diretto da Fabrizio Ponciroli
APR
Bimestrale
Calcio
MAG
2OOO prima immissione 01/03/2018
3,90€
BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50
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Intervista Esclusiva
Rodrigo Bentancur
LA CLASSE DEL 1997 GRANDI BOMBER ESCLUSIVA intervista ESCLUSIVA esclusiva
Federico Di Francesco “Italia, credi nei tuoi giovani”
TREZEGUET
“Segnare è stata una mia scelta”
INTERVISTA ESCLUSIVA eslusiva
Alex Telles
GARE DA NON DIMENTICARE ESCLUSIVA
COSTANTINO ROZZI PARMA-O.MARSIGLIA
“Nazionale? Perché no?” L’anima dell’Ascoli
ALFABETO DEI BIDONI Costinha
GRANDI PRESIDENTI ESCLUSIVA
DIETRO LE QUINTE Stefano Impallomeni
Ducali in trionfo a Mosca
REPORTAGE
Stadio Olimpico di Londra
FP
GIOVANI EROI E VERE LEGGENDE
S
iamo entrati nel periodo clou della stagione. Tutti si affannano a dare il meglio di sé, consapevoli che non c’è domani. È il momento in cui si comprende chi ha la stoffa del campione e chi, invece, sarà costretto a guardare altri festeggiare e alzare quei trofei che bramava… Un numero decisamente ricco quello che avete tra le mani. Siamo stati a casa Juventus. Prima per fare due chiacchiere con Bentancur. Avessi avuto io la sua maturità quando ero un pischello di 20 anni, probabilmente sarei un astronauta. Poi l’occasione di intervistare Trezeguet, mio personale idolo e, non ne avevo dubbi, calciatore “di spessore”. Sarà (o, forse, lo è già) un grande dirigente… Ma non è certo finita qui. I figli d’arte, con esclusiva a Di Francesco (figlio) vi farà capire come il DNA, quello calcistico, sia trasmissibile di padre in figlio. Godersi PortoLiverpool è un lusso, se poi riscopri Telles, ancor di più… Auguri a De Sisti e doveroso l’omaggio a Rozzi, un presidente unico nel suo genere… Poi tanto altro, tutto da scopri-
editoriale
Ponciroli Fabrizio
re e leggere con gusto e passione… Parliamo anche di futuro. L’Italia (lo so, mi pare ancora di proferire una bestemmia) ai prossimi Mondiali non ci sarà ma noi, a differenza di tanti, non faremo finta di niente. Ci attendono tante sorprese. Vi anticipo che anche la Panini non rinuncerà al mitico album di figurine dedicato ai Mondiali. Mi avete scritto in tanti in queste settimane. Il calcio italiano sta a cuore a moltissimi, anche a chi, appunto, ci si avvicina solo quando gioca l’Italia. Il mio pensiero è sempre lo stesso: il nostro Paese è bellissimo ma, se si parla di riforme, si irrigidisce, soprattutto se sono riforme che destabilizzano lo status quo (come diceva un mio vecchio professore di filosofia). Tuttavia, il calcio è il bene più prezioso, socialmente parlando, che abbiamo. Agli italiani puoi fare di tutto, puoi anche ridurli alla miopia ma non puoi toglierli calcio e pasta al sugo. Quindi, sono sicuro che il futuro sarà di un bell’azzurro… Io pretendo di poter rivedere l’Italia primeggiare, lo esigo! Non voglio vivere di ricordi, anche se dolcissimi…
Beato chi da giovane sognò tali sogni che possa, da vecchio, seguitare a sognarli
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SOMMARIO
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Calcio2OOO
Anno 21 n. 1 APRILE / MAGGIO 2018 ISSN 1126-1056
BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli
OLIMPICO 54 STADIO LONDRA
BENTANCUR 8 RODRIGO intervista Esclusiva
di Luca Manes
REPORTAGE
di Fabrizio Ponciroli
Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 01/03/2018 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246
EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872 DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello Diretto da Fabrizio Ponciroli
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I MIGLIORI 1997 SPECIALE di Thomas Saccani
DI FRANCESCO 20 FEDERICO intervista Esclusiva di Sergio Stanco
GIANCARLO DE SISTI GIGANTI DEL CALCIO di Stefano Borgi
CUP 68 FA SPECIALE di Giorgio Coluccia
IMPALLOMENI 76 STEFANO DIETRO LE QUINTE di Pierfrancesco Trocchi
TREZEGUET 80 DAVID GRANDI BOMBER di Fabrizio Ponciroli
Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto. Hanno collaborato Thomas Saccani,Sergio Stanco, Luca Gandini, Gianfranco Giordano, Pierfrancesco Trocchi, Stefano Borgi, Giorgio Coluccia, Luca Savarese Luca Manes, Carletto Nicoletti Realizzazione Grafica Francesca Crespi Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview. Statistiche Redazione Calcio2000 Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it
D’ARTE 26 FIGLI SPECIALE di Luca Gandini
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ALEX TELLES intervista Esclusiva di Fabrizio Ponciroli
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COSTANTINO ROZZI RETROSPETTIVA di Thomas Saccani
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SPARTAK MOSCA MAGLIE STORICHE di Gianfranco Giordano
86 COSTINHA L’ALFABETO DEI BIDONI di Thomas Saccani
90 PARMA-MARSIGLIA GARE DA RICORDARE di Luca Savarese
Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805 Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688
DA 98 SCOVATE CARLETTO
Il prossimo numero sarà in edicola il 10 maggio 2018 Numero chiuso il 27 febbraio 2018
bocca del leone
la
BUFFON, MEGLIO FERMARSI Direttore, la seguo sempre e mi piace come dice le cose. Ho letto che lei è favorevole ad un altro anno di Buffon ma io penso che Buffon si debba ritirare. Non si può sempre pensare che lui faccia i miracoli e poi la Juventus ha il polacco che è già più forte di Buffon. Complimenti per tutto. Angelo, mail firmata Caro Angelo, l’argomento Buffon è all’ordine del giorno, sempre e comunque. Concordo sul fatto che la Juventus ha un portiere, il buon Szczesny, decisamente affidabile ma Buffon è unico. Lo ripeto: fino a quando si sentirà mentalmente pronto, non vedo controindicazioni. E’ una persona intelligente, capirà quando sarà il momento di fare altro. E poi, lo ammetto, sarei felice di
LA PASQUA DEL TIFOSO Sarà una Pasqua da leccarsi le dita con Icam. Oltre alle uova delle principali squadre di Serie A, spazio anche agli astucci da 130g di ovetti con golosa crema di nocciola brandizzati con la livrea dei principali team di calcio di Serie A: Juventus, Milan, Inter, Roma, Lazio, Fiorentina, Genoa e Sampdoria e da quest’anno anche Hellas Verona. Tutti da gustare…
gustarmelo un altro anno, non credo che avrebbe un tracollo. Lui è Buffon… SCHICK, UNO SPRECO Ponciroli, è la prima volta che scrivo e spero mi risponda. Io sono un tifoso romanista e vado allo stadio da 11 anni. La Roma è la mia squadra del cuore e sono preoccupato. Con tutti i bravi direttori sportivi che ci sono in Italia, dovevamo prendere uno spagnolo che pensa solo al suo tornaconto? Schick è il più grande spreco della storia della Roma e nessuno lo dice. Lei cosa ne pensa di Schick? Mauro, mail firmata Caro Mauro, andiamo con ordine… Vero, abbiamo tanti direttori sportivi di qualità in Italia ma Monchi non mi pare uno sprovveduto. Al Siviglia ha fatto cose egregie e ritengo che, per un giudizio definitivo, bisognerà attendere la prossima sessione estiva di mercato. Schick? Quando lo vedo in campo, noto potenzialità notevoli. Come ho sempre dichiarato, ho qualche dubbio
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sulla tenuta fisica del ragazzo. La Roma ha deciso di scommettere sul ceco e potrebbe anche aver avuto ragione. Non credo che sia il più grande spreco della storia della Roma. Io ricordo un certo Iturbe… MONDIALI, CHE FATE? Direttore, l’Italia non è ai Mondiali e io ci sono stato malissimo. Sono un collezionista di album di figurine come lei. Che farà la Panini senza l’Italia? Niente album in Italia? Lei sa qualcosa, me lo dica? Luciano, mail firmata Luciano, puoi stare sereno e rilassato. La Panini uscirà, anche in Italia, con l’album di figurine ufficiale dedicato ai Mondiali e lo allegheremo anche a Calcio2000… SONDAGGIO Direttore Ponciroli, sono Piercarlo e sono un grande appassionato di calcio estero. Ho un mio personale blog e vorrei chiederle un grande favore. Tra le mie passioni c’è il calcio internazionale, in particolare quello
di Fabrizio Ponciroli
CONSIGLIATO DA CALCIO2000 Immaginate ogni settimana di prendere il treno su e giù per tutto il Regno Unito. Il libro è un lungo viaggio che vive in primo piano riti e consuetudini del football britannico. Non c’è solo calcio, la febbre del sabato contagia le vicissitudini pallonare ma anche storiche, riflettendo l’essenza di ogni singola città visitata e narrata. All’interno si trova un mix di racconti e tradizioni in perfetto stile inglese...
inglese. Sto facendo un sondaggio, può partecipare come Direttore di Calcio2000. E’ molto semplice: quale è stata, secondo lei, la miglior squadra della Premier League degli anni ’90? Grazie dell’eventuale risposta Piercarlo, mail firmata Bella domanda Piercarlo… In quegli anni avevo un debole per l’Arsenal ma credo che il Manchester United edizione 1998/99, quello dei terribili ragazzi del 1992 (Beckham, Scholes, Giggs…), è stato fantastico…
un suo impatto così evidente sulla squadra. Non credo, tuttavia, che il merito sia dovuto al fatto che Gattuso sia un “vero milanista”. Anche Inzaghi (Pippo) e Seedorf lo erano… Montella, al suo primo anno al Milan, ha fatto benissimo, andiamoci piano con i giudizi anche se, lo ripeto, Gattuso mi ha sbalordito, in positivo ovviamente…
GATTUSO VERO MILANISTA Egregio Ponciroli, se davvero è una persona vera deve ammettere di aver sbagliato in toto su Gattuso. L’ha massacrato e, invece, era quello che serviva per il Milan. Montella non sapeva nulla della storia rossonera, Ringhio l’ha vissuta in prima persona. Ha sbagliato, ha vinto Gattuso. Elche93, mail firmata Non so il tuo nome ma eccomi qua… Confermo che Gattuso mi ha sorpreso. Non mi aspettavo
BOTTA E RISPOSTA Daniele e Mirko (di Piacenza) non ho spazio per pubblicare la vostra mail ma vi rispondo comunque… L’intervista che mi ha emozionato maggiormente nella mia carriera è stata quella con Nesta (Milan). Quella più divertente con Ibrahimovic (ai tempi dell’Inter). La più difficile? Kalinic ma solo perché parla croato… Il più intelligente? Non è semplice… Cordoba, Bierhoff, Zanetti, LLorente, ce ne sono stati diversi… Ecco, Trezeguet, presente su questo numero, ha una “testa” niente male…
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INTERVISTA
Rodrigo Bentancur di Fabrizio Ponciroli
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IL TALENTO DI MR BENTANCUR
20 anni ma una maturità spaventosa, paragonata solo all’enorme potenziale calcistico…
“A
lle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane”. Aforisma griffato Italo Calvino. Bene, per Rodrigo Bentancur Colman, 20 anni, tale massima non si adatta per niente. Il giovanissimo centrocampista bianconero è decisamente “completo”, nonostante abbia, di fatto, la metà degli anni del suo ca-
pitano Buffon. Basta uno sguardo per capire che siamo al cospetto di un ragazzo con una passione viscerale per il calcio, pronto a tutto pur di diventare un campione, magari come i tanti che, giornalmente, affronta nei duri allenamenti agli ordini di Allegri… Lo abbiamo incontrato, questo è ciò che ci ha raccontato…
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INTERVISTA
Rodrigo Bentancur Allora Rodrigo, arrivi da una famiglia che respira calcio… “A tutta la mia famiglia, il calcio è sempre piaciuto moltissimo. Già i nonni, poi mio padre e, di seguito mio fratello maggiore hanno sempre masticato calcio. Mia mamma mi portava a vedere le partite. Diciamo che il pallone fa parte della mia vita da sempre”. Dall’Uruguay all’Argentina… Da Nueva Helvecia a Buenos Aires, per giocare nelle fila del Boca Juniors. Un bel salto, no? “Avevo solo 13 anni quando ci siamo trasferiti in Argentina. La mia cittadina era di 8/10.000 abitanti, Buenos Aires è una metropoli… Ero piccolo, ho dovuto lasciare molti famigliari e gli amici. È stato importante mio padre che mi ha aiutato a prendere la decisione, spiegandomi che era una grandissima occasione. Quando ho deciso di accettare, tutto è volato velocemente, tanto che, a 17 anni, ero già in Prima squadra”. Due domande in una: sempre giocato come centrocampista e i tuoi idoli da giovanissimo…
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“Sì, ho sempre giocato in mezzo al campo, come centrocampista. Ho giocato sia da “5” che da “8”. Nel Boca giocavo da interno di centrocampo a destra. I miei idoli? Sicuramente Riquelme, un giocatore spettacolare, e Pacheco del Penarol. Poi, a livello di nazionale uruguaiana, avevo un debole per Forlan”. Ti ricordi la prima partita di calcio che hai visto? “Sicuramente è stata una partita di mio padre. Poi sono andato a veder giocare anche mio fratello maggiore”. Parliamo dei tuoi esordi in Argentina con il Boca Juniors. Eri giovanissimo, anno 2015… “Sì, la mia prima partita con il Boca Juniors in Primera Division fu alla Bombonera, contro il Nueva Chicago mentre, in Copa Libertadores, ho esordito, neanche a farlo apposta, in Uruguay, nel mio Paese, allo stadio del Montevideo. C’era tutta la mia famiglia a vedermi, è stato incredibile”.
IN RAPIDA ASCESA… Per certi versi, l’arrivo di Bentancur alla Juventus è legato “all’affare Tevez”. Grazie all’Apache, i bianconeri hanno potuto godere di un’opzione sul giovane uruguaiano del Boca Juniors, opzione trasformata in contratto. Rodrigo nasce a Nueva Helvecia, cittadina del Sud dell’Uruguay fondata, da immigrati tedeschi e svizzeri (da qui il nome Nueva Helvecia, ossia “Nuova Svizzera”), nel 1962. Nella famiglia Bentancur, il calcio è di casa. Ne va pazzo il padre, così come il fratello maggiore di Rodrigo. Sin da piccolo, dimostra un grande temperamento e doti importanti. Non a caso, a 13 anni, scoperto da Luis Luque, osservatore del Boca Juniors, si trasferisce a Buenos Aires ed entra nelle giovanili del club xeneize. La stagione 2015 è quella della consacrazione. L’allora tecnico del Boca Arruabarrena gli dà fiducia e il giovane ragazzo risponde alla grande. Non cambia niente con l’avvento di Schelotto sulla panchina del Boca: Lolo, il suo soprannome, continua a giocare e convincere (curiosità; al termine della stagione 2015, viene votato, dal Clarin, “Giocatore rivelazione dell’anno”. Al Boca rimane sino al 2017 (66 presenze, una rete), poi ecco il trasferimento alla Juventus (a fronte di un corrispettivo di 9,5 milioni di euro pagabili in due esercizi). Fa il suo esordio, in Serie A, contro il Genoa, il 26 agosto 2017. Il mese successivo viene convocato, per la prima volta, nella nazionale uruguaiana. E siamo solo all’inizio di una carriera che è già stellare per un ragazzo classe 1997. In bacheca ha già due campionati argentini, una Copa Argentina e il successo nel campionato sudamericano U20 del 2016. Ora è pronto a vincere con la Juventus…
Parliamo della Juventus. Come è stato il primo giorno alla Juventus? “Già sull’aereo ero emozionato. Sono arrivato in hotel e mi ricordo che sono andato a comprarmi una camicia per essere pronto per la mia prima giornata da bianconero. Quando arrivi qui, capisci subito che sei in un grande club. Io, per fortuna, arrivo dal Boca, un club dove, come qui alla Juventus, devi sempre vincere trofei, non puoi fare altro. Quello che mi ha colpito è stato l’atteggiamento dei giocatori bianconeri, il modo in cui si allenano, l’impegno che ci mettono, la voglia… Mi è piaciuto molto anche il centro sportivo, davvero all’avanguardia”. Chi ti ha aiutato maggiormente ad inserirti
nel club bianconero? “Appena sono arrivato, il mio procuratore mi ha dato una grande mano. Tramite un suo contatto, mi ha permesso di entrare subito in sintonia con la città. A livello di squadra, sicuramente il gruppo di sudamericani mi ha subito accolto alla grande. Devo dire che i vari Buffon, Chiellini, Barzagli e Marchisio mi hanno fatto sentire subito a casa”. E Allegri, che tipo è? Un suo pregio e un suo difetto… “Ho un rapporto speciale con lui. Mi sta aiutando tantissimo nella mia crescita professionale. Mi ha fatto sentire subito importante, mi ha dato una fiducia incredibile. Un difetto? Grida molto (Ride, ndr)”. Nonostante i 20 anni di età, appari molto
“La prima volta che ho incontrato Buffon, mi ha dato la mano e mi ha salutato con il mio nome. Ero sorpreso, un fuoriclasse come lui sapeva il mio nome”
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INTERVISTA
Rodrigo Bentancur sereno. Sei molto più maturo rispetto ai tuoi coetanei. Quale è il tuo segreto? “Nessun segreto, devo ringraziare la mia famiglia che mi ha insegnato a tenere sempre i piedi per terra. Avendo iniziato a giocare così giovane, la presenza della mia famiglia è fondamentale, da sempre”. Beh, ma una pazzia, al primo titolo importante con la Juventus la farai, no? “(Ride, ndr) Vediamo, magari un bel viaggio, sicuramente al mare… Non lo so, prima voglio vincere”. Ma che cosa vuole vincere Bentancur? “Il primo obiettivo è vincere tutto quello che si può con la Juventus. Voglio provare a vincere Champions League, Scudetto e Coppa Italia. Poi, ovviamente, c’è il Mondiale. Mi esalta la possibilità di giocare un Mondiale a 21 anni, sarebbe fantastico. Spero che se ne avverino il più possibile di questi sogni”. Hai parlato di Mondiale. L’Italia non ci
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sarà, che effetto ti fa da straniero che gioca in Serie A? “È davvero stranissimo, quasi irreale. Un Mondiale senza Italia è davvero insolito. Speriamo che torni subito al Mondiale”. L’hai fatto notare ai tuoi compagni italiani che l’Uruguay ci andrà e loro no? “No, non mi permetterei mai. Ho grande rispetto dei miei compagni e non li prenderei in giro mai, allo stesso modo come non mi piacerebbe essere preso in giro io”.
“Voglio provare a vincere Champions League, Scudetto e Coppa Italia. Poi, ovviamente, c’è il Mondiale” C’è un ragazzo, di 40 anni, quindi con il doppio dei tuoi anni, che fa ancora la differenza: Gigi Buffon… “No, non credo abbia veramente 40 anni. È qualcosa di unico, fantastico, incredibile. Quando è tornato in campo e ha parato il rigore, in Coppa Italia, contro l’Atalanta è stato un momento da ricordare. Quello che mi fa impazzire di lui è che è sempre sorridente, pronto a lavorare e a darti una mano. La prima volta che l’ho incontrato, mi ha dato la mano e mi ha salutato con il mio nome. Ero sorpreso, un fuoriclasse come lui sapeva il mio nome. È bellissimo averlo nello spogliatoio come compagno di squadra”. Parliamo un po’ di avversari. Una squadra che ti ha stupito e un pari ruolo davvero forte… “L’Atalanta è una squadra davvero ben organizzata, con un grandissimo gioco. Difficile giocarci contro. Un centrocampista forte? Pjanic (Ride, ndr). Beh, Pjanic è fortissimo, davvero, ma se devo dire un centrocampista di una squadra avversaria, allora dico Milinkovic-Savic della Lazio, giocatore di grande
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INTERVISTA
Rodrigo Bentancur qualità e fisico”. Che ragazzo sei extra campo? Che passioni hai? “Penso di essere un ragazzo molto tranquillo. Quando torno a casa, dopo gli allenamenti, solitamente dormo, perché sono stanchissimo (Ride, ndr). Ho anche uno zio che è una sorta di personal trainer con cui lavoro a livello fisico. Non amo particolarmente cinema o videogames, preferisco farmi qualche passeggiata con la mia ragazza”. Ci sarà comunque un film preferito… Uno in cui ti sarebbe piaciuto essere il protagonista assoluto… “Bella domanda… Fammi pensare un attimo. Direi Fast and Furious, soprattutto perché ho un debole per le macchine sportive”. In Italia stai scoprendo la cucina italiana. Cosa ti ha rapito il cuore?
Il Direttore Fabrizio Ponciroli mentre intervista Rodrigo Bentancur- foto di Daniele Badolato, Juventus FC
“La pasta, non ci sono dubbi. Non c’è posto migliore dove mangiare la pasta all’infuori dell’Italia. La pasta con il ragù per essere precisi e la pizza. Davvero spettacolari”. Giochiamo un po’: tre giocatori, non della Juventus, che vorresti nella tua squadra
LE SCARPE DI RODRIGO Per essere un grande campione, è necessario avvalersi di scarpe di livello top. Bentancur ha deciso di affidarsi alla Cold Blooded Predator 18+, uno dei prodotti del pack Cold Blooded insieme alle varianti X e NEMEZIZ. Disponibile in versione Stadium, Cage e Street, la scarpa unisce il sistema PURECUT LACELESS, che offre il massimo controllo della superficie, alla struttura FORGED KNIT in corrispondenza del mesopiede, per garantire il giusto supporto nell’area mediale e laterale. Non manca la CONTROLFRAME, sviluppata per stabilizzare il movimento, mentre la nuova configurazione ibrida dei tacchetti migliora la rotazione e l’aderenza. Inoltre l’intersuola BOOST™ lungo tutta la scarpa amplifica il ritorno di energia a ogni singolo passo. Ma non è tutto: la nuova Predator 18+ integra anche il SOCKFIT COLLAR, progettato per assecondare la forma del piede garantendo al tempo stesso un sostegno ottimale e una calzata confortevole. Il materiale Primeknit vanta uno strato di CONTROLSKIN, sinonimo di grip ottimale in qualsiasi situazione, mentre la TOMAIA ANATOMICA riproduce la forma del tallone per contribuire alla stabilità del piede. Le Cold Blooded Predator 18+ sono disponibili anche in versione Cage. Questa variante condivide con la controparte da campo la struttura SOCKFIT COLLAR, la tomaia PURECUT LACELESS e il sistema CONTROLSKIN, nonché l’intersuola BOOST™ lungo tutta la scarpa e i tacchetti ad alta aderenza. Realizzando il passaggio dallo stadio alla strada, in linea con la strategia Adidas, Predator è disponibile anche come sneaker casual.
