito

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SPECIALE

Carlos Alberto รกlvarez

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Monumental, e dopo aver superato l’Atlético sia a Belo Horizonte che a Buenos Aires. In finale avemmo la meglio sul Deportivo Cali, prima squadra colombiana a raggiungere l’atto conclusivo della manifestazione. Era allenata da un giovane tecnico argentino, Carlos Bilardo. Sì, proprio il futuro c.t. dell’Argentina campione del mondo a Messico ‘86”. A proposito di Mondiale e di Nazionale: ha rappresentato un cruccio il fatto di non essere stato convocato nella rosa dell’Albiceleste in occasione di Argentina ‘78? “Chiaramente tutti sognano di rappresentare il proprio Paese ai massimi livelli. Io ho avuto la soddisfazione di indossare l’Albiceleste nelle categorie giovanili, ma mai a livello di nazionale maggiore. Ma non è mai stato un grosso motivo di dispiacere”. Dopo l’esperienza al Boca, il trasferimento a un’altra grande compagine, l’Independiente, dove ebbe l’onore di giocare con un altro storico numero 10 del calcio argentino: “el Bocha”, Ricardo Bochini. “Sì, fu un’enorme soddisfazione per me essere compagno di quel grande campione che fu Bochini. Con lui instaurai anche un buon rapporto di amicizia e di cameratismo”. Lei ha vissuto in un’epoca in cui i club argentini, e più in generale sudamericani, riuscivano a tenere testa ai grandi club europei. Oggi la situazione è profondamente cambiata. Il motivo è solo il divario economico tra il calcio sudamericano e quello europeo o c’è dell’altro? “Credo che la vendita di giocatori giovani ad altri mercati abbia pregiudicato molto il livello dei nostri club, perché poi diventa tremendamente difficile costruire una base solida in ambito locale”. Le sarebbe piaciuto giocare in Italia? “Come no?! Sarebbe stato fantastico”. Avendo per anni allenato le giovanili del Racing Avellaneda, le è mai capitato di conoscere Diego Milito? Lo sa che qui da noi, specialmente nella Milano nerazzurra, “el Príncipe” è un autentico mito?

Il tecnico Bilardo, uomo importantissimo nella carriera di Álvarez

“Sì, conosco Diego dal momento che lo ebbi come giocatore nelle giovanili del Racing. Di lui non posso che parlare bene: grandissimo attaccante e ragazzo squisito”. Domanda secca: i compagni più forti e gli avversari più duri che ha incontrato. “Tra i compagni più forti, solo per fare qualche nome, dico Humberto Minuti, difensore ai tempi dell’Argentinos Juniors, e tre ragazzi che erano con me al Boca: Carlos Squeo, Rubén Suñé e Jorge Ribolzi. Tra gli avversari, sicuramente Daniel Passarella, Roberto Perfumo e Roberto Rogel”. Le cose più preziose che le ha lasciato il calcio. “Le cose più importanti sono state la formazione come persona e le amicizie che grazie a Dio sono tante”.

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RECORD DA RICORDARE

CA

Costacurta ALessandro

di Luca Savarese

BILLY E IL GOL A 41 ANNI

A

lessandro Costacurta, non solo ha giocato con i rossoneri dal 1986 al 2007 vincendo di tutto. Detiene un piccolo grande record. Il suo ultimo gol, segnato a 41 anni dal dischetto nel suo commiato contro l’Udinese nel 2007, è

Il gol di Costacurta all’Udinese nel giorno del suo addio - Foto Liverani

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storia: è infatti la rete realizzata dal giocatore più vecchio in Serie A. A pochi giocatori capita di iniziare e finire, con la stessa maglia, con i battiti degli stessi tifosi che rendono più forte il primo e l’ultimo passo del tuo cuore. Ti svegli la matti-


Costacurta è, ancora oggi, un simbolo del nostro calcio

na e vai a letto la sera con due soli colori, per meglio sentire addosso la brezza di tramonti più rossi di altri, ma anche per essere il dottore più veloce dei momenti neri. Perché ci vuole orecchio, cantava il rossonero Enzo Jannacci. Si, ci vuole orecchio per vivere ventuno anni, dal 1986 al 2007, con il Milan tra la sistole e la diastole. Parlare di Alessandro Costacurta nato a Jerago con Orago, nella provincia di Varese, il 24 aprile del 1966 si corre il rischio che si vive davanti ai grandi: o si dice troppo o troppo poco. Bisogna dunque bilanciarsi e calibrarsi, cogliendo il tempo giusto nel raccontarlo, quello che sapeva scegliere lui quando chiudeva, fine chirurgo, le falle, a dire il vero poche ma fisiologiche, di una di-

fesa fantascientifica: il bisturi lo usava Baresi, lui metteva i punti e Maldini preparava le garze. Così si esce indenni dalle sale operatorie del campionato e della Coppa Campioni e si diventa prima immortali e poi invincibili. Benvenuti nel mito senza tempo, ma con grande tempismo, di Alessandro Costacurta, il terzo rossonero più presente di sempre con 663 gare spalmate in 21 stagioni alle spalle di Baresi (719) e Maldini (919). Trittico, che dopo la lunga militanza sui campi, continua negli almanacchi e nei vademecum di ogni tifoso rossonero. Davanti, come fedelissimo, Costacurta ha due mostri sacri e dietro? Un altro protagonista assoluto nella storia rossonera, il golden Boy Gianni Rivera, non proprio l’ultimo arri-

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record recorddadaricordare ricordare

