DIC
231 GEN
diretto da Fabrizio Ponciroli
3,90€
10
BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50
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Bimestrale
Calcio
EDIZIONE SPECIALE CON L’ALBUM FIFA 365
ALLA VECCHIA SIGNORA
ESCLUSIVA ESCLUSIVA FOCUS ON ESCLUSIVA
PORTOGHESI IN ITALIA
Qualche genio e tante meteore
CRISTIANO PICCINI “La mia vita a Lisbona”
iESCLUSIVA GIGANTI DEL CALCIO
MARCO NEGRI
GARE DA NON DIMENTICARE ESCLUSIVA
CLAUDIO BOSOTIN FINALE COPPA UEFA 1998
“Che ricordi a Glasgow” “Mi son portato la coppa a casa”
ALFABETO DEI BIDONI Taye Taiwo
dietro le quinte ESCLUSIVA
SPECIALE MAGLIE STORICHE
La casacca dell’Amburgo
Inter-Lazio 3-0, Ronaldo al top
DOVE SONO FINITI? Luca Saudati
FP
LA MAGIA DEI NUMERI…
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editoriale
Ponciroli Fabrizio
uando ero un acerbo studente, ho ad un personaggio che ha la Samp nel cuosempre subito il fascino dei numeri re: Bosotin!!! Siamo stati anche a Lisbona e, di conseguenza, della matematia trovare Piccini, esterno Made in Italy in ca. Crescendo, mi sono avvicinato forza allo Sporting Club de Portugal… Non più alle materie umanitarie ma, i numeri, contenti, ci siamo fatti due chiacchiere con mi sono sempre rimasti in testa… Colpa anun difensore argentino che ha conquistato che del calcio che vive di numeri. Ogni calBergamo, ossia Palomino. Beh, non voglio ciatore si identifica con un numero, il suo dilungarmi… Non male neppure il regalo, numero. Tra tutti, è chiaro che il “10” ha una vero? Un grazie alla Panini per il sostestoria speciale, unica, gno… Chiudo con il splendida. Per chi ha VAR, visto che mi avefesteggiato già diverse te scritto in tantissimi. primavere, è normale Io, persona di stampo ricondurre il “10” ai culturale (sportivagrandi della storia del mente parlando) amecalcio. Bene, a distanricano, sono assoluza di decenni dai vari tamente favorevole al Maradona e Platini, VAR. Temo, tuttavia, per restare in ambiche si stia rischiando Diego Armando Maradona di far perdere autorità to italiano, il “10” non ha perso estimatori. È al direttore di gara. Ho ancora il numero che riscuote più consensi, l’impressione che l’arbitro possa perdere anche se pesa tantissimo. Lo sa bene Dybafiducia nei propri mezzi, considerato che, la, il nuovo “10” della Juventus. Una bella comunque sia, può affidarsi al VAR. Siamo responsabilità ma, se sei un top player (e in fase sperimentale, bene ricordarlo, ma la Joya lo è al 100%), devi avere il coraggio cerchiamo di non rendere l’arbitro in camdi affrontare ogni ostacolo, anche il “peso po un semplice soldato che attende ordini della 10”. Godetevi lo speciale, con un’apdall’alto… Tempo terminato, buona lettura pendice decisamente curiosa. Per chi ama a tutti voi!!! Mi auguro che la nostra/vostra le storie particolari, vi consiglio l’intervista rivista vi piaccia sempre di più!!!
Se stessi con un vestito bianco a un matrimonio e arrivasse un pallone infangato, lo stopperei di petto senza pensarci
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SOMMARIO
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Calcio2OOO
Anno 20 n. 6 dicembre 2017 - gennaio 2018 ISSN 1126-1056
BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli
& TV MOVIES 54 SPORT SPECIALE
10 JUVENTUS 8 NUMERI SPECIALE
di Fabrizio Ponciroli
di Fabrizio Ponciroli
NEGRI 60 MARCO GIGANTI DEL CALCIO di Paolo Bardelli
68 WEMBLEY REPORTAGE di Gianfranco Giordano
di Thomas Saccani
di Fabrizio Ponciroli
BOSOTIN 74 CLAUDIO INTERVISTA di Thomas Saccani
SAUDATI 82 LUCA DOVE SONO FINITI? di Stefano Borgi
TAIWO 86 TAYE L’ALFABETO DEI BIDONI di Fabrizio Ponciroli
PORTOGHESE 30 CALCIO FOCUS ON di Luca Savaresei
EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872 DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello Diretto da Fabrizio Ponciroli Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto.
10 DELL’ARGENTINA 16 ISPECIALE PICCINI 20 CRISTIANO intervista Esclusiva
Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 10/11/2017 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246
90 INTER-LAZIO SPECIALE COPPA UEFA di Luca Savarese
Luis Palomino 36 José INTERVISTA ESCLUSIVA di Sergio Stanco
Hanno collaborato Thomas Saccani, Luca Savarese, Sergio Stanco, Gianfranco Giordano, Paolo Bardelli, Stefano Borgi, Carletto RTL Realizzazione Grafica Francesca Crespi Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview. Statistiche Redazione Calcio2000 Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805 Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688
46 AMBURGO MAGLIE STORICHE di Gianfranco Giordano
DA 98 SCOVATE CARLETTO RTL
Il prossimo numero sarà in edicola il 10 Gennaio 2018 Numero chiuso il 30 ottobre 2017
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bocca del leone
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VOGLIO ANCELOTTI IN NAZIONALE Direttore, so che lei mi capisce. Ma questa Italia è la peggiore di sempre? Secondo il mio parere è la peggiore di tutta la nostra storia e la colpa + di Ventura che non ha saputo fare nulla di buono se non intestardirsi sul 4-2-4 che a noi non va bene. Arriva Ancelotti, me lo assicura? Grazie per la risposta. La leggo sempre! Gianmaria, mail firmata Argomento spinoso caro Gianmaria… Sì, l’Italia mi ha deluso, molto… Non mi interessa il fatto, reale, che ci sia poco talento diffuso nella rosa attuale ma non mi è piaciuto l’atteggiamento post gara persa, male, con la Spagna. Ormai siamo in pieno spareggio Mondiale… Speriamo bene… Ventura non
mi ha mai convinto e resto della mia idea: doveva “osare” di più, cercare, davvero, di affidarsi ai giovani o, almeno, mantenere viva la “personalità” vista con Conte sulla panchina. Ancelotti? Me lo auguro con tutto il cuore anche io… BONUCCI, CHE FLOP… Ponciroli, sono diretto: ma che pacco abbiamo preso dalla Juventus? Vado a San Siro tutte le partite e questo non sa letteralmente che pesci pigliare in mezzo al campo? Non potevamo lasciarlo alla Juventus o a Conte? E adesso che succede? Ce lo teniamo per giocare la Coppa Italia? Sono deluso e arrabbiato! Cs74Stan, mail firmata Non hai lasciato il tuo nome ma ho comunque deciso di pubblicare il tuo sfogo… Allora, andia-
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moci piano con il giudicare Bonucci. Uno che è stato, per anni, uno dei migliori difensori al mondo, non può essere diventato un brocco di colpo. Cambiare squadra non è semplice per nessuno, soprattutto se passi dalla Juventus, vincente e con certezze difensive elevatissime, ad un Milan in fase di ricostruzione. Bonucci farà la sua parte, non ho dubbi in proposito. SARRI è IL NUOVO GUARDIOLA? Egregio Direttore, la seguo sia su Calcio2000 che su TMW Radio. Complimenti per la professionalità e competenza. Sono un tifoso di calcio. Non seguo una squadra in particolare ma mi piace il bel calcio. Chiaramente Sarri è quello che mi esalta maggiormente e mi chiedo se sia ormai il nuovo Guardiola? Lo chiedo a Lei che
di Fabrizio Ponciroli
so avere un debole per Sarry Potter, come lo definisce lei in trasmissione. Saluti Marcello, mail firmata Caro Marcello, troppo gentile e buono… Allora, Sarri è, indubbiamente, un grande innovatore. Il Napoli è bellissimo da vedere e, a differenza di Zeman, porta a casa anche risultati importanti. Non direi che Sarri sia il nuovo Guardiola… Diciamo che è una ventata di freschezza in un calcio che ha bisogno di uomini con grandi idee. Guardiola ha vinto tanto (e continuerà a vincere), diamo il tempo a Sarry Potter di iniziare a vincere e poi vedremo cosa accadrà…
IL LIBRO DEL CHINO “Dimmi chi era Recoba”, la favola del Chino tra talento ed anarchia. Per Edizioni inContropiede esce la biografia del calciatore dell’Inter scritta da Enzo Palladini. Il calciatore Recoba è stato un eterno ragazzino, capace di giocate paradisiache e di lunghi periodi bui. Nel suo curriculum i numeri sono bassi e pochi i trofei, per uno che ha smesso di giocare a quarant’anni. Colpa di tutti e di nessuno, colpa sua e di chi non ha creduto in lui, colpa della sua poca voglia di allenarsi e della poca voglia di farlo allenare dei suoi tecnici. Ma se avesse giocato il doppio delle partite e segnato il doppio dei gol, non sarebbe stata la stessa cosa. Non sarebbe entrato nella leggenda. Non avrebbe conquistato schiere di appassionati. Recoba, un fenomeno talvolta incompreso e talvolta incomprensibile, è stato solo e semplicemente sé stesso. Le prefazioni sono di Massimo Paganin e Arcadio Ghiggia.
LA COLAZIONE DEL TIFOSO CALCIO E FIGURINE Buongiorno, seguo la vostra rivista da moltissimi anni e la trovo molto completa e informativa. Io colleziono le figurine dei Calciatori e ricordo con piacere nelle scorse edizioni che erano in regalo
Grossa novità per i super tifosi… Icam lancia la “mug dei campioni”. L’originale tazza della propria squadra del cuore per cominciare la giornata al meglio. Ci sono davvero tutte. Da quella della Juventus Campione d’Italia a quelle di Roma, Lazio, Inter, Milan, Genoa, Sampdoria, Fiorentina e Torino. Con anche un dolce regalo…
dentro la rivista. Perché non si può rifare la cosa? Sarebbe molto interessante per chi come me è un collezionista. Grazie Antonino, mail firmata Ciao Antonino, come sai sono un super collezionista pure io e quindi, stai sicuro, ci saranno sempre figurine (o album) in allegato con la rivista. Questo mese spazio a Fifa 365 ma, per
Calciatori, sicuramente faremo qualcosa di importante come gli anni passati. Stai tranquillo… RISPOSTA SECCA… Direttore, sono Pasquale, tifoso interista di 14 anni. L’Inter può vincere lo Scudetto quest’anno? Pasquale, mail firmata Caro Pasquale, secondo me è una candidata allo Scudetto…
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SPECIALE
Numeri 10 Juventus di Fabrizio Ponciroli
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LA BIANCONERA Una maglia ricca di storia e aneddoti. Ora tocca a Dybala…
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er chi ha il pallone saldamente conficcato nella mente, la maglia numero “10” ha un significato unico, quasi divino. A parte qualche doverosa eccezione (il “14” di Crujff, tanto per citare un esempio calzante), i più grandi fuoriclasse della storia hanno brillato con quel fatidico numero sulle spalle. Si sa, la numerazione dall’1 all’11 evoca epoche, calcisticamente parlando, piuttosto datate ma, ancora
SPECIALE
Numeri 10 Juventus
“ME LA DIEDE MARCHESI”
D’Agostini è il primo ad indossare la “10” dopo l’addio di Platini… Tra coloro che hanno avuto l’onore (e la forza mentale) per giocare con la “10” bianconera c’è stato anche Luigi De Agostini. Di fatto, è stato il primo ad indossare la pesante casacca dopo l’addio, nell’estate del 1987, di Michel Platini. Il ricordo è ancora vivo nella mente di uno dei giocatori più duttili della storia del nostro calcio: “Ricordo che è stato l’allora allenatore Rino Marchesi a darmela. Sin dalle prime amichevoli estive, ho giocato con la “10” e anche alla prima partita ufficiale, in Coppa Italia contro il Lecce, avevo quel numero di maglia. Mi ha anche portato fortuna, visto che, in quella partita contro il Lecce, ho anche segnato… Ovviamente mi rendevo conto che ero il primo a giocare con quel numero dopo l’addio di Michel ma, onestamente, non mi ha mai pesato. Io nascevo come numero 10. Ho giocato come trequartista fino alle giovanili con l’Udinese, prima di cambiare ruolo e diventare un uomo davanti alla difesa. Inoltre, ad essere onesto, proprio all’Udinese mi era capitato, qualche volta, di giocare con la “10” di Zico, quindi, da un certo punto di vista, era pronto a questa responsabilità”. Una grande responsabilità che D’Agostini ha vissuto sempre a testa alta: “Tutte le maglie della Juventus sono pesanti. Io, per caratteristiche, non ero certo il classico “10”. Forse, dandola ad un giocatore come me, quindi non ad un vero “10”, si voleva togliere pressione ai pari ruolo di Michel…. Posso solo dire che, in quel primo anno con la “10” bianconera, ho segnato tantissimi gol. Quindi direi che mi ha portato anche fortuna”. Curiosamente la “10” è tornata spesso nella carriera di D’Agostini: “Agli Europei del 1988, per questioni alfabetiche, sono finito a ritrovarmi con la “10” sulle spalle e, anche in quella manifestazione, sono andato piuttosto bene. Ho anche segnato alla Danimarca con quel numero sulle spalle”. Tuttavia, da grande esperto di calcio, l’ex difensore, tra le altre, di Udinese, Juventus e Inter, sa bene che la “10” appartiene ai fantasisti: “Dybala è il degno erede di Del Piero, non ci sono dubbi a proposito. Giusto che la “10” sia finita ad uno come Dybala. Credo che possa davvero entrare a far parte della storia della Juventus e rendere omaggio, nel migliore dei modi, ai tanti campioni che quel numero l’hanno reso immortale. Ha tutto per essere un grandissimo. La “10 gli calza a pennello…”.
D’Agostini è stato il primo ad indossare la casacca numero 10 dopo Platini - FOTO LIVERANI
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oggi, nell’era dell’hi-tech, il “10” ha un peso specifico superiore rispetto a qualsiasi altro numero. Alla Vecchia Signora, c’è un vero e proprio culto attorno alla “10”. Tante vittorie sono passate da imprese di bipedi con addosso quella fantastica coppia di numeri. All’inizio della stagione in corso, la Juventus, con grande intelligenza e lungimiranza, ha deciso di rispolverare la “10” dal cassetto e affidarla ad uno che, per qualità e caratteristiche tecniche, è ben degno di mostrarla nei vari campi d’Italia e D’Europa, ossia Paulo Dybala. L’argentino, ormai è fatto risaputo, è destinato a diventare un crack del calcio mondiale. Un bene prezioso, un sublime diamante, un “10” perfetto che riporta alla mente tanti fuo-
Le Roi Platini, uno che la 10 l’ha portata sulle spalle con eleganza e classe Foto liveranI
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SPECIALE
Numeri 10 Juventus riclasse che, prima di lui, hanno portato, con onore, la “10” in casa bianconera. In effetti, la storia di questa casacca è ricca di fascino, soprattutto se si sfoglia il libro dei ricordi della Vecchia Signora. Tra i primi a sfoggiare la “10” troviamo Giovanni Ferrari. Per cinque anni, dal 1930 al 1935, questo mezzala di sinistra piemontese doc gioca spesso con la “10” incantando i tifosi e portandosi a casa ben cinque scudetti. Tuttavia, il primo a rendere la “10” una maglia davvero speciale è il leggendario Omar Sivori. Sul finire degli anni ’50 e nei primi anni ‘60, la sua classe è nota in tutto il mondo. Pallone d’Oro nel 1961, diventa un tutt’uno con la “10”. Quando, nel 1965, Sivori lascia la Juventus per il Napoli, la “10” viene consegnata, con grande cura (e preoccupazione) nelle mani di Luis del Sol. Campione d’Europa con la Spagna nel 1964, lo spagnolo dà del tu al pallone come pochi altri. Soprannominato Postino, raccoglie la pesante eredità lasciata da Sivori con grande maestria. E’ una sorta di “10” tutto campo ma sa come far luccicare quella maglia. Un uomo “da fioretto”, decisamente in antitesi con il “duro Capello”. Ebbene sì, nella storia dei grandi numeri “10” bianconeri c’è anche Don Fabio. Nei suoi anni bianconeri (dal 1970 al 1976), Capello scende in campo, spesso, con la “10”, mostrando il carattere che lo contraddistinguerà anche da allenatore. Il calcio, nel 1980, cambia radicalmente. L’Italia pallonara riabbraccia gli stranieri. La Juventus decide di acquistare, dall’Arsenal, un regista mancino di enorme talento: Liam Brady. Rigorista nato, è lui il nuovo “10” della Juventus. In bianconero resta un paio d’anni, il tempo necessario per “scaldare” la maglia e porgerla nelle sapienti mani di un certo Mi-
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Recentemente anche Paul Pogba ha avuto l’onore di indossare la 10 della Juventus
chel Platini. Le Roi è lo spartiacque nella storia della “10” bianconera. C’è un pre Michel e un post Michel. Con l’arrivo del francese, la Vecchia Signora si esalta, in Italia e in Europa. La “10” diventa una sorta di seconda pelle per Platini. E’ il periodo d’oro della casacca con l’”1” e lo “0” ravvicinati, anche grazie anche al duello a distanza tra Le Roi e l’altra “10” del momento (Maradona). Sono anni meravigliosi (e vincenti) per il popolo bianconero. Purtrop-
Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
L’era Del Piero è ricordata come una delle piÚ luccicanti nella storia della 10 bianconera...
SPECIALE
Numeri 10 Juventus po anche il tempo dello champagne ha un suo epilogo. Al termine della stagione 1986/87, Le Roi dice basta con il calcio giocato. La Juventus si mette a caccia del nuovo “illuminato” a cui consegnare la preziosa (e ora più che mai ingombrante) casacca… La scelta, alla fine, ricade su Alexander Zavarov. Le premesse sono più che positive. Nella vecchia URSS, Zavarov è l’uomo cardine, il gioiello che brilla maggiormente. In realtà, la missione si rivela un fiasco totale. Il sovietico non incide nella Juventus, il “10” sulle spalle non gli dona. Dopo qualche interregno, tra cui bisogna citare il periodo del “saldato” Giancarlo Marocchi, ecco che la “10” trova un nuovo grande solista che sappia esaltarne le doti: Roberto Baggio. Siamo nel 1990 e, dalla Fiorentina, arriva il Divin Codino. E’ amore a prima vista tra Roby
e la “10”. I due sono in perfetta sintonia. C’è nuovamente profumo di champagne nelle vie di Torino. E il “magic monent” è destinato a durare a lungo visto che, dopo Roby Baggio, inizia l’era di un certo Alex Del Piero. Pinturicchio si prende la “10” con vigore e spavalderia, regalando, per anni, magie degne del numero che indossa. Siamo agli ultimi anni. Come accaduto dopo il ritiro di Platini, con l’addio di Del Piero si scatena la caccia al nuovo grande “10”. Ci provano Carlitos Tevez e Paul Pogba poi, dopo un anno di riflessione, arriva l’incoronazione di Paulo Dybala. L’impressione è che, con la Joya, le bollicine di Champagne continueranno a fluttuare in casa della Vecchia Signora. A Torino sono abituati bene. Dybala, tuttavia, ha tutto per essere ricordato, a lungo, nella gloriosa storia della “10” bianconera…
GLI OUTSIDER
Da Verza a Vignola, passando per Tavola. I “mestieranti” con la “10”… Nella storia ultra centenaria della Juventus, sono stati tantissimi i fuoriclasse che sono scesi sul rettangolo di gioco con la “10” sulle spalle. Bene, ci sono stati anche dei “mestieranti” che, per bravura, fortuna o necessità, hanno avuto l’onore di far parte della lunga lista di giocatori che hanno, almeno una volta nella vita, giocato con la “10” bianconera. Il caso più emblematico ci porta a Roberto Tavola. Siamo, con la memoria, all’estate del 1979. La Juventus ha appena salutato un gladiatore come Romeo Benetti, un “10” bianconero di grande vigoria fisica e intelligenza tattica. La dirigenza deve scegliere un nuovo “10”. La scelta, curiosamente, cade su un 23enne di belle speranze: Roberto Tavola. E’ reduce da una discreta stagione alla Lazio. Ha carattere e tanta determinazione. Alla prima del campionato 1979/80, si presenta in campo, nella sfida contro il Bologna (1-1 il finale) con la “10”. Un sogno diventato realtà, poco importa che la porterà in pochissime occasioni. Ci sono stati altri giocatori che hanno incrociato la “10”. E’ accaduto a Cesare Prandelli, così come a Gigi D’Agostini. L’ha “sperimentata” Vinicio Verza e pure Angelo Alessio, così come Beniamino Vignola. C’è stato anche chi, quella maglia, non l’ha voluta indossare, come Marino Magrin. Arrivato per prendere il posto di Michel Platini, l’ex atalantino è sempre stato chiaro: “Per settimane si è scritto ‘... arriva Magrin al posto di Platini’. Ma io sono sempre stato chiaro, ho sempre detto che ero un buon giocatore ma che non potevo certo essere come Michel. Lui era un fuoriclasse. Io ho sempre giocato da 8, non da 10 alla Platini”. La “10”, una maglia unica…
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Dybala è destinato a diventare uno dei grandi numeri 10 della storia bianconera...
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SPECIALE
Numeri 10 argentini di Thomas Saccani
ARGENTINI CON LA 10
Ora è nelle, sicure, mani di Messi ma, prima o poi...
