Calcio2000 n.234

Page 1

diretto da Fabrizio Ponciroli

Bimestrale

Calcio

GIU

LUG

2OOO prima immissione 01/05/2018

3,90€

BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50

234

GODIAMOCELO!!! speciale russia 2018 ESCLUSIVA intervista ESCLUSIVAesclusiva

Bryan Cristante “Sogno un top club”

STORIE COPPA DEL MONDO

Le imprese delle africane

Grandi Presidenti ESCLUSIVA

STORIE DI CALCIO ESCLUSIVA

ROMEO ANCONETANI Peter Jehle “A Pisa comando io”

ALFABETO DEI BIDONI Masashi Oguro Il giapponese del Torino

Il Buffon del Liechtenstein

DOVE SONO FINITI Giovanni Cervone A porte chiuse

GARE DA NON DIMENTICARE ESCLUSIVA

Vicenza-Napoli Coppa Italia 1997

L’impresa della banda di Guidolin

Speciale

Inglesi a Milano Da Wilkins a Ince



FP

ARRIVANO I MONDIALI…

C

he strana sensazione… Per uno, come il sottoscritto, che ha scoperto il calcio grazie al “miracolo azzurro” a Spagna 1982 e ha gioito come mai nella propria vita a Germania 2006, è alquanto singolare pensare a Russia 2018 senza l’Italia ai nastri di partenza. Purtroppo, è tutto vero. La Nazionale non ci sarà, saremo semplici spettatori dell’evento calcistico più rimarchevole e prestigioso. Forse anche per questo, abbiamo voluto dedicare la cover a Buffon. Nelle ultime settimane, Gigi è finito spesso, forse troppo, sotto i riflettori. Lui, in Russia, doveva esserci, proprio come la nostra Nazionale. Doveroso omaggiarlo con uno speciale in cui viene ripercorsa la sua, strabiliante, carriera, tra aneddoti e testimonianze. Anche senza questo ennesimo Mondiale, Buffon resta una leggenda… Il numero che avete tra le mani è decisamente tosto. Abbiamo incontrato Cristante, uno che è destinato a lasciare il segno anche con la casacca della Nazionale. Ci

editoriale

Ponciroli Fabrizio

siamo divertiti a rispolverare un mito assoluto come Anconetani, il Presidentissimo del Pisa. Spazio all’evoluzione dell’esterno e ai britannici che hanno fatto grande (non sempre) la Milano calcistica. Poi tanta storia e mille curiosità, come la storia del numero uno del Liechtenstein, davvero intrigante. Avrete già notato l’album ufficiale World Cup Russia 2018 Panini in regalo con la rivista. Sempre in chiave Mondiale, vi consiglio la lettura dello speciale sulle “imprese” africane alla Coppa del Mondo… Prima di lasciarvi alla lettura del nuovo numero, volevo invitare tutti voi a credere, fortemente, nel calcio italiano. Smettiamola di incensare gli altri campionati e sminuire la nostra forza. L’Italia ha, nel proprio DNA, il gioco del calcio e, prima o poi, torneremo grandi. Basta crederci… Siamo risorti da situazioni ben peggiori. Guardando questo Mondiale senza vene d’azzurro, ritroveremo la forza di tornare protagonisti!!!

Non giudicatemi per i miei successi ma per tutte quelle volte che sono caduto e sono riuscito a rialzarmi

3


SOMMARIO

234

Calcio2OOO

Anno 21 n. 3 GIUGNO / LUGLIO 2018 ISSN 1126-1056

BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli BUFFON 8 GIANLUIGI SPECIALE di Sergio Stanco

54 SPAL-JUVE REPORTAGE di Sergio Stanco

CHIESA 60 ENRICO GIGANTI DEL CALCIO di Pierfrancesco Trocchi

68

NAZIONALI AFRICANE STORIE MONDIALI di Giorgio Coluccia

di Fabrizio Ponciroli

CERVONE 76 GIOVANNI DOVE SONO FINITI? di Stefano Borgi

JEHLE 80 PETER STORIE DI CALCIO di Fabrizio Ponciroli

di Gianfranco Giordano

46

ANDERLECHT MAGLIE STORICHE di Gianfranco Giordano

Hanno collaborato Thomas Saccani, Sergio Stanco, Luca Gandini, Gianfranco Giordano, Pierfrancesco Trocchi, Stefano Borgi, Giorgio Coluccia, Luca Savarese, Luca Manes, Carletto Nicoletti Realizzazione Grafica Francesca Crespi

Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it

A MILANO 32 INGLESI SPECIALE

di Fabrizio Ponciroli

Diretto da Fabrizio Ponciroli

Statistiche Redazione Calcio2000

di Giorgio Coluccia

44 MANTOVA STORIE DI CALCIO

DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello

Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview.

TERZINI 24 IL’EVOLUZIONE DEL CALCIO

di Fabrizio Ponciroli

EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872

Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto.

CRISTANTE 16 BRYAN INTERVISTA ESCLUSIVA

ANCONETANI 38 ROMEO RETROSPETTIVA

Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 01/05/2018 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246

OGURO 86 MASASHI L’ALFABETO DEI BIDONI di Thomas Saccani

90 VICENZA-NAPOLI C.ITALIA 1997

GARE DA RICORDARE di Luca Savarese

DA 98 SCOVATE CARLETTO

Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805 Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688 Calcio2000 è parte del Network

Il prossimo numero sarà in edicola il 10 luglio 2018 Numero chiuso il 27 aprile 2018



bocca del leone

la

FAVORI AGLI SPAGNOLI Direttore, possibile che nessuno si accorge che in Champions League sono tutti favori per Real e Barcellona? Ogni volta si fa di tutto per farle arrivare fino in fondo. E poi dicono che è la Juventus a rubare, la vera mafia è in Champions League Marcello, mail firmata Caro Marcello, personalmente ho una forte avversione nei confronti del calcio spagnolo. Non ho mai sopportato il fatto che, da diversi anni a qualche anno, ci stanno massacrando… Onestamente qualche favore arbitrale di troppo c’è stato ma bisogna anche ammettere che, a livello di rose e qualità, Real Madrid e Barcellona sono superiori ad ogni club italiano e non solo… Purtroppo è l’era dei club spagnoli e, non dimentichiamocelo, anche la nazionale spagnola è piuttosto forte. Mi auguro che abbiano, prima o poi, una crisi importante… FAVORITA AL MONDIALE Egregio Ponciroli, la seguo sempre e sono curioso di sapere che ne pensa dei prossimi Mondiali. Noi non ci saremo, chi ci tocca tifare? Io punterò sul Brasile, essendo un grande tifoso della Roma e di Alisson, portiere della nazionale brasiliana. Complimenti per i pezzi storici che scrive, mi prendono sempre moltissimo.

6

Soprattutto l’alfabeto dei bidoni. Luciano, mail firmata Grazie Luciano… Pensare al Mondiale, ormai alle porte, mi fa star male, malissimo! Assurdo che non avremo il privilegio di tifare Italia… Comunque, io tiferò Islanda, esordiente al pari di Panama. Spero che vadano il più avanti possibile. Favorita? Argentina, sempre che Sampaoli non faccia danni…

AD UN APPASSIONATO DI CALCIO… Direttore, l’ho appena sentita su Radio RMC Sport. Ho sbirciato il suo profilo su facebook e ho notato che è un grande appassionato di cartoni animati. Io ero un fan dei Superboys, quelli che sono venuti prima di Holly & Benji. Succedeva di tutto, mi ricordo che un brasiliano si faceva passar sopra alle gambe da una jeep per rinforzarle. Marco, tweet


di Fabrizio Ponciroli

»

» RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO CIAO DAVIDE

Sono passati 10 giorni dalla scomparsa, assurda, di Davide Astori. La morte è sempre dura da accettare, soprattutto quando si prende un ragazzo di 31 anni. Non sono un tifoso della Fiorentina, anzi sono uno juventino e anche piuttosto acceso ma questa triste vicenda mi ha insegnato che, davanti ad una morte così inattesa e tragica, il tifo deve essere messo da parte. Davide era un ragazzo, esattamente come me che ho solo due anni più di lui. Mi ha colpito la sua scomparsa. Mi ha fatto piacere vedere tutto l’affetto che si è scatenato attorno a Lui. A volte serve una tragedia per metterci di fronte alla vita. Bisogna imparare a comportarsi bene perché, in un attimo, si può perdere tutto. Ciao Davide da un tifoso juventino Elia, mail firmata

Ciao Marco, Certo che mi ricordo la serie animata Arrivano i Superboys. Shingo Tamai era un mio idolo assoluto, molto prima di Julian Ross (stella, sfortunata, del cartone animato Holly & Benji). Ti ricordi bene, quel brasiliano era Ken Santos, il vero rivale di Shingo Tamai. Ai giorni nostri, una serie animata simile non potrebbe mai andare in onda… Troppo cruenta e violenta ma, per noi ultra quarantenni, bellissima… UN PENSIERO PER RAY Direttore e Redazione di Calcio2000, da tifoso rossonero di vecchia data, doveroso un ricordo di Ray Wilkins. Non era ancora un Milan invincibile ma è stato bellissimo vivere quegli anni con il duo Wilkins-Hateley. Io c’ero a San Siro, insieme a mio padre, a vedere quel Milan. Spero vi ricorderete di lui. Stefano, mail firmata

Ciao Stefano, certo che mi ricordo di Ray… Mi sono innamorato del calcio proprio in quegli anni. Gli stranieri erano, per me, una bellissima ossessione. Adoravo ogni giocatore con cognome non italiano. Erano po-

chi e magici. Ray Wilkins è stato un mediano di grande sostanza, non tirava mai indietro la gamba. Ancelotti (hanno lavorato insieme) ha raccontato che era una persona dai grandi valori umani. Io lo ricordo sulle figurine Panini… Leggiti il servizio dedicato ai britannici a Milano… CR7 O MESSI? Direttore Ponciroli, complimenti per la rivista. Sto portando avanti un sondaggio per il mio blog. Meglio Messi o Cristiano Ronaldo? Mi piacerebbe avere un suo parere a riguardo. Lele, mail firmata Caro Lele, non è mai semplice scegliere tra due mostri sacri. Si sono divisi gli ultimi 10 Palloni d’Oro, sono due assi del calcio. Tuttavia, se devo fare una scelta, io vado con Messi. La sua tecnica mi abbaglia, sempre…

7


Speciale

Gianluigi Buffon di Sergio Stanco

8


Ripercorriamo la stupenda carriera di Gigi Buffon con allenatori, colleghi e amici che lo conoscono bene e che con lui hanno condiviso gioie e dolori.

“P

otevamo scrivere una pagina di calcio memorabile per la Juve e per l’Italia, la nostra vittoria si sarebbe abbinata a quella della Roma, sarebbe stato qualcosa di incredibile, di pazzesco. Prima di essere juventino io sono italiano, avevo veramente a cuore tutto il movimento. Vedere la Roma che aveva fatto un’impresa pazzesca contro il Barcellona, vedere la Juve che va a Madrid e recupera tre gol di scarto… lasciatevelo dire da uno che pensa di averle viste quasi tutte: è un qualcosa di impareggiabile, di pazzesco.

Il NumerO Ne ho perse anche di più importanti, però questa, per come era nata e per come si stava evolvendo, era la partita più bella e più emozionante che avessi vissuto con la Juventus, penso anche per i tifosi e anche per i miei compagni. Datemi almeno la legittimità di difendere in quel modo esasperato e passionale i miei compagni, quei cinquemila venuti a sostenerci. Io devo difendere i miei compagni e loro, anche in modo scomposto, perché me lo sento. Era dovuto, a costo di macchiare la mia immagine”. Queste sono le parole a freddo di Gigi Buffon dopo l’eliminazione di Madrid in Champions League. E queste, secondo noi, sono le parole che fotografano al meglio il portiere bianconero. Parole da uomo, di uno che sa anche riconoscere i propri errori, da leader, che mette davanti a tutto ma-

9


Speciale

Gianluigi Buffon glia, compagni e tifosi, parole di un fenomeno dentro e fuori dal campo. Perché i 23 anni di carriera di Gigi non sono stati tutti “sereni”, ci sono state cadute e risalite, errori e scuse, ma non si può dire che non ci abbia sempre messo la faccia, prendendosi onori e oneri. D’altronde, a uno che esordisce in Serie A a 17 anni contro il grande Milan di Capello, e non solo non trema ma fa addirittura il fenomeno, di certo non mancano... le doti caratteriali (diciamo così). Incoscienza giovanile, si disse ai tempi in maniera superficiale. Due anni dopo, quando entrò in un Russia-Italia spareggio per la qualificazione ai mondiali di Francia ‘98 per l’infortunio del titolare Pagliuca, concesse il bis e mise a tacere gli scettici. Le recenti lacrime di San Siro, quando umilmente chiese scusa ai bambini per averli privati della gioia del prossimo mondiale di giugno, sono un’altra faccia della stessa medaglia. Anche i forti piangono. Non ci sono supereroi, ma solo campioni innamorati, che non vorrebbero smettere mai (e

10

che anche noi vorremmo sempre vedere sul campo). Poi lo sfogo di Madrid, umano, sincero, schietto, forsanche esagerato, ma comunque di cuore. Proprio come Gigi. In mezzo, cinque stagioni con il Parma, una Coppa Italia e una Coppa Uefa a referto, quindici anni nella Juve, in bacheca otto scudetti, tre coppa Italia e un campionato di B con la Juve (di cui va altrettanto orgoglioso), e una vita in Azzurro con una Coppa del Mondo, un secondo posto agli Europei e un Europeo U21. E tanta, a volte troppa, fosse per lui infinita, passione. Di Gigi ce n’è uno solo. Un capitano. Il numero 1. Per sempre. Soprattutto per i tifosi bianconeri. Per questo il nostro racconto si ferma alla Serie B, perché per noi quello è il momento in cui Gigi dimostra non solo di essere un campione, ma anche un uomo speciale. Tutto quello che arriverà dopo, è storia recente e una naturale conseguenza di quella scelta per molti incomprensibile. Per tutti gli amanti del calcio, però, un gesto d’amore speciale.


NUMERI DA NUMERO UNO

Tutti i record di una carriera leggendaria di Luca Gandini Che sul prato verde dello stadio “Ennio Tardini” stesse sbocciando un formidabile talento lo intuirono in tanti, quella domenica 19 novembre 1995, quando il 17enne Gianluigi Buffon faceva il suo esordio in Serie A con la maglia del Parma contro il Milan futuro campione d’Italia. Nessuno poteva però immaginare che, oltre 22 anni dopo, avremmo parlato di quel ragazzo sorridente e un po’ spavaldo come di uno tra i più grandi portieri di ogni tempo e Paese. I suoi record sono lì a dimostrarlo, e più saldi di una sequoia affondano radici nel grande libro della storia del calcio mondiale. Ha preso parte attiva a quattro edizioni della Coppa del Mondo, e se non ha raggiunto il record di cinque partecipazioni effettive come il tedesco Lothar Matthäus e il messicano Antonio Carbajal è solo perché a Francia ‘98 non scese mai in campo, relegato in panchina dal più esperto Gianluca Pagliuca. Nessuno può togliergli però la gioia più grande, il titolo conquistato a Berlino nel 2006, così come nessuno può togliergli il primato di 8 Scudetti vinti, e tutti rigorosamente con la maglia della Juventus. Sarà dura soffiargli anche il record di 974 minuti consecutivi senza subire gol in Serie A, e passeranno decenni prima che un altro alfiere azzurro possa raggiungere quota 176 presenze nella Nazionale italiana. Non è invece riuscito a battere le 647 presenze nel massimo campionato di Paolo Maldini. Maledetta quella stagione di purgatorio in Serie B. Nell’anno in cui molti avevano voltato le spalle alla Vecchia Signora, lui non lo fece, guadagnandosi anche per questo eterna gratitudine da parte di chi ha la Juve nel cuore. E questo, forse, vale più di ogni possibile record.

IL “PICCOLO” GIGI - Villiam Vecchi (Preparatore dei portieri del Parma) “Non si doveva essere maghi per capire che si era di fronte ad un fenomeno nonostante la giovanissima età. Lui per altro è “diventato” portiere molto in là con l’età e questo, se possibile, è un merito ulteriore. In realtà, però, di Buffon ne nasce uno ogni cent’anni, forse neanche: Madre Natura ha dato a Gigi qualità fuori dal comune e basta. Io sono arrivato al Parma per merito di Luca Bucci, che a quel tempo era il portiere titolare, ma quando è iniziata la stagione Luca ha commesso qualche errore. È successo semplicemente perché anche lui si era accorto di avere un fenomeno alle spalle, era chiaro a tutti, solo un cieco non se ne sarebbe accorto. E dopo qualche partita di quel campionato si è deciso l’avvicendamento e Buffon, pur solo 17enne, ha scalato le gerarchie ed è diventato titolare. Era forte, fortissimo ma non aveva paura di niente. Un

carattere pazzesco, finanche incosciente, che però è stato un valore aggiunto. Perché era uno che non si prendeva troppo sul serio, non conosceva lo stress, allenarsi con lui è stata una delle cose più divertenti della mia carriera. Facevamo gare di qualsiasi tipo: corsa, partitelle, allenamenti, sempre in competizione. Era un bravo ragazzo, si divertiva come giusto che fosse a quell’età ma era già un professionista vero. Una volta dopo un rigore parato a Ronaldo (Inter-Parma 1-3 dell’8 maggio 1999, ndr) si era messo una maglietta di Superman in allenamento. Io da lontano gli urlai di togliersela perché già immaginavo i “casini”. Lui si mise a ridere e mi ascoltò, ma quando tornai nello spogliatoio, vidi che era lì a farsi fare le foto con quella maglietta. Mi fece un grande sorriso. Gigi è così, schietto, diretto, semplice. E tutto questo ha contribuito a farlo diventare uno dei più grandi portieri di tutti i tempi, forse il migliore: d’altronde, ha cominciato nel 1995

11


Speciale

Gianluigi Buffon e ancora oggi è titolare della Juve: di cosa stiamo parlando? Il fatto che, probabilmente, non vincerà mai la Champions non toglie nulla alla sua splendida carriera. So che gli roderà un casino, perché lui è uno che vuole vincere tutto, e quella coppa sarebbe stato il coronamento della carriera, ma non sarà il primo né l’ultimo campione a smettere senza vincerla. In ogni caso, quanto ha fatto vedere sui campi in questi anni, non se lo dimenticherà nessuno” . L’ESORDIO AZZURRO – Gianluca Pagliuca (Portiere dell’Italia dal 1990 al 1998) “Dell’esordio di Gigi in Nazionale non ho un gran bel ricordo, perché se ci ripenso sento ancora il dolore al mio ginocchio, che era gonfio come un pallone. Non sono riuscito neanche a fargli un in bocca al lupo perché sono uscito direttamente dalla porta e lui entrò a centrocampo, ma dopo ovviamente gli ho fatto grandi complimenti sia per l’evento in sé, sia per l’ottima prestazione. Di recente ci siamo incontrati e scherzando, ma non troppo, gli ho detto: “Ricordati che io sono l’unico portiere ad essere riuscito a farti far panchina”. Gigi è stato il mio secondo a Francia ’98 e all’Olimpiade del ’96, io avevo già trent’anni più o meno, gli ho fatto praticamente da chioccia. Era giovanissimo, esuberante e già fortissimo. A quei tempi,

12

era difficile immaginare la carriera che ha fatto, ma era evidente che fosse un fenomeno già allora e che sarebbe diventato uno dei migliori. Da qui a pensare che potesse addirittura diventare il miglior portiere di tutti i tempi… Già, perché per me Gigi è il più forte di sempre, lo dice il suo palmares e quanto ha fatto vedere in questi anni. Il fatto che non abbia mai vinto una Champions, nonostante tre finali perse contro Barcellona, Real Madrid e Milan ai rigori, ricordiamolo, o un Pallone d’Oro, che per altro per me avrebbe meritato quanto Cannavaro (ma si sa che i portieri sono penalizzati…), nulla toglie alla sua storia. Il fatto che, invece, abbia deciso di rimanere in Serie B e riportare in alto la Juve, lo renderà immortale per i tifosi bianconeri. E’ stato davvero una bellissima storia. Per questo se dovessi immaginarmi Buffon in futuro, lo vedo uomo immagine della Juve, anche se pure la Federazione potrebbe aver bisogno di un uomo come lui”. IL GRANDE SALTO Pietro Gedeone Carmignani (Preparatore dei portieri del Parma 20002001) “Ho allenato Buffon l’ultimo anno prima del trasferimento alla Juve. Ho trovato un ragazzo molto disponibile e volenteroso, che però aveva qualche problema con... la sveglia. Tuttavia, era un ragazzo serissimo: al secondo ritardo Malesani si infuriò e io lo presi da parte. Gli dissi: “Alla terza volta do le dimissioni”. Lui si mise a ridere, ma non ritardò mai più. Quella per lui non fu una stagione facile, perché aveva un problema al dito, ma le sue qualità ormai erano evidenti a tutti. Un grande portiere deve avere piazzamento, reattività e capacità di prevedere la giocata dell’avversario. Bene, lui queste caratteristiche le aveva sviluppate tutte all’ennesima potenza. Ha fatto una carriera eccezionale e secondo me avrebbe meritato non un Pallone d’Oro, ma anche due o tre. Per 23 anni è stato uno dei migliori, se non il migliore in assoluto: magari non spettaco-


lare, anzi direi non teatrale, ma decisamente concreto e dal punto di vista tecnico fortissimo. Era un ragazzo estremamente semplice e gioioso, uno con cui era davvero bello lavorare. Per mia sfortuna l’ho avuto solo un anno, anzi al netto dell’infortunio nove mesi, ma li ricordo con estremo piacere perché sono certo di aver allenato uno dei più forti di sempre. Una volta durante una seduta gli dissi: “Tu un giorno vincerai il Pallone d’Oro”. Lui mi sorrise quasi incredulo. Non credo di essermi sbagliato perché - ripeto - lo avrebbe meritato eccome. È sempre antipatico fare classifiche, soprattutto mischiando epoche differenti, io non mi sento neanche di dire che Federer sia il tennista più forte di tutti i tempi, figuriamoci quanto sia difficile dirlo per un ruolo così particolare come quello del portiere. Tuttavia non ho dubbi che Gigi faccia parte di quella ristretta cerchia di fenomeni del calcio che saranno ricordati per sempre”. BERLINO AZZURRA - Marco Amelia (campione del Mondo 2006) “Al Mondiale 2006 ho un ricordo molto nitido: un Gigi carico e voglioso di far bene e vincere. Oggi sembra normale, ma per come eravamo partiti da Coverciano, nel bel mezzo della bufera di Calciopoli, non era affatto scontato avere la coppa come obiettivo. Quel clima di diffi-

denza e ostilità ci ha compattati, è stato bravo anche mister Lippi a isolarci da tutto e a farci credere che l’impossibile era davvero possibile. Gigi è stato fenomenale nel trasmettere a tutti questa sua voglia di dimostrare di essere più forti di tutto e di tutti. Oltre alle parate spettacolari che ha fatto. Che per tutti sono straordinarie, ma per chi lo ha conosciuto da vicino rappresentano il suo standard di rendimento da vent’anni. Credo che in ogni partita abbia fatto qualcosa di decisivo. Anche solo per l’atteggiamento in campo. Forse la parata su Podolsky in semifinale ci ha dato la fiducia e il coraggio per vincere la partita e poi “chiudere le valigie e andare Berlino a prenderci la coppa”. Posso dire che a Berlino, dopo il famoso rigore di Grosso, a fine partita l’abbraccio più bello è stato quello con lui, che ha cercato me e Peruzzi. Una piccola squadra dentro una Nazionale di grandi campioni. Per me avrebbe meritato il Pallone d’Oro e lo dico come portiere che, diciamocela tutta, per questo tipo di premi è un ruolo un po’ sfigato, passatemi il termine, perché non viene praticamente mai preso in considerazione nei parametri di valutazione. E se non lo ha vinto Gigi, ho più di qualche perplessità che possa riuscirci qualcun altro in futuro. Probabilmente è il portiere migliore di tutti i tempi se consideriamo tutta la sua carriera, che ha attraversato epoche di-

13


Speciale

Gianluigi Buffon

QUELLA CHAMPIONS COSÌ STREGATA

L’ha spesso sfiorata, ma proprio quando sembrava sul punto di afferrarla gli è sempre sfuggita di Luca Gandini Niente da fare. L’ha rincorsa, l’ha sognata. Tre volte l’ha persino sfiorata, ma quando pareva sul punto di afferrarla, se l’è sempre vista sfuggire di mano. L’avrebbe sicuramente meritata. Quella tra Gianluigi Buffon e la UEFA Champions League è una saga che inizia nella stagione 1997/98. Gigi ha 19 anni e indossa la maglia del Parma, allenatore è Carlo Ancelotti. Il preliminare contro i polacchi del Widzew Łódź viene superato agevolmente, ma la squadra si arena nel group stage. Va ancora peggio nel 1999/00, quando gli emiliani inciampano sull’ostacolo Rangers e salutano la Champions già nel preliminare agostano. Sarà con la Juventus che il portiere della Nazionale accarezzerà più volte il sogno di conquistare la Coppa più ambita. Finalista nel 2002/03, ma sconfitto ai rigori dal Milan, e battuto all’ultimo atto dalle grandi di Spagna Barcellona e Real Madrid rispettivamente nel 2014/15 e 2016/17, Buffon e la Juventus recriminano soprattutto per le due clamorose occasioni sciupate negli anni pre-Calciopoli, quando, con Fabio Capello alla guida e con in campo l’ossatura della Nazionale italiana campione del mondo a Berlino 2006 più i vari Nedvěd, Trezeguet, Ibrahimović e Vieira, arrivano due premature eliminazioni ai quarti per mano di Liverpool e Arsenal. Quindici partecipazioni in tutto, tre finali perse e un mare di rimpianti. Decine di estremi difensori meno grandi di lui l’hanno vinta. Per Gigi, invece, la Champions League resterà un tabù.

verse e modi di fare calcio differenti. Lui si è sempre evoluto dando al ruolo del portiere un peso specifico importante, sia in campo che fuori. Può rappresentare un modello da seguire per i nuovi giovani talenti. Oltre alle parate, che sono sotto gli occhi di tutti, di Gigi in campo senti la presenza, il modo di dialogare con i compagni e caricarli. Fuori dal campo è un ragazzo normalissimo, con cui si può parlare tranquillamente di tutto. Anche la scelta della Serie B fu coraggiosa, ma coerente. Non se n’è mai parlato, ma credo che anche questo sia stato un passaggio importante che ha reso leggendaria la sua carriera alla Juventus”. UN CAMPIONE DEL MONDO IN SERIE B Emanuele Belardi (Portiere Juve dal 2006 al 2008) “Di Gigi ho sempre apprezzato la sua semplicità. L’anno di Serie B arriva subito dopo aver vinto la Coppa del Mondo. Una sera, dopo gli allenamenti, eravamo entrambi soli e mi fa: “Andiamo a mangiare qualcosa insieme?”. Mi

14

ha portato a prendere un kebab. Ce lo vedi un campione del Mondo dal “kebabbaro”? Gigi è così, semplicissimo, di una bontà eccezionale, un ragazzo splendido. Poi, inutile parlare delle sue qualità tecnico-professionali: per me lui è e rimarrà per sempre il Portiere. Il migliore di tutti i tempi, e non è un giudizio, ma una certezza scientifica. Umanamente e professionalmente, poi, è fantastico: ha affrontato l’anno di Serie B come se stesse giocando ancora i Mondiali, una serietà quasi imbaraz-


zante. Sapeva che sarebbe stato d’esempio per tutti, che aveva tutto da perdere e che tutti si sarebbero aspettati sempre il massimo da lui, Del Piero, Nedved. E non ha mai tradito. Ricordo ancora le serate in ritiro nelle quali gli spiegavo le caratteristiche degli attaccanti che avremmo incontrato: di Serie B ero io l’esperto e allora gli dicevo come calciavano, se erano rigoristi e come li tiravano. Preparavamo minuziosamente insieme tutte le partite. Dopo la vittoria dei Mondiali e il Pallone d’Oro sfiorato, sarebbe potuto andare dappertutto: al Real, al Barcellona, in Inghilterra, lui invece è rimasto, non perché non avesse offerte, ma per un senso di riconoscenza verso la Juve e anche perché a Gigi sono sempre piaciute le decisioni “forti”. Lui è così, non si accontenta mai di quello che ha raggiunto, vuole sempre superarsi. Anche il fatto che, negli anni, nonostante le sue doti innate, sia migliorato in alcuni aspetti, testimonia la sua serietà: basti guardare come oggi gioca con i piedi, come partecipa al giro palla, una cosa che ha imparato a fare con Conte, dunque non proprio all’inizio della carriera. Questo dimostra quanto sia sempre stato un portiere moderno, capace di adattarsi negli anni al cambiamento del gioco. Il suo miglior pregio è sempre stato quello di rendere facili anche le parate impossibili, per me giocare con lui ed essere stato suo compagno e amico è stato un onore. E per me potrebbe andare avanti a giocare ancora se davvero lo volesse, perché anche quest’anno è stato uno dei migliori. Mi spiace solo che non sia riuscito a coronare il sogno di vincere la Champions perché l’avrebbe meritata. E mi spiace soprattutto per come sia finita, perché l’espulsione di Madrid non stava né in cielo né in terra. Poi ho sperato che non andasse a parlare nel post-partita perché, conoscendolo, avevo paura potesse prestare il fianco ai falchi che non vedevano l’ora di impallinarlo. Ma Gigi è così, sincero, trasparente e senza filtri. Ma questo, per me che l’ho conosciuto davvero, è un pregio e non un difetto”.