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ideale… “Messi, ovviamente. Poi Busquets e Higuain… Ah no, il Pipita non posso prenderlo? (Ride, ndr). Il terzo che prendo è Pogba”. Chi ti ha dato il miglior consiglio in tutta la mia carriera? “Chi mi sta attorno, solitamente non mi dà tanti consigli ma pensa a supportarmi. In generale, lo ripete spesso mia mamma, il consiglio è quello di sfruttare il momento e di godersi il momento, visto che sono ancora molto giovane”. Come va con la nebbia di Torino? “(Ride, ndr). Guarda, a dire il vero, proprio quest’anno, grazie a Torino, ho visto la neve per la prima volta. È stato fantastico. Sicuramente non ero abituato al freddo ma mi sono abituato in fretta”. Bombonera e Allianz Stadium, ti tratti bene… “Due stadi meravigliosi, con tifosi fantastici. È stato bellissimo giocare alla Bombonera,
dove sembra che il campo tremi, ed è altrettanto speciale giocare all’Allianz Stadium”. L’ultima domanda: i tifosi fanno la fila per chiederti l’autografo. Tu a chi vorresti chiederlo? “Domanda complicata… Probabilmente ad Iniesta, va bene anche la maglia (Ride, ndr)”. Il tempo a nostra disposizione volge al termine. Bentancur deve andare a pranzo, probabilmente lo aspetta un piatto di spaghetti al ragù fumanti, considerato che non c’è seduta di allenamento nel pomeriggio. Con un gran sorriso, ci saluta. L’impressione è di aver trascorso del tempo con un ragazzo in missione. Ha tutto per sfondare, soprattutto un carattere determinato e una passione per il calcio genuina. Mentre sta per andarsene, gli chiedo: “Ma almeno qualche altro sport lo guardi? Magari l’NBA o il tennis?”. La risposta è secca: “No, mi piace giocare e guardare solo il calcio”. Un predestinato…
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97 CLASSE 1997, CLASSE TOP di Thomas Saccani
i migliori Giovani
Classe 1997
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l 1997 è un anno storicamente ricco. Diversi gli avvenimenti che l’hanno contraddistinto. Bill Clinton ha iniziato ufficialmente il suo secondo mandato come Presidente degli Stati Uniti. Viene annunciata la clonazione di un mammifero, la famosa pecora Dolly. Viene assassinato, a Miami, Gianni Versace e perdiamo anche Lady Diana. È l’anno della pubblicazione di un romanzo che avrà un discreto successo:
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Harry Potter. Insomma, un anno decisamente non banale. Anche calcisticamente parlando, il 1997 non è scivolato via senza sussulti. La Juventus vince lo Scudetto, ma perde la finale di Champions League contro il Borussia Dortmund. Un anno prolifico a livello di talento. Non solo il promettente Bentancur è un classe 1997. La lista di campioncini che sono venuti alla luce in quei 12 mesi è piuttosto lunga
e interessante. A Manchester ce ne sono due che stanno già lasciando il segno. Uno, Gabriel Jesus, brasiliano, è già un asso del Manchester City, l’altro, Marcus Rushford, è da tempo un punto di riferimento sia dei Red Devils che della nazionale inglese. Anche il Barcellona ha il suo precoce talento classe 1997: Ousmane Dembelé, acquistato, la scorsa estate, dal Borussia Dortmund per oltre 100 milioni di euro. Insomma, tre attaccanti niente male, ai quali è doveroso aggiungere Ante Coric, stella emergente della Dinamo Zagabria e della nazionale croata. Ci sono anche quelli che stanno cercando la loro consacrazione. Renato Sanchez, di proprietà del Bayern Monaco, è andato allo Swansea per farsi le ossa. Emre Mor, esterno d’attacco ex Borussia Dortmund, ha scelto la Liga e, in particolare, il Celta Vigo per diventare una stella. Se cercate un centrocampista a tutto tondo, capace di giocare davanti alla mediana e di inventarsi anche trequartista, il nome giusto è quello di Youri Tielemans, nazionale belga ora al Monaco. Non male anche il portoghese, interno di centrocampo, Ruben Neves. Al Bayer Leverkusen si stanno godendo Benjamin Henrichs, centrocampista di quantità e qualità, in grado di giocare pure in difesa. Ecco, se cercate buoni difensori, il problema non sussiste. Al Real Madrid stanno osservando, con attenzione, la crescita esponenziale di Theo Hernandez. Sempre al Real gioca un certo Jesus Vallejo, già capitano della Under 21 spagnola. Al Tolosa gioca Issa Diop, difensore di stazza (194 cm per 91 kg) e talento. E in porta? In Francia stravedono per Paul Bernardoni, di proprietà del Bordeaux.
Barella. Sta cercando di ritagliarsi il suo spazio l’attaccante Federico Bonazzoli mentre, ogni volta che è stato impiegato, ha fatto benissimo Vanja Milinkovic-Savic, fratello minore di Sergej della Lazio e attuale portiere del Torino. Altro estremo difensore interessante è Bartlomiej Dragowski, polacco in forza alla Fiorentina. Per l’attacco, non bisogna dimenticarsi di Umar Sadiq, punta di proprietà della Roma. Sotto contratto con la società giallorossa è anche il centrocampista brasiliano Gerson. Alla Sampdoria gioca il buon Dawid Kownacki. Nonostante sia in giro da tanto tempo, è un classe 1997 anche il centrocampista Rolando Mandragora.
E IN ITALIA… Anche nella Serie A ci sono diversi gioielli nati nel 1997. Il più chiacchierato gioca nella Fiorentina e risponde al nome di Federico Chiesa. Per tanti è, di fatto, già un Top Player e, infatti, è sui taccuini delle più prestigiose squadre italiane ed europee. A Cagliari gioca un altro 1997 in rampa di lancio: il centrocampista Nicolò
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97 i migliori giovani
UNA LISTA CORPOSA
Alcuni già noti, altri da scoprire, ecco una “distinta classe 1997” decisamente interessante… Aarón Caricol Abdelhak Nouri Adalberto Peñaranda Ademola Lookman Adrián Marín Aidan Nesbitt Ainsley Maitland-Niles Albian Ajeti Aleix García Aleksandar Lutovac Ali Suljic Allan Saint-Maximin Alperen Babacan Amadou Diawara Amer Gojak Andrea Favilli Andrea Vassallo Andreas Vaikla Andrei Ivan Andrija Balic Ante Coric Asier Villalibre Assane Dioussé Bartlomiej Dragowski Benjamin Henrichs Benjamin Kaufmann Bojan Knezevic Borja Mayoral Breel Embolo Buta Callum Roberts Cameron Borthwick-Jackson Carlos Soler Cengiz Ünder César Montes Christopher Nkunku Cristian Manea Cristian Rivera Dan Crowley Dani van der Moot
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Dani Vega Daniel De Silva Daniel Porozo David Carmona Dimitri Oberlin Diogo Gonçalves Dominic Calvert-Lewin Dominic Solanke Donny van de Beek Dren Feka Eduard Golovljov Elia Alessandrini Emil Audero Emre Demircan Emre Mor Enes Ünal Enis Bunjaki Erik Andersson Ezequiel Ponce Fede San Emeterio Federico Bonazzoli Federico Chiesa Ferro Fikayo Tomori Filip Benkovic Filip Sachpekidis Filippo Romagna Florian Bernhardt Freddie Woodman Fredrik Jensen Frenkie de Jong Fyn Claasen Gabriel Jesus Gaetano Castrovilli Gedion Zelalem Gerson Gino van den Berg Giovanni Crociata Greg Kiltie Gregor Kobel
Guga Haci Dogru Henrik Björdal Heriberto Tavares Hidde ter Avest Isaiah Brown Issa Diop Ivan Saponjic Jack Breslin Jair Oosterlen Jakub Janetzký Jakub Michlík Jan Hofbauer Jean-Kévin Augustin Jeremie Boga Jeremy Helmer Jesús Vallejo João Carvalho Joe Gomez John Ray Jorge Meré Joseph Thomson Josh Onomah Josh Sims Joshua Bitter Julio Pleguezuelo Karim Walid Kasper Dolberg Kenneth Paal Kevin Ikpide Kieran Tierney Konrad Laimer Landry Nany Dimata Lászlo Bénes Leon Bailey Leon Bergsma Lewis Cook Lluis López Loris Bethge Luca Clemenza
Lucas Tousart Ludovic Blas Luka Jovic Lukas Ramser Luzayadio Bangu Malcom Mandela Egbo Marco Krainz Marcus Rashford Marko Dabro Maryan Shved Mateo Cassierra Matías Viña Mauro Coppolaro Mauro Savastano Max Konrad Max Lowe Michael Strein Michel Vlap Mikel Oyarzabal Milosz Kozak Nico Löffler Nicola Della Schiava Nicolò Barella Nikola Vlasic Nikolas Spalek Oliver Burke Ousmane Dembélé Pablo Maffeo Pablo Rosario Pape Cheikh Patrick Roberts Pedro Chirivella Pêpê Phil Neumann Philipp Malicsek Philipp Ochs Pierre Desiré Zebli Pol Lirola Prince Osei Owusu
Ramadan Sobhi Renato Sanches Rodrigo Amaral Rodrigo Bentancur Rolando Mandragora Rúben Dias Rúben Neves Ruben Sammut Ryan Hardie Samed Karakoc Samuel Mráz Savas Polat Senna Miangue Sergi Canós Sheyi Ojo Sinan Yilmaz Stefan Gartenmann Stefan Posch Steven Bergwijn Suat Serdar Tafari Moore Tahmoras Kukcha Tammy Abraham Theo Hernández Thiago Maia Thierry Ambrose Tobias Schättin Tosin Adarabioyo Umar Sadiq Václav Černý Vanja Milinkovic-Savic Vedad Efendic Viktor Tsygankov Xadas Xande Silva Xaver Schlager Yaw Yeboah Youri Tielemans Youssef En-Nesyri Yuri Ribeiro
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INTERVISTA
Federico Di Francesco di Sergio Stanco
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Sulle orme di Eusebio Intervista Esclusiva a Federico Di Francesco, centrocampista offensivo del Bologna e figlio del Mister della Roma
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oma-Bologna del 28 ottobre scorso non è stata la prima volta che Eusebio e Federico si sono incontrati (perché “scontrati” suona male) su un campo di calcio. Era già successo nell’ottobre precedente, quando Federico giocava sempre nel Bologna, ma Eusebio allenava ancora il Sassuolo. Quest’anno, però, all’Olimpico c’era nell’aria un profumo diverso, perché papà sedeva sulla panchina della Roma, il figlio era in campo tra le file del Bologna, con un anno d’esperienza in più sulle spalle e una consapevolezza diversa rispetto alla stagione scorsa, perché ormai la definizione di “prospetto” calza un po’ stretta. Ha avuto la meglio l’esperienza, ma la gioventù ha fatto un’ottima figura: “Penso che oggi Federico sia stato il più pericoloso del Bologna – ha dichiarato Eusebio Di Francesco nelle interviste post-partita – Florenzi (il suo diretto avversario della Roma, ndr) mi ha detto che è un gran rompiscatole”. E dietro l’ironia non era neanche ben celata una buona dose d’orgoglio di papà Eusebio nei confronti del pargolo. “Lui alla Roma in futuro? Magari quando andrò via, perché credo che allenare un figlio sarebbe molto difficile”. Già, non deve essere facile crescere con l’etichetta di “Figlio di Eusebio Di Francesco” sulle spalle, perché
da una parte devi sopportare le malelingue che alludono ad una possibile sponsorizzazione paterna (per non chiamarla in maniera grezza “raccomandazione”), dall’altra devi convivere con inevitabili e costanti paragoni. Questo quando cominci a realizzare che il tuo futuro potrebbe essere uguale al passato di tuo papà, perché quando invece è ancora tutto un “gioco”, voli invece sulle nuvole immaginando di poter ripercorrere le orme del tuo idolo. Già, perché c’è chi sogna di diventare Messi o Cristiano Ronaldo e chi, invece, il proprio idolo ce l’ha in casa e cerca di imitarlo tutti i giorni. E fin da piccolo Federico s’è messo in testa una “pazza” idea: non solo quella di diventare calciatore, ma di raggiungere e superare papà Eusebio, che – per inciso – è stato un ottimo giocatore. E un padre discreto, non oppressivo, non invadente, come ci racconta lo stesso Di Francesco Junior: “Mi confronto con lui come ogni figlio col proprio papà. Per quanto mi riguarda avrebbe potuto anche fare il benzinaio, non sarebbe cambiato niente. Mi ha insegnato i valori, mi ha forgiato nel carattere, ma siamo calciatori diversi, anche se capisco che i paragoni siano inevitabili”. Abbiamo dunque deciso di concentrarci su questo, sul Federico calciatore, sui suoi obiettivi, i suoi sogni e sul rap-
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INTERVISTA
Federico Di Francesco
porto papà-figlio cercando di essere altrettanto discreti e non invadenti. Speriamo di esserci riusciti, ma anche di aver regalato un bello spaccato di una storia che è stato piacevole ascoltare e, poi, ancor più bello raccontare. Federico, partiamo dall’attualità: un bilancio seppur parziale della stagione del Bologna? “Stiamo facendo un buon campionato, ma sono convinto che abbiamo le qualità per andare oltre. Bisogna sempre cercare di migliorarsi, per questo dico che il nostro obiettivo è quello di arrivare almeno decimi in campionato e fare almeno un punto in più di quelli fatti lo scorso anno (41, ndr). Questo significherebbe
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continuare quel percorso di crescita che abbiamo cominciato e ci consentirebbe di spostare gradualmente l’asticella sempre più in alto”. Quali ambizioni deve coltivare questo Bologna? “Qui ci sono tutte le condizioni per fare bene. Bologna è una piazza importante, dove però si può lavorare serenamente, c’è una società seria disposta ad investire, come testimoniano i nostri centri di allenamento e le nostre strutture, e c’è uno staff molto preparato e organizzato che ci segue giorno dopo giorno. Non manca davvero nulla per arrivare ad alti livelli”. Allora fra quanto un Bologna d’alta classifica? “Questo è impossibile da dire perché non dipende solo da noi, ma credo che qui si sia iniziato un percorso e che questo possa portare ad ottimi risultati. Penso che sia un processo di maturazione naturale che presto darà i suoi frutti: ci sono anche parecchi giovani in rosa che stanno acquisendo esperienza e, da un lato crescono personalmente, ma dall’altro contribuiscono col tempo a far crescere tutta la squadra”. A proposito di giovani e di maturazione, 23 anni, con già due campionati di Serie C alle spalle, uno di B e questo è il secondo di A: a che punto è la tua crescita personale? “Son soddisfatto di quello che ho fatto finora, ma è ovvio che il mio obiettivo è di migliorarmi sempre, giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento, partita dopo partita. Sono contento anche di questa stagione, anche se ho il rammarico per quell’infortunio prima di
CHI è FEDERICO DI FRANCESCO
CHI è EUSEBIO DI FRANCESCO
Classe 1994, Federico Di Francesco è nato a Pisa ma è cresciuto nel settore giovanile del Pescara, di cui il papà è stato allenatore dal 2009 al 2011 e lui il capitano della Primavera. Le sue doti sono evidenti e infatti nel 2013 finisce nel mirino del Parma di Ghirardi. Dopo un paio di prestiti e il fallimento della società emiliana, Di Francesco Junior è costretto a ricominciare da capo e torna vicino a casa, rilanciadosi alla Virtus Lanciano. È lì che il Bologna lo nota e decide di acquistarlo. Ha fatto parte delle nazionali giovanile Under 19 e Under 21 di Di Biagio nel biennio 2016-2017 e non c’è dubbio che – continuando così – presto guadagnerà presto anche la maglia azzurra più prestigiosa.
Si sa quasi tutto dell’Eusebio allenatore, ma forse i più giovani non hanno avuto l’onore – perché di questo si tratta – di ammirare il Di Francesco senior giocatore: centrocampista che oggi definiremmo tuttocampista, in grado di difendere e di offendere con la stessa abilità, infaticabile motorino della mediana (tra le altre) del Piacenza e della Roma tra il 1995 e il 2003, con il titolo di Campione d’Italia con la Roma nel 2000-2001 come apice di un’ottima carriera. Le sue capacità tecnico-tattiche mostrate da calciatore, le ha trasferite nel suo nuovo mestiere di allenatore. In campo si è guadagnato anche la maglia della Nazionale, sebbene in azzurro non sia riuscito a mostrare tutto il suo miglior repertorio. Ecco, magari Federico pensava proprio a questo quando parlava di superare papà…
Natale che mi ha un po’ rallentato: avevo cominciato bene, poi dopo quello stop è stato un po’ come ricominciare da capo. In ogni caso ho ripreso bene e ora spero di finire in crescendo”. Torniamo un po’ indietro nel tempo: quando hai capito di poter fare davvero calciatore? “Fin da bambino ho sempre pensato che questa potesse essere la mia strada. Ho sempre creduto nei miei mezzi e anche nei momenti di difficoltà, che pure ci sono stati, non ho mai mollato. Mi sono messo in testa di fare il calciatore e niente mi avrebbe fatto cambiare idea”. E se non ce l’avessi fatta? “Eh, sarebbe stato un grande problema, perché non avevo un piano B (ride, ndr). Davvero, non saprei, perché sono sempre stato concentrato e convinto di poter diventare calciatore. Forse avrei fatto il cameriere con mio nonno nell’hotel ristorante di famiglia che abbiamo a Pescara, è l’unica cosa
che mi viene in mente...”. Non deve essere stato facile crescere con l’etichetta di “Figlio di Eusebio”... “Per me è sempre stato - e sempre sarà - un onore, mai un peso. È chiaro che la gente parla, allude, soprattutto quando sei agli inizi, ma sinceramente non mi sono mai curato di queste cose. La gente può anche pensare che giochi solo perché sei il figlio di Di Francesco, ma è evidente che se non si hanno le qualità non arrivi a certi livelli”. Avere un papà ex calciatore e mister però aiuta almeno a prendere decisioni difficili, no? Consigli tattici, di carriera... “Sinceramente, io e lui ci confrontiamo come fanno tutti i figli con i rispettivi padri. Parliamo apertamente, ma il nostro rapporto non sarebbe diverso se anche lui facesse il benzinaio. Mi aiuta dal punto di vista caratteriale, mi consiglia, ma non interferisce, non è invadente”.ww Tutti i ragazzini hanno i loro idoli calcistici: il tuo era Eusebio Di Francesco?
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INTERVISTA
Federico Di Francesco “Chiaro che per me lui era il mio eroe, perché faceva quello che ho sempre sognato di fare. Più che il mio idolo era il mio punto di riferimento, mi sono sempre posto l’obiettivo di arrivare ai suoi livelli e poi anche superarlo. È stato un grande calciatore ed un esempio per me e spero di crescere, vincere quello che ha vinto lui e magari anche di più (sorride, ndr)”. Nei casi di “Figli d’arte” nel calcio si parla sempre di papà e figlio, ma essere mamma e moglie di due calciatori non deve essere facile... “In effetti non lo è, ma mia madre è molto discreta, è la nostra prima tifosa ma... dietro le quinte. Non è una di quelle mogli o madri che va a vedere la partita, lei soffre a casa e ci lascia sempre molto tranquilli”. Invece papà da quando è sulla panchina della Roma quanto è invecchiato? “No dai, io non lo vedo così male, non gli sono ancora spuntati i capelli bianchi (ride, ndr)”. Tuo papà è stato un ottimo centrocampistaincursore, tu di fatto sei un attaccante esterno: con un papà così e un certo Roberto Donadoni come allenatore non sei cascato male... “Eh no, devo dire proprio di no. Il mio ruolo è un po’ diverso rispetto a quello di mio papà, ma questo conta poco perché i paragoni ci sarebbero stati anche se lui avesse fatto il portiere! Per quanto riguarda il mister, devo dire che sono molto fortunato ad averlo come allenatore, perché è ovvio che per noi esterni è una manna poter contare sui suoi suggerimenti. Ci dedica grande attenzione, ci spiega i movimenti da fare e ci dà consigli specifici per esaltare le nostre qualità”. E gli esterni al Bologna non mancano, come
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un certo Verdi... “Simone è un grandissimo giocatore e sta compiendo quel processo di crescita di cui parlavo all’inizio. Se pensate al Verdi che è arrivato al Bologna un anno e mezzo fa, e lo confrontate a quello di oggi, vi rendete conto di quanto sia migliorato. E con lui il Bologna”. Maturo in campo e anche fuori: non deve essere stato facile per Verdi dire no ad un’offerta come quella del Napoli... “È difficile entrare in una scelta così personale, ma io credo che Simone abbia voluto esprimere così la sua riconoscenza verso questa
Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
società che gli ha dato tanto e verso questa città che lo ha accolto benissimo. Semplicemente non se l’è sentita di lasciare tutto a metà di un percorso, penso che sia una scelta da rispettare perché presa con il cuore, come ogni scelta di Simone, perché lui è proprio un ragazzo d’oro”. A proposito di Napoli, che ne pensi degli esterni di Sarri? Sono un esempio da seguire? “Sono davvero fantastici, ma è tutto il reparto offensivo del Napoli che impressiona, per come si muove, come gioca d’assieme. Poi i tre davanti sono fantastici perché bravissimi come singoli, ma complementari come caratteristiche: Callejon è un maestro nei tagli, Insigne negli assist e Mertens dà la profondità come pochi attaccanti al mondo. Vederli giocare è davvero uno spettacolo”. Il Napoli è anche la squadra che gioca il miglior calcio d’Italia? “È sicuramente una di quelle squadre, ma ce ne sono altre, come la Lazio, la Roma, anche la Juve quando sta bene. Certo, quando il Napoli è in forma, gioca davvero alla grande…”. Tornando invece a noi, il calcio italiano preoccupa, l’esclusione dai Mondiali è stata una brutta botta e la Federazione è stata commissariata: ci sono motivi per essere ottimisti? “Per me sì, perché - nonostante tutto, a mio
parere ci sono giovani molto interessanti che poche nazioni al mondo hanno: penso, ad esempio, a Chiesa, Pellegrini, Berardi. Questi sono solo i primi tre che mi vengono in mente, ma credo ci sia molto terreno fertile sul quale investire. Verdi è un altro esempio, ci ha messo un po’ per esplodere ma ciascuno ha il suo percorso. Dunque, a livello tecnico non siamo messi così male, bisognerebbe riuscire a far crescere i giovani, dando loro la possibilità di giocare e anche di sbagliare, cosa che spesso non viene loro concessa”. Le tanto famose squadre B di cui si parla potrebbero essere la soluzione? “Non lo so, ma sarebbe quanto meno un segnale di cambiamento, una dimostrazione che c’è la volontà di fare qualcosa e di trovare delle soluzioni per migliorare e far crescere il nostro movimento. Apprezzo molto, ad esempio, Damiano Tommasi e quello che sta facendo in questo senso, perché mette sempre la questione tecnica al centro dei suoi discorsi. Questo è importante, perché altrimenti si fa sempre un gran parlare, ma poi non si risolve mai nulla”. Per chiudere, dunque, come te lo immagini il tuo futuro? “Come tutti ho i miei sogni nel cassetto e lavoro giorno dopo giorno per realizzarli. Preferisco non dichiararli, ma credo davvero che siano uguali a tutti quelli che fanno il nostro “mestiere”, non sarei così originale anche li svelassi”. In fondo, lo ha già fatto e non siamo sicuri che siano così banali. Perché già raggiungere e superare un certo Eusebio Di Francesco, non è proprio un obiettivo scontato...
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di Luca Gandini
FIGLI D’ARTE
SULLA SCIA Quanti figli d’arte nel nostro campionato. Quando l’allievo supera il maestro e quando, invece, il talento non è un dono ereditario.
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iciamo la verità: il calcio avrà anche mille difetti, ma almeno ha dimostrato di essere immune da quella discussa pratica così fortemente radicata, e non sempre a fin di bene, in molti settori della vita sociale di un Paese: il nepotismo. Nel mondo del pallone il cognome importante può aiutare fino a un certo punto. All’inizio magari sì; poi, però, puoi anche essere il figlio del più grande fuoriclasse, ma se
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non hai le doti tecniche e caratteriali per importi, di strada ne fai poca. Lo sport, in questo, è giudice spietato. Ecco perché quando si dice che oggi il nostro campionato è una piccola Parentopoli, non c’è affatto da pensar male. Cognomi famosi che avevamo un po’ accantonato rispuntano improvvisamente sulle maglie dei nuovi figli di papà, spesso invitando il tifoso a stuzzicanti paragoni tra il campione che fu e colui che probabilmente lo
DI PAPÀ
sarà, spesso confermando la tesi che talento e personalità non sono doni ereditari. Ognuno si può fare un’idea; tanto, poi, ad aver l’ultima parola sarà il campo, giudice inappellabile dei destini dei pedatori di tutto il mondo. GIOVANI CAMPIONI CRESCONO Strano, a volte, il destino. Iomar do Nascimento in arte “Mazinho” era un discreto mediano brasiliano che all’inizio degli anni ‘90
tentò la fortuna qui da noi, in quella Serie A che all’epoca era il campionato più bello e difficile al mondo. Non gli andò granché bene. Prima lo scartò il Lecce, poi lo scartò la Fiorentina. Lui allora prese armi e bagagli e ritornò in patria, cercando di rilanciarsi in vista del Mondiale di USA ‘94. Convocato da Carlos Alberto Parreira, divenne una delle colonne di quella Seleção, e così quando, nella finale di Pasadena, il Brasile superò ai rigori l’Italia
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FIGLI D’ARTE
di Franco Baresi e Roberto Baggio e alzò al cielo la Coppa del Mondo, oltre alla gioia del trionfo, il nostro Mazinho assaporò anche il dolce sapore della rivincita verso il Paese che non aveva creduto in lui. Oggi, suo figlio Rafael Alcântara do Nascimento in arte “Rafinha” si trova a compiere il percorso inverso. Sfruttare questa seconda parte di stagione con la maglia dell’Inter per riconquistare un posto in Nazionale in vista del Mondiale di Russia ‘18. Non sarà facile, visti i tanti infortuni che hanno ultimamente tormentato il valido e ancor giovane centrocampista di proprietà del Barcellona, squadra a cui, non più tardi di tre anni fa, aveva saputo dare un prezioso contributo nella conquista di Liga, Champions League e Supercoppa Europea. Ma era tutta un’altra storia e tutto un altro Rafinha. A differenza di Mazinho, Diego Pablo Simeone non è mai riuscito a laurearsi campione del mondo, ma per oltre un decennio è stato leader e trascinatore del centrocampo di un’Argentina
che forse ha raccolto meno di quanto la qualità dei suoi campioni le avrebbe imposto. “El Cholo” ha avuto però una lunga e prestigiosa carriera nel calcio europeo con le maglie di Atlético Madrid, Inter e Lazio, distinguendosi per la generosità, la pericolosità negli inserimenti offensivi e il micidiale colpo di testa. Oggi, benché impiegato in un ruolo diverso, il figlio Giovanni, arrembante attaccante della Fiorentina, sembra aver ereditato dal padre quella giusta dose di “garra” che potrebbe garantirgli un futuro più che promettente. Sia l’anno scorso al Genoa che quest’anno a Firenze ha dimostrato di non aver timori reverenziali nei confronti delle grandi, avendo segnato gol pesanti contro Juventus, Milan, Inter, Roma e Lazio. Sarà solo una statistica, ma intanto la dice lunga sulla personalità del ragazzo. Coetaneo del Cholo (entrambi classe 1970), Enrico Chiesa è un altro padre d’arte che sta seguendo con particolare attenzione
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i primi passi nel grande calcio del rampollo, perché anche qui le premesse per un avvenire radioso sembrano esserci tutte. Chiesa senior era un attaccante di razza, ben piazzato fisicamente, che vedeva la porta come pochi. Visse gli anni migliori con Sampdoria, Parma, Fiorentina e Lazio, con cui arrivò a segnare 138 gol in Serie A. Ora andiamoci piano con i paragoni, ma chi ha visto in azione Enrico non può non ritrovare nel figlio Federico le stesse movenze e lo stesso innato istinto per il gol. È un esterno offensivo a cui piace accentrarsi per tentare la conclusione sul secondo palo, ma è bravo anche ad arrivare sul fondo e a scodellare palloni invitanti per la punta centrale. Ha compiuto 20 anni lo scorso ottobre e sarà sicuramente uno dei nomi caldi nella prossima sessione del calciomercato. La Fiorentina, il club che l’ha cresciuto e lanciato, chiede 35 milioni. Staremo a vedere.