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uando pensi all’Argentina, ovviamente, ecco prendere forma l’immagine del Pibe de Oro. Il “10” per eccellenza dell’Albiceleste, il più grande di tutti. Per anni, Maradona ha indossato la casacca numero “10” argentina, esattamente fino ai Mondiali del 1994. Poi è toccato ad altri, non sempre “di prima fascia”. Salutato, con copiose lacrime, Maradona, ecco Ariel Ortega, un pupillo del Loco Bielsa che non ha avuto problemi ad affidargli un “numero” tanto pesante. El Burrito, visto in Italia, ci ha provato, in ogni maniera, ma, diciamo così, non era della stessa pasta del Pibe de Oro. Tuttavia, alla Coppa del Mondo del 1998 e pure in quella del 2002, la “10” apparteneva a lui. Aneddoto. Il primo ad “accollarsi” la “10” dopo “la prima pausa” di Maradona (1990) non è stato Ortega ma un certo Diego Pablo Simeone, uno che
foto Liverani
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SPECIALE
Numeri 10 argentini ne ha fatta tanta di strada, sia da calciatore che come allenatore. El Cholo ha lottato con la “10” sulle spalle dal 1991 al 1993. Nello stesso periodo storico, anche Marcelo Gallardo ha avuto, in qualche occasione, l’onore di giocare con la “10” sulle spalle. In particolare, “El Muneço”, è stato il “10” argentino nella spedizione alla Copa America del 1995, in Uruguay. Poi, come accennato, è toccato ad Ortega, amatissimo in patria, meno nel resto del mondo. Sempre con il Loco Bielsa in panchina, esattamente ai Giochi Olimpici di Atene (2004), anche Carlos Tevez, poi applaudito in maglia Juventus (anche in questo caso con la “10”), si è infilato la camiseta argentina più prestigiosa. Nella lista dei “10” in Albiceslete troviamo anche Pablo Cesar Aimar. La sfoggia, nello specifico, alla Confederations Cup del 2005. A seguire, ecco l’investitura di Juan Roman Riquelme, idolo del popolo argentino e giocatore dalle doti importanti (mai dimostrate a pieno). Durante le gare di qualificazioni e pure nella fase finale del Mondiale del 2006 e alla Copa America del 2007, la “10” la porta l’ex stella del Boca Juniors (51 presenze, con 17 gol totali, con l’Argentina). E si arriva ai giorni nostri con il conferimento della nobile arte del “10” a Leo Messi. A consegnargli la maglia è, ironia della sorte, proprio Diego Armando Maradona, certo di averci visto giusto. Da allora sono trascorsi quasi 10 anni e il titolare di quel fantastico numero è sempre lo stesso… Quan-
do c’è la Pulce, nessuno può neppure osare di sognare di indossare la “10” (in realtà, al Kun Aguero è capitato, proprio in assenza di Messi). Dybala, uno che, per talento, la meriterebbe probabilmente in ogni altro Nazione del globo, è costretto ad attendere il suo momento. Ma c’è una certezza: prima o poi inizierà, anche in Argentina, l’era della Joja…
Anche il Kun Aguero ha sperimentato la mitica maglia numero 10
LA 10 AD UN PORTIERE Nella storia della Seleccion Argentina c’è un caso anomalo. Alla Copa America 1997, l’Albiceleste si presenta con tanti potenziali numeri “10” ma, a sorpresa, la casacca che è stata di Maradona, finisce sulle spalle di Ignacio Carlos González Cavallo, detto Nacho. Giramondo del pallone ma con un grande passato al Racing, Nacho non è proprio il classico fantasista. Gioca, infatti, nel ruolo di portiere. Motivo? La scelta di affidarsi, ancora una volta “al sistema alfabetico” per elargire i numeri di maglia. L’allora CT Passarella, saputo del 10 a Nacho, non ha fatto nulla per impedire che accadesse. L’11 giugno, nella gara inaugurale della Copa America 1997, contro l’Ecuador, Nacho è titolare, con la “10” sulle spalle. Finisce 0-0. Bene, sarà la sua unica gara con la “10” visto che, nelle gare successive (l’Argentina sarà eliminata ai quarti di finale dal Perù) giocheranno Ojeda e Roa… Bizzarro ma vero.
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PRIMA DEL PIBE DE ORO Come detto, Maradona è stato il “10” più lucente della storia della nazionale argentina. C’è stato un “dopo Maradona” ma anche un “pre Maradona”. Ripercorrendo le tappe della storia dell’Albiceleste, si scoprono tante curiosità legate a quella meravigliosa, ma a volte dannata, maglia numero “10”. Ai Mondiali del 1958, l’Argentina viene eliminata al primo turno (conquista due punti in tre gare del girone). La “10” la portava tale Alfredo Hugo Rojas Delinge, non certo un “fantasista”. Era, infatti, un possente centravanti, tanto da meritarsi il soprannome di “El Tanque”. Quattro anni più tardi, al Mondiale del 1962, la “magica” casacca è sulle spalle di José Francisco Sanfilippo, un altro attaccante, leggenda del San Lorenzo, soprannominato “El Nene” (uno dei goleador più prolifici della storia della Primera Division Argentina con 226 gol in 330 partite). Alla successiva edizione della Coppa del Mondo, nel 1966, la “10” è di Antonio Ubaldo Rattín, centrocampista di buona fattura. All’ex capitano del Boca Juniors è legato anche il ricordo della famosa sfida Argentina-Inghilterra con il tanto discusso rosso che lasciò l’Albiceleste
in inferiorità numerica e, di fatto, spalancò la strada agli inglesi, complice il gol fantasma di Hurst. Il giocatore espulso, infatti, fu proprio il numero 10 argentino Rattin. Dopo aver lasciato il mondo del calcio, si è dedicato alla politica. Bizzarro anche il “10” della spedizione argentina ai Mondiali del 1974. Finisce sulle spalle di Ramón Armando Heredia Ruarte, di ruolo difensore. Come mai? Perché? Semplice, per quanto riguarda le edizioni della fase finale della Coppa del Mondo del 1974 e del 1978, il numero di maglia viene assegnato in ordine alfabetico e, così, ecco la “10” sfoggiata da un difensore. Giocherà, il buon Ruarte, solo 20 partite con l’Albiceleste ma con la soddisfazione personale di aver indossato al Mondiale la “10”. Curiosità: in quell’edizione del 1974, il fuoriclasse della squadra Kempes, per “questioni di alfabeto” si prese la 13. Quattro anni più tardi Kempes avrà in dote la “10”. Sarà il primo a vincere un Mondiale con quel pesantissimo numero sulle spalle… Poi, dal 1982, in Spagna, toccherà, come tutti sanno, a Maradona che, quattro anni più tardi, sarà il secondo a vincere un Mondiale con la mitica e leggendaria camiseta numero “10”…
Maradona, il 10 più amato della storia del calcio argentino
Ora allenatore, El Cholo ha indossato, da calciatore, la 10 nell’Albiceleste
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INTERVISTA
Cristiano Piccini di Fabrizio Ponciroli
IL CRISTIANO NELLE MANI DI JESUS Viaggio a Lisbona per raccontare lo Sporting Clube de Portugal e la straordinaria avventura di Piccini…
Si ringrazia l’Ufficio Stampa Sporting Clube de Portugal
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Credit Foto: Sporting Clube de Portugal
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isbona è una città magica. Le bellezze artistiche sono inebrianti, tanto quanto la Ginjia, liquore a base di ciliegie che si sposa perfettamente con le sublimi pasteis de nata, dolci da leccarsi i baffi (vi consigliamo di assaggiare quelle preparate, al momento, al negozio Fabrica da Nata, a Rossio). La gente vive in maniera qua-
si disincantata ma, quando si parla di calcio, la serietà prende il sopravvento. A Lisbona ci sono tante società calcistiche. Ben tre giocano nella Liga Nos, ossia nella massima competizione calcistica portoghese. C’è l’amatissimo Benfica, il piccolo Belenenses e lo Sporting che, come ci ha spiegato, a chiare lettere Miguel Cardoso, simpaticissimo “press man” del
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INTERVISTA
Cristiano Piccini club, “… non è Sporting Lisbona ma Sporting Club de Portugal perché lo Sporting non rappresenta solo Lisbona ma tutto il Portogallo”. Sì, allo Sporting ci tengono parecchio alla loro “storia”. Lo spettacolare museo conserva tutti i ricordi legati all’Academia (lo Sporting non è solo calcio ma è una congrega di più sport). Visitandolo si comprende la grande passione che anima lo Sporting. Trofei, memorabilia e, ovviamente, le maglie dei giocatori che hanno fatto la storia dello Sporting, su tutti quel CR7 che, in ogni via della città, è presente in maniera massiccia. Fatima e Cristiano Ronaldo, di fatto, sono i simboli della città… Raggiungiamo lo stadio José Alvalade verso le 19.00 di sera. Manca circa un’ora e mezza alla sfida con il Tondela, valida per la sesta giornata del campionato, ma, attorno allo stadio, c’è già un gran fermento. Il popolo “Leonino” intona canti per i propri idoli, in particolare per quel Bruno Fernandes, ex Sampdoria e Udinese, che sta incantando tutti (miglior giocatore del mese di agosto per quanto concerne l’intera Liga Nos). Dopo aver ritirato gli accrediti, eccoci seduti in tribuna stampa. Lo stadio si riempie pochi minuti prima del match, merito anche della
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Metro che, di fatto, porta i tifosi in bocca al José Alvalade. Josér Lopes, di Sapodesporto, ci fa da Cicerone: “Lo Sporting non vince il titolo nazionale da 16 anni. I tifosi sperano sia la volta buona. La squadra è piuttosto forte. William Carvalho e Bruno Fernandes sono l’anima della squadra ma è l’allenatore, Jesus, il punto di riferimento di tutto. Il Tondela? È da due anni in Liga Nos ma lo Sporting, in casa, non ha mai vinto contro di lei…”. Una sorta di avvertimento: non fate casini, ci teniamo a continuare a vincere e restare in testa alla classifica. Per fortuna la partita va via liscia, almeno per i fan dello Sporting. Mathieu, con
un gran calcio di punizione, la sblocca. Nella ripresa ci penserà proprio Bruno Fernandes a chiudere i conti (con grande soddisfazione da parte del collega Josér). Nel mezzo, un momento da ricordare. Ad inizio ripresa, lo speaker dello stadio Alvalade informa i presenti: “Oggi siamo 40 mila, 400 e una persona. Quella persona è Cristiano Ronaldo”. Incredibile. Il boato è “atomico”. Il figliol prodigo torna a casa, a vedere il suo Sporting… Della partita con il Tondela non interessa più a nessuno dei presenti. C’è CR7 in tribuna, Sua Maestà… Noi, però, abbiamo altro da fare. Ci aspetta l’intervista con l’italiano voluto dal funambolico tecnico Jesus… Il funzionale e presentissimo ufficio stampa del club, nelle persone di Paulo e Miguel, ci portano in una stanza dello stadio. Entriamo ed ecco Cristiano, reduce dalle fatiche della sfida con il Tondela (ha corso come un matto sulla sua fascia di competenza). È il momento di saperne di più sul suo conto…
“Credo che l’Italia non sia nel mio futuro, almeno nell’immediato” Cristiano, a 21 anni eri già lontano dall’Italia… Raccontaci il tuo viaggio… “Ho lasciato l’Italia per il Betis, una squadra con grande blasone. Era importante per la mia crescita professionale. Sarei potuto restare in Italia ma ho preferito la Spagna ed è stata una grande decisione che, alla fine, mi ha portato allo Sporting…”. Quindi consiglieresti ai nostri giovani di mettersi in gioco all’estero? “Dipende dal carattere di ogni singola persona. Io sono un ragazzo che, a 17 anni, viveva già da solo, forse ero già predisposto a sperimentare qualcosa di diverso”. Al Betis ti sei imposto nel tempo… “Mi sono ambientato subito bene, anche perché parlavo già abbastanza bene lo spagnolo.
L’inizio non è stato facile. Troppi infortuni nella prima stagione. Nel secondo anno, dopo 18 partite di fila, mi sono rotto il crociato. Per fortuna, l’anno passato, è andato tutto alla grande e, alla fine, è arrivata la chiamata dello Sporting”. Ecco, parliamo di questo club dalla enorme passione… “Lo Sporting è una bomba… Mi avevano adocchiato già a Pasqua. Sono venuto a vedermi contro il Depor, match in cui ho anche segnato (ride, ndr)... Non ho avuto dubbi, soprattutto perché avrei lavorato con l’allenatore Jesus, uno che sa far crescere i giovani”. Che tipo è Jorge Jesus? “Un allenatore importante, un vincente, un perfezionista. Non gli va mai bene niente (ride, ndr). Anche se fai una super partita, ha sempre qualcosa da dirti ma va bene così. È il modo giusto per migliorare. Nella mia scelta di accettare l’offerta dello Sporting ha influito molto il fatto che fosse stato lui a richiedermi”.
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INTERVISTA
Cristiano Piccini Ti ricordi le prime parole che ti ha detto al vostro primo incontro? “Certo, mi ha detto che, dopo i primi due anni senza titoli allo Sporting, è giunto il momento di vincere qualcosa”. Quale è l’obiettivo dichiarato del club? “Sai sono 16 anni che non vincono la Liga Nos, quindi direi che è quello il sogno di tutti i tifosi. Già li abbiamo resi felici entrando nei gironi di Champions ma al campionato ci pensano tutti. Ovunque vai, sai che i tifosi hanno in mente quell’obiettivo”. Che emozione è stata, per te, sentire la musichetta della Champions League per la prima volta in carriera? “Guarda, sono uscito infortunato dalla sfida di campionato con il Feirense antecedente alla sfida, la prima del girone, contro l’Olympiakos. Il Mister mi ha chiesto se me la sentivo. Ho risposto che volevo esserci e, pur di essere in campo, ho stretto i denti, superando il dolore. Non potevo non giocare quella partita. È stato un sogno diventato realtà. Bellissimo”. Si dice che avresti potuto anche dilettarti in un altro sport… “Vero, da piccolino avevo come idolo mio fratello che giocava a baseball… Poi, quando ho cominciato le elementari, ho cominciato a giocare a pallone e mio padre, visto che sembravo avere una buona attitudine, mi ha iscritto ad una scuola calcio. Così è cominciato tutto…”. Nella tua storia calcistica c’è da rimarcare l’esordio, in Serie A, con la Fiorentina… “Mi ricordo perfettamente ogni singolo istante. Era il 5 dicembre del 2010. Avevo 18 anni ed è stata l’emozione più grande della mia carriera, forse superiore anche alla musichetta della Champions League. Poi è arrivata in maniera inattesa. In quell’estate Corvino mi chiese se volevo giocare terzino invece che esterno alto e io risposi che, pur di giocare, sarei andato anche in porta. Così riuscì, in poche settimane, ad allenarmi spesso con la prima squadra. Fino a
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Credit Foto: Sporting Clube de Portugal
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INTERVISTA
Cristiano Piccini quel 5 dicembre. Non pensavo di andare in panchina, pensavo più alla tribuna. Invece Mihajlovic mi scelse tra i 19 e andai in panchina. Mentre mi stavo scaldando insieme agli altri panchinari, ricordo che chiamarono il nome ‘Cristiano’. Stavo per esplodere ma intendevano Cristiano Zanetti… Poi, però, è arrivato il mio momento. Sono impazzito. Io tifoso della Fiorentina, come mio padre e mio nonno. Incredibile. In quei minuti in campo ho indossato la maglia numero 40 che ho ancora incorniciata in casa”.
“Quell’estate Corvino mi chiese se volevo giocare terzino invece che esterno alto e io risposi che, pur di giocare, sarei andato anche in porta.” PASSIONE BIANCOVERDE
Museo spettacolare e una maglia che trasuda emozioni… Basta osservare i tifosi che, scendendo dalla fermata di Campo Grande, la più vicina allo stadio Alvalade, per capire quando forte sia l’amore nei confronti dello Sporting Club de Portugal. La maggior parte indossa la divisa ufficiale della squadra, griffata Macron (bellissima sia la versione Home che Away). Notiamo tantissimi giovanissimi fan, tutti colorati di biancoverde. C’è anche una vecchiettina che mostra, con orgoglio, una sciarpa dello Sporting. Insomma, una passione viscerale che si evince anche visitando il museo “incastonato” all’interno dello stadio. La guida che ci accompagna tra le sale del museo ci spiega, immediatamente, come lo Sporting sia un’Accademia, ossia una società con più realtà sportive al proprio interno. In origine, era il tennis uno dei punti di
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Ti è dispiaciuto non avere il tuo spazio alla Fiorentina? “Io sono molto legato alla Fiorentina e a Firenze. Il fatto di non essere mai stato in prima squadra in maniera stabile mi ha toccato un po’ nell’orgoglio. Comunque la Fiorentina vale tantissimo per me”. Quindi, dovesse mai arrivare una chiamata da Firenze… “Beh, è la Fiorentina… (ride, ndr)”. A proposito, ti piace la nuova squadra viola? “Ha preso un allenatore come Pioli che è molto bravo. Ci sono tanti giovani che hanno tanto da dare e dimostrare. Se trovano il giusto equilibrio, credo che potrebbe fare una buona stagione la Viola. Io mi auguro, da tifoso, sempre il meglio”. Interessi fuori dal campo? Che fa di bello Cristiano quando non gioca a pallone? “Mi piace moltissimo la musica. Sto scoprendo, proprio in questo periodo, la musica classica. Prima ero più un diavolo, ora che ho
una compagna di vita e sono in attesa della mia prima figlia (si chiamerà Leah, ndr) sono, forse, maturato un pochino anche se mi piace sempre la musica hip-hop… Sono un fan anche del cinema. Soprattutto quando ero in Spagna, ci andavo spesso. Tranne gli horror, li guardo tutti. “Ogni maledetta domenica” è uno dei miei film preferiti. Poi, quando posso, gioco anche a qualche videogame, tipo Call of Duty”.
forza dell’Academia Sporting. Scopriamo che il “verde” nelle maglie è legato al concetto di speranza. Impressionanti i trofei presenti all’interno del museo (oltre 4000, non ce ne stanno altri), sia quelli calcistici (ci sono davvero tutti, comprese alcune enormi coppe vinte in gare amichevoli, come il gigantesco trofeo del O Sèculo, antico giornale portoghese) che quelli vinti in altre discipline sportive. La guida ci evidenzia le memorabilia legate alla Coppa delle Coppe 1963-64, unico trofeo internazionale conquistato dallo Sporting: “Indimenticabile la gara di ritorno, in semifinale, contro il Manchester United. Dopo l’1-4 dell’andata, in casa abbiamo vinto 5-0”, ricorda, con un gran sorriso, la nostra personale guida. Ovviamente c’è grande rispetto per le tante leggende che hanno indossato la casacca dello Sporting. La lista è lunghissima. Da Azevedo, il giocatore che ha vinto più titoli con lo Sporting (23) a Peyroteo, 544 gol con
il club biancoverde. C’è poi una sezione dedicata ai “recenti” campionissimi, gente come Figo, Jardel, Quaresma, Joao Mario e tanti altri. Chiaramente è Cristiano Ronaldo il top… Brilla una sua maglia autografata e due “tesserini” di quando era un bambino e giocava nelle giovanili dello Sporting. Il viaggio, entusiasmante e ricco di curiosità e memorabilia (da non perdere la storia dello stadio, rinnovato nel 2003 ma con una storia antichissima alle spalle), si chiude con un doveroso omaggio a tutti i giocatori, che hanno indossato la casacca biancoverde e che hanno vinto Euro 2016… Oltre a Cristiano Ronaldo, abbiamo William Carvalho, Rui Patricio, Adrien Silva, Joao Mario, Joao Moutinho, Ricardo Quaresma e José Fonte. Poi, tutti allo store ufficiale, a due passi dal museo. Impossibile non acquistare una maglia ufficiale, griffata Macron, dello Sporting Club Portugal…
Il Direttore Ponciroli con Piccini dello Sporting
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INTERVISTA
Cristiano Piccini
E a Lisbona come ti trovi? “Alla grandissima. Ho avuto la fortuna di vivere, nell’ordine, a Firenze, Siviglia e ora Lisbona. C’è tantissimo da fare e vedere. Qui trovi tutto. Si mangia anche bene anche se, bisogna ammetterlo, la cucina italiana è un’altra cosa (ride, ndr)”. Insomma, difficile rivederti, almeno a breve giro, in Italia… “Tornare in Italia? No, per ora. Sto facendo un percorso importante e credo che l’Italia non sia nel mio futuro, almeno nell’immediato. Chiaro, a volte il mio Paese mi manca ma sto
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portando avanti un mio percorso personale”. Magari un giorno ti vedremo in Nazionale… “Chi non ci pensa alla Nazionale? È un obiettivo di qualsiasi giocatore con un pizzico di ambizione. Se capiterà bene, se no me ne farò una ragione”. Il tempo con Cristiano volge al termine. Il tempo di due chiacchiere extra intervista (“Peccato restiate così poco, Lisbona offre tanto”, ci spiega), qualche foto con piccoli fan biancoverdi e Cristiano si incammina verso casa, la sua nuova casa, lo Sporting Club de Portugal…
Piccini mentre firma la maglia ufficiale Macron dello Sporting stagione 2017-18
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FOCUS ON
CALCIO PORTOGHESE
di Luca Savarese
IL CANTO DEL PORTOGALLO Italia chiama Portogallo: una saga di campioni, trionfi, meteore e qualche clamoroso flop.