CA IL RICORDO DI NAVA

Stefano Nava, compagno di Billy al Milan, prima in qualche apparizione con la primavera e poi in prima squadra all’inizio degli anni Novanta. Stefano, complimenti per il tuo operato nella primavera, ma anche grazie per essere la voce di Fifa, quando ti sentiamo spesso siamo in camera o in salotto a giocare, quindi non capita tutti i giorni di parlare con un vip.. “Non mi considero assolutamente tale, sono piacevolmente sorpreso di tenervi una buona compagnia”. Hai giocato con Billy dal 1990-1991, e 1992-1995 e con un’esperienza anche in primavera Quale suo trucco del mestiere ti è servito più di altri? “Racconto un aneddoto che a distanza di tanti anni è ancora molto nitido. In primavera lui era un aggregato alla prima squadra giovane ed io ero più giovane di lui. Ci fu un’amichevole della prima squadra contro la Solbiatese dove anche noi primavera avevamo la possibilità di metterci in mostra. Lui giocò poco, io ero entrato dopo, ma a fine partita parlando con dei suoi amici che erano venuti a vederlo disse a fine partita: “Si bello giocare con questi della prima squadra, ma quando giocherò mai io con questi che sono così forti!”. Ma l’aveva detto con un’espressione di caparbietà, come dire, adesso è così la situazione, dubito che ci possa essere spazio, ma m’impegnerò con tutte le forze che ho perché questo possa accadere. E porca miseria se s’è impegnato! Me lo ricordo a distanza, fu una lezione, il cui succo era: anche se le cose mi sembrano impossibili, pazienza, io continuo ad impegnarmi, poi vediamo cosa succede”. 19 maggio 2007, dieci anni fa esatti oggi, Costacurta chiude la carriera segnando l’ultimo suo gol. Billy ha 41 anni e quello è tuttora il gol realizzato in A da un giocatore più vecchio. Insomma traguardi da predestinato o mattone su mattone vieni su una grande casa ed una super carriera? “Ha lavorato tanto, aveva talento nel suo bagaglio, ma anche una predisposizione al sacrificio, sicuramente un talento per i rigori non ce l’aveva poiché non erano la sua specialità (sbagliò quello decisivo contro il Boca Juniors nel mondiale per Club 2003, nda) ma finire la carriera con un rigore, non proprio il suo cavallo di battaglia, dimostra ancora di più la sua caparbietà”.

vato. Opere e giorni di Billy. A proposito, se è vero che il calcio è capace di affibbiarti epiteti che nemmeno Omero ai suoi eroi, dove nasce Billy per il sciur Costacurta? A Milano, quando il ragazzo respira i primi vagiti nella culla Milan, va per la maggiore la Billy Milano, squadra di basket sponsorizzata dalla nota azienda dei succhi di frutta. Il giovane Alessandro, va ghiotto di quella bevanda. Non solo, spesso, tra un allenamento ed una partita, va a vedersi la Billy Milano, l’odierna Armani. Uno dei suoi primi allenatori al Milan, Fausto Braga, vedendo questo suo interesse per la palla a spicchi ed il suo fisico alto e magro, proprio

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di un cestista, gli dice spesso: “Ma te ste chi a fa?” Fuor dal milanese -cosa stai qui a fare- “Va giucà al Billy”- vai a giocare al Billy. Lui va al Billy, ma solo come tifoso, divenendo presto amico di coach Dan Peterson. Il dado, anzi il nome, ormai è tratto. Billy gli si scolpirà sulla pelle prima, durante e dopo il Milan. Ai tiri da 3, preferirà stare vicino al 3, Paolo Maldini, diventando grande goccia dopo goccia. Alla bibita Billy, ne aggiungerà una meno dolce ma molto più redditizia: l’impegno, costante, vigile, quasi maniacale. Due decadi lì, tra Milanello e San Siro. Stesso periodo di tempo in cui l’oratore romano Quintiliano insegnò nelle scuole e le


cui parole chiave erano insegnare, divertire, commuovere. Costacurta ha insegnato la bellezza di sposare una sola maglia, si è divertito vivendo con dedizione e passione il proprio ruolo ma mantenendo sempre quella leggerezza capace di regalare sorrisi, stemperare la tensione, ed ha commosso come i più umili, uscendo di scena senza far fracasso. Va bene le risate e qualche ora di distensione, ma sempre dopo gli allenamenti. Ecco, gli allenamenti, fondamentale per ogni atleta e sentiti particolarmente dal ragazzo di Jarego con Orago. Capiva, se ci se era allenati bene, grazie ad una cosa: quando lui ed i suoi compagni finivano spesso in terra, allora era stato un buon allenamento, quando, al contrario c’era calma piatta e tutti rimanevano in piedi, voleva dire che qualcosa non era andato per il meglio. Ronaldo, il fenomeno brasiliano, il giocatore che gli ha fatto venire il mal di testa. Disse di lui una volta Billy “Era ossessionante”. Ne ha visti tanti di bomber avversari, ha corso parecchi kilometri per cercare di renderli inoffensivi; infiniti tackle, collezione di scivolate, insomma, una vita scandita da raddoppi ed entrate. Quando Costacurta arriva nel mondo Milan, ha 12 anni. Ha appena disputato una partita, condita da una doppietta con la Gallaratese. Non solo le reti (nel proseguo della carriera una rarità) ma uno stile impeccabile che fecero subito muovere gli osservatori del Milan. È il 1978. Carol Wojtyla succede ad Albino Luciani. Costacurta, nella parrocchia rossonera, durerà due anni più del papa polacco al soglio pontificio. Dopo gli anni di studio matto e disperatissimo con la primavera,

viene buttato nella mischia in una gara di Coppa Italia che oppone il Milan alla Sambenedettese, agosto 1986. Poi ecco il primo bacio, l’esordio in A: 25 ottobre 1987, al Bentegodi di Verona, Verona-Milan 0-1. È il minuto 88 quando il signor Rosario Lobello di Siracusa ferma il gioco. Arrigo Sacchi richiama Roberto Donadoni e fa entrare Alessandro Costacurta. Incontro che il Milan aveva già fatto suo con la firma di Virdis. Il Milan vincerà il campionato dopo otto anni di digiuno. E via sotto con l’esordio in Coppa dei Campioni: Vitocha Sofia-Milan 0-2. 7 settembre 1988. Il giovane Alessandro si è preso un posto nella fabbrica dei sogni di Arrigo Sacchi e chi glielo toglie più? La snervante tattica del fuorigioco Billy non solo la manda a memoria, ma la applica con una facilità disarmante. Le partite diventeranno battaglie e le battaglie guerre, dove la vittoria, molto spesso, sosterrà nel suo esercito. 7 scudetti, 5 coppe dei campioni, 5 super coppe italiane, 4 super coppe europee, 2 coppe intercontinentali, 1 coppa Italia. Legionario elegante e puntua-