2010/11. I meno giovani ricorderanno sicuramente il padre, Beniamino, portiere attivo negli anni ‘80 e ‘90 e per tre stagioni consecutive affidabile secondo di Walter Zenga all’Inter. Sempre nel Milan il terzino sinistro Luca Antonelli, un ottimo gregario che quando viene chiamato in causa fa sempre la sua onesta figura. Ironia del destino, anche papà Roberto aveva vestito la maglia rossonera, in una delle epoche più contraddittorie nella storia della società meneghina. Soprannominato “Dustin” per la somiglianza con il celebre attore Dustin Hoffmann, passò dalle gioie dello Scudetto della Stella del 1979 ai dolori della doppia retrocessione in Serie B. Era un fantasista d’attacco rapido e tecnico, ma anche estremamente discontinuo, che non arrivò mai a esprimere del tutto il suo enorme talento. Secondo qualcuno aveva le qualità per essere potenzialmente l’erede di Gianni
LO CHIAMAVANO “DUSTIN” Dall’altra parte dell’Appennino, a Bologna, se Federico Di Francesco sta cercando di ritagliarsi un posto al sole nel grande calcio come già fatto ai tempi da papà Eusebio, l’allievo Mattia Destro ha già probabilmente superato il maestro. Flavio Destro, terzino... destro classe 1962, fu capitano dell’Ascoli nella seconda metà degli anni ‘80, epoca in cui giocò per quattro stagioni consecutive in Serie A. Proprio ad Ascoli, nel 1991, sarebbe nato Mattia, attaccante prodigio delle giovanili dell’Inter e poi protagonista a suon di gol di ottime stagioni con le maglie di Siena e Roma. Dopo la deludente esperienza al Milan, ha scelto la tranquillità di Bologna per ritrovare la via della rete ultimamente un po’ smarrita. Deve assolutamente recuperare convinzione nei propri mezzi, perché il Destro al top che avevamo ammirato qualche anno fa poteva ambire anche alla Nazionale. In azzurro vanta invece già oltre 20 presenze Ignazio Abate, ormai da anni bandiera del Milan e campione d’Italia nella stagione
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Rivera, ma il campo decise diversamente. I voli da un palo all’altro di Roberto Sorrentino, portiere napoletano con alle spalle oltre 230 presenze tra Serie A e B negli anni ‘80, hanno sicuramente ispirato l’ottima carriera del figlio Stefano, uno tra gli estremi difensori italiani più affidabili in circolazione. Anzi, senza nulla togliere al genitore, che non andò oltre tre stagioni in Serie A, Stefano ha raggiunto livelli ancora più alti, superando le 300 apparizioni nel massimo campionato e togliendosi la soddisfazione di giocare in Champions League, nel 2006/07, con l’AEK Atene. Gli manca solo la ciliegina dell’esordio in Nazionale, e chissà che a 39 anni non sia ancora detta l’ultima parola. FAMIGLIE NEL PALLONE Non si sono mai cimentati nel calcio italiano, ma i papà di alcune stelle della nostra Serie A hanno alle spalle carriere di alto profilo espresse sotto altri cieli. È una bella lotta decidere chi sia stato il migliore tra Mi-
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guel e Pepe Reina. Se il secondo è da oltre un decennio protagonista nei campionati più importanti d’Europa e valida riserva di Iker Casillas nella Spagna campione del mondo nel 2010, Reina senior, pure lui portiere, fu vecchia gloria di Barcellona e Atlético Madrid, squadre che portò alla conquista, rispettivamente, di Coppa delle Fiere e Coppa Intercontinentale. Gonzalo Higuaín vanta un curriculum decisamente più prestigioso rispetto a papà Jorge, ma anche quest’ultimo non era un difensore malvagio, visto che arrivò a vestire le maglie di Boca Juniors e River Plate. Un anno giocò anche in Francia, nel Brest, e proprio lassù in Bretagna sarebbe nato “El Pipita”. Sempre in tema di argentini, Hugo Perotti detto “El Mono” (la scimmia), padre del trequartista della Roma, Diego, scrisse pagine importanti della storia del Boca Juniors, siglando due gol nella vittoriosa finale di Coppa Libertadores 1978 e dando spettacolo insieme all’amico Diego Armando Maradona nel trionfale campionato Metropolitano
BENVENUTI A DYNASTY È un gran bel portiere, Kasper Schmeichel, punto di forza del Leicester City campione d’Inghilterra nel 2016 e titolare della Nazionale danese, ma probabilmente non arriverà mai ad oscurare il mito del padre Peter, numero 1 del Manchester United di Alex Ferguson e della Danimarca trionfatrice a sorpresa ad Euro ‘92. Il fisico imponente, la formidabile presa con quelle manone di calamita, la personalità debordante e la longevità fecero di Schmeichel senior uno dei più grandi estremi difensori di ogni tempo. Se anche dovesse emulare solo in parte le gesta del genitore, Kasper non avrebbe certo di che lamentarsi. Nonostante la fallimentare esperienza in Italia, Patrick Kluivert è tuttora considerato come uno dei migliori attaccanti degli anni ‘90. Da qualche tempo si sta mettendo in luce nell’Ajax il figlio Justin. È un’ala piccola, veloce e abile nel dribbling, ma francamente è ancora troppo presto per intuire le sue reali potenzialità. L’età (19 anni) è dalla sua: se son tulipani fioriranno. A proposito di olandesi, compagno di Kluivert in quell’Ajax che nel 1995 vinse la Champions League era l’esperto difensore centrale Danny Blind. Il rampollo, Daley, è attualmente sulla breccia con la maglia del Manchester United, in cui si disimpegna come laterale sinistro. Le strade dei due si sono persino congiunte in Nazionale, con Danny c.t. e Daley alfiere orange nel corso delle sfortunate qualificazioni mondiali per Russia ‘18. Appuntamento a cui parteciperà invece il formidabile regista Thiago Alcántara. Papà Mazinho alzò la Coppa nel 1994 col Brasile; lui ci proverà con la Spagna, sognando un’impresa che non avrebbe eguali: mai, prima d’ora, padre e figlio si sono laureati campioni del mondo.
1981. Non dirà molto ai tifosi italiani il nome di Foto Strakosha, eppure il papà del portiere della Lazio, Thomas, in Albania è una vera istituzione, avendo difeso per 73 volte i pali della Nazionale. Non ha mai davvero sfondato in maglia genoana il centrocampista portoghese Miguel Veloso. Non tutti sanno che il padre António fu per anni asso del Benfica, con cui arrivò a sfiorare due volte la Coppa dei Campioni. La prima nel 1988, quando proprio un suo errore dal dischetto consegnò il trofeo al PSV Eindhoven; la seconda nel 1990, quando dovette saltare per squalifica la finale, poi persa ugualmente, contro il Milan dei tre olandesi. Proprio in questa stagione il Chievo ha fatto esordire in Serie A
il 21enne centrocampista tedesco Gianluca Gaudino, figlio dello “Scugnizzo di Germania” Maurizio, fantasista dai piedi buoni e dal gol facile che con lo Stoccarda fu acerrimo avversario del Napoli nella finale di Coppa UEFA 1988/89, nonché vincitore del primo campionato della Germania riunificata nel 1991/92. Non arrivò mai a essere un campione a causa di un carattere irrequieto che gli provocò qualche problema anche fuori dal campo. I suoi genitori erano partiti dalla Campania per cercare un futuro migliore in terra tedesca. Oggi il figlio Gianluca insegue la fortuna qui, nella patria dei suoi avi. A volte è anche questo il destino di tante famiglie nel pallone.
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ESCLUSIVA Alex Telles
di Fabrizio Ponciroli
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Credit foto: FC Porto
Siamo stati nella sede dell’FC Porto per incontrare Alex Telles, vecchia conoscenza del calcio italiano…
ho fatto 13 D
ifficilmente, pensando al Portogallo, viene alla mente un tempo in “London style”. In realtà, la nostra trasferta ad Oporto coincide con un’inedita, almeno per la terza città più popolosa dell’intero Portogallo, doppia giornata di pioggia e vento, inoltre senza pause. Per fortuna, Alex Telles è un ragazzo “da commedia”, ossia portato al sorriso. Dopo l’esperienza all’Inter, si è ritagliato un ruolo, da autentico protagonista, nell’FC Porto guidato da Conceiçao, altro nome che ben conosciamo, considerati i suoi trascorsi in Italia. Ci accoglie nel training center del club… “Scusate, il mio italiano non è perfetto”, ci ammonisce Alex Telles. In realtà, si disimpegna alla grande, mostrando una confidenza
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ESCLUSIVA
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Credit foto: FC Porto
con la nostra lingua decisamente sorprendente… Apriamo il libro dei ricordi… Chi ti regalato il primo pallone da calcio? “E’ stato mio padre. Lui è un grande tifoso di calcio, è stato lui a trasmettermi la passione per il calcio. Mi ricordo che, da bambino, giocavo sempre insieme a lui. Sono ricordi bellissimi, devi davvero tutto a mio padre. E’ sempre stato al mio fianco, in ogni momento o scelta della mia vita”. Inizi a dare del tu al pallone in Brasile, nella Juventude… “Sì, ho fatto tutte le giovanili nella Juventude. È stato un grande e meraviglioso percorso di crescita per me. Quando sono arrivato io alla Juventude, era uno dei club brasiliani più importanti. Ora è un po’ in difficoltà ma, per me, resta un club importantissimo. Sono cresciuto lì”. Ora sei un esterno sinistro di livello internazionale, ma hai sempre giocato in difesa? “No, affatto… Da giovanissimo giocavo come punta ma avevo un problema: non segnavo tanti gol (Ride, ndr). Proprio durante i miei anni nelle giovanili alla Juventude, ho trovato la mia vera posizione che è quella di esterno sinistro”. Chi erano i tuoi idoli da giovanissimo? “Se penso al ruolo che ricopro, devo dire Roberto Carlos che, a mio avviso, è stato il miglior esterno per molti anni. Ora mi piace molto Marcelo del Real Madrid… Poi, è chiaro, mi piaceva molto Ronaldo…”. Poi, poco più che ventenne, te ne vai in Turchia… “Ho giocato una fantastica stagione con il Gremio, tanto che sono stato giudicato come il miglior esterno sinistro di quell’anno, e così è arrivata questa opportunità di andare a giocare in Turchia, al Galatasaray. Un club incredibile con giocatori come Felipe Melo, Sneijder e Drogba… Sono arrivato da solo, i primi mesi non sono stati facili. Dovevo abituarmi ad una nuova cultura, ad un nuovo
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Alex Telles
calcio. E’ stato fondamentale l’apporto di Mancini, l’allora tecnico del Galatasaray”. Quanto è stato importante, per la tua crescita, Mancini? “Importantissimo. Grazie a lui, sono cresciuto moltissimo, sia come persona che come giocatore. Mancini mi ha dato fiducia da subito. Per me è stato come un secondo padre. Mi ha gettato nella mischia senza paura. Mi ha fatto giocare, in Champions League, ottavi di finale, contro il Chelsea…”. Mancini che hai ritrovato poi all’Inter. One-
FEDE E TATUAGGI “Per me la fede cristiana è tutto, così come per tutta la mia famiglia. Credo che la religione sia una parte essenziale della vita di ogni uomo. Io penso che ci sia qualcuno a guidarci, a guidare ogni persona”. Parole e musica di Alex Telles, un ragazzo che ha messo la religione al centro del suo percorso di vita. La sua fede è evidente. I tatuaggi che porta sul corpo sono un perfetto mix tra simboli religiosi e valori famigliari. Ce li mostra con grande orgoglio: “Qui ci sono tanti riferimenti all’importanza della famiglia. Non manca ovviamente Fatima e c’è anche il mio numero, il 13”. Una passione, quella per i tatuaggi, che lo porterà a “dipingersi” ulteriormente il corpo: “Mi piacciono molto i tatuaggi. Credo che ne farò degli altri. Sicuramente non dovranno essere mai banali”. Ne siamo certi, di banale, nella vita di Alex Telles non sembra esserci proprio nulla……
stamente, a Milano, non si è visto il vero Alex Telles, non credi? “Assolutamente… I primi sei mesi sono stati davvero meravigliosi. Eravamo primi in classifica poi, a gennaio, abbiamo avuto delle difficoltà. Io ero in prestito dal Galatasaray e, poco alla volta, ho avuto meno spazio. Comunque, quell’anno all’Inter è stato decisivo per la mia carriera. Ho imparato tantissimo, sono migliorato nella fase difensiva. Credo di essere cresciuto tantissimo in quell’anno in Serie A”. Ma che idea ti sei fatto della Serie A? “È un torneo fantastico, un campionato molto appassionante e di grandissimo livello. Io devo molto al calcio italiano. Ora so fare le
Alex Telles durante l’intervista con il Direttore Ponciroli
due fasi del gioco, ossia so attaccare ma ho imparato anche a difendere”. Ora sei un punto fisso del Porto. Qui tutti si attendono la vittoria della Primeira Liga… “Questa è la mia stagione migliore da quando solo al Porto (il brasiliano è sbarcato ad Oporto nel 2016, ndr). Siamo in piena corsa per vincere il titolo. È un campionato difficile perché ci sono anche Sporting e Benfica in corsa ma siamo una squadra molto forte, con giocatori di qualità”. Sei allenato da Conceiçao, molto noto in Italia…
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ESCLUSIVA Alex Telles
“Ha vinto e fatto tanto in Italia. Lui è bravissimo a trasmetterci la passione che ha dentro da sempre. Quando lui parla, sa sempre come caricarci. È una qualità importantissima per un allenatore. Sergio (Conceiçao, ndr) è un allenatore passionale, sempre concentrato. Dà tutto, sia in allenamento che in partita”. Chi vedresti bene, dei tuoi compagni di squadra, in Italia? “Credo che nel Porto ci siano tanti giocatori che potrebbero giocare in Italia. Penso a Brahimi, giocatore di talento e con un dribbling notevole”. In Italia servono sempre i terzini sinistri… “(Ride, ndr). Ce ne sono tanti bravi. E’ un ruolo ricercato perché non è semplice giocare in quella posizione. Devi sempre stare attento a cosa succede in campo e fare le due fase con grande accortezza”. Anche al Porto indossi la maglia numero 13… Sembra un numero al quale tieni molto… “Per me è un numero speciale e anche per la mia famiglia. Mio padre e mia mamma si sono sposati il 13. Ho firmato i miei contratti più importanti nel giorno 13. La indossa da sempre. Non ho avuto la 13 solo quando sono arrivato all’Inter perché era di Guarin. Io sono molto religioso e il 13 è anche il giorno della rivelazione della Madonna del Rosario…”. Fai finta di essere un presidente che può permettersi qualsiasi giocatore al mondo. Mi dici i primi tre che compreresti? “Io penso sempre al bene della squadra, quindi prenderei un grandissimo giocatore per ruolo. In attacco prenderei Neymar, a centrocampo Modric, centrocampista che mi piace tantissimo, con una qualità pazzesca. Per la difesa, credo Sergio Ramos”. Oltre al calcio, segui qualche altro sport?
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“Mi piace molto il basket NBA. Sono un tifoso dei Cleveland Cavs ma non solo perché c’è LeBron James. Mi sono appassionato all’NBA quando i Cavs hanno vinto il titolo. E’ stato incredibile, mi ha preso tantissimo. Ora, quando ho un po’ di tempo libero, guardo più partite possibili e spero, un giorno, di vederne qualcuna dal vivo”. Com’è il tuo rapporto con il cinema? “Guarda, io cerco sempre di vedere film che mi fanno sorridere. Mi piacciono le commedie. Quando sono triste, scelgo un bel film da ridere e torno ad essere allegro. La saga di Rush Hour, con Jackie Chan e Chris Tucker, mi piace tantissimo. Quei film li ho visti davvero molte volte….”. Sei un appassionato anche di musica? “Certamente, ascolto davvero di tutto. Dai Guns N’ Roses alla musica brasiliana. Davvero, mi piace tutta…” Alex, a chi chiederesti un autografo? “A chi chiederei io un autografo? Domanda difficile… Credo a LeBron James… Lui è pazzesco, è un idolo per me. Invece, qui al Porto, l’autografo me lo farei fare da José Luis, lo storico massaggiatore della squadra. Lui ha 83 anni ma, ogni mattina, è qui con noi, sempre pronto a sorriderti e a dare una mano. Josè Luis è la storia vivente del Porto, una leggenda. È lo spirito della squadra, ha un approccio alla vita fantastico. Lavora con il Porto da oltre 60 anni. Ha vinto tutto con questo club. Per me è un esempio. E’ energia pura”. Chiudiamo con il Mondiale. L’Italia non ci sarà… “È davvero un peccato. Sono rimasto solo un anno in Italia ma conosco la passione che gli italiani hanno per il calcio. Il Mondiale senza l’Italia che ha vinto quattro volte la Coppa del Mondo è triste. Speriamo che torni presto la vera Italia”.
Credit foto: FC Porto
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ESCLUSIVA Alex Telles
Alex Telles ha giocato anche in Italia, con la maglia dell’Inter
Tu hai origini italiane. Se dovesse arrivare la chiamata della Nazionale italiana, magari con Mancini nel ruolo di CT? “Guarda, ogni calciatore lavora, duramente, giorno dopo giorno per arrivare al top. Io vorrei giocare con la nazionale brasiliana ma se dovesse arrivare la chiamata dell’Italia, quindi un’altra nazionale top, non mi tirerei indietro assolutamente”. Se poi ci fosse Mancini… “Beh, sarebbe magnifico se diventasse lui il CT. Gli devo moltissimo”. Ma chi lo vince il prossimo Mondiale? “Brasile e Germania sono, secondo me, le due nazionali più forti al mondo”. Ultimissima domanda: quale è la tua vacanza ideale? “Semplice, tornare a Caxias do Sul. Quando ho dei giorni di vacanza, io vado sempre dalla mia famiglia, nella mia città natale. Non c’è, per me, posto migliore dove rilassarsi e stare bene. È il mio luogo ideale, la mia casa” Il tempo a nostra disposizione volge al termine. Il tempo di due battute, qualche foto e siamo ai saluti. L’impressione è che sentiremo parlare a lungo di Alex Telles. La sua dedizione al calcio e alla famiglia ne fanno un giocatore con qualità davvero eccezionali… Peccato che non abbia anche il potere di far smettere di piovere…
IL MIGLIOR ASSIST-MAN DELLA PRIMEIRA LIGA Nel campionato portoghese 2017/18 non c’è miglior assist-man di Alex Telles. La sua grande abilità nel crossare è un’arma essenziale per il gioco di Conceiçao. Una qualità che Alex Telles ha in faretra da sempre. Nato a Caxias do Sul il 15 dicembre del 1992, dopo essere diventato giocatore professionista in Brasile, con la Juventude, disputa un anno sontuoso con il Gremio. Nel 2014 passa al Galatasaray dove, in una sola stagione, vince tutto: campionato turco, Coppa di Turchia e Supercoppa di Turchia. Nell’estate del 2015 passa, in prestito, all’Inter voluto da Mancini, suo tecnico in Turchia. Totalizza 21 presenze in Italia, con la casacca nerazzurra. A fine stagione torna al Galatasaray ma, nel luglio del 2016, per circa 6,5 milioni di euro, va al Porto. Con il passare dei mesi, diventa un elemento fondamentale dello scacchiere della squadra dei dragoni. Con Conceiçao in panchina, arriva la consacrazione. E’ uno degli idoli della tifoseria dell’FC Porto.…
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Credit foto: FC Porto
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RETROSPETTIVE Grandi Presidenti
COSTANTINO ROZZI
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IL PRESIDENTISSIMO Per 26 anni alla guida dell’Ascoli, storia di un geometra con intuizioni geniali di Thomas Saccani
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ltima giornata del campionato di Serie A 1982/83. L’Ascoli, superando il Cagliari per 2-0, conquista, in volata e in maniera insperata, la permanenza nella massima serie. Costantino Rozzi, il presidente della squadra marchigiana è uno straccio a fine partita. Il suo Ascoli è salvo e lui, per festeggiare insieme ai tantissimi tifosi presenti al Del Conero, si è esibito in un giro di campo completo, quasi a ringraziare il popolo bianconero del supporto: “Sono contentissimo ma mi dispiace molto per il Cagliari, una squadra che non meritava di andare in Serie B. È stata una vigilia terribile. Giocarsi in 90’ tutta una stagione, è stato terribile”, le sue parole, alla Rai, nel post gara. Costantino Rozzi è stato, per anni, il, simbolo di un calcio provinciale, puro, vero. La storia del Presidentissimo, così è stato soprannominato nel corso della sua lunghissima militanza alla guida dell’A-
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scoli (ben 26 anni, 14 dei quali con l’Ascoli in Serie A), è unica e incredibilmente suggestiva. Geometra e, successivamente, imprenditore edile (a lui si devono lavori importanti, oltre al Del Duca di Ascoli, anche ad altri stadi come il Vigorito di Benevento o il Via del Mare di Lecce), Rozzi si avvicina al calcio quasi per caso. Alla soglia dei quarant’anni, su proposta dell’allora consiglio direttivo dell’Ascoli, diventa il numero uno del club bianconero (“M’hanno incastrato”, rivelerà qualche anno più tardi). Assume il controllo della società con la squadra in Serie C ma la sua ambizione è notevole. Rozzi punta alla massima serie. L’uomo che gli permetterà di realizzare il suo grande sogno sportivo è Carletto Mazzone. Inizialmente Carletto è “impiegato” solo come traghettatore, in attesa di trovare l’allenatore giusto (Rozzi è stato una sorta di precursore di Zamparini,
“Con Mazzone in panchina, in soli quattro anni, l’Ascoli raggiunge la Serie A. Il miracolo si concretizza al termine della stagione 1973-74”
Credit Foto - Liverani
IL RICORDO DI MAZZONE Sir Carletto è romano ma, nel cuore, ha sangue ascolano. Il suo rapporto con l’Ascoli e, in particolare, il Presidentissimo è stato qualcosa di straordinario. Mazzone approda alla squadra bianconera nel 1960. È un discreto centrocampista, con attitudini più difensive che offensive. Con l’Ascoli gioca nove anni. Nel corso dell’ultima stagione, 1968/69, con già qualche esperienza da tecnico delle giovanili, passa dall’essere un semplice traghettatore ad allenare la prima squadra: “Rozzi mi chiese di fare l’allenatore dell’Ascoli in attesa che trovasse il tecnico giusto. Io non volevo perdere il mio ruolo di allenatore delle giovanili ma lui mi disse che, se fosse andata male, mi avrebbe comunque dato una mano con un ruolo nelle sue aziende. Così poi è cominciato tutto e, in quattro anni, siamo passati dalla Serie C alla Serie A”, ricorda Sir Carletto. L’ex allenatore dell’Ascoli (dal 1968 al 1975 e dal 1980 al 1984) delinea così la figura del Presidentissimo: “Era ascolano e quindi la sentiva in maniera incredibile la partita. Con me non ha mai discusso di calcio, non è mai entrato in questioni legate alla formazione. A lui interessava vincere. Ecco, un suo difetto e che non sapeva perdere. Quando accadeva, spesso cambiava allenatore…”. Mazzone ricorda la sua presenza in panchina: “Sì, si sedeva lì e seguiva la partita come se stesse giocando lui. Il vero problema era tenerlo calmo, era uno che si agitava parecchio, soprattutto con gli arbitri”.