15


A

V I S U L C S E A INTEVIST Bryan Cristante di Fabrizio Ponciroli

I SOGNI DI BRYAN A 23 anni, Cristante è uno dei gioielli del calcio italiano. Lo abbiamo incontrato… Credit foto: Daniele Mascolo

E

ntrando al Centro Sportivo Bortolotti, “casa” dell’Atalanta, hai immediatamente la percezione di essere in un luogo che trasuda calcio. Tutto è perfettamente organizzato. L’attesa è nulla, Bryan Cristante è già pronto per intervista e shooting… Dopo essersi “vestito adidas”, è a nostra disposizione… Bryan, raccontami come è nato il tuo amore per il pallone… “Guarda, quando cresci in Italia, nel 90% dei casi, il calcio è lo sport che pratichi da piccolo. Tra amici, scuola e campetto, il pallone era una

16

costante”. Ora sei un centrocampista moderno, hai sempre giocato in mezzo al campo? “Diciamo che sono sempre stato fedele al mio ruolo di centrocampista. Da piccolo mi ricordo che ho provato a giocare come portiere ma l’avventura è durata un paio di partite. Alla terza pallonata, ho cambiato ruolo”. Fisicamente sei piuttosto imponente. Questa grande fisicità era presente anche quando eri un ragazzino? “Sono sempre stato più alto rispetto alla media, anche quando ero giovanissimo”.


17


LUSIVA

ESC INTERVISTA Bryan Cristante

Mai avuto un poster di un campionissimo nella tua stanza? “No, onestamente non ho mai avuto un poster e neppure un idolo in particolare. Mi piaceva giocare a calcio ed ero tifoso milanista, tutto qui”. Parliamo del Milan… Come hai reagito quando, da giovanissimo, è arrivata la proposta di entrare nelle giovanili rossonere? “Per me era un sogno che si avverava. Ero tifoso milanista, quindi l’idea di giocare per il Milan era il massimo per me. Incredibile”. E come hai vissuto il dover lasciare la tua città e trasferirti a Milano? “Guarda, a livello caratteriale, non sono mai stato un tipo molto legato, diciamo così, al mio quartiere. Mi è sempre piaciuto mettermi in gioco in realtà nuove. Quindi l’ho vissuta bene. Poi, al Milan, si è creato subito un bel gruppo di amici, quindi è stato tutto ancor più facile”. Poi, a 16 anni, arriva l’esordio, con la casacca del Diavolo in Champions League… “Io l’ho vissuto più come un regalo. Sai, il gior-

18

no prima vai a scuola, il giorno dopo giochi in Champions e poi, quello seguente, torni a scuola. Sapevo che non era ancora il mio momento… Per me è stata una giornata speciale”. Quando hai capito che stava arrivando il tuo momento? “L’anno seguente… Ho iniziato ad allenarmi con la prima squadra del Milan. Lì ho capito che stava arrivando il mio momento”. Ci sono tantissimi giovani che si affacciano al grande calcio ma poi si perdono… Cosa serve per diventare un professionista vero? “Devi avere solo quell’obiettivo e basta. Devi pensare solo a quello, lavorare per diventare un professionista”. Al Milan sei rimasto tanti anni, a cosa ti sono serviti nel tuo percorso di crescita professionale? “Mi sono serviti tantissimo. Sono arrivato al Milan a 14 anni. Ho dovuto crescere velocemente. Devi maturare in fretta, sei in una grande città e in una grande squadra. Il Milan è stata una grandissima scuola”.


“Ho giocato in tutti i campionati, dalla vecchia Serie C fino alla Serie A. Mi è servita tutta questa gavetta, mi ha insegnato molto” Non contento, ti metti in gioco anche all’estero, andando in Portogallo, al Benfica… “Sai, avevo capito che al Milan non potevo ambire ad avere tanto spazio. Appena è arrivata la proposta del Benfica, ho accettato immediatamente. Volevo fare un’esperienza all’estero e sono contentissimo di aver accettato”. Col Benfica sono arrivati anche i primi trofei, soprattutto la Primeira Liga… “E’ stato meraviglioso. Al primo anno, subito una grande vittoria. Ricordo la festa, con 400 mila persone… Una società fantastica, molto ben organizzata. E’ stata davvero un’esperienza importante per me”. Poi torni in Italia. Qualche tappa intermedia e poi approdi all’Atalanta. Ti ricordi le prime parole che ti ha detto Gasperini? “Certo che me li ricordo… Mi ha detto che all’Atalanta si lavorava tanto e che non bisognava lamentarsi… Io l’ho seguito alla lettera. A Bergamo ho trovato il posto giusto e le persone giuste per dimostrare le mie qualità e poter giocare con continuità”. Veniamo interrotti. Ilicic fa capolino nella stanza dove siamo posizionati per l’intervista. Qualche battuta all’indirizzo di Bryan. Si scherza, a conferma dell’ambiente, sereno, che si respira in seno all’Atalanta. Salutato Ilicic, si ricomincia… Un pregio e un difetto del tecnico Gasperini? “Il Mister è davvero bravo. Ha grandi capacità con i giovani. Ha la pazienza di insegnare e, quando sbagliamo, perché i giovani possono sbagliare, non ha problemi a concedere una seconda chance, spiegandoti gli errori e come

LE SCARPE DI BRYAN Bryan Cristante è uno dei tanti testimonial di adidas: “Indosso scarpe adidas da quando ho 14 anni. Sono amante del brand. Appena sono arrivato al Milan, ho scelto adidas e non me ne sono mai pentito”, ci racconta Bryan che, in questo periodo, usa in campo le splendide PREDATOR 18+, la nuova declinazione cromatica della rivisitazione di Predator, contraddistinta da una livrea blu e verde menta disponibile in versione Stadium, Cage e Street: “Mi trovo divinamente, come sempre del resto. Io con adidas so di andare sul velluto”. La scarpa unisce il sistema PURECUT LACELESS, che offre il massimo controllo della superficie, alla struttura FORGED KNIT in corrispondenza del mesopiede, per garantire il giusto supporto nell’area mediale e laterale. Non manca la CONTROLFRAME, sviluppata per stabilizzare il movimento, mentre l’intersuola BOOST™ lungo tutta la scarpa amplifica il ritorno di energia a ogni singolo passo. Ma non è tutto: Predator 18+ integra anche il SOCKFIT COLLAR in Primeknit, progettato per assecondare la forma del piede garantendo al tempo stesso un sostegno ottimale e una calzata confortevole. Il materiale Primeknit vanta uno strato di CONTROLSKIN, sinonimo di grip ottimale, mentre la TOMAIA ANATOMICA riproduce la forma del tallone per contribuire alla stabilità del piede.

19


LUSIVA

ESC INTERVISTA Bryan Cristante

comportarti per non rifarli. Difetto? Che ci fa correre davvero tantissimo (ride, ndr). Alla fine di ogni allenamento, siamo davvero morti”. Bryan, come sei diventato, di colpo, un goleador? “Sicuramente la posizione in campo aiuta e, ovviamente, quando giochi con continuità, hai maggiori possibilità di incidere”. Tanti gol ma esultanze sempre contenute… “Fa parte del mio carattere… Non sono mai stato un tipo da grandi esultante, neanche quando ero più giovane”. Quale è stata l’emozione più forte in questa favolosa stagione all’Atalanta? “La sfida, di ritorno, con il Borussia Dortmund. Anche se, alla fine, non siamo riusciti a passare il turno, è stato incredibile vivere tutte quelle emozioni insieme al nostro pubblico. Bellissimo vedere lo stadio pieno. E’ stato fantastico, peccato che sia sfumato tutto per un soffio”. Mi scegli due gol che caricheresti su un cd da spedire nello spazio per far capire chi è Cristante? “Il gol alla Juventus e i due gol all’Everton per il contesto”. Da addetto ai lavori, che idea hai del calcio ita-

20

liano di oggi? “Guarda, forse qualche anno fa eravamo leggermente in ritardo rispetto ad altri campionati ma ormai siamo tornati alla grande e siamo al livello del top del calcio europeo. Lo dimostra anche il cammino delle squadre italiane nelle varie competizioni europee. In Europa ce la siamo giocata sempre a testa alta”. E a livello di Nazionale? Siamo pronti per ripartire con una nuova generazione di giocatori? “Credo di sì e penso che il cambio generazionale sia già in atto. La cosiddetta vecchia guardia sta lasciando spazio ai giovani e sono convinto che, al prossimo Europeo, ci presenteremo con un’ottima squadra azzurra”. Tu sarai, certamente, uno dei perni della nuova Italia. Lo senti il peso della maglia azzurra? “La maglia della Nazionale è speciale. Sai che tutto il Paese tifa per te. E’ un onore indossarla, non un peso”. Bryan, tre obiettivi, sportivamente parlando, da oggi ai prossimi 10 anni… “Sicuramente giocare in un top club europeo che gioca per vincere trofei importanti. A ruota, direi, diventare un punto fermo della Nazionale e vincere, un giorno, la Champions League”. Parliamo un po’ di te… Che fa Bryan quando non si allena e gioca a calcio? “Mi riposo… Sto con i miei due cani e mi piace fare lunghe passeggiate”. Come andiamo a livello di cinema? “Sono un grande amante del cinema. Appena posso, mi vedo un film. Di qualsiasi genere”. Un film in cui ti sarebbe piaciuto essere protagonista? “Magari in un film d’azione con Denzel Washington, tipo The Equalizer”. E musica? “Mi piace molto, in particolare l’hip-hop americano”. C’è uno sport che segui, oltre al calcio? “Basket NBA”. Tifoso di quale franchigia… “No, nessuno in particolare, mi piace guardare


LA Carriera di CRISTANTE Stagione Squadra Campionato Totale Pres Reti 2011-2012 2012-2013 2013-2014 2014-2015 2015-gen. 2016 gen.-giu. 2016 2016-gen. 2017 gen.-giu. 2017 2017-2018

Milan Milan Milan Benfica Benfica Palermo Pescara Atalanta Atalanta

Serie A Serie A Serie A Primeira Liga Primeira Liga Serie A Serie A Serie A Serie A

1 0 4 15 5 4 18 12 42

0 0 1 1 0 0 0 3 11

* Aggiornate al 22/04/2018

21


LUSIVA

ESC INTERVISTA Bryan Cristante

il basket NBA e spero, un giorno, di vedere una gara NBA. Quando sono stato negli States, non c’è mai stata l’occasione di seguire, live, una partita. Lo metto tra gli obiettivi da centrare nel prossimo futuro”. Sei più dalla parte di James o di Curry? “LeBron James”. Ultime domande: cosa auguri all’Atalanta? “L’Atalanta ha la fortuna di essere una grande società, tifosi splendidi e un presidente che ha una forte passione. Gli auguro il meglio e di giocare più gare possibili in Europa”. Una battuta anche sul VAR che tanto fa discutere… “Io sono favorevole. Sicuramente va limato qualcosa ma sono assolutamente favorevole. Aiuta a fare chiarezza su alcuni episodi complicati. Va migliorato ma è utilissimo”. Siamo al triplice fischio finale. Si va sul campo e poi in palestra per lo shooting fotografico. Bryan ci indica il “responsabile degli allenamenti durissimi che facciamo ogni giorno, quello che ci fa correre come matti”. Il tempo di evocare qualche ricordo di gioventù e siamo ai saluti. Siamo certi che, di Cristante, ne risentiremo parlare a lungo…

Cristante durante l’intervista con il direttore di Calcio2000

IN RAMPA DI LANCIO Classe 1995, Bryan Cristante è nato a San Vito al Tagliamento, paese in provincia di Pordenone. Dopo aver mosso i primi passi nella società dilettantistica SAS Casarsa, nel 2009, viene scoperto dal Milan che decide di puntare su di lui. Si trasferisce così a Milano e diventa uno dei gioielli delle giovanili del Diavolo. Il 6 dicembre 2011, a 16 anni e 9 mesi, fa il suo esordio con il Milan addirittura in Champions League, contro il Viktoria Plzen. Nella stagione 2013/14 entra a far parte della prima squadra rossonera. La sua “prima” in Serie A è contro il Chievo. Colleziona quattro presente totali nell’anno, con anche una rete (all’Atalanta). Al Milan non ha spazio, decide così di trasferirsi in Portogallo, al Benfica. Resta un anno e mezzo in Primeira Liga, mettendo insieme 20 presenze complessive, con una rete. Vince Primeira Liga e Coppa del Portogallo. Durante il mercato invernale del 2016, torna in Italia. Va al Palermo ma non riesce a ritagliarsi un ruolo importante (quattro presenze). L’anno seguente lo comincia a Pescara. A gennaio passa all’Atalanta. In sei messi colleziona 12 presenze (con tre reti) ma è durante la stagione 2017/18 che diventa un perno fondamentale della squadra orobica. Va in doppia cifra di gol e matura in maniera impressionante. Ora è pronto al grande salto e a diventare un punto fermo anche della Nazionale (ha già esordito con gli Azzurri, contro la Macedonia).

22


GIRO D’ITALIA 101,

IN SELLA CON PANINI! Dopo l’enorme successo della prima edizione, è in edicola la nuova raccolta Panini dedicata alla Corsa Rosa… Una collezione per veri appassionati con tutti i protagonisti della corsa a tappe più famosa d’Italia! Realizzata su licenza di RCS Sport e in collaborazione con “La Gazzetta dello Sport”, la raccolta è articolata in 395 figurine adesive e 73 card: le figurine potranno essere incollate in un coloratissimo album da 72 pagine, ricco di informazioni e statistiche sulla storia della Corsa Rosa e sull’edizione 2018, mentre alle card è dedicato un astuccio-contenitore. La copertina dell’album ritrae l’immagine festosa del vincitore del Giro d’Italia, di spalle mentre alza il “Trofeo Senza Fine” al cielo, circondato dalle figurine di alcuni dei corridori che si daranno battaglia per diventare il nuovo eroe che si vestirà di Rosa nella cornice dei Fori Imperiali. Una vera e propria guida per essere “sul pezzo” e godersi la Corsa Rosa al meglio… Ben due pagine per ognuno dei 22 team al via al Giro d’Italia con 14 corridori, in formato figurina, e quella della squadra schierata realizzate con una verniciatura lucida. Le figurine dei corridori sono una “carta d’identità” riferita al Giro: nome, team, i principali dati personali (altezza, peso, data di nascita e nazionalità) ed una serie di ulteriori statistiche relative alla Corsa Rosa (anno di debutto al Giro, numero di partecipazioni e miglior piazzamento). Sempre più ricche anche le card della collezione, dedicate a tutte le tappe, alle maglie delle squadre e, come grande novità di questa edizione 2018, anche alle biciclette ufficiali dei team in gara, complete di scheda tecnica sui componenti. Confermata la sezione “Giro d’Italia: Il Film”, in cui potranno essere collocate ben 16 figurine extra sugli eventi salienti della corsa che saranno distribuite in 2 bustine speciali abbinate a “SportWeek” de “La Gazzetta dello Sport” (le uscite sono previste per il 26 maggio e il 16 giugno). La raccolta prevede anche un grande concorso a premi con in palio una “Maglia Rosa Castelli” del Giro d’Italia 2018 al giorno: tra tutti i collezionisti che spediranno a Panini 10 bustine vuote della collezione, infatti, saranno estratti 87 fortunati vincitori che potranno aggiudicarsi il simbolo supremo del trionfo.


io

c l a c l e d e evoluzion

L’

I terzini

di Giorgio Coluccia

Terzini,

evoluzione continua La genesi dell’esterno, tra aneddoti e curiosità…

Q

uanta strada hanno fatto questi terzini. Per carità, correre è quello che gli viene chiesto da sempre, sia per difendere sia per attaccare. Ma le novità introdotte dal calcio del terzo millennio hanno certificato come questo ruolo sia quello che è cambiato più

24

di tutti, creando un ideale giocatore a tutto campo. A seconda delle esigenze dell’allenatore di turno. E pensare che vennero chiamati terzini proprio perché si limitavano a stare nelle retrovie, in terza linea, destinati a ruoli di ultima difesa nel celeberrimo Metodo ideato da Vittorio Pozzo.


Successivamente, con l’avvento del gioco a zona e i difensori tutti disposti in linea, dovettero anche fare largo a libero e stopper (i due marcatori centrali) e quindi si ritrovarono “relegati” a ridosso della linea laterale, anche per sfruttare la predisposizione alla corsa e nascondere eventuali limiti tecnici. L’evoluzione della specie non si lega soltanto al calcio moderno, ma ha solcato le epoche più diverse, cambiando il modo di intendere questo ruolo e anche le modalità di raccontare il calcio. Con un linguaggio da adeguare alle mutazioni, passando da terzino a fluidificante, da esterno a laterale e dilatando di conseguenza ogni concezione primordiale. Paragonando le origini ai tempi che corrono balza subito all’occhio il processo evolutivo intercorso nell’ultimo secolo. Sin da quando il Metodo (2-3-5) sbarcò nel mondo del calcio negli anni Venti e condusse Pozzo e gli azzurri a due Coppe Rimet di fila: in sostanza il terzino destro e il terzino sinistro erano i due difensori più arretrati, quasi accentrati, impostati sulla marcatura a uomo e all’occorrenza aiutati dai mediani. Di proiettarli in attacco non se ne parlava affatto, non c’erano proprio le condizioni sia perché i tempi non erano maturi sia perché la concezione difensiva non era quella odierna. Come si evince anche dalla successiva grande invenzione tattica, risalente sempre al periodo antecedente la Seconda Guerra Mondiale, ossia il Sistema di Herbert Chapman. L’uomo che ha fatto grande l’Huddersfield e soprattutto l’Arsenal portò a tre il numero dei terzini, abbassando il centromediano sulla linea di difesa (per contrastare il centravanti avversario) e portando terzino destro e sinistro a seguire a uomo le ali altrui. Una generale rivoluzione copernicana, risalente all’autunno del 1925, si materializza dopo un sonoro 7-0 rimediato dal Newcastle e a causa delle modifiche introdotte al regolamento dall’International

Alla Juventus gli esterni sono fondamentali, tipo Alex Sandro

Board in quanto era stata appena modificata la norma del fuorigioco. Ossia bastavano solo due difensori tra l’attaccante e la linea di porta (non più tre), quindi cambiava il modo di giocare e mutava la concezione del Metodo, da tutti utilizzato in campo a quell’epoca e diretto discendente dell’originaria piramide di Cambridge. Due difensori, tre centrocampisti e cinque attaccanti rientravano in uno schema difficilmente supportabile con le nuove regole emanate a Parigi, che richiedevano più attenzione alla fase difensiva e quindi degli accorgimenti tattici e sull’atteggiamento da tenere in campo. Chapman decise di rinforzare la retroguardia facendo scalare un giocatore dal

25


lcio

del ca e n o i z u l o L’ev I terzini

Kolarov, esterno di grande spinta in forza alla Roma

centrocampo e arretrando due attaccanti in mediana, lasciando tre pedine in attacco. Quest’ultimi era preferibile che fossero due esterni rapidi e un centravanti di peso, introducendo così il celeberrimo Sistema, basato sul 3-4-3 e sul ruolo dello stopper, identificato in colui che dal mezzo si abbassava nel cuore della difesa. Debuttò agli occhi del mondo ad Upton Park, in un West Ham-Arsenal del 5 ottobre 1925 (0 a 4),

26

prima del quale il manager dispose i suoi sulla lavagnetta disegnando due grandi lettere, ossia la W e la M, che ai vertici recavano i nomi dei calciatori: i tre difensori con il centrale che seguiva la punta avversaria, i quattro mediani disposti a quadrilatero e le due ali pronte ad affiancare l’attaccante di turno. Fu una trovata geniale, destinata a influenzare il mondo del calcio per almeno trent’anni.


Facchetti, ecco il fluidificante Giacinto Facchetti nella sua prima squadra, la Trevigliese, giocava da attaccante. Lo scoprì Helenio Herrera e lo portò all’Inter dopo il campionato 1960-1961 con l’intenzione di trasformarlo in terzino d’attacco. Proprio così, dall’attacco alla difesa. “In due anni diventerà il miglior terzino al mondo e sarà in Nazionale, segnerà 60 gol”, la profezia del Mago, mentre incontrava lo scetticismo di molti, tra cui Gianni Brera: “È uno spreco spostarlo dalla prima linea con quel fisico, 188 cm per 84 kg“. Nacque così colui che rivoluzionò il ruolo, uno dei migliori interpreti di sempre che introdusse l’idea dell’esterno basso capace di salire sulla fascia e andare al cross. Ma anche segnare. Con Facchetti si entrò nell’era del terzino fluidificante, i risultati furono eccezionali e anche Brera - per farsi perdonare - lo ribattezzò Giacinto Magno, sottolineando la falcata elegantissima, la contraerea efficace sui palloni alti e la sua capacità di involarsi verso la porta avversaria come nulla fosse. In diciotto anni di Inter segnò 75 gol (in 634 partite), con l’Italia perse la finale contro il Brasile a Messico ‘70, pur avendo vinto l’unico Europeo azzurro della storia appena due anni prima.

Il desiderio di varcare le frontiere e esplorare nuove zone di campo viene esaudito verso gli anni Cinquanta, quando è possibile muoversi lungo le corsie esterne e i compiti di copertura sono meno estenuanti. Già prima del decennio successivo il ruolo ha preso una strada diversa, uno dei momenti salienti lo traccia Eduardo Galeano in “Splendori e miserie del gioco del calcio”: «All’inizio del secondo tempo di BrasileAustria, Mondiali del 1958, avanzò dalla sua metà campo Nilton Santos, l’uomo chiave della difesa brasiliana, soprannominato A Enciclopedia. Abbandonò la retroguardia, passò la linea centrale, eluse un paio di rivali e continuò diritto. Il tecnico brasiliano, Vicente Feola, correva anche lui a bordo campo, ma oltre la linea laterale. Grondando sudore, gridava: “Torna indietro, torna indietro!”. E Nilton, imperturbabile, continuava la sua corsa verso l’area rivale, non passò il pallone a nessun attaccante: fece tutta la giocata lui da solo, e la completò con uno straordinario gol». La selezione di Feola era già moderna per quei tempi, anche considerando che dalla parte opposta l’altro terzino era Djalma Santos, il prototipo del brasiliano dotato tecnicamente e molto sviluppato dal punto di vista atletico, in grado di onorare entrambe le fasi di gioco come Cafu o Maicon più in là nel tempo. In Italia, sulla stessa falsariga, il ruolo cambiò con le pedine “alla Facchetti”, infaticabili giocatori dai piedi buoni e dalla corsa elegante, che iniziarono a far parlare di terzini “di volata”. Così come si iniziò a nominare anche le coppie bilanciate, vale a dire il 2 (terzino destro) restava più coperto, mentre il 3 (terzino sinistro) si spingeva più avanti. Burgnich e Facchetti, oppure Gentile e Cabrini. Con il passare del tempo ognuno ha declinato l’utilizzo dei terzini a proprio piacimento. Un caso limite è rappresentato, negli anni Settanta, dall’Olanda con il suo calcio totale

27


lcio

del ca e n o i z u l o L’ev I terzini

Maldini, il prototipo del nuovo ruolo Paolo Maldini, archetipo della nuova generazione di terzini, si impone a metà anni Ottanta cavalcando l’evoluzione che non si è mai fermata. Una vita in campo con il Milan, esordisce con Liedholm nel 1985, iniziando a destra e poi traslocando a sinistra, dando subito l’idea di una completezza innata, sia nella tecnica di base sia nel leggere i pericoli portati dagli avversari. Trasforma il ruolo diventando anche ala aggiunta, col passare del tempo spostarsi al centro vuol dire allungarsi la carriera e rendere ugualmente ad alti livelli. Come accaduto prima all’olandese Ruud Krol, tra i perni del calcio totale olandese degli anni Settanta, poi anche a Philipp Lahm, chiamato pure a vestire i panni del mediano difensivo prima di appendere gli scarpini al chiodo. Tornando a Maldini, il rossonero in un’intervista dopo il ritiro al Corriere della Sera è tornato a parlare delle origini: “Da bambino tifavo Juve, ma c’era una logica nel mio tifo per la perché mi piaceva la nazionale del ’78 che era piena di bianconeri. Quello è il primo ricordo calcistico che ho, poi quando mi hanno chiesto di scegliere tra Milan e Inter ho preso i rossoneri e ci sono rimasto per sempre. Sono partito all’ala destra, poi ala sinistra, infine sono arretrato: terzino destro, perché a sinistra c’era Lorenzini”.