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l trionfo del Portogallo al Campionato Europeo del 2016 ha messo fine a un tabù vecchio quanto il calcio. Mai, prima di allora, la Nazionale lusitana era riuscita a conquistare un titolo di prestigio, e questo gridava un po’ vendetta visti i tanti campioni che, nel corso degli anni, ne avevano indossato la maglia e vista l’enorme passione per il “futebol” che, da sempre, si respira nel Paese. Meritava una soddisfazione del genere, una scuola
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capace di portare i propri club a vincere, almeno una volta, tutte le competizioni riconosciute dalla UEFA, ovvero quattro Coppe dei Campioni/Champions League (due volte con il Benfica e due con il Porto), una Coppa delle Coppe (con lo Sporting Lisbona), due Coppe UEFA/Europa League, due Coppe Intercontinentali, una Supercoppa Europea (tutte con il Porto) e pure un’edizione della Coppa Intertoto (con lo Sporting Braga). Un grande
Serie A nel 1998/99, voluto dalla Lazio, non smentì la propria indole di vincente, conquistando subito una Coppa delle Coppe e contribuendo, l’anno seguente, al “double” Scudetto-Coppa Italia come riserva di Alessandro Nesta. Partì alla grande, nel 1994/95, nella sua prima stagione italiana, il regista PAULO SOUSA. Il suo senso del sacrificio e la sua eccellente visione di gioco furono l’arma in più della Juventus scudettata. L’anno LA FIRMA SULL’EUROPA dopo, a causa di qualche problema fisico di Sono sei, finora, i giocatori portoghesi che troppo, non riuscì a garantire lo stesso rendihanno dato il proprio contributo alle squadre mento degli esordi, ma si tolse comunque la italiane nella vittoria di trofei europei. Il primo soddisfazione di alzare la Champions League fu il minuscolo RUI BARROS, un centrocamsotto il cielo di Roma. Abbiamo già accennato pista di soli 160 centimetri d’altezza, agile, alla Lazio che, nel 1998/99, si aggiudicò l’ultitecnico e combattivo che, per due stagioni, ma storica edizione della Coppa delle Coppe. difese la maglia della Juventus distinguendoOltre a Fernando Couto, un altro portoghese si non solo per il buon rendimento, ma anche faceva bella mostra di sé nello squadrone di per l’irresistibile simpatia. 12 gol in 29 preSven-Göran Eriksson. Era senze per lui nel 1988/89 e la SÉRGIO CONCEIÇÃO, un grande gioia per la doppietesterno destro d’attacco ta Coppa Italia-Coppa UEFA vero e proprio idolo dei tifosi nel 1989/90. Con l’avvento in quella che fu l’epoca più del nuovo corso bianconero gloriosa della società bianrappresentato dal presidencoceleste. Dopo lo Scudette Luca di Montezemolo e to e la Coppa Italia vinti nel dall’allenatore Gigi Maifre2000, fu però ceduto al Pardi, venne scaricato in fretta ma nell’affare che portava e furia per lasciare spazio Hernán Crespo alla Lazio. al campione del mondo tedesco Thomas Hässler, poi Terzetto di portoghesi visti in Serie A, ossia Né in Emilia né tanto meno nella successiva esperienza destinato a deludere. Si- Rui Costa, Fernando Couto e Nuno Gomes all’Inter sarebbe tornato il gnificativa, ma molto più folletto imprendibile dei bei lunga, fu anche l’avventura tempi romani. Con RUI COitaliana del difensore cenSTA siamo all’eccellenza del trale FERNANDO COUTO. calcio portoghese d’esporRiconoscibile per via della tazione. Raffinato fantasista lunga capigliatura e della sempre pronto a inventare notevole stazza che ne fece giocate geniali, fu bandiera un asso del gioco aereo, visdella Fiorentina tra il 1994 se una prima esperienza al e il 2001, con cui vinse due Parma coronata dal trionfo edizioni della Coppa Italia e in Coppa UEFA nel 1994/95, una della Supercoppa forprima di passare al Barcel- Rui Costa ha lasciato il segno in Italia, mando con l’argentino Galona di Ronaldo. Rientrato in sia a Firenze che a Milano slam, è bene ricordarlo, centrato solamente dai club inglesi, italiani, spagnoli e tedeschi. E se tutto ciò ancora non dovesse bastare per spiegare il valore del calcio portoghese, ecco entrare in gioco loro, i tanti campioni lusitani approdati in Italia a fare grandi i relativi club di appartenenza sia a livello nazionale che internazionale.
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FOCUS ON
briel Batistuta uno dei duetti offensivi più ammirati dell’epoca. Anche al Milan non deluse. Colonna della squadra rossonera dal 2001 al 2006, mise la firma sulla Champions League del 2002/03 e sullo Scudetto dell’anno successivo, attestandosi ai vertici delle classifiche di rendimento. Uno che vinse la Champions League ma senza lasciare traccia fu invece RICARDO QUARESMA. All’Inter l’aveva voluto il suo connazionale José Mourinho, costringendo il club a un esborso di 24,6 milioni di Euro. Fu una delusione. Nell’anno del Triplete, l’ex fantasista del Barcellona disputò solo 11 gare in campionato, 2 in Champions League e neppure una in Coppa Italia. Alla fine, per citare Manzoni, fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza...
Bruno Alves, altro esempio di portoghese che non è riuscito ad imporsi in Italia
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SETTEBELLO VINCENTE Non se ne andarono a mani vuote neppure altri sette portoghesi sbarcati qui da noi. D’accordo, non riuscirono a conquistare il sospirato alloro internazionale, ma alcuni di loro lasciarono comunque il segno. LUÍS FIGO, ad esempio, arrivò in Italia ormai avanti con gli anni, imponendosi però come punto di riferimento di un Inter che si preparava a dominare l’Europa. Quattro Scudetti consecutivi, una Coppa Italia e due Supercoppe conditi da gol e giocate decisive per l’ex asso di Real Madrid e Barcellona, e il grande cruccio per essersene andato nel 2009, giusto alla vigilia del Triplete. Pochi rimpianti li lasciarono invece, sempre in maglia nerazzurra, i centrocampisti MANICHE e PELÉ, anche se del secondo si ricorda uno spettacolare ma inutile gol alla Roma nella finale di Coppa Italia. E comprimario, purtroppo, lo fu anche PAULO FUTRE nel 1995/96. Un solo gettone di presenza nel Milan campione d’Italia, dovuto ai tanti, troppi malanni di cui fu vittima il celebre ex fantasista del Porto. Un vero peccato, perché il Futre al top sarebbe stato una delizia per i palati dei calciofili, visto il suo repertorio di scatti, dribbling e gol che lo aveva portato, nel 1987, a un passo dal Pallone d’Oro. Discreto il terzino sinistro DIMAS, autore di un paio di stagioni senza infamia e senza lode nella Juventus di Marcello Lippi due volte tricolore e due volte vice-campione d’Europa nel 1997 e nel 1998. Fece bene alla Fiorentina l’attaccante NUNO GOMES. Si era rivelato in Nazionale all’Europeo del 2000 come bomber prolifico e imprevedibile, e anche in riva all’Arno non fallì, se è vero che i suoi gol furono decisivi ai fini del successo in Coppa Italia nel 2001, l’ultimo trofeo finito nella bacheca dei viola. Anche sull’ultimo titolo conquistato dalla Roma, la Coppa Italia 2007/08, compare la firma di un giocatore portoghese. Stiamo parlando di VITORINO ANTUNES, un terzino sinistro fluidificante classe 1987 che con 3 presenze, tutte da titolare, contribuì a cucire la coccarda tricolore sulla maglia giallorossa.
METEORE O POCO PIÙ Non sempre, però, Portogallo è stato sinonimo di successo. Nell’anno del ritorno in A dopo lo scandalo-Calciopoli, la Juventus individuò in TIAGO il regista giusto da cui ripartire. Non era un giocatore malvagio, ma difettava terribilmente in personalità. Se a ciò si aggiunsero poi i ripetuti infortuni, ecco che la sua avventura italiana fu più ricca di ombre che di luci. Si sarebbe rifatto alla grande all’Atlético Madrid, vincendo praticamente tutto tranne la Champions League. Non era male nemmeno ROLANDO, un difensore centrale di origini capoverdiane che col Porto di André Villas-Boas aveva conquistato un’Europa League nel 2011. Lo vedemmo in azione nell’ultima Inter morattiana, quella del 2012/13, una squadra ormai lontana parente della corazzata schiacciasassi di qualche anno prima. E anche Rolando si perse nella mediocrità generale. Guai ben peggiori li ebbe il Parma versione 2014/15: una società sull’orlo del fallimento in cui neanche il pur volenteroso esterno offensivo SILVESTRE VARELA poté fare miracoli. E facciamo ora un bel passo indietro nel tempo ed arriviamo a lui, HUMBERTO, il primo calciatore portoghese ad aver militato in Italia. Occorrerebbe un libro intero per ripercorrere tutti i retroscena che lo portarono qui. Basti dire che per il suo acquisto l’Inter fece carte false, e non per modo di dire. Eravamo nel 1961, e all’epoca le nostre squadre potevano schierare solo due giocatori stranieri e un oriundo, ovvero chiunque fosse nato all’estero ma da genitori italiani. Visto che l’Inter aveva già due stranieri (l’inglese Gerry Hitchens e lo spagnolo Luisito Suárez) e dato che Humberto era sì nato nella colonia portoghese di Capo Verde, ma da padre ignoto, la società nerazzurra si premurò di... trovare un “papà” italiano all’ignaro giocatore, un tale signor Raggi. Humberto venne così ribattezzato Giorgio Raggi, ma sul campo dimostrò che tutti gli sforzi per una sua “oriundizzazione”
Roccioso difensore, forse poco compreso in Italia... Parliamo di Rolando
non erano valsi granché, visto che dopo appena 2 presenze fu ceduto senza troppi complimenti al Lanerossi Vicenza. Storie di un calcio d’altri tempi... GRANDI, MA NON QUI Il grande romanzo dei lusitani in Italia ha visto anche la partecipazione di stelle ormai offuscate, la cui luce è però brillata un tempo sotto altri cieli. A volte intensamente, molto intensamente, come quella di HÉLDER POSTIGA, che da giovanissimo aveva trascinato a suon di gol il Porto di José Mourinho alla vittoria della Coppa UEFA nel 2002/03, ma protagonista alcune stagioni fa di un’anonima comparsata con la maglia della Lazio. E vogliamo parlare di COSTINHA, prezioso mediano dei “Dragoni” campioni d’Europa nel 2004 e timido figurante qualche anno dopo nell’Atalanta, con appena una presenza in tre campionati?! È passato da Cagliari la
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FOCUS ON 34
Non ha lasciato traccia Helder Postiga, visto in maglia Lazio
Il talento è infinito ma il vero Joao Mario non si è ancora visto in Italia
scorsa stagione, ma in pochi si sono accorti di BRUNO ALVES, torreggiante difensore centrale detentore di 93 presenze in Nazionale e campione d’Europa, seppur da rincalzo, a Francia 2016. Ci si aspettava molto di più anche da RUI ÁGUAS, figlio di quel José Águas già bomber del Benfica vincitore di due Coppe dei Campioni all’inizio degli anni ‘60. Pure lui, come il papà, era stato valido attaccante delle “Aquile” di Lisbona, ma alla Reggiana, nel 1994/95, fallì in pieno, non centrando mai la porta nelle 12 apparizioni. Evidentemente l’aria di Reggio Emilia non porta bene ai portoghesi. Chiedere informazioni ad ANTÓNIO PACHECO. Ala sinistra vecchio stampo, aveva giocato due finali di “Champions” con il Benfica nel 1988 e nel 1990. Approdato in Serie A nella stagione 1996/97, ormai logoro, non seppe condurre la Reg-
giana alla salvezza, pur realizzando una rete nel prestigioso, ma inutile, pareggio contro l’Inter. L’esperienza italiana fu tutt’altro che felice anche per il difensore ABEL XAVIER, uno spilungone noto più per le variopinte capigliature che non per le prestazioni in campo con le maglie di Bari prima e Roma poi. Eppure era stato tra i grandi artefici della vittoria del titolo mondiale Under-20 nel 1991, accanto a giovani stelle come Luís Figo e Rui Costa. E in Nazionale maggiore sfiorò il colpaccio a Euro 2000, arrendendosi solo in semifinale alla Francia di Zinedine Zidane. Chiudiamo con il caso JOÃO MÁRIO. Dov’è finito il campioncino che tanto abbiamo ammirato a Euro 2016? I tifosi dell’Inter se lo stanno chiedendo da più di un anno. Le qualità le avrebbe, l’età giusta pure. Ora tocca a lui dare finalmente una risposta all’altezza.
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INTERVISTA
Josè Luis Palomino di Sergio Stanco
Intervista a José Luis Palomino, difensore argentino dell’Atalanta al suo primo anno in Serie A
Sognando Messi
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“M
i piacerebbe tantissimo giocare contro Messi”. Ci spiazza così José Luis Palomino, difensore argentino dell’Atalanta arrivato quest’estate dalla lontana Bulgaria. “Certo, mi piacerebbe anche giocare con Messi, magari in Nazionale, che è il sogno di ogni giocatore ma soprattutto di noi argentini perché per noi la Selecion è il top, ma vorrei giocarci contro perché così capisci realmente quanto sia forte lui e quanto lo sei tu. Non ho paura di giocare contro grandi attaccanti, anzi, mi elettrizza, mi carica, mi permette di mettermi alla prova”. Carattere, personalità, coraggio, il ritratto di Palomino, un difensore che in questa prima parte di stagione ha sorpreso un po’ tutti. Arrivato con l’etichetta di “Palomino chi?” ora sta facendo ricredere tutti gli scettici e sta dimostrando che il Papu, oltre che un ottimo attaccante, è anche un provetto talent scout. Si dice, infatti, che sia stato proprio lui a segnalarlo alla dirigenza bergamasca dopo averlo visto giocare in Champions: “Non so se sia vero – si schermisce il difensore – Ma di
certo non è stato lui a comprarmi (ride, ndr)”. Partiamo davvero dall’inizio: calciatore per merito di chi? “Direi di tutta la mia famiglia, che praticamente gioca tutta a calcio. Mio papà per primo, poi ho quattro fratelli più grandi. Giocavamo tutti a calcio quando eravamo piccoli, dalla mattina alla sera, senza fermarci mai”. Sempre stato difensore? “Sì, sempre. Anzi, quando ero proprio piccolino facevo il portiere, ma poi sono subito diventato difensore e non ho più cambiato ruolo”. Il tuo idolo da ragazzino? “Mi piaceva molto Gabriel Heinze, difensore del Manchester United, del Real Madrid e della nazionale argentina. Lo studiavo, guardavo ogni suo movimento e cercavo di imitarlo”. E invece adesso chi ti piace? “Il prototipo del difensore modello, secondo me, è Sergio Ramos, perché è completo: bravo dietro, sa impostare ed è anche pericoloso in attacco. Un altro che mi piace molto è Thia-
Gasperini, con Palomino, ha messo a posto la difesa bergamasca
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INTERVISTA
Josè Luis Palomino go Silva, perché ha classe e stile”. In Italia abbiamo una grande scuola di difensori: c’è qualcuno che ti ha colpito in modo particolare? “L’anno scorso ho visto parecchie partite della Juve in Champions e devo dire che la difesa bianconera era impressionante nel complesso, si muoveva in maniera perfetta e non concedeva praticamente nulla all’avversario”. Hai modo di vedere quotidianamente Mattia Caldara: è pronto a diventare uno dei pilastri della difesa della Juve e della nostra nazionale? “È un ragazzo molto intelligente, con grande voglia di imparare, uno con la testa sulle spalle. È già un ottimo difensore e sono convinto che possa diventare uno dei più forti in assoluto. Davanti a lui ha solo un grande futuro”. Tu non sei più un giovanissimo, ci hai messo un po’ ad “arrivare” come si dice in gergo: ti sei dato una motivazione di questo “ritardo”? “Ho fatto solo una strada un po’ più lunga (sorride, ndr). La verità è che non avevo il passaporto comunitario e questo complica tante cose per noi sudamericani. Venire in
Se Palomino è diventato orobico è merito anche del connazionale Papu Gomez
PALOMINO IL TUTTOFARE Probabilmente quando gli hanno fatto vedere il video di Palomino, Gasperini deve aver apprezzato in particolare la sua duttilità: centrale di difesa sì, ma anche esterno sinistro all’occorrenza. Il difensore argentino classe ‘90 ha iniziato la stagione in nerazzurro sostituendo l’infortunato Caldara al centro della difesa, per poi spostarsi alla sua sinistra una volta rientrato in campo il prodotto del settore giovanile dei bergamaschi. In quella posizione l’argentino ha cominciato ad abituarsi ad una difesa a tre non proprio usuale per lui. Così come al gioco classico richiesto da Gasperini ai suoi tre centrali, che di fatto sono i primi costruttori della manovra delle sue squadre. E Palomino non si è fatto pregare, dimostrando grande personalità con il pallone tra i piedi. Cresciuto nel settore giovanile del San Lorenzo, l’esordio è arrivato a 19 anni. Un passaggio nell’Argentinos Juniors prima del trasferimento in Europa quattro anni fa: due anni (una retrocessione e una promozione) nel Metz in Francia, prima del passaggio al Ludogorets in Bulgaria, dove ha avuto modo di vincere il campionato ed esordire prima in Champions e poi in Europa League, competizione che ha ritrovato quest’anno con la maglia dell’Atalanta. I bergamaschi lo hanno prelevato dai bulgari investendo quattro milioni per il suo acquisto.
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Europa era il mio obiettivo, ma non avendo il passaporto comunitario son dovuto partire dal Metz in Francia, perché non ci sono tante squadre europee pronte a giocarsi un “posto” per un difensore”. Dal Metz al Ludogorets in Bulgaria: scelta strana… “Mah, sai, il Ludogorets avrebbe giocato la Champions, per me era un’opportunità per mettermi in mostra e alla fine ha funzionato. Poi grazie alla Bulgaria, e alle origini dei miei nonni, sono anche diventato comunitario e questo probabilmente mi ha permesso di arrivare all’Atalanta. Forse, senza questo benedetto passaporto, oggi non sarei qui…”. L’emozione di giocare in Champions com’è stata? “È stata grande, ovviamente. Quando la vedi dal Sudamerica, arrivare a giocarci è il tuo obiettivo. Quindi, quando ci riesci, è un po’ come coronare un sogno. Siamo capitati in un girone difficile, con Arsenal e Paris Saint
Germain, ma abbiamo comunque disputato una buona competizione. Siamo arrivati terzi e questo ci ha anche consentito di giocare l’Europa League. È stata un’esperienza fantastica, che mi ha permesso di giocare contro grandi giocatori”.
“Quando ero piccolino facevo il portiere, ma poi sono subito diventato difensore e non ho più cambiato ruolo” Prima abbiamo parlato dei tuoi modelli in difesa, ma qual è l’attaccante che ti ha messo più in difficoltà? “Domanda difficile (ci riflette un attimo, ndr). Non me ne vengono in mente molti (sorride, ndr), ma se te ne devo proprio dire uno, cito Giroud. È un attaccante molto forte fisicamente, ma è anche tecnico e che sa muoversi
Sempre puntuale negli interventi, un difensore di sicuro affidamento
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INTERVISTA
Josè Luis Palomino
Un vero gladiatore, sempre pronto alla battaglia
“Il Ludogorets avrebbe giocato la Champions, per me era un’opportunità per mettermi in mostra” negli spazi, uno difficile da affrontare. Poi c’è anche Cavani, un centravanti atipico, molto intelligente e scaltro. Questi son quelli contro cui ho giocato, poi ci sono gli extraterrestri come Messi e Neymar, ma loro non li ho mai affrontati...”. Magari ti capiterà di affrontare Messi negli allenamenti in Nazionale fra qualche tempo... “Magari! Mi piacerebbe, perché la Nazionale per noi argentini è veramente il massimo e spero davvero di riuscire a convincere il CT a convocarmi, ma a me piacerebbe soprattutto giocare contro Messi. Perché questo è il no-
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stro mestiere, misurarci con i più grandi attaccanti, solo così capisci se realmente siano così forti come si dice e, soprattutto, se tu sei davvero capace di limitare certi fenomeni”. In Italia qualche attaccante forte l’abbiamo: hai già incontrato Mertens ad esempio... “Buon giocatore, ma del Napoli mi ha impressionato il gioco offensivo. Tutto il gioco d’attacco, come si muovono le tre punte, non stanno mai ferme, ti fan venire il mal di testa. Più che il singolo, quello che impressiona della squadra di Sarri è l’organizzazione di tutto il reparto”. Un altro che hai già avuto modo di vedere da vicino è Higuain: si parla di crisi, Sampaoli non lo convoca più in Nazionale, tu come lo hai visto? “A me non è sembrato in crisi, anzi. Detto questo, ci sono momenti della stagione in cui non sei al massimo, ma Higuain è uno che ha sempre fatto un sacco di gol e ne farà tan-
LA Carriera Di Palomino Stagione Squadra 2009-2010 San Lorenzo 2010-2011 San Lorenzo 2011-2012 San Lorenzo 2012-2013 San Lorenzo 2013-2014 Argentinos Jrs 2014-2015 Metz 2015-2016 Metz 2016-2017 Ludogorec 2017-2018 Atalanta
Totale Pres Reti 5 0 11 0 27 0 3 0 18 0 28 2 30 2 40 2 10 0
* Dati aggiornati al 22/10/2017
ti anche quest’anno. Un altro che mi ha impressionato, finora, è l’attaccante della Lazio, Ciro Immobile. Lo conoscevo poco, ma mi ha colpito perché segna in tutti i modi. Molto bravo”.