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RETROSPETTIVE Grandi Presidenti
COSTANTINO ROZZI quindi con una certa dimestichezza con l’arte dell’esonero). Ma il carattere di Mazzone e il suo passato, da calciatore, nell’Ascoli (nove anni), intriga molto il Presidentissimo che decide così di affidarsi a lui (un tecnico alle prime armi, impegnato, fino ad allora, con le giovanili), per trascinare il Picchio verso grandi lidi. Con Mazzone in panchina, in soli quattro anni, l’Ascoli raggiunge la Serie A. Il miracolo si concretizza al termine della stagione 1973-74, con il secondo posto nel campionato di Serie B. La città è
I GRANDI COLPI DI ROZZI Per uno che dichiarava di non saperne nulla di calcio, la sensazione è che abbia fatto delle autentiche meraviglie. Nel corso dei suoi 26 anni di presidenza ad Ascoli, tantissimi i “colpi di mercato” che sono entrati nella storia dell’Ascoli e, in generale del calcio italiano. La lista di grandi giocatori che hanno vestito la maglia bianconera è piuttosto estesa. Partiamo da Oliver Bierhoff, ascolano dal 1991 al 1995. Arrivato in prestito dall’Inter, la leggenda narra che il Presidentissimo lo volle anche per “aprirsi” al mercato estero, il riferimento va alle “Oliver all’ascolana”. Diventato poi famoso grazie ai successi con il Milan e con la Germania, Bierhoff, capocannoniere in Serie B proprio con l’Ascoli, non è stato l’unico attaccante “di peso” visto al Del Duca. I tifosi ascolani si sono potuti godere anche Giordano e Casagrande, oltre ad Anastasi (dal 1978 al 1981). Ma non finisce qui. Indimenticabili i vari Nicolini, Juary, Troglio, Dirceu o Brady. Non male anche la lista degli allenatori che si sono seduti sulla panchina dell’Ascoli. Detto di Mazzone e Castagner, è bene ricordare anche Boskov. Beh, c’è stato anche qualche errore di percorso, soprattutto riguardo alle scelte di giocatori stranieri. Rossi ha voluto Zahoui, Trifunovic, Cvetkovic e Maradona, Hugo però, non Diego…
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Anche Bierhoff ha un glorioso passato con la casacca dell’Ascoli
ai piedi del Presidentissimo che compie un altro miracolo: in 100 giorni, ammoderna il Del Duca, adeguandolo agli standard richiesti dalla Serie A. La sua prima vittoria nella massima serie arriva, tra le mura amiche, il 15 dicembre, ai danni della Sampdoria (1-0, rete di Silva, il capocannoniere dell’annata in casa bianconera con cinque reti). Ma la squadra non decolla. Al termine del girone d’andata, ha solo nove punti in classifica. Sembra destinata alla retrocessione ed, invece, il duo Mazzone-Rozzi compie un altro prodigio, accaparrandosi quella che pareva una salvezza impossibile.
È l’inizio di un lungo, a volte tortuoso ma sicuramente affascinante, cammino. L’Ascoli finisce qualche volta in cadetteria ma ha sempre la forza di rialzarsi e tornare prontamente in Serie A. Rozzi diventa “il primo tifoso” del Picchio. Vive ogni partita con fosse l’ultima. Si agita in panchina o a bordo campo (impossibile vederlo in tribuna, soprattutto al Del Duca, casa sua). È innamorato dell’Ascoli, la sua viscerale passione. E Mazzone? Le strade di Carletto si intersecano ancora con quelle battute da Rozzi. Nel dicembre del 1980, dopo aver esonerato Fabbri, il Presidentissimo richiama Mazzone e inizia una nuova bella avventura. Tanti successi, prima del brusco addio, durante il campionato
Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
1984/85. Nella stagione 1986/87, quella del successo in Mitropa Cup (in panchina Castagner), gli ascolani conquistano una salvezza decisamente sudata. Il commento del Presidentissimo è entusiasmante: “È stata come un quadro di Picasso. L’abbiamo raggiunta con un pizzico di fantasia”. Gli anni passano, reggere il passo con le grandi società della Serie A diventa sempre più complicato. Rozzi ha la stessa determinazione di sempre ma il 18 dicembre 1994, nella sua amata città, Costantino Rozzi si arrende. Muore all’ospedale Mazzone di Ascoli Piceno. Il destino gli evita il dispiacere di vedere il suo grande amore tornare in Serie C (al termine della negativa stagione 1994-1995), la categoria
Rozzi è sempre stato il primo tifoso dell’Ascoli, unico il suo rapporto con la tifoseria
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COSTANTINO ROZZI
da cui il grande sogno del Presidentissimo era iniziato. Al funerale si presentano circa 20.000 persone e tantissimi giocatori e allenatori legati, a doppio filo, al Presidentissimo. In tanti hanno provato a ridurre Costantino Rozzi ad una macchietta. Identificato come “il presidente che portava i calzini rossi e che attaccava gli arbitri per la loro sudditanza psicologica”, Costantino Rossi si è rivelato essere molto ma molto di più. Anche se, sovente, ripeteva di non saperne nulla di calcio, in realtà è stato, oltre che un lungimirante imprenditore edile, un grandissimo uomo di calcio. Con un solo difetto: ha sempre detto ciò che pensava e, nel calcio,
sia quello di ieri che, soprattutto, quello dei giorni nostri, non è mai una scelta facile… In una delle sue ultime conferenze stampa, con il suo Ascoli in grave affanno, Costantino Rozzi si esprimeva così: “L’Ascoli è un bene sociale, è un bene della società. Se Rozzi è un problema, Rozzi si fa da parte, per il bene dell’Ascoli). L’unico, inimitabile Presidentissimo.
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Voliamo in Russia per una squadra con tante implicazioni politiche…
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I GLADIATORI DI MOSCA
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l calcio venne portato nella Russia Zarista da inglesi impegnati principalmente nell’industria tessile e mineraria e da marinai. Il primo contatto con la palla tonda avvenne ad Odessa, marinai e dipendenti del telegrafo giocavano a calcio e fondarono nel 1878 l’Odessa British Athletic
Credit foto: sito ufficiale Spartak
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Club. Dal Mar Nero al Mar Baltico, nel 1879 due squadre composte solo da inglesi disputano la prima partita di calcio a San Pietroburgo. Bisogna attendere quasi vent’anni per quella che viene ricordata come la prima partita ufficiale del calcio russo, giocata sempre a San Pietroburgo nel 1897 tra Vasi-
leostrovskii Circle of Football Player e Petersburg Amateur Circle, entrambe le squadre schieravano giocatori inglesi e russi, vinsero i primi per 6-0. Il calcio a Mosca ebbe lo stesso percorso, la prima partita risale al 1895 tra impiegati inglesi della fabbrica Hopper. Il primo club ad introdurre il calcio tra le sue attività sportive è stato il Sokolniki Sports Club, fondato nel 1896 ha inserito la sezione calcio nel 1905, divisa completamente nera. Il presidente era Andrei Petrovich Mussi ed il segretario onorario era Roman Fedorovich Fulda, personaggio di spicco nel panorama sportivo dell’epoca. Sempre nel 1905 venne fondato il British Sport Club, facevano parte del sodalizio solo sudditi di Edoardo VII. Nel settembre del 1907 una selezione moscovita giocò due partite a San Pietroburgo, una contro una squadra inglese ed una contro una squadra russa, entrambe le partite vennero vinte dai padroni di casa per 2-0 e 5-4. Nel 1909 venne disputato il primo campionato della città, torneo non ufficiale, vinto dal British Sport Club che sconfisse le altre tre partecipanti. Il 4 maggio (16 maggio) 1883 viene fondata la Società di Ginnastica Russa (RGO) Sokol, la società era nata sotto l’influenza del movimento panslavista Sokol, che introdusse tra le sue attività il calcio nell’estate del 1897, i soci avevano avuto contatti sporadici con la palla rotonda già in precedenza. La squadra della Sokol adottava maglia rossa e pantaloncini bianchi, ci sono però vecchie fotografie in cui si vedono i giocatori con maglia giallonera a strisce verticali. Dopo la rivoluzione del 1917 la società Sokol cadde in rovina e la squadra di calcio subì vari cambi di denominazione, nonostante l’acquisizione di un proprio terreno di gioco avvenuta nella primavera del 1917 ed i promettenti risultati sportivi. Nel 1922 le autorità decisero di riorganizzare l’attività calcistica obbligando le società con un passato “borghese” a cessare l’attività, tra queste c’era anche la Sokol. Nella primavera del 1922 Ivan Artemyev con-
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tatta Nikolay Starostin, figura di spicco nel panorama calcistico moscovita, per fondare una squadra di calcio nel distretto di Krasnopresnensky, il 18 aprile 1922 è la data ufficiale di fondazione di un nuovo club denominato ISS, che continua comunque a mantenere la struttura della Sokol. La divisa con cui si presenta in campo l’ISS, 18 aprile contro lo Zamoskvoretsky Sports Club, vittoria per 3-2, è composta da maglia rossa con collo bianco a V, pantaloncini bianchi e calzettoni neri. Presto la denominazione sociale cambia in Krasnaja Prensja. Nel 1926 il club si associa con il Sindacato dei lavoratori alimentari, ancora un cambio di nome in Piščevik, e si trasferisce al Tomsky Stadion, la maglia è celeste con collo a camicia bianco chiuso da laccetti, pantaloncini bianchi e calzettoni neri. L’anno seguente maglia biancorossa a strisce verticali con collo a camicia, invariato il resto della divisa. Negli anni 1928 e 1929 maglia bianca con fascia orizzontale rossa e collo a camicia rosso chiuso da laccetti, pantaloncini e calzettoni bianchi. Negli anni successivi l’attività calcistica a Mosca è ridotta, il club cambia ancora denominazione in Promkooperacija, molti giocatori lasciano la squadra che rischia la scomparsa. Nel 1934 i migliori giocatori ritornano al Promkooperacija che riprende l’attività agonistica, la divisa è com-
posta da maglia rossa con fascia orizzontale bianca sul busto e sulle braccia e collo a camicia bianco chiuso da laccetti, pantaloncini bianchi e calzettoni biancorossi a righe orizzontali, il 14 novembre 1934 viene deciso di cambiare denominazione. Il 19 aprile 1935, su iniziativa del presidente del Komsomol Alexander Kosarev, viene fondata un’associazione sportiva volontaria che unisca le attività dei club legati ai sindacati, i fondatori proposero diversi nomi ma non riuscirono a mettersi d’accordo fino a quando l’attenzione di Sarostin cadde casualmente sul libro Spartacus, dell’italiano Raffaello Giovagnoli, che narrava le vicende dello schiavo Spartaco, da qui la denominazione Spartak. Lo stesso Sarostin disegnò il logo che ancora adesso, con poche variazioni, accompagna il club. Il colore rosso rappresenta la rivoluzione ed i lavoratori. Spartak sarà anche la nuova denominazione della squadra di calcio. In questa stagione compare la vera divisa dello Spartak, maglia rossa con fascia bianca alta 8,5 centimetri e collo a camicia bianco, pantaloncini bianchi e calzettoni a righe orizzontali rosse e bianche. Negli anni successivi alla rivoluzione i principali club sportivi sovietici vennero legati ad associazioni sportive facenti capo ai più im-
portanti ministeri (il CSKA esercito e quindi Difesa, la Dinamo polizia e quindi Interni, Lokomotiv ferrovie e quindi Trasporti), l’associazione sportiva Spartak era invece legata ai sindacati dei lavoratori dell’industria, per questo motivo lo Spartak è chiamato il club del popolo e la simpatia per la squadra crebbe di pari passo con la voglia di contestare il regime. Il 26 marzo 1936 viene organizzato il primo campionato sovietico, partecipano sette squadre, quattro di Mosca, due di Leningrado ed una di Kiev, lo Spartak è favorito insieme alla Dinamo Mosca ma si classificherà solo al terzo posto dietro Dinamo Mosca e Dinamo Kiev. I Gladiatori si rifaranno vincendo il campionato di autunno, a partire dall’anno successivo si tenne un solo campionato, eccetto nel 1976. Dal 1992, si disputa il campionato russo, fino al 2010 su cadenza annuale da primavera ad autunno per evitare i disagi invernali successivamente, dalla stagione 2011/12, si passa ad un calendario a cavallo di due anni solari da luglio a maggio con una pausa invernale. Il campionato 1936 vede lo Spartak indossare una maglia rossa con collo a girocollo e fascia bianca, pantaloncini bianchi e calzettoni rossi con risvolto bianco. Nel campionato del 1937 e seguente la maglia è rossa con collo a V e fascia bianca, dal 1939 fino alla sospensione delle attività per la seconda guerra mondiale i pantaloncini diventano neri. Alla ripresa dell’attività agonistica nel 1945 i Gladiatori si presentano con la maglia rossa con collo a V e fascia bianca, pantaloncini neri e calzettoni neri con risvolti biancorossi, il capitano ha lo stemma sociale al centro della fascia bianca, dall’anno successivo lo stemma compare sulle maglie di tutti i giocatori. Dal 1953 la maglia presenta un collo a V bianco ed i calzettoni tornano rossi con un doppio risvolto bianco, nei mesi più caldi viene usata una maglia più leggera con collo a camicia rosso. Nel 1958 maglia con collo a camicia rosso chiuso da
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bottoni, dal 1959 fino al 1965 collo ni invariati, ritorna lo stemma al a camicia rosso ma chiuso da un centro della fascia. Il 1978 comintriangolo sempre rosso. Nel 1966 cia nella fase primaverile con le compare la maglia rossa con famaglie leggere della passata stascia bianca e collo a camicia rosso gione, in inverno tornano le macon apertura anteriore a V, panglie griffate Adidas, senza stemtaloncini e calzettoni rimangono ma, e in estate si vedono delle invariati, questa divisa verrà usata maglie rosse con collo a camicia fino al 1973. Nel 1974 arriva una e doppio bordino bianco chiuso da divisa più moderna, maglia semun triangolo pure bianco, lo stempre rossa con fascia bianca ma il ma sociale è sul lato destro delSi ringrazia collo è a V, pantaloncini bianchi e la maglia sopra la fascia, queste www.celticdream.it per le immagini Subbuteo calzettoni rossi con doppio risvolto maglie verranno usate ancora nel bianco ma di foggia diversa, l’anno periodo estivo per un paio d’anni, successivo si affianca alla maglia precedente fino ad esaurimento scorta. Il 20 ottobre 1982 una maglia rossa con fascia e bordi bianchi, il è il giorno della tragedia dello stadio Luzhcollo è a girocollo, non c’è lo stemma sociale. niki, si giocano i sedicesimi di Coppa Uefa, Nel 1976 la divisa rimane uguale ma è griffapartita di andata con gli olandesi dell’Haarta Adidas e compare il logo del fornitore sulle lem. Causa la temperatura polare (dieci gradivise, purtroppo è anche l’anno della prima di sotto zero) viene aperta solo la tribuna est, retrocessione dei Gladiatori. L’anno succespresenti 15.000 tifosi tra cui un centinaio di sivo le divise tornano anonime e si vedono Olandesi. Quando la partita volge al termidue maglie, una estiva con bordi bianchi ed ne il pubblico comincia a sfollare, lo Spartak una invernale completamente rossa, sempre stava vincendo con una rete di Gess, proprio presente la fascia, pantaloncini e calzettonegli ultimi minuti raddoppiò Shvetsov e una parte dei tifosi che stavano uscendo ritornarono indietro scontrandosi con gli altri. Si creò un affollamento mortale, anche a causa della cattiva gestione da parte della polizia presente sul posto, il bilancio ufficiale parla di 66 morti e 61 feriti ma sembra che i morti furono molti di più e per molto tempo le autorità abbiano taciuto sull’episodio. Bisogna aspettare fino al 1984 per vedere una nuova maglia, rossa con collo a V e bordi bianchi e righine stile gessato sempre bianche. Questo modello si alterna ad una maglia senza sponsor completamente rossa con collo a girocollo, in questo modello non compare lo stemma, sempre presente la fascia bianca. Nel 1986 si alternano una maglia rossa con collo a V bianco senza fascia, una maglia con collo a camicia bianco chiuso a V e fascia bianca ed una terza maglia uguale alla Nell’attuale rosa dello Spartak milita l’italiano Salvatore seconda ma con motivo gessato in bianco. Il Bocchetti
1987 inizia con una maglia rossa con fascia bianca contornata da due strisce sottili, collo a V bianco, sul finire della stagione scompare la fascia per far posto ad un rettangolo bianco che contiene il logo del primo sponsor commerciale nella storia del club, si tratta della Ocrim di Cremona, azienda operante nel settore di macinazione e stoccaggio di cereali e farine con grandi interessi in Russia. In questa stagione i calzettoni sono bianchi. Il 1988 comincia con la maglia della scorsa stagione ma senza sponsor commerciale, nel corso dell’anno arriva una nuova maglia rossa con collo bianco a camicia chiuso a V sul davanti ed inserti bianchi sulle spalle, niente fascia, compare anche un nuovo sponsor, la friulana Danieli azienda leader nell’impiantistica siderurgica. Il 5 ottobre, sedicesimi di Coppa Campioni, i Moscoviti fanno visita al Glentoran che indossa una maglia verde con maniche rosse, l’arbitro obietta che la maglia tutta rossa dei Russi crea un problema cromatico, non avendo altre maglie al seguito lo Spartak gioca con delle maglie rossonere a scacchi fornite dai padroni di casa. L’anno seguente nella prima parte maglia rossa con collo a V bianco e ritorno della fascia bianca, nella seconda parte un modello lievemente diverso della Adidas ed una maglia Erima (marchio tedesco all’epoca nel gruppo Adidas) con due righe bianche sulle braccia e due fasce sempre bianche nella parte alta del petto, ed un nuovo sponsor commerciale. Nel 1990, come sempre due maglie differenti, la prima rossa con collo a girocollo bianco, la seconda con l’aggiunta di una doppia fascia bianca sulle spalle, anche gli sponsor commerciali sono differenti, la seconda versione viene mantenuta anche nell’anno successivo. Nel 1992 viene riproposta ancora la divisa dell’anno precedente nei mesi caldi, mentre nei mesi freddi si opta per una divisa completamente rossa con il logo della Adidas in dimensione XL sulla spalla destra e sulla parte sinistra dei pantaloncini, questi due modelli di maglie
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Lo Spartak Mosca è allenato dall’ex bianconero Massimo Carrera
vengono alternati anche nel 1993. Nel 1994 si alternano le due versioni usate nelle stagioni precedenti piĂš una terza versione con doppio logo Adidas di grosse dimensioni sulle spalle. Nel 1995 si vedono quattro stili diversi di divise, ritorna saltuariamente la fascia bianca, i pantaloncini sono sia rossi che bianchi mentre i calzettoni sono sempre rossi, stessa varietĂ nel 1996. Questi sono anni gloriosi per lo Spartak, in patria dove vince nove dei primi dieci campionati Russi (dal 1992 al 2001) e in Europa dove i Gladiatori raggiungono negli anni ‘90 le semifinali di tutte e tre le competizioni continentali. Finalmente dal 1997 lo Spartak utilizza una sola divisa per tutta la stagione e, venendo incontro alle esigenze dello sponsor, cambia divisa ogni anno mantenendo sempre una coerenza cromatica anche se purtroppo la fascia bianca viene spesso accantonata. Dopo tanti anni di fornitura della Adidas nel 2003 si passa alla britannica Umbro e nel 2005 alla Nike, legame che dura tuttora. Fino al 1950 la seconda divisa era azzurra o blu, con un’eccezione verde nel biennio 1947 e 1948, successivamente si passa al bianco, con o senza fascia rossa, nel nuovo millennio si sono viste spesso divise nere. Nei primi anni il portiere dei Gladiatori indossava una maglia bianca o grigia, molto curiosa nel 1926 la maglia biancorossa a strisce verticali, dagli anni 30 arrivano le divise completamente nere, ogni tanto accompagnate da bordi rossi. Il giallo ha avuto un certo successo negli ultimi anni. Lo stemma compare stabilmente, dopo qualche fugace comparsa negli anni ‘30, dopo la seconda guerra mondiale, negli ultimi anni sono state aggiunte delle stelle a ricordare i successi del club. Nel catalogo HW del Subbuteo non compare lo Spartak ma la ref 171, maglia rossa con fascia bianca accompagnata da pantaloncini rossi e calzettoni bianchi, rappresenta al meglio la divisa classica.
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reportage OLIMPICO DI LONDRA di Luca Manes Foto di Luca Manes
LA CASA DEL WEST HAM
Viaggio alla scoperta del “The London Stadium”…
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l compito più improbo che spetta agli impianti sportivi nuovi di zecca, consiste senza dubbio nell’affrancarsi da quell’anonimato, quel deficit di personalità che sono per definizione la loro cifra distintiva. Nel caso del “Queen Elizabeth Stadium at Olympic Park”, o “The London Stadium” che dir si voglia, siamo veramente ai limiti della missione impossibile, che nemmeno un Ethan Hunt in grande spolvero potrebbe portare a compimento. Bisogna riconoscere che la dirigenza del West Ham le sta provando un po’ tutte per dare un’identità all’arena, lascito dei Giochi del 2012, durante i quali ospitò le gare d’atletica e delle riuscitissime cerimonie di apertura e chiusura. Esternamente i colori e lo stemma del West Ham – quello nuovo, con i martelli, ma orfano del castelletto – sono ovunque. I versi dello storico e bellissimo inno Forever Blowing Bubbles, poi, decorano le pareti accanto agli accessi per i tifosi, mentre davanti all’ingresso principale la pavimentazione è lastricata con
i nomi e le effigi dei grandi del passato: l’immenso capitano Bobby Moore, gli altri eroi dei mondiali del 1966 Martin Peters e Geoff Hurst, il roccioso Billy “Bonzo” Bonds, l’elegante Trevor Brooking e il nostro Paolo Di Canio, che qui è rimasto un idolo incontrastato. Tuttavia infondere un’anima all’Olimpico è veramente durissima, lo si percepisce già all’arrivo nei paraggi dell’impianto. Alla stazione di Stratford, capolinea della Jubilee Line (quella tracciata in grigio sulla mappa del tube londinese), i treni della metropolitana finiscono la loro corsa in bocca allo sterminato centro commerciale Westfield. È uno degli shopping mall più grandi d’Europa, un trionfo di vetro e acciaio divenuto subito il regno dello shopping non solo dell’East End, ma un po’ di tutta la metropoli inglese. Giocoforza capita che i tifosi con sciarpe e cappellini claret & blue si mischino con frotte di clienti carichi di buste più o meno voluminose griffate con i marchi di alcune delle catene di negozi più famosi del globo. Per completare il quadro, aggiungiamoci che
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reportage OLIMPICO DI LONDRA
intorno a Westfield sorgono alcuni grattacieli in costruzione e un albergo della catena Holiday Inn, ennesimo simbolo di rigenerazione di un pezzo di East End iniziato nell’ormai lontano 2005, quando il Comitato Olimpico Internazionale assegnò i Giochi a Londra. Last but not least, come dicono gli inglesi, seguendo il flusso di supporter dopo dieci minuti abbondanti di camminata si piomba in uno scenario post-industriale, una sorta di parco a tema stalinista dominato da ampi spazi vuoti interrotti dallo stadio Olimpico, da quello del nuoto e dai 115 metri della Arcelor Mittal Orbit, opera dell’archistar e scultore di origini indiane Anish Kapoor. Il match a cui abbiamo assistito era in programma un venerdì sera, per cui il buio squarciato dalle luci dell’Olimpico e
dall’illuminazione rosso fuoco della stramba torre attorcigliata hanno rafforzato quella sensazione di alienazione menzionata in altri racconti di viaggio già letti sul London Stadium. L’impianto, poi, non ha nulla di inglese, a partire dalla forma, che è circolare, per arrivare alla distanza dal campo, sicuramente inusuale per queste latitudini. Sebbene sia stata “ricoperta” la pista d’atletica, il rettangolo di gioco rimane troppo lontano, anche facendo il paragone con la nuova generazione di arene calcistiche, come l’Emirates Stadium dell’Arsenal. Insomma, sarà perché siamo stati spesso ospiti della vecchia casa del West Ham, ma questa visita alla nuova dimora si rivela un anti-climax totale. Rimpiangiamo a calde lacrime Boleyn Ground, che abbiamo sempre ritenuto
UPTON PARK Una mezza dozzina di gru sorvegliano dall’alto l’ampio cantiere. Dove una volta si stagliava la mecca degli appassionati di calcio dell’East End, il Boleyn Ground, ora ci sono una collinetta di detriti e si lavora sodo per costruire le fondamenta di nuove costruzioni. Dopo 112 anni di onorato servizio, del vecchio impianto non è rimasto più nulla. I palazzi che stanno vedendo la luce ospiteranno 838 appartamenti moderni e molto funzionali, almeno a leggere i depliant che li pubblicizzano. Una speculazione immobiliare che dovrebbe fruttare un bel gruzzolo al club, si vocifera oltre 80 milioni di euro. Una volta completato, l’intero complesso sembrerà un po’ fuori posto in uno dei quartieri meno “scintillanti” – e stiamo usando un eufemismo – di Londra. Le classiche casette unifamiliare segnate da un incipiente degrado, le macellerie di carne halal, i parrucchieri afro e i negozietti che vendono collane e orecchini a poco prezzo che contribuiscono a dare l’immagine attuale di quest’area sembrano avere robusti anticorpi contro la gentrificazione dell’ennesimo pezzo della capitale londinese. Ma fino a qualche anno fa nessuno avrebbe creduto che il povero Boleyn Ground potesse cadere vittime dei bulldozer...