28

(a firma congiunta Michels-Cruijff) dove per ricoprire quel ruolo non bisognava avere o sviluppare abilità specifiche. Per coprire tutti gli spazi in modo rapido, dopo un’avanzata del terzino il sistema di gioco prevedeva una serie di scalate che coinvolgevano prevalentemente il mediano di riferimento (che andava a fare il terzino) e il terzino stesso (che occupava lo spazio lasciato libero dal mediano). I protagonisti del medesimo ruolo cambiavano in base all’andamento della gara, in quel contesto la necessità di essere specializzati non c’era affatto, come invece accadrà negli anni Ottanta e soprattutto Novanta, in cui si inizierà a parlare di terzini che devono tenere bene la linea in ottica trappola del fuorigioco, ma anche di creare la sincronia esatta con i movimenti di tutti i compagni, a partire dai laterali di centrocampo. Bisogna coprire le spalle al compagno quando c’è un pericolo imminente, così come bisogna supportarlo con la sovrapposizione dalle retrovie, dandogli un’alternativa in più per lo sviluppo della manovra offensiva. Via via aumentano le variabili e quindi le idee di gioco assieme alle responsabilità del singolo, che nel caso del terzino fa rima con doppia fase. Un termine piuttosto nuovo, legato alla continua evoluzione di questa specie, chiamata a sdoppiarsi di continuo durante lo svolgimento del match: da un lato bisogna contrastare e marcare i giocatori esterni della squadra avversaria e coprire le fasce laterali e centrali attraverso la diagonale; dall’altro si deve anche provare a iniziare la manovra, cercare l’aggiramento e inserirsi negli spazi lasciati liberi dai compagni sulle fasce per crossare o concludere a rete. Un concetto e un’attitudine estremizzata con l’avvento del nuovo millennio, con la difesa a tre lanciata da Conte alla Juve e i “tuttocampisti” di Guardiola nelle sue diverse avventure europee. I terzini vengono alzati, proiettati in avanti a supporto della fase offensiva e non sono


più l’ultimo baluardo della difesa come negli anni Venti, pur dovendo continuare a correre per coprire tutta la fascia. A volte addirittura fin sulla linea delle punte, come ali aggiunte, per aumentare il numero dei giocatori che attaccano, per favorire l’innesto delle mezzali e per cercare l’uno contro uno. Se non proprio la superiorità numerica contro retroguardie distratte o mal posizionate. Ormai è chiaro che non si può più parlare di visione statica dei ruoli, di una logica da catena di montaggio per cui gli attaccanti devono attaccare e i difensori devono difendere. Allo stesso tempo l’efficacia di un

terzino non si misura più solo attraverso la sua capacità di limitare l’impatto dell’ala avversaria, anzi questo ruolo è etichettabile come il più vasto campionario di eterogeneità in circolazione, comprese le doti tecniche e le caratteristiche fisiche di ogni singolo interprete. Da Masina a Mario Rui, da Dani Alves a Nagatomo, da Cacciatore ad Alex Sandro: è difficile trovare un filo comune che unisca tutta la specie, proprio per il grado di disomogeneità raggiunto oggi dai “terzini”. La seconda stagione di Guardiola al Manchester City non può non passare anche

Da centrocampista ad esterno di spinta, Zambrotta è stato il primo terzino moderno

Guardiola è uno dei tecnici che più apprezza il nuovo modo di essere esterni

29


lcio

del ca e n o i z u l o L’ev I terzini

dalla rivoluzione compiuta proprio con i terzini. Archiviati i vari Clichy, Kolarov, Sagna e Zabaleta, sono arrivati Walker, Mendy e Danilo proprio per cambiare il modo di giocare sulle fasce e con le fasce, grazie a giocatori moderni, nel pieno della loro carriera calcistica e con un background professionale ancora da plasmare e definire. Proprio ciò che cercava il catalano, per plasmarli e inculcare le idee di fondo. Nel complesso rispetto agli albori si è giunti a un punto in cui gli esterni bassi hanno un risvolto chiave a prescindere dalla scelta dei meccanismi difensivi. Si parla sempre di più di grande lavoro dei due laterali, del loro supporto in fase d’attacco o delle famose catene laterali anche per poter mantenere ampiezza e baricentro e non schiacciare eccessivamente il centrocampo sotto la prima linea di pressione, permettendo così una costruzione fluida sia sulle fasce che per vie centrali. Non è un caso che il terzino sia ormai diventato un giocatore eclettico nel doppio senso, cioè sia nella varietà delle azioni che il ruolo gli impone sia nelle trasformazioni di giocatori che almeno all’inizio terzini proprio non erano. Si pensi a Sergi Roberto al Barcellona, partito da numero 6 alla Guardiola o alla Busquets; oppure si pensi ad Alessandro Florenzi, calciatore box-tobox finito stabilmente sulla fascia destra difensiva con Garcia e Spalletti. Eppure il precursore risale già a quindici anni fa, è Gianluca Zambrotta, che nel 2003 passò da esterno di centrocampo (a destra) a terzino di contenimento e sostegno su tutte e due le corsie. Una scelta fatta anche per non far accomodare in panchina uno tra lui e Camoranesi, ma rivelatasi vincente per l’ottima adattabilità del calciatore, che tre anni dopo al Mondiale tedesco diede l’esempio perfetto del fenomeno della doppia spinta assieme a Fabio Grosso. Un altro esterno decisivo nel senso letterale del termine. E pensare che li chiamavano terzini.

30

Grosso, esterno che ha fatto gioire tutta l’Italia ai Mondiali del 2006


Come tradizione, in edicola la collezione ufficiale dedicata alla Coppa del Mondo!!!

Ancora una volta, i Mondiali saranno in formato figurina. La raccolta ufficiale World Cup Russia 2018 è griffata Panini. Una collezione completa, una sorta di guida per chi ama il calcio e non vuole perdersi nulla della prossima Coppa del Mondo. L’album è composto da 681 figurine, più una speciale, la 00 con raffigurato il cavaliere della Panini. All’interno della collezione, spazio a tutte le 32 nazioni che duelleranno, sul campo, per alzare la leggendaria Coppa del Mondo!!! All’interno di ogni doppia pagina dedicata ad ogni singola Nazione, presenti 18 giocatori, oltre al logo della federazione e alla figurina con la squadra schierata. Non manca nessuna delle stelle che renderanno la rassegna iridata uno spettacolo assoluto. Da Neymar a Messi, passando per Pogba, Salah, Dybala e tanti altri… La raccolta è impreziosita da diverse sezioni speciali, tutte pensate per vivere Russia 2018 da assoluti protagonisti… Spazio, quindi alle città e agli stadi che ospiteranno l’evento e alla parte dedicata alle leggende. Insomma, una raccolta esauriente per soddisfare anche il palato più fine. I Mondiali sono alle porte, doveroso essere pronti a gustarselo in compagnia dell’album ufficiale World Cup Russia 2018 Panini!!!


SPECIALE

Inglesi a Milano

di Gianfranco Giordano

32


DAL TAMIGI AI NAVIGLI I britannici che hanno indossato le casacche di Inter e Milan…

D

opo la numerosa presenza di giocatori britannici nei primi anni del 1900, bisogna aspettare quasi quarant’anni per vedere nuovamente un giocatore passare dal Tamigi ai Navigli, nel 1948 Paddy Sloan sarà il primo giocatore irlandese a giocare in Serie A. Arrivato al Manchester United a 17 anni è poi passato al Tranmere Rovers, dopo la guerra gioca una stagione all’Arsenal ed una con lo Sheffield United prima di venir ingaggiato dal Milan. Con i Rossoneri mette a segno 9 reti in 30 presenze nella stagione 1948/49, a fine stagione viene ceduto al Torino che lo gira all’Udinese. In due stagioni con Udinese e Brescia mette a segno 14 reti collezionando 42 presenze poi torna in Inghilterra al Norwich City. Il 24 maggio 1961 l’Italia ospita l’Inghilterra all’Olimpico, vinceranno gli ospiti con due reti di Gerry Hitchens e una di Jimmy Greaves, 3-2 il risultato finale. La prestazione dei due attaccanti inglesi attira l’attenzione dei club nostrani, alla fine la spunteranno le due milanesi. L’Inter ingaggerà Gerry Hitchens dall’Aston Villa per la cifra di 85.000 Sterline, mentre il Milan prenderà Jimmy Greaves dal Chelsea per 80.000 Sterline. Nella stagione 1961/62 Hitchens mette a segno 16 reti in 34 partite di campionato più due reti in tre presenze in Europa, il buon rendimento non basta a convincere Herrera, troppo scarso tecnicamente per il Mago, che lo cederà al Torino nel novembre del 1962, in quell’inizio

di stagione l’inglese metterà a segno una rete in 5 presenze in campionato, contribuendo allo scudetto, e una rete in una presenza in Coppa Italia. La carriera italiana di Hitchens continuerà con Torino, Atalanta e Cagliari, 73 reti in 243 partite disputate gli consentono di essere il giocatore inglese con il maggior numero di reti segnate in Italia. Forte fisicamente, generoso, preferibilmente mancino, estroverso con i compagni e i tifosi, ha saputo farsi apprezzare soprattutto a Torino. E’ morto a soli 49 anni per un infarto. Jimmy Greaves era sicuramente il più dotato dei due, elegante con uno stacco di testa imperioso ed un sinistro micidiale, numerose anche le segnature di destro, ma poco incline alle rigide regole del calcio italiano del tempo. Greaves entra quasi subito in contrasto con Rocco e quindi con la società, dopo 13 presenze e 9 reti segnate (ultima partita il 29 ottobre 1961 a Firenze con due reti nella sconfitta per 2-5) l’inglese torna a Londra alla corte del Tottenham per 99.999 Sterline, il club londinese non voleva raggiungere per la prima volta la cifra di 100 mila Sterline. A fine campionato il Milan sarà campione d’Italia anche grazie alle reti di Greaves, il quale si rifarà diventando il capocannoniere assoluto della massima serie inglese con 357 reti. Bisogna aspettare due decenni per vedere nuovamente un giocatore inglese a San Siro, quando il Diavolo torna prontamente in Serie A dopo un anno di purgatorio, a seguito

33


SPECIALE

Inglesi a Milano di una retrocessione per il primo scandalo scommesse del 1980. La dirigenza è ambiziosa ma le casse societarie sono quasi vuote, dopo un velleitario tentativo di ingaggiare Zico, si punta sul belga Jan Ceulemans ma il centravanti belga rifiuta la corte del Milan e non lascerà mai la sua terra. A questo punto le attenzioni di Farina convergono sullo scozzese Joe Jordan, centravanti del Manchester United e della nazionale. Jordan ha ormai superato l’apice della sua carriera ed accetta di buon grado l’avventura all’estero, dopo i successi in terra inglese con il maledetto Leeds United prima e con i Red Devils poi. Di aspetto gentile ed educato si trasforma in campo quando si toglie la protesi all’arcata dentale superiore, gli incisivi si ruppero anni prima in uno scontro di gioco, e diventa per tutti lo Squalo. Dotato di un notevole stacco aereo ma di tecnica non eccelsa con i piedi, come da tradizione britannica, diventa presto un idolo dei tifosi per l’impegno e l’attaccamento alla maglia. Rimarrà al Milan due stagioni, una fallimentare per la squadra con la retrocessione e costellata dai suoi infortuni, mentre la seconda in Serie B mostrerà al pub-

blico un buon giocatore con una certa dimestichezza con la rete. Parteciperà a tre mondiali (1974, 1978 e 1982) con la nazionale scozzese più forte di sempre, andando a rete in tutte e tre le edizioni. Dopo il Milan giocherà ancora un anno in Italia con l’Hellas prima di tornare in Inghilterra. Fisico statuario, sorriso accattivante e tantissimi gol segnati in Inghilterra con il Watford di Elton John, questo era Luther Blissett quando arrivò a Milano, sponda rossonera, nell’estate del 1983. Purtroppo Lutero il bombardiere nero, questo il coro a lui dedicato dalla Curva Sud, divenne presto una delusione famoso per i tanti gol sbagliati, il più clamoroso forse in un derby praticamente a porta vuota ma anche il rigore tirato nel secondo anello è rimasto impresso nella memoria dei tifosi. Dopo 5 reti in 30 partite di campionato e una rete in 9 partite di Coppa Italia, Blissett torna al Watford per 550.00 Sterline, era costato un milione, molti hanno avuto il sospetto che il Milan abbia ingaggiato l’attaccante sbagliato, con Blissett giocava John Barnes, attaccante di ben altro spessore. La stagione successiva il Milan punta ancora su due inglesi, da questa stagione ogni

LE ORIGINI

Un passo nella storia per capirne di più… Milano è, insieme a Genova, la città italiana che più ha subito l’influsso calcistico britannico, in entrambe le città furono i sudditi della Regina Vittoria a diffondere il football e a guidare le due squadre nei primi anni di vita. Nato a Nottingham il 24 gennaio 1870, Herbert Kilpin arrivò a Torino per motivi di lavoro nel 1891, nella città sabauda contribuì a fondare l’Internazionale FC e continuò a giocare fino al 1898. All’inizio dell’anno si trasferì, insieme al collega Samuel Richard Davies, a Milano dove contribuì a fondare il Milan Football and Cricket, data ufficiale il 16 dicembre 1899, di cui sarà giocatore, capitano e allenatore. In totale i britannici che hanno indossato la maglia del Milan nei primi anni sono una decina, difficile essere precisi analizzando un periodo di cui scarseggiano documenti ufficiali. Ricordiamo Hoberlin Hood, David Allison, Samuel Richard Davies, Penvhyn Llewellyn Neville, Edward Wade, Jack Diment, Thomas Mac Cormack, Emyl Croom, John Robert Roberts. L’ultimo inglese di questo periodo è Andrew Williams che giocherà 9 partite, una rete all’attivo, nella stagione 1913/14. Fondato nel 1908 da 44 soci dissidenti del Milan, l’Internazionale nei primi anni di vita ha schierato formazioni miste italo-svizzere, successivamente i dirigenti neroazzurri si sono affidati prevalentemente a giocatori di scuola sud americana o dell’Europa centro settentrionale.

34


squadra può tesserare due giocatori stranieri, si tratta di Ray Wilkins e Mark Hateley. Wilkins ha alle spalle una carriera importante con le maglie di Chelsea e Manchester United, inoltre fa parte da alcuni anni della nazionale inglese, Hateley era per i più uno sconosciuto, arrivava dal Portsmouth in seconda divisione e in precedenza aveva indossato la maglia del Coventry City in prima divisione per cinque stagioni. Fresco campione europeo U21, nel giugno del 1984 aveva esordito in nazionale. I più scettici vedevano in Hateley un nuovo Blissett, unica garanzia le rassicurazioni di Liedholm, il quale asseriva si trattasse di un ottimo attaccante. I due diventano subito idoli del tifo rossonero, tanto gentili e disponibili fuori dal campo tanto combattivi e pronti a dare il 101 per cento in campo, Wilkins più lento, stiloso e ragionatore, Hateley veloce, irruento e con uno stacco di testa imperioso. Maglia fuori dai pantaloncini, calzettoni spesso abbassati e capelli al vento aveva il portamento per entusiasmare i tifosi. Il 28 ottobre 1984 è il giorno consacrato alla nascita del mito di Attila Hateley, il Milan torna alla vittoria nel derby dopo sei anni grazie ad un gran gol di testa del suo centravanti che sovrasta Collovati e porta alla vittoria i Rossoneri. I due resteranno al Milan tre stagioni, Wilkins giocherà 105 partite ufficiali con tre reti, Hateley 86 partite con 21 reti. Ultima apparizione per Hateley il 17 maggio 1987 a Udine quando viene espulso a otto minuti dal termine insieme al portiere friulano Abate, entrambi coinvolti in un parapiglia, prima di uscire dal campo si rivolge

verso i suoi tifosi a braccia alzate, sette giorni prima, in occasione dell’ultima partita casalinga contro il Como, Attila entrò in campo con uno striscione per ringraziare e salutare i tifosi del Milan. Wilkins giocherà gli ultimi minuti dello spareggio UEFA il 23 maggio a Torino, dopo aver giocato per alcuni anni in Francia, Inghilterra e Scozia ha fatto l’allenatore e infine il commentatore televisivo. E’ morto il 4 aprile, quattro giorni dopo aver subito un arresto cardiaco. Sempre nell’estate del 1984, a Milano arriva anche Liam Brady. Giocatore mancino con un gran tiro da fuori area e in grado di effettuare passaggi millimetrici per le punte, sopperiva alle non eccelse doti fisiche con una visione di gioco ed una combattività eccellenti. Cresciuto nelle giovanili dell’Arsenal e poi approdato in prima squadra, rimase ai Gunners sette stagioni imperversando sulle fasce e guadagnandosi il nomignolo di “Chippy” per la sua passione per il fish and chips. In Italia lasciò la fascia per diventare un impeccabile regista e implacabile rigorista. Arrivava all’Inter dopo quattro stagioni in Italia, due alla Juventus e due alla Sampdoria, nelle intenzioni del presidente Pellegrini Brady era il regista in grado di lanciare il tedesco Rummenigge per scardinare le difese avversarie. Purtroppo i tanti guai fisici del tedesco e una doppia eliminazione in Coppa UEFA contro il Real Madrid, impedirono la realizzazione dei sogni dei tifosi nerazzurri. Dopo due anni con la Beneamata, in totale 97 partite con 16 reti, giocò ancora un anno ad Ascoli, prima di chiudere la carriera con la maglia del West

35


SPECIALE

Inglesi a Milano Ham United. Dopo aver vinto quasi tutto con il Manchester United di Sir Alex Ferguson, Paul Ince lascia i Red Devils per l’Inter nel 1995. Il Governatore fu uno dei primi acquisti di Moratti, ingaggiato insieme a Zanetti e Roberto Carlos, non riuscì ad esprimersi pienamente nei primi tempi a causa del caos tecnico che regnava al tempo nell’Inter, cinque allenatori in due sole stagioni. Dopo essere stato impiegato di diversi ruoli, finalmente venne spostato al centro del gioco e riuscì ad esprimere tutto il suo potenziale e a diventare un trascinatore della squadra. Gran lottatore ma dotato di ottima tecnica e di un gran sinistro, segnò 13 reti in 73 partite, velocità, grinta e tempismo negli inserimenti erano i suoi punti forti. Dopo due stagioni decise di tornare in Inghilterra per far contenta la moglie Claire che aveva nostalgia di casa, i tifosi della Curva Nord, saputo della possibilità di perdere un loro idolo, esposero lo striscione INCEdibile sperando di convincerlo a rimanere a Milano. Nell’ultima partita in maglia nerazzurra il il 27 maggio 1997 a San Siro contro il Napoli, Ince segnò una rete e un’autorete. Nell’estate del 2014 il figlio di Paul Ince, Tom allora giocatore del Blackpool, fu a un passo da firmare per l’Inter ma poi decise di rimanere in Inghilterra. Robbie Keane arriva a Milano nell’estate del 2000, ha vent’anni ed è reduce da una buona stagione con il Coventry City in Premiership. Keane è un jolly offensivo, veloce e con una buona percentuale realizzativa, è stato voluto fortemente Lippi. La stagione interista comincia nel peggiore dei modi, con la sconfitta in Supercoppa italiana, l’eliminazione dai preliminari di Champions League contro i modesti svedesi dell’Helsingborg, la prima giornata di campionato vede i Nerazzurri sconfitti a Reggio Calabria e il conseguente esonero di Lippi. Con l’allontanamento di Lippi finisce in pratica l’avventura milanese di Keane, il nuovo allenatore Tardelli non lo fa quasi mai

36

giocare preferendogli Recoba, l’avventura dell’attaccante irlandese finisce, dopo 14 partite e 3 reti, a dicembre con il passaggio al Leeds United. Keane e Tardelli si ritroveranno poi nella nazionale irlandese, il primo è il recordaman di presenze con la maglia verde, 146, il secondo è stato il vice di Trapattoni nel periodo 20082013. Attualmente Keane, dopo le esperienze in Gran Bretagna e Stati Uniti, gioca nella prima divisione del campionato indiano con l’ATK Kolkata. Quando nel 2008 il Milan annuncia l’ingaggio di David Beckham, tutti pensano all’ennesimo colpo ad effetto di Galliani, un giocatore di grande appeal per vendere magliette in giro per il mondo e attirare nuovi sponsor. Personaggio di grande carisma, non solo sportivo, Beckham raggiunge il Milan alla fine del campionato nord americano, giocato con la maglia del Los Angeles Galaxy, e da subito si mette diligentemente a disposizione dell’allenatore, mostrando disciplina e grande voglia di lavorare. Nel giro di pochi giorni lo staff tecnico ed i compagni di squadra sono stupiti dalla professionalità dell’Inglese, anche i tifosi ne apprezzeranno l’impegno oltre alle indiscusse qualità tecniche. La stagione seguente Beckham ritorna a Milano dopo il campionato con i Galaxy ma l’avventura si interrompe a causa di un grave infortunio, rottura del tendine di Achille, rimediato il 14 marzo nella partita contro il Chievo. L’avventura dello Spice Boys in rossonero si conclude con 31 partite e due reti. Beckham è stato l’ultimo giocatore di lingua inglese ha calpestare l’erba di San Siro, ormai i tempi sono cambiati, la Premier League è l’eldorado del calcio ed è sempre più difficile convincere i giocatori britannici a trasferirsi in Italia.


PANCHINA IN LINGUA INGLESE

Oltre che sul campo di gioco, uomini d’Oltremanica sono stati protagonisti sulle panchine delle due milanesi, a dir la verità con poco successo… Bob Spotishwood è il primo allenatore professionista dell’Inter, dopo una carriera da calciatore in Inghilterra arriva a Milano nell’estate del 1922, guida i Nerazzurri per due stagioni ma la politica della società di puntare su giocatori giovani non gli consente di raggiungere risultati apprezzabili. Dopo una brillante carriera di calciatore durante la quale ha indossato le maglie delle due squadre di Manchester, Herbert Burgess comincia quella di allenatore in Ungheria e poi arriva in Italia. Guiderà il Milan nelle stagioni 1926/27 e seguente senza particolari acuti, successivamente si siederà sulle panchine di Padova e Roma. Icona del Genoa che allenerà per vent’anni in tre riprese, nel dicembre del 1936 William Garbutt subentra a Balonceri guidando il Milan fino a fine stagione poi torna al suo amato Grifone. È l’ultimo inglese a guidare il Diavolo, senza lasciare tracce negli annali, è grazie a lui che in Italia l’allenatore viene chiamato “Mister”. Nella stagione 1948/49 l’Inter fa grandi acquisti quali Giovannini, Armano, Nyers e Amadei con la speranza di interrompere la supremazia del Torino, i risultati però non arrivano e il gallese David John Astley, arrivato sulla panchina per le ultime partite della stagione precedente, viene esonerato dopo 12 giornate. Attaccante prolifico con i club e con la nazionale del suo paese, ha allenato successivamente il Genoa per una stagione prima di trasferirsi in Svezia. Per la stagione 1957/58 Angelo Moratti sceglie Jesse Carver, inglese con buona esperienza maturata principalmente tra Inghilterra e Italia, ha allenato tra le altre le due torinesi e le due romane vincendo uno scudetto con i Bianconeri. Carver delude le aspettative e la sua Inter è la peggiore dell’era Moratti. Dopo una carriera di calciatore passata nella non–league inglese, Roy Hodgson si costruisce una buona reputazione come allenatore tra Inghilterra, Svezia e Svizzera dove guidò la nazionale a USA 94. Viene chiamato all’Inter da Massimo Moratti nell’ottobre 1995, confermato per la stagione successiva perde la finale di Coppa Uefa contro lo Schalke 04 e rassegna le dimissioni, ritorna per le ultime partite della disgraziata stagione 1998/99 in cui si alternarono sulla panchina ben quattro allenatori.