A proposito di Argentina: mai avuto paura che la tua Nazionale non riuscisse a qualificarsi per il Mondiale? “Non ho avuto paura, ero letteralmente terrorizzato (sorride, ndr). È stata veramente una qualificazione complicata, da “motagne russe”, continuavamo a fare su e giù in classifica, per fortuna alla fine ci ha pensato Messi...”. E ora come la vedi la tua Argentina? “Bene, perché la squadra c’è, ci sono tanti giocatori forti e ora il CT avrà più tempo per lavorare con maggiore serenità e sono convinto che troverà le soluzioni giuste. Avrà anche la possibilità di provare qualche nuovo giocatore che prima per le pressioni non era possibile convocare”. Magari un certo Palomino? “Magari, sarebbe il mio sogno, un sogno che però non ritengo così impossibile. Sono convinto che giocando tanto avrò la possibilità di migliorarmi ancora e soprattutto di farmi vedere. La Serie A è un campionato molto se-
A Bergamo si è integrato alla perfezione, grazie soprattutto al lavoro di Gasperini
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INTERVISTA
Josè Luis Palomino
EL GRINGO “Il mio idolo da ragazzino? Gabriel Heinze”. Ci ha sorpreso anche in questo caso Josè Luis Palomino, perchè El Gringo non era una risposta scontata. Non negli anni in cui c’erano un certo Samuel e un certo De Michelis a difendere la porta dell’Albiceleste. Gabriel Heinze, però, ha curiosamente giocato in tutti i migliori campionati d’Europa, passando per i migliori club: classe 1978, a 19 anni anni era già nel Vecchio Continente. Heinze non suona proprio come un cognome latino e infatti il papà di Gabriel era di origini tedesche. Il “tedesco”, infatti, è anche un altro dei suoi soprannomi, sia per le sue origini ma anche per il suo modo di intendere il calcio: duro ma leale, sempre l’ultimo ad arrendersi. “Non sono mai stato forte, ma ce l’ho sempre messa tutta. Il mio compito era quello di correre e consentire ai compagni più bravi di me di decidere le partite”, ha detto a fine carriera. Il concetto di “giocatore forte” è alquanto opinabile, di sicuro Heinze è sempre stato umile, perché un giocatore che ha indossato le maglie di Sporting Lisbona, Marsiglia, Manchester United, Paris Saint Germain e Real Madrid, potrebbe sicuramente avere altra considerazione di sè. Per lui anche una breve apparizione nella nostra Serie A nel 2011, quando arriva alla Roma a parametro zero prima di rientrare in Patria nella stagione successiva. È stato una delle colonne della difesa dell’Argentina fino al 2010, ma in Nazionale non è riuscito a togliersi le stesse soddisfazioni delle squadre di club: campione d’Inghilterra con il Manchester United (2006-2007), di Spagna col Real Madrid (2007-2008) e di Francia con il Marsiglia (2009-2010). Con la maglia dell’Albiceleste, però, ha vinto l’oro olimpico ad Atene 2004. Forse troppo poco per una carriera come la sua e per la qualità dei giocatori dell’Argentina in quegli anni.
guito anche in Argentina e poi con l’Atalanta gioco anche in Europa League. Speriamo che Sampaoli guardi le nostre partite (ride, ndr)”. Uno che in Nazionale ci è arrivato dall’Atalanta è il Papu Gomez: prima abbiamo parlato di grandi attaccanti, non possiamo non parlare del Papu... “Eccezionale, uno che è in grado di cambiare le partite con una giocata. Secondo me è un giocatore di un livello elevatissimo, da top club, perché quando dai la palla a lui, sai che nel 70% dei casi la può trasformare in un’azione pericolosa. Non ci sono tanti giocatori come il Papu”. Ma è vero che è stato lui a consigliarti all’Atalanta?
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“Non saprei, non ne abbiamo mai parlato, dovresti chiederlo a lui, di certo non mi ha comprato lui (sorride, ndr). Mi hanno detto che guardando alcune partite di Champions mi aveva visto giocare e mi ha segnalato a qualcuno in società. Se fosse vero, avrei un altro motivo per ringraziarlo, perché da quando sono arrivato mi sta aiutando tantissimo ad ambientarmi, mi è sempre molto vicino e mi dà tantissimi consigli”. Come procede l’ambientamento a Bergamo? “Benissimo. Io non ho mai avuto problemi in questo, forse perché ho sempre voluto venire in Europa a giocare e quando hai un obiettivo preciso, tutte le altre cose passano in secondo piano. E comunque a Bergamo si sta be-
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INTERVISTA
Josè Luis Palomino nissimo, è una città molto bella, i tifosi sono molto passionali, mi ricordano quelli dell’Argentina per il calore con il quale ti seguono e ti incitano. Ogni volta che entro nel nostro stadio è una grande emozione e al contempo una grande responsabilità, perché non vorresti mai deludere tifosi così”. Cosa pensavi del campionato italiano prima di arrivare e che idea ti sei fatto finora? “Credevo che fosse uno dei tornei più importanti d’Europa e ne sono tuttora convinto. Si gioca un bel calcio e le squadre sono tutte molto organizzate. Per un difensore è un po’ come andare all’università, perché qui la tattica è importantissima. Ecco, prima di arrivare già lo sapevo, ma forse non immaginavo così tanto!”. Vabbè, ma tu hai iniziato da Gasperini, lui è fuori concorso... “Forse è questo (ride, ndr), ma mi piace tantissimo lavorare col mister perché impari molto. Quando sono arrivato non ci capivo
Palomino è diventato uno dei punti di forza dell’Atalanta
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tanto, un po’ per la lingua, un po’ per la difesa a tre a cui non ero abituato, un po’ perché per lui non siamo solo difensori, dobbiamo giocare la palla, attaccare. È molto bello, ti senti più partecipe e poi lui è davvero un maestro: sempre molto presente, prodigo di consigli, sa sempre quello che vuole e riesce a trasmettere il messaggio in modo chiaro e diretto”. Che obiettivi ti sei posto quando sei arrivato qui? “Mi sono detto che avrei dovuto sfruttare l’occasione, perché giocare in Serie A per noi sudamericani è il massimo. Per me era un obiettivo e ora che l’ho raggiunto voglio dimostrare di meritare la fiducia che l’Atalanta ha riposto in me. Per il resto, devo solo giocare più partite possibile, perchè solo così trovi condizione e fiducia. Sono sicuro che se riuscirò a ritagliarmi il mio spazio, mi toglierò delle grandi soddisfazioni”. All’Atalanta e poi chissà, magari anche con un certo Messi al fianco nella fredda Russia...
Don’t cry for me... Perotti, Aguero, Icardi, Messi e Dybala. Questi alcuni degli attaccanti convocati di Sampaoli per l’ultima gara di qualificazioni mondiali contro l’Ecuador. Può una Nazionale con questo reparto offensivo rischiare di non andare a Russia 2018? Sembra assurdo, ma è proprio quello che è successo. Solo grazie alla vittoria nell’ultimo turno e ad un Messi sontuoso (tripletta per lui) l’Albiceleste è riuscita ad evitare la brutta figura e l’esclusione dalla Coppa del Mondo. Ricordiamo, per altro, che tra gli “accantonati”, ancora non si sa se a titolo definitivo o solo temporaneo, c’è anche un certo Higuain (e che tra i centrocampisti risulta aggregato anche Angel Di Maria). Tra le altre vecchie conoscenze del nostro calcio, anche Banega (ex Inter) e Paredes (ex Roma), mentre la mente della squadra è Lucas Biglia (Milan, ex Lazio). Tutta questa classe e qualità non è bastata, il girone di qualificazione è stato letteralmente un incubo per Sampaoli e i suoi ragazzi: prima dell’ultimo turno l’Argentina era fuori dal Mondiale e solo il suicidio sportivo di Paraguay e Cile ha spianato la strada verso la Russia. L’Argentina ha conquistato la qualificazione con solo 28 punti in 18 partite giocate (per intenderci il Brasile capolista ha chiuso con 41). L’Albiceleste ha vinto solo 7 partite nel complesso (meno del 50%), ne ha pareggiate altrettante (due volte contro il Venezuela fanalino di coda), perdendone 4 (tra le quali un netto 3-0 contro il Brasile). L’attacco argentino ha segnato quanto quello del Venezuela ultimo (19 reti, dunque la media di un gol a partita), solo la Bolivia penultima ha fatto peggio (16). Le punte, insomma, non hanno reso quanto avrebbero potuto (e forse dovuto) mentre la difesa ha fatto adeguatamente il suo mestiere: soltanto 16 le reti incassate, migliore retroguardia dietro a quella del Brasile capolista (11). E questo nonostante il pacchetto arretrato non sia di qualità eccelsa: il capo della difesa è ancora El Jefe Mascherano, nato centrocampista ma trasformato in centrale dal Barcellona, che in mezzo al campo gli preferisce piedi più educati. L’altro titolarissimo di Sampaoli è Otamendi, uno che ogni tanto (forse troppo spesso) si concede qualche distrazione di troppo nel Manchester City di Guardiola. Tra gli altri a disposizione, i due trentenni Mercado (Siviglia) e Fazio (Roma). Insomma, forse è a questo che pensa il 27enne Palomino quando dice che l’approdo in Nazionale non è solo un sogno. D’altronde, se solo torniamo a otto anni fa, all’Argentina di Maradona a Sudafrica 2010, alcuni dei difensori convocati si chiamavano Demichelis, Samuel, Heinze e Burdisso. Trovate le differenze.
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Tappa ad Amburgo per una casacca ricca di storie ed aneddoti…
I DINOSAURI ANSEATICI
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mburgo è la seconda città tedesca per popolazione e il secondo porto europeo, sebbene non sia sul mare ma in riva al fiume Elba, ed ha una grande tradizione storica e mercantile risalente ai tempi della Lega Anseatica. Il 28 luglio 1962 a Dortmund venne fondata la Bundesliga, dotando finalmente la Germania Ovest di un campionato professionistico a girone unico nazionale. In precedenza c’erano tornei regionali e successivamente le squadre vincitrici si sfidavano in un torneo finale. Il primo campionato è partito il 24 agosto 1963 e l’Amburgo è l’unica squadra ad aver partecipato a tutte le edizioni della Bundesliga, per questo motivo il club viene soprannominato il
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Dinosauro. La prima partita di calcio giocata in Germania si è disputa nel 1874 a Braunschweig, successivamente c’è stata la fondazione del primo club solamente calcistico (Dresden English Football Club, in attività tra il 18 marzo 1874 ed il 30 aprile 1898 composto da inglesi che lavoravano a Dresda e dintorni), nell’inverno 1881/82 il calcio sbarca ad Amburgo e Berlino. Il 29 settembre 1887 l’Hohenfelder Sportclub ed il Wandsbek-Marienthaler Sportclub, due club dediti all’atletica leggera entrambi fondati nel 1884, si fusero dando vita allo Sportclub Germania Hamburg, colori sociali blu e nero. Il club moderno fa risalire a questo momento la fondazione vantandosi
quindi di essere il club più antico di Germania, questa data viene però contestata da molti avversari dell’Amburgo, secondo i quali l’anno effettivo di fondazione del club è il 1919. A questo punto è necessario aprire una parentesi, i più vecchi club tedeschi, e non solo, hanno cominciato con altri sport e successivamente hanno introdotto il calcio tra le loro attività. È prassi in Germania indicare come data di fondazione quella dell’inizio delle prime attività sportive (ad esempio il Bochum fa riferimento al 1848 ed il Monaco al 1860), probabilmente il primo club tedesco ancora in attività a cimentarsi esclusivamente con il calcio è il BFC Germania 1888 di Berlino, fondato il 15 aprile 1888. Il Germania Hamburg cominciò a giocare regolarmente a football solo nel 1891, quando alcuni cittadini inglesi si unirono al club, la divisa era composta da una casacca nera e blu a metà con pantaloni neri e calzettoni perlopiù di colore nero. Intanto il primo giugno 1888 alcuni studenti del Wilhelm Gymnasium ispirati da un loro insegnante, il dottor Wilms, fondarono l’Hamburger SC 1888 con maglia biancorossa a righe orizzontali (successivamente la maglia divenne blu scuro ed infine azzurra con bordi bianchi), un club dedito al football che nel 1914 cambierà denominazione in Hamburger Sport Verein. Da un’altra scuola, l’Oberrealschule di Eppendorf, provenivano i ragazzi che il 6 marzo 1906 fondarono l’FC Falke 1906, maglia bianca e viola a strisce verticali. Con il passare degli anni il calcio divenne sempre più popolare in città e vennero fondati altri due club, il 29 giugno 1893 (ma il calcio venne introdotto solo l’anno successivo) l’Altonaer Fußball und Cricketclub 1893 ed il 15 maggio 1910 il Fußball-Club St. Pauli von 1910 e. V. Durante la Prima Guerra Mondiale vennero a mancare i giocatori di molte squadre, per questo motivo si crearono delle fusioni temporanee, tra queste l’unione tra l’Hamburger SC 1888 ed il SC Viktoria Hamburg, la formazione denominata KV Victoria-
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Hamburg 88 vinse il titolo di campione della Germania Settentrionale ma subito dopo la fine del torneo si sciolse. Finita la guerra riprese l’attività agonistica, Hamburger, Falke e Germania si trovarono in difficoltà così il 12 maggio 1919, i primi due decisero la fusione e quattro giorni dopo anche il Germania aderì al nuovo sodalizio. Il 2 giugno venne ufficializza l’unione tra i tre club, la nuova entità venne denominata Hamburger Sport-Verein e.V. come colori sociali vennero scelti il bianco e rosso della città di Amburgo. L’Hamburger SV esordirà nel campionato di Amburgo-Altona il 24 agosto 1919 travolgendo con un rotondo 8-0 l’SC Concordia, nella prima partita i giocatori dell’HSV vestirono una divisa abbastanza particolare, la guerra era finita da poco e gli Amburghesi scesero in campo indossando un cardigan bianco con inserti neri e taschini bordati di nero, pantaloncini e calzettoni pure neri. La divisa è approssimativa ma impreziosita dallo stemma del club, presente già dalla
prima partita. Quasi subito arriva una divisa vera, maglia bianca con collo a camicia chiuso da bottoni, pantaloni rossi e calzettoni neri con risvolti biancoblù a richiamare i colori del Germania. Da questa divisa proviene il primo soprannome della squadra, Die Rothosen (i Pantaloni Rossi). Teatro delle esibizioni della squadra è il campo di Rothenbaum, verrà abbandonato solo con l’introduzione della Bundesliga a favore del Volksparkstadion. A metà degli anni ‘20 la maglia cambia leggermente, sempre bianca ma il collo a camicia viene chiuso da laccetti, questa maglia verrà utilizzata fino al secondo conflitto mondiale. Nella stagione 1927-28 ancora un piccolo rinnovamento stilistico, questa volta vengono cambiati i calzettoni che diventano blu con risvolti a strisce verticali bianconere, questa divisa rimarrà invariata negli anni a venire. Dopo la guerra la divisa rimane quasi immutata, unica variazione il colletto sempre chiuso da laccetti ma a girocollo. Nella stagione 1954/55
compare una maglia più moderna, sempre completamente bianca ma il collo è a camicia con apertura a V senza laccetti a chiudere. Nel 1959/60 e per le due successive stagioni collo a V, dal 1962/63 e fino al 1965/66 il collo è a girocollo. Si ritorna al collo a V nel periodo tra le stagioni 1966/67 e 1971/72, in questi anni l’HSV conquista la prima finale europea, venendo sconfitto dal Milan, 2-0 il risultato, in finale di Coppa Coppe a Rotterdam nel 1968. Nelle stagioni 1972/73 e seguente nuovamente collo a girocollo, i calzettoni diventano completamente bianchi. Arriviamo alla stagione 1974/75 nella quale la maglia dell’Amburgo presenta alcune novità importanti, stilistiche e commerciali. La maglia è bianca con bordi rossi e collo a girocollo mentre i calzettoni sono bianchi con risvolto rosso. Il presidente Peter Krohn è alle prese con difficoltà economiche e decide di firmare un contratto di sponsorizzazione con la fabbrica di liquori italiana Campari, l’HSV era la seconda squadra tedesca a firmare un contratto con uno sponsor commerciale dopo l’Eintracht Braunschweig. In questa stagione sulla maglia compare anche lo sponsor tecnico, in realtà si vedono diverse varianti di divise con e senza sponsor tecnico, a quel tempo non c’erano ancora contratti di fornitura esclusivi, così gli Amburghesi giocarono con maglie marchiate Umbro e Adidas. Nelle manifestazioni europee l’UEFA non consente la pubblicità sulle maglie quindi l’Amburgo indossa nella stagione 1974/75 una maglia rossa con la scritta HAMBURG e la stagione seguente con l’acronimo sociale HSV, in alcune partite si sono usate maglie con una toppa, con stampato su HSV, che copriva il nome dello sponsor commerciale. Si arriva alla stagione 1976/77 quando Krohn ha un’idea tra il geniale ed il bizzarro, per aumentare le presenze allo stadio punta sul pubblico femminile e decide di far scendere in campo la squadra con divise rosa o celesti. Come nelle stagioni precedenti non c’è un fornitore
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esclusivo ma si alternano maglie marchiate Adidas, Erima (azienda tedesca di abbigliamento sportivo al tempo nel gruppo Adidas e molto diffusa in Germania), Palme oltre a maglie senza logo, lo sponsor commerciale è l’Hitachi. Le divise sono composte da maglia rosa con collo a camicia molto ampio di colore bianco (i famosi colletti a vela), pantaloncini e calzettoni bianchi, con o senza strisce su maniche e pantaloncini, la divisa celeste è uguale nello stile sostituendo il celeste al rosa. Con questa divisa arriva il primo successo continentale, vittoria in Coppa Coppe ad Amsterdam nel 1977 contro l’Anderlecht. Molto particolare la divisa, fornita dalla Adidas, composta da maglia rosa con collo a camicia azzurro e strisce sulle maniche di colore azzurro, pantaloncini azzurri con strisce bianche e calzettoni azzurri con risvolti bianchi. Nella stagione successiva la divisa principale è composta da maglia rossa con collo a camicia bianco chiuso da un triangolo pure bianco, pantaloncini bianchi e calzettoni rossi con bordi bianchi (fornitore la britannica Umbro) ma vengono usate con una certa frequenza le divise dell’anno precedente nel precampionato (al tempo non si buttava via niente), l’ennesimo colpo del presidente è l’ingaggio di Kevin Keegan, all’epoca un’icona del calcio europeo. In questa stagione finisce l’era Krohn, prima presidente e poi direttore generale all’epoca venne criticato aspramente e ridicolizzato per le sue decisioni ma con il passare degli anni venne rivalutato e considerato un precursore della moderna gestione di una società di calcio. Quando arrivò alla direzione del club, l’HSV aveva debiti per tre milioni di marchi e languiva nella parte bassa della classifica, Krohn riuscì a rimettere in ordine il bilancio con introiti pari a sedici milioni di marchi, al tempo cifra astronomica, e portò l’Amburgo ai vertici nazionali e continentali. A partire dalla stagione 1978/79 si ristabilì la tradizione cromatica, in quella
stagione l’HSV si presentò con una divisa composta da maglia bianca con collo a girocollo rosso, pantaloncini rossi e calzettoni blu con bordi bianconeri, insomma era tornata la divisa storica, ormai anche lo sponsor tecnico era ben definito, la Adidas. Nella stagione 1979/80 cambia il collo, sempre rosso con il colletto a camicia chiuso sul davanti da un triangolo, cambia anche lo sponsor commerciale e si passa alla BP, è la maglia con cui l’HSV perderà la finale di Coppa dei Campioni a Madrid contro il Nottingham Forest. Nella stagione 1980/81, così come nella stagione seguente, la divisa non cambia in compenso gioca con l’HSV Franz Be-
ckenbauer (il suo ingaggio di 1,2 milioni di Marchi a stagione, un’enormità in quegli anni, sarà pagato dalla BP), al ritorno in patria dopo l’avventura con i New York Cosmos, mentre lascia la squadra Kevin Keegan. Nella stagione 1982/83 la maglia è bianca con collo a camicia bianca chiuso da un triangolo rosso, polsi rossi e sottili righine rosse sulla maglia. Nelle due stagioni successive la maglia è uguale ma con un collo a V rosso. In realtà in queste prime stagioni degli anni 80 la squadra non ha mantenuto un’uniformità stilistica rigida, spesso durante la stagione si sono viste maglie diverse, nell’ultima partita della stagione 1982/83, conclusa con la conquista del campionato, venne usata una maglia diversa da tutte le altre. In questa stagione gli Amburghesi si imposero anche nella finale di Coppa dei Campioni di Atene, rete decisiva di Magath contro la Juventus, indossando però una divisa completamente rossa con bordi ed inserti bianchi. Nella stagione 1985/86 ed in quella seguente, maglia bianca con collo a V rosso con un bordino bianco, maglia molto semplice ed elegante. Nelle stagioni 1987/88 e seguente maglia bianca con collo rosso a V ed inserto rosso sulle spalle, il main sponsor diventa la Sharp. Dalla fine degli anni 80 le maglie cambiano ogni anno, nella seconda metà del decennio si vedono una serie di maglie piuttosto brutte, a cominciare dall’ultima Adidas, 1994/95, una maglia bianca con collo a V neroblù e maniche blu e logo del fornitore sui fianchi. Successivamente per un triennio le divise vengono fornite dalla tedesca Uhlsport che sforna tre divise piuttosto brutte che rompono con la tradizione, due bianche con inserti rossoneri ed una con una larga striscia verticale centrale rossa. Negli anni seguenti si succederanno alla fornitura Fila, Nike e nuovamente Adidas che forniranno un alternarsi di divise tradizionali e strane, soprattutto con l’inserimento del blu. La seconda maglia dell’HSV è stata per mol-
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ti anni blu, accompagnata da pantaloncini bianchi, neri o blu. A fine anni 60 si sono viste le prime maglie rosse ed una maglia biancoblù tagliata in diagonale nella stagione 1969/70. Nella seconda metà degli anni 70 il rosso è diventato il colore preferito, solitamente si trattava di una versione cromaticamente opposta della prima divisa. A metà del decennio si sono viste maglie rosse, blu, verdi, rosse con maniche bianche e perfino maglie arancioni, in una sola stagione sono state usate maglie di cinque colori diversi. Dall’inizio degli anni 90 si è ritornati a prediligere il blu come colore alternativo, molto apprezzate le maglie neroblù a metà, riproduzioni della casacca del Germania, usate nel 2008/09 e 2009/10. Fin dagli albori i portieri dell’HSV hanno indossato maglie prevalentemente di colore grigio o verde, anche se le prime fotografie mostrano il portiere vestito di nero, negli anni 60 e 70 molto usate anche le maglie di colore nero, dalla seconda metà degli anni 80 il giallo ed il blu in diverse tonalità hanno avuto il sopravvento. L’HSV ha avuto fin dal 1919 lo stemma sociale cucito sulla maglia, un rettangolo blu con all’interno un diamante nero e bianco. I colori nero e blu riprendono le maglie del Germania SC, il disegno dello stemma deriva dalla bandiera di segnalazione nautica Blue Peter che significa tutti a bordo e rappresenta la tradizione portuale della città. Per decenni venne indicato come creatore dello stemma Otto Sommer, un giocatore della squadra del 1919, successivamente nel 1996 venne attribuito a Henry Lütjens. A partire dalla stagione 2004/05 lo stemma è impreziosito da una stella, a ricordare la vittoria in Coppa Campioni. Nel catalogo HW del Subbuteo l’HSV è il numero 39, maglia bianca, pantaloncini rossi e calzettoni bianchi, la divisa dei primi anni 70, successivamente entro in catalogo anche la maglia rosa con pantaloncini e calzettoni azzurri, numero 210.