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l’archetipo dello stadio british. Era rimasto tale anche dopo gli adeguamenti post Taylor Report, che avevano spianato le terraces, da dove potevi quasi alitare in faccia ai giocatori, per far posto a tribune più moderne e con posti a sedere. A dirla tutta il pubblico di super-appassionati della Bobby Moore Stand era solito seguire la partita rigorosamente in piedi. E qui nasce una polemica destinata a durare a lungo. Al London Stadium a parecchi di coloro i quali hanno deciso di perpetuare l’abitudine di alzarsi per guardare il match è stato impedito l’accesso. Una misura punitiva avversata e criticata aspramente dagli hardcore fans. Un altro problema, che ora appare essersi sfumato ma che la stagione passata si era palesato in tutta la sua virulenza, è legato a una sorta di frattura all’interno del popolo degli Irons. Tra fedelissimi e “occasionali” – sbeffeggiati con il coro “qual era il vostro posto all’Upton Park?” – o meglio ancora supporter “veri” e “clienti, consumatori dello spettacolo football”, non sono mancati i momenti di tensione, sfociati in scazzottate e scambi di insulti in stile East End. D’altronde si è passati dai 35mila posti del Boleyn Ground ai 57mila attuali, con ben 52mila abbonati e 50mila persone in lista d’attesa per un tagliando annuale. È evidente che la composizione del pubblico è parzialmente mutata rispetto al passato, ora che il “bacino d’utenza” si è così sensibilmente ampliato. L’atmosfera durante i 90 minuti un po’ ne risente. Le prestazioni scadenti del West Ham di certo non invogliano a sgolarsi, ma almeno per quello che abbiamo potuto testimoniare noi in troppi frangenti della gara la nuova arena è fin troppo silente. Bisogna ammettere che quelle rare volte che i ragazzi in campo si svegliano dal letargo, il pubblico gli sta dietro e l’effetto sonoro è notevole. A fronte delle tante batoste rimediate dall’agosto 2016 a questa parte, almeno i tifosi hanno qualcosa con cui consolarsi. Secondo uno studio pubblicato nelle ultime settimane del
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reportage OLIMPICO DI LONDRA COSTI STADIO Dal punto di vista del duo Sullivan-Gold, i proprietari del West Ham, l’Olimpico è veramente un’affarone. L’affitto del London Stadium ammonta a “soli” 2,5 milioni l’anno, mentre il club ha sborsato una piccola frazione (15 milioni) del denaro impiegato per adattare l’arena alle esigenze della Premier. Un conto salatissimo, attestatosi a 323 milioni di sterline e foraggiato – se si eccettua il già citato contributo degli Hammers – interamente dalle casse pubbliche. Una pesante eredità delle Olimpiadi lasciata dall’ex sindaco conservatore Boris Johnson (adesso ministro degli Esteri). La mossa è stata criticata aspramente dal suo successore, il laburista Sadiq Khan, che ha voluto vederci chiaro, ordinando un’indagine indipendente – anche perché negli ultimissimi mesi prima della consegna dei lavori c’era stato un aumento di spesa di ben 50 milioni. Le polemiche sull’Olimpico e sul suo impiego dopo i Giochi hanno trovato ampio spazio sui media inglesi. C’è chi pensa che la proposta migliore l’avesse intavolata la dirigenza del Tottenham, che voleva abbattere e ricostruire lo stadio accollandosi quasi tutti i costi. L’esborso per le casse pubbliche sarebbe stato di soli 35 milioni di euro. E invece ha vinto la proposta del West Ham, con tutto quello che ne sta conseguendo.
2017, andare all’Olimpico comporta la spesa più bassa per un match di calcio di alto livello nella carissima Londra, visto che la media calcolata su ogni tipo di biglietto e su tutte le partite si aggirerebbe intorno ai 20 euro. Certo, nulla di paragonabile ai salassi richiesti per ammirare dal vivo i campioni di Arsenal o Chelsea, ma per il resto delle componenti della cosiddetta match-day experience anche il London Stadium è un bell’attacco al portafoglio, soprattutto se si è affamati. Invece del Ken’s Caffè, dove a due passi da Upton Park e contornati da splendide foto dei bei tempi che furono per un hamburger si spendevano quattro soldi, adesso si hanno a disposizione numerosi “punti di ristoro”, con ampia scelta gastronomica. Ma i prezzi sono salatissimi, tanto che per un hot dog tocca sborsare almeno sette euro, mentre per pietanze leggermente più sofisticate ci ag-
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giriamo intorno ai dieci euro. Per chiudere con un’annotazione positiva, visto che come avrete capito non ci siamo innamorati dell’Olimpico – e non possiamo biasimare quei sostenitori italiani del West Ham che ancora non ci vogliano mettere piede – va detto che quanto meno c’è stato un “ritorno alle origini”. Dalla zona di East Ham, dove era localizzato il Boleyn Ground, ci si è spostati a West Ham, dove il club era nato nel 1895. Per arrivare all’Olimpico si passa su un ponticello sotto il quale scorre il fiume Lea, nei pressi del quale sorgevano l’impianto siderurgico e il cantiere navale Thames Ironworks, i cui proprietari diedero vita al club. Non a caso quello che era di fatto un dopolavoro per i numerosi operai vogliosi di impiegare al meglio il loro tempo libero, fino al 1900 si chiamò proprio Thames Ironworks FC. Preistoria calcistica...
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C L A C L E D I T GIGAN
Giancarlo De Sisti di Stefano Borgi
LA SEDIA DEL REGISTA Pupillo di Schiaffino, amico di Overath, De Sisti è stato il fulcro dell’Italia campione d’Europa e vice-campione del mondo. Per tutti, semplicemente picchio...
“L
a vita è come un film, devi scegliere se essere attore oppure spettatore”. Le parole sono di Fabri Fibra, forse non il suo modello musicale preferito, di contro sintetizzano al meglio la figura di Giancarlo De Sisti. Regista nella vita e sul campo, attore sempre e comunque. E non capita a tutti... “Beh, il ruolo di regista in campo è quello che ha fatto le mie fortune - sorride il popolare ‘picchio’-. Nella vita non saprei, di certo sono una persona semplice, senza fronzoli, con una bellissima famiglia ed una moglie fantastica. Mi sono sempre definito un normale in un mondo di campioni. E ci sono rimasto a lungo. L’altra cosa che ha detto però non l’ho capita...” Mi riferivo a qualche campione che con lei restava sempre a guardare. Insomma, faceva da spettatore...
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“Ah, il discorso della staffetta. Vede, io per giocare dovevo sudare la pagnotta, non ero né Rivera né Mazzola. Diciamo che ero bravo tatticamente, muovevo bene la palla, e se penso ai fuoriclasse con i quali ho giocato... Però si, ripensando al titolo, un posto a tavola dove sedermi l’ho sempre trovato”. Appunto, cambiano gli interpreti, i protagonisti, ma il nome De Sisti è scritto lì... sulla sedia del regista. E un posto da calciatore chi glielo ha trovato? “Tutto nasce dalla passione, da una strada, da un quartiere alla periferia di Roma... il Quadraro. E poi da un patto tra mia madre e mio padre”. Un classico: suo padre spingeva per il calcio, sua madre per lo studio “Ho fatto ragioneria, e ovviamente mia madre sognava un posto in banca. Ma più che altro non sopportava tornassi a casa sudato, a rischio
Credit Foto: Liverani
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CAL GIGANTI DEL Giancarlo De Sisti
polmonite. E allora disse a mio padre: o gli trovi una squadretta con gli spogliatoi per fare la doccia, o questo smette”. E suo padre si mise in cerca... “Anche se non tutti lo sanno, io sono figlio d’arte. Mio padre aveva giocato in Serie C, e qualche conoscenza l’aveva. Mi fece fare un provino alla Forlivesi, società satellite della Roma, e fui subito preso”. Il fisico però, era quello che era... “Le dirò che proprio grazie alla statura capii che sarei diventato un calciatore. La Forlivesi mi vendette alla Roma per una muta di maglie ed una serie di scarpini. Avevo 13 anni, cominciai dagli allievi, però vedevo che nonostante fossi il più piccolo giocavo spesso con i più grandi. Anche lì vede... qualche gigante stava a sedere, ed io giocavo sempre. È lo stesso discorso dell’attore, no?” Prima parlava di fuoriclasse, mi viene in mente Schiaffino... “Devo molto a Schiaffino. Che fosse un fuoriclasse, lo sappiamo tutti, ma Schiaffino era soprattutto una persona umile, disponibile. Intravedeva in me un soggetto giovane da formare, da consigliare... Un vero maestro di vita”. E lo stereotipo del sudamericano di allora? La dolce vita, sigarette, qualche bicchiere di troppo... “Tutto il contrario! Le racconto questa: Schiaffino aveva una 600 usata, e la puliva tutti i giorni col caucciù. Pensi, lui che poteva permettersi macchinoni e belle donne, era uno fedele e guidava una 600. Spesso poi mi metteva nella sua squadra: Bergmark (un difensore svedese, velocissimo...) Schiaffino ed io. Il problema è che di là erano in cinque. E io dicevo: ma perché tre
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Sempre pronto a mettersi in gioco, grande uomo di calcio
De Sisti insieme a vecchi compagni viola, un gruppo davvero fantastico
contro cinque? Perché noi siamo più bravi ed intelligenti... rispondeva. In quella squadra c’era anche Ghiggia, e mi diceva: ‘tu sei l’unico che può palleggiare con me. Tu hai una caratteristica, che sei portato a capire prima dove deve andare la palla’. Con due maestri simili non potevo che imparare...” Con la Roma arriva il primo gol in Serie A ed il soprannome “picchio”... “Picchio me lo dettero in primavera. ‘Picchio’ in romanesco vuol dire trottola, uno che gira sempre per il campo e lo trovi dovunque. Il mio primo gol in Serie A? Lo segnai ad Albertosi, in un Roma-Fiorentina. Un tiro da fuori area... ricordo solo una gioia immensa”. A proposito di Fiorentina... “Per me lasciare Roma fu un trauma. Però la società
aveva bisogno di soldi, addirittura l’allenatore Lorenzo mise su una colletta chiamata ‘del Sistina’. Fui pagato 200 milioni più il cartellino di Benaglia. Presidente era Franco Evangelisti, il braccio destro di Andreotti...” Però a Firenze non andò poi così male... “Sta scherzando? A Firenze mi è andata benissimo: ho trovato una seconda famiglia, ogni
volta che ci torno è una festa. Però capirà, era la prima volta che lasciavo ‘mamma Roma’. E comunque in maglia viola mi realizzai a livello nazionale, e non solo. Stava sbocciando la Fiorentina ye-ye: Chiarugi, Ferrante, Brizi, Esposito... Altri due romani come Superchi e Merlo, un campione come Amarildo, persone splendide come Pirovano che mi dette la fascia di capi-
IL RICORDO DI ALBERTOSI
Con “picchio” ho vinto tutto, ma io sono stato il suo portafortuna... Può succedere nella vita che due persone si frequentino, si vogliano bene, condividano momenti ed emozioni indimenticabili. Può anche succedere che, ancora loro, vincano un Europeo e giochino una finale di coppa del mondo. Tutto con la Nazionale di Valcareggi. Senza contare i trascorsi in comune con la Fiorentina ye-ye, la conquista di una Coppa Italia, la rivalità in campionato quando Cagliari e Fiorentina (sembra incredibile, ma è successo davvero...) si giocavano lo scudetto. Fino ad arrivare all’11 marzo 1962 quando un giovanissimo De Sisti, con un tiro da fuori area alla destra di Albertosi, realizza il suo primo gol in Serie A. Eh già, proprio alla destra di Albertosi. “Io gliel’ho sempre detto: picchio, ti ho portato fortuna - racconta divertito Enrico-. E poi deve essere il destino: De Sisti che segna il suo primo gol in Serie A contro di me, e lo stesso successe ad Anastasi col Varese. Vuol dire che porto bene. Tra l’altro Picchio, ed è forse l’unico difetto che gli trovo, non ha mai avuto un gran tiro dalla distanza. Dovevo arrivare io perché segnasse da fuori area”. Quindi tra lei e De Sisti c’era, o no, una grande amicizia? “Guardi, io e Giancarlo non ci siamo mai frequentati tanto. Questione di carattere: io più guascone, più estroverso, lui più riservato. Era già un ragionatore allora, un regista nella vita e sul campo. Però, in quanto a stima e considerazione... massima ed incondizionata”. Com’era Giancarlo De Sisti in Nazionale? “In campo era fantastico, un vero uomo squadra. Soprattutto era ben voluto da tutti, affabile, disponibile. Nessuno può dire niente. E non era facile: erano i tempi della staffetta, chi stava con Mazzola, chi stava con Rivera. Eppure Giancarlo giocava sempre, aiutato da Bertini, da Domenghini, da Cera. Ma De Sisti era il fulcro del centrocampo, non si poteva fare a meno di lui”. E tatticamente, com’era? “Tatticamente era perfetto, lo è sempre stato. De Sisti teneva la mediana ed aiutava l’attacco, fin dai tempi della Fiorentina. Praticamente l’ideale per ogni allenatore. Insieme abbiamo vinto una Coppa Italia con i viola, un campionato europeo con la Nazionale, abbiamo giocato una finale mondiale contro il Brasile. Addirittura ci siamo trovati contro a giocarci uno scudetto: Cagliari e Fiorentina. Uno scudetto per uno, a quei tempi, non fa male a nessuno. Soprattutto dimostrava come allora si potesse vincere con la forza delle idee, senza grandi investimenti, ma con tanta passione e sacrificio”. Albertosi, una curiosità: lei ha vinto tutto con Cagliari, Milan e Nazionale. Dovesse scegliere? “Non ho dubbi, scelgo lo scudetto di Cagliari. È bellissimo vedere un’intera regione, un popolo esultare ed unirsi per un grande trionfo, sotto un’unica bandiera. Senza divisioni né campanilismi. Lo chieda a Giancarlo cosa ha provato a vincere con la Fiorentina, senta cosa le dice...”
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e chi mi chiama? La Fiorentina. Anche in quel tano. Insomma, vincemmo lo scudetto quando caso, ci andai di corsa...” non se lo aspettava nessuno. Fu una sorta di Come direbbe qualcuno, sulla panchina viola miracolo cominciato da Chiappella e concluso andò bene... ma non benissimo. da Pesaola”. “Bene perché facemmo ottime stagioni: un Tutto bene, finché alla Fiorentina non arrivò secondo, un terzo posto, facemmo un ottimo Gigi Radice... calcio. Poi se si riferisce allo scudetto del 1982, “Guardi, neppure Giagnoni quando mi sostituì alla malattia e come andò a finire la mia carin un Roma-Milan, mi fece arrabbiare come riera di allenatore... No, non beRadice. Era il 1973, praticanissimo”. mente lui aveva deciso di farHa qualche sassolino da tomi fuori, Radice voleva imitare gliersi? il modello olandese: pressing, “Parecchi. Innanzitutto quel fuorigioco, tutto in velocità... E giorno a Cagliari (ultima giorpoi stava sbocciando un certo nata di campionato, Fiorentina Antognoni, la maglia numero 10 e Juventus appaiate in testa alla sarebbe toccata lui. Mi provocò classifica ndr.) non giocammo al per tutto l’anno: fino al sabato massimo. E quello fu colpa nodovevo giocare, e poi mi trovastra. Però avvertimmo un senso vo fuori dai titolari. Firenze si d’impotenza, di qualcosa di sudivise, chi con me chi contro di Il grande De Sisti con Stefano Borgi di Calcio2000 periore, soprattutto quando ci me. Insomma, alla fine chiesi di annullarono il gol che ci avrebbe essere ceduto. Anche se, in uno mandato allo spareggio”. degli ultimi allenamenti Radice Spareggio, che sarebbe stata si rese conto di aver sbagliato e cosa buona e giusta... mi chiese scusa davanti a tutti. “Questo, tempo dopo, me lo disQuella fu una bella soddisfaziosero anche i calciatori della June...” ventus. Però c’erano i mondiali Il ritorno a Roma e l’inizio della da preparare, serviva chiudere carriera da allenatore... il campionato prima possibile, “Mazzola mi voleva all’Inter, mi e secondo lei chi doveva vincere richiese anche la Juventus. Ma tra Fiorentina e Juventus? Poi avevo una figlia piccola, c’era nel 1984 ebbi una grave malatLiedholm allenatore e così rientia, dovuta ad un dente non cutrai volentieri a casa. Nel 1980 De Sisti in posa per TMW Radio, rato bene, quindi nel 1991 arrivò presi il patentino di allenatore un onore e un privilegio
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Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
Moggi. E la mia carriera di allenatore finì”. Si spieghi meglio... “A quel tempo allenavo ad Ascoli, e Moggi faceva da consulente di mercato per Rozzi. Io chiedevo calciatori con certe caratteristiche, e loro me ne compravano altri. Avevano venduto Casagrande, mi proposero Stringara e Carrillo. Capirà che non era la stessa cosa. Ci fu una rottura e da allora, chissà perché, la mia carriera di allenatore è finita”. Le sarebbe piaciuto allenare la Nazionale? “Anche lì successero cose strane: nel 1984 ero un allenatore rampante, se non mi ammalavo
De Sisti ha giocato nella Fiorentina dal 1965 al 1974
sarei stato il dopo Bearzot. Con la nazionale Militare vinsi il mondiale di categoria, nel ‘90 ero responsabile dell’Under 18 e dovevo prendere l’Under 21. Ed invece fu promosso Maldini. Certo mi sarebbe piaciuto, ma come vede...” Apriamo il capitolo maglia azzurra. Dovesse scegliere tra l’Europeo del ‘68 ed il mondiale in Messico? “Le rispondo Italia-Germania 4-3. L’ho detto anche nelle scuole, negli incontri che facevo per conto della Federazione: bambini, vi auguro un giorno di trovarvi di fronte a 100.000 persone e sentir suonare l’inno italiano. È un’emozione indescrivibile”. Quando Muller fece il gol del 3-3, quello famoso con Rivera accasciato sul palo di sinistra, lei ci credeva ancora? “Con i tedeschi non è mai finita. E poi quella partita ebbe una tale intensità, sofferenza mista a gioia, adrenalina, che non avevi tempo per pensare. Dovevi correre e basta. Comunque Italia-Germania 4-3 è passata alla storia, ed io ero in campo. Credo di poterne essere orgoglioso”. Com’era Pelè visto da vicino? “Impressionante. Questo però avrebbe dovuto chiederlo al mio amico Rosato, che pur di avere la sua maglietta gli stette appiccicato per tutti gli ultimi 10 minuti della finale. Col rischio di prendere il quinto gol. Ed il bello fu che gliela prese pure...” Quel Brasile non era solo Pelè... “Allora, lo stesso Pelè disse che quella nazionale era la più forte di ogni tempo. C’erano almeno cinque numeri ‘dieci’: Pelè, Tostao, Gerson, Jair e Rivelino. Detto questo, se a metà ripresa entra quel tiro di Domenghini e mandi l’Italia in vantaggio... non lo so come finisce. Comunque vinse la squadra più forte, crollammo dopo il terzo gol e ne potevano fare altri”. Domanda secca: meglio Zoff o Albertosi? “Albertosi, insieme abbiamo vinto tanto...” Vierchowod o Rosato? “Chiedo scusa all’anima di Roberto, ma io stravedo per Vierchowod. Mi invitò pure al suo matrimonio...”
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Ancora oggi, è un idolo assoluto nella sua Firenze
Antognoni o Rivera? “Mamma mia... Dico Antognoni perché l’ho avuto da giocatore e da allenatore, cedo al sentimento”. E tra Schiaffino e Pelè? “Questo è un colpo basso. È ovvio come Pelè
sia stato il più grande, ma Schiaffino per me è stato tutto. Quindi... Tra i migliori mi lasci citare anche Overath. Per me è stato un modello, l’ho incontrato sul campo e tra noi è nata anche una bella amicizia fuori. Altro esempio di umiltà”. Si è divertito col calcio?
LA SUA CARRIERA
Campione d’Europa e vice-campione del mondo in maglia azzurra, De Sisti è nella “Hall of Fame” di Roma e Fiorentina Giancarlo De Sisti nasce a Roma il 13 marzo 1943, nel quartiere popolare del Quadraro. Muove i primi passi nella Forlivesi, società satellite della Roma, spinto dal padre che era stato calciatore in Serie C. Dopo sei mesi, all’età di 13 anni, passa negli allievi della Roma. È in quegli anni che nasce il soprannome “picchio” (trottola in romanesco) proprio per la capacità del giovane De Sisti di correre senza risparmiarsi, facendosi trovare puntuale e preciso in ogni zona del campo. L’esordio in Serie A avviene il 12 febbraio 1961, all’età di 17 anni, in un Udinese-Roma 2-1. L’11 marzo 1962, invece, “picchio” realizza il suo primo gol in Serie A: 1-0 contro la Fiorentina, con un tiro da fuori area alla destra di Albertosi. Resta alla Roma 5 anni, dal’60 al ‘65, totalizzando 111 presenze tra campionato e coppe, con 19 gol all’attivo. Nel primo periodo con la maglia giallorossa (ne seguirà un secondo a metà degli anni ‘70) vince anche una coppa delle Fiere nel 1961 ed una Coppa Italia nel 1964. Nell’estate del 1965 la Roma lo cede alla Fiorentina per 200 milioni di lire più il cartellino di Benaglia. In poco tempo De Sisti diventa il leader della Fiorentina “ye-ye”, veste la maglia numero 10, è il capitano del secondo storico scudetto. De Sisti disputerà 9 stagioni in riva all’Arno collezionando 348 presenze e 41 reti, con un palmarès che recita, oltre al tricolore del 1969, anche una Coppa Italia ed una Mitropa Cup nel 1966. Il suo ritorno a Roma avviene nell’estate del 1974, e ci resta per 5 stagioni. Termina la carriera di calciatore nel 1979 dopo altre 135 presenze e 9 reti con la maglia giallorossa. In totale il popolare “picchio” disputa 19 campionati di
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“Tantissimo. Ho guadagnato, ho girato il mondo, ho raccolto soddisfazioni immense. Mi spiace solo che oggi il calcio sia cambiato... in peggio. Ai miei tempi, tanti calciatori di oggi sarebbero andati ai Mercati Generali. E ho detto tutto...” Parafrasando una sua apparizione cinematografica, lei è mai stato ‘un allenatore nel pallone’? “Beh, chi non fa errori? Però, se devo dire, una volta da calciatore andai veramente in difficoltà: ultimo anno di Fiorentina, giochiamo contro il Milan a Firenze, e Pizzaballa mi para due rigori in quattro minuti”. Pier Luigi Pizzaballa, un uomo una figurina... “Proprio lui. Meno male che alla fine segnò An-
tognoni e vincemmo 3-2, sennò mi linciavano. Però è un insegnamento che mi è servito: sapesse quante volte ho consolato un ragazzino che aveva sbagliato un rigore...” Lei ha un grande tesoro: i suoi nipoti, tre maschi e tre femmine. I maschi sono tutti sportivi... “Sono bravi come il nonno. Uno gioca a tennis, gli altri due a calcio, a 75 anni sono il mio orgoglio. Hanno ricevuto i principi che io e mia moglie abbiamo dato ai nostri figli, e che loro hanno trasferito ai nipoti. Lo vede che il film della vita è molto più semplice di quanto sembra?” Certo, basta che sulla sedia ci sia un buon regista...
Serie A con un totale di 478 presenze e 50 reti. Pochi mesi per conseguire il patentino di allenatore e De Sisti è già in panchina, ancora alla guida della Fiorentina, subentrando a Paolo Carosi il 1 febbraio 1981. La stagione dopo termina secondo dopo un appassionante duello con la Juventus di Trapattoni. Nell’83’84 conquista un brillante terzo posto finale che, ahimè, sarà il suo canto del cigno anche a causa di una terribile ascesso alla testa. Torna in panchina nel 1986 alla guida dell’Udinese, per poi chiudere all’Ascoli nella stagione ‘91-’92. Dall’88 al ‘90 allena la nazionale Under 18 mentre nel ‘91 conquista il mondiale di categoria con la Nazionale Militare. Ma le più grandi soddisfazioni Giancarlo De Sisti le conquista con indosso la maglia azzurra. Il suo esordio avviene nel novembre 1967, a Cosenza, ed è un perentorio 5-0 su Cipro. Il 10 giugno 1968 è titolare nella ripetizione vincente della finale europea contro la Jugoslavia. Ancora due anni ed è assoluto protagonista ai mondiali del Messico, disputando tutte le sei partite che portano l’Italia di Valcareggi alla finale contro il Brasile. Termina la sua avventura azzurra il 13 maggio 1972 con la sconfitta in Belgio per 2-1. Lo score finale è di tutto rispetto: 29 gettoni, 4 reti, ma soprattutto un titolo di Campione d’Europa ed uno di vice-campione del mondo. Giancarlo De Sisti fa parte della “Hall of Fame” di Roma e Fiorentina, e dal 2009 è testimonial della FIGC come ambasciatore del settore giovanile e scolastico. Dal 2012, su incarico della stessa FIGC, è l’allenatore della Nazionale Parlamentari di Calcio.