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

37


RETROSPETTIVE Grandi Presidenti

ROMEO ANCONETANI

IL PISA Vulcanico, intrattabile, geniale, scaramantico e pure pellegrino: Romeo Anconetani di Fabrizio Ponciroli

T

rattare il profilo di Romeo Anconetani è compito arduo. Un personaggio con mille sfaccettature, capace di intuizioni geniali e scenate da bar del paese. Per tutti i tifosi del Pisa, il club a cui ha affidato il suo cuore, è stato, semplicemente, “Il Presidentissimo”. Nonostante fosse triestino di nascita, Romeo Anconetani diventa presto toscano in fede e anima. Dopo essersi arruolato in fanteria, al termine della Seconda Guerra Mondiale, inizia a comprendere che il calcio, oltre ad essere un gioco, può diventare anche un mestiere. Si cimenta, nel ruolo di dirigente, con Empoli e Prato. A lui vengo attribuite “illuminazioni geniali” come l’idea di introdurre, primo nel calcio italiano, la prevendita dei biglietti. Nel 1955, all’età di 33 anni, la sua avventura nel mondo del pallone pare destinata a concludersi amaramente. Viene pizzicato nel ten-

38

tativo di aggiustare una partita (PoggibonsiPontassieve). La sentenza è pesantissima: radiazione dal panorama calcistico. Anconetani non si dà per vinto e si inventa “mediatore”. Nasce l’Archivio Anconetani, ossia una sorta di database con info, valori e voti di una quantità infinita di calciatori italiani (successivamente la lista comprenderà anche gli stranieri). Le sue consulenze in tantissime trattative di trasferimento di giocatori da una squadra all’altra sono preziose. Nei primi anni ’60, viene dipinto come Signor 5%. Di fatto, se un giocatore, da lui consigliato, veniva ingaggiato da un club, prendeva una piccola commissione. L’Archivio Anconetani frutta soldi e anche in maniera corposa… Tuttavia, il buon Romeo ha altri obiettivi: sogna di essere “padre padrone” di un club. A causa della radiazione che incombe sulla sua testa, deve ricorrere all’aiuto del figlio Adolfo per acquistare il Pisa. Investe circa 300 milioni di vecchie lire (la società era in liquidazione). È l’anno 1978 e i nerazzurri militano nell’allora Serie C1. Nella sua prima stagione da numero uno del club (nonostante, ufficialmente, il presidente sia il figlio, sino al 1982, l’anno dell’amnistia della pena che gravava su Romeo Anconetani), si dimostra subito vulcanico. Alterna ben tre


SONO IO

Credit Foto - Liverani

39


RETROSPETTIVE Grandi Presidenti

COSTANTINO ROZZI

I COLPI DI ROMEO Nel corso della sua militanza come patron del Pisa, Romeo Anconetani ha dimostrato di saperne, e tanto, di calcio. Folcloristico ma molto abile nello scovare talenti purissimi. Soffermando l’attenzione sui “colpi dall’estero”, vengono alla memoria diverse intuizioni geniali. Nell’estate del 1982, per prepararsi al meglio al suo primo anno nella massima serie, Anconetani decide di puntare su un centrocampista danese di 24 anni. Lo scova nelle fila del Lyngby e lo paga poco più di 200 milioni di vecchie lire. Il suo nome è Klaus Bregreen e, per quattro stagioni, incanta con la casacca nerazzurra. Il Presidentissimo, nel 1986, lo vende alla Roma per una cifra importante, ossia quattro miliardi di lire. Nel 1983 altra folgorazione: dall’Ajax prende un giovanissimo bomber di appena 20 anni: Wim Kieft. Ad essere sinceri, con la casacca del Pisa non fa faville ma il talento è innegabile tanto che, nel 1987, vincerà la Coppa dei Campioni con il PSV. Geniale anche l’idea di “allevare” un certo Carlos Dunga. Siamo nel 1987, la Fiorentina deve “parcheggiare” il brasiliano e Anconetani fiuta l’affare. Sarà una stagione straordinaria per il giovane Dunga, già destinato a diventare una leggenda del calcio. Poteva, probabilmente, dare di più Mario Been, acquistato da Romeo Anconetani, nel mercato pre stagione 1988/89. Due anni con i pisani, buoni ma non eccezionali. Straordinarie, invece, il sesto senso dello Sciamanno nello scegliere due profili argentini di grande talento, ossia Diego Pablo Simeone e Joset Chamot. Il primo viene portato al Pisa nel 1990, all’età di soli 20 anni. Due stagioni con il Pisa e, poi, una carriera sublime, prima da giocatore, ora da allenatore. Sempre nel 1990 arriva anche il connazionale Chamot. Resta al Pisa fino al 1993, prima di indossare le casacche di Foggia, Lazio, Atletico Madrid e Milan…

40

allenatori alla guida della squadra. Parte con Giampiero Vitali, poi si affida a Gianni Seghedoni e, infine, si innamora di Pier Luigi Meciani che, in effetti, porta il Pisa in cadetteria. Dopo un paio di stagioni anonime in Serie B, lo Sciamanno, altro pseudonimo usato dai tifosi del Pisa, decide di affidarsi ad un giovanissimo e inesperto tecnico: Aldo Agroppi. Al termine della stagione 1981/82, dopo ben 13 anni di attesa, il Pisa torna nella massima serie. La prima annata in Serie A è meravigliosa. Dopo le prime quattro giorna-

Tra i tanti colpi di Anconetani, c’è anche Carlos Dunga

Ora grandissimo allenatore, ha iniziato la sua avventura italiana con il Pisa


NON SOLO FENOMENI Non tutte le ciambelle escono con il buco. Romeo Anconetani ha scoperto tantissimi futuri campioni ma è incappato anche in qualche grossolano errore di valutazione. Anche se si narra che fu più una scelta del figlio Adolfo, il “bidone per eccellenza” dell’era de Il Presidentissimo è, senza ombra di dubbio, Jorge Washington Caraballo. Centrocampista, con una militanza nel Danubio, sbarca a Pisa nell’estate del 1982. Si presenta come il nuovo Schiaffino ma non andrà benissimo… Gioca, sotto la Torre, solo sette gare. Del suo passaggio a Pisa si ricorda solo il rigore fallito, in una gara di Coppa Italia, contro il Bologna. In breve tempo diventerà un “idolo” della tifoseria pisana: “Caraballo, meglio perdilo ‘he trovallo”, lo slogan preferito dalla Curva… In Uruguay, a scovarlo, non è andato Romeo… Sono, invece, entrambi farina del sacco di Romeo gli “affari” Francis Severeyns e Paul Elliot. Il primo, attaccante belga, nonostante un curriculum importante (36 reti, in 73 gare, con l’Anversa), segnerà, nel suo unico anno a Pisa, solo in Coppa Italia. Il secondo, difensore inglese dal fisico impressionante (190 cm), in due anni sotto la Torre, fu spesso protagonista di prestazioni da dimenticare… Non tutte le ciambelle escono con il buco…

te, il neopromosso Pisa è in testa al campionato, grazie alle vittorie su Samp e Napoli, e ai pareggi con Cesena e Ascoli. “Il calcio rende? Il calcio rende tante arrabbiature e tante rinunzie, se questa è una rinunzia, allora sono ricchissimo”, spiega ai microfoni della Rai proprio nel suo primo anno nel calcio dei potenti. Guidati da Luis Vinicio, i pisani con-

quistano, in quella fantastica prima cavalcata in Serie A, un pazzesco 11° posto finale (27 punti totali), miglior piazzamento nella storia del club. È un momento d’oro per il club e soprattutto per Anconetani che, in virtù del suo carattere piuttosto pittoresco, diventa il simbolo assoluto del Pisa. Ogni suo intervento pubblico è uno show. Coglie ogni

LA VITTORIA SUL TRAP Romeo Anconetani non temeva nessuno. Era sicuro di poter battere, con il suo Pisa, chiunque. Tra le tante imprese riuscite ai nerazzurri, quella del 1 novembre 1987, alla settima giornata del girone d’andata di Serie A, contro l’Inter di Trapattoni, è tra le più glorificate. Si gioca in un’Arena Garibaldi piena in ogni ordine di posto. Alla guida dei pisani c’è Materazzi. È l’Inter di Serena, Scifo, Passarella, Zenga e tanti altri campioni. I padroni di casa partono alla grandissima, trovando il vantaggio, con Bernazzani, al 7’ (ex della partita e al secondo centro consecutivo dopo il gol vittoria sul campo dell’Empoli). Il 2-0 è un capolavoro balistico di Dunga: una bordata da oltre 30 metri che fredda Zenga. Inutile il 2-1 di Mandorlini. Nel post partita, lo stesso Dunga racconta di aver giocato con il mal di stomaco per la “pesantezza” di un piatto di spaghetti all’ora di pranzo… Il suo gol “da mal di stomaco” sarà il più bello nella storia del Pisa di Anconetani…

41


RETROSPETTIVE Grandi Presidenti

COSTANTINO ROZZI nera e chiama Eugenio Bersellini. occasione per “attaccare il palazzo”: Niente da fare, cambia nuovamen“In Italia comanda l’Avvocato Agnelte, ingaggiando Felice Secondini. Il li ma qui, a Pisa, comando io”, una miracolo, questa volta, non riesce. delle sue uscite più celebri. In efIl Pisa perde lo spareggio con l’Acifetti, Il Presidentissimo si comporta reale e retrocede in Serie C. I tifosi, come un despota, decidendo le sorti gli stessi che l’avevano adorato alla di ognuno a proprio piacimento. La follia, prendono le distanze da Il Presua nomea di “mangia allenatori” sidentissimo. La società finisce in diventa nota in ogni ambiente tanto grossi guai finanziari e il fallimento che Agroppi, richiamato da Anconediventa una realtà. Si conclude così tani nel 1991, risponde: “Non torno, l’epopea Anconetani. Perso il suo preferisco vivere”. In 16 anni di regno grande amore, Anconetani, di fatto, a Pisa, sono 22 gli allenatori che si esce dai radar del calcio che conta. susseguono sulla panchina nerazSi ringrazia Panini Un paio di collaborazioni con Milan e zurra. Ne lancia diversi, tra cui un per la gentile concessione Genoa e poco altro. Il 3 novembre del certo Lucescu: “Crisi con Lucescu? delle immagini 1999 la sua morte, avvenuta in silenNo, tubiamo come due piccioncini”, zio, dopo una settimana di coma. Nel risponde ad un giornalista interes2001, l’Arena Garibaldi è stata cointestata a sato alla convivenza tra i due. Una verità è Il Presidentissimo. Proprio quell’impianto sacrosanta: se il suo verbo non veniva mesche è stato, per tanti anni, la sua casa… so in pratica con totale devozione, Anconetani era pronto a tutto. Dai ritiri massacranti (chiamati “giorni di ossigenazione” dallo Credit Foto - Liverani stesso Anconetani) ai famosi pellegrinaggi al Santuario di Montenero. C’era poi la componente scaramanzia. Il suo gesto di versare del sale sul terreno di gioco dell’Arena Garibaldi prima delle partite è diventato parte integrante della sua storia. Si narra che, per una sfida col Cesena, arrivò a spargere ben 26 chili di sale (quella gara, per la cronaca, fu vinta dai nerazzurri). Scorbutico ma incredibilmente passionale, adorava il “pubblico delle curve perché è quello più caldo, quello più vero”. Si pensi che, spesso, andava ad attendere i suoi tifosi alla stazione. Con il “suo Pisa”, oltre a quattro promozioni in Serie A, alza due volte la Mitropa Cup (1985/86 e 1987/88) e, nella stagione 1988/89, conquista le semifinali di Coppa Italia. Il suo matrimonio, scombussolato ma sanguigno, con il Pisa si conclude al termine della stagione 1993/94. In quell’ultimo anno da padre padrone del club nerazzurro parte con Walter Lo scaramantico Anconetani mentre sparge del sale Nicoletti in panchina. Non convinto, lo esoall’Arena Garibaldi

42


AL FERRARIS PER LA PARTITA

DEL CUORE L’appuntamento è per il prossimo 30 maggio. In campo per l’ISTITUTO GASLINI e per AIRC La 27^ Partita del Cuore si giocherà a Genova, allo Stadio Luigi Ferraris, mercoledì 30 maggio. La Nazionale Cantanti scenderà in campo assieme ai Campioni del Sorriso, una squadra davvero speciale composta da grandi artisti, sportivi, personalità nazionali ed internazionali. A lanciare l’invito è il capitano e socio fondatore Gianni Morandi: “Siamo legati a Genova e all’ospedale Gaslini. E’ bello poter tornare a giocare per una causa così importante, ritrovarsi in campo anche se non più giovanissimi. In una delle camere sterili dell’Istituto c’è una targa della nostra Nazionale e questo ci rende orgogliosi: giocare con la consapevolezza di aiutare questi bambini ci fa sentire davvero grandi”. La Nazionale Cantanti e i Campioni del Sorriso giocheranno la Partita del Cuore 2018, organizzata grazie alla collaborazione di Regione Liguria, Comune di Genova e di Costa Crociere, per raccogliere fondi a favore dell’Istituto Giannina Gaslini di Genova, policlinico pediatrico, eccellenza in Italia e di AIRC Associazione italiana per la ricerca sul Cancro, principale finanziatore indipendente della ricerca oncologica italiana. “Il nome stesso “Partita del cuore” inquadra molto bene il significato di questo evento che è molto più di una partita di calcio. Tutti insieme giocheremo la stessa partita per vincere il prima possibile le sofferenze di tanti bambini. Voglio ringraziare tutti i protagonisti di questo grande gioco di squadra che è stato fatto col cuore e porterà grandi risultati” ha dichiarato Pietro Pongiglione Presidente dell’Istituto Giannina Gaslini. I biglietti si possono acquistare nelle ricevitorie della rete Listicket, sul sito internet www.listicket. com e tramite call center al numero 892101.

UNA STORIA PRESTIGIOSA

La Nazionale Cantanti nasce grazie a Mogol che gettò il seme con una telefonata a Morandi. Fu messa su una squadra con Oscar Prudente, Umberto Tozzi, Andrea Mingardi. Iniziarono giocando nei campi parrocchiali, ma Mogol pensava in grande, vedeva lontano e continuava a ripetere alla squadra “Andremo negli stadi di Serie A, atterreremo in elicottero”. Il 2 ottobre 1975 a Milano scendono in campo Mogol, Gianni Morandi, Lucio Battisti, Riccardo Fogli, Andrea Mingardi, Umberto Tozzi, Pupo, Paolo Mengoli, Gianni Belli, Pino D’Angiò, Sandro Giacobbe, Oscar Prudente e Tony Cicco per l’acquisto di un’autoambulanza per la Croce Verde di Milano. In 37 anni di attività e in 31 anni di associazionismo, la formazione ha disputato oltre 550 partite di fronte di oltre 25 milioni di spettatori, in tutti gli stadi italiani, e ha raccolto fondi per una cifra che supera i 90 milioni di euro. Ventisei degli incontri disputati si sono trasformati in veri e propri eventi televisivi noti come La Partita del Cuore. Le sole ultime tre edizioni di questo appuntamento, trasmesse da Rai Uno, sono state seguite da oltre 950 milioni di telespettatori in tutto il mondo.


IO C L A C I D E I STOR Mantova

di Fabrizio Ponciroli

PER AMORE DEL MANTOVA La bellissima storia dei virgiliani è ripartita, con passione e serietà

Karl-Heinz Schnellinger in gol contro la Sampdoria - Credit Foto Tonino Lingria

I

l Mantova è una realtà calcistica importante del panorama italiano. Fondata nel lontano 1911, ha avuto, nel corso della sua ultra centenaria storia, momenti di enorme prestigio. Ben sette le presenze in Serie A, concentrate nei favolosi anni ’60, quelli in cui i biancorossi erano rispettati e temuti (i biancorossi hanno conquistato anche due noni posti, nelle stagioni 1961/62 e 1966/67). Poi, con il passare dei decenni, il Mantova è caduto,

44

più volte, in disgrazia. L’ultimo sussulto “da grande” arriva nella stagione 2005/06, con lo sfortunato spareggio play-off perso con il Torino e, di conseguenza, il mancato approdo nella massima serie. Arrivano poi fallimenti e progetti altrettanto evanescenti fino all’estate 2017 quando il Mantova finisce nelle mani di una cordata, capitanata da Alberto Di Tanno, che riporta l’amore per i colori biancorossi al centro di tutto… Promotore e anima di questo


UN PO’ DI CURIOSITà Sono tantissimi i campioni che hanno indossato la casacca biancorossa. Nella stagione 1963/64, nella rosa virgiliana c’era un certo Karl-Heinz Schnellinger. Il tedesco gioca una stagione super (33 presenze e due gol). Sarà poi uno dei pilastri del Milan. Il 1963 è il primo anno anche di Dino Zoff al Mantova. Ci resterà fino al 1967, poi, dopo qualche stagioni al Napoli, diventerà una colonna della Juventus. I tifosi del Mantova hanno visto giocare nelle fila della loro squadra del cuore anche Dario Hubner (2004/05), Paolo Poggi (due stagioni, da 2004 al 2006), Tomas Locatelli (dal 2008 al 2010) e Stefano Fiore (2007/08). Due curiosità: Roberto Boninsegna, nato a Mantova, non ha mai giocato nelle fila dei virgiliani ma ha allenato il Mantova dal 2001 al 2003. L’unica avventura da allenatore di Billy Costacurta si è consumata proprio a Mantova (2008/09).

La città ha risposto alla grande a questa nuova iniziativa… “Verissimo. Avere 1139 abbonati è stato un traguardo sensazionale. I tifosi ci sono stati vicini, anche nelle prime partite quando ancora non eravamo ancora all’altezza della nostra degna tradizione. E’ stato bravo Renato Cioffi, il nostro allenatore (ex tecnico della Primavera dell’Avellino, ndr), a dare alla squadra un’identità vera e solida”. Solido sembra anche il vostro progetto… “Facciamo tutto per passione. Il nostro è un gesto d’amore verso i colori biancorossi. Questo è stato un anno di rodaggio, per capire la categoria e comprendere come muoversi su tutti i fronti, societari e sportivi ma siamo sulla strada giusta”. Che obiettivi ha questo ritrovato Mantova? “Il nostro è un progetto importante, da realizzare con i giusti tempi. Ovviamente puntiamo alla LegaPro, questo è chiaro. Ma c’è dell’altro. Ad esempio, vogliamo migliorare il Martelli, il nostro storico impianto di gioco, così da creare anche un settore giovanile all’avanguardia”. Ritiene che, un giorno, rivedremo il Mantova in Serie A? “Questo è il nostro grande sogno, quello di tutti noi tifosi biancorossi”.

Credit Foto - Mantova

nuovo progetto è Gianluca Pecchini… Buongiorno Pecchini, ci racconta come è rinato il Mantova? “Nel 2017, pur salvandosi sul campo, il Mantova era destinato a sparire per diversi problemi finanziari. Parlando con tanti amici, ho detto che non potevamo lasciar morire un patrimonio calcistico come quello biancorosso. Il sindaco della città Mattia Palazzi ha così emesso un manifesto d’interesse per capire se qualcuno fosse interessato alla società. La scelta è ricaduta così sulla cordata capitanata da Alberto Di Tanno. Poi, grazie al Lodo Petrucci, è stato possibile ripartire dalla Serie D”. Una corsa contro il tempo per iscriversi alla stagione 2017/18… “Assolutamente… Mentre le altre squadre giocavano la Coppa Italia, noi cercavamo i giocatori per allestire la rosa. E’ stato complicato ma ci siamo riusciti”.

Il capitano Correa con la casacca del Mantova

45


E IAL

C E P S

h

glie

ano

Ma d

d

An e-

ric o t S

ord o Gi

ranc

nf i Gia

t

ch e l r e

L’Anderlecht è la squadra più blasonata dell’intero Belgio…

IL COLORE MALVA

I

l calcio si diffuse in Belgio sul finire del XIX secolo, soprattutto nelle scuole delle principali città e nella città portuale di Anversa. Il primo club fondato nella capitale, la città è formata da 19 comuni che compongono la Regione Bruxelles-Capitale, è il Léopold Football Club, sodalizio della

46

nobiltà cittadina intitolato a re Leopoldo e attivo dall’11 febbraio 1893. Nel 1894 viene aperta la sezione calcio del Racing Club de Bruxelles, fondato nel 1890 nel comune di Koekelberg. Un anno dopo a Molembeek viene fondato il Daring Club de Bruxelles. Il primo novembre 1897 nasce l’Union Saint-Gil-


loise, nel comune di Saint Gilles, sarà il primo club belga a raggiungere il traguardo delle dieci vittorie in campionato. Nel 1904 a Forest viene fondato l’Excelsior Sporting Club de Bruxelles. Il calcio è ormai uno sport ben radicato in città quando, il 27 maggio 1908, diciotto appassionati si riuniscono nei locali del Concordia Cafè in Rue d’Aumale, sono ancora eccitati per l’amichevole giocata 13 giorni prima a Bruxelles tra il Queens Park Rangers e il Léopold Football Club e decidono di fondare una squadra di calcio che difenderà l’onore sportivo del popolare quartiere di Anderlecht. Charles Roos è il più infervorato durante la riunione, è lui a suggerire l’idea della fondazione della squadra e i suoi amici, dopo aver accettato la proposta, lo eleggono presidente del club la cui denominazione sarà Sporting Club Anderlechtoise. Vennero scelti i colori bianco e malva (una tonalità chiara del viola) e venne fatta una colletta per comprare un pallone, negli anni a venire si è a lungo discusso sulla scelta dei colori sociali, alcuni hanno sostenuto che i fondatori abbiano scelto i colori dominanti degli abiti ecclesiastici, altri hanno accettato una versione più poetica secondo la quale bianco e malva erano i colori dell’abito della principessa Elisabetta di Baviera, moglie del futuro re Alberto I, che aveva partecipato ad un evento in Lonchamp Fleuri, importante via del centro cittadino, ribattezzata dopo la seconda guerra mondiale Avenue Winston Churchill. Sia come sia, due settimane dopo i giocatori si esibiscono nella loro prima partita, una roboante vittoria 11-8 contro Institut Saint-Georges, campo di gioco a Scheut, poche centinaia di metri dallo stadio attuale, un campo infame con un albero che obbligava i giocatori a un dribbling più del necessario. La prima fotografia della squadra nel 1908 è bellissima, alcuni giocatori hanno la maglia malva, alcuni di una tonalità più scura con vistoso collo bianco ed altri biancomalva a strisce

1907 1908

1922 1923

1946 1947

1947 1948

1950 1951 47


E

AL ECI

SP

ie agl

he oric

cht

rle nde

-A

St

M

48

verticali in diversi stili, i pantaloncini prevalentemente bianchi. Al tempo a Bruxelles non c’erano negozi che vendevano maglie da calcio, bisognava importarle dall’Inghilterra ed erano costose, così ogni giocatore provvedeva da sè alla divisa. Il primo anno i Biancomalva giocarono unicamente incontri amichevoli, venendo sconfitti solo alla dodicesima partita dall’Uccle Sport. L’8 aprile 1909 il club si iscrisse alla federazione belga, ottenendo la matricola 35, e venne inserito nella Division 3. La prima partita ufficiale verrà giocata il 29 settembre 1909, sconfitta 1-0 con il Merlo ma la partita successiva registrerà la prima vittoria del club, 3-0 contro l’Effort, a fine stagione l’Anderlecht sarà terzo in classifica e verrà promosso in Division 2. Negli anni 10 lo Sporting indossò una maglia malva con collo a camicia chiuso da laccetti, pantaloncini bianchi e calzettoni neri con bordi bianco malva. Nel 1917 Emile Versé, divenne il primo mecenate del club versando nelle casse sociali 10.000 franchi belgi, servirono a trovare un nuovo terreno di gioco al Parc Astrid, lo Sporting non si muoverà più da questo terreno. Intitolato in origine a Emile Versé, nel 1983 venne completamente ricostruito ed intitolato a Constant Vanden Stock, all’epoca presidente del club in cui aveva giocato da giovane, prima di essere selezionatore della Nazionale belga. Alla fine della stagione 1920/21 lo Sporting viene promosso nella massima serie del calcio belga, per tutto il decennio il

club farà lo yo-yo tra le prime due divisioni tornando definitivamente al massimo livello nella stagione 1935-36. Negli anni ‘20 la divisa è pressoché uguale, solo il collo, sempre a camicia, diventa bianco, a partire dalla stagione 1930/31 i calzettoni diventano a righine bianco malva. Il 20 giugno 1933, in occasione del venticinquesimo anniversario dalla fondazione, il club ottiene il titolo di Société Royale, cambiando la denominazione in Royal Sporting Club Anderlechtois (RSCA). Nella stagione 1938/39 maglia completamente malva, collo a camicia chiuso dai soliti laccetti, pantaloncini bianchi e calzettoni malva con vistoso risvolto bianco, questa è la divisa che accompagnerà lo Sporting nel tribolato periodo bellico. Il calcio riprende a pieno regime nella stagione 1945/46 e nella stagione successiva i Biancomalva vincono il loro primo titolo nazionale, da questo momento l’Anderlecht diventerà una delle squadre dominatrici del calcio belga, vincendo trofei uno dietro l’altro. Nella stagione 1947/48 maglia malva con collo a V bianco nel periodo estivo, maglia malva con maniche bianche e collo a camicia bianco chiuso da laccetti nei mesi freddi, pantaloncini bianchi e calzettoni malva con risvolto bianco. Nella stagione successiva viene indossata una maglia malva con ampio scollo a V con collo a camicia bianco e maniche bianche, pantaloncini bianchi e calzettoni malva con risvolto bianco. Nella stagione 1950/51 un’elegante camicia completamen-


te malva con polsi e collo a camicia di colore bianco ma la stagione successiva si torna alle maniche bianche, lo stile è definito anche se nel corso delle stagioni si alternano maglie con colli diversi. Nel gennaio 1960 esordisce, a 16 anni e 3 mesi, Paul Van Himst, sarà il giocatore più rappresentativo dell’Anderlecht e del calcio belga. Nel 1960/61 e nelle due stagioni seguenti maglia completamente malva con collo a camicia bianco, pantaloncini bianchi e calzettoni malva con bordo bianco, lo stemma del club è ormai una presenza fissa. Maglia completamente malva con collo a V nei mesi caldi. Nel 1963/64 maglia malva con bordi bianco con collo a polo, i calzettoni diventano bianchi con bordini malva, la stagione seguente elegante collo a polo bianco, bianca anche la parte anteriore del collo. Nel 1965/66 compare per la prima volta il logo del fornitore, la britannica Fred Perry, maglia malva con collo a polo bianco e polsini sempre bianchi, la stagione successiva alternanza di maglie Le Coq Sportif nelle stagioni calde, maglia con collo bianco a V e Fred Perry nei mesi invernali. Fino all’inizio degli anni 70 si alternano diversi tipi di divise, sempre con maglia malva e bordi bianchi. Nel 1970 i Biancomalva raggiungono la finale di Coppa delle Fiere, vincono l’andata in casa per 3-1 ma soccombono ad Highbury 0-3 contro l’Arsenal. Dalla stagione 1972/73 il bianco diventa il colore principale, lo Sporting adotta una divisa completamente bianca con inserti viola, il blu ed il viola erano colori molto diffusi nel calcio belga e lo Sporting optò per il bianco in modo da distinguersi dalle altre squadre e risparmiare sull’uso delle divise alternative, al tempo le squadre pagavano l’abbigliamento e ogni modo era buono per risparmiare. Nella stagione 1973/74 compare sulla maglia il primo sponsor commerciale, è il birrificio Belle-Vue di proprietà del presidente dello Sporting Constant Vanden Stock, maglia bianca con doppio bordo malva, pan-