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

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record da ricordare

CA le, senza inutili fronzoli in vane trincee. Poi il destino, quasi per congratularsi con il suo spirito, gli cuce addosso il congedo dei giusti... Milan-Udinese, 19 maggio 2007. Trentasettesima giornata, ultima in casa per i rossoneri. Anticipo del sabato. Sembra una gara così, senza un granché da dire. Lo scudetto se lo è portato a casa, addirittura un mese prima, l’Inter. La partita più importante, quella che vale una stagione, per il Milan sarà quattro giorni dopo, il 23, ad Atene, dove il diavolo proverà a riprendersi quella Coppa dei Campioni proprio contro il Liverpool, che due anni prima, nella notte delle grandi illusioni di Istanbul, dopo il 3 a 3, gliel’ha portata via ai rigori. Insomma, bisogna andare ad Atene sull’acropoli, cosa può interessare una scala del calcio accaldata? Molti la pensano così, ma il programma di quella sfida apparentemente monotona contiene una nota piuttosto

interessante: questo sarà il canto del cigno italiano di Billy. Molti tifosi che l’avevano già data per inutile, ci ripensano e si procurano un biglietto. Va bene tutto, ma dinanzi all’ultima in campionato del Costacurta non si può dire che Andem. Andiamo. Allora San Siro da giungla pre vacanziera, tra un passaparola e l’altro, diventa un fortino delle emozioni. Milan in campo con Storari, Bonera, Simic, Favalli (22’ st Darmian), Grimi

IL RICORDO DI GALLI

Filippo Galli, difensore onesto sempre sul pezzo e molto ostico da superare, compagno di Costacurta nella retroguardia rossonera negli anni ‘80 e ‘90. Filippo, hai giocato con Billy e poi dal 1983 al 1996. Compagno di vita non solo di reparto per tanti anni? “Premesso che era un gruppo con una cultura del lavoro unica. Lui è tre anni più giovane di me, non abbiamo fatto in tempo ad incrociarci nelle giovanili, ma da quando arrivò al Milan poi, di fatto, non se ne andò più. In quegli anni ci siamo divertiti a dominare il mondo con la maglia del Milan, eravamo un gruppo di amici e giocatori con una cultura del lavoro davvero fuori dal comune”. Un pregio di Billy in campo e un aneddoto fuori “La sua voglia di applicarsi giorno dopo giorno e, cosa non sempre comune per un difensore, la sua tanta tecnica. Fuori era sempre scherzoso, mi ricordo qualche foto con lui vestiti da samurai a Tokyo dopo un’intercontinentale, scoppiarono grandi risate così conciati, ma ripeto al di là di questo atteggiamento divertente, alla base c’era una dedizione per la professione molto alta”. Veniamo a quel gol, su rigore in Milan-Udinese del 19 maggio 2007, 10 anni fa esatti. Billy ha 41 anni e un mese. Un addio glorioso? “Si è regalato una buona chiusura di carriera, accidenti! Poche volte capita ad un giocatore di finire col calcio con un rigore, segnato. È sempre un esercizio molto rischioso, le poche volte che l’ho eseguito, ricordo la porta restringersi in maniera astronomica, immagino cosa ha provato Billy, ma credo che fosse inconsapevole di questo primato e questo, lo ha tranquillizzato. Non ero a conoscenza di questo suo particolare record, per cui davvero i complimenti. Bravo Billy!”.

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(31’ st Guerci), Brocchi, Costacurta (14’ st Di Gennaro), Gourcuff, Serginho, Oliveira, Borriello. Allenatore, Ancelotti. La maggior parte della squadra è precauzionalmente a riposo in vista della sfida agli inglesi. Risponde l’Udinese con De Sanctis, Coda, Zapata, Natali, Dossena, Motta (6’ st Siqueira), D’Agostino, Muntari, Barreto, (22’ st Sivok), Asamoah, Di Natale (35’ st De Martino). Allenatore, Malesani. Gara affidata alla direzione di Gervasoni di Mantova. L’Udinese, arriva a San Siro fuori dall’Europa, ma è grintosa e senza timore alcuno. Costacurta parte dal primo minuto. Asamoah porta avanti i friulani di testa. Il francesino Gourcuff pareggia i conti. Nel secondo tempo Di Natale raddoppia. La partita qui chiama in causa il suo festeggiato. Dodicesimo del secondo tempo, Gourcuff cade in area. Rigore. Tutta San Siro aspetta un solo uomo dagli undici metri: Alessandro Costacurta, che trasforma, freddo e veloce, destro, pal-

la a destra, De Sanctis a sinistra, Billy in gloria. Pochi minuti dopo uscirà, per prendersi nel petto il vento dell’onore, dopo anni di oneri. Fa niente se Barreto segnerà ancora e regalerà i tre punti all’Udinese. Alessandro Costacurta nell’ultimo giorno della sua scuola rossonera in campionato, si è offerto nell’esame dal dischetto. Gol a 41 anni ed un mese. Prima di lui, con i 40 sulle spalle, ci riuscì solo un certo Silvio Piola, nel febbraio del 1954 con la maglia del Novara contro il Milan. Oggi quel record persiste, mentre Billy, è diventato un algido opinionista di Sky. Ma, quando è chiamato a commentare le cose di casa Milan, la testa ed il cuore vanno un pochino anche a quel giorno, dove lui, con la sua calma olimpica, ha finito la carriera italiana e dato vita ad un primato. Ventuno anni, una bacheca colma di allori ed un rigore storico. Tutto, rigorosamente con la stessa maglia ad indicargli la via, quella rossonera. Roba da pochi, anzi da eletti.

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ROAD TO…

MONDIALI PIU’ VICINI La Panini lancia Road To 2018 Fifa World Cup Russia… L’attesa per i Mondiali 2018, in programma in Russia, cresce sempre più. Panini, per avvicinarsi al meglio all’evento calcistico più importante al mondo, ha confezionato un album di figurine da non perdere per nulla al mondo… Parliamo di Road To 2018 Fifa World Cup Russia, la raccolta ufficiale per chi vuole arrivare alla kermesse mondiale con tutte le info e le curiosità del caso. Come sempre, straordinario il prodotto Panini. All’interno dell’album presenti ben 30 delle nazionali più forti. Ogni squadra nazionale avrà due pagine di spazio all’interno della raccolta e ben 16 figurine a rappresentarla. Decisamente intriganti le figurine, in “stile americano”, quindi non nella classica posa Calciatori ma in movimento. Presenti anche tutti i Top Player delle nazionali più amate e vincenti, ossia di Italia, Brasile, Francia, Inghilterra, Spagna, Argentina, Germania e via dicendo… La collezione comprende la bellezza di 480 figurine complessive!!! Essendo una raccolta pensata per “avvicinarsi” al Mondiale 2018, spazio solo alle stelle che vedremo in azione in Russia. Tutte e 480 le figurine, infatti, sono di calciatori, i veri protagonisti del prossimo Mondiale…


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DOVE SONO FINITI?