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FA Cup
di Giorgio Coluccia
Il mito della Fa Cup
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a Football Association Challenge Cup dal 1871 è la più antica competizione calcistica al mondo. Chiamatela pure Fa Cup. Tradizione e fascino hanno solcato secoli, epoche e generazioni. Solo le due Guerre Mondiali hanno fermato la coppa nazionale inglese, non assegnata tra il 1916 e il 1919 così come tra il 1940 e il 1945. Per timore che di lì a poco il mondo fosse stato completamente stravolto, si narra che Re Giorgio V del Regno Unito, nonno della futura Regina Elisabetta, scelse non a caso di assistere per la prima volta a una finale di coppa nel 1914, recandosi di persona al Crystal Palace Ground di Londra per la sfida tra Burnley e Liverpool, vinta dai Clarets con un gol di Bert Freeman. Guarda un po’, un ex Everton. Ancora oggi le medaglie consegnate quel giorno recano l’incisione “presented by King George V”, che a fine partita radunò i più stretti collaboratori per comunicare loro l’intento di dichiarare guerra alla Germania: qualche mese dopo quel match, il 4 agosto 1914, il Regno Unito scese in campo contro i tedeschi e di lì a poco anche il calcio non poté fare altro che adeguarsi, smettendo di essere praticato
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Credit Foto: Liverani
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IL RECORD DI FERGUSON Negli anni la Football Association ha cercato di cambiare il meno possibile la formula del torneo, che prende il via i primi giorni di agosto con il turno extra preliminare. A questo seguono un turno preliminare, quattro di qualificazione, sei cosiddetti round e infine semifinali e finale da disputare a Wembley. Rispetto al passato la modifica più evidente riguarda i replay da giocare in caso di parità al termine dei primi 90’: un tempo si andava a oltranza, con partite che si sono disputate anche sei volte per ottenere la squadra qualificata, adesso la sfida viene giocata al massimo una volta sola (a campi invertiti) e se permane la parità si procede con supplementari ed eventuali rigori. Anche la finale poteva trascinarsi fino alla ripetizione, oggi non più. L’ultimo atto deciso al replay risale al 1993, quando il trofeo andò all’Arsenal, che attualmente è la squadra regina dell’albo d’oro, con tredici successi all’attivo, solo uno in più del Manchester United, capace però di giocare più finali di qualunque altra squadra (19). Tra i tecnici è Sir Alex Ferguson ad aver messo più Fa Cup in bacheca, ben cinque con i Red Devils. Un piccolo primato spetta anche al Tottenham, che resta l’unica squadra di Non League, non appartenente cioè a una lega professionistica, ad aver vinto la Coppa d’Inghilterra: bisogna tornare al 1901, quando gli Spurs militavano ancora in Southern League e nel replay di Bolton ebbero la meglio sullo Sheffield United, all’epoca in First Division. A dimostrazione che un fenomeno come il giant killing non conosce davvero epoche.
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come tutti gli altri sport. Il torneo più vecchio del mondo vide la luce sotto la spinta della Football Association, costituitasi nel 1863 e intenzionata a creare una competizione, con regole uniformi per tutti, che permettesse alle squadre affiliate di sfidarsi e aumentare la notorietà del cosiddetto gioco dei dribbler, da sempre contrapposti agli handler, ossia quelli del rugby, l’altro sport per antonomasia Oltremanica. La stagione 1871/1872 fu la prima a mettere in palio la Coppa d’Inghilterra grazie all’intraprendenza di Charles Alcock, futuro segretario generale della FA e all’epoca ex allievo di Harrow, ispiratosi proprio alle sfide ad eliminazione diretta disputate tra le diverse case del suo vecchio college londinese. Presero parte quindici compagini, in palio c’era un trofeo d’argento dal valore di venti sterline e l’atto finale si disputò il 16 marzo 1872 davanti a duemila spettatori. Fu preso in prestito dal cricket il Kennington Oval, impianto situato a sud della capitale, teatro del primo successo di sempre, andato proprio ai Wanderers di Alcock in virtù dell’1-0 sui Royal Engineers. L’assenza di teste di serie, la regola del knockout (solo gare secche) e il replay a campo invertito in caso di parità, sono alcuni dei capisaldi che ancora oggi resistono alla modernità del football, mentre per avere una dimora fissa per le finali si dovette attendere fino agli anni Venti del secolo scorso: il trofeo vinto a Stamford Bridge nel 1922 dall’Huddersfield, guidato da un certo Herbert Chapman, fu l’ultimo assegnato fuori dal tempio di Wembley, inaugurato l’anno successivo per la finale tra Bolton e West Ham. La squadra del Lancashire s’impose 2-0 sotto le due celebri torri dell’Empire Stadium, che oggi non esiste più, ma la “prima” di quel 28 aprile 1923 è rimasta alla storia come “The white horse final”. Dai filmati disponibili in rete è impressionante la mole di spettatori accorsa allo stadio, segno dell’enorme popolarità raggiunta in poco tempo dal gioco del calcio, tanto da stimare che le persone fossero almeno il doppio delle
L’edizione 2016-17 è stata decisa, a favore dell’Arsenal, da una rete di Ramsey
126.047 riportate dai dati ufficiali e mettendo a serio rischio lo svolgimento del match. Non finì in tragedia per il celeberrimo intervento di Billy, il cavallo bianco con in groppa il poliziotto Scorey che contribuì a sgomberare il campo da gioco e scongiurò i molteplici tentativi d’invasione. L’arbitro David Asson fece durare l’intervallo appena pochi secondi, per via del precario contesto all’interno dell’impianto, con le tribune traboccanti e i tifosi addossati fin sulle linee che delimitavano il prato verde. Sugli spalti, quel giorno ritroviamo anche Re Giorgio V, incaricato di consegnare il trofeo e alle prese con un’autentica muraglia umana. Di Billy invece è rimasto un ricordo nei pressi del nuovo Wembley, raggiungibile proprio attraverso il White Horse Bridge, un ponte che passa sopra la ferrovia e conduce allo stadio. In epoca recente dalle due torri siamo passati al celebre arco, ma dalla finale dell’eroico cavallo bianco
l’impianto londinese è stato sempre sede della finale della coppa inglese, a parte il replay del 1970 (disputato all’Old Trafford) e le finali comprese tra il 2001 e il 2006, giocate al Millennium Stadium di Cardiff proprio per consentire il passaggio di testimone con il nuovo stadio a Londra. Tra l’altro, l’unico club non inglese a vincere la Fa Cup è stato proprio il Cardiff City, che nel 1927 superò l’Arsenal per 1-0, portandosi il trofeo in Galles dopo la prima finale di sempre a essere trasmessa in diretta sulle frequenze di BBC Radio. Per vederne una attraverso lo schermo di un televisore bisognerà attendere il 1938, anno della finale tra Preston e Huddersfield. Nonostante per l’edizione di quest’anno nessun club di Non League (ossia non appartenente a una delle quattro serie professionistiche) sia riuscito ad approdare al terzo turno (laddove la competizione entra nel vivo) sin dalle prime edizioni, il giant killing è diventato l’essenza di questo torneo. Davide che batte Golia, l’impossibile che diventa realtà, l’imponderabile capace di accendere i riflettori su minuscole realtà del calcio di Sua Maestà. È questo il significato più profondo che ancora oggi la Coppa d’Inghilterra riesce a conservare, dispensando nuovi sogni a ogni edizione e a piazze ignote ai più. In fondo uno dei principi che aveva mosso il giovane Alcock era proprio questo, dimostrare attraverso lo sport che l’ascensione sociale era ancora possibile nella società di classe in epoca vittoriana, dove la concorrenza innalzava il livello, ma allo stesso tempo lasciava spazio ai più solerti e ingegnosi. Nella storia i giant killer per eccellenza restano ancora oggi i semiprofessionisti dell’Hereford, che nel 1972 al terzo turno eliminarono addirittura il quotato Newcastle (all’epoca in First Division), pareggiando 2-2 all’andata in trasferta e vincendo 2-1 al ritorno, scatenando un vero e proprio tripudio: 90’ minuti che tuttora restano nell’immaginario di tutti, con un filmato storico corredato dalla voce di un John Motson all’esordio davanti
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ai microfoni della BBC, poi destinato a restare una delle voci più note e apprezzate tra i commentatori british. Per i Magpies fu l’ennesimo capitolo di una maledizione che dura ancora oggi, visto che la Toon Army è uno dei club più blasonati d’Inghilterra, incapace però di vincere un trofeo entro i confini nazionali da qualcosa come 63 anni: l’ultima gioia risale proprio alla Fa Cup conquistata nel 1955 contro il Manchester City, poi il nulla più assoluto. A proposito di digiuni ne sanno qualcosa anche i Citizens, che nel 2011 con un gol di Yaya Tourè hanno battuto lo Stoke e vinto la coppa nazionale, interrompendo così una carestia di trofei perdurante dal 1976. Fu il primo successo di un’altra era per i Light Blues di Manchester, che proprio quell’anno con Roberto Mancini in panchina hanno aperto il nuovo corso, diventando competitivi in patria e mettendo piede in Europa grazie ai petroldollari della proprietà griffata Mansour, sceicco di Abu Dhabi. Quanto ai nostri connazionali, la finale di Coppa d’Inghilterra che ha maggiormente “parlato” italiano è senza dubbio quella del 1997. Da un lato il Chelsea di Di Matteo, Zola e Vialli, dall’altra il Middlesbrough di Festa e Ravanelli, battuto 2-0 dai Blues e fulminato dalla stoccata dalla distanza di Di Matteo dopo appena 42 secondi: si trattò del gol più veloce in una finale di Fa Cup a Wembley, che migliorò di tre secondi il record di Jackie Milburn, registrato con la maglia del Newcastle addirittura nel 1955. Il primato dell’italiano ha resistito fino al
L’Arsenal si è aggiudicato l’FA Cup in ben 13 occasioni
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Conte, lo scorso anno, è andato ad un passo dal vincerla con il Chelsea
2009, quando dopo soli 25’’ la finale tra Chelsea ed Everton è stata aperta dal gol lampo di Louis Saha, attaccante francese primatista attuale in materia, passato anche dalla Lazio nella stagione 2012/2013, ma senza lasciare la benché minima traccia. Tornando a Di Matteo, l’ex centrocampista è riuscito a ripetersi in finale anche nel 2000, regalando nuovamente il trofeo al suo Chelsea in virtù del gol segnato all’Aston Villa di Benny Carbone al 73’ e il cerchio della storia si è chiuso alla perfezione con il nuovo ritorno a Londra nel 2012, stavolta da allenatore, riuscendo a vincere sia la Fa Cup (2-1 al Liverpool), sia la Champions League, ai rigori contro il Bayern. Spulciando l’albo d’oro più recente della competizione è facile notare come fino a metà anni Novanta le squadre capaci di conquistare il trofeo fossero piuttosto variegate, mentre l’avvento del nuovo secolo ha riservato questo
Club vincitori dell’FA CUP
Squadra Titoli Anni Arsenal 13 1929-1930, 1935-1936, 1949-1950, 1970-1971, 1978-1979, 1992-1993, 1997-1998, 2001-2002, 2002-2003, 2004-2005, 2013-2014, 2014-2015, 2016-2017 Manchester Utd 12 1908-1909, 1947-1948, 1962-1963, 1976-1977, 1982-1983, 1984-1985, 1989-1990, 1993-1994, 1995-1996, 1998-1999, 2003-2004, 2015-2016 Tottenham 8 1900-1901, 1920-1921, 1960-1961, 1961-1962, 1966-1967, 1980-1981, 1981-1982, 1990-1991 Aston Villa 7 1886-1887, 1894-1895, 1896-1897, 1904-1905, 1912-1913, 1919-1920, 1956-1957 Liverpool 7 1964-1965, 1973-1974, 1985-1986, 1988-1989, 1991-1992, 2000-2001, 2005-2006 Chelsea 7 1969-1970, 1996-1997, 1999-2000, 2006-2007, 2008-2009, 2009-2010, 2011-2012 Blackburn 6 1883-1884, 1884-1885, 1885-1886, 1889-1890, 1890-1891, 1927-1928 Newcastle Utd 6 1909-1910, 1923-1924, 1931-1932, 1950-1951, 1951-1952, 1954-1955 Wanderers 5 1871-1872, 1872-1873, 1875-1876, 1876-1877, 1877-1878 West Bromwich 5 1887-1888, 1891-1892, 1930-1931, 1953-1954, 1967-1968 Everton 5 1905-1906, 1932-1933, 1965-1966, 1983-1984, 1994-1995 Manchester City 5 1903-1904, 1933-1934, 1955-1956, 1968-1969, 2010-2011 Sheffield Utd 4 1898-1899, 1901-1902, 1914-1915, 1924-1925 Bolton 4 1922-1923, 1925-1926, 1928-1929, 1957-1958 Wolverhampton 4 1892-1893, 1907-1908, 1948-1949, 1959-1960 Sheffield Weds 3 1895-1896, 1906-1907, 1934-1935 West Ham Utd 3 1963-1964, 1974-1975, 1979-1980 Old Etonians 2 1878-1879, 1881-1882 Bury 2 1899-1900, 1902-1903 Preston N.E. 2 1887-1888, 1937-1938 Nottingham Forest 2 1897-1898, 1958-1959 Sunderland 2 1936-1937, 1972-1973 Portsmouth 2 1938-1939, 2007-2008 Oxford University 1 1873-1874 Royal Engineers 1 1874-1875 Clapham Rovers 1 1879-1880 Old Carthusians 1 1880-1881 Blackburn Olympic 1 1882-1883 Notts County 1 1893-1894 Bradford City 1 1910-1911 Barnsley 1 1911-1912 Burnley 1 1913-1914 Huddersfield Town 1 1921-1922 Cardiff City 1 1926-1927 Derby County 1 1945-1946 Charlton 1 1946-1947 Blackpool 1 1952-1953 Leeds Utd 1 1971-1972 Southampton 1 1975-1976 Ipswich Town 1 1977-1978 Coventry City 1 1986-1987 Wimbledon FC 1 1987-1988 Wigan 1 2012-2013
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Credit Foto: Liverani
Nel 2012 Di Matteo rivince la FA CUP, questa volta da allenatore
IL DISASTRO DI HILLSBOROUGH Alle storie della Fa Cup è legata anche la tragedia sportiva più sanguinosa di sempre, avvenuta presso l’attuale stadio dello Sheffield Wednesday, a nord della cittadina dello Yorkshire. Il disastro di Hillsborough si verificò il 15 aprile 1989 in occasione della semifinale tra Liverpool e Nottingham Forest: match abandoned recita la distinta ufficiale, la gara infatti fu sospesa dopo soli sei minuti, quando il Gate C della Leppings Lane, era ormai diventato una trappola mortale perché erano stati fatti entrare molti più spettatori del dovuto. Novantasei tifosi dei Reds morirono schiacciati e soffocati dall’ingorgo umano, l’ultimo in ordine di tempo ad arrendersi è stato Tony Bland, scomparso nel 1993 dopo quattro anni in stato vegetativo, mentre la più giovane delle vittime risultò essere Jon-Paul Gilhooley. Aveva 10 anni ed era il cugino di Steven Gerrard, all’epoca di due anni più piccolo e poi destinato a diventare idolo indiscusso nella storia del Liverpool. La medesima funestata partita fu rigiocata all’Old Trafford di Manchester il mese successivo e cinque settimane dopo la tragedia i Reds di Kenny Dalglish si presentarono a Wembley per contendere il trofeo ai cugini dell’Everton in una finale del tutto particolare: finì 3-2 per i rossi, ai supplementari risultò decisiva la doppietta di Ian Rush (miglior marcatore di sempre nelle finali di Fa Cup, con 5 reti), attaccante gallese passato poco prima anche dalla Juventus, senza mai riuscire a incidere. All’esterno dello stadio di Hillsborough e da quello di Anfield sono presenti tuttora dei memoriali che omaggiano le vittime di quel pomeriggio sciagurato. Per il calcio inglese la macchia è rimasta indelebile.
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privilegio alla solita élite dei top club. Per le realtà meno facoltose mettersi in luce è diventato sempre più difficile, quindi in un’epoca attuale hanno attirato parecchia attenzione le vicissitudini di un piccolo club come il Portsmouth, la cui parabola lo ha condotto prima verso l’apice del successo e poi a un passo dall’oblio per motivi societari. Dopo quella del 1939, i Pompey sono riusciti a vincere la seconda Fa Cup della loro storia nel 2008 grazie a una cavalcata insperata condotta con Harry Redknapp in panchina, di ritorno dall’esperienza disastrosa con gli arcirivali del Southampton. A Wembley, per una squadra che poteva contare su giocatori del calibro di Defoe, Baros, Sol Campbell e Diarra, la visione onirica è diventata realtà grazie al gol di Kanu contro il Cardiff City, riuscendo anche a strappare il pass per la Coppa Uefa dell’anno successivo. Il Portsmouth incrociò persino il Milan di Shevchenko e Kakà nel rispettivo girone, ma le scellerate decisioni finanziarie tramutarono presto la favola in un incubo, costringendo il club a vendere i migliori e a essere risucchiato in una terribile discesa fino alla quarta serie. La stagione 2009/2010 è simbolica di questo percorso all’incontrario, visto che la squadra arrivò ultima in Premier League, già retrocessa ad aprile, ma un mese dopo raggiunse una nuova beffarda finale di Fa Cup, per la quale i suoi tifosi invasero tutta Londra. Quell’anno la formazione di Avram Grant si concesse il lusso di eliminare i “nemici” del Southampton, in un’avvincente riedizione del South Coast Derby, e poi di avere la meglio anche sul Tottenham guidato proprio dall’ex Redknapp. Per un club sull’orlo del fallimento fu la seconda volta a Wembley in tre anni, il miracolo però evaporò sul più bello visto che il Chelsea di Ancelotti fu spietato e la contesa venne decisa da una marcatura del solito Drogba. Da quel giorno il Portsmouth non è più tornato nel calcio che conta, non è riuscito nemmeno a iscriversi all’Europa League seguente, per la mancata concessione della licenza Uefa. Ma quelle
pagine scritte in Coppa d’Inghilterra nessuno potrà più strappargliele via, come del resto accaduto allo stesso Wigan nel 2013, vincitore per la prima volta della coppa nazionale (con tanto di qualificazione in Europa), ma terzultimo in campionato e quindi tre giorni dopo retrocesso in Championship nella medesima stagione: non era mai successo nella storia del trofeo più vecchio di sempre. Una finale storica per il sobborgo situato proprio alle porte di Manchester, che invece è costata il posto a Roberto Mancini, partito alla volta di Wembley con i favori del pronostico con il suo City, ma beffato al 91’ dal gol di Ben Watson, mandato in campo dieci minuti prima dallo spagnolo Martinez, attuale c.t. del Belgio. Per trovare un altro pomeriggio del genere, in cui la piccola nel giorno di gala si traveste da grande, bisogna tornare al 1988, a una delle finali più sorprendenti di sempre, vinta dal Wimbledon con una rete di Sanchez al 37’. A farne le spese niente meno che il grande Liverpool degli anni Ottanta, con Kenny Dalglish in panchina, anche lui costretto ad arrendersi alla Crazy Gang londinese. Mattatore assoluto fu il portiere, nonché capitano, Dave Beasant, primo estremo difensore in assoluto a parare un rigore in una finale di coppa, respingendo il penalty di Aldridge. Il bello della Fa Cup è sempre stato questo, regalare inaspettate prime volte a tutti, livellando i valori di chi scende in campo, fino a ribaltarli. E del resto anche un capolavoro come il romanzo Febbre a 90, di Nick Hornby, annovera una delle sorprese più incredibili, rimasta negli annali e datata 4 gennaio 1992: “E poi, incredibilmente e disastrosamente, fummo buttati fuori dalla Coppa d’Inghilterra dal Wrexham che la stagione precedente era finito in fondo alla Quarta divisione così come l’Arsenal era finito in cima alla Prima”. I Gunners erano perfino passati in vantaggio nel primo tempo, salvo poi subire due reti in due minuti. Thomas all’82’, Watkin all’84’. Eroi per un giorno, senza tempo. Come il trofeo più vecchio di sempre.
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Stefano Impallomeni di Pierfrancesco Trocchi
IN AND OUT Intervistiamo Stefano Impallomeni, ex volto noto di Sky TG24. Forse in pochi sanno che il giornalista della TV satellitare è stato una promessa del calcio italiano. Poi un infortunio.
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i sono storie che procedono senza intoppi, che scivolano indisturbate creando un percorso netto verso una conclusione altrettanto prevedibile. È quello che succede alla maggior parte dei calciatori, indipendentemente dalla caratura: si gioca, seguendo una linea più o meno si-
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nusoidale, fino a quando il tempo lo consente. Talvolta, però, capita che non sia così. Capita che tu sia uno tra i giocatori più promettenti della tua generazione, che giochi in una delle squadre più forti in assoluto del decennio e che, un giorno, la genetica del tuo talento si modifichi per sempre per circostanze av-
verse. Ricordiamo il caso di Lentini e quello più recente di Giuseppe Rossi; oggi ci sembra opportuno e profondamente didattico parlare con Stefano Impallomeni. Un terribile infortunio subito a soli ventuno anni, con un corpo che si trasforma in un peso, e la scelta di plasmare la propria vita con un nuovo mestiere, il giornalismo, in cui Stefano dimostra una classe e un’intelligenza rare, proprio come faceva sul campo. È stato più difficile diventare calciatore o giornalista? “Io ho cominciato divertendomi da bambino, sinceramente non immaginavo di diventare calciatore. Solo quando sei in una realtà come la Roma capisci che potrà diventare una cosa seria, prima non esisteva un vero e proprio progetto in questo senso. Da quando ho smesso, diventare giornalista non è stato molto difficile, ho avuto la fortuna di esserci portato perché ho sempre amato osservare il mondo. Inoltre, sia il calcio che il giornalismo sono mondi che vivono di adrenalina, si assomigliano molto”. Un goal e uno scoop provocano la stessa sensazione? “L’emozione è simile, l’atteggiamento mentale è in entrambi i casi agonistico: in entrambi i casi, per “segnare” bisogna affinare la tecnica, imparare le strategie, allenarsi…”. Avere un passato da calciatore è stato un vantaggio al momento di diventare giornalista? “Se hai vissuto il calcio da dentro, sai già come funzionano certe dinamiche, le differenze nel tempo sono minime. D’altro canto, gli altri ti aspettano sempre al varco, ti osservano con molto scetticismo, ma col tempo riescono a capire che fare entrambe le cose richiede grande equilibrio e passione”. Parliamo della tua carriera sul campo. Trent’anni fa era più facile essere una giovane promessa? “Ai miei tempi il livello tecnico del calcio italiano era altissimo, quindi a 16-17 anni emer-
gere era una questione molto complessa. C’è da dire che, nel tritacarne attuale, la dispersione del talento è enorme. Non saprei se sia colpa dei procuratori o del sistema in generale, di certo vedo che molti giocatori promettenti non riescono a sostenere una crescita paziente, soprattutto a causa del contesto in cui sono inseriti. Tutto succede troppo in fretta”. 22 febbraio 1984, il tuo esordio contro la Reggiana. Cosa voleva dire essere in quella Roma di campioni? “Ero tifoso della Roma, quindi era qualcosa di incredibile stare in quella che ritengo la Roma più forte di sempre. Iniziai con la Polisportiva Olimpica, piccola squadra di Roma, per poi fare un provino con i giallorossi nello stesso giorno di Angelo Di Livio: ci presero entrambi, fu una gioia immensa. Sai, giocare con campioni del calibro di Boniek, Ancelotti, Falcao…”. Chi ti voleva più bene in quella Roma? “Essendo giovanissimo, ero un po’ la mascotte della squadra. Ho conosciuto fior di giocatori che mi hanno insegnato a stare al mondo, a volte con durezza, ma sempre a fin di bene”. Parlando di giovani, è inevitabile trattare di Zeman, che tu hai avuto come mister a Parma. “Ebbi con lui un ottimo rapporto, almeno inizialmente, ma era una persona difficile, come forse lo ero anche io. Mi volle con sé, era un uomo capace di una didattica straordinaria, forse meno portato alla gestione dei grandi campioni. Zeman, comunque, resta un maestro di calcio, in grado di riuscire a creare un gruppo con poco; quando ha tanto a disposizione, probabilmente si perde”. 3 agosto 1988, Parma-Milan: Costacurta ti provoca la frattura di tibia e perone. Provi ancora un po’ di livore per lui? “Eravamo in buoni rapporti, nutrivamo una stima reciproca, anche perché spesso ci incontravamo nei tornei giovanili e ci era capitato di giocare insieme nella Nazionale milita-
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DIETRO LE Q
Stefano Impallomeni re. Non me l’aspettavo, ammetto che ci rimasi male, ma vivere di rancori non ti fa andare avanti con serenità e, col tempo, ho imparato a dimenticare”. Ad aiutarti ci sono state anche le pubbliche scuse di Billy, anche se dopo vent’anni. “Le sue parole mi colpirono molto: meglio tardi che mai, no? Ora abbiamo un buon rapporto, senza alcun livore”. Dopo qualche mese, ti ristabilisci, ma il passo, il guizzo non è più lo stesso. Cosa ti ha spinto a lasciare definitivamente il calcio a soli 27 anni? “Avevo il ricordo molto netto di me come giocatore forte, quindi non accettai il fatto di rassegnarmi ad essere un giocatore normale; mi resi conto che non sarei mai più arrivato ai livelli di un tempo. Pensai, così, che fosse meglio finire, col sorriso sulle labbra: una scelta forte che però ha pagato, regalandomi un bel percorso”. Il giornalismo, appunto. Com’è nata l’idea? Perché non continuare nel calcio? “Mi affascinava il mestiere del giornalismo, vedevo un grande impegno degli addetti ai lavori, li rispettavo e la carta stampata dell’epoca mi attirava tantissimo. Visto che il mio rimpianto è sempre stato quello di non possedere una laurea, la scrittura poteva essere un ottimo modo per sopperire a questa mancanza e così è stato”. Tra le centinaia di cui ti sei occupato, qual è la storia che ti ha colpito di più? “Ho fatto tre Mondiali, un’Olimpiade, ho girato il mondo… Se dovessi individuare un momento in particolare, di cui conservo un ricordo ancora vivo, sicuramente si tratterebbe dell’intervista a Tommy Smith, il velocista del pugno alzato alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968. La sua semplicità, la sua statura
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morale furono per me una lezione di raro impatto emozionale”. E il calciatore più intelligente che hai incontrato? “Sicuramente, dal punto di vista della sensibilità, Francesco Totti, verso cui provo un grande affetto. È un ragazzo di un’intelligenza unica, perché per essere un numero 10 a livelli costanti, in una città difficilissima, devi essere un vero mostro. La sua forza è stata quella di essere sempre un bambino in termini di entusiasmo, di essere dotato di una calma olimpica e di una positività semplice e contagiosa”. Un concetto peculiare di intelligenza. “Sì, quella di Francesco è un’intelligenza emotiva, profonda, che lo ha portato a muoversi al meglio tra le cose del calcio e della vita. È stato un esempio di eccellenza anche nella capacità di essere grande nelle grandi pressioni, è come se emanasse un’aura quasi divina, era così anche prima del successo: Totti è una presenza immanente (ride, ndr)”. A proposito: cosa significa essere giocatori a Roma? “Roma è una città papalina, riottosa, capitolina… Racchiude secoli di vizi e virtù, fare il calciatore a Roma è magnifico, nonostante le distorsioni e le difficoltà. L’ambiente del calcio romano è complesso perché non si riesce a parlare serenamente, ognuno è tifoso della propria opinione e non cerca di analizzare lucidamente le questioni. È, questo, un atteggiamento autolesionista che penetra nelle società e rischia di distruggere ogni cosa, è il popolo de: “l’avevo detto!”. Paradossalmente, a Roma per essere in equilibrio non devi essere mai in equilibrio, ossia devi vincere sempre, creare entusiasmo andando costantemente ai 300 all’ora. Appena c’è un picco-
UNA VITA NEL PALLONE Romano di nascita e romanista di fede, Stefano Impallomeni, classe ’67, muove i primi passi nel calcio con la Polisportiva Olimpica, piccola realtà capitolina. Ala scattante, viene notato dagli scout della Roma ed entra a far parte del settore giovanile fino all’esordio in prima squadra, avvenuto nel 1984 a soli 16 anni, in una Coppa Italia che i giallorossi conquisteranno. È Liedholm il primo a credere in lui ed è un altro svedese, Eriksson, a dare fiducia al ragazzo nei due anni a venire, con il graduale inserimento in Serie A e la conquista della seconda Coppa Italia, quella del 1985/86. Nell’estate del 1987 la dirigenza romanista decide di mandare Impallomeni a farsi le famigerate ossa in Serie B, a Parma, dove c’è un allenatore che coi giovani ci sa fare: Zdeněk Zeman. Se il rendimento in Coppa Italia è ottimo (le prime 5 presenze portano 3 reti), altrettanto non si può dire del campionato, ma soddisfazioni arrivano anche dal Mondiale Under 20, per il quale Stefano viene convocato, risultando poi tra i migliori. Nello stesso 1987, però, ecco un nuovo cambio di casacca, direzione Cesena, dove un carattere con qualche angolo di troppo, forse, porta Stefano a non scendere mai in campo con i romagnoli. Dopo pochi mesi, torna a Parma, dove nel 1988, durante un’amichevole agostana contro il Milan, un giovane Costacurta gli frattura tibia e perone con un brutto intervento. Sei mesi dopo Impallomeni tornerà a giocare e, in seguito ad un breve ritorno alla Roma, tra il ’90 e il ’92 scende in B, al Pescara, per poi vestire la maglia della Casertana nella stagione 1992/93 in C1. Il fisico tarda sempre più a rispondere agli svelti stimoli di un cervello talentuoso e l’annata 1993/94, di nuovo a Pescara, è l’ultima da calciatore. Stefano si reinventa come giornalista di grande successo: nel 1998 entra a Stream TV, poi Sky Sport, dove cura tiggì e innumerevoli speciali ed interviste, ed ora la nuova avventura con “Il Posticipo”, testata sportiva online di cui è direttore, senza tuttavia abbandonare l’impegno ancora corrente con Roma TV.