1956 1957

1958 1959

1960 1961

1961 1962

1965 1966 49


E

AL ECI

SP

ie agl

he oric

cht

rle nde

-A

St

M

50

taloncini bianchi e calzettoni bianchi con bordini malva. La stagione successiva compare il logo del fornitore tecnico, la francese Adidas che da questa stagione veste il sodalizio di Anderlecht, la maglia è bianca con collo a girocollo e polsi malva, le tre strisce adornano le maniche e i pantaloncini. Nel 1975/76 i bordi diventano bianchi, collo a V o a girocollo a seconda della stagione climatica, il 5 maggio 1976 lo Sporting conquista il suo primo trofeo europeo battendo il West Ham United 4-2 sul campo dell’Heysel nella finale di Coppa delle Coppe. Nelle due stagioni successive le divise rimangono uguali e la squadra arriva altre due volte in finale di Coppa delle Coppe, l’11 maggio 1977 perde con l’Amburgo ad Amsterdam mentre il 3 maggio 1978 travolge l’Austria Vienna, 4-0 il risultato, a Parigi,

in un’inedita finale tra due squadre che vestono il colore viola. Ormai l’Anderlecht è una squadra di prima grandezza nel panorama europeo. Nell’estate del 1977 l’Anderlecht partecipò ad un torneo in Marocco, tra le altre c’era anche l’Al-Ain FC, club di Abu Dhabi. I dirigenti del club degli Emirati rimasero affascinati dalle divise malva dei Belgi e decisero di adottarne i colori, fino ad allora giocavano in rosso. Nel 1981/82 radicale cambio stilistico, la Adidas propone una maglia bianca con collo a camicia malva chiuso da un triangolo bianco davanti, e righine malva in stile gessato sul busto, cambia anche lo sponsor commerciale, sul petto compare il logo della Generale Bank, pur con cambi di nome dovuti a mutamenti di proprietà questo è ancora lo sponsor commerciale del club. Nel maggio 1983 i Malva


vincono la Coppa UEFA battendo in finale il Benfica, 2-1 il totale del doppio confronto, la stagione successiva altra finale di Coppa UEFA ma i Belgi sono sconfitti dal Tottenham ai rigori. Nella stagione 1984/85 nuova divisa, la maglia è bianca con collo a camicia bianco, strisce orizzontali malva nella parte alta del busto e strisce sottili nel resto della maglia, pantaloncini e calzettoni sempre bianchi. Nelle stagioni 1985/86 e seguente, maglia completamente bianca con collo a camicia e polsini malva, un inserto sempre malva separa le maniche dal busto. Nel biennio 1987/88 e seguente maglia simile ma gli inserti sulle spalle sono due, per la stagione 1989/90 e le due seguenti ancora un piccolo cambiamento agli inserti all’altezza delle maniche. Il 9 maggio 1990 l’Anderlecht gioca la sua ultima finale europea, venendo sconfitto dalla Sampdoria a Göteborg nella finale di Coppa delle Coppe incassando due reti nei tempi supplementari. Dal 1992/93 la Adidas propone un nuovo modello di maglia per ogni stagione, il modello è unico per tutto la stagione senza le due versioni estiva e invernale. Pur sotto l’impulso del merchandising e l’impronta dello sponsor tecnico, la divisa mantiene sempre uno stile classico con il bianco come colore dominante con inserti malva più o meno vistosi. Dalla stagione 2014/15 il malva ritorna il colore principale seppur con varianti stilistiche rispetto al passato, prima una maglia con fascia bianca diagonale, nel 2015/16 larghe righe orizzontali, la stagione successiva una vistosa V sul petto con una sfumatura dal lilla al bianco e nella stagione attuale tinta unita con sette strisce verticali bianche molto sottili. La seconda maglia dello Sporting tradizionalmente è stata di colore opposto alla maglia principale, eccezioni negli anni ‘50, la prima maglia aveva le maniche contrapposte mentre la maglia da trasferta era a tinta unita. Nel 1961/62 molto bella la maglia con

1967 1968

1968 1969

1972 1973

1973 1974

1975 1976 51


E

AL ECI

SP

ie agl

he oric

St

M

52

cht

-A

rle nde


vistosa fascia diagonale malva. Negli anni 2000 si sono viste divise da trasferta di colori non tradizionali, giallo, azzurro, nero, rosa e verde acido, sempre comunque con un disegno sobrio. La maglia dei portieri dell’Anderlecht non ha mai avuto un colore definito, molto belle le divise completamente nere degli anni sessanta, spesso con colletto malva. Negli ultimi anni rosso, blu e verde sono andati per la maggiore. Nel marzo 2018 la famiglia Vanden Stock, al timone del club dal 1971 al 1996 con Constant e successivamente con il figlio Roger (il primo a diventare presidente del club senza esserne stato in precedenza giocatore), lascia la proprietà dello Sporting a Marc Coucke, proprietario del gigante farmaceutico Omega Pharma. Uno stemma compare per la prima volta sulle maglie nel 1950/51, anche se non è lo stemma sociale vero e proprio. Alla fine degli anni ‘50 compare lo stemma ufficiale, uno scudo contenente uno stemma complesso composto dallo stemma araldico di Anderlecht (San Guido su fondo blu intenso), due rami d’alloro a simboleggiare il prestigio del club, il motto “Mens sana in corpore sano” ed il vecchio logo composto da due cerchi (uno bianco e l’altro malva) con il monogramma SCA ed una corona. A partire dalla stagione 2010/11, vennero inserite tre stelle al di sopra del logo a significare i trenta campionati vinti. Il 21 settembre 1931, a Bruxelles viene fondato il Webb Ellis Rugby Club, rinominato nel 1933 Brussels Rugby Club, dal 24 marzo 1935 diventa la sezione calcio del RSCA. Giocando in malva e bianco diventerà il club più titolato del Belgio, anche se negli ultimi anni ha dovuto accontentarsi di giocare in seconda serie. Nel catalogo HW del Subbuteo l’Anderlecht è il numero 55, classica maglia malva con pantaloncini bianchi e calzettoni malva.

1982 1983

1993 1994

2000 2001

2015 2016

2017 2018 53


reportage SPAL-JUVENTUS di Sergio Stanco

Una pagina di storia Abbiamo assistito all’incredibile 0-0 tra Spal e Juve allo stadio Mazza. Questa è la storia di una serata indimenticabile.

A

rriviamo al Paolo Mazza ad un’ora dall’inizio del match, cosa che a San Siro non riusciresti neanche ad avvicinarti. Parcheggiamo sotto la tribuna, praticamente. Parcheggi auto a volontà, rastrelliere - invece - imballate come non mai: già, perché a Ferrara allo stadio si va rigorosamente in bici, papà, mamme, bambini e finanche nonni e bisnonni (l’abbiamo visto con i nostri occhi). E tutti rigorosamente con la sciarpa biancazzurra al collo. Segno distintivo, d’orgoglio, di appartenenza. Il 17 marzo del 2018, infatti, anche chi credeva di vivere solamente un sogno, ha realizzato che è tutto vero: non solo la Spal è tornata in Serie A, ma addirittura se la gioca ad armi pari con la Vecchia Signora. Ma a questo ci arriveremo. La gara con la Juve, però, è di fatto l’appuntamento atteso dai tifosi spallini che c’erano quell’ultima gara di 50 anni fa, ma anche da tutti quelli che quella gara non se la possono

54


Credit Foto - Liverani

55


reportage SPAL-JUVENTUS ricordare. C’è aria d’attesa, ma soprattutto di festa, quasi di incredulità e stupore: gli abitanti di Ferrara restano incantati davanti al pullman dei marziani, che è talmente grande e futuristico che deve fare dieci manovre per entrare nel cancello del “piccolo” Mazza. Uno stadio a misura d’uomo che, da romantici del calcio quali siamo, ci fa quasi commuovere. Ricorda un po’ il Craven Cottage di Fulham, con i suoi seggiolini in legno e il pallone che finisce nel Tamigi se si sbaglia di tanto la mira. Qui si rischia di farlo finire in Piazza del Municipio, tanto lo stadio è in cen-

SPAL-Juventus 0-0

SPAL-Juventus 3-1

Venerdì 17 marzo 2018 - Ferrara Stadio Paolo Mazza SPAL: Meret; Cionek, Vicari; Felipe; Lazzari, Grassi, Schiattarella, Kurtic, Costa; Paloschi, Antenucci. All. Semplici Juventus: Buffon; De Schiglio, Rugani, Chiellini, Asamoah; Pjanic, Matuidi; Douglas Costa, Dybala, Alex Sandro; Higuain. All. Allegri Arbitro: Massa di Imperia Spettatori: 13.135

Domenica 10 febbraio 1957 - Ferrara Stadio Comunale SPAL: Bertocchi; Delfrati, Lucchi; Costantini, Vinyei, Dal Pos; Broccini, Di Giacomo, Firotto, Sandell, Dido. All. Tabanelli Juventus: Vavassori; Corradi, Robotti; Emoli, Nay, Oppezzo; Antoniotti, Colombo, Boniperti, Conti, Stivanello. All. Puppo Gol: Broccini (S) al 32°, Sandell (S) al 42°, Stivanello (J) al 43°, Di Giacomo (S) all’84° Arbitro: Perego di Milano Spettatori: 12.000

tro. Fa capolino tra le case e i giardini pubblici, non ti rendi conto di esserci fino a quando non ti compare di fronte, dal nulla, in tutta la sua “imponenza”. Che l’appuntamento sia di gala lo celebrano anche le sciarpe commemorative in vendita lungo la strada: Spal-Juve – 17/03/2018 – Serie A. Non serve aggiungere molto altro. Nel nostro tragitto verso lo sportello accrediti ci imbattiamo nello Store ufficiale, nel quale campeggiano ancora le bandiere “siAmo tornAti”. C’è la maglietta del Capitano Antenucci, che in settimana ha pure rinnovato il contratto e ha un motivo in più per festeggiare, ma anche sciarpe personalizzate, tazze, bottiglie di spumante e ogni genere di

56

memorabilia di un’annata che difficilmente i tifosi spallini dimenticheranno. Proprio come la serata del 17 marzo. “Oh, questi non prendono un gol da Natale, ti rendi conto?”, urla un vecchietto in bicicletta al “collega” che lo “scorta”. “Pazzesco. Non so come finirà stasera, ma la vedo male”. Tutto, ovviamente in dialetto locale, perché da queste parti certe buone abitudini reggono ancora, per fortuna. Le code agli ingressi sono infinite, ma un po’ d’attesa è nulla di fronte all’eccitazione di essere presenti all’appuntamento con la storia. Entriamo e saliamo direttamente sugli spalti,

già piuttosto gremiti. La Curva Ovest trabocca d’entusiasmo. “Non camminerai mai sola”, il messaggio inequivocabile inviato dai tifosi alla propria squadra che campeggia su un enorme striscione in balaustra. Dall’altra parte, nel settore Juve, si respira quasi aria di gita fuori porta, un misto tra l’essere spaesato e l’imbucato della festa. “Oggi prendiamo un’imbarcata”, si sente da una parte. “Stasera si vince facile”, dall’altra. E’ convinzione generale che la gara del Paolo Mazza per la Juve sia semplicemente un’appendice a completamento delle dodici vittorie consecutive in campionato e con il fiore all’occhiello di una qualificazione ai quarti di Champions ottenuta con una vitto-


PAOLO MAZZA, MOLTO PIÙ DI UN PRESIDENTE

Artefice degli anni d’oro della SPAL, ma anche c.t. della Nazionale

di Luca Gandini

Il principe del giornalismo sportivo di casa nostra, Gianni Brera, lo definiva così, dalle pagine del suo “Storia Critica del Calcio Italiano”: “Paulòn Mazza, factotum della SPAL, vecchio leone della pedata provinciale. A suo tempo ha giocato; poi ha allenato; infine ha presieduto e diretto”. In pratica, per trenta lunghi anni, Paolo Mazza è stato la SPAL. Titolare di un’avviata azienda di materiale elettrotecnico nel centro di Ferrara, ha legato il suo nome all’epoca più gloriosa della società estense, coincisa con le sedici stagioni in Serie A dall’inizio degli anni ‘50 alla fine degli anni ‘60 e culminata con il quinto posto del campionato 1959/60 e con la finale di Coppa Italia raggiunta nel 1961/62 e persa contro il Napoli. Sotto la sua gestione hanno vestito la maglia biancazzurra alcuni tra i personaggi più rappresentativi del calcio italiano, da Osvaldo Bagnoli a Fabio Capello, da Armando Picchi a Ottavio Bianchi, passando per colui che tuttora detiene il record di presenze e reti in Serie A con il club emiliano, l’attaccante argentino Oscar Massei. Grazie alle competenze tecniche e all’amicizia con l’allora presidente della Federcalcio Giuseppe Pasquale (ferraresi entrambi), Mazza ha fatto parte insieme all’ex campione del mondo Giovanni Ferrari della commissione tecnica incaricata di guidare la Nazionale al Mondiale di Cile ‘62, spedizione poi risoltasi in un fiasco anche a causa di un arbitraggio non proprio favorevole nel match contro i cileni padroni di casa. Paolo Mazza è scomparso nel 1981 e a lui è dedicato lo stadio che ogni domenica fa da cornice alle avventure di quella che qualcuno chiama ancora Società Polisportiva Ars et Labor. L’impianto, però, sorge nel 1928 ed è il quinto per anzianità tra quelli ancora in uso. E’ localizzato nella zona Ovest di Ferrara, ma all’interno delle mura cittadine, una rarità, visto che spesso gli stadi sono confinati nelle periferie. Originariamente la capienza era di 4mila spettatori ma con il tempo e vari ampliamenti si è arrivati fino all’attuale 13.135, il minimo “sindacale” per ospitare incontri di Serie A, quanto meno in deroga. Il Paolo Mazza è uno stadio all’inglese, esclusivamente pensato per il calcio (anche questo una rarità ai tempi della costruzione), con quattro settori autonomi (Tribuna Sud, Gradinata Nord, Curva Est e Curva Ovest) non collegati tra di loro. Una curiosità: il fatto di essere un impianto pensato per il calcio, non ha impedito di ospitare importanti eventi “alternativi”: nel 2013 e nel 2014, infatti, il Paolo Mazza è stata la sede della finale di Superbowl del campionato italiano di Football Americano.

57


reportage SPAL-JUVENTUS ria prestigiosa nel magico Wembley. In tribuna c’è anche una vecchia gloria Juve a seguire la partita, si ferma a parlare con i giornalisti presenti: “Questa squadra ricorda la mia – dice convinto - che magari non giocava bene, ma vinceva sempre. Anche quando i big decidevano di riposarsi, portavamo a casa la pagnotta con un gol di Cabrini, uno di Scirea, uno mio. E’ così, quando hai una squadra di campioni è tutto più facile. Questi hanno Higuain, Dybala, Douglas Costa. Mandzukic va addirittura in panchina. Ma di che stiamo parlando? Non c’è partita”. Le squadre, intanto, scendono sul terreno di gioco e quando i guantoni di Buffon escono dal tunnel degli spogliatoi, manca poco che venga giù lo stadio. Applausi fragorosi da ogni settore, nessuno escluso. Dalla curva bianconera parte “C’è solo un capitano”, ma anche dagli spalti biancazzurri è un’ovazione per il portierone azzurro. D’altronde, fino a un paio di anni fa, chi si sarebbe immaginato di vedere SuperGigi dal vivo al Paolo Mazza? Che sia praticamente un sogno diventato realtà lo vedi sulle facce emozionate dei bambini, ma anche su quelle commosse dei loro nonni, che si sono fatti anni di C e di fallimenti

58

“SPAL”LATA ALLA VECCHIA SIGNORA

Risale al lontano 1957 l’unica vittoria sulla Juventus di Luca Gandini È una sfida insolitamente da metà classifica quella che domenica 10 febbraio 1957 contrappone SPAL e Juventus, seconda giornata di ritorno del campionato 1956/57. Un po’ per merito della SPAL, che in casa ha già superato Inter, Lazio, Napoli e Torino; molto per demerito della Juventus, che nonostante una rosa di alto livello, capitanata dal fuoriclasse Gian Piero Boniperti, non riesce proprio a rialzare la testa dopo il dodicesimo posto della stagione precedente. Nonostante un terreno di gioco al limite della praticabilità a causa della pioggia, la sfida è molto divertente e ricca di capovolgimenti di fronte. Apre le marcature al 32° lo spallino Broccini, la cui conclusione è leggermente deviata dal bianconero Oppezzo. Al 42° raddoppio degli emiliani grazie al tocco ravvicinato dello svedese Sandell, ma solo un minuto dopo la Juve accorcia le distanze con Stivanello, agevolato da una colossale disattenzione difensiva della SPAL. Gli estensi chiudono però il conto all’84° con una magistrale punizione del futuro interista Di Giacomo. A fine stagione SPAL e Juventus chiuderanno none a quota 33 punti, cosa che convincerà la società bianconera ad un importante intervento sul mercato, con l’acquisto dei (costosissimi) campioni stranieri John Charles e Omar Sívori, preludio ad una rinnovata stagione di successi.


per godersi questo momento. E sono loro che scandiscono il tempo: “Oh, siamo ancora 0-0, dai che ce la facciamo”. E poco importa che la partita debba ancora iniziare. Prima del quarto d’ora Schiattarella rifila una “carezza” a Dybala, che è costretto a farsi medicare il labbro a bordo campo: “Allegri cambialo che non sta in piedi”, il suggerimento divertito e interessato di un allegro anzianotto agghindato in biancazzurro che scatena l’ilarità generale. A fine primo tempo, col risultato inchiodato sullo 0-0, un altro buontempone ha un suggerimento per l’arbitro: “Oh, ma non te l’hanno detto che oggi la partita durava 45’? Devi fischiare tre volte!”. Ma con il primo tempo già andato, e una Spal arrembante che ha fatto sognare i suoi tifosi, c’è qualcuno che comincia a nutrire qualche timida speranza: “Chissà, magari un bel pareggino…”. Intanto anche lo speaker partecipa al clima di festa: “Scusate, vi comunico il numero degli spettatori: lo stadio ne contiene 13.000, bene stasera siamo 13.315. Non so bene da dove arrivino questi 315, ma comunque è record assoluto!”. E tutto lo stadio scoppia prima a ridere e poi ad applaudire. Nel secondo tempo la Juve cresce e la Spal, che ha corso tantissimo, comincia ad accusare. Gli uomini di Semplici, però, vestono le corazze dei gladiatori e respingono tutti gli assalti. Higuain è spaurito al cospetto di un mastodontico Vicari, Schiattarella per una

sera sembra la bella copia di Pjanic e Antenucci e Paloschi rincorrono gli avversari come pitbull incarogniti. E infatti quando il mister li richiama in panchina per immettere forze fresche, lo stadio riserva loro una meritatissima standing ovation. Allegri si gioca pure il jolly Mandzukic, ma anche il gigante croato rimbalza contro la diga eretta dagli spallini. Non siamo ancora al 90’, ci saranno ancora i minuti di recupero, ma tutto il Paolo Mazza biancazzurro comincia a recitare un mantra collettivo: “Fischia, fischia, fischia”. Perdere così sarebbe davvero troppo. E invece, dopo 5’ di extra time, Massa fischia davvero. Tre volte. Ed è l’apoteosi. La gente di Ferrara si abbraccia ed esulta come avesse vinto la Champions League. “Abbiamo fatto la storia”, “Questi sono sei punti per noi”, “Io ancora non ci credo”, alcuni dei commenti rubati all’uscita in coda sulle scale. E se Walter Mattioli, da 66 anni tifoso della Spal e dal 2013 presidente dei biancazzurri, a fine partita dice “E’ il momento più bello da presidente”, ci potete davvero credere. Più della promozione in B, più della A, più della vittoria nel derby contro il Bologna, più di tutto. E allora, uscendo dal Paolo Mazza ormai svuotato, e in una Ferrara ormai assopita, ci riecheggiano nelle orecchie le parole dell’ex campione bianconero: “Non c’è partita”. Già, appunto. Ed è per questo che il calcio non è “solo” uno sport. E’ “semplicemente” magia.


IO

C L A C L E D I T GIGAN Enrico Chiesa

di Pierfrancesco Trocchi

60


AL CUOR

NON SI COMANDA Intervista ad Enrico Chiesa, indimenticato campione tra le altre di Sampdoria, Parma e Fiorentina.

C

osa ci rimane alla fine dei conti, quando ci sediamo stanchi, quando ci avvolge la tregua serale, quando guardiamo il cielo? L’amore, soltanto l’amore. L’impressione che abbiamo, intervistandolo e rileggendo emozionati la sua carriera, è quella che Enrico Chiesa abbia compiuto ogni sua scelta seguendo il cuore, a volte gonfio di vita, a volte infranto. Il calcio è ciò che ama di più fare ed è anche grazie a lui se non riusciamo a guardare un pallone senza farci assalire dalla dolce e prepotente voglia di calciarlo. Parlando di amore, credi di aver ricevuto quanto meritavi? “Non penso di avere qualcosa di recriminare. Forse, l’infortunio a trent’anni, nel momento migliore della mia carriera, ha spezzato qualcosa. C’è un po’ di rammarico, ma se penso da dove sono partito…” Mignanego, provincia di Genova. “Esatto. Avevo tanta volontà di crescere, soprattutto dopo la morte di mio padre, quando avevo solo 18 anni. Il dolore mi ha aperto la possibilità di confrontarmi con il mondo, di

diventare un giocatore e un uomo migliore”. Era diverso essere un giovane promettente negli anni ’80? “Non credo che fosse meglio o peggio. Se uno è bravo, è bravo e viene fuori, prima o poi”. Cosa ti ha fatto scattare la voglia di diventare un calciatore? “Io ho sempre avuto un’enorme passione per il calcio: semplicemente, ero bravo e ho cercato di diventare un giocatore. Non mi sono mai chiesto se ce l’avrei fatta o meno, giocavo per divertirmi ed avere successo tramite la gioia di giocare”. La tua prima squadra è il Pontedecimo, poi la Samp. Un bel salto. “Sì, sono stato catapultato in un universo opposto. La primavera doriana, una delle migliori in Italia allora, mi aiutò parecchio, ma ancor di più mi fecero crescere i successivi prestiti a Teramo e a Chieti. Lì capii che non sarebbe stato facile”. C’è da dire che la Sampdoria ha gestito molto bene la tua esplosione. “Sì, hanno avuto la forza di credere in me,

61


CIO

CAL GIGANTI DEL Enrico Chiesa

di tenermi sempre una porta aperta. Io fui bravo a migliorarmi, facendo bene nei successivi prestiti a Modena in B e alla Cremonese in A, dove feci 14 goal. A quel punto, tornai in blucerchiato”. Trovare posto in quella Samp non era un gioco da ragazzi… “C’erano Karembeu, Seedorf, Mancini, Mihajlovic, poi Eriksson in panchina: era una squadra costruita per giocare bene, che poteva fare 2-3 goal a partita. Sarebbe potuta diventare forte come la Samp di Vialli e Mancini, ma le cessioni lo impedirono”. Il segreto erano i Mantovani? “C’era un ambiente molto tranquillo per tutti, grazie al tifo e, soprattutto, a loro, che riuscivano a portare un clima familiare, senza le pressioni delle altre piazze. Un giovane era messo nelle migliori condizioni per fare bene”. Così si direbbe, visti le 22 reti in 27 presenze nella stagione 1995/96. Poi la cessione, inaspettata, al Parma di Tanzi. “C’erano diverse proposte, i ducali offrirono più degli altri. Incontrai il presidente Mantovani e decidemmo insieme per il bene comune”. Una decisione fruttuosa, visto il tuo triennio parmense. È la squadra più forte in cui tu abbia mai giocato? “A Parma eravamo giovani ed esperti assieme, in quanto la maggior parte di noi aveva tra i 25 e i 28 anni. Eravamo molto uniti anche fuori dal campo, in allenamento ci divertivamo davvero tanto pur essendo molto competitivi, nessuno voleva perdere la partitella. In rosa c’erano tanti giocatori di personalità, la vittoria della Coppa UEFA fu una conseguenza”. Una bella cavalcata. “Eravamo una delle squadre più forti a livello internazionale, a mio parere. Nella

stessa settimana vincemmo Coppa Italia e Coppa UEFA, mentre in campionato finimmo quarti. Sono risultati che confermano quanto la nostra mentalità fosse salda e vincente, oltre al talento di cui disponevamo”. Malesani fu il vostro condottiero. “Fu bravo a farci giocare al meglio delle nostre possibilità tattiche e mentali su tre fronti molto difficili. Ai tempi delle Sette sorelle ogni partita di campionato era uno scontro diretto, c’erano differenze minime tra le squadre. Una partita sbagliata poteva compromettere una stagione intera”. Nel 1999 lasci l’Emilia per approdare alla Fiorentina. “Io non avevo intenzione di andare via, avevamo appena vinto due trofei e stavo bene a Parma. Tra le opzioni, quella di giocare in Toscana mi sembrò la più opportuna. Sono tuttora molto felice di questa scelta, perché Firenze è una città bellissima, tanto che ci vivo ancora oggi”. In viola giochi per la prima volta la Champions. “Sì, fin dai preliminari, tra l’altro affiancato da grandi giocatori. Purtroppo, nell’ultimo dei tre anni a Firenze mi ruppi il legamento del ginocchio destro, fatto che mi obbligò a rivedere i miei programmi”. Anche perché nel 2001 la Fiorentina fallisce e finisce in C2. “Così decisi di seguire Mancini, che era stato mio compagno e poi allenatore negli ultimi mesi a Firenze. Mi offrì la possibilità di andare alla Lazio ed io accettai. Ero davvero felicissimo, ma, rientrando dall’infortunio, scendere in campo ogni tre giorni si dimostrò molto stressante per il mio fisico. A fine anno mi resi conto che, per recuperare integralmente, avrei dovuto giocare con

“Quando parlo con mio figlio, mi tolgo le vesti del campione e gli parlo esclusivamente da padre”

62


RE DI COPPE Chiesa, ma non solo. Buffon, Thuram, Cannavaro, Crespo sono solamente alcuni dei protagonisti del Parma vincitore della Coppa UEFA 1998/99, ultima edizione ad avere un’italiana come finalista o campione. I gialloblu, guidati da un giovane Malesani, iniziano dai trentaduesimi, dove regolano il Fenerbahçe, per poi proseguire con la doppia sfida contro il Wisła Cracovia, di cui più dei fatti di campo si ricorda il coltello lanciato dalle tribune dello Stadion Miejski all’indirizzo di Dino Baggio. Agli ottavi i ducali si trovano ad affrontare i Rangers: dopo il pareggio di Ibrox, il 3 a 1 del Tardini lancia il Parma dritto ai quarti, dove c’è il Bordeaux. In Francia arriva la prima ed unica sconfitta del torneo, ma in Emilia gli uomini di Malesani recuperano con un fenomenale 6 a 0, punteggio a cui Chiesa contribuisce con una doppietta. A questo punto, a dividere i gialloblu dalla finale rimane solo l’Atletico Madrid, sorpreso nel vecchio Calderòn da un Parma in versione deluxe, capace di punire i colchoneros per 3 a 1 grazie anche ad uno splendido pallonetto da fuori area di Chiesa. La vittoria nel rematch in Italia è quasi una formalità per una squadra che, trainata dai goal di Crespo e dello stesso Enrico, è ormai indirizzata verso la vittoria finale. Il palcoscenico è quello dello Stadio Lužniki di Mosca, l’avversario quel Marsiglia che ha appena estromesso il Bologna dalla competizione. Non c’è storia, perché i ducali fanno il bello e il cattivo tempo per un 3 a 0 finale con l’ultima rete firmata da Chiesa, che si laurea capocannoniere con 8 goal. Il Parma è campione, giusto riconoscimento per una squadra di straripante talento.

continuità in un altro contesto”. Ed ecco ancora la Toscana: Siena. Una scelta trasversale? “No, come ho appena detto credo che un calciatore debba avere coscienza del proprio fisico. Dovevo avere la possibilità di giocare in un ambiente ricco di entusiasmo, che mi desse nuove motivazioni nella fase “di rigetto” seguente all’infortunio. Siena fu il massimo per la mia testa e per il mio corpo”. Infatti ci rimani 5 anni. “La salvezza era il nostro Scudetto, ero circondato da ragazzi straordinari e da un ambiente davvero positivo, soprattutto grazie alla presenza del presidente De Luca. Ci faceva sentire in famiglia, era il nostro punto di riferimento, tanto che, alla sua morte, decisi di non proseguire in bianconero”. Come alla Samp con Mantovani, per te è sempre stato importante agire in un contesto familiare.