NM Nappi Marco

di Stefano Borgi

IO NON PERDO MAI... O VINCO, O IMPARO!

Famoso per il palleggio della foca, 18 squadre da calciatore, allenatore in attesa di patentino. Marco Nappi è di tutto, di più. Soprattutto ha un grande cuore...

L

a frase, lo diciamo subito, è di Nelson Mandela. Sintesi perfetta tra determinazione ed umiltà. Casualmente le stesse parole campeggiano sul profilo whatsapp di Marco Nappi, e dopo averci parlato per un’ora abbiamo capito il perché. Qualche esempio? Marco, perché non sei ancora allenatore di prima categoria? “Non lo so – risponde – Io sono allenatore di seconda, da calciatore ho vinto sette campionati, quattro anni fa do l’esame a Coverciano e non rientro nei 20 prescelti. Ma non c’è problema, ce la farò. Ci arriverò vincendo”. Grinta, sicurezza, convin-

Nappi ha tanta voglia di allenare, qui è con Pioli

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zione, che nel suo caso non fa rima con presunzione. Altro giro altra corsa. Marco, sappiamo che nella Beretti del Livorno (l’attuale squadra allenata da Marco Nappi ndr.) c’è il nipote di Agroppi. Viene mai il nonno a vederlo? “Come no – risponde di nuovo – Si chiama Alessandro e spesso Aldo assiste agli allenamenti. È molto gentile, una persona squisita. Anzi, sono io il primo a chiedergli consigli per farmi dire se sbaglio qualcosa. C’è sempre da imparare da quelli che hanno più esperienza di te”. Insomma... umiltà, rispetto, voglia di vincere e di imparare. Questo è Marco Nappi,


DOVE SONO FINITI?

NM La finale con la Juventus invece... grande delusione. “Soprattutto la squalifica del campo che ci portò a giocare ad Avellino. Praticamente giocammo in trasferta entrambe le partite. L’arbitro poi si chiamava Soriano Aladren, un nome che era tutto un programma...” Nonostante il buon rendimento ancora un cambio, ancora un trasferimento. Perchè? “Vede, a me piaceva giocare al calcio. Non era un problema di piazza e neppure di soldi. Invece spesso giocava qualcuno al posto mio, per grazia ricevuta. Anche a Firenze: nel 1990 il mio procuratore Canovi mi disse che mi voleva Trapattoni all’Inter per sostituire Fontolan. Era una grande occasione ma Lazaroni bloccò la mia cessione. Poi fece giocare Lacatus che aveva fatto un grande mondiale, e doveva giocare per forza. Allora me ne andai all’Udinese, richiesto proprio da Scoglio. Quindi in prestito alla Spal e finalmente il ritorno a Genova. Lì avevo la famiglia, furono 4 stagioni meravigliose. 33 gol in 126 partite, diventai ben presto un idolo della curva”.

“Ho cambiato tante squadre perchè volevo giocare. E invece spesso giocavano altri, per grazia ricevuta. Ha presente Lacatus, oppure il giapponese Miura?”

Nappi da ragazzino, tanti sacrifici per arrivare a sfondare nel calcio

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Nappi non ha dimenticato Borgonovo, compagno di squadra e grande amico

Ma anche in quel caso la concorrenza era dietro l’angolo... “Certo: si chiamava Kazu Miura, il giapponese. Vuoi non farlo giocare? (chiosa ironico ndr.) A quel punto tornai a Brescia. Poi ancora Genova dal ‘95 al ‘98, quindi l’Atalanta con Vavassori. Due anni splendidi, una promozione in Serie A ed un 7° posto. Mi faccia dire: Vavassori è il miglior tecnico col quale ho lavorato. Peccato non l’abbia avuto in gioventù, mi avrebbe completato tatticamente. Io sono sempre stato un anarchico: prima punta, seconda punta di movimento, con lui avrei migliorato anche in fase difensiva”. Ternana, Como (altra promozione in Serie A), Savona, poi comincia la carriera di allenatore... “Nel 2007 comincio alla Figenpa di Genova. Vinco tutti i campionati regionali, cominciammo con 29 bambini finimmo con 208. Poi a Savona con gli Allievi Nazionali ed ora alla Beretti del Livorno. Ma, ripeto, non ti aiuta nessuno...” L’amicizia con Borgonovo ed il Nappi organizzatore di eventi. Qui ha tutto lo spazio che vuole... “Con Stefano ho giocato a Firenze e a Brescia nel ‘94. Io e lui eravamo uguali: gente semplice, scherzosa, disponibile con tutti. Fu una promessa che feci a Stefano durante il Borgonovo Day del 2008: l’anno prossimo voglio fare una partita a Genova per la tua fondazione. La chiamai ‘Ieri e oggi, uniti contro la Sla’, con gli ex di Genoa e Sampdoria. Fu un grande impegno, non dormii per sei mesi per paura di non


Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

proprio come recita la frase di Mandela. Marco, chi le ha insegnato i sani principi? “Mio padre e mia madre. Vengo da una famiglia umilissima, papà lavorava in una litografia. A me piaceva giocare a calcio, i miei non mi hanno mai ostacolato, però non volevo studiare. Allora una mattina mio padre mi svegliò e mi disse... ‘Vieni con me a lavorare’. Quel giorno capii cos’era il sacrificio e mi è servito tantissimo”. Sua madre invece? “Mamma è stata fondamentale quando ero nelle giovanili del Cesena. Avevo solo 16 anni e dopo un amichevole a Castrocaro le dissi: ‘Voglio che papà mi venga a prendere. Qui non ci voglio più stare’. Mamma invece mi disse che quella era la mia passione e che dovevo resistere. Meno male perché in quella partita fui il migliore, e da lì scattò qualcosa. Era un grande Cesena: Sebastiano Rossi, Ruggero Rizzitelli, Alessandro Bianchi... Tanta roba”. Lei però aveva cominciato nell’Urbe Tevere, orbita Lazio. Che successe poi? “Successe che per la Lazio ero troppo basso. Anzi le leggo la scheda tecnica: ‘Tecnicamente il migliore, dribbling eccezionale, ottima visione di gioco, destro e sinistro precisi. Grosso handicap nella statura essendo molto basso’. Capito che roba? Dopo Cesena me ne andai in Serie B a Ravenna, l’anno dopo in C2 alla Vis Pesaro dove feci 15 gol. Quello fu il trampolino di lancio per tornare in B con l’Arezzo, e poi la grande occasione al Genoa. Mi portò Sogliano, feci 7 reti e fummo promossi in Serie A. Un sogno...” A Genova l’aspettava il professor Scoglio... “Gran personaggio il prof. Allenatore moderno, pressing alto, qualche problema nella gestione del gruppo. Oggi avrebbe avuto difficoltà con i procuratori, troppa gente che gira intorno ai calciatori...”