lo momento di crisi, tutto collassa a causa dell’approccio negativo che porta le persone ad aspettare una piccola falla per dimostrare di avere ragione”. È una condotta pericolosa. “Appena si presenta un piccolo fatto, parlo soprattutto della Roma, tutti sono pronti a sparare una raffica di considerazioni e giudizi, con il risultato che non si riesce mai ad andare oltre al particolare, perdendo in questo modo il senso del generale. In tale contesto, è complesso avere una crescita”. Di cosa ti occupi precisamente al momento? “Dopo aver lasciato Sky, ora sono direttore della testata online “Il Posticipo” e, inoltre, mi occupo del pre e post match a Roma TV. Mi diverto, ho diversificato l’attività anche con altre collaborazioni in radio e in televisione: l’entusiasmo è rimasto lo stesso di vent’anni fa”. Dopo anni di carta stampata e TV, come ti approcci al web? “Ne sono molto attratto, è tutto un altro mondo, io mi ci approccio come allievo. Non è vero che l’immondizia c’è soltanto su internet, basta accendere la TV o la radio per rendersi conto che esistono lavori mal gestiti anche lì. Bisogna assecondare il mercato, andare incontro alla gente, adattare le notizie a mezzi di fruizioni “veloci” come gli smartphone”. Se tu potessi raggiungere un obiettivo come giornalista, quale sarebbe? “Non saprei risponderti, non ho un fine particolare in mente. Sai, a cinquant’anni posso dire di essermi divertito tantissimo. Non sono giovanissimo, non sono nemmeno vecchio… Sono contento (ride, ndr)”. In un’infida altalena, dal basso verso l’alto e viceversa, l’ostinato sgomitare di Stefano ci colpisce per passione e serenità. Ha conquistato con pazienza gli spigoli di una vita a tratti illusoria e crudele, ricostruendoli con nuova luce e facendone la propria tenace energia. Una bella lezione nel nostro calcio scorbutico e presuntuoso.
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Grandi bom
David Trezeguet di Fabrizio Ponciroli
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“SEGNARE È STATA UNA MIA SCELTA”
Intervista esclusiva con Trezeguet, lo straniero con più gol in maglia Juventus…
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er la seconda edizione di “Gatorade premia la squadra” (ben 180 squadre impegnate nel Gatorade 5v5), all’Allianz Stadium, c’era un testimonial d’eccezione a snocciolare i “benefit” dell’iniziativa: David Trezeguet. Stuzzicato da un giovane studente/tifoso presente all’evento, Trezegol ha subito dimostrato la sua inarrivabile saggezza: “Cosa devi fare per far bene al torneo? Avrai bisogno dell’aiuto della squadra, ci vorrà umiltà e curare i dettagli. È un torneo importante, bisogna essere pronti mentalmente”. Un consiglio detto da uno che, numeri alla mano, è lo straniero con più gol segnati in maglia bianconera (171 per l’esattezza). Sul palco, l’ex bomber della Juventus, attuale ambasciatore bianconero e presidente delle Juventus Legends (squadra di ex campioni bianconeri che porta lo spirito Juventus in giro per il mondo), si destreggia con classe, come faceva, in calzoncini e maglietta, nelle aree di rigore avversarie: “Per me, segnare è stata una scelta. Il mio idolo era Batistuta, uno che sapeva come fare gol e aveva qualità importanti”. C’è tempo anche per scherzare: “Gli allenamenti veri, quelli di un certo livello, ormai non li faccio più. Ora penso a divertirmi con la squadra delle Juventus Legends”. Terminato il sorteggio delle ultime squadre che parteciperanno al Gatorade 5v5, Trezegol si concede a selfie e foto di rito, prima di accoglierci in una
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GRANDI BOMBER David Trezeguet
delle tante stanze dedicate agli ospiti del bellissimo Allianz Stadium… È il nostro turno… Sul palco hai detto che ti stai divertendo a giocare con le Juventus Legends, eppure, per mentalità e capacità, potresti essere un grande allenatore… “Guarda, a me piace molto quello che sto facendo. Preferisco pensare ad un ruolo di dirigente, una figura che, nel calcio d’oggi, servirà sempre di più. Ho iniziato un percorso che va verso un ruolo dirigenziale. E poi, onestamente, sono tanti quelli che vogliono fare l’allenatore, un ruolo che è anche molto stressante. È stata una mia scelta non mettermi in gioco come allenatore”. Parliamo della tua strabiliante carriera in maglia Juventus. Hai segnato 171 gol in bianconero, mi dici quelli che ricordi con più piacere? “Mi ricordo un gol fatto al Parma, in casa, con passaggio di Iuliano… Uno contro la Fiorentina, esteticamente bello. Poi ci sono stati altri gol determinanti, come quello al Real Madrid. Scelgo questi perché, secondo me, sono quelli che meglio fanno capire come mi muovevo in campo, da numero 9 vero”. A proposito di numeri 9… Non ti sembra che sia un ruolo che sta un po’ scomparendo? “Ai miei tempi, io ho vissuto la scomparsa del numero 10, del trequartista vero. Oggi, invece,
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si stanno riducendo i veri numeri 9. Comunque, credo che ce ne siano ancora di centravanti classici. Alla Juventus c’è un certo Higuain. Penso poi a Cavani o Suarez o, ancora, Lewandowski… Diciamo che Higuain è, secondo me, ancora il centravanti classico”. L’impressione è che, oggi, sia più facile, per un attaccante, andare in gol… “Vero, sembra proprio di sì. Forse è cambiato il modo di giocare o forse ci sono meno difensori di livello assoluto”. Parliamo del gruppo che compone le Juventus Legends… Chi è quello che, ancora oggi, si danna più l’anima per vincere le partite che disputate in giro per il mondo? “(Ride, ndr) Ne abbiamo diversi. Di Livio non si tira indietro mai, Torricelli è competitivo. Poi c’è Paolo (Montero, ndr) che sta alla grande… In generale, comunque, a tutti interessa fare bella figura e, soprattutto, tenere alto, ovunque, il nome della Juventus”. Ma che spirito c’è all’interno delle Juventus Legends?
UNA CARRIERA IMPERIALE Raccontare David Trezeguet non è impresa semplice. Nato a Rouen, città del nord della Francia, ha nel padre il suo primo, grande estimatore: “È stato fondamentale per la mia carriera”, conferma lo stesso David. Quando Jorge Ernesto Trezeguet, suo padre, smette di giocare a calcio, la famiglia torna in Sudamerica. Entra a far parte del club argentino Platense e, a 16 anni, è già in prima squadra. A 18 anni, percorso inverso: torna in Francia, va al Monaco. È l’ex nazionale Tiganà, allora tecnico dei monegaschi, a far sbocciare il talento di Trezegol. Diventa presto anche un punto fermo della Nazionale francese. Diventa Campione del Mondo nel 1998 e Campione d’Europa nel 2000. L’estate del primo anno del nuovo millennio è quella del passaggio alla Juventus. Esordisce, in Serie A, contro il Bari. Alla seconda giornata va già in rete, contro il Milan. Inizia così una cavalcata straordinaria in bianconero. Segna una quantità industriale di gol (il massimo? 32, nella stagione 2001/02). Di fatto, ad eccezione della stagione 2008/09, causa infortuni in serie, va sempre in doppia cifra di reti. Resta anche quando la Juventus viene retrocessa in cadetteria, aiutandola, a suon di gol, a tornare immediatamente nella massima serie italiana. A Torino vince due Scudetti (più uno poi revocato), due Supercoppe Italiane e si laurea capocannoniere della Serie A nel 2001/02 (24 gol). Nell’agosto del 2010, dopo 10 anni in bianconero con 171 gol (straniero con più reti nella storia della Juventus) in 320 presenze, lascia la Vecchia Signora. Gioca, per una stagione, con l’Hercules (12 reti, tra cui una rete di tacco nella sfida con il Malaga). Nel 2011 vola negli Emirati Arabi, firmando per il Baniyas ma, complice un brutto infortunio, non gioca praticamente mai. I miracoli non sono finiti. Il 4 gennaio 2012 viene presentato, ufficialmente, come nuovo attaccante del River Plate, appena retrocesso in seconda serie. A suon di reti (14 in 21 gare) riporta i Los Millonarios in Primera Division. Ci resta anche l’anno successivo. Nel 2013 passa ad un altro club argentino: Newell’s Old Boys e riesce ancora a trovare la via della rete con buona frequenza (nove reti in 30 gare). Vorrebbe chiudere la carriera con il River Plate ma Franco Colomba lo porta in India, al Pune City. E’ l’ultima avventura. Segna un paio di gol e poi si ritira definitivamente: “Non è stata una scelta difficile per me lasciare il calcio, sentivo che era arrivato il momento”, il suo commento a riguardo…
Trezeguet e il Direttore Ponciroli all’evento Gatorade
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GRANDI BOMBER David Trezeguet
“È un ritrovo di amici. Un gruppo di ex calciatori che si riunisce per giocare nuovamente insieme. A Torino siamo rimasti in pochi, quindi, quando ci ritroviamo per giocare insieme come Juventus Legends, è l’occasione per rivedere tanti con cui hai giocato in passato che non vedi da tempo. È una bella sensazione”. A proposito di sensazioni: il momento più bello e quello più difficile della tua carriera? “Il momento più bello, calcisticamente, è stato sicuramente la vittoria del Mondiale del 1998. Ancora oggi, quando organizziamo degli eventi legati a quella vittoria, mi rendo conto di quello che siamo riusciti a fare per la Francia. Più passano gli anni e più capisci che hai vinto il trofeo più importante del calcio e l’hai fatto per il tuo Paese che non lo dimenticherà mai”. … e il momento più difficile? “Quello più difficile, per me, è stato il 2006. La Juventus, in quel periodo, aveva una squadra fortissima. La nostra idea era, oltre di conquistare lo Scudetto, di vincere la Champions Le-
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ague e, invece, ci siamo ritrovarti in Serie B. È stata la fine di un percorso e l’inizio di un nuovo cammino. Non è stato semplice, mi chiedevo se stavo gettando via un anno, se era giusto restare, considerato che diversi talenti avevano deciso di andarsene, se era la scelta corretta continuare con la Juventus che, ricordiamolo, partiva da -17…. Per fortuna si è rivelata la scelta giusta, visto che la Juventus è rinata ed è tornata ai livelli che gli competono”. Torniamo al tuo ruolo di testimonial. Non male la tua performance sul palco… “(Ride, ndr). Bell’iniziativa, bel torneo con una gran finale a Barcellona. Ai miei tempi non c’erano tanti tornei di questo livello, quindi, per questo, dico sempre ai giovani di approfittare di eventi come il Gatorade 5v5. Sono grandi occasioni. Giochi a calcio, con i tuoi amici, cosa chiedere di più?”. Il tempo a nostra disposizione volge al termine. Trezegol ci saluta. Siamo certi di aver trascorso del tempo con una leggenda…
SI TORNA IN CAMPO... Sono ben 180 le squadre che si stanno giocando il torneo “Gatorade 5v5”. Sono state sorteggiate dalla leggenda bianconera David Trezeguet… Ciascuna scuola partecipante, è rappresentata da una squadra composta da sei studenti (quattro giocatori, un portiere e un giocatore di riserva). Queste le date dei tornei: • Roma: lunedì 12 e martedì 13 marzo 2018 presso Circolo Andrea Doria, Via del Baiardo, 26 • Milano: giovedì 14 e venerdì 15 marzo 2018 presso Sport Promotion Comasina, Via Salemi, 19 • Torino: Lunedì 19 e martedì 20 marzo 2018 presso Varano Village, Via Alfonso Varano, 64 Le quattro squadre vincitrici delle fasi regionali si sfideranno in una Finale Nazionale a 12 squadre, che si terrà venerdì 23 marzo a Milano presso il centro Sport Promotion Comasina, Via Salemi, 19. Inoltre, la squadra vincitrice della Finale Nazionale rappresenterà l’Italia nel Torneo Gatorade 5v5 Globale a Barcellona, dove sfiderà altre formazioni provenienti da tutto il mondo per conquistare la vittoria della competizione e aggiudicarsi l’ambitissima esperienza finale.
"Gatorade premia la scuola": seconda edizione dell’iniziativa ludicoeducativa rivolta agli studenti di Lombardia, Lazio e Piemonte
SOSTENERE L’EDUCAZIONE
“Dopo il grande successo dell’anno scorso, Gatorade è impaziente di ospitare la seconda edizione locale del torneo Global 5v5”, ha dichiarato Marcello Pincelli (Amministratore Delegato e Direttore Generale della filiale italiana di PepsiCo). “Lo sport, ed il calcio in particolare, crea aggregazione, promuove il lavoro di squadra e insegna valori fondamentali, proprio come la scuola. Con questo appassionante progetto, Gatorade mira a sostenere l’educazione, sia riguardo la corretta idratazione, sia invitando gli studenti delle scuole superiori alla condivisione di uno spirito di sani principi sportivi, sostenuti dalla grande volontà di mettersi in gioco e superare nuovi traguardi ogni giorno”.
L’iniziativa “Gatorade premia la scuola” è sostenuta dalla rete nazionale delle scuole Rete ITAsf facente Parte del MIUR, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
l’alfabeto dei bidoni
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Francisco José Rodrigues da Costa
di Thomas Saccani
IL MISTERO DEL MINISTRO Stella nel Porto di Mourinho, Costinha, a Bergamo, si è rivelato un vero ectoplasma…
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l 26 maggio 2004, a Gelsenkirchen, sede della finalissima di Champions League, edizione 2003/04, il Porto di un giovanissimo Mourinho stupisce il mondo, salendo sul tetto d’Europa. Nella formazione titolare portoghese milita Francisco José Rodrigues da Costa, noto a tutti come Costinha. È uno
degli “intoccabili” del futuro Special One. Centrocampista, con un buon feeling con la rete, il suo nome è sempre presente nella lista delle convocazioni della nazionale portoghese (in totale, 53 presenze e due reti con il Portogallo). Insomma, Costinha è un giocatore di livello internazionale, come dimostrano i tanti troCredit Foto - Liverani
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Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
fei nella sua personale bacheca. Ben 11, per la precisione, vinti con le casacche di Porto e Monaco. Nel 2005, dopo quattro splendide stagioni, lascia i Dragoes. Insieme a Maniche e Seitaridis, si accasa alla Dinamo Mosca. L’esperienza in terra russa non è esaltante. In un anno, solo 10 presenze e poche soddisfazioni (viene anche sospeso per “motivi disciplinari”). Decide così di “sperimentare” la Liga. Accetta l’offerta dell’Atletico Madrid. Una stagione tra luci e ombre, ma comunque interessante. A 32 anni, nell’agosto del 2007, ecco l’occasione che aspettava da tempo: l’Atalanta, con Ivan Ruggeri e Luigi Delneri (lo conosceva benissimo, complice la sua breve parentesi da allenatore del Porto nel 2004) in prima fila, decide di puntare su di lui. Arriva a parametro zero e firma
MISTER ELEGANZA Sin dai tempi del Monaco, dove gli hanno anche affibbiato il nomignolo di “Ministro” (è stato Henry a cucirgli addosso quel soprannome), Costinha è noto per la sua eleganza fuori dal campo. Difficile vederlo in jeans e scarpe da ginnastica. Il lusitano si è sempre distinto per il privilegiare l’accoppiata giacca e cravatta. C’è un aneddoto che lo riguarda. Gestito dal potentissimo Jorge Mendes, al momento del suo trasferimento, a 23 anni, al Monaco, Costinha fu dato per disperso, all’aeroporto di Nizza, da Lucien Muller, allora scout del club monegasco. Il motivo? Non si aspettava una sorta di uomo d’affari con valigia e, infatti, se lo lasciò sfilare davanti senza riconoscerlo. Una passione per la moda che non l’ha abbandonato neppure durante la sua permanenza a Bergamo. Note le sue spese in Via Montenapoleone, a Milano. A Monaco si narra che, al momento del contratto, pretese un appartamento di lusso con vista sul mare… Moda e auto di lusso. Porsche e Lamborghini le sue “marche” preferite. E, per chiudere, il suo mito è sempre stato James Bond…
un contratto di ben tre anni. La Dea si svena per il vincitore della Champions League 2003/04: 750 mila euro a stagione, un ingaggio decisamente importante per le casse orobiche. L’arrivo del portoghese esalta la folla bergamasca. È il “Colpo del Centenario” promesso, ai tifosi, dal presidente Ruggeri. La rosa a disposizione di Delneri è notevole. Alla prima casalinga del campionato 2007/08, contro il Parma (2-0 il finale per la Dea), Costinha, con la casacca numero 4, è in campo da titolare. Gioca 54’, prima di essere sostituito da Tissone ma mostra, nonostante una condizione fisica precaria,
Mourinho, l’uomo che ha sfidato Costinha
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l’alfabeto dei bidoni
FC riera da ds non inizia con il piede giusto. Dopo piedi interessanti. Bene, la gara contro i ducirca un anno allo Sporting, viene licenziato cali, sarà l’unica presenza, in maglia Atalanta, per aver, in un’intervista a SportTV, criticato i per il lusitano in tre anni di “vitto e alloggio” a vertici del club, rei di aver venduto Liedson al Bergamo. Incredibile? No, la pura verità. CoCorinthians. Si ricicla in Svizzera al Servette. È stinha, il campo da gioco, non lo vede più. Agli lui a scegliere il tecnico a cui affidare la squaallenamenti si presenta regolarmente. I tifosi dra. Individua nel connazionale Joao Alves la lo ricordano sfrecciare a bordo della sua Lampersona giusta. L’allenatore voluto da Costinha borghini gialla ma, quando c’è da smistare le viene esonerato a novembre. Si gioca la carta maglie per la partita, il suo nome non c’è mai. Joao Carlos Pereira, altro portoghese. Finisce Perché? Circolano mille voci sul “mistero” Comale sia per Pereira che per Costinha: licenstinha, degno dell’interesse di Agatha Christie. ziati ad aprile 2012. L’ex Porto si rende conto Si narra di problemi fisici non meglio precisati che, da dirigente, non lascia il segno. Deci(più volte negli anni post Bergamo, il diretto de così di cimentarinteressato ha smensi con la carriera da tito di essere “perenallenatore. La prima nemente” rotto). C’è esperienza da tecnichi giura di frizioni co, al Beira-Mar è un energiche, con lo staff pianto: retrocessione. dirigenziale. La socieIl Pacos de Ferreira tà voleva che ritratcrede in lui. Si avvale tasse l’ingaggio, lui dell’aiuto di Maniche non ne voleva sapere. come assistente (ex Si racconta anche di compagno al Porto e un mancato scambio, alla Dinamo Mosca). con l’Inter. Mourinho L’avventura dura solo era pronto a riprenquattro mesi… Resta derselo, in cambio di a spasso per qualche Dacourt all’Inter, ma anno ma, a sorpresa, non se ne fece nulritrova nuovamenla. Altri, in particote una panchina nel lare i tifosi, vogliono 2016. Questa volta è solo dimenticarsi di l’Academica, club in Costinha. Il giorno in Segunda Liga, a concui fu reso noto il cocedergli una chance. municato che sanciPrende il posto di Fiva la rescissione del lipe Gouveia e, micontratto con Costin- Carriera da urlo ma, a Bergamo, il vero Costinha non si è racolo, resta in sella ha (febbraio 2010), in mai visto per una stagione (non tanti si lasciarono anincanta, chiude al sesto posto). Nel 2017, il Nadare a vere e proprie manifestazioni di giubicional de Madeira, sceso in Segunda Division, lo. Costinha rescinde per un semplice motivo: si affida a Costinha, suo ex giocatore (stagione lo Sporting Lisbona, la squadra della città in 1996/97, 27 presenze con quattro reti) per torcui è nato, lo vuole come direttore sportivo. Di nare nella massima divisione portoghese. La fatto, si ritira dal calcio giocato dopo una sola scommessa è in corso… Ma il periodo orobico presenza in tre anni “italiani”. La nuova car-
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Ora fa l’allenatore, qui si confronto con Montella
resta centrale nella carriera/vita di Costinha. A distanza di qualche anno dal suo addio, burrascoso, all’Atalanta, Costinha ha rivelato alcuni particolari sulla sua avventura bergamasca: “Avevo altri anni di contratto a Madrid. Ed ero il capitano. In più il presidente Cerezo mi voleva nello staff dirigenziale. Mi sono dimezzato lo stipendio per giocare nell’Atalanta, non volevo essere l’ex campione che svernava… Ogni vol-
ta che mancava un centrocampista ne veniva acquistato un altro. Anche successivamente con Gregucci e Conte: piuttosto di farmi giocare hanno comprato Zanetti e De Ascentiis… Ho l’impressione che forse Dio ha voluto mandarmi a Bergamo per farmi capire come non si deve fare questo mestiere (del dirigente, riferendosi a Osti e Giacobazzi, ndr)”, le sue dure parole al Corriere di Bergamo.