“Sì, perché in ambienti di questo genere è più facile superare le difficoltà. Avevo altre offerte, anche dal Giappone, ma stavo bene a casa, a Firenze, considerato che ci allenavamo a metà strada tra le due città”. Ti sarebbe piaciuto giocare all’estero?

Chiesa si è trovato talmente bene a Firenze da restarci anche dopo essersi ritirato

63


CIO

CAL GIGANTI DEL Enrico Chiesa

“Mi è sempre piaciuto segnare in ogni modo, al volo, di pallonetto, di destro, di sinistro…” UN FIOR DI FIORE Una delle squadre più forti a godere dei servigi di Enrico è stata sicuramente la Fiorentina dell’ultimo Cecchi Gori. Giunto in Toscana nell’estate del 1999, Chiesa trova in spogliatoio un portiere al massimo della forma come Toldo, il genio di Rui Costa e l’irresistibile impetuosità di Batistuta, mentre in panchina la società ha voluto la garanzia Trapattoni. La stagione parte con le migliori premesse e con la volontà di migliorare il terzo posto dell’anno precedente. In campionato non andrà benissimo, in quanto il torneo si conclude con la sola qualificazione alla Coppa UEFA, ma la Champions League rinfrancherà gli animi dei tifosi gigliati. La campagna europea della Fiore inizia già ad agosto, continuando poi in un girone non facile comprendente Barcellona, AIK Solna e Arsenal. È proprio contro i Gunners nella tana dell’Highbury che l’epica viola raggiunge uno dei suoi momenti più significativi: 1 a 0, rete di Batistuta e accesso al secondo gironcino assicurato proprio davanti ai londinesi. Nella fase successiva sarà fatale il pareggio contro il Bordeaux, i quarti restano solo un sogno. In estate Firenze deve affrontare la sanguinosa cessione alla Roma di Batigol, mal compensata dall’ulteriore partenza di Balbo e dalle ingenerose prestazioni di Mijatović. La scena è tutta di Chiesa, autore di 22 reti in campionato e di altre 5 in Coppa Italia, decisive per la vittoria finale contro il Parma. È il primo successo in panchina per un giovane Mancini, l’ultimo per una Fiorentina che nella stagione seguente subirà una retrocessione sul campo e l’onta del fallimento, ripartendo dalla C2 con il nome di Florentia Viola.

64

“Dopo l’infortunio ricevetti un paio di offerte dall’Inghilterra, ma decisi di rimanere qui. In Italia si sta bene, c’è il sole, vent’anni fa c’erano ancora le quattro stagioni (ride, ndr)”. Il tuo periodo toscano, però, non finisce qui. A 38 anni firmi con il Figline, militante in Lega Pro Seconda Divisione. “L’ultimo anno a Siena giocai pochissimo, volevo smettere. Un mio amico, però, mi propose di giocare a Figline, a un quarto d’ora da casa e non seppi resistere. Fu una bella esperienza, con grande entusiasmo”. Immagino la faccia di giocatori arrivati dalla Serie D quando si sono visti entrare in spogliatoio un certo Enrico Chiesa… “Appena arrivato, ho subito detto loro: “Tranquilli, io ho 38 anni, adesso siete voi ad essere più forti di me” (ride, ndr). Portai un po’ di esperienza, capii quanto bisognasse ancora lavorare per essere pronti fisicamente, senza dare nulla per scontato. Fu la chiusura di un cerchio, tornai dove avevo incominciato con il Teramo”. A 40 anni saluti il calcio, almeno quello giocato. “Decisi di iscrivermi ai corsi di Coverciano e, così, diventai allenatore. Prima gli Allievi della Sampdoria, poi per due anni la Primavera; tornai a casa mia, fu bello stare con i ragazzi”.


Simoni l’ha sempre apprezzato molto, lo voleva all’Inter con Ronaldo

Poi decidi di aspettare una chiamata da una squadra di “grandi”. “Come succede spesso, tutti ti vogliono e nessuno ti piglia, così rimasi senza panchina. Dopo un anno e mezzo di transizione, passato ad osservare decine di partite, ecco l’offerta della Federazione per diventare responsabile del Centro federale territoriale di Firenze, il primo aperto in Italia”. Di che esperienza si tratta? “Abbiamo più di cento ragazzi, tra i 13 e i 14 anni, introdotti in un percorso notevole, che regala una formazione completa. Vedo grande dedizione e professionalità non solo da parte nostra, ma anche da coloro che sono preposti a controllare il nostro operato”. È importante per la Nazionale, in questo frangente storico, ripartire dalle basi. “Cerchiamo di dare il nostro meglio, i ragazzi sono molto entusiasti e tutti noi siamo

impegnati con passione in questo difficile processo di ricostruzione”. Questo è il presente, ma torniamo al passato, ai tuoi goal. Qual è il più bello? “Ce ne sono diversi, forse il primo che ricordo è quello della finale di Coppa UEFA con il Parma, quando feci goal di controbalzo piazzando la palla all’incrocio, vedendo la porta solo di “traverso”. Poi, ricordo la rete di pallonetto che feci nel 1999 all’Atletico Madrid”. Potremmo stare qui giorni a ricordarli tutti: 223 in totale, 138 soltanto in Serie A. “Sì, qualche goal l’ho fatto (ride, ndr). Mi è sempre piaciuto segnare in ogni modo, al volo, di pallonetto, di destro, di sinistro…” Riguardando le tue reti, in effetti, è difficile capire se tu fossi destrimano o mancino. “Fino a 12-13 anni mi piaceva giocare di mancino, non saprei dirti il perché, ma sono un destro naturale. Avendo un’ottima postura, però, potevo calciare spesso di sinistro. La cosa più importante non è la forza del tiro, ma l’equilibrio, la precisione”. E il goal al quale sei più affezionato? “La rete su rigore del 2 a 1 contro il Brescia quando giocavo per la Cremonese, stagione 1993/94. Grazie a quel goal ci salvammo in Serie A, fu qualcosa di indescrivibile”. In panchina c’era Gigi Simoni, che ti ha sempre apprezzato. “Tanto che mi voleva all’Inter per affiancare un certo Ronaldo”. A proposito, forse tra le tue squadre stona l’assenza di un top club. “Sono stato molto vicino a tutte le grandi squadre, ossia l’Inter, il Milan e la Juve, ma non c’è stata la possibilità di un accordo finale. Del resto, ho giocato in club molto importanti con giocatori fortissimi”. Magari ti sarebbe piaciuto giocare per la squadra che tifavi da piccolo. Quale era? “Il Milan, di cui mio zio era tifoso, mentre mio padre era interista. La famiglia, però, era doriana, magari l’altra metà dei parenti era ge-

65


CIO

CAL GIGANTI DEL Enrico Chiesa

noana… C’erano derby ovunque (ride, ndr)”. Ironicamente, il Milan è il club a cui hai segnato di più. “15 goal, sì. In generale, segnavo molto contro le grandi, mi caricavano moltissimo”. A proposito di partite, qual è quella che ti ha emozionato di più? “A Parma ho vissuto tanti momenti significativi, ma ricordo con grande affetto anche gli scontri decisivi per la salvezza a Siena. Quando allenavo nella Samp, insieme agli La cosa più importante non era segnare, altri membri dello staff giovanile giocavo era vivere l’emozione di tagliare un traguar25 partite a stagione, un vero campionato, do tutti insieme”. talvolta scendendo in campo alle 10 di sera Come le due Coppe Italia. con un clima proibitivo. Si percepiva un en“Sì, di cui una vinta nel 1999 con la maglia tusiasmo incredibile tra tutti noi colleghi del Parma contro la Fiorentina e l’altra nel doriani”. 2001 contro il Parma vestendo la maglia Hai mantenuto un buon rapporto con il della Fiorentina: i corsi e i ricorsi del calcio mondo del calcio. C’è stato un mentore (ride, ndr)”. particolare nel tuo percorso? La Fiorentina è importante tuttora, visto “No, ma ho avuto la fortuna di avere avuche hai passato il testimone a tuo figlio to tanti allenatori che si sono dimostrati Federico. Ascolta i tuoi consigli? straordinari. Non è facile seguire psicolo“Quando parlo con lui, mi tolgo le vesti del gicamente i giovani, insegnare loro come campione e gli parlo esclusivamente da pasi devono comportare nello spogliatoio. È dre. I figli devono sempre ascoltare i propri importante soprattutto un’educazione alla genitori e viceversa, non c’è un’età a cui si base, nei campionati minori, per arrivare smette”. pronti in Serie A”. Parlando di smettere, Enrico Chiesa a cosa In conclusione, cosa ti senti si dedica, oltre al lavoro, di consigliare ad un giovane dopo aver concluso la procalciatore? pria carriera? “Ognuno ha la propria storia, “Mi piace fare qualche partita sennò non ci sarebbero i lia tennis, andare in bicicletbri. C’è chi deve scalare una ta, ma soprattutto giocare a montagna, c’è chi ha un’aupallone. Faccio campionati tostrada spianata davanti… UISP, ad esempio, creando È necessario solo questo: squadre con gli amici e alledimostrare chi si è, dando nandomi tutte le settimane”. il massimo giorno dopo giorInsomma, non hai davvero no, affrontando le difficoltà nel smesso, allora. modo migliore per se stessi.”. “Appena ne ho la possibiliNon abbiate paura, sembra tà, gioco. Senza pressioni, dire Enrico, di crescere, di camsoltanto con la passione per biare, di vivere. Il mondo ha un il calcio: è un piacere immenso, mi fa sentire libero. Indimenticabili gli anni passati a Siena luogo per ciascuno di noi.

“Appena arrivato a Figline, ho subito detto ai ragazzi: “Tranquilli, io ho 38 anni, adesso siete voi ad essere più forti di me”

66



I L A I D N O M E SPECIAL Nazionali Africane di Giorgio Coluccia

I sogni dell’Africa

68


è

un tema immancabile nei mesi che precedono il Mondiale. Dove può arrivare il calcio africano? In che termini può soddisfare aspettative ormai eterne? Il dilemma ruota attorno a un salto di qualità che definitivo non è stato mai, sia dal punto di vista della qualità di gioco espresso sia in ottica di risultato finale: nessuna nazionale del continente nero si è mai spinta oltre i quarti di finale. Non sono mancate le eccezioni, il problema è che sono rimaste tali. Prendiamo l’ultimo torneo iridato. Dove eravamo rimasti. In occasione di Brasile 2014, su cinque compagini africane solo due hanno superato la fase a gironi, ma sono uscite subito agli ottavi anche per via di accoppiamenti non certo confortevoli. Da un lato la Nigeria, battuta 2-0 dalla Francia, dall’altro la rivelazione Algeria, per la prima volta nella storia capace di raggiungere la fase a eliminazione diretta, sfidando e dando filo da torcere alla Germania. Zero a zero al 90’, poi è venuta fuori tutta la qualità dei futuri campioni del mondo, vittoriosi per 2-1. Per le volpi del deserto una soddisfazione è rimasta, ma è piuttosto magra in quanto la rete di Djabou segnata a Neuer è la più tardiva mai messa a segno in un campionato mondiale: 120’.51’’ contro i 120’.32’’ di Del Piero nella storica semifinale di Dortmund nel 2006. Guarda caso, di mezzo c’è sempre la Germania. A parte l’exploit della nazionale nordafricana guidata da Halilhodzic, del torneo brasiliano è rimasto poco altro. L’unica menzione spetta a un altro record battuto,

69


ondiali

Speciale M

Nazionali Africane ossia da quell’anno un simbolo come Roger Milla non è il giocatore più anziano ad aver giocato un Mondiale (42 anni e 39 giorni a Usa ‘94), perché è stato superato dal portiere colombiano Mondragon, sceso in campo a 43 anni e 3 giorni nel giugno del 2014 contro il Giappone. Il nome di Roger Milla rimanda al primo vero exploit, a Italia ‘90 un’africana finalmente si dichiarò al mondo. Il Camerun fece strada fino ai quarti di finale, come nessuna squadra di quel continente era mai riuscita a fare in precedenza. A dire il vero l’appellativo di Leoni Indomabili risale a Spagna ‘82, quando la selezione guidata dal francese Jean Vincent uscì dal torneo da imbattuta, alla prima fase a gruppi, pareggiando contro Perù, Polonia e Italia: il terzo match del girone fu decisivo (1-1), passarono gli azzurri di Bearzot con il minimo indispensabile, a parità di punti, ma con un gol in più segnato rispetto ai diretti rivali vestiti di giallo, rosso e ver-

A Brasile 2014, le squadre africane non hanno affatto brillato

70

de. Otto anni dopo l’impatto fu ancora più netto, visto che il match inaugurale di San Siro vide proprio il Camerun assoluto protagonista. Otto giugno 1990, pronti, via e 1-0 rifilato ai campioni in carica dell’Argentina. Oman Biyik decisivo davanti agli ottantamila di San Siro, a restare a bocca aperta fu il mondo intero. In panchina c’era un sovietico di Slavgorod, Valeri Nepomniachi, in porta una leggenda immortale come Thomas N’Kono e in attacco il goleador di Yaoundé, Milla, che si prese la scena alla seconda partita. Doppietta contro la Romania di Hagi, altri due gol agli ottavi contro la Colombia di Higuita e Valderrama, fu un sogno che fece innamorare tantissimi appassionati al ritmo di Makossa, celebre danza dell’attaccante camerunense davanti alla bandierina, rimasta nell’immaginario collettivo. A spezzare la favola fu l’Inghilterra di Bobby Robson, alla quale servirono due rigori siglati da Lineker per avere la meglio ai supplementari (3-2)


L’avventura dell’Algeria a Brasile 2014 si è fermata agli ottavi di finale, eliminata dalla Germania

Il gol del ghanese Gyan contro gli Stati Uniti a Sudafrica 2010

contro la vera sorpresa del torneo, che nessuno si sarebbe mai sognato di pronosticare. Quel Camerun regalò una visione onirica a un continente intero, furono notti magiche anche per loro. A Russia 2018 i Leoni Indomabili non ci saranno, pur avendo vinto l’ultima Coppa d’Africa l’anno scorso, ma rimangono una delle nazionali con più tradizione per quanto riguarda il continente nero. Cinque volte campioni d’Africa, undici palloni d’oro africani e record di ben sette partecipazioni ai Mondiali. Sorprendente fu anche la finale di Confederations Cup nel 2003 (ko in finale contro la Francia, decisivo il golden goal), torneo tristemente noto per la tragica morte in campo di Marc-Vivien Foé. Durante la semifinale con la Colombia, allo Stade de Gerland di Lione, il centrocampista del Camerun contrastò l’interista Cordoba e poco dopo (al 72’) venne stroncato da un attacco

cardiaco, che renderà vani i diversi tentativi di rianimazione compiuti per oltre un’ora negli spogliatoi. Il match decisivo si disputerà in un clima surreale, sulle tribune fece capolino uno striscione: “Un leone non muore mai, dorme”. I lunghi anni di colonizzazione e un presente fatto di popoli e lingue differenti rendono l’Africa una realtà molto variegata e piuttosto frammentata. Per estensione è un continente che viene dopo Asia e America, ma allo stesso tempo ha più stati di tutti (ben 54) e una popolazione che nell’ultimo mezzo secolo si è addirittura quadruplicata: dai 285 milioni del 1960 ha ampiamente superato la soglia di un miliardo di abitanti. Ha cinque squadre garantite a ogni torneo iridato, con l’eccezione di Sudafrica 2010, quando per la prima volta un Mondiale fu organizzato a quelle latitudini e furono sei le compagini a presentarsi al via. In quell’occasione per l’Africa l’Eldorado fu davvero molto vicino, il Ghana si fermò a undici metri da una storica prima volta in semifinale. Nessuno mai era arrivato a tanto così dall’agognato traguardo. Superato il girone per la miglior differenza reti rispetto all’Australia, le Black Stars ebbero la meglio agli ottavi (al 93’) contro gli Stati Uniti per poi vivere un quarto di finale al cardiopalmo contro l’Uruguay, terminato 1-1 al 90’. Supplementari, colpo di scena al 120’: parata di Suarez sulla linea e rigore per

La formazione algerina scesa in campo agli ultimi Mondiali

71


ondiali

Speciale M

Nazionali Africane i ghanesi. Quel pallone scottava come pochi, Asamoah Gyan è il rigorista da sempre, ha sbagliato un penalty solo nel 2012, in semifinale di Coppa d’Africa contro lo Zambia e in Sud Africa ha già segnato dal dischetto contro Serbia e Australia. Segnare questo a Johannesburg vorrebbe dire restare nella storia per sempre, significherebbe entrare tra le prime quattro e regalarsi la sfida contro l’Olanda. Ma il sogno prima s’infrange sulla traversa, poi naufraga del tutto. Il triplice fischio di Benquerenca (sull’1-1 al 120’) porta la sfida alla lotteria dei rigori, qui sbagliano Mensah e Adiyah, mentre Abreu segna col cucchiaio e trascina i sudamericani in semifinale. La nottata per l’undici di Rajevac diventa maledetta, suonano quasi beffardi i record tuttora detenuti dall’ex Udinese Gyan: è il miglior goleador africano ai Mondiali, con sei gol in tre edizioni diverse, ed è anche il miglior marcatore nella storia del Ghana, con 52 centri, davanti a un mito come Abedì Pelé. Dopo quell’epilogo tragi-

Il Camerun, per decenni una potenza africana, è in un momento di profonda crisi

LA PUNIZIONE AL CONTRARIO All’epoca non si chiamava ancora Repubblica Democratica del Congo, in ogni caso ai Mondiali in Germania del 1974 per lo Zaire fu una vera e propria disfatta. Tre sconfitte in altrettante partite, nessun gol segnato e ben quattordici incassati. Di quella selezione si parla ancora, o meglio è rimasto alla storia l’episodio della punizione al contrario in occasione dell’ultima sfida del girone giocata a Gelsenkirchen, contro il Brasile allenato da Mario Zagallo. Al minuto 85, sul punteggio di 3-0 per i verdeoro, Rivelino si appresta a battere una punizione con l’intenzione di arrotondare il punteggio, ma è in quel momento che il calciatore africano Joseph Ilunga Mwepu si sgancia dalla propria barriera e rifila un calcione alla sfera, allontanandola il più possibile. Tutti restano straniti, molti pensano che gli africani non conoscano bene le regole del calcio e Mwepu viene ammonito, come da regolamento. La verità era ben altra, lo Zaire arrivava dal 2-0 subito dalla Scozia e soprattutto dai nove gol rimediati dalla Jugoslavia, che avevano scatenato l’ira del maresciallo-presidente Mobutu Sese Seko, dittatore al potere da oltre trent’anni e che prima della sfida con i brasiliani aveva minacciato i suoi: «Se perdete più di 3-0 nessuno di voi tornerà a casa vivo dopo il torneo». Ecco spiegato il gesto di Mwepu, terrorizzato dal mancino raffinato di Rivelino e dall’incubo del quarto gol, che per i calciatori dello Zaire era diventato una questione di vita o di morte nel vero senso della parola. Come dichiarò tempo dopo lo stesso Mwepu, deceduto per una grave malattia nel maggio 2015: «Prima del calcio piazzato fui preso dal panico e spazzai via la palla. I brasiliani ridevano, ma non capivano cosa noi stavamo provando in quegli istanti».

72


LA GRANDE INCOMPIUTA Il Mondiale organizzato dagli Stati Uniti nel 1994 battezza la prima volta della Nigeria. È un debutto, ma le aspettative sono alte perché appena due mesi prima le Super Aquile hanno vinto la Coppa d’Africa (battendo 2-1 lo Zambia nella finale di Tunisi) e possono vantare una rosa piuttosto interessante. In tanti non hanno nemmeno 25 anni, ma si sono già fatti conoscere. I vari Okocha, Finidi, Oliseh e Amunike sono i punti forti di un gruppo affamato, senza remore e che mette in mostra un calcio frizzante: sconfitta di misura contro l’Argentina, successi netti contro la Grecia e la Bulgaria di Hristo Stoichkov, prima di mettere in difficoltà l’Italia finalista nell’ottavo di Boston. Il colpaccio è quasi realtà, Amunike trafigge Marchegiani, Zola si fa espellere, ma alla fine sale in cattedra in Baggio, che con una doppietta stronca il sogno biancoverde ai supplementari. Stesse aspettative e stesso risultato quattro anni dopo in Francia, dove la Nigeria cede di schianto agli ottavi contro la Danimarca: dopo 12’ è già 2-0, finirà con un 4-1 senza appello. Al Mondiale francese, con le aggiunte di Kanu, West e Babayaro, in panchina c’era il guru per eccellenza, Velibor Milutinovic. “Bora” detiene un record forse inarrivabile: ha allenato cinque nazionali in cinque Mondiali diversi. Il Messico nel 1986, la Costa Rica nel 1990, gli Stati Uniti nel 1994, la Nigeria nel 1998 e la Cina nel 2002. Sull’esperienza africana, tempo dopo, alla stampa ha dichiarato: «Nacque tutto per caso, fui contattato dai dirigenti nigeriani durante il sorteggio della fase finale e colsi al volo la sfida. Rischiai subito di essere cacciato, ma la morte del presidente della Nigeria, Sani Abacha, paralizzò ogni cosa e così in Francia ci divertimmo. La gara con la Spagna fu bellissima, rimontammo due volte e vincemmo 3-2, ma poi contro i danesi sbagliammo approccio e finì tutto troppo in fretta».

co a livello sportivo scrisse una lettera alla Nazione intera: «Ho pianto tutta la notte. Non per me, ma per i miei fratelli africani che credevano in me. Ero io che potevo regalargli quel momento storico, quella festa interminabile. Al momento del rigore ho preso un respiro e mi son detto: calcia forte e poi urla tutta la rabbia che c’è in te. Ci ho provato, credetemi, ma purtroppo è andata come sapete. Ho anche pregato, mi son detto: non è finita, adesso vinciamo ai rigori, sono andato subito a battere il primo e avete visto come l’ho calciato bene. Poi però i miei fratelli Mensah e Adiah non ce l’hanno fatta, ma la colpa era tutta mia. Bastava segnare il rigore giusto. Non me lo perdonerò mai». Meno strabiliante, ma altrettanto storica è stata la cavalcata del Senegal nel 2002, al Mondiale ospitato da Corea e Giappone. La formazione di Bruno Metsu, che amava defi-

nirsi come “un bianco dal cuore nero”, arrivò fino ai quarti di finale dopo aver fatto parlare di sé grazie alle gesta di Fadiga, Camara, El Hadji Diouf e Bouba Diop. Quest’ultimo si prese la scena al debutto, sembrò di rivedere il Camerun di dodici anni prima con i Leoni della Teranga capaci di sbalordire già al match inaugurale: a cadere furono i campioni in carica della Francia, il rocambolesco gol sotto porta diede il via ai rinomati balletti attorno alla maglia del numero 19 Diop, nei pressi della bandierina. Folclore sulle tribune, entusiasmo e spensieratezza in campo, il Senegal pareggiò con la Danimarca e poi anche con l’Uruguay, dopo essere andato avanti per 3-0 in 38’ minuti ed essere stato riacciuffato dal rigore di Recoba a due minuti dalla fine. Palpitante anche l’ottavo di finale contro la Svezia, iniziato in salita per un gol del solito Larsson e finito in gloria ai supplementari grazie alla doppietta di Camara, at-

73


ondiali

Speciale M

Nazionali Africane

74


Il Ghana, nel 2010, ha sfiorato l’accesso alle semifinali

taccante tuttora in attività, in terza divisione greca con lo Ionikos. Quel Senegal si fermò contro la Turchia, per il golden gol ai supplementari di Ilhan Mansiz. Cambia l’esecutore materiale, ma resta immutato il vero snodo insuperabile di un intero continente. Sempre i quarti di finale. La prima squadra africana a partecipare a un Mondiale fu l’Egitto nel 1934 (eliminazione al primo turno dopo il 4-2 incassato dall’Ungheria), mentre la competizione disputata in Inghilterra nel 1966 è rimasta alla storia come l’unica boicottata da un intero continente. Dall’Africa, appunto. Il pomo della discordia fu rappresentato dai posti disponibili al torneo per le sedici partecipanti, che la Fifa decise nel gennaio del 1964 e assegnò in questo modo: dieci alle squadre europee, quattro al Sud America e uno al Nord-Centro America, lasciando un solo slot a essere conteso tra Africa, Asia e

Oceania. I rappresentanti calcistici del continente nero assunsero subito toni riottosi, il ghanese Ohene Djan (membro del Comitato Esecutivo della Fifa) gridò allo scandalo e reclamò almeno un posto garantito. Non affidato a estenuanti e incerte qualificazioni. Prese posizione anche la Caf (Confederation Africaine de Football), che nel luglio 1964 ratificò il boicottaggio e chiuse ogni trattativa senza la garanzia di quel posto reclamato ad alta voce. Alla fine il pass se lo prese la Corea del Nord di Pak Doo-Ik, tristemente nota per noi italiani, mentre la battaglia africana nel lungo periodo sortì gli effetti sperati. Nel 1968 all’unanimità furono votati due posti garantiti per Asia e Africa. Così dal 1970 il continente nero è sempre stato presente a un Mondiale di calcio. A giugno, in Russia, toccherà a Senegal, Tunisia, Egitto, Nigeria e Marocco. L’eterna sfida sta per riproporsi: superare i quarti di finale.

75


?