Perché se ne andò? “Perché Scoglio soffriva la mia popolarità. Ricordo che dopo una vittoria a Padova, con un mio gol al 93’, i giornali scrissero che aveva vinto il Genoa di Nappi. E lì ci fu lo scontro. Controvoglia me ne andai anche da Genova però volevo la Serie A a tutti i costi. Ero pronto, la sentivo mia. Pregai Sogliano di trovarmi una sistemazione, e finalmente arrivò la Fiorentina”.

“Sono nato romanista, il mio idolo era Bruno Conti, però cominciai nella Lazio. Ma per loro ero troppo basso, nonostante fossi il migliore di tutti...” Possiamo dire che Firenze è stata il miglior periodo della sua carriera? “Stetti solo due anni, dal 1989 al 1991. Però aver giocato con Baggio, Dunga, Di Chiara, aver raggiunto una finale di Coppa Uefa... Sono momenti indimenticabili. Ricordo il gol di Brema, in semifinale: Buso rinvia lungo, io prendo 10 metri a Borowka, affronto il portiere della nazionale tedesca Reck e lo fulmino con un piatto destro in corsa. Ci davano tutti per sconfitti, e invece...” E il numero della foca? “Beh, se quel numero l’avesse fatto Maradona se ne parlava ancora. Come feci? Erano gli ultimi minuti col Werder Brema, adrenalina a mille, io dovevo allontanare quel pallone a tutti i costi. Mi capitò questa palla sulla testa, ci palleggiai setto-otto volte e la portai fino a centrocampo. Fu un momento di follia, però la gente me lo ricorda ancora...”

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avere pubblico ed invece vennero in 24.000. Quanto varrebbe oggi Marco Nappi? Cassano, Mancini, Skuhravy, fu un grande “Non lo so, non voglio dire cifre. Però se uno spettacolo. Raccogliemmo 112.000 euro per come Gabi-Gol vale 25 milioni, io ne varrei 180. la fondazione Borgonovo ed altri 112.000 per Non per presunzione, ma tanti allenatori vorl’associazione Gigi Ghirotti di Genova. Abbiamo rebbero Nappi come giocatore.” costruito 5 stanze nell’hospice del professor Il suo idolo da bambino? Henriquet per i malati terminali di SLA. Una “Nessun dubbio: Bruno Conti. Averlo affronparte fondamentatato da giocatore “Con Stefano Borgonovo le la ebbe Ivo Ghirè stata una granlandini della Figen- eravamo molto amici. Nel 2009 dissima emoziopa che mi mise a ne. Pensi che mi organizzai una partita per la disposizione tutta muovevo e mi vela parte grafica e sua fondazione. Avevo paura stivo come lui. Ha burocratica. Poi la il cerotto che non venisse nessuno, ed presente ciliegina dell’inausotto il ginocchio invece erano in 24.000”. gurazione e beneper tenere i paradizione col cardinal stinchi?” Bagnasco di Genova. Insomma... tutto perfetto”. Ha amici nel calcio? E chi è il miglior compaDopo tanta umanità, una domanda cattiva: gno con cui ha giocato? dicevano che lei andasse più veloce del pal“Amici veri ne ho solo uno: Mario Bortolazzi, lone... che ora è nello staff di Donadoni al Bologna. “È una cavolata. La velocità era la mia forza, Il miglior compagno, tecnicamente, è stato ho messo in difficoltà un sacco di gente. Ciro Roberto Baggio. Complessivamente però dico Ferrara quando mi vedeva mi chiedeva impauCarlos Dunga. Grandissima personalità, carito: ‘Ma oggi giochi o non giochi?’ Mi dia retta, rattere, grinta...” i miei avversari li ho massacrati tutti”. Ci racconti il Nappi privato. “Ho due figlie: una è laureata in lettere moderne e sta per prendere la seconda laurea. L’altra quest’anno ha la maturità classica e farà medicina. Pensi che differenza, io ho preso la terza media alle serali... (ride ndr.)” Come padre invece? “Le mie figlie mi dicono che sono antico. Che per me è un complimento. Di certo non ho creste e tatuaggi. Ma io dico, prenda Nainggolan, Icardi, Perotti: quando i loro figli li guardano che penseranno? “ L’ultima curiosità: perché il soprannome Nippo? “Me lo mise la Gialappa’s Band a ‘Mai dire gol’. E le dirò, fui contentissimo. Addirittura quando ero a Terni feci richiesta alla lega di Serie B per mettere il nome Nippo sulla maglietta numero 7, ma me la rifiutarono. Gabi-Gol invece (ancora lui, ndr.) una volta mette Gabi l’altra Gabriel, e glielo fanno fare. Ma non vi preoccupate, noTanti i campioni con cui ha giocato, Roby Baggio il più forte nostante tutto io arrivo lo stesso...”

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l’alfabeto dei bidoni

V N Nelson Vivas

di Fabrizio Ponciroli

THE KICKING MACHINE Una vita romanzata quella di Nelson Vivas, apprezzato allenatore con un passaggio in Italia…

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e chiedete ad un tifoso dell’Arsenal chi è Nelson Vivas, potrebbe anche non ricordarsi di lui. Ma, state certi, se usate le parole “The Kicking Machine”, allora tornerà facilmente alla mente. Nato a Granadero Baigorria ma trasferitosi, infante, a San Nicolas, non doveva