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è TEMPO DI NBA 2017-2018 PANINI
Una raccolta di figurine (e card) piena di sorprese… Se siete dei fan del mondo NBA, è finalmente disponibile l’album di figurine (e card), ufficiale, NBA 2017-2018 firmato Panini. La collezione è davvero maxi e completa, con ben 435 figurine, di cui 99 speciali metallizzate, e ben 100 card giocabili Adrenalyn XL. Grazie alle favolose card che fanno parte della raccolta, sarà possibile dar vita a match emozionanti, direttamente sul poster-gameboard inserito all’interno dell’album. Le card possono essere raccolte nello speciale astuccio porta-card che si trova gratis all’interno dello starter pack! Ad ogni franchigia sono dedicate due pagine, che ospitano 12 figurine: il logo ufficiale in figurina metal, 7 figurine dei giocatori – dei quali sono riportate le statistiche riferite alla scorsa stagione e alla carriera complessiva in NBA - + 3 figurine speciali dedicate ad altrettanti Top Player – di cui 2 metal e una in versione illustrata – e, per la prima volta, una figurina per il coach del team! Innumerevoli le sezioni speciali. La prima è dedicata agli NBA Awards 2016-17 e celebra campioni che si sono distinti lo scorso anno, tra i quali l’MVP Westbrook, Green come Defensive Player e Antetokounmpo quale giocatore cresciuto di più di livello nel corso della stagione. Poi spazio all’All Star Game 2017, all’ultima, trionfale, cavalcata dei Warriors e tante altre novità tutte da scoprire…
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Marco Negri di Paolo Bardelli
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IL BOMBER SILENZIOSO Intervista all’ex attaccante del Perugia e dei Rangers Glasgow, capocannoniere della Scottish Premier League nel 1997-1998.
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oche chiacchiere, tanti gol, Marco Negri non ha mai voluto essere un personaggio. Il calcio degli ultimi anni è denso di parole e gesti eclatanti, l’attaccante milanese preferiva affidare ai silenzi le sue emozioni, i tifosi però non hanno faticato a capire un uomo che non baciava la maglia, ma sapeva stabilire una connessione profonda con la piazza. Negri ha girato l’Italia, da Udine a Cosenza, in mezzo a tante storie c’è n’è una che più di tutte è rimasta nella memoria degli appassionati, quella all’estero: 1997, i giocatori nostrani avevano da poco iniziato ad affrontare l’avventura oltre Manica, Negri, reduce dalle ottime prestazioni con la casacca del Perugia, accettò l’offerta dei Rangers di Glasgow. Impatto devastante sul campionato scozzese, 32 gol in 28 partite, 23 dei quali messi a segno in 10 match. Un campionato da record, lo sfizio di realizzare cinque gol in una
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CAL GIGANTI DEL Marco Negri
partita e il titolo di capocannoniere. “I’m happy but I don’t smile”, diceva, le emozioni Marco preferisce custodirle, mentre intorno a lui tutto cambia. Un’ascesa verticale, bruscamente frenata da una pallina da squash che causò il distacco della retina. Niente è banale in questa storia, la gloria e la caduta, storia degna di un libro. E Negri ha fatto anche questo gol, scrivendo un volume che sta riscuotendo grande successo nel Regno Unito. Un “muto” che ha tanto da dire. Marco Negri è rimasto nell’immaginario di molti: perché? “Ho fatto vincere tanti al fantacalcio (ride, ndr), ma a parte le battute ho giocato in un campionato che non può essere paragonato a quelli principali, ma quello scozzese è un
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campionato affascinante, è là che è nato il calcio e i tifosi hanno tanto da insegnare a tutti, si applaude anche quando non si vince. Nell’immaginario collettivo sono collegato a questa passione, le scivolate, il gioco maschio, partite sempre in bilico. Dalla mia parte ci sono indubbiamente anche i numeri, dieci partite a segno consecutivamente, cinque gol in una sola partita”. Torniamo proprio a quel 23 agosto del ‘97: Rangers-Dundee United. “Solo Ronaldo e pochi altri hanno segnato cinque gol in un match, non mi voglio certo paragonare a lui, ma è qualcosa di unico che mi rimarrà dentro per sempre”. Prima della Scozia, Perugia. Cosa resta dei giorni biancorossi? “Sono molto grato a quella città, sono riuscito a impormi all’attenzione del calcio italiano e a esordire in Serie A. In questi casi, è giusto essere grati a città e società, non torno spesso ma quando torno il riscontro è sempre bello, alla curva perugina un giocatore non rimane insensibile. Il primo anno abitavo in centro, poi sono andato a vivere in periferia. A parte il problema dei parcheggi (ride, ndr), adoravo vivere la città”. Tante maglie in carriera, mai sentita la mancanza di una ‘casa’? “Il fatto di essere un professionista non può privare della spensieratezza di anni che non tornano. Il calciatore è un privilegiato, puoi conoscere tante città, l’Italia è bella al nord, al centro al sud, per me viaggiare non è mai stato un problema ma un’opportunità. Essere ‘bandiera’ è una bella cosa, ma il mio desiderio era un altro, anche l’esperienza all’estero è nata dalla voglia di nuove esperienze di vita”. Nessun gesto eclatante, ma i tifosi ti hanno sempre amato. Perché? “Il mio ruolo aiutava: se fai gol, ti si apre un’autostrada nel cuore dei tifosi. A Cosenza ero conosciuto come ‘u muto’ perché non parlavo con la stampa, non si trattava
di un vezzo ma di un modo per tenere i piedi per terra, però non ho mai sottovalutato il valore dei tifosi. Loro capiscono quando un giocatore gioca per la maglia, al di là delle chiacchiere e dei baci allo stemma: un uomo non si giudica dalle parole, ma dai fatti. Io ho sempre cercato di parlare con i fatti, non solo i gol, ma anche impegno. Attualmente vivo a Bologna, altra piazza con la quale ho un grande legame”. Marco Negri è bravo anche con la penna, com’è nato il tuo libro? “Questo è un altro bel gol. Ho detto spesso che non ho parlato per tutta la carriera perché volevo scrivere un libro originale che sorprendesse tutti, l’idea è nata da un giornalista scozzese. La mia storia, una carriera sulle montagne russe, meritava di essere raccontata, il giornalista però non ha potuto portare avanti il progetto e... Ho fatto da solo. Non sono uno scrittore, non lo sarò mai, ma le storie escono dalla penna da sole. È stato un piacevole tuffo nel mio passato e il libro è piaciuto ai lettori, la versione scozzese è stata candidata all’International Cross Book Awards, uno dei premi britannici più importanti, non ho vinto ma è stata comunque una piacevole sorpresa. Non è piaciuto solo al tifoso, ma anche i critici lo hanno apprezzato”.
“Per gli scozzesi era impensabile che uno segnasse cinque gol senza il sorriso sulle labbra” Il titolo inglese è ‘Moody Blue’, perché? “Moody era il mio soprannome, significa ‘lunatico’, tutto è nato dopo la famosa partita con il Dundee United. Prima del match avevo discusso con un membro dello staff, durante i primi venti minuti l’assistente dell’allenatore avrebbe voluto sostituirmi e mi urlava
In Scozia è stato un re, tanto da finire sull’album ufficiale Panini
addosso, io lo mando a quel paese e urlo ‘cambiami pure’, poi faccio tre gol in dieci minuti. E nel secondo tempo ne faccio altri due, completando la mia rivalsa. Non sono mai stato in grado di fingere i miei stati d’animo, per gli scozzesi era impensabile che uno segnasse cinque gol senza il sorriso sulle labbra”. Eri già un libro prima di scriverne uno, il calcio britannico è unico nel creare personaggi letterari? “La squadra là è una comunità, è molto più di semplice tifo. Sommaci poi l’interrogativo circa quello che sarebbe potuto essere senza quello strano infortunio che va a rendere il tutto ancora più mitologico”. Nella storia di Marco Negri non mancano capitoli dolorosi, a partire da Ricksen. “Le ultime partite di beneficienza che abbiamo fatto sono state per Fernando Ricksen,
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CAL GIGANTI DEL Marco Negri
un ex compagno dei Ranger affetto dalla SLA, malattia che purtroppo conosciamo bene. È una patologia ‘one way’, come dicono in Inghilterra, purtroppo non ci sono cure. Lui è un guerriero, ogni volta che ci vediamo sono per metà molto triste perché la malattia progredisce e per metà mi rende felice perché lo posso riabbracciare. Quando si trova in mezzo a tanto affetto per lui è una grande scarica di energia ed è una bella cosa”. Un male che continua a portarsi via tanti calciatori, riusciremo mai a sapere la verità? “Io non credo sia legata necessariamente al lavoro di calciatore, ritengo abbia a che fare con il passare molte ore a contatto con il prato, visto che ha colpito anche giocatori di baseball ad esempio. C’è qualche tabù, qualche mezza verità viene fuori ma poi non viene approfondita, mi sembra strano che nel 2017 non si riesca a trovare almeno la causa scatenante. Fernando si è affidato alla medicina alternativa in Russia, dove ha giocato, ma la cura al momento sembra un’utopia”.
“Essere ‘bandiera’ è una bella cosa, ma il mio desiderio era un altro” A Glasgow hai stretto amicizia con Gascoigne, chi è il vero Paul? “Io lo definisco ‘genio’. Il ‘genio’ cammina sempre sulla linea, ho avuto il privilegio di giocare con Gazza ma ho avuto anche l’onore di conoscere Paul e non smetterò mai di parlarne bene perché è un ragazzo di cuore. Se ti serviva qualsiasi cosa, era il primo a farsi avanti. Lo stesso Rino Gattuso, appena arrivato a Glasgow, non aveva vestiti eleganti e glieli comprò Paul, dicendogli che il club gli avrebbe restituito i soldi ma non era vero! Gazza è uno che fa cose belle senza che nessuno lo sappia, altri ne fanno pochissime e
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Ai Glasgow Rangers è stato allenato anche da Walter Smith, totem del calcio scozzese
lo sottolineano. Un cuore d’oro, ha i suoi demoni e li combatte da quando è giovane, è un uomo per il quale faccio il tifo”. Non è solo lavoro, il calcio britannico sembra esserti entrato nell’anima. Perché? “Sicuramente anche prima di andare in Scozia avevo un approccio diverso rispetto ai colleghi italiani, poi sono rimasto legato a quel mondo perché là ho vissuto la mia esperienza più bella. Giocare ogni settimana davanti a 50 mila persone non succede a tutti, penso soprattutto all’Old Firm (il derby di Glasgow, ndr). Non pensavo alle moviole, era la mia natura e là ho trovato quello che sognavo. Non esci mai dal campo con l’amaro in bocca, ti senti parte di uno spettacolo del quale fa parte anche un pubblico meraviglioso”. Il derby di Glasgow non è solo calcio, come sei stato accolto nel club protestante della città? “Sono stato accettato benissimo dai compagni, ma in quegli anni lo sfottò non mancava. Arrivava qualche lettera allo stadio con su scritto ‘sei nella squadra sbagliata”, ma sono tutte cose che fanno parte di un antagonismo davvero profondo. In Italia abbiamo rivalità calde, ma questa è una partita che va oltre, non scendono in campo due squadre
ma due popoli. È difficile spiegare le emozioni che si provano durante un simile match, prima dell’Old Firm nello spogliatoio non volava una mosca. Non si parla di giocare bene o male, ma di battere l’avversario perché significa tutto per la tua gente. È la partita più affascinante che abbia mai giocato. Invito tutti gli amanti del calcio a scoprirla”. Gol a raffica e poi quella maledetta pallina. Dove saresti arrivato senza l’infortunio? “Stavo vincendo la Scarpa d’Oro e c’erano tante voci circa una possibile convocazione in Nazionale, altro sogno che avevo da bambino. Era l’anno di Francia ‘98, gli attaccanti italiani erano tanti e uno più forte dell’altro. È uscito un numero sbagliato nella ruota della vita e le cose sono andate diversamente. Era la seconda volta che giocavo a squash, in quel centro mancavano gli occhiali protettivi, e la pallina mi colpì l’occhio. Ero con Porrini, che quel giorno ha dimostrato di avere le
mani peggiori dei piedi (ride, ndr). Una cosa dura da digerire, distacco della retina, ero in una bolla magica e quella pallina fece esplodere la bolla e poi tutto è andato a rotoli. La vita è così”. All’epoca raggiungere la nazionale era un’impresa... “Tra gli altri, c’erano Baggio, Zola, Casiraghi, Del Piero, Vieri, Montella, Inzaghi, Chiesa e mi fermo qua perché la lista sarebbe lunghissima. Una maglia azzurra sarebbe stata la ciliegina sulla torta, era un periodo ricco di campioni, quando vedevo il mio nome su Televideo insieme a quello di Weah o Signori provavo emozioni enormi”. Oggi sarebbe più semplice? “Io avevo l’istinto, una cosa che secondo me non ha tempo o nazionalità, una cosa che fa la differenza. È brutto sembrare nostalgici, ma quando giocavo in Serie A dovevo affrontare Montero, Ferrara, Thuram, Maldini,
Un vero rapporto di amicizia tra Negri e Gascoigne
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CAL GIGANTI DEL Marco Negri
CINQUE GOL, NIENTE DI SPECIALE La giornata da record di Negri
Sabato 23 agosto1997, ad Ibrox Park va di scena va di scena Rangers-Dundee United. Dopo la prima mezz’ora di gioco il risultato non si sblocca, sembra una partita come tante altre, ma i 48.599 spettatori presenti stanno per ammirare uno spettacolo che non dimenticheranno mai. Minuto 35, la retroguardia dei Tangerines pasticcia e sulla palla piomba Ståle Stensaas, il terzino norvegese alza la testa e vede la chioma di Negri, palla in mezzo e l’italiano non perdona. Un gol facile facile, tanto per scaldare il motore, Marco esulta poco e rientra verso il centro del campo. Passano otto minuti, corner, accanto alla bandierina c’è il piede di Paul Gascoigne. Palla tesa nell’aria piccola, Negri stacca e butta in rete palla e portiere. Due a zero, Marco alza un dito, sbuffa e sembra dire “niente di speciale” mentre il vecchio Gazza alza le braccia al cielo quasi fosse al cospetto di un’apparizione mistica. La squadra di Tommy McLean spera che l’intervallo arrivi presto, ma prima della sosta arriva un’altra mazzata. Palla in profondità, Negri controlla, doppio sombrero a irridere il diretto marcatore e pallonetto che beffa Dijkstra, leggermente fuori dai pali. Un gol da fantasista. Lo stadio è in delirio, sorridono tutti, l’unico al quale non sembra fregare niente è proprio il goleador, che bofonchia qualcosa mentre l’abbraccio dei compagni lo sommerge. è appena nata una leggenda, quella del “Moody Italian”. Nella ripresa lo spartito non cambia, al 66esimo arriva una palla dalla sinistra, Negri controlla spalle alla porta, difende la sfera e segna in estirada. Questo invece è un gol da puro numero nove, potenza e istinto killer, quello che non cambia è la noncuranza dell’ex Perugia, immortalato dalle telecamere mentre si sistema i calzettoni dopo il gol. Come se niente fosse. Poco dopo arriva il gol della bandiera realizzato da Pressley su rigore, buono solo per gli almanacchi, Gascoigne dopo aver deliziato la platea lascia spazio a un 19enne appena arrivato a Glasgow. Un tale Gennaro Gattuso, forse l’avete sentito nominare. Arriviamo a quattro minuti dallo scadere, la gara è finita ma non tutti sono d’accordo. Gordon Durie, leggenda dei Rangers, riceve la sponda di Negri e poi lo serve in profondità con un esterno da palati fini, l’attaccante italiano non va tanto per il sottile e sfonda la porta con un destro dal limite. Quinto gol, Negri è impassibile e si limita a ringraziare il compagno per l’assist, una questione di buona educazione. Per il resto, niente di speciale, ha solo segnato cinque gol in una partita.
Costacurta, Aldair, Buffon, Peruzzi, Toldo... Ogni domenica trovavi un fenomeno. Il livello non è più quello, ma credo che il calcio vada a fasi, questa potrebbe essere l’inizio di una nuova era di giocatori italiani molto forti”. Rivedi un ‘Marco Negri’ in giro? “Onestamente non so. Il ruolo dell’attac-
cante è cambiato, adesso deve rientrare molto e aiutare i compagni, io amo il giocatore che ‘fa reparto da solo’. In Italia abbiamo calciatori come Icardi e Higuain, non li paragono a me perché sono molto più forti, però è quella la tipologia di calciatore che mi piace”.
Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
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reportage wembley di Gianfranco Giordano
THE WEMBLEY EXPERIENCE Alla scoperta di uno stadio che trasuda storia e grandi imprese…
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embley è sicuramente uno degli stadi di calcio più importanti nel mondo, non solo per la grandezza dell’impianto e per l’importanza delle partite ospitate nel corso dei decenni, ma soprattutto per il valore iconografico che è riuscito a ritagliarsi nell’immaginario di ogni appassionato di calcio. L’occasione è ghiotta, andare a Wembley per vedere la partita tra Tottenham e Burnley, terzo turno di Premier League. La partita è inserita nella quarta fascia di prezzo, ovvero la più economica, in un campionato dove i prezzi per assistere alle partite sono piuttosto elevati. Il famoso modello inglese, che sta trasformando lo
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spettacolo per eccellenza della working class in uno spettacolo per ricchi. La mia giornata prevede un tour piuttosto esteso che mi porterà a vivere il passato ed il presente dello stadio di Wembley, passando dalle torri gemelle all’arco metallico bianco. Parto dalla stazione di St Pancras, metro linea Northern in direzione sud, fino a Tottenham Court Road poi Central Line direzione ovest fino a Northolt. Esco dalla stazione ed in dieci minuti a piedi arrivo ai Northala Fields. Si tratta di un parco inaugurato nel 2008 e situato a ridosso della A40, all’estremità occidentale della Greater London, è composto da quattro colline artificiali, alcuni laghetti dedicati alla pesca ed un
vasto prato. Il motivo che mi spinge fin qua è che le quattro colline artificiali sono realizzate con le macerie del Vecchio Wembley, mi sembrava il modo migliore per cominciare la giornata. Siamo a sole quattro miglia a ovest dallo stadio e dalla sommità della collinetta più alta, guardando verso est, si vede l’arco del nuovo stadio, struttura in acciaio dipinto di bianco capace di contenere un Eurostar, il pensiero di camminare sulle macerie di quello stadio così glorioso mi emoziona e mi intristisce allo stesso tempo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, Re Giorgio V decise di organizzare la British Empire Exhibition, per sottolineare la potenza economica e militare dell’Impero, messa a dura prova dalle crescenti ambizioni di Stati Uniti e Giappone. Venne deciso di allestire l’esposizione nella zona settentrionale di Wembley, nonostante le molte critiche che consideravano il sito troppo lontano dal centro città, l’area ospitava già un parco abbastanza conosciuto dai londinesi. Per l’occasione venne costruito un grande impianto destinato ad ospitare svariate manifestazioni, al suo interno un campo da calcio attorniato da una grande pista. I lavori comin-
ciarono nel gennaio del 1922 e lo stadio venne inaugurato il 28 aprile 1923 (costo dell’opera 750.000 sterline dell’epoca), la denominazione ufficiale era British Empire Exhibition Stadium o più semplicemente Empire Stadium. La prima partita giocata all’ombra delle due torri fu, ovviamente, una finale di FA Cup, il 28 aprile 1923 si affrontarono West Ham e Bolton in quella che divenne famosa come “Finale del cavallo bianco”. Una folla incredibile si riversò allo stadio, non ci sono numeri attendibili ma si parla di un numero tra le 250 e le 300 mila persone (anche se le cifre ufficiali dichiarano 126.047 spettatori). Per evitare incidenti si decise di far riversare il pubblico sul terreno di gioco, prima della partita un poliziotto in groppa a Billie, un maestoso cavallo bianco, contribuì a tenere a bada la folla e la partita venne regolarmente giocata. Per la cronaca vinsero 2-0 gli Hammers. Sopravvissuto alla demolizione, secondo il progetto originale lo stadio doveva essere smantellato alla fine della manifestazione, diventò famoso con la più semplice denominazione di Wembley Stadium e divenne un’icona del calcio mondiale anche grazie alle due torri gemelle poste da-
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reportage wembley
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vanti all’ingresso principale. Il vecchio Wembley esalò l’ultimo respiro il 7 ottobre 2000 ospitando un’amichevole tra Inghilterra e Germania, vinsero gli ospiti grazie ad una rete di Hamann a suggellare una famosa frase di Gary Lineker. La demolizione cominciò nel dicembre del 2002 ed ebbe il suo momento più enfatico il 7 febbraio 2003 quando, davanti ad una folla numerosa e commossa, vennero abbattute le due torri. Lascio le spoglie del Vecchio Wembley, ritorno a Northolt e prendo la Central verso est per una sola fermata, esco a Greenford, poi il bus 92 e scendo all’incrocio
parco. Con la costruzione del nuovo stadio si è realizzata anche una grande opera di cementificazione edilizia, ormai la metà della zona circostante è occupata da alberghi, centri commerciali ed uffici, un quarto sta per subire la stessa sorte e solo nella zona meridionale resistono le casette ed il parco. Chissà per quanto. Fin dalla prima occhiata Wembley è uno stadio modernissimo, tutto acciaio, vetro e cemento, bello ma di una bellezza algida quasi asettica. All’ingresso principale la statua di Bobby Moore osserva la marea che, dall’uscita della metropolitana di Wembley
tra Harrow Road e Watford Road, percorro quest’ultima per poche centinaia di metri ed arrivo al campo di Vale Farm che attualmente ospita il Wembley FC. Su questo campo si sono allenati i ragazzi di Alf Ramsey durante la Coppa del Mondo del 1966, una soluzione ottimale considerando che l’Inghilterra ha giocato tutte le sue partite nel vecchio Wembley, l’impianto ospita 2450 spettatori è piccolo ma funzionale e dotato di una bellissima club house. Lascio Vale Farm e salgo sul bus 182, adesso non si scherza più prossima fermata Wembley Stadium, attraverso il London Designer Outlet e davanti a me si erge lo stadio. Il vecchio stadio era circondato per tre quarti da un enorme parcheggio, la restante parte era occupata dalle classiche case in mattoni rossi e da un
Park, si riversa verso lo stadio percorrendo la Olympic Way. La costruzione dello stadio è cominciata nel 2003 per un costo totale di 757 milioni di sterline, la prima partita ufficiale è stata un’amichevole tra Inghilterra ed Italia U21 il 24 marzo 2007. Percorro tutto il perimetro dello stadio, colpiscono l’organizzazione maniacale e l’ordine, ci sono stewards ovunque (più o meno con la densità di uno ogni metro quadro), squadre di addetti alle pulizie girano come assatanati alla ricerca del minimo pezzo di carta prima che tocchi terra (invano perché davanti a tanta pulizia nessuno oserebbe far cadere anche una sola briciola a terra). Mi decido finalmente ad entrare, breve coda, uno steward mi controlla, poi posso inserire il biglietto nel lettore ottico ed entro,
NON SOLO CALCIO Nel corso degli anni Wembley ha ospitato concerti, partite di rugby, di calcio gaelico, di NFL, incontri di pugilato e le Olimpiadi del 1948. Il primo concerto risale al 1972, ma è senza dubbio il 13 luglio 1985 che uno degli eventi più seguiti di sempre ha portato Wembley alla massima popolarità con il Live Aid, alla presenza delle altezze reali i Principi di Galles e dei più famosi cantanti dell’epoca. Rugby Union e Rugby League hanno impegnato il prato per partite importanti, anche gli All Blacks tra i protagonisti, la NFL a partire dal 2007 ogni anno disputa alcune partite della regular season sul prato londinese, ma la prima esibizione dei footballers di oltre oceano risale al 1952. Nel 1948 Londra ospitò i Giochi Olimpici, oltre alla cerimonia di apertura si svolsero all’Empire Stadium le gare di atletica, le semifinali e finali dei tornei di calcio ed hockey su prato, molto popolare oltre manica. Non sono mancate negli anni gare di speedway e corse di levrieri, insomma uno stadio dai molteplici impieghi.
L’INVASIONE DI CAMPO
LE FINALI
Tra i momenti da ricordare non manca un’invasione di campo. Il 4 giugno 1977, due secoli dopo la battaglia di Culloden, la Tartan Army cala su Wembley per una giornata che rimarrà nella storia del calcio scozzese. Nell’ultima giornata dell’Home Championship una Scozia fortissima espugnò Wembley ed alla fine della partita i tifosi arrivati dal nord, si stima che due terzi dei 98.103 spettatori fossero scozzesi, si riversarono sul terreno di gioco per festeggiare la vittoria. Le cronache raccontano di una folla incontenibile, una porta venne abbattuta ed il campo venne letteralmente sradicato e trasportato in Scozia nelle tasche dei tifosi.
Wembley per gli appassionati di calcio è da sempre legato alle finali di FA Cup, indimenticabili le telecronache di Giuseppe Albertini della TSI che hanno iniziato negli anni 70 molti appassionati al calcio inglese. In ambito internazionale sul prato londinese si è giocata una finale mondiale nel 1966, un campionato europeo nel 1996, sette finali di Coppa dei Campioni, due finali di Coppa delle Coppe. La prima finale di Coppa dei Campioni venne vinta dal Milan nel 1963, successivamente hanno alzato la coppa dalle grandi orecchie Manchester United, Ajax, Liverpool, Barcellona due volte e Bayern. La Coppa delle Coppe ha visto i successi di West Ham e Parma.
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reportage wembley subito dopo altra perquisizione, manuale e con metal detector, poi controllo allo zainetto a cui viene apposta un’etichetta. Passati tutti i controlli un altro steward indica la via per la scala mobile che porta nella parte alta dello stadio, ci sono tre rampe di scale mobili. Giunto finalmente in cima mi aspetta un enorme corridoio sul quale si affacciano bar, chioschi per il cibo, uffici informazioni, negozi degli Spurs ed agenzie scommesse. Ovviamente ci sono i bagni, in totale 2.618, Wembley è l’edificio con il maggior numero di bagni al mondo! A questo punto posso concedermi una pinta di Tetley’s, se posso fare una critica sono disponibili solo due marche di birra, poi vado a cercare il mio posto. Appena mi affaccio sugli spalti spalanco gli occhi e rimango a bocca aperta, lo spettacolo è bellissimo, il prato di un verde scintillante sotto i raggi del sole e tutto intorno 90.000 seggiolini rossi con una piccola parte di seggiolini blu e bianchi a comporre la scritta Wembley nelle curve. Attorno a me il solito nugolo di stewards che mi assistono alla ricerca del posto, neanche Heidi appena scesa dai monti svizzeri riuscirebbe a perdersi qua dentro. Le avversarie di giornata sono il Tottenham Hotspur FC ed il Burnley FC, gli Spurs privi di uno stadio dopo la decisione di demolire White Hart Lane per costruire al suo
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posto un impianto più grande e moderno, hanno chiesto ed ottenuto di poter giocare le partite della stagione 2017/18 a Wembley. Prima della partita chiacchiero con un tifoso degli Spurs, mi confessa il rincrescimento per l’abbandono del vecchio Lane, anche se capisce che ormai le logiche del calcio attuale impongono uno stadio grande e moderno per essere competitivi ad alto livello, allo stesso tempo è contento perché il nuovo stadio viene costruito nello stesso posto ed in un certo senso si resta a casa, mi dice anche che ha paura che Wembley possa portare sfortuna. Il tempo passa ed arriva l’ora del calcio d’inizio, prima entrano in campo le mascotte poi finalmente è il momento delle squadre, i giocatori indossano divise tradizionali eccetto i portieri che sembrano due evidenziatori. Gli Spurs conducono il gioco ma i Clarets si difendono con ordine, all’inizio della ripresa i padroni di casa passano in vantaggio con Alli ed hanno diverse occasioni per chiudere la partita, senza peraltro riuscire a finalizzare. Come spesso succede chi sbaglia troppo viene punito, nell’injury time i Clarets riescono a pareggiare con Wood. Lo sguardo corre a vedere i tifosi ospiti festanti e noto una bandiera siciliana con la scritta Sicilian Clarets. Finita la partita si esce dallo stadio in pochi minuti per rimanere imbottigliati nella Olympic Way, il fiume di persone è gestito dagli onnipresenti stewards che ti accompagnano fino alla stazione della metropolitana. Prima di entrare nella stazione della metro mi volto ancora verso lo stadio, e mi viene la nostalgia di quelle bellissime due torri che ho visto tanti anni fa in occasione di un Charity Shield e di quel calcio che era ancora sport.
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INTERVISTA
Claudio Bosotin di Thomas Saccani
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DUE CHIACCHIERE CON BOSOTIN… Storico fondatore degli Ultras Tito Cucchiaroni, ha sempre vissuto nel segno della Sampdoria
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Genova, sponda blucerchiata, tutti sanno chi è Claudio Bosotin. Per molti il “primo tifoso” della Sampdoria, è il fondatore degli Ultras Tito Cucchiaroni (UTC). Da sempre presente allo stadio Marassi e, di fatto, nelle trasferte più importanti della storia blucerchiata, è l’inventore di alcuni dei canti più noti tra il popolo blucerchiato, oltre che il “coreografo” di molti Derby della Lanterna. Un tifoso speciale, diventato “magazziniere”, per volontà dell’indimenticato presidente Paolo Mantovani nella Sampdoria dei Mancini e dei Vialli. Il “Boso” è la “memoria” storica di una Sampdoria bella e vincente, dove lo sfottò era goliardico e le vittorie concrete. Lo abbiamo intervistato, o meglio, lo abbiamo “scoperto” tra mille aneddoti e divertenti imitazioni… Buongiorno Claudio, pronto ad aprire il libro dei ricordi?
foto Liverani
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INTERVISTA
Claudio Bosotin “Facciamo notte qui…”. Partiamo dalla sua fede per la Sampdoria. Come è nata? “Sono sampdoriano da tutta la vita. Ho avuto la fortuna di scegliere il club giusto di Genova (ride, ndr). Ricordo ancora la mia prima partita: Sampdoria-Reggina, 28 maggio 1966. Eravamo in Serie B, è stato amore a prima vista”. Da lì a poco, nasce l’idea di fondare il gruppo Ultras… “C’è stato un po’ di lavoro per arrivare, alla fine, a fondare gli Ultras Tito Cucchiaroni ma ne vado molto fiero”. Una fede viscerale per la Sampdoria, meno per il Genoa… “No, no, dobbiamo ringraziare il Signore di averci regalato il Genoa. Ci ha dato tante soddisfazioni nel corso degli anni (ride, ndr)”.
Fulvio Comini mostra il tatuaggio di Claudio Bosotin, il fan per eccellenza - Foto Fulvio Comini
IL TATUAGGIO DI NICOLINI Recentemente il “Boso” ha fatto, nuovamente, parlare di sé. Si è, infatti, fatto tatuare, sul braccio, l’immagine del suo idolo per eccellenza, ossia Enrico Nicolini, bandiera della Sampdoria (in blucerchiato dal 1972 al 1976), soprannominato il Netzer di Quezzi: “Ho sempre avuto un debole per Nicolini e, alla fine, ho deciso di farmelo tatuare. Io volevo la sua immagine sul cuore ma poi mi hanno consigliato l’avambraccio. E’ bellissimo. Lui è una vera bandiera blucerchiata e lo merita. Ora starà con me fino a quando campo”. Niente da aggiungere…
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“Lo Scudetto è stato meraviglioso, una splendida cavalcata con una squadra pazzesca, guidata da un presidente meraviglioso e un allenatore davvero unico” A Marassi sei stato spesso protagonista sulle gradinate con cori e striscioni… “Beh, era un po’ il mio mestiere… Ne ho fatti di cori e di striscioni. Ricordo uno striscione, di 80 metri, con la scritta “Vinci per noi”, sotto la gradinata. Un altro, da 40 metri, con la scritta “La Samp è una fede”. Ce ne sono stati tanti, soprattutto durante i Derby”. Parliamo di Derby. C’è ancora chi ricorda la scimmia… “Il putiferio ho scatenato con quella storia… Il Genoa aveva appena preso Eloi, il brasiliano. Eravamo nel 1983, quando ancora gli
sfottò erano possibili e senza filtri. Passando davanti al Circo Medrano, ho deciso di andare dal direttore: volevo una scimmia per una manifestazione sportiva. Gli ho lasciato una catena d’oro e le chiavi della macchina per avere la scimmia. Il giorno del Derby, mi sono presentato con la scimmia con, addosso, la maglia di Eloi. Il carabiniere allo stadio mi ha fermato e mi ha detto: ‘Mi scusi, gli animali non possono entrare…’. Ricordo che ho risposto: ‘Questo non è un animale, è mio figlio. Se lei li fa meglio, mi faccia sapere come fa…’. Se ne parla ancora oggi di questa storia. Ora non sarebbe più possibile ma quelli erano altri tempi”. Ma c’è un Derby che le è rimasto particolarmente nel cuore? Credit Foto Fulvio Comini
… E IL TATUAGGIO DI BOSOTIN Se il “Boso” si è fatto tatuare la bandiera Nicolini, c’è anche chi si è fatto tatuare il “mitico” Bosotin… L’idea è venuta a Fulvio Comini, ex giocatore di Marassi, Certosa Riesi, Nuova Oregina e Murta ma soprattutto grande tifoso blucerchiato. “Volevo tatuarmi qualcosa che rappresentasse la Sampdoria in tutto e per tutto, l’attaccamento alla maglia, la storia del club, il tifo e da questo cocktail è uscito fuori il volto di Bosotin…”. Fulvio e Claudio sono amici da una vita e, insieme, vivono con calore e impegno la fede nei colori della Samp. I due, come ci racconta lo stesso Fulvio, hanno vissuto momenti indimenticabili come quella volta in cui, invitati da Mancini (insieme ad altri noti personaggi del mondo blucerchiato, come Mauro Sutto, storico magazziniere della Samp Campione d’Italia), amico del “Boso” e allora allenatore del Manchester City, sono stati all’Old Trafford per il derby di Manchester. In quell’occasione, i Citizens, per la cronaca, si sono imposti per 6-1.
“Tanti, tantissimi ma la rovesciata di Maraschi non la dimenticherò mai”. Ci racconti meglio… “Derby Sampdoria-Genoa del 1973. Non siamo una grande squadra, in classifica non siamo messi bene. Il Genoa è anche in vantaggio e loro festeggiano alla grande. Bene, quando la partita è ormai finita, Maraschi riceve, in area di rigore, una palla e si inventa una rovesciata da urlo che finisce in rete. La reazione dei genoani è stata incredibile, non ha fiatato più nessuno. Il giorno dopo, al bar, offrivo da bere a tutti i genoani. Gli dicevo: ‘Vai, prendi un Maraschino, offro io’…”. Bei, tempi, soprattutto quelli in cui la Sampdoria vinceva trofei importanti… “La Sampdoria di Paolo Mantovani era una vera e grande famiglia. Con molti giocatori
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INTERVISTA
Claudio Bosotin
La Sampdoria festeggia lo Scudetto - Foto Liverani
di quella incredibile squadra, quella che ha vinto Scudetto, Coppa Italia, Supercoppa e Coppa delle Coppe, sono ancora in contatto”. Forse lo Scudetto è stato il trofeo più bello da vincere? “Anche la prima Coppa Italia, quella del 1984/85, il primo trofeo importante che abbiamo messo in bacheca. Lo Scudetto è
“Ricordo ancora la mia prima partita: Sampdoria-Reggina, 28 maggio 1966. Eravamo in Serie B, è stato amore a prima vista”. 78
stato meraviglioso, una splendida cavalcata con una squadra pazzesca, guidata da un presidente meraviglioso come Paolo Mantovani e un allenatore, Vujadin Boskov, davvero unico”. Che tipo era Vujadin Boskov? “Cito le parole del Mister: ‘Sampdoria può perdere, pareggiare o vincere questa partita’… (con tanto di perfetta imitazione, ndr). Questo dice tutto di Boskov. Vi racconto un aneddoto. Nel 1986 la Sampdoria fa sapere che sarà Boskov il nuovo allenatore. Prende casa a Nervi, vicino a Genova. Mi fa chiamare e mi dice: ‘Domani tu passi a prendere me e mi porti a casa. Ci vediamo alle cinque del mattino’ (altra imitazione da parte del “Boso”, ndr). Io, insieme ad un amico, alla mattina seguente mi faccio trovare da lui che subito mi fa notare che sono le
BEN TORNATO FIFA 365!!! Il top del mondo pallonaro a portata di mano. Basta osservare la cover per capire che stiamo parlando dell’eccellenza del pallone. Campeggiano, in copertina, Lionel Messi, Cristiano Ronaldo, Paulo Dybala, Edison Cavani e N’Golo Kanté. Si cosa stiamo parlando? “Panini FIFA 365”, la nuova collezione di figurine dedicata al top del calcio mondiale e realizzata da Panini su licenza ufficiale FIFA. Questa raccolta è composta da 602 figurine, di cui 76 speciali: metalizzate, in raso, con effetto “rainbow” o fustellate con inserti stampati in oro a caldo. Grazie al particolare formato, queste figurine contengono circa 800 immagini diverse di giocatori e squadre, con riferimento a 30 tra i più importanti e titolati club al mondo. Presenti ben cinque club di casa nostra, ossia Juventus, Milan, Inter, Roma e Napoli. La collezione “Panini FIFA 365” contiene diverse sezioni speciali. Innanzitutto, l’album si apre con la “Football Sticker Art”, una serie di figurine speciali in raso e olografiche che vogliono essere un tributo agli emblemi FIFA e ai giocatori preferiti dai collezionisti. Seguono due pagine di approfondimento sulla “FIFA Confederation Cup Russia 2017”, vinta dalla Germania. Un’altra sezione speciale, focalizzata sui giovani emergenti, è dedicata invece alla “FIFA U-20 World Cup Korea Republic 2017 – Next Generation”, disputatasi nel maggio 2017 in Corea del Sud. Una sezione di ben cinque pagine racconta poi la “FIFA Club World Cup Japan 2016”, la massima competizione mondiale per squadre di club: insieme all’albo d’oro della competizione, sono pubblicate le immagini delle squadre partecipanti e dei protagonisti della rassegna 2016, che ha visto trionfare il Real Madrid. Altre sezioni speciali sono dedicate a “FIFA U-17 Women’s World Cup Jordan 2016” e “FIFA U-20 Women’s World Cup Papua New Guinea 2016”, entrambe vinte dalle Nazionali della Corea del Nord. Inoltre sono presenti le sezioni “Milestones”, con gli eventi salienti della stagione 2016/2017, e “Top Performers”, con i giocatori che vantano più presenze, i club più titolati e gli attaccanti più prolifici. Chiude l’album una pagina dedicata ai tornei che completano il calendario FIFA tra cui: “Futsal World Cup Colombia 2016”, “Beach Soccer World Cup Bahamas 2017”, “Blue Stars FIFA Youth Cap” e la “FIFA Interactive World Cup”
Ormai un classico Panini, con Juventus, Inter, Milan, Roma e Napoli…
INTERVISTA
Claudio Bosotin Ormai siamo curiosi… cinque e cinque minuti… Mi dice: ‘Tu “Mia madre non stava bene. Ne stavai, prendi autostrada e vai’… Mi pare vo parlando, ad alta voce, con delle strano prendere l’autostrada per anpersone amiche. Non mi sono accordare a Nervi ma il Mister è lui. Apto che mi stava ascoltando anche il pena vedo l’uscita per Nervi, mi infilo presidente. Quando si stava per rima Boskov si arrabbia: ‘Dove vai tu? entrare, un uomo di Paolo Mantovani Dove stare andando?’. Gli spiego: ‘A ha informato il presidente che stava Nervi, Mister, a casa sua…’. Boskov per portare la Coppa delle Coppe in si mette le mani nei capelli sconsolasede ma lui lo ha stoppato: “No, la to: “Ma no, ad Ascoli, andiamo a casa Coppa la prende il Boso e la porta mia ad Ascoli a prendere due cose’. da sua madre, tanto lui non ha biPer la cronaca abbiamo riempito un sogno della scorta”. E così è stato. furgone per prendere le sue cose… La Coppa delle Coppe è finita a casa Un mito”. mia, con mia madre felicissima, così Chi era il più simpatico del gruppo? come tutto il mio quartiere. È stato “Gianluca Vialli era un vero simpatiun gesto fantastico, indimenticabile, cone. Faceva scherzi a tutti, sopratla conferma di quanto era speciale il tutto ai nuovi. Insieme ne abbiamo presidente Paolo Mantovani”. fatte di ogni. In particolare la preda Dopo quella fantastica famiglia, ci era Attilio Lombardo… E poi c’era sono stati tante altre squadre e diCerezo…”. versi campioni. C’è qualcuno che le Cerezo? Perché era tanto particoè piaciuto particolarmente? lare? “Tanti, tantissimi… Penso a Sinisa “Era brasiliano, sorrideva sempre Mihajlovic. Che giocatore, che perma, a volte, arrivava tardi agli allesona. Un leader, in campo e fuori. namenti con Boskov che lo rimproMi ricordo che mi diceva: ‘Boso, verava così: ‘Ritardo, domani paghi quando fischiano una punizione per pasticcini e champagne per tutti’. noi, devi far cambiare il risultato del Ripeto, era una famiglia”. tabellone. Farlo dopo è facile’. Era C’è chi dice che Francis la faceva uno tosto e lo è anche come allenaimpazzire… tore”. “È vero, era un tipo davvero geneIn tutti questi anni da super tifoso, roso. Lui regalava sempre la sua cosa le ha fatto male maggiormente? maglia a qualcuno. Una volta, dopo “Wembley, non ci sono dubbi. Perdeavergliene date quattro, sono stato costretto a chiederla ad uno a cui Si ringrazia Panini re la finale di Coppa dei Campioni, a Wembley, è stata durissima. Ancora l’aveva appena regalata per permet- per la gentile concessione delle oggi sono convinto che la punizione tergli di scendere in campo con la immagini da cui è nato il gol di Koeman, in remaglia da gioco” altà, era una punizione a nostro favore, per Nel 1990, a Goteborg, la Samp vince la fallo su Invernizzi… Ne sono sempre stato Coppa delle Coppe… convinto. Dopo la partita c’era una delu“Ovviamente c’ero a Goteborg per quella sione incredibile, quella finale dovevamo pazzesca finale. È accaduto di tutto ma, in vincerla noi”. particolare, io ricordo quello che ha fatto il L’ultimo trofeo della Sampdoria risale presidente Paolo Mantovani per me…”.