TI I N I F O N O S DOVE Giovanni Cervone

di Stefano Borgi

A PORTE CHIUSE

Credit Foto - Liverani

Carattere guascone, poco incline al compromesso, Giovanni Cervone reclama un posto nel calcio. E da portiere, rimpiange le “Notti magiche...�

76


D

i primo acchito, il titolo ci sta tutto. Giovanni Cervone da Brusciano (entroterra napoletano), di professione portiere, 8 anni alla Roma con in dote tre finali: una vinta (Coppa Italia), una persa (Coppa Uefa) ed una di supercoppa italiana mancata per squalifica. Tutto nell’anno di grazia 1991. Se non proprio a chiave, Cervone era uno che le porte le sapeva chiudere e proteggere. Poi vai a spulciare e scopri che il titolo nasconde un disagio... quasi una denuncia. Verso il sistema calcio e chi lo amministra. “Vede, a me piaceva rispettare gli accordi – esordisce Giovanni -. Ho avuto rapporti sbagliati con i presidenti. A Genova, per esempio, discutevo continuamente con Spinelli. Tutti, a parte Dino Viola. Era una persona eccezionale, un intellettuale, ogni momento trascorso con lui andava preso e messo da parte”. Altri esempi? “Quando a Roma arrivarono Sensi e Mezzaroma, chiesero informazioni su di me. Dicevano che ero un senatore, che influenzavo il gruppo, ma non era vero. E da lì altri problemi”. Però la sua carriera non è stata così male... “Certo, tutto sommato sono soddisfatto. I problemi sono arrivati dopo, quando ho smesso di giocare – rincara la dose. Come tanti miei colleghi sarei voluto rimanere nel giro, e invece a 20 anni dal mio ritiro sto cercando ancora un lavoro. Ma è difficilissimo. A me piacerebbe in-

segnare ai giovani, coltivare la tecnica, curare i fondamentali. Oggi, in qualsiasi ruolo, non si insegnano più le basi. E vediamo il calcio italiano che fine sta facendo. Non c’è meritocrazia, tutto qua”. Insomma: Giovanni Cervone ha disputato oltre 300 gare da professionista, e in carriera ha chiuso tante porte. Adesso fatica ad aprirne delle altre... Sembrano le parole di Claudio Gentile, quando ha accusato Di Biagio in Nazionale... “Sì, ma Gentile non ce l’aveva direttamente con Di Biagio. Ce l’aveva con chi gli ha chiuso le porte in faccia, nonostante con l’Under 21 abbia fatto ottimi risultati (un Europeo ed un bronzo olimpico nel 2004 ndr.) E sa perché? Perché è una persona corretta, e non si è piegato al sistema. Come lo sono io”. Soluzioni? “Se le conoscevo non sarei qui a lamentarmi. Forse frequentare qualche circolo esclusivo, dove incontrare gente importante... Qualcuno che quelle porte te le possa riaprire. Dovrei farlo anch’io, ma non sono il tipo”. Partiamo dall’inizio. Cervone come il classico ragazzo del sud, che però ce l’ha fatta... “Purtroppo al sud non è facile. Ci sono poche strutture, si gioca per la strada, in piazzetta, diciamo pure allo stato brado. E poi bisogna avere fortuna. Anche gli osservatori, non è che da quelle parti se ne vedano parecchi. Io invece, a 14 anni, uno di loro mi notò mentre giocavo in 3° categoria col Brusciano. Mi portarono alla Juve Stabia, e da lì...” Lo sa che Brusciano è famoso soprattutto per il “rione Tirone”? Ci hanno fatto pure due film... “Si, la storia del disagio sociale nelle periferie napoletane. E poi la Camorra, la delinquenza... Devo dire che, in quel senso, non ho avuto grandi problemi. Ripeto, forse ho avuto fortuna, quella che non hanno avuto tanti miei coetanei. Alcuni di

Si ringrazia Panni per la gentile concessione delle immagini

77


DOVE SONO

FINITI?

Giovanni Cervone loro erano più bravi di me a giocare al calcio, eppure...” In famiglia l’hanno sostenuta? Oppure... “Non avevo voglia di studiare, ma non credo di essere stato l’unico (ride ndr.) Sono arrivato fino alla seconda superiore, ma la pagella... piangeva. Mio padre era carpentiere, un lavoratore come tanti, mi diceva che le strade erano due: o studiavo o andavo a lavorare con lui. Però, allo stesso tempo, vedeva che avevo passione per il calcio, che ce la mettevo tutta. E poi si informava: se ero bravo, se promettevo, se ce la potevo fare...” Perché ha deciso di fare il portiere? “Non ho deciso io. Anzi, all’inizio giocavo centravanti. E me la cavavo pure bene. Poi un giorno in squadra mancava il portiere, mi chiesero di provare, e da allora...” Da piccolo tifava Napoli o Avellino? “Nessuna delle due, tifavo Milan. Sono del 1962, a quei tempi comandava Rivera. Da portiere, invece, ho ammirato tanto Albertosi”. Conoscendo il personaggio, c’avrei giurato... “Si, devo dire che un po’ ho preso da Ricky. Portiere spettacolare, moderno, tecnicamente perfetto. Uno che non stava fermo in porta ad aspettare l’azione. Comandava la difesa, con carattere, personalità. Insomma uno brillante, uno che ha vissuto. Simile a lui era Stefano Tacconi. Un altro che si allenava poco, però la domenica era sempre il migliore in campo”. Tra l’altro lei ha esordito in serie A proprio al posto di Tacconi... “Più precisamente fu lui a farmi esordire. Era l’ultima giornata del campionato ‘82-’83, giocavamo a Udine e Stefano disse che me lo meritavo. Dopo un anno che mi allenavo senza giocare”. Era l’Avellino di Sibilia e della famosa “legge del Partenio” “Guardi, il commendator Sibilia era una persona straordinaria, ci sapeva fare con tutti. Su di lui ne ho sentite parecchie, ma io lo devo solo ringraziare. E poi se ne intendeva. Pensi a quanti calciatori scoperti da lui hanno fatto

78

carriera: Tacconi, Favero, Limido, Vignola... Senza contare gli stranieri, Juary e Barbadillo su tutti. La legge del Partenio, è vero... Fuori perdevamo spesso, ma in casa anche i più forti dovevano fare i conti con noi”. Catanzaro, Genoa, Parma, Verona e finalmente l’affermazione a Roma... “Otto anni meravigliosi, un bellissimo rapporto con i tifosi. E poi pensi... sono il terzo portiere della storia giallorossa per presenze (dopo Masetti e Tancredi ndr.) Nel primo anno fu fondamentale mister Radice, che mi aiutò moltissimo. E lo stesso Tancredi, anche se non mi regalò niente, fu corretto e leale fino in fondo. La sua esperienza fu preziosissima. Purtroppo a marzo mi feci male al ginocchio e la stagione finì. Peccato perché il mondiale bussava alle porte...” Sarebbe stato il terzo portiere delle “notti magiche?” “Lo sarei stato di sicuro. Quell’anno prendevo tutto, avevo fatto una prima parte di stagione straordinaria. Dopo Zenga ed il mio amico Tacconi c’ero io, non ci sono dubbi. E invece...” Nel 1991 conquista tre finali. È il momento migliore della sua carriera? “Come annata si, anche se mi piange il cuore ripensare alla finale con l’Inter. Ci arrivammo

Il miglior Cervone si è visto con Mazzone in panchina


senza aver mai perso una partita, io ci credevo... L’Inter di Trapattoni, però, si dimostrò più forte. Come in quel periodo il Milan dei tre olandesi era più forte di tutti. Personalmente, però, ritengo che la mia stagione migliore sia stata la seconda di Mazzone (1994-95 ndr.) anche se all’inizio non voleva farmi giocare...” Sbaglio, o questo è un refrain ricorrente nella sua carriera? “Non sbaglia. Qualcuno dice che mi fregava l’immagine, i capelli da cantante rock, il look trasgressivo... Tutte balle! Credo più che desse noia la mia personalità, la mia schiena dritta, fatto sta che partivo per le vacanze come portiere della Roma, poi tornavo... e al mio posto c’era un altro. Il bello è che qualche mese dopo ero di nuovo titolare. Pazienza, vuol dire che era destino...” Lei ha avuto grandi allenatori. Radice, Mazzone, ma anche Bianchi, Bagnoli, Simoni... “Sono andato d’accordo con tutti, tranne uno...” Temo di indovinare... “Ottavio Bianchi. Con lui non c’era dialogo, e credo di essere stato in buona compagnia...” Che portiere era Giovanni Cervone? “Un portiere che è passato attraverso mille cambiamenti, ma che se l’è sempre cavata. Dai due ai tre punti per la vittoria, l’abolizione del passaggio indietro al portiere, la zona che prende il posto della marcatura a uomo... Per me non è mai stato un problema. Tecnicamente ero esplosivo, un para rigori, una via di mezzo tra il portiere classico e quello spettacolare. A parte Zenga e Tacconi, ricordo un ottimo Marchegiani, uno dei pochi che ritenevo a me superiore. Mentre Pagliuca e Lorieri erano troppo coreografici...” Domanda secca: l’attaccante migliore che ha

affrontato? “Marco Van Basten, per dispersione. Fuoriclasse assoluto!” Il compagno migliore con il quale ha giocato? “Rudi Voeller. Tecnico, veloce, potente, ce le aveva tutte...” Ha amici nel calcio? “Mi sento con Bruno Conti. E con Giuseppe Giannini, anche se...” A proposito, com’è la situazione tra di voi? “Con Giuseppe abbiamo ricucito. Ci fu un’incomprensione, è vero, dopo che collaborammo a Gallipoli. Poi ha allenato due anni la nazionale del Libano con me preparatore dei portieri. Però, anche lui, ha difficoltà. Non trova la situazione giusta. Speriamo in futuro di poter lavorare di nuovo insieme...” Finale sulla nazionale che non va ai mondiali. Tema libero, da uno che non ha peli sulla lingua... “Innanzitutto cancello un luogo comune: non è colpa dei troppi stranieri. Non c’entrano niente. Se uno è bravo, è bravo. Stop! Piuttosto c’entra l’allenatore, la gestione generale, gli uomini, le scelte... Mi spiega lei come si fa a lasciare fuori Insigne? Cioè, lasci fuori Insigne contro la Svezia, nella partita più importante della stagione? Poi non ci lamentiamo se ai mondiali c’è Panama e stiamo fuori noi”. Giovanni Cervone, progetti per il futuro? “Non lo so. L’anno scorso ho allenato i portieri dell’Unicusano Fondi (squadra di Lega Pro dell’hinterland romano ndr.) ma è durata poco. Anche lì gente non all’altezza, improvvisata... Ho provato ad investire fuori dal calcio, ma ho perso un sacco di soldi. Gliel’ho detto, mi piacerebbe insegnare ai giovani. Col mio carattere e la mia esperienza sono certo farei un ottimo lavoro. Ma per ora trovo solo porte chiuse”.

79


IO C L A C I D E I STOR Peter Jehle

di Fabrizio Ponciroli

80


PETER, IL FARO DEL

LIECHTENSTEIN Alla scoperta di Jehle, dal 1998 l’estremo difensore della Nati…

L

a Nati, sintesi della dicitura Liechtensteinische Fussballnationalmannschaft, è una piccola nazionale di calcio. Il Liechtenstein non si è mai qualificato ad una fase finale di un Mondiale o di un Europeo, eppure la passione per il calcio che si respira nel Principato del Liechtenstein, Stato di 160 km², con circa 39.000 abitanti, è degna di un grande Paese calcistico. Tra gli idoli incontrastati della Nati c’è, senza ombra di dubbio, Peter Jehle. Dal lontano 1998, è il numero uno della nazionale del Liechtenstein. Attualmente nelle file del Vaduz, ha avuto diverse e stimolanti esperienze in giro per l’Europa. È stato in Portogallo, al Boavista, e pure in Francia, al Tours ma, ovviamente, il suo amore più grande è per la Nati. Lo abbiamo incontrato… Peter, come è nata la tua passione per il gioco del calcio? “Sono il più giovane di tre fratelli. Sono stati loro a trasmettermi la loro forte passione per il pallone. All’età di quattro anni, mi sono iscritto alla squadra di calcio della mia città natale ed è cominciato tutto il mio percorso”.

81


ALCIO

STORIE DI C Peter Jehle

Quando hai capito che avresti potuto diventare un giocatore professionista? “Diciamo che è sempre stato il mio più grande sogno quello di diventare un calciatore professionista. I miei genitori non mi hanno mai ostacolato e mi hanno sempre lasciato sognare ad occhi aperti. Verso i 14 anni ho capito che avevo il potenziale per diventare un buon portiere”. Ricordi la tua prima partita con la nazionale del Liechtenstein? “Certo che me la ricordo. Avevo 16 anni e abbiamo vinto: 2-1 contro l’Azerbaigian (reti, per la Nati, di Frick e Telser, ndr). Con il senno di poi, avrei dovuto ritirarmi dopo questa prima partita, così sarei rimasto imbattuto (ride, ndr)”. Ci racconti la partita, sempre con la tua nazionale, che ricordi con più gioia e quella che ti ha lasciato più l’amaro in bocca? “Il match che ricordo con più gioia è il pareggio, per 2-2, contro il Portogallo a Vaduz (2004,

ndr). È stato qualcosa di incredibile per una piccola realtà come la nostra. La sconfitta più bruciante quella del 2012, contro la Scozia a Glasgow. Hanno vinto per 2-1 segnando la rete del successo al 97’. È stata davvero un boccone amaro…”. Voi siete una piccola realtà. Come affronti le grandi potenze del calcio mondiale? Come riuscite a non farvi impressionare? “Non importa se sei una piccola o una grande nazionale. Qui si parla di passione, orgoglio. C’è la gioia di poter rappresentare il tuo Paese. Sappiamo, ovviamente, che andiamo a confrontarci con squadre di livello mondiale ma, allo stesso tempo, siamo coscienti che, se diamo il meglio di noi stessi, nei 90’ di gioco, abbiamo fatto il nostro lavoro e onorato la maglia che indossiamo”. Tu sei famoso anche per aver parato un rigore a Ibrahimovic… Ci racconti come è andata? “è stato davvero un gran bel momento… Ero

Peter Jehle impegnato contro la Spagna nelle qualificazioni ad Euro 2012 - Foto Liverani

82


LA NATI La Federazione calcistica del Liechtenstein è stata fondata nel lontano 1934. Tuttavia per assistere alla prima, vera, gara ufficiale della nazionale del Liechtenstein bisogna attendere il 1981. L’esordio ufficiale in una competizione riconosciuta dalla FIFA avviene il 14 giugno 1981. Curiosamente la Nati gioca a Seul, in Corea del Sud, contro Malta (1-1 il finale). Il primo gol ufficiale della piccola nazionale rossoblù è stato segnato, in quella storica partita, da Ludwig Sklarski. In realtà, secondo la LFV, ossia la Federazione calcistica del Liechtenstein, l’esordio della Nati è datato 9 marzo 1982: Liechtenstein-Svizzera 0-1. La svolta arriva negli anni ’90. La Nati viene inserita tra le nazionali che disputano le qualificazioni per Euro 1996. Di fatto, è l’acceso della nazionale del Liechtenstein alle competizioni che contano. è di Daniel Hasler la prima rete nel girone di qualificazione ad Euro 1996. Il 14 ottobre 1998, giorno dell’esordio di Peter Jehle con la Nati, arriva anche la prima vittoria in una fase di qualificazione ad un Europeo: 2-1 all’Azerbaigian. La grande impresa arriva nel 2004, durante le qualificazioni al Mondiale 2006. La Nati riesce, incredibilmente, a pareggiare con il Portogallo (2-2). Un risultato che, nel piccolo Liechtenstein, viene festeggiato a lungo e ricordato ancora oggi. Peter Jehle è in recordman di presenze con la casacca del Liechtenstein (ha superato Frick, fermo a quota 125 gettoni). Mario Frick, invece, risulta, ancora oggi, il massimo goleador della nazionale, con 16 centri (tra il 1993 e il 2015). Curiosità: la Nati, dal 1998, gioca le proprie gare interne al Rheinpark Stadion, il più grande stadio del principato del Liechtenstein, situato nella capitale Vaduz (massima capienza: 7584 spettatori).

concentrato, mi sono tuffato alla mia destra. Ibra ha tirato con forza ma sono riuscito comunque a ribattere la sua conclusione. Peccato che poi sia riuscito comunque a segnarmi…”. Oltre a giocare a calcio, cos’altro fai nella tua vita? “Ho appena terminato gli studi per Sport Management. Mi piace molto la natura e adoro viaggiare”. Quando smetterai di fare il portiere, cosa pensi che farai? “Da quando ho terminato gli studi, ho una grande passione per differenti tipi di sport. Uno dei miei sogni è quello di poter aiutare le persone a portare avanti, nello stesso tempo, la loro vita lavorativa o scolastica, insieme a quella sportiva. È uno dei miei obiettivi”. Cosa ne pensi della Serie A? “Guarda, io seguo molto la Serie A. Abbiamo avuto e abbiamo tutt’ora giocatori del Liechtenstein che giocano in Italia, penso a Mario Frick e Marcel Büchel. Mi sarebbe piaciuto moltissimo poter giocare in Serie A, su questo non ci sono dubbi (ride, ndr)”. Un tuo pensiero su Buffon, mito del calcio italiano e mondiale… “Buffon è una leggenda, non c’è altro da dire! La sua maglia ha un posto speciale nella mia collezione di casacche”. Siamo ad un passo dai Mondiali. Che ne pensi del fatto che non ci sarà l’Italia? “è davvero triste per l’intero movimento cal-

83


ALCIO

STORIE DI C Peter Jehle

cistico. Una Coppa del Mondo senza Buffon… Non mi piace affatto. Magari avremo la possibilità di vederci durante le vacanze, su una bella spiaggia italiana, e berci qualcosa insieme… Sto scherzando (ride, ndr)”. Chi, secondo te, potrebbe vincere il prossimo Mondiale in Russia? “Il calcio, quando si parla di nazionali, è fantastico. è ancora più indipendente dai soldi rispetto alle squadre di club. L’Islanda è il più chiaro esempio di questa indipendenza. Magari saranno proprio loro a vincere la Coppa del Mondo. Mai mettere un limite ai

LA CARRIERA DI PETER Nato a Schaan il 22 gennaio 1982, Peter Jehle si avvicina al mondo del calcio da giovanissimo. A quattro anni è già nelle fila della squadra locale. Svolta tutta la carriera giovanile con l’FC Shaan, nel 2000 passa al Grasshoppers, in Svizzera, dove resta sino al 2006, vincendo anche due campionati svizzeri. Dal 2006 al 2008 gioca in Portogallo, con la prestigiosa casacca del Boavista, una delle squadre più in vista della Primeira Liga (24 presenze totali). Dopo una stagione nelle fila del Tours, in Francia, nel 2009 torna nell’amato Liechtenstein, vestendo la casacca del Vaduz. Fatta eccezione per una breve parentesi al Lucerna, il Vaduz diventa la sua vera casa. Vince una Challenge League e sette volte la Coppa del Liechtenstein e il tassametro non ha ancora smesso di correre. Indossa la maglia della Nazionale dal 1998. Oltre al noto rigore parato a Ibrahimovic, si è ripetuto, il 22 marzo 2013, contro Cauna, regalando un importante pareggio alla Nati (1-1 con la Lettonia, gara valevole per la qualificazione ai Mondiali 2014).

84

propri sogni”. Tre giocatori che vorresti nella tua personale nazionale… “1 Don Camillo, 2 Peppone… Ho adorato i loro film, specialmente quando giocano a calcio. 3 Chiellini. Io amo quando non si prendono gol…”. Ultima domanda: il tuo film preferito, il piatto che adori e un sogno che vorresti si avverasse… “Per quanto riguarda il film, dico Drive (2011, con Ryan Gosling, ndr). Amo alla follia anche la colonna sonora di questo film… Cibo? Käsknöpfle, tipico piatto del Liechtenstein. Il mio sogno? Mi auguro che l’egoismo e l’avidità in questo mondo spariscano e che le persone arrivino a condividere il sogno di costruire un futuro sostenibile per tutti noi”. Firmato Peter Jehle, portiere di una piccola nazionale ma con qualità da grande uomo...



i

n o d i b i e d o Alfabet Masashi Oguro

di Thomas Saccani

86


OGURO CHI? Il suo approdo al Torino aveva scatenato tanta curiosità… rimasta tale!

L

a storia calcistica di Masashi Oguro è degna di essere raccontata. Lui, al Mondiale del 2006, quello vinto dagli Azzurri, c’era… Un’estate indimenticabile, quella del 2006, per Masashi che, proprio grazie all’effetto mediatico della sua partecipazione alla Coppa del Mondo con la casacca nipponica, viene notato dal Torino. Gli emissari granata vedono in questo 26enne attaccante un’occasione da prendere al volo. Cresciuto, calcisticamente parlando, nel Gamba Osaka, la squadra della sua città natale, Oguro si è già cimentato anche con l’Europa. Nella stagione 2005/06, infatti, ha deciso di mettersi in gioco in Francia, in Ligue2, con la casacca del Grenoble. Non entusiasmante la sua esperienza in terra francese ma importante per far intravedere un potenziale interessante e buone doti tecniche, sufficienti per convincere il patron del Toro Cairo ad investire su di lui. Agli sgoccioli della sessione estiva del mercato 2006/07, ecco l’annuncio ufficiale: Masashi Oguro è un nuovo giocatore del Torino. Contratto biennale. Lo stesso Cairo già

Credit Foto - Liverani

87


doni

ei bi Alfabeto d Masashi Oguro

pregusta i benefici derivanti dall’operazione Oguro. L’Oriente conoscerà, ancor di più, il brand granata. Lo si intuisce immediatamente: la presenza di giornalisti giapponesi agli allenamenti del Torino cresce in maniera esponenziale (tanti anche i tifosi giapponesi che seguono le partite interne della squadra granata). Sembra tutto perfetto ma qualcosa non va come lascerebbe intendere il copione. De Biasi, l’allenatore del club granata, a precisa domanda sulle qualità del nipponico, risponde: “Oguro? Chi?”. Una dichiarazione che, di fatto, oltre a “segnare” il bomber del Sol Levante, la dice lunga sulle perplessità del tecnico del Toro nei confronti di Oguro (e, più in generale, del mercato estivo del Toro). L’infelice battuta di De Biasi porta, dopo diverse frizioni tra lo stesso allenatore e il patron Cairo, alla separazione tra i due. Il matrimonio finisce ancor prima dell’inizio della stagione (poi verrà richiamato e salverà i granata dal rischio retrocessione). Ma torniamo al mitico Oguro. Il ragazzo ha tanta voglia di far bene. Si mette a studiare la lingua italiana con grande impegno, fa di tutto per inserirsi con i nuovi compagni

Il commento di De Biasi su Oguro è diventato decisamente famoso

IL SUO PRIMO GIORNO Masashi Oguro non è mai stato timido. Il 1 settembre 2006, giorno della sua presentazione ufficiale quale nuovo giocatore del Torino, il nipponico si presenta in sala stampa con una determinazione degna di un eroe manga. Risponde ad ogni domanda con notevole sicurezza nei propri mezzi: “Serie A complicata? L’unico modo è provare a fare del mio meglio, dando sempre qualcosa in più sul campo. Devo imparare in fretta la lingua e devo adattarmi al nuovo ambiente, alla nuova realtà, ma farò di tutto per farlo in tempi brevi. La Serie A è il campionato più difficile del mondo: so che non sarà facile, ma tengo molto a confrontarmi con questo calcio”. Si va anche oltre: “Giocatore a cui mi ispiro? Inzaghi. Per arrivare al suo livello, devo migliorare tanto!” Qualcuno gli fa notare che il suo giorno di nascita coincide con quello della Tragedia di Superga (Oguro è nato il 4 maggio 1980): “Lo considero un segno del destino”. C’è spazio anche per qualche indiscrezione sulla sua vita privata: “Gli hobby? Mi piacciono molto le macchine, specialmente quelle italiane. Cibo? In Italia non si può fare a meno di pizza e pasta”… I tanti giornalisti giapponesi presenti alla prima conferenza stampa di Oguro non stanno più nella pelle. Oguro pare destinato a conquistare tutti. Purtroppo non sanno ancora che Oguro resterà un “oggetto misterioso”.

88


(durante i ritiri, è in camera con Barone che, a Parma, ha giocato con Nakata) e, almeno in allenamento, lotta su ogni pallone. Fa il suo esordio, con Zaccheroni in panchina, alla prima di campionato. Entra, all’80’, al posto di Rosina in Torino-Parma, terminata 1-1. Il cammino della squadra piemontese è tormentato e avaro di punti, così come il rendimento di Oguro che non riesce proprio a lasciare il segno. Il 25 ottobre, allo Stadio Olimpico di Torino, ha la sua grande chance: è titolare contro la Fiorentina, nell’occasione priva delle sue stelle Toni e Mutu. Zaccheroni lo schiera dal primo minuto ma, purtroppo, il giapponese non combina nulla di buono. Il Toro perde la partita (0-1) e Oguro perde ancor più sicurezza in sé stesso: “Ho giocato male, non mi sono proprio piaciuto”, dichiara nel post match. Le pagelle dei principali quotidiani lo bocciano senza scusanti. Ormai non intenerisce più neppure i supporter granata che, già esasperati da una situazione di classifica decisamente difficoltosa, vedono in Oguro un “oggetto misterioso”, proprio come l’aveva dipinto l’ex De Biasi. Il ritorno in sella dello stesso De Biasi spegne ogni sogni di gloria del nipponico che chiude l’anno con sole sette presenze (sei da subentrato) e nessuna rete. Tuttavia, Masashi non demorde e si ripresenta al ritiro estivo granata con ancor più determinazione (anche perché la società non intende perdere il comunque interessante indotto mediatico in terra nipponica). Il presidente Cairo ha deciso di affidare la panchina a Novellino. Una manna dal cielo per Oguro? Nient’affatto. Le presenze complessive nella sua seconda e ultima stagione granata saranno solamente tre… In due anni in Serie A, 10 presenze e nessun gol. Ferito nell’orgoglio e nell’anima, scaduto il contratto con il Toro, fa ritorno in Giappone, firmando con il club Tokyo Verdy. Resta in patria fino al 2013, cam-

GRAZIE A NAKATA “Il Torino è arrivato da me con una proposta ed un progetto concreto e poi in ritiro, durante i Mondiali in Germania, a Nakata ho parlato del mio grande sogno di giocare in Italia e anche grazie a lui ciò è avvenuto”. Parole di Oguro nel giorno della sua presentazione ufficiale. Insomma, se Oguro si è vestito di granata (primo giapponese nella lunghissima storia del club a riuscirci), il merito va anche a Nakata, il calciatore nipponico che meglio ha fatto nel nostro campionato. Oguro, infatti, non è stato il primo giapponese a calcare i campi della nostra Serie A. Il primo, visto a Genoa, è stato l’immortale Miura. Detto di Nakata, vincitore anche di uno Scudetto (con la Roma), nel 1999 ecco Nanami (Venezia). Nel 2002, la Reggina punta su Nakamura, abilissimo nei calci piazzati. Sempre la Reggina si innamora di Yanagisawa, approdato in Italia nel 2003. Il 2006, tuttavia, è l’anno della grande ondata giapponese. Oltre ad Oguro, sbarcano in Serie A anche Ogasawara (Messina) e Morimoto, acquistato dal Catania..

biando diverse squadre, prima di trasferirsi in Cina. Due anni con l’Hangzhou Greentown e poi altro rientro in Giappone. Oggi, nonostante le 38 primavere, è ancora in campo. Milita nel Tochigi Soccer Club, compagine di J3 League, terza divisione giapponese. Curiosità: nella sua nuova squadra indossa la casacca numero “9”, la stessa che aveva quando ha stupito tutti con la maglia del Grenoble… Un “9” che, in Italia, è diventato un oggetto di culto… Ancora oggi, tra chi ha c’era quando Oguro era parte del progetto Torino, si sente un coro entrato nella leggenda: “Ma ci prendi per il cu.o, fai entrare pure Oguro, Oguro”…

Si ringrazia Panni per la gentile concessione delle immagini

89


e

ar c i t n e m i d re da non

Ga

Napoli - Vicenza di Luca Savarese

VICENZA,

LA COPPA Ăˆ TUA 29 maggio 1997, il Romeo Menti di Vicenza, scopre che la favola è reale: il Vicenza di Francesco Guidolin battendo per tre a zero il Napoli, con le reti di Maini, Maurizio Rossi e Iannuzzi, conquista la sua prima e storica Coppa Italia.