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chiamarsi Nelson. Il suo nome sarebbe dovuto essere Milton David ma il padre, al momento di registrarlo all’anagrafe, scelse il più comune Nelson. Curiosità: ancora oggi, diversi componenti della sua famiglia, lo chiamano David… Vivas, classe 1969, muove i primi passi nel mondo del cal-


cio decisamente tardi. È già quasi 21enne quando entra a far parte del Quilmes. È un esterno di difesa, soprattutto di fascia destra, con buona corsa e tanta, tanta determinazione. A Quilmes il suo primo soprannome: Chango (“Se qualcuno mi chiama Chango, è sicuramente uno di Quilmes”, racconta lo stesso Vives). Tuttavia, il calcio lo scopre tardi tanto che, prima di diventare calciatore, fa di tutto: lavora con lo zio e presta anche servizio militare (14 mesi, non pochi). Nel 1994 arriva la chiamata del Boca Juniors. Ci resta per tre stagioni, mostrando buone doti (86 presenze, con tre gol all’attivo). L’Argentina gli sta stretta. Decide di tentar fortuna in Svizzera, a Lugano. Viene così notato dall’Arsenal che lo porta a Londra (primo giocatore latino ad indossare

IL RITIRO? UN PROBLEMA Simeone, scherzando (ma non troppo), l’ha detto più volte: “L’ho salvato dal suicidio”, le parole del Cholo. In realtà non è così ma resta il fatto che Vivas, qualche problema, l’ha avuto. Al momento di appendere le scarpette al chiodo, l’ex interista inizia ad avere qualche difficoltà. A El Grafico, in un’intervista del 2008, racconta: “Ho cominciato ad andare dallo psicologo quando ho smesso di giocare. Ci sono andato su raccomandazione di mia moglie. Vivere al mio fianco stava diventando complicato. Ero abituato a giocare, avere le mie regole. Senza il calcio, ho iniziato ad avere disturbi ossessivi-compulsivi. Ordinavo il frigorifero come fosse un supermercato, con tutti gli yogurt perfettamente ordinari. Piegavo e ripiegavo le camicie. Pulivo sempre l’auto, non sopportavo la vista di un copri sedile fuori posto. Ero arrivato ad un bivio: o cercavo di farmi curare o dovevo vivere da solo. Ovviamente ho scelto di farmi aiutare, troppo importante la famiglia per gettare tutto al vento”. Per fortuna, a distanza di diversi anni, Vivas ha trovato la sua “giusta collocazione nel mondo”. Tornare sul campo, da allenatore, gli ha, forse, salvato davvero la vita… E, quindi, da un certo punto di vista, corretto ringraziare Simeone, colui che l’ha voluto al suo fianco…

Vivas ha giocato con grandi campioni, tra cui l’ex capitano nerazzurro Zanetti...

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l’alfabeto dei bidoni

VN LA NUOVA VITA DI VIVAS

Diventa allenatore grazie a Simeone, ora è come Hulk… Nel 2005, una volta presa la decisione di ritirarsi, Vivas non sa bene cosa fare. In suo soccorso arriva un certo Diego Pablo Simeone. Il Cholo, amico di Vivas (compagni di nazionale), lo sceglie come suo personale vice all’Estudiantes: “Mi ha dato l’opportunità di fare ciò che mi piace, senza essere, subito, in un ruolo troppo importante. Sicuramente mi ha aiutato tantissimo”, ha confidato, qualche tempo fa, a La Nacion, lo stesso Vivas, parlando di Simeone. L’attuale tecnico dell’Atletico Madrid si porta Vivas anche nelle successive esperienze al River Plate e al San Lorenzo. Nel 2013 gli viene affidato il ruolo di allenatore all’amato Quilmes, ma le cose non vanno benissimo (si dimette ad ottobre). Torna in corsa con l’Estudiantes. Prima allena la squadra riserve poi ecco la prima squadra… Ed è qui che si trasforma in Hulk. In una recente sfida con il Boca (sua ex squadra), Vivas perde completamente la testa. Per un presunto fallo da rigore non concesso dall’arbitro ai suoi ragazzi, Vivas, schiumando rabbia, va su tutte le furie. L’arbitro del match, tale Trucco, gli sventola in faccia il cartellino rosso. Vivas non si controlla più e, come il supereroe della Marvel Hulk, si strappa la camicia, dando il via ad una scena di pura follia. In tanti ci hanno rivisto il “vecchio Vivas”, quello che, in campo, non aveva problemi ad intervenire con un duro tackle: “la mia reazione è stata inappropriata e ingiustificata ma io sono una persona viscerale, passionale”. Lo sapevamo, caro Vivas…

la casacca dei biancorossi). Con i Gunners non ha tanto spazio (è costretto anche ad andare in prestito al Celta Vigo) ma si guadagna il rispetto di tutti, in primis del tecnico Wenger che ne sottolinea sempre la grande determinazione, anche se, a volte, è piuttosto ruvido in campo. Ljungberg, suo compagno all’Arsenal, conia così il soprannome “The Kicking Machine”. Nel 2001, dopo, comunque, quattro titoli con il club inglese, la seconda grande chance della sua carriera: l’Inter decide di metterlo sotto contratto. Sbarca a Milano, sponda nerazzurra, in un’estate in cui Moratti fa le cose in grande.

E’ stato il primo giocatore latino in maglia Arsenal

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Simeone è stato fondamentale per la carriera, e la vita, di Vivas


Viene assoldato, come timoniedel giro dell’Albiceleste per quare, l’ex Valencia Cuper per far si 10 anni (dal 1994 al 2003), con fare il salto definitivo all’Inter. ben 39 presenze e una rete (conTantissimi i volti nuovi. Oltre a tro la Romania). E che dire dei “The Kicking Machine”, vengocompagni di squadra con cui ha no ingaggiati grandi nomi come giocato? Gente come Maradona, Materazzi, Conceiçao, Toldo, Zanetti, Batistuta, Bergkamp Ventola e Guly, tanto per citare e Ronaldo (il Fenomeno). C’è i più noti. Fa il suo esordio, in anche un curioso aneddoto riSerie A, il 26 agosto 2001, nella guardo al Pibe de Oro: “Una prima giornata di campionato. volta mi hanno dato la maglia L’Inter spazza via il Perugia con Si ringrazia Panini per la gentile numero 10. Diego non c’era e un secco 4-1, Vivas subentra, a concessione delle immagini ho giocato io con quel numero, Conceiçao, al 39’ della ripresa. ovviamente non nella stessa poIn quell’anno sfiora lo Scudetto. Il dramma sizione”, il racconto dello stesso Vivas. Di del 5 maggio, con la sconfitta, all’Olimpico, lui, un grande allenatore come Menotti, ha con la Lazio, entra, di diritto, nel bagaglio detto: “Vivas è come un’ape”, riferendosi al di ricordi che si porta via dall’Italia. All’Insuo essere estremamente veloce ma anche ter non lascia un segno indelebile. In due incredibilmente fastidioso. Insomma, pochi stagioni, colleziona solo 19 presenze, senza minuti in campo ma tanto da ricordare e un nessuna rete all’attivo (spesso subentrando carattere da gladiatore, purtroppo mai visto dalla panchina). Un progetto, extra campo, all’Inter… lo porta comunque a termine: apre un ristorante con Zanetti e Guly (ora di proprietà solo di Pupi). Nel 2003, a quasi 34 anni, fa ritorno in Argentina. Una stagione, trascorsa soprattutto in panchina, al River e poi l’ultimo ballo della carriera al Quilmes dove, nel 2005, dice basta al calcio giocato. Paradossalmente, nonostante non sia mai riuscito a trovare, con continuità, una maglia da titolare nei club in cui ha giocato, Vivas ha avuto una più che onorevole carriera con la nazionale argentina. Ha fatto parte