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IL MAGAZZINIERE TIFOSO… Fondatore degli UTC ma anche magazziniere della sua squadra del cuore. Claudio Bosotin ne va fiero. Lui, fan sfegatato della Samp, ha avuto l’onore di farci parte, grazie al “suo” presidente Paolo Mantovani: “Gli ho scritto una lettera, dicendo che ero pronto a fare di tutto per la Sampdoria e lui mi ha dato una possibilità. Facevo davvero di tutto ma, soprattutto, potevo stare con i giocatori che era la cosa più fantastica per me. Ricordo tante serate, tanti bei momenti, alcuni anche difficili. Ho fatto l’autista per Mancini, un amico vero. Ho dato una mano a tutti, sempre per il bene della Sampdoria. È stato bellissimo e conservo ogni ricordo di quel periodo”. Un rapporto interrotto bruscamente: “Il mio presidente è stato Paolo Mantovani, me ne sono andato quando se ne è andato Mancini. Ritornare? Non credo proprio”.
“Ho tantissimi derby nel cuore, ma la rovesciata di Maraschi nel 1973 non la dimenticherò mai”. alla stagione 1993/94… “Sì, la Coppa Italia numero quattro. Guarda, io credo che la Sampdoria, soprattutto di fine anni ’80 e primi anni ’90, avrebbe dovuto vincere di più ma, almeno, noi abbiamo vinto mentre quelli del Genoa no. È comunque una soddisfazione (ride, ndr)”. Staremmo delle ore ad ascoltare le storie doriane legate, a doppio filo, al “Boso”, uno che ha sempre visto il mondo in blucerchiato nel bene e nel male. Lo salutiamo e lo ringraziamo e lui ci saluta con l’ennesima perla: “Grazie a voi e, mi raccomando, chiamatemi quando volete ma non fatemi chiamare ad un genoano”.
Quando c’è di mezzo la Samp, il Boso è sempre in prima fila - Foto Fulvio Comini
Si ringrazia Carlo Pittaluga per la gentile collaborazione
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L S Luca Saudati IL PALLONE SGONFIATO
DOVE SONO FINITI?
di Stefano Borgi
Detesta i procuratori, non vuol fare l’allenatore, si arrabbia se vede un suo allievo col telefonino. Questo è Luca Saudati, gol d’autore e più di 25 tatuaggi.
C
ome spesso capita, le frasi più vere, più sincere, arrivano a fine intervista. Come quando a cena ti portano un limoncello, e ti lasci un po’ andare. “Vedi? Quando il pallone si sgonfia, rimane la persona. Se hai avuto atteggiamenti positivi, vai avanti. Agli altri, invece, andrebbe ricordato che dopo il calcio c’è
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la vita, la vita vera. E quella non perdona”. Luca Saudati non le manda a dire, anzi... Sui procuratori, ad esempio: “Loro sono la rovina del calcio – accusa. Più a livello giovanile che a livello professionistico. Sono veramente deleteri. Io dal 2005 ho scelto di stare senza procuratore e mi sono trovato benissimo. Nel 2007, dopo un’ottima anna-
ta con l’Empoli (14 reti in 34 partite, qualificazione in Coppa Uefa ndr.) ebbi diverse offerte da squadre importanti. Invece rimasi ad Empoli, perché era la mia dimensione. Avevo già moglie e due bambine, presi la mia decisione in completa autonomia”. Infine l’ultima stilettata: “Del calcio rimpiango solo lo stipendio. Certo ho vissuto momenti bellissimi, ma quando ho smesso ero saturo fisicamente... ed anche mentalmente. Non faceva più per me”. Insomma, Luca Saudati in quattro e quattr’otto sgonfia il pallone, e non intende rigonfiarlo. Torniamo allora a quei momenti bellissimi. L’esordio in Serie A... “Come dimenticarlo? Verona-Milan del 26 gennaio 1997, entrai al 79’ al posto di Dugarry. Perdevamo 3-0, ma non mi importava più di tanto. Esordivo in Serie A con la maglia del mio Milan, con Sacchi allenatore, e mi vennero in mente i pomeriggi passati a San Siro con mio padre e mio fratello. Ovviamente milanisti”.
“Ho smesso a soli 32 anni, perché ero saturo: fisicamente e mentalmente. Del calcio rimpiango solo lo stipendio, la vita vera è un’altra”. Chi sono stati i sui idoli? “Ricordo le prime finali di Champions, ricordo il trio olandese: Gullit, Van Basten e Rijkaard. Però se devo dire il mio vero idolo, extra Milan, dico Gianluca Vialli. In maglia rossonera ci sentivo per Gianluigi Lentini. Secondo me gli somigliavo, ma che vuole... sono pensieri di un ragazzino”. E quel ragazzino come andava a scuola? “Ho fatto appena le medie, e due anni di
operatore d’ufficio in una scuola semplicissima. Lasciamo perdere. Se non avessi fatto il calciatore avrei fatto il meccanico nell’officina di mio cugino. Vede, la mia era una famiglia umile ed i sacrifici dei miei genitori sono stati di grande insegnamento. Per questo ho messo grande impegno nel diventare calciatore. Volevo arrivare a tutti i costi, vedevo che me la cavavo e questo mi spingeva a dare il 110%. Oggi vedo questi ragazzini con telefonini da 1000 euro, perdono un po’ la fame. Peccato...” Il suo primo provino... “Non so se dirglielo, è una cosa un po’ particolare...” Sentiamo... “La mia prima squadra fu la Pejo, ex Lorenteggio, e mi selezionò l’Inter per un provino. Capirà, io milanista fino al midollo, ci andai... ma non ero convinto. Insomma, per fortuna il provino non andò bene e non mi presero”. Per fortuna? “Certo, anche perché l’anno dopo ebbi l’oc-
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DOVE SONO FINITI?
LS casione di fare un altro provino, stavolta col Milan. E fu un trionfo. Feci tre gol da centravanti vero ed arrivò la lettera di convocazione. Una gioia infinita”. Dal ‘97 al ‘99 cambia quattro squadre: Lugano, Monza, Lecco e Como. Un tempo lo chiamavano ‘farsi le ossa’... “Fu importante soprattutto l’anno di Como in Serie C. Segnai 11 gol e perdemmo i play-off contro la Pistoiese. Poi nel 1999 un grande anno ad Empoli con Silvio Baldini allenatore: 14 gol in 28 partite e la grande occasione in Serie A col Perugia di Serse Cosmi. Era il 2000-2001, feci 7 gol (uno anche al Milan dove non esultò ndr.) di contro un finale di stagione con qualche problema fisico”. Ormai di lei si erano accorti in parecchi, soprattutto l’Atalanta di Ivan Ruggeri. “Quell’anno l’Atalanta fece grandi investimenti: pagò il mio cartellino 18 miliardi, poi c’erano Rossini e Comandini, insomma... un attacco niente male. Ma le cose non andarono bene, a Bergamo non mi ambientai. Soprattutto non sopportavo la commistione obbligata con i tifosi: molti se l’andavano a cercare per avere la tranquillità quotidiana, in primis l’allenatore Vavassori. Quello fu il primo anno nel quale ebbi difficoltà nei rapporti umani, lo soffrii molto”. Non quanto l’infortunio con Peruzzi in quell’Empoli-Lazio... “Fu l’anno dopo, il 3 novembre 2002. Frattura di tibia e perone e due anni fermo. Per un calciatore fisico come me, che gli piaceva correre, pressare, attaccare la profondità, fu un colpo durissimo. Prima fisicamente ma anche mentalmente. Dopo cambiai il mio modo di giocare, ero meno incisivo come attaccante, venivo più incontro alla
palla... Insomma, dopo tre operazioni non fu più come prima”. Torniamo ai momenti belli: la coppa Uefa ad Empoli. “Stagione 2006-2007, certamente la più bella della mia carriera. L’ho detto, giocavo diversamente, rientravo a cercare il pallone, realizzai anche diversi gol da fuori area. Alla fine furono 14 in 34 partite, raggiungemmo i quarti di Coppa Italia, soprattutto ci qualificammo per la coppa Uefa. Il punto
“Il mio idolo è sempre stato Gianluca Vialli. Nel Milan, invece, ho sempre ammirato Gianluigi Lentini. Secondo me gli somigliavo, mi rivedevo in lui...” 84
“Assolutamente. Ho da poco acpiù alto nella storia della società quistato la Floria 2000, società empolese”. dilettantistica fiorentina. Tutti i Che però durò poco... pomeriggi mi dedico alla cura “Lo spazio di due partite. Giodel settore giovanile. Diamo ai cammo il preliminare contro lo ragazzi le prime regole a livelZurigo: 2-1 in casa e sconfitta per lo comportamentale, di rispetto, 3-0 fuori. Fummo subito eliminaeducative. Prima sei istruttore ti. Un vero peccato, la società gementale, poi allenatore. Si va dai stì male quell’evento: in Svizzera “piccoli amici” del 2012 fino ad andammo con le mogli, deconarrivare agli “allievi ad élite” del centrati, sembrava una scam2001. In più stiamo sviluppanpagnata. E alla fine la pagammo do un progetto con dei ragazzi cara. Peccato perché eravamo un cinesi della Mongolia, verranno gruppo unito, giovani emergenti giù per sei mesi per migliorare come Marchisio, Antonini, Abate, il loro livello tecnico. Futuro da un allenatore esperto come Caallenatore? No, non credo. Chi gni. Bastava un po’ di attenzione vuole allenare deve portare soldi, in più...” sponsorizzazioni, non c’è meritoA quel punto aveva 30 anni, pocrazia... Non è un ambiente che chi per il calcio moderno. Però? Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle fa per me”. “Però, come ho detto preceden- immagini Chiudiamo con un tema a sortemente, cominciavo ad essere presa: i tatuaggi. Si dice ne abbia più di saturo. I due anni di inattività cominciaro25... no a farsi sentire, avevo la pubalgia, una “No va beh, che c’entra? (pausa... poi ride stanchezza fisica e mentale. Feci altre due ndr.) Si lo ammetto, ad un certo punto mi stagioni ad Empoli, poi l’ultima allo Spezia sono fatto prendere la mano, ma non li ho richiamato dal mio ex-compagno di squamai contati. Cominciai un po’ per gioco, mi dra Alessandro Pane. Ma anche lì, due piacevano quei simboli, ma senza dare loro stiramenti in poco tempo e la decisione di un significato. A parte il nome di mia moglie smettere. A soli 32 anni”. e dei miei tre figli”. A questo punto nasce il Saudati imprendiA proposito, la famiglia come sta? tore. “I miei figli, due femmine ed un maschio, “Ho investito nel settore edile, come fanno vivono ad Empoli. Se spero che Emanuele molti calciatori. Se invece si riferisce al ridiventi un calciatore? No, ha solo tre anni storante in società con Flachi, le dico che e poi farà quello che vuole. Non sarò uno di fu un caso. Rimasi coinvolto nell’operazioquei genitori che impone il futuro ai propri ne, speravo che il nome di Flachi facesse figli. Arrivo a dire che se vorrà fare danza... da traino (il ristorante si chiamava Flet e farà danza. Nessun problema”. sorgeva in San Frediano, quartiere tipico Ci levi una curiosità, e se un giorno vedesfiorentino ndr.) e invece... Aprimmo il 1° se uno dei suoi allievi con un tatuaggio? Si maggio e già ad agosto io e Francesco non arrabbierebbe? ci parlavamo. Eravamo persone totalmente “No, mi arrabbierei di più se avesse un pacdiverse. Comunque fu un’esperienza, negachetto di sigarette in mano. Li mi arrabbietiva ma formativa. Servono anche quelle...” rei davvero...” Ben diversa la storia della scuola calcio.
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l’alfabeto dei bidoni
TT
Taye Taiwo
di Fabrizio Ponciroli
IL NIGERIANO CHE SI È PERSO A MILANO… Sbarcato al Milan a parametro zero, Taiwo è, ancora oggi, un “oggetto misterioso”…
S
ul suo profilo Instagram è ancora visibile una sua foto in maglia AC Milan… Lui, Taye Taiwo, ci tiene a ricordare di aver fatto parte di una società gloriosa come quella rossonera. Il problema è trovare gente, soprattutto di fede milanista, che si ricordi del suo
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passaggio a Milanello… La storia di Taiwo è decisamente intrigante, da sceneggiato hollywoodiano. Nato a Lagos, in Nigeria, il 16 aprile 1985, a 19 anni, dopo aver mosso i primi passi nel massimo campionato nigeriano, viene acquistato dall’Olympique Marsiglia per circa 180.000 euro. Philippe
Pochi i momenti di gioia nella sua breve esperienza in quel di Milano
DALLA NIGERIA CON FURORE
Taiwo ha dovuto faticare per farsi strada nel calcio… Quando nasci a Lagos, in Nigeria, sei già consapevole di quanto sarà difficile emergere. Taiwo ha dovuto superare tanti ostacoli per diventare un calciatore professionista. Ad esempio, quando frequentava la scuola secondaria, ha dovuto anche “rinunciare” al pallone. Colpa di un pallone calciato, dallo stesso Taiwo, in maniera troppo forte e finito sul volto di un ragazzino: “La madre e il padre del mio compagno di classe sono venuti a casa mia, urlando di tutto ai miei genitori (il ragazzino è stato costretto a cure ospedaliere). Mio padre mi ha detto che avrei dovuto lasciare il calcio, come punizione. Mi sono dovuto nascondere per una settimana e non ho più giocato a calcio a scuola”, il suo racconto a All Nigerian Soccer. Ma Taiwo, crescendo, ha trovato la sua via. Poi è arrivata la chiamata dell’OM: “Il mio manager mi ha detto: ‘Tra due settimane vai a Marsiglia’… Non ci credevo, L’OM era un grande club. Mi chiesi come avrei fatto a giocare lì…”. In realtà, a Marsiglia, vedremo il miglior Taiwo, merito anche di Fabien Barthez: “Mi ha aiutato tantissimo, parlava inglese, mi ha spiegato l’ambiente. Lo ringrazio…”.
Troussier, allenatore dei marsigliesi, resta impressionato dalle doti fisiche del ragazzo e se lo porta subito in prima squadra. Nel giro di qualche mese diventa titolare nel pacchetto arretrato dell’OM. In Ligue 1, per la precisione a Marsiglia, ci resta per ben sei stagioni e mezzo, portandosi a casa una Ligue 1, due Coppa di Lega di Francia e pure una Supercoppa Francese, collezionando 271 presenze, impreziosite da 25 gol. Il 10 maggio del 2011, l’AD rossonero Galliani dichiara: “Mexes e Taiwo sono del Milan”. Il nigeriano, ormai “ospite” fisso anche della propria nazionale, arriva a parametro zero. Pure l’OM, nonostante Taiwo se ne sia andato senza far guadagnare un solo euro alla società, lo saluta calorosamente, con tanto di comunicato ufficiale sul proprio sito, augurando il meglio al buon Taiwo. Allegri, tecnico del Diavolo, spera di aver trovato l’esterno sinistro che tanto servirebbe alla sua squadra. Fa il suo esordio, il 24 settembre 2011, contro il Cesena. Il Milan vince di misura, ma il nigeriano non convince. I limiti sono evidenti. Sa spingere ma, a livello difensivo, non è un fulmine, anzi… Con il passare delle giornate, il suo utilizzo da parte di Allegri scema tremendamente. Dopo solo quattro gettoni in Serie A e altrettanti in Champions League, a gennaio, se ne va in Premier League, al QPR. Segna anche un gol ma non lascia il segno e, a giugno, torna a Milanello, nonostante questa “toccante” dichiarazione d’aiuto: “Non voglio tornare al Milan, prego che il QPR faccia un’offerta e che possa così restare in Inghilterra, al QPR”. La società rossonera, ovviamente, non ha intenzione di puntare su di lui. Taiwo la prende male e, a Sky Sport, esplode: “Il Milan non mi ha mai dato l’opportunità di mettermi in mostra. Ho un contratto con il Milan e per questa ragione sono tranquillo, a meno che non mi lasciano libero a parametro zero. Se dovessi lasciare Milano avrei comunque
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l’alfabeto dei bidoni
TT LA SUA VISIONE DEL MILAN…
Messo sotto accusa anche un certo Ibrahimovic… Ancora oggi, Taiwo è convinto di non aver sfondato nel Milan per un motivo: nessuno gli ha mai dato l’occasione di dimostrare il suo valore. Nel 2012, appena sbarcato al QPR, il nigeriano si concede al Daily Mail, media inglese piuttosto abile a “creare la notizia”. Pungolato sulla sua esperienza al Milan, Taiwo si lascia andare a giudizi decisamente affrettati. Se la prende anche con sua Maestà Ibrahimovic: “Vuole sempre la palla tra i piedi. Sta fermo, quindi è facile da marcare…”. Non proprio le parole più dolci del mondo… E su Nesta? “Non gli piace correre. Se Van Persie gli va via in velocità (l’intervista era pre Milan-Arsenal), lui non lo seguirà”. Tutti bocciati? No, c’è Seedorf: “Una delle persone più fantastiche che abbia mai incontrato. Dà sempre consigli ai più giovani e se sei andato male in partita è il primo ad abbracciati. È il padre della squadra”. Almeno uno… Ricordo che, al termine della non eccelsa avventura in terra inglese, Taiwo farà ritorno a Milanello…
Solo otto presenze per Taiwo con la casacca del Milan
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tante squadre in cui giocare”. L’offerta arriva: è quella della Dinamo Kiev. Prestito con diritto di riscatto. Discreta stagione ma, a fine annata, esattamente a giugno 2013, altro ritorno a Milanello. Per fortuna il Bursaspor decide di investire su di lui: contratto triennale e addio, definitivo, al Diavolo. Non dura moltissimo in Turchia. Il 28 aprile 2015 rescinde il contratto che lo lega al Bursaspor. Finisce così in Finlandia, all’HJK Helsinki dove, per lo meno, torna titolare. Il suo addio, per volare in Svizzera, al Losanna, è da lacrime copiose: “Le vittorie e le sconfitte saranno ricordate ma, soprattutto, mi ricorderò della gente. Voglio ringraziare il club e tutte le persone per avermi aiutato a diventare un giocatore migliore e per aver fatto sentire tutta la mia famiglia in una vera casa. Resterò sempre un tifoso dell’HJK Helsinki”, le sue parole al termine dei 428 giorni in terra finlandese. Lo scorso gennaio l’inizio dell’avventura al Losanna. Non da applausi. Tranquilli, recentemente ha firmato con l’AFC Eskilstuna, società svedese. A 32 anni suonati, con 54 presenze con la nazionale delle Super Aquile, Taiwo ha giocato in otto Paesi diversi… In Finlandia l’hanno amato a dismisura, a Milano faticano a ricordarsi il suo volto…
LA PRIMA IN ROSSONERO
Contro il Cesena, l’esordio con la casacca del Milan… Il 24 settembre 2011, per la quinta giornata di Serie A, il Milan ospita il Cesena. Allegri, in difesa, decide di dare fiducia a Thiago Silva e Yepes come centrali e, sulle fasce, ad Abate e Taiwo. Per il nigeriano è la “prima” con il Diavolo. I rossoneri, grazie ad una magia di Seedorf, portano a casa la vittoria ma l’ex OM non brilla. Al 51’di gioco, viene sostituito (al suo posto Zambrotta). Il giorno, la Gazzetta dello Sport, giudica così la prestazione di Taiwo: “Se c’è da spingere non è male, ma in fase difensiva è un’anima persa”. Non proprio un giudizio idilliaco. Dopo qualche minuto, in Champions League, con il Viktoria Plzen, per rivederlo in campo bisognerà attendere circa un mese. Prima, è titolare, in Champions League, con il Bate Borisov. Poi, ancora titolare, sempre con la sua casacca numero 2, in Milan-Parma 4-1. Poi, ritorno con il Bate Borisov e con il Viktoria Plzen a parte, tante settimane nuovamente a guardare gli altri giocare. In campionato torna per Milan-Siena (20), il 17 dicembre 2011. Gioca anche con il Cagliari (altro successo rossonero) tre giorni dopo. Niente da fare, non riesce a convincere. Così, a gennaio, valigie e volo per l’Inghilterra…
Il nigeriano, ex Milan, ha deciso di ripartire dal campionato svedese
LA PARTITA D’ESORDIO: MILAN-CESENA 1-0 Milan (4-3-1-2): Abbiati; Abate, Thiago Silva, Yepes, Taiwo (6’ st Zambrotta); Nocerino, Van Bommel, Seedorf; Emanuelson; Cassano, El Shaarawy (21’ st Aquilani). A disp.: Amelia, Nesta, Valoti, Ganz, Inzaghi. All.: Allegri. Cesena (4-4-1-1): Ravaglia; Comotto, Von Bergen, Rodriguez, Rossi (34’ st Colucci); Martinez (1’ st Eder), Parolo, Guana, Martinho; Candreva (1’ st Ghezzal); Mutu. A disp.: Calderoni, Lauro, Ceccarelli, Bogdani. All.: Giampaolo. Arbitro: Giannoccaro Marcatori: 5’ Seedorf (M) Ammoniti: Taiwo, Yepes, Seedorf (M); Guana (C) Espulsi: nessuno
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speciale Coppa Uefa
Inter-Lazio
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di Luca Savarese
IL CAPOLAVORO DI RONALDO 6 maggio 1998, al Parco dei Principi Inter e Lazio si giocano la prima finale Uefa in gara secca. I nerazzurri con Zamorano, Zanetti e Ronaldo si portano a Milano il trofeo.