90

Credit Foto - Liverani


Q

uando Andrea Palladio, architetto poliedrico nato a Venezia, ma che si formò a Vicenza, divorando i libri dell’architetto latino Vitruvio, nel 1570 scrisse i Quattro libri dell’architettura, non poteva immaginarsi che oltre quattrocento anni dopo, la squadra di calcio della città di Vicenza, sarebbe stata in grado di costruire una serata perfetta, architettare la partita della vita e alzare al cielo, in una notte di fine maggio del 1997, la Coppa Italia, primo ed unico trofeo di un certo spessore nel palmares biancorosso. Ma, come ogni palazzo, si parte sempre da qualche primigenio mattone, che poi si prova ad incastonare in un progetto, e con il giusto equilibrio tra fatica e desideri, sposando la sana filosofia del passo dopo passo piuttosto che l’illusoria teoria del tutto e subito, si lascia crescere il prodotto. 16 maggio 1993. Al Menti si freme. Basta un punto e la formazione vicentina può festeggiare il suo ritorno in cadetteria. Contro l’Alessandria sarà 1 a 1. Quel che serve per far iniziare caroselli e strombazzate. Renzo Ulivieri, oggi presidente dell’Associazione Italiana Allenatori, è riuscito, grazie alla miglior difesa del torneo (soli 18 i gol subiti) e con appena tre sconfitte, a riportare piazza e squadra in B. Dietro la scrivania, sul gradino più alto della piramide societaria, siede Pieraldo Dalle Carbonare: ha carattere focoso, idee chiare e sogni smisurati. Gli abiti, però, sono su misura, come assicura il marchio e sponsor ufficiale Pal Zileri, abbigliamento maschile, di proprietà dell’azienda tessile Forall,

fondata da Gianfranco Barizza e Aronne Miola. Ottenuta la Serie B, il primo anno si decide di continuare con la veste tattica di Renzo Ulivieri, ma un undicesimo posto finale, qualche sconfitta inattesa e dei mugugni di troppo, fanno terminare anzitempo il rapporto tra il tecnico toscano. La squadra viene affidata a Francesco Guidolin da Castelfranco Veneto. Alla dirigenza non importa che alla sua prima esperienza in A, sulla panchina dell’Atalanta, l’anno precedente, dura solo dieci giornate. Lui è il mister che, nel 1993, ha guidato il Ravenna alla promozione in B, destando una buonissima impressione. E Guidolin, ripaga il credito concessogli. Fa centro al primo anno, andando addirittura in gol per 54 volte. È Serie A. L’ultima volta, a Vicenza, era datata 1979, c’erano ancora Paolo Rossi e quel Real Vicenza, targato Gibì Fabbri, capace di arrivare secondo nella Serie A 1977-78 e di precipitare in cadetteria la stagione seguente. Si, ci voleva il silenzioso demiurgo Guidolin per tornare a riveder le stelle della A. Il Menti ricomincia a ripopolarsi di persone e di desideri. Lo stadio, deve il suo nome a Romeo Menti, attaccante che con la maglia del Vicenza giocò 82 gare segnando 34 reti tra il 1934 ed il 1938 e che fu poi coinvolto tra i martiri di Superga. Ai nastri di partenza della nuova Serie A, c’è una grande novità: anche il nostro campionato, dopo la Premier League e sul modello della NBA, ha deciso di inserire i nomi sulle maglie da gioco, ora personalizzate al meglio. Dalla personalizzazione delle divise alla per-

91


GARE DA NON

DIMENTICARE

Napoli - Vicenza sonalità, che non divide ma unisce, ben radicata nella squadra biancorossa. Si perché, per la Guidolin Band, il primo anno di A fu tutt’altro che rinunciatario: nessun inferiority complex da neopromossa, ma occhi della tigre per i magnagati (nomignolo scherzoso con il quale vengono spesso definiti i vicentini, in opposizione ai padovani gran dotori, ai veneziani gran signori ed ai veronesi tutti matti…): un 1 a 1 in casa con il Milan futuro Campione d’Italia, un altro 1 a 1 colto nella capitale contro i giallorossi, pezzi di un puzzle che a fine stagione vorrà dire nono posto. D’estate, nessuna rivoluzione ma si bada a confermare e a puntellare: Massimo Beghetto dietro, Pierre Wome in mediana, Giovanni Cornacchini (che si rivelerà decisivo nel cammino in Coppa Italia) ed Alessandro Iannuzzi davanti, sono i volti nuovi. Si salutano, invece, il difensore svedese Bjorklund ed il centrocampista Lombardini. Piccola aggiustatina in inverno: via Gasparini e si dà il benvenuto a Gentilini per rimpolpare le forze offensive. Ma che per i colori biancorossi sia un’ottima annata lo si capisce dalle prime battute: pronti via ed al Franchi, alla prima giornata, ecco un successo roboante per 4 reti a 2 e con un protagonista assoluto: Marcelo Alejandro Otero, il puntero uruguagio, che in

I tabellini della finale Coppa Italia – Finale 1997 – Gara di ritorno – 29/05/1997

VICENZA-NAPOLI 3-0 Vicenza: Brivio, Sartor, Viviani, Lopez, Beghetto M., Gentilini (97’ M. Rossi), Di Carlo, Maini, Ambrosetti (18’ Iannuzzi), Murgita, Cornacchini (72’ D’Ignazio). Allenatore: Guidolin. Napoli: Taglialatela, Ayala, Boghossian, Baldini F., Milanese, Crasson, (98’ Panarelli), Bordin (62’ Aglietti), Longo R. (72’ Altomare), Esposito M. Pecchia, Caccia. Allenatore: Montefusco. Arbitro: Braschi di Prato. Spettatori: 19.144 Marcatori: 20’ Maini, 118’ M. Rossi, 120’ Iannuzzi

92

Il capitano di quell’incredibile Vicenza era Giovanni Lopez

riva all’Arno, si mette a servire il poker. Se il buongiorno si vede dal mattino... La squadra ha maggior esperienza rispetto all’anno del noviziato comunque terminato con un lodevole piazzamento. Adesso conosce meglio la categoria e non ha paura di nessuno. Le prime dieci giornate attestano un andamento da Ferrari, invece che un ruolino da 500 e portano la squadra, addirittura, in cima alla classifica. Anche in Coppa Italia, le cose, partono con il piede giusto. È mercoledì 28 agosto quando al Porta Elisa di Lucca inizia il cammino di coppa del Vicenza. Dopo appena 8 minuti, è Maurizio Rossi a mettere le cose in chiaro e ad aprire le danze per i veneti. Rastelli per i toscani pareggia i conti ma Giovanni Cornacchini al 39’ troverà, con una rasoiata di destro che toglie la polvere dall’angolino sinistro del portiere Braglia, la rete del vantaggio e del passaggio del turno. Il Vicenza c’è. Ma il viaggio è appena cominciato. Ci vogliono due mesi per riassaporare la Coppa Italia. Ora sotto col Genoa, che all’epoca militava in cadetteria. A Marassi basta un rigore di Viviani per rendere più vive che mai le attese vicentine. Il grifone pareggerà, sempre dal dischetto, con Masolini. Al ritorno colpisce ancora Cornacchini. Anche il Genoa è battuto. Quando in piazza leggono il nome del prossimo avversario, molti fanno un giro al Santuario


della Madonna del Monte Berico: con il Milan ci sarà bisogno di una mano anche dall’alto. Invece, al di là delle più rosee aspettative, basterà la mano di Guidolin che preparerà la gara in modo minuzioso e maniacale. Così il 13 novembre del 1996 una foltissima rappresentanza di tifo vicentino scende a Milano. Arrivano in tanti, ci credono in molti, quelli che hanno paura, sono rimasti a casa e la vedono in tv. Quel Milan, non era più lo squadrone che faceva incetta di coppe in Europa e nel mondo, con Tabarez in panchina, sta tentando di rinverdire i fasti del passato. Era finita l’era degli immortali ed anche la saga degli Invincibili aveva esaurito le puntate, ma è pur sempre il Milan. Il Vicenza però va sul prato della scala del calcio con un mix perfetto tra beata incoscienza e concentrazione spasmodica. Gabriele Ambrosetti s’inventa un sinistro potente che trafigge Pagotto. Robi Baggio, ex Vicenza in gioventù, pareggia i conti ma la qualificazione pende nettamente a favore dei ragazzi coraggiosi ed entusiasti di Guidolin. I soliti dubbi attanagliano gli stessi scettici che nei bar del centro storico proprio non riescono a credere che la squadra della loro città possa farcela con il Milan. Dovranno ricredersi. Il Vicenza, squadra scafata, sa che l’importante, in situazioni come queste, è non prendere gol, poi se si riesce anche andare a colpire, tanto meglio. Pierluigi Brivio, il portiere custode dei pali nelle notti di Coppa, al posto dei guanti affitta le ali di Superman: vola su ogni palla, disinnesca le avanzate del Diavolo, devia un tiro, velenosissimo, di Savicevic. Il passo per guardare più da vicino la Coppa ed approdare alle semifinali è breve, anzi è Brivio. La strada che separa il Vicenza da una finale che non profuma di storia ma è storia allo stato puro, si chiama Bologna. I felsinei sono allenati dall’ex Ulivieri. Il

primo atto è in programma al Menti. Le due formazioni non si sbilanciano fino a quando un colpo di testa di Bum Bum Murgita rovina i piani bolognesi e fa riempire di speranze la faretra vicentina. Diventano certezze nella gara di ritorno, in terra petroniana. Scapolo riesce a segnare a fine primo tempo. Ma la forza di quel Vicenza è anche una capacità perentoria a sovvertire piani e scenari. Mentre tutti si avviano ai supplementari, c’è ancora il minuto 89 da vivere. Quando arriva una palla dalle parti di Francesco Antonioli, Cornacchini decide di fare l’ultimo viaggio della fatica con la valigia, stanca, dell’ultimo allungo. Sinistro centrale ma furbesco. Pepita d’oro al tramonto. È il gol che incenerisce il Bologna e spalanca al Vicenza le porte della finale. Tra la corte, innamorata, gasata ma sempre molto misurata del Vicenza alla Coppa, c’è il Napoli, che quanto a focosità, tradizionalmente, non è secondo a nessuno. La sfida si snoda tra un’andata ed un ritorno, non siamo ancora all’unicità della finale secca a Roma di oggi. Il percorso del Vicenza è arrivato alle due battute conclusive. Si

Di Carlo, oggi allenatore ma, nella fantastica stagione 1996-97, protagonista in maglia Vicenza

93


GARE DA NON

DIMENTICARE

Napoli - Vicenza

IL RICORDO DI BRIVIO Pierluigi Brivio era il custode dei pali di Coppa Italia di quel Vicenza. Mondini giocava in campionato, ma lui si faceva trovare pronto per alimentare i sogni del trofeo nazionale. Pierluigi, iniziamo con i quarti di finale di ritorno. Al Menti arriva il Milan come si direbbe oggi dei titolarissimi, deciso a ribaltare l’1 a 1 dell’andata ma Baggio e Savicevic devono arrendersi perché dalle parti di Brivio-Superman, mica si passa? “Adesso che mi fai ricordare quella gara ho ancora emozioni vive. Eravamo carichissimi, la città era pronta, c’era una spinta emotiva che andava oltre. Era impensabile all’inizio, ma visto il risultato di San Siro un pensierino lo abbiamo fatto. Siamo stati bravi a non prendere gol, si, feci una parata istintiva su Savicevic, c’era una città che fremeva, contro una squadra blasonata”. Dalle mani che prendono la palla e salvano i gol, a quelle che poi il 29 maggio 1997, dopo il 3 a 0 al Napoli, alzano al cielo la Coppa Italia. Un film iniziato a girare in silenzio, passo dopo passo? “Un film partito da lontano. Da Lucca, alla prima partita, dove tra l’altro avevo fatto una cavolata su un’uscita un po’ scriteriata, ma mi meritavo un’altra possibilità e così è stato, mi fu data. In campionato giocava Luca Mondini ma io mi preparavo per vivere al meglio la Coppa Italia. Nella finale d’ andata al San Paolo di Napoli, mentre eravamo negli spogliatoi, prima della sfida, vibrava tutto e da sotto, sentivano tutti che cantavano funicoli funicolà...Erano 70 mila voci. Giocammo un po’ in difficoltà, loro trovarono il gol ma l’abbiamo tenuta aperta”. E poi venne il ritorno?

IL RICORDO DI CORNACCHIONI Giovanni Cornacchini è nato a Fano nel 1965. Professione bomber. Un solo anno in quel Vicenza, ma quello giusto. Per vincere la Coppa Italia, con uno scalpo decisivo, nella semifinale di ritorno. Sono passati 21 anni Giovanni da quella sera, ma cosa dicono i ricordi? “I ricordi di quella sera sono sempre sovrabbondanti, quando ci ritroviamo tra i cavalieri che fecero l’impresa, è come se la rivivessimo, ogni volta”. Semifinale di ritorno, minuto 88. Trovi il tempo e lo spazio per colpire il Bologna al Dall’Ara. Probabilmente, senza quel tuo gol, sarebbe stata un’altra storia... “Questo non lo so, però fu un gol davvero pesante, poi ero quasi arrivato fisicamente, nel senso che avevo

94


“Il ritorno è stato qualcosa di indescrivibile: l’urlo al gol del’1 a 0 di Maini, non l’avevo mai sentito lì a Vicenza: un urlo che è andato oltre la fisica, non so la soglia dei decibel a quanto corrisponda, ma di sicuro, l’ha sfondata”. Gli ingredienti vincenti di quel Vicenza prelibato? “Gran parte del merito fu del mister. Adesso, allenando, mi accorgo quanto sia importante il mister. Prima quando sei coinvolto, o giochi e non te ne rendi conto, o quando non giochi, vedi sempre il lato negativo. Credo ci sia veramente tanto di Guidolin, il mister ci ha dato la sua impronta, la sua mentalità, ci ha dato un gioco, ed ha ottimizzato le sue conoscenze con le nostre qualità. Poi, lo zoccolo duro che si era sporcato le mani in C ed in B. Un altro ingrediente fu anche l’ambiente, poi il contesto ed il gruppo, ecco le nostre forze, un qualcosa costruito ad arte e che ci ha fatto vivere la pagina più importante di molti di noi”.

i crampi, ma andai con forza su quella palla e segnai al Bologna, ci tenevo tantissimo a quel gol: ci portava dritti in finale e poi il Bologna era la squadra da dove provenivo”. Un pregio di Francesco Guidolin? “Aveva un sacco di pregi, ho apprezzato molto la sua preparazione: sai sulla carta poteva fare poco, invece è riuscito a farci vincere quella Coppa e poi anche lontano da Vicenza, ha fatto bene”. Se dovessi descrivere quel Vicenza in una parola? “Una parola non basta, ogni volta che c’è qualcosa che fa ricordare quella squadra, come questa intervista, la vivo molto volentieri. Sinceramente, non riuscirei a ridurlo ad una sola parola”.

95


GARE DA NON

DIMENTICARE

Napoli - Vicenza

IL RICORDO DI VIVIANI Fabio Viviani, è stato il numero 10 di quel Vicenza. Con la sua lunga chioma e le sue giocate nobilitava la squadra, come si diceva una volta, dalla cintola in su. Fabio, prima giornata della stagione 1987-88, a Torino c’è Juve-Como e tu esordisci in serie A? “Si, e con la maglia numero 11 sulle spalle. Era una Juve che aveva ancora tra le sue fila Cabrini, Favaro, Tacconi, mi sembrava di trovarmi, all’improvviso, in mezzo alla storia del calcio”. 1988-89, 6 partite nel Milan degli immortali, una scuola importante dove poter crescere? “Si, io avevo avuto Maifredi ad Ospitaletto, che frequentava Sacchi e fui così dirottato al Milan: ero molto giovane ma fu un’esperienza fantastica”. Tre anni a Monza sono la benzina che ci vuole per arrivare a Vicenza con il pieno giusto? “Si volli io fortemente Vicenza, a tutti i costi. Ero stufo di girare e intuivo che in quella piazza avrei potuto stare qualche anno e togliermi qualche soddisfazione”. E così fu. Nella città palladiana vivi la pagina più importante della tua carriera. Prima la promozione dalla C alla B e dunque l’approdo in A. Stagione ‘95-‘96: il Vicenza si riaffaccia nella massima serie mentre spuntano i nomi sulle maglie, e la 10 del Vicenza ha un cognome: Viviani? “Il 10 lo avevo sempre avuto io in C e B. Così il primo anno di A, quando arrivarono le maglie col nome, mi sembrava giusto continuare con il 10, poi per noi era un’occasione per organizzare, con le nostre maglie, delle aste benefiche, specie quel primo anno dei numeri e nomi. Diciamo che il 10 l’avrei ceduto molto volentieri ad un campione che in quegli anni era stato accostato al Vicenza, da dove tra l’altro aveva spiccato

gioca a Napoli l’andata. I partenopei non sono certo il fiore all’occhiello dei giorni nostri, in campionato arriveranno tredicesimi e la loro stagione, iniziata in panchina con Gigi Simoni e proseguita con Vincenzo Montefusco, è appesa alla Coppa Italia. In porta c’è batman Taglialatela, in difesa il brasiliano Andrè Cruz, a centrocampo il francese Boghossian, davanti il 10 staziona sulle spalle di un brasiliano detto Beto. I 70 mila del San Paolo si sentono e li sentono anche i giocatori del Vicenza, prima del match, mentre, negli spogliatoi, si preparano. Come ci testimonia Brivio nello spazio interviste. Al ventesimo, Mauro Milanese macina chilometri sulla mancina: cross. Pecchia

96

se la ritrova davanti e con una semi rovesciata mette dentro. Il Napoli ha colpito, il Vicenza è ferito ma non stordito e riesce ad evitare che altre palle napoletane diventino gol. Tutto è rimandato al round due. Il Menti è un camino, dove ogni tifoso mette il suo personale pezzetto di legno, per un tizzone mai visto. Bastano 20 minuti a Jimmy Maini per rimettere in parità, con un destro dopo una ribattuta da Taglialatela, la situazione. Le urla che produce lo stadio, come ci attestano i ricordi della memoria storica Brivio, sfondano i decibel. Il Vicenza è una barca trascinata da onde amiche. Il Napoli un vascello tradito dai suoi stessi marinai: Caccia, per una gomitata, rimedia


il volo: Roberto Baggio”. Quella cavalcata in Coppa Italia fu qualcosa di straordinario: in rapida successione avevate fatto fuori Lucchese, Genoa, Milan e Bologna “Come al solito all’inizio la Coppa Italia, specie nel turno di agosto, viene affrontata preparazione in vista del campionato, poi man mano divenne, per noi, qualcosa di sempre più importante. Fiutammo che davvero potevamo sovvertire molti pronostici ed andare in fondo ai quarti quando andammo a pareggiare, per uno a uno, a San Siro contro il Milan, che poi con lo zero a zero a Vicenza, eliminammo dalla Coppa”. Eccoci alla finale. Perdete la prima, con gol di Pecchia a Napoli, ma poi al Menti la ribaltate addirittura per tre a zero, con quella giustezza di chi vuol scrivere la storia “Era un gruppo che veniva da lontano. Gran parte di quelli che hanno alzato e vinto la Coppa Italia, venivano dalla Serie C. Poi la piazza era fuoco sulla nostra benzina, ed eravamo gasati da un allenatore senza pari”. Un’immagine di quella notte in cui la Coppa Italia si accorse di avere un nuovo padrone e che si chiamava Vicenza? “Ricordo tutti quelli che c’erano allo stadio, quel caos benefico e vivifico, ma quella notte, dopo aver vinto la Coppa, successe qualcosa di straordinario: verso le tre andammo in piazza del Signore con le nostre le macchine a fare una partita tra di noi sotto lo sguardo...della coppa che avevamo appena vinto: ora, potevamo giocare liberamente tra di noi”.

un rosso lasciando i suoi compagni in dieci. Ci vogliono i supplementari. Ma non i rigori, perché al 119 minuto Maurizio Rossi ribadisce in rete una punizione di Beghetto non trattenuta da Taglialatela. Il Vicenza non solo accarezza, ma ora sta per toccare la Coppa. Ma le favole quando trovano la benedizione della realtà, bhè, mica si pongono limiti. Ecco quindi il tre a zero siglato in contropiedi da Iannuzzi. Braschi fischia la fine. Adesso sì che capitan Lopez può alzare la Coppa, adesso sì che il Vicenza ce l’ha fatta, con l’alfabeto dei piccoli, che prima di altri, sanno leggere e poi fare cose grandi. “Per una squadra piccola come il Vicenza quella Coppa fu come uno scudetto”, ebbe a

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

dire, qualche anno più tardi, mister Guidolin. Quella festa fu profondamente di chi se l’era conquistata e della gente che non aveva fatto mancare energie e cori. Allora, come ci racconta anche Viviani, nel cuore della notte, i cavalieri che fecero l’impresa, e cioè lui stesso, capitan Lopez, Di Carlo, Brivio, Cornacchini, Maini e tutta la truppa, presero le macchine ed andarono in piazza del Signore. Parcheggiarono e iniziarono una partita, tra di loro. Gli argonauti vicentini avevano conquistato il vello d’oro, ora potevano divertirsi in santa pace. No, questo rapporto tra l’equilibrio, la gioia e il divertimento, alle precise proporzioni della ridente architettura palladiana, mancava.

97


SCOVATE

da carletto Carlo CARLETTO Nicoletti (Direttore Artistico MATCH MUSIC) seguirà i profili Instagram e Twitter dei giocatori più importanti del pianeta Calcio e ci segnalerà le foto e i tweet più divertenti e particolari. Segnalate quelle che magari potrebbero sfuggirgli scrivendogli al suo profilo Twitter e Instagram @carlettoweb

ROSSI

Il centravanti del Genoa, ex viola, si gode il giorno libero in giro per Firenze.

DYBALA

L’attaccante della Juve con Cuadrado e Costa nel post partita dopo l’ennesima vittoria.

PALOSCHI

Entrato a partita in corso, il centravanti della Spal celebra il pareggio contro la Fiorentina.

AGUERO

El Kun celebra la vittoria anticipato della Premier League con il suo Manchester City.

98

LULIC

Il giocatore della Lazio sul proprio profilo instagram omaggia la coreografia dei tifosi laziali per il derby.

STROOTMAN

Cena leggera per il centrocampista della Roma...

VIERI

Bomber Vieri celebra il “Dream Team” nazionale di qualche anno fa...

VERRATTI

Anche Verratti celebra il ritorno, dopo un anno di pausa, alla vittora della Ligue One del suo PSG. Simpatico lo scambio di messaggi con lo juventino Matuidi.


#PANINIGIRO101 www.panini.it

AMORE INFINITO... IN FIGURINE E CARD !!!

ED IZ IO NE

2018

FICIALE L A COLLEZIONE UF

N O V I TÀ

LE CARD DELLE BICICLETTE E DELLE MAGLIE UFFICIALI DI TUTTI I TEAM AL VIA

LA HALL OF FAME DEL GIRO D’ITALIA LE IMPRESE DEL GIRO

*Concorso valido dal 05/04/2018 al 30/06/2018. Estrazione entro il 01/09/2018. Montepremi €6955,65. Regolamento completo su www.panini.it

COLLEZIONA E VINCI U N A M AG L IA ROSA AL GIORNO! *

LE BICICLETTE

LE TAPPE

LE MAGLIE

IN TU TT E LE ED IC O LE !


CON IL SOSTEGNO DI

MEDIA PARTNER

CON LA COLLABORAZIONE DI

COMUNE DI GENOVA DELEGA PROMOZIONE ED EDUCAZIONE ALLO SPORT

POWERED BY OVATION

30 MAGGIO ORE 20.00 GENOVA STADIO LUIGI FERRARIS MERCOLEDÌ

MATTIA

RUGGERI

GIANNI

PERIN

www.partitadelcuore.it

#partitadelcuore2018

MAIN SPONSOR

SPONSOR TECNICO

CON IL SOSTEGNO DI PHOTO © TANOPRESS

MORANDI

MEDIA PARTNER

COMUNE DI GENOVA DELEGA PROMOZIONE ED EDUCAZIONE ALLO SPORT

NAZIONALE CANTANTI www.partitadelcuore.it MAIN SPONSOR

TEO

FABIO

TEOCOLI

QUAGLIARELLA

Biglietti a partire da 10 euro su listicket.com LA PARTITA DEL CUORE 2018 È REALIZZATA GRAZIE A

CON LA COLLABORAZIONE DI PHOTO © PEGASO NEWSPORT

ENRICO

CAMPIONI DEL SORRISO #partitadelcuore2018 SPONSOR TECNICO

Biglietti a partire da 10 euro su listicket.com LA PARTITA DEL CUORE 2018 È REALIZZATA GRAZIE A


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.