LA SCHIENA TATUATA Quando ha deciso di trasformarsi in Hulk, Vivas ha mostrato la propria schiena, con tanto di tatuaggio piuttosto esteso. Lo stesso Vivas, ha spiegato il significato che risiede nei suoi tattoo: “C’è un po’ di tutto, è stato un percorso... Ci sono parole in inglese come ‘breathe, believe e recieve’ e pure la figura di Buddha con la scritta ‘namaste’... Io sono cristiano ma credo molto nel buddismo”, il commento del variopinto allenatore...

All’Arsenal è stato allenato da Wenger che ha sempre creduto nelle sue doti da gladiatore

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K M Klose Miroslav IL POKERISSIMO DEL TEDESCO gare da ricordare

di Thomas Saccani

5 maggio 2013, il giorno in cui Klose fece la storia…

C

i sono momenti che entrano, di diritto, nella storia del calcio. Miroslav Klose, attaccante nativo di Opole, in Polonia, ma di nazionalità tedesca, ha sempre avuto una corsia preferenziale per le grandi imprese. Quando diventi il miglior marcatore, ogni epoca, della storia dei Mondiali (16 gol all’attivo, nessuno come lui), significa che hai qualcosa di speciale. Lo sanno, benissimo, anche i tifosi

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della Lazio, soprattutto chi era presente, il 5 maggio 2013, all’Olimpico. L’allora Lazio di Petkovic, per inseguire il sogno Europa League, è chiamata a battere il Bologna di Pioli. I tre punti sono obbligatori. Petkovic, nel suo tradizionale 4-4-2, si affida, in attacco a Floccari e Klose. Il tedesco è in un periodo nero. Non va in rete dal mese di dicembre (da 141 giorni consecutivi per l’esattezza, avendo segnato il suo ultimo gol all’Inter, il 12


ALTRI POKERISTI… Fare cinque gol in una partita… Il sogno di ogni attaccante. Qualcuno, in realtà, quel sogno l’ha realizzato. In Europa ci sono nomi altisonanti che hanno sperimentato così significa mettere a segno un pokerissimo. In Premier League, nel 2015, Sergio Aguero, punta del Manchester City, ne ha segnati cinque nel 6-1 con cui i Citizens hanno asfaltato il Newcastle United. Esattamente cinque anni prima ci era riuscito Dimitar Berbatov (Manchester United-Blackburn Rovers 7-1). Tanti i tedeschi che ci sono riusciti in Bundesliga come, ad esempio, l’ex Inter Jurgen Klinsmann. Il 15 marzo 1986, l’allora attaccante 21 enne bomber dello Stoccarda fa pokerissimo contro il Fortuna Dusseldorf (7-0 il finale). Più recente (e veloce), la quintupla di Lewandowski contro il Wolfsburg (in soli nove minuti di gioco). Nella Liga brillano ancora i cinque gol segnati da El Tigre Falcao con l’Atletico Madrid contro il Deportivo La Coruna (6-0 il finale). C’è anche chi ci è riuscito per ben due volte, come Cristiano Ronaldo (contro Granada ed Espanyol). Un salto anche in Ligue 1 con la cinquina di Carlos Eduardo del Nice (7-2 al Guingamp). A livello di Champions League, come non citare Leo Messi: cinquina contro il Bayer Leverkusen (7-1 il finale) o Soren Lerby, autore di cinque dei 10 gol con cui l’Ajax, nel 1979, disintegra L’Omonia Nicosia. Indimenticabile anche la prestazione del “partenopeo” Daniel Fonseca, nell’allora Coppa Uefa, nel 5-1 del Napoli al Mestalla, contro il Valencia di Guus Hiddink (16 settembre 1992). C’è anche chi ha firmato la sua personale quintupla in una gara di Coppa del Mondo: Oleg Salenko. Nel 6-1 al Camerun, Mondiali 1994, il russo va in rete per ben cinque volte…

dicembre 2012), qualcuno è arrivato anche a metterlo in discussione. I diversi infortuni patiti durante la sua seconda stagione italiana sembrano aver scalfito la sua impermeabile sicurezza nei propri mezzi. Contro i felsinei, i tifosi biancocelesti, si godranno, invece, il miglior Klose della sua avventura nella capitale. Nel sonoro 6-0 con cui l’Aquila sbriciola il Bologna, il panzer teutonico mette a segno la bellezza di cinque gol! Una cinquina in Serie A, un capolavoro riuscito a pochi altri nella storia del nostro massimo campionato. Klose segna in ogni modo: la prima gemma da opportunista, su respinta del giovane portiere

Stojanovic (in possibile posizione di fuorigioco, si dirà nelle tante moviole post gara), il secondo gol di raffinata eleganza (controllo in area e palla in rete). Il terzo sigillo arriva di destro (su perfetto assist di Lulić), seguito dal marchio di fabbrica del tedesco (il colpo di testa, su cross di Candreva) che vale la quaterna personale. Il tedesco non è ancora domo. Arriva anche il pokerissimo, “alla Klose”, ossia sfruttando l’ennesimo assist dei compagni. Cinque gol per ricordare a tutti che, quando uno è nato con il gol nel sangue, non può dimenticarsi di come si manda la palla in fondo al sacco. La Lazio brinda alla