I GIOCHI MENTALI DI MOURINHO Costinha ha avuto il suo momento di gloria assoluta, da calciatore, al Porto, agli ordini di Mourinho, l’allenatore che lo ha fatto rendere di più. In un’intervista a Porto Canal, l’ex giocatore dell’Atalanta ha raccontato un aneddoto legato alla leggendaria cavalcata in Champions League del 2003/04, conclusa con la vittoria del trofeo: “Era il 1 dicembre, giorno del mio compleanno. Ho invitato i miei compagni a cena e dopo ho festeggiato con alcuni amici d’infanzia di Lisbona. La domenica successiva, abbiamo pareggiato con il Maritimo. A fine partita, Mourinho, che non si vedeva mai negli spogliatoi, è entrato e viene verso di me: ‘Tu sei il responsabile del pareggio con il Maritimo. Se non vinceremo il campionato e la Champions League, sarà stata colpa tua. Ho già detto al presidente che, a gennaio, te ne andrai dal club’… Agli allenamenti ero a pezzi ma lui mi disse che non era nulla… Mourinho usava le personalità dei giocatori, quelle più forti, per i suoi interessi. Sapeva che poteva permetterselo con me. Ha funzionato ed è andata bene, visto che abbiamo vinto campionato e Champions League”.
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Gare da ricordare
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Parma - Marsiglia
Credit Foto: Liverani
di Luca Savarese
SPETTACOLO
DUCALE
“Il 1999 fu l’annus mirabilis per i gialloblu crociati: arrivano in rapida successione, Coppa Italia, Coppa Uefa e Supercoppa Italia. Nella notte moscovita, l’acme di uno squadrone capace di travolgere il Marsiglia per tre a zero con Crespo, Vanoli e Chiesa”
“S
ono sempre i sogni a dare forma al mondo” canta Ligabue nato a Correggio, non lontano da Parma. Proprio qui, tra il battistero in marmo rosa di Verona ed il palazzo della Pilotta, nel cui cortile i soldati spagnoli di Maria Luigia, giocavano alla pelota, da cui il nome di Pilotta, negli anni novanta erano i sogni fatti di pallone a dare forma al mondo dei tifosi, dei cittadini, di chi, tra una passeggiata in bicicletta ed un piatto fumante di anolini in brodo, vedeva la squadra locale fare cose che di solito accadono nelle favole: prima l’approdo in Serie A, conquistato addirittura contro i rivali della Reggiana (nemmeno un film avrebbe saputo essere così preciso...) poi la Coppa Italia arrivata al cospetto della Juventus, la stessa signora che, solo qualche anno prima i parmigiani (così si chiamano gli abitanti, perché gli appassionati del club son parmensi) guardavano, in tv, battere gli altri. Va bene che da quelle parti è nato Giuseppe Verdi e che una delle prime denominazioni della società, al momento della fondazione, anno 1913, fu quella di Verdi Football Club ma, che la musica degli anni novanta sarebbe stata così rock, bhè, in pochi, tra il fiume Parma ed i suoi ponti cittadini, avrebbero potuto immaginarselo, quando la formazione, negli anni ottanta, si barcamenava in Serie C. Poi venne un signore calvo, arrivava dal Rimini, portava conoscenze avveniristiche. Arrigo era il suo nome, Sacchi il cognome. Il ducato gialloblu conobbe idee mai viste prima e fece il primo grande scalpo: far deragliare il Milan dal bi-
nario della Coppa Italia. I rossoneri fanno suo il mister che diventa il profeta di Fusignano. E il Parma? Il destino stava solo allestendogli il percorso. Nel 1989 arriva dalla Reggina, Nevio Scala. È lui che prima imbastisce la sua navicella e poi la manda in orbita: oltre alle sopracitate Serie A e Coppa Italia, ecco la Coppa Coppe, la Coppa Uefa. Parma gongola, con il suo ministro dei sogni. Ma come ogni favola che si rispetti, prima o poi arriva il “the end”. Siamo nel 1996, Nevio saluta e ringrazia. “Sei anni unici, dove quello che abbiamo vissuto credo, senza presunzione, sia qualcosa di unico e di irripetibile”. Come unico era il parco giocatori di cui il Parma disponeva: Taffarel, primo portiere brasiliano ad approdare in Italia, Minotti ed Apolloni dietro, a tappare con eleganza tutti i buchi, Grun a sfoltire la mediana da insidie e palloni, Marco Osio ad impreziosire la trequarti, Sandro Melli, parmigiano purosangue, a buttarla dentro, un biondo talento a giostrare tra fascia e attacco, Tomas Brolin. E poi lui, l’andatura dinoccolata prestata al calcio e quel paso doble iscritto nei suoi muscoli. Faustino, detto Tino, Asprilla. Questi alcuni tra i cavalieri che fecero le imprese. Della prima generazione. Squadra che vince non si cambia, si aggiusta: Nestor Sensini, Fernando Couto, Massimo Crippa, Dino Baggio, Stefano Fiore, Gianfranco Zola, le preziose cerniere tra le sorprese d’inizio novanta e li squilli di fine decade: un giovane Fabio Cannavaro, un promettente Lilian Thuram. Un post adolescente con i guanti alle mani e tanta voglia di spaccare il mondo: Gigi
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GARE DA RICORDARE
PM IL RICORDO DI STEFANO Stefano Fiore, classe ‘75, nei favolosi anni novanta gialloblu, ne ha impreziosito il centrocampo. Nel 2000 con la maglia della nazionale è arrivato secondo all’Europeo in Belgio e Olanda. Stefano, anno ‘95, il Parma vince la sua prima Uefa e tu ci sei. Anno ‘99, il Parma bissa l’Uefa e tu ci sei ancora? “Sì, custodisco gelosamente questo primato, condiviso con pochi altri, di essere stato presente ad entrambe le coppe Uefa del Parma. Considero Parma la mia seconda famiglia, arrivai lì appena diciottenne. Porto nel cuore la prima e la considero un mio personale vanto perché a vent’anni mister Scala mi diede la possibilità di giocare una finale. Quella del ‘99 rappresenta il mio secondo grande trofeo e mi aprì poi le porte ad una seconda parte di carriera ad alti livelli”. Ecco, tu e i tuoi compagni, enfants prodiges del Parma ‘99, eravate consapevoli della vostra forza o l’appetito, venne, in Europa, anche mangiando? “Gli ottimi giocatori c’erano tutti. Ma, all’inizio, specie dopo un avvio di campionato non esaltante, non fu semplice. Era la prima volta che mister Malesani guidava una grande squadra. Poi crescemmo e, da ottimi giocatori, diventammo un gruppo solido e strada facendo, soprattutto rendendoci conto che nelle gare di ritorno, in Uefa, riuscivamo a fare davvero male agli avversari, capimmo che potevamo fare gran-
Buffon, un attaccante, che dicono somigli molto a Valdano e che per questo chiamano valdanito: Crespo, i cui palloni spesso glieli confeziona su misura il sarto Veron, dopo che li aveva recuperati, tra l’ordalia dei tacchetti, Boghossian. Senza dimenticare il lavoro sporco di Antonio Benarrivo e Alberto Di Chiara, stantuffi inesauribili. E poi voilà lo scatto spesso con tiro finale, by Enrico Chiesa. Calisto Tanzi il patron della Parmalat si avvale del lavoro di Michele Uva, come direttore generale e di Lele Oriali come responsabile dell’area sportiva, che fanno sul serio e iscrivono il nome del Parma nel piccolo santuario del calcio che conta, che può davvero
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provare a vincere. Parma è di diritto tra le sette sorelle. Carlo Ancelotti si fa le ossa in panchina e fa in tempo a portare per la prima volta in Champions i gialloblu nel 1997 al termine di un campionato dove i parmensi arrivano secondi con 63 punti, a soli due punti in meno della Juve campione d’Italia. Quante ombre però su Juve-Parma del ritorno. Parma però va oltre, se lo scudetto è sfumato, non è detto che sfumerà ancora e poi c’è l’Europa della Coppa Uefa, la casa del Parma. Per la mission si chiama Alberto Malesani, l’ex impiegato della Canon, che col Chievo in B e con la Fiorentina, al suo primo anno di A, ha dimostrato personalità da vendere. La so-
di cose e che quella coppa poteva essere nostra”. 12 maggio 99: il freddo di Mosca si scioglie come neve al sole, il Marsiglia deraglia, e non riesce a capirci niente. Se rivedi quella notte, cosa vedi? “Io entrai a gara in corso (al 77’ al posto di Veron, nda). Una finale può cambiare anche da un episodio. Sin dai primi minuti, però, dalla panchina avevo la sensazione, netta, che sarebbe bastato trovare il gol del vantaggio per far nostra la pratica e con disinvoltura. Arrivammo a quella finale molto carichi e consapevoli della nostra forza, poi avevamo appena vinto la Coppa Italia contro la Fiorentina che ci galvanizzò ancor di più. Se riavvolgo quel film, vedo che loro avevano Pires, uno dei talenti allora, ma alla fine noi avevamo la Coppa”.
cietà gli mette a disposizione la crème de la crème, lui deve solo, come fanno i pasticceri, misurare gli ingredienti, dosare gli zuccheri, stare attento alla cottura. Quel Parma era un croissant caldo e croccante: c’è spazio per tutti, da elementi di gran classe e curriculum, alla normalità in persona, Paolo Vanoli, da ex meccanico a elemento via via sempre più prezioso nel motore della squadra. La gente in città, però, all’inizio mormora. Qui dove si è visto la luna, non ci si può più accontentare del dito. Il pubblico è ipercritico e passionale al tempo stesso. La squadra però ai nastri di partenza, scricchiola. In campionato, arrivano due pareggi contro Vicenza e Venezia. Ma, il successo alla terza contro la Juve, basta a far cambiare idea anche ai più scettici. E in Europa? Anche qui le cose sulle prime stentano un pochino. La prima trasferta a Istanbul, fa registrare un passo falso, con gol del Fenerbahce del rumeno Moldovan. Poco male. Al ritorno, in un Tardini caliente, arriva una vittoria sonante per 3 a 1, un autogol turco e Crespo e Boghossian, rimettono in gioco il Parma. Dopo un successo con risultato
all’inglese sulla Salernitana in campionato, ecco il secondo turno eliminatorio: in Polonia in avvio, un golletto di Chiesa spiana la strada. Arriverà il pareggio ma fa niente. Al ritorno ci pensa Fiore e poi fa tutto Bogdan Zajac con un autogol e segnando nella porta giusta. Il Parma cresce di partita in partita, la strada che ha imboccato sembra essere un’autostrada tranquilla, non particolarmente trafficata. Si vola in Scozia, destinazione Glasgow, dai tignosi protestanti nel catino rovente di Ibrox Park. Balbo raffredda i bollenti spiriti britannici appena dopo la ripresa, ma una rete di Wallace tiene vivi gli avversari. I ritorni in grande stile, continuano, marchio di fabbrica della Malesani Band: nella notte dell’Immacolata del 1998, il Parma si regala una gran festa con tris di gol a rispedire a casa il Glasgow Rangers: Balbo, Fiore e Chiesa sono i mattatori dopo che Albertz aveva spaventato in avvio i gialloblu col gol del vantaggio. A proposito di colori gialloblu. Quell’annata 1998/99 vide un utilizzo prevalente della maglia gialloblu a strisce orizzontali griffata Lotto, che i tifosi in un recente sondaggio in oc-
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GARE DA RICORDARE
PM casione del centenario della squadra, non solo hanno eletto come maglia più bella, ma la vorrebbero ancora presente in luogo della divisa crociata, con croce nera in campo bianco che in questi anni è ormai diventata la prima maglia. Ai quarti la masnada fa un giro in Nuova Aquitania, l’avversario si chiama Bordeaux. Quindi Pavon, Micoud, Wiltord, gente molto tecnica e da prendere con le pinze. Infatti proprio questi ultimi due mettono le cose a favore dei girondini, ma un guizzo di Crespo in zona Cesarini, rende meno mortificante il pensiero del ritorno. D’accordo, Micoud e Wiltord sono forti, il centrocampista all’inizio del millennio sarà proprio ingaggiato dal Parma, mentre la punta renderà infausta l’euro finale dell’Ital Zoff nel 2000. Però il Parma è sereno in vista del ritorno. Sa e sente che l’impresa è possibile e poi ha una forza in più: viene dai tifosi. I boys hanno invaso all’andata il Chaban-Delmas di Bordeaux, chissà quanti saranno al Tardini. Un esercito, di cori, ban-
Alla guida di quel fantastico Parma c’era un certo Malesani
dieroni e immensa energia. Al Parma che entra in campo, vengono i brividi, quelli giusti, quelli che non ti fanno correre ma saltare come molle della felicità. Il Bordeaux capisce che avrà vita dura. Crespo, dopo 37 minuti, rompe gli indugi. Chiesa, prima dell’interval-
CHI L’HA VISTA Gabriele Majo sta al Parma come la sabbia al mare. L’ha visto e seguito in lungo e in largo: giornalista, radiocronista, addetto stampa varie volte. Insomma, se si vuole oltre al punto di vista di chi era in campo, un ricordo da chi era in tribuna stampa quella sera, non si può non ascoltarlo. Gabriele, sei e sei stato per tanti anni voce, penna, testimone delle vicende del Parma. 12 maggio 99, dov’eri e il primo ricordo di quella sera? “La sera del 12 maggio 1999 ero allo stadio Lužniki di Mosca per raccontare agli ascoltatori di Radio Emilia, Radio Elle e Radio Lattemiele quella finale che poi sarebbe rimasta a lungo nella storia, non solo del Parma, ma nazionale, giacché i Crociati restano gli ultimi italiani ad aver vinto la Coppa Uefa, poi diventata Europa League. Pur essendo primavera inoltrata a Mosca, faceva freddino ma a scaldare il cuore furono i tre gol di Crespo, Vanoli e Chiesa”. Anche se all’inizio con Malesani in panca, le cose non andarono subito benissimo... “Malesani, che non godeva di molte simpatie tra la stampa e da parte dei tifosi, viene ricordato non per le quelle tre Coppe in 100 giorni, ma per non aver vinto, con quello squadrone, il Tricolore. Sulla cavalcata europea non penso gli si possano muovere appunti...”. Chi si faceva preferire da te in quello squadrone? “Nestor Sensini. Ho sempre provato ammirazione per quei calciatori meno davanti ai riflettori di altri, ma che grazie al proprio impegno, abnegazione e umiltà contribuivano a farli eccellere”.
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lo, bissa. Vai Parma! Ahi girondini, ma dove avete lasciato il vino frizzante dell’andata? Parte il secondo tempo, pronti via ed è subito Sensini. Elie Baup, l’allenatore del Bordeaux, si fa il segno della croce. Il Parma sembra un leone, indomabile, mentre gli ospiti, come degli Albatros di Baudelaire, non riescono più ad avanzare di un passo. Il Parma indice una festa, tutti invitati. Chiesa fa poker, i crociati camminano sul velluto francese. Ma anche Crespo vuole confezionare la sua personale doppietta, accontentato. Parma champagne, alla faccia dei maestri vinai di Bordeaux. I girondini sono letteralmente imbambolati: Alicarte prende un pallone in braccio, ma non sta giocando a pallamano...rigorissimo. Balbo fa sei sulla ruota del Tardini. Parma 6 fortissimo, Bordeaux, a casa. Non solo i crociati capiscono che davvero le gare di ritorno sono una loro arma letale ma, dopo quel saggio di forza e convinzione, prendono coscienza che davvero possono alzare la coppa. Ora solo due partite li divide da quella signora elegante e vestita d’argento che si chiama Coppa Uefa. Il Parma però non può dormire sonni tranquilli anche perché prima di un’eventuale finale dovrà passare sui materassi, non certo comodi, dei materassai spagnoli, i colchoneros dell’Atletico di Madrid. Non lo squadrone capace di andare negli ultimi anni due volte in finale di Champions, ma cifra tecnica comunque pregiata: Jugovic, Valeron, Juninho Paulista. Ma, quel Parma era poesia in movimento: Chiesa, Crespo, Chiesa, non affonda sulle
acque del Manzanarre, ma diffonde il suo grido di battaglia e poco serve, per i biancorossi madrileni, il momentaneo pareggio su rigore di Juninho. Manca la gara di ritorno, certo, ma i gialloblu hanno già in tasca il biglietto per la finale, che timbrano puntualmente al Tardini grazie a Balbo e Chiesa, la cui rete vanifica il pari di Roberto. Il Parma è in finale. Dopo quattro anni, torna a disputare una finale di Uefa, il suo prescelto atollo, dove guardare gli altri con fierezza. Mosca, ospiterà l’ultimo atto. Lo sparring partner sarà il Marsiglia, che nell’altra semifinale, mentre il Parma asfaltava l’Atletico, eliminava il Bologna. Zero a zero al Velodrome e uno a uno al Dall’Ara, tra mille polemiche. I felsinei segnano con Dartagnan Paramatti ma all’87’ Ravanelli supera Antonioli: il contatto non è netto ma il rigore è assegnato. Blanc, con flemma, porta i marsigliesi a Mosca. Se in semifinale i ragazzi del Sud della Francia non fecero certo la voce grossa, bene avevano fatto sin lì, eliminando in rapida successione Werder Brema, Monaco e Celta Vigo. Dietro c’è Blanc, in mezzo al campo Bravo, sulla trequarti Pires. Il Marsiglia era dal 1993 che mancava da una finale europea. L’ultima fu quella vinta, ma con le carte truccate, in Champions contro il Milan. Droit au but è il motto della squadra fondata da un assicuratore nel 1899. Dritto allo scopo. Ma sulla strada dello scopo del Marsiglia, ci sono gli italiani del Parma che hanno passeggiato sin lì, in Uefa. All’OM, Olimpique de Marseille, resta solo quel tram-
Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
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GARE DA RICORDARE
PM IL RICORDO DI DINO Dino Baggio è stato l’anima ed al tempo stesso il braccio del centrocampo del Parma, dal ‘94 al 2000, tutto questo dopo un secondo posto con gli azzurri al mondiale americano del ‘94 Dino, ma che grande squadra era quella? “Tanta roba, il centrocampo, il mio reparto, parlava da solo, avevo accanto a me Boghossian, Veron, Fuser, Vanoli, Fiore: quantità, qualità, esplosività, forza fisica, corsa: non mancava nulla!” Dino tu sei l’uomo della Coppa Uefa. L’hai vinta tre volte: nel ‘93 con la Juve, nel ‘95 e ‘99 col Parma. “Si, mi piaceva molto come coppa, mi esaltava, anche se quella che rigiocherei domani è quella del ‘95 vinta col Parma contro la Juve che non aveva più creduto in me: che rivincita!” Ma qual era la ricetta di quel nuovo successo del Parma nel ‘99? “Oltre alla classe, eravamo un gruppo solidissimo: in campo ci davamo tutti una mano ed anche le poche volte che un compagno sbagliava, non lo si rimproverava ma lo si aiutava e metteva in una direzione positiva, ecco, così avevamo una forza doppia!”.
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polino per salvare una stagione che li ha visti finire secondi, dietro al Bordeaux (fatto fuori dal Parma ai quarti) in Ligue-1. Anche le motivazioni parmensi non sono da meno: il team di Malesani solo una settimana prima, si è aggiudicato al Franchi di Firenze la sua seconda Coppa Italia ai danni della Fiorentina. Ora sotto con l’Uefa, dimostrando la sua vocazione copetera per dirla alla Boskov. Le velleità di campionato gli sfuggirono definitivamente contro il Milan, ad inizio aprile. Rossoneri che poi a fine maggio avrebbero fatto loro lo scudetto delle sorprese con Zaccheroni. Testa bassa ma caricata a mille verso la seconda Uefa, quindi per i ragazzi del Parma, che in Europa vanno a nozze. Il Marsiglia in virtù della bagarre scoppiata contro il Bologna nella semifinale di ritorno in Emilia, dovrà fare a meno degli squalificati Gallas, Luccin e Ravanelli e dei rissaioli di Bologna, Dugarry e Jambay. Inoltre piove sul bagnato: Eric Roy, si è infortunato. Nel viaggio verso la capitale russa, doveva contare la rabbia. Il Parma invece, contava l’entusiasmo: generoso, contagioso. Uno di quelli che ne trasmette di più è Alain Boghossian: lui è francese, lui nel Marsiglia ci ha giocato prima di arrivare in Italia con la maglia del Napoli. Lui ha vinto 10 mesi prima il mondiale con la Francia. Anche Lilian Thuram lo ha vinto e anch’egli gioca nel Parma. Si, avete capito bene, il Parma aveva in squadra due campioni del mondo. Quando Sensini e Blanc, capitani delle due formazioni, sono a centrocampo con l’arbitro scozzese Dallas, basta guardare la faccia dell’argentino Arroyo Seco per capire la tempra con la quale il Parma scende in campo: grintosa, sul pezzo, disposta a non perdersi nemmeno un refolo del vento moscovita. I Marsigliesi tentano in avvio di spaventare gli emiliani, ma sono tentativi vani e fini a se stessi. Il Parma trova l’affondo giusto al minuto 36. Sensini lancia il pallone appena prima del centrocampo. La sfera viaggia alta, Veron l’ammansisce con un colpo di testa, ma poi ecco Lau-
I tifosi del Parma sognano un Parma nuovamente sul tetto d’Europa
rent Blanc fare un super harakiri: tocco di testa dietro in appoggio al portiere Porato. Oops, però capitan Blanc non aveva visto Crespo, che ringrazia, e con un piatto destro morbido mette dentro. Il Parma è in vantaggio, il Marsiglia, è avvisato. Passano dieci minuti e il copione non cambia. Migliora. Il Parma ha una foga che nessun francese riesce a fermare. Thuram sulla trequarti calcia la palla con una scivolata dirompente, irrompe sulla fascia destra Fuser che scodella al centro dove Vanoli è pronto a staccare nell’angolino alla sinistra di Porato: 2 a 0 Parma! I crociati vanno a mille, il Marsiglia sembra rimasto a casa. Mister Courbis prova a cambiare qualcosa nell’intervallo: toglie Edson da Silva, evanescente e butta dentro Camara. Ma nulla, non c’è verso, perché i versi, incandescenti sullo stelo della finale come quelli di Pablo Neruda nelle pagine per le sue amate, sono solo quelli del poeta Parma, che trova il tempo per triplicare la gioia con la firma di Enrico Chiesa al 55’. Scucchiaiata di Veron dal lato corto dell’area di rigore. Velo furbesco di Crespo, che fa passare la palla sotto le proprie
gambe. Palla che fa un rimbalzo, sta per farne un altro ma il destro devastante di Chiesa non glielo permette, facendola morire sotto il sette. Tre tocchi ed ecco il tre a zero. Chapeau Parma. I tifosi, i giornalisti che da Parma hanno invaso Mosca capiscono che ormai come disse il presidente Pertini nella finale mondiale 82 riferendosi alla Germania, gli altri, i marsigliesi, non ci prendono più. Fu così. Quando Dallas fischiò la fine, il Luzniki di Mosca era un felice distretto in provincia di Parma. “Sono molto emozionato è una cosa fantastica, il merito è tutto loro. Io firmerei ogni anno per due obiettivi su tre”. Ipse dixit Malesani. Lo scudetto a Parma non arriverà mai, ma nessuna squadra italiana da quella notte saprà più né arrivare in finale di Uefa e nemmeno vincerla. Crespo è eletto “Man of the Match”, Sensini alza il trofeo, l’Uefa prende un’altra volta la strada della via Emilia, destinazione Parma, che poi ad agosto contro il Milan festeggerà anche la Supercoppa Italia. Tre coppe in 100 giorni. Parma, laddove negli anni novanta erano sempre i sogni, anche in veste europea, a dare forma alla realtà.
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SCOVATE
da carletto Carlo CARLETTO Nicoletti (Direttore Artistico MATCH MUSIC) seguirà i profili Instagram e Twitter dei giocatori più importanti del pianeta Calcio e ci segnalerà le foto e i tweet più divertenti e particolari. Segnalate quelle che magari potrebbero sfuggirgli scrivendogli al suo profilo Twitter e Instagram @carlettoweb
PIRLO
Il campione ex Juventus, ritiratosi dal calcio giocato, si dedica al suo gioiello...
FALCINELLI
Neo bomber della Fiorentina, l’attaccante festeggia San Valentino con le donne di casa.
NEYMAR
Scatto prepartita dallo spogliatoio del PSG per la stella brasiliana.
SALAH
Sempre più protagonista in Premier League con il Liverpool, il campione egiziano sta esprimendo un altro desiderio...
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BORJA VALERO
Dopo il ritorno alla vittoria dell’Inter, lo spagnolo a casa gioca a Uno con i figli Alvaro e Lucya.
ANCELOTTI
Ritorno al Bernabeu per il Mister che ha portato a Madrid la decima.
ROONEY
Festa grande a casa dell’ex attaccante del Manchester United, è arrivato il quarto maschietto.
SERGIO RAMOS
Festeggia il capitano del Real Madrid nonostante il cammino nella Liga quest’anno non sia dei più entusiasmanti.