Credit foto LIVERANI
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arigi, prima di diventare la culla degli sceicchi è stata anche la nicchia di un grande calcio, giocato da due contrade italiane, in una notte da sogno. Se oggi la capitale francese si alza e va a dormire a contatto con i fuoriclasse, ieri, il 6 maggio del 1998, i parigini ci hanno messo il campo, poi, i calici di spumante, li abbiamo portati noi: Inter e Lazio, due coppe di ottimo vino, rigorosamente nostrano: un bianco frizzante Inter ed un rosso fermo Lazio. Nerazzurri cresciuti nelle vigne italiche, ma quanti dissapori per quella vendemmia di Torino, organizzata dal campionato: 26 aprile 1998, solo Ceccarini di Livorno non si accorse che la botte buona di Ronaldo, era stata danneggiata da un intervento di Mark Iuliano. La Juve disse prosit allo scudetto, mentre l’Inter pianse, amaramente. Discorso diverso per i biancocelesti che erano riusciti ad alzare al cielo di Roma la Coppa Italia, vinta contro il Milan. Il viaggio verso la capitale transalpina, dove c’era una Coppa Uefa da conquistare, si preparava e partiva quindi con due stati d’animo opposti: La Lazio un trofeo lo aveva appena messo in bacheca, l’Inter, era ancora a mani vuote dopo aver perso il campionato ed una
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SPECIALE COPPA URFA
miriade di energie perché, quell’episodio di Torino, non andava proprio via dalla testa. La città della Tour e della Ruota panoramica di Place de la Concorde, per l’Aquila era l’elegante epilogo di una stagione già positiva, per la formazione di Gigi Simoni rappresentava invece se non un risarcimento una possibilità di mettere in bacheca qualcosa, un riscatto da vivere, in grande stile. A proposito di grandeur, se c’era in quegli anni una realtà che poteva vestire in pieno questa parola era proprio quella milanese dipinta di nero e blu. Un elegante Djorkaeff, un giovane Zanetti, un mirabolante Ronaldo, un focoso Simeone, uno Zamorano che schiumava adrenalina,
metteteci pure un Moriero in formato quasi divino ed ecco la grandezza è servita. Ma chi era arrivata a contendere ai nerazzurri l’ultimo atto della seconda coppa più prestigiosa d’Europa, non era una cenerentola qualsiasi, ma la Lazio guidata da Sergio Cragnotti e costruita in panchina da Sven Goran Eriksson e che voleva dire soprattutto forza: Nesta dietro, Jugovic e Nedved che si divertivano in mezzo al campo, Mancini a deliziare sulla trequarti, Casiraghi davanti. A Parigi dunque si erano date appuntamento la grandezza e la forza, che traboccavano dalle bottiglie, da collezione, di Inter e Lazio. Nei trentaduesimi di finale, la Lazio liquida i portoghesi del Vito-
IL PRIMO, AUTENTICO FENOMENO
Prima dell’avvento di Cristiano, Ronaldo, era solo lui Pasadena, 17 luglio 1994. Oltre alle lacrime di Baresi e allo sconforto di Baggio, oltre alla gioia di Romario e all’euforia di Bebeto, c’è anche un ragazzo che dalla panchina corre verso il campo a festeggiare il quarto titolo mondiale appena conquistato dal Brasile. Rasato, i denti sporgenti e la maglia numero 20 sulle spalle, ha diciassette anni è nato il 22 settembre 1976, nel quartiere di Bento Ribeiro, zona Nord-ovest di Rio. Si chiama Luis Nazario da Lima, lo ha fatto nascere il ginecologo Ronaldo Valente. I genitori, contenti per il terzo figlio, lo chiamarono proprio Ronaldo, come ringraziamento. Il mondo del pallone, ci mise poco, a chiamarlo fenomeno ed in effetti riusciva in pochi istanti ad accendere la luce, con l’interruttore del pallone. A sedici anni lo prende il Sao Cristovao, Jairzinho, ex campione del Brasile del 70, lo segnala al Cruzeiro. È l’inizio di una carriera folgorante, il giocatore segue la sua tecnica che non solo lo porta in gol, ma gli fa fare quello che vuole, tipo saltare difensori come fossero formiche. “Per la mia generazione è stato quello che Pelè e Maradona erano per le precedenti. Era immarcabile: al primo controllo ti superava, al secondo ti bruciava, al terzo, ti umiliava”. Ipse dixit Cannavaro, non proprio un baluardo qualsiasi. Al mondiale americano va da giocatore del Cruzeiro, non scenderà mai in campo, ma a contatto con Romario e soci ne respira i segreti. L’Europa la scopre con la maglia del Psv, poi Barcellona ma è solo un passaggio. Il suo luna park si chiama l’Inter. Moratti, sensibile al talento, se n’è da tempo innamorato. Lo porta a Milano per oltre 48 milioni di lire. Nessuno ha mai speso quelle cifre per un calciatore. Ronnie fa vendere magliette e riempire gli stadi, scrive gran parte del romanzo Coppa Uefa 1998: 6 gol nella manifestazione e in finale fa il mattatore segnando il terzo gol alla Lazio e risultando il migliore della gara. L’avversario più duro? Le sue ginocchia i cui tendini rotulei più volte operati, lo indebolirono molto. Il suo rapporto con l’Inter durò fino al 2002, poi arrivò un altro mondiale questa volta da protagonista, con doppietta in finale contro la Germania che gli fruttarono il secondo pallone d’oro dopo il primo, del 97. Real, Milan, dove giocò 20 partite ma riuscì a segnare un gol all’Inter in campionato e Corinthians, le sue ultime tappe di un viaggio tra spettacolo e lacrime, cui quella notte parigina, da re sole del pallone, fu una delle stazioni più emozionanti.
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ria Guimaraes, mentre l’Inter si sbarazza degli svizzeri del Neuchatel Xamax. Moriero in autunno, proprio a Neuchatel, nello stadio della Maladiere, si alzò da terra e mise i suoi compagni sulla giostra di una sua rovesciata che finì dritta in porta e fece il giro del mondo; per la serie, se il buon giorno si vede dal mattino, anzi dai trentaduesimi...Nei sedicesimi i milanesi beccano il Lione, avversario che si mostra più ostico degli elvetici, ma si va avanti. I romani invece passano, con più facilità, sui russi del Rotor Volgograd. Nerazzurri e biancocelesti hanno il piglio di chi non ha paura e poi la qualità gioca e si diverte, da entrambe le parti. Ecco gli ottavi, e nemmeno Strasburgo e Rapid Vienna, riescono a fermare la carica interista e la foga laziale. Ai quarti l’Inter vive una rivincita, covata da tempo. Si perché solo un anno prima, il 1997, la squadra di Moratti vide la Coppa Uefa nella finale di San Siro, ma non la sollevò, perché i tedeschi dello Schalke 04, ai rigori, si meritarono il trofeo. Ora l’occasione di rifarsi, che la Simoni band, non si fece scappare. Archiviata la pratica tedesca, sotto con la penultima curva, che si chiama Spartak Mosca. Al Meazza la vittoria arriva dal fattore Z: prima Zamorano e poi Zè Elias spianano la strada per Parigi. Però, non si può stare molto tranquilli perché i russi hanno segnato un gol. A rendere il ritorno dolce ci pensa, nel gelo innevato di Mosca, Ronaldo Luis Nazario da Lima, che fa capire, con una doppietta che rinnova le antologie del calcio, perché lo chiamano fenomeno. È finale. I quarti per la Lazio invece vogliono dire i francesi dell’Auxuerre, allenati dal santone Guy Roux. Casiraghi a Roma, Mancini e Gottardi in Francia, spingono l’Aquila in semifinale. Il vero capolavoro laziale è però un quadro dipinto lungo il Manzanarre. Nel caliente catino del Calderon, la truppa di Ericksson zittisce i colchoneros, che solo due anni prima erano riusciti a vincere la Liga. Decide una pennellata tesa di Jugovic. All’Olimpico, si difende lo zero a zero e, si può vo-
Alla guida dell’Inter a Parigi c’era Gigi Simoni
lare a Parigi. La capitale francese si sta preparando al mondiale, a sessant’anni esatti dalla prima coppa del mondo transalpina datata 1938. Stacca un attimo dai lavori e si gode Lazio-Inter. Quarta finale di Coppa Uefa tutta italiana, dopo Juve-Fiorentina del 1990, con vittoria bianconera, Inter-Roma del 1991 con successo interista (ma allora l’Inter ci ha preso gusto a giocarsi l’Uefa contro le romane…) e Juve-Parma del 1995, con trionfo degli emiliani di Nevio Scala. Tutte queste in gare di andata e ritorno. Parigi vuol dire invece prima finale unica dell’Uefa. La Lazio, alla sua prima finale Uefa, va in campo con la canonica maglia azzurra, l’Inter con la divisa che quell’anno, in Uefa, portò fortuna, una t-shirt dal sapore anglosassone, dove le righe sono disposte orizzontalmente e sono nere e grigie antracite con la scritta dello sponsor Pirelli gialla e centrale. Ma, probabilmente, più che la maglia magica, si trattava di uno squadro-
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ne bello e concreto, altamente spettacolare, uno dei più pregiati nella storia nerazzurra. l’Inter scarica la sua rabbia, subito. Senza pensarci due volte. Non c’è nemmeno il tempo di accorgersi di chi è sceso in campo che succede qualcosa di grande. Zè Elias, preferito a Cauet, tocca per Simeone, il quale indirizza un lancio in direzione Zamorano e il poderoso e sgusciante attaccante cileno ci mette poco a freddare, d’esterno destro, Marchegiani. Quattro minuti e l’Inter è già in vantaggio, quattro minuti e la Lazio è tramortita. Pochi giri di lancette ma si capisce che gli istanti ed i minuti vorranno come essere divorati dall’Inter che inizia azzannando la partita ed infatti è protagonista il suo giocatore che meglio degli altri incarna il fuoco: Ivan BamBam Zamorano, numero 9 che da piccolo si allenava a colpire di testa saltando verso il lampadario del salotto di casa, che da grande rompe gli indugi e versa per primo lo champagne della finale nel calice di Gigi Simoni. La
In quella fantastica squadra brillava anche un certo Zamorano
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Per Eriksson, la finale di Parigi ètutto da dimenticare
Lazio non che non sia bella, non che non sia forte, ma è in balia della voglia di spaccare il mondo, dell’Inter. Favalli prova ad imbeccare Mancini ma la palla è un filo lunga. Cragnotti scruta, dal parterre de rois del Parco dei Principi, l’andamento della gara ed i suoi occhi sono piuttosto tetri. E si capisce il perché quando Ronaldo tira da fuori area e coglie l’incrocio. Si, alla Lazio questa partita sembra proprio andare di traverso. Mancini e Fuser duettano bene ma non riescono a far male a Pagliuca. L’arbitro spagnolo Lopez Nieto sempre un vigile, la maggior parte dei suoi fischi sono rivolti alla macchina della Lazio che davvero non sa più come fermare il pedone e predone Ronaldo. Zamorano, smarcato da un tocco sapiente di Djorkaeff tira, sinistro, palo. La festa dell’Inter continua, anche nel secondo tempo. L’estrema sintesi di quella serata di eroico furore nerazzurro è tutta nell’azione del due a zero. Minuto 14 della ripresa. Punizione tesa di Ronaldo dalla trequarti destra, spizzata impetuosa di Zamora-
IL RICORDO DI FRANCESCO
Francesco Moriero, in quella stagione per l’Inter fu davvero un trascinatore sulla fascia. Oggi allena la Sambenedettese… Moriero, 6 maggio 1998, la tua Inter a Parigi batte 3 a 0 la Lazio. Se chiudi un attimo gli occhi pensando a quella sfida, cosa vedi? “Vedo la gioia immensa di un gruppo di campioni felice di aver vinto un trofeo importante, vedo la squadra che prende il presidente Massimo Moratti e lo fa volare in aria, vedo il gol fatto fare al fenomeno. Vedo le mille bandiere nerazzurre sventolare. Una sensazione che difficilmente rivivrò nella mia vita”. Cosa ha significato per te far parte di quella squadra, che deliziavi volando sulla destra? “Per me ha significato tanto perché mi ha consacrato come calciatore e mi ha fatto conoscere come calciatore nel mondo, mi ha fatto conquistare la convocazione in nazionale nel Mondiale del 98’ ed ho avuto la fortuna di militare in uno dei club più forti del mondo” Quanto dovremo aspettare prima di vedere all’opera altre due squadre italiane in una finale europea? “Spero possa ripetersi molto presto un’altra finale tutta italiana, ma quella, per me, fu davvero unica”. *Si ringrazia la Sambenedettese per il prezioso aiuto
no in area sulla sinistra, tiro violento centrale da fuori area di Zanetti, palla che sbatte in quella zona alta tra la traversa e l’incrocio e va dentro; tre tocchi e un gol, tre mosse e una sentenza, tre suonatori e via nel sette la seconda melodia. Non c’è verso, la nota dominante, nel gala parigino, è tutta nerazzurra. Simoni, nel suo capotto nero aperto, alza le mani al cielo e si dimena come un bimbo che ha appena trovato il segreto della felicità. Cragnotti scuote il capo dalla tribuna. No, non è proprio serata per l’aquila romana, che sembra l’albatro, incapace di volare, del poeta parigino Baudelaire. Al 67’ esce Djorkaeff ed entra Checco Moriero. Se l’Inter è arrivata qui è anche grazie alle sue funamboliche giocate nelle gare precedenti. Simoni lo sa e lo getta dentro una cena già apparecchiata dai suoi compagni. Un boccone però lo prepara anche lui: passaggio in profondità per Ronaldo. Il 10 brasiliano scatta palla al piede. Tra lui e la porta laziale c’è solo Marchegiani. Ronnie non ci mette molto a superarlo e a de-
positare in rete la perla del tre a zero. Già, Ronaldo, quello che prima dell’avvento dell’altro Ronaldo e di Messi, faceva perdere la testa ai calciofili di mezzo mondo. Un dessert per l’Inter, un veleno per la Lazio al minuto 25 della seconda frazione di gioco. L’abbraccio tra Zanetti e Simoni, lungo ed affettuoso, è di quelli che parlano da soli. Nel finale gli animi si surriscaldano un pochino: West per un gesto di stizza su Casiraghi, francobollato per tutto il match, viene espulso, stessa sorte che tocca poco dopo ad Almeyda. Quando Lopez Nieto fischia la fine, l’Inter si accorge di aver una Coppa Uefa in più, è la terza, mentre la Lazio medita sulla sua mancata brillantezza. La quarta finale Uefa tutta italiana, finisce. Inizia la notte, nelle mani di Pagliuca che alza il trofeo, nello sguardo stupito di Bergomi, senatore sul viale del tramonto, ma sempre lo zio in carne ed ossa, nell’incredulità del patron Moratti, al suo primo titulo, gettato in aria dai suoi prodi cavalieri. “Il vero viaggio di scoperta non consiste
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nel cercare nuove terre, ma nell’avere occhi nuovi”, diceva lo scrittore parigino Proust. Gli occhi dell’Inter, quella notte. Ronaldo, eletto migliore in campo della gara, salta e balla con la bandiera del Brasile ben annodata ai pantaloncini. Solo un mesetto dopo, il suo ultimo giorno mondiale sarà triste per la vittoria della Francia sui brasiliani e doloroso per delle convulsioni perché venne spremuto quando non stava bene pur di fargli disputare la finale. Ma quel giorno d’inizio maggio del ‘98 Parigi s’inchinò ai suoi piedi, che assieme
a quelli dei suoi compagni, avevano regalato all’Inter la Coppa Uefa, quegli anni vero vessillo italiano: l’anno dopo infatti alzato, al cielo di Mosca, dal Parma e mai più riconquistato dalle nostre squadre. La Lazio uscì a mani vuote, ma il suo ciclo, era appena cominciato. Oggi al Parco dei Principi regnano Neymar, Cavani, Dani Alves e allo stadio campeggia la scritta Revons plus grand, sogniamo più in grande. Ieri, il sogno, nel cielo parigino, sulla coperta argentata delle Coppa Uefa, fu tutto italiano.
IL RICORDO DI NANDO
Nando Orsi, oggi commentatore di Mediaset Premium, era presente nella notte di Parigi… Nando, 6 maggio 1998. Il Parco dei Principi, parlava italiano. Cosa ricordi di quel viaggio, di quello stadio, di quella sera? “Ricordo delle emozioni uniche e forti. Era la prima volta che la Lazio andava a giocarsi una finale di Uefa. Fu un viaggio sereno e carico di entusiasmo per una sera parigina che vedeva un sacco di tifosi italiani, non divisi ma uniti dal gemellaggio tra Lazio ed Inter”. Voi arrivavate dalla vittoria nella finale romana di Coppa Italia sul Milan, l’Inter era reduce dallo scontento per il famigerato rigore non concesso a Ronaldo in campionato contro la Juve dall’arbitro Ceccarini? “Si noi vincemmo la Coppa Italia ed è chiaro che qualcosa di importante lo avevamo fatto. Credo che l’Inter al di là di quell’episodio, fosse già fortissima così, insomma non aveva bisogna di essere alimentata da altri fattori, come la rabbia. Certo era arrabbiata, ma anche se non lo fosse stata, aveva una cifra tecnica impressionante”. Quali tasti Eriksson toccò e fu capace di accendere negli spogliatoi parigini, prima del match? “Lavorò molto sulle motivazioni, facendoci capire che non avevamo ancora fatto nulla, che si poteva fare tutto in quella partita. Non nascondo che un po’ di appagamento, dopo la vittoria della Coppa Italia, era subentrato nell’ambiente, che fu bravo, lo svedese, a tenerlo concentrato. Trovammo però dall’altra parte la miglior Inter della stagione ed infatti dopo pochi minuti andammo già sotto per un gol di Zamorano. Loro avevano anche un certo Ronaldo, che segnò il terzo gol e fece, ahi noi, la differenza”. Comunque al di là di quella Uefa andata all’Inter, quella Lazio ebbe modo di rifarsi, con gli interessi, andando a vincere ad agosto la Supercoppa Italiana contro la Juve, l’anno dopo la Coppa delle Coppe e l’anno dopo il tricolore? “Si a posteriori forse è stato meglio aver perso quella finale, anche se dispiace sempre perdere all’ultimo atto, e trovare dopo dei titoli meravigliosi che solo un gruppo forte, fatto da gente straordinaria in campo e fuori, poteva essere in grado di raggiungere”.
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SCOVATE
da carletto Il dj/speaker di RTL 102.5 Carlo Carletto Nicoletti seguirà i profili Instagram e Twitter dei giocatori più importanti del pianeta Calcio e ci segnalerà le foto e i tweet più divertenti e particolari. Segnalate quelle che magari potrebbero sfuggirgli scrivendogli al suo profilo Twitter e Instagram @carlettoweb
MUTU
Nuovo matrimonio per il campione rumeno, da poco entrato nella staff della Dinamo Bucarest
In giro per Ferrara con la mini bicicletta personalizzata molto in voga in questo periodo
ANCELOTTI
CRISTANTE
DYBALA
D’AMBROSIO
Da poco esonerato dalla panchina del Bayern Monaco, il tecnico italiano è andato allo Stadio del Chelsea a godersi una serata di Champions League.
Sempre molto allegro Dybala sui social, qui con una parte della squadra e con commento “sberleffo” di Verratti a Matuidi.
MATA
Foto di gruppo del Manchester United condivisa sui social del campione Juan Mata.
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BORIELLO
Ottima stagione per il centrocampista dell’Atalanta protagonista anche in Europa League.
Protagonista dell’ottimo inizio di stagione dell’Inter, il difensore si concede un pic nic con moglie e amici.
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Pronti per la consueta foto per l’album iconico dei calciatori Panini.
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