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gare da ricordare

KM

Uno dei cinque gol rifilati da Klose al Bologna... Il quarto per l’esattezza

vittoria ma, nella mente di tutti, resta l’opera d’arte griffata dall’ex Bayern Monaco. Da persona equilibrata e umile quale è sempre stata, Klose non si lascia andare a dichiarazioni in pompa magna nel post match: “Cinque gol in una partita? Li avevo già fatti con la maglia del Kaiserslautern. Ma se ho segnato 5 gol oggi è merito della squadra. Abbiamo lavora-

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to tanto questi giorni. Sono molto soddisfatto di questa prestazione e ovviamente dei miei gol. Adesso? Siamo reduci da un momento complesso ma con la partita di oggi abbiamo reagito, sono felice che la squadra sia tornata alla vittoria. Dedico i cinque gol alla mia famiglia e alla Lazio, la mia seconda famiglia”. Pacato e semplice, come gli impone


L’ULTIMO FU GIALLOROSSO La cinquina di Klose merita attenzione e, ovviamente, un posto d’onore negli annali. L’ultimo pokerissimo in Serie A era arrivato nel lontano 1986, ossia 27 anni prima. A mettere nel sacco cinque volte il pallone c’era riuscito un altro grande bomber, un certo Roberto Pruzzo, allora stella della Roma (16 febbraio 1986, Roma-Avellino 5-1: “Una giornata sfigatissima - scherza Pruzzo - Guarda, sono arrivati tutti quasi per caso, uno dietro l’altro. Tra l’altro, devo ammetterlo, potevo anche fare il sesto”, il ricordo dell’ex giallorosso. Curiosamente, l’ultima cinquina nel massimo campionato italiano era giunta all’Olimpico, teatro del capolavoro balistico di Klose. Il tedesco diventa il primo laziale a riuscirci. Prima di Klose e Pruzzo, solo altre 11 volte si era registrata una cinquina. I fuoriclasse a far parte di questa ristretta élite rispondono, in ordine cronologico, a Italo Rossi (Pro Patria-Roma 6-1, 19 gennaio 1930), Giovanni Vecchina (Padova-Pro Patria 7-0, 30 marzo 1930), Cesare Augusto Fasanelli (Roma-Livorno 7-1, 7 maggio 1931), Giuseppe Meazza (Ambrosiana Inter-Bari 9-2, 9 gennaio 1938), Guglielmo Gabetto (Juventus-Bari 6-2, 17 dicembre 1939), Istvan Mayer ‘Mikè (Bologna-Livorno 6-2, 6 febbraio 1949), Bruno Ispiro (Triestina-Padova 9-1, 8 maggio 1949), Emanuele Del Vecchio (Verona-Sampdoria 5-3, 9 febbraio 1958), Carlo Galli (Milan-Lazio 6-1, 13 aprile 1958), Antonio Valentin Angellillo (Inter-Spal 8-0, 12 ottobre 1958) e Kurt Hamrin (Atalanta-Fiorentina 1-7, 2 febbraio 1964). Meglio di loro solo due mostri sacri come Silvio Piola e Omar Sivori, gli unici a segnare la mitica sestina. Il primo fece sei gol in Pro Vercelli-Fiorentina 7-2 del 28 ottobre 1933, il secondo in Juventus-Inter 9-1 del 10 giugno 1961.

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

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gare da ricordare

KM il suo carattere. In realtà, il più “segnato” dalla partita è Stojanovic, portiere del Bologna. L’austriaco, di passaporto macedone, fa il suo esordio in Serie A proprio nella sfida in cui Klose decide di trasformarsi in Superman: “Lui è l’unico incolpevole di que-

sta situazione e non dovrà essere giudicato né condizionato da questo risultato. Non ha responsabilità sui gol e credo abbia potenzialità per diventare un buon portiere”. Per la cronaca, ad oggi, non ha ancora spiccato il volo (visto, poco, a Crotone e nel San Gallo)…

Il tedesco, sfinito, festeggia la cinquina rifilata ai felsinei

il tabellino della partita

Lazio-Bologna 6-0 - 35^ giornata Serie A 2012/2013 Lazio (4-4-2): Bologna (4-2-3-1): Marchetti; Stojanovic; Konko, Garics, Dias, Sorensen, Cana, Antonsson, Radu; Abero; Candreva (18’ st Pereirinha), Perez (8’ st Krhin), T Ledesma, aider (1’ st Guarente); Hernanes, Gabbiadini, Lulić; Diamanti, Klose (22’ st Saha), Kone; Floccari (29’ Gonzalez). Gilardino (8’ st Christodoulopoulos). A disp.: Bizzarri, Scarfagna, Ciani, Onazi, Crecco, A disp.: Agliardi, Natali, Carvalho, Motta, Naldo, Cataldi, Stankevicius, Kozak, Rozzi. Pazienza, Riverola, Pasquato, Moscardelli. All.: Petkovic All.: Pioli Arbitro: De Marco Marcatori: 21’ Klose (L), 31’ Hernanes, 36’ Klose (L), 38’ Klose (L), 5’ st Klose (L), 16’ st Klose (L) Ammoniti: Lulić (L); Abero, Kone, Guarente (B)

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SCOVATE

da carletto Il dj/speaker di RTL 102.5 Carlo Carletto Nicoletti seguirà i profili Instagram e Twitter dei giocatori più importanti del pianeta Calcio e ci segnalerà le foto e i tweet più divertenti e particolari. Segnalate quelle che magari potrebbero sfuggirgli scrivendogli al suo profilo Twitter e Instagram @carlettoweb

MIRANTE

ETO’O

ROSI

SALAH

L’ex portiere del PARMA, attualmente al Bologna, festeggia il ritorno della sua ex squadra in serie B.

Il difensore del Crotone esalta il giro d’Italia che ha compiuto il suo mister Nicola per festeggiare la permanenza in Serie A.

FIORENTINA

Dopo lo scudetto, anche la Coppa Italia. Stagione trionfale per la squadra femminile Viola.

ZAZA

Erano compagni di squadra alla Juve. Al momento giocano entrambi in Spagna. Adesso entrambi in Italia per il matrimonio di Morata.

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Sempre sorridente e in giro per il mondo l’attaccante del triplete dell’Inter.

Mentre Roma e Liverpool discutono sul suo trasferimento, lui si gode qualche giorno all’ombra delle piramidi.

VERRATTI

Lo danno già al Barcellona, lui intanto si diverte con Quagliarella.

ROMAGNOLI

In attesa di ripartire con il Milan, il giovane difensore romano si rilassa in barca... fermo!


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