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MAR
diretto da Fabrizio Ponciroli
3,90€
BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50
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FEB
Bimestrale
Calcio
EDIZIONE SPECIALE CON L’ALBUM CALCIATORI 2017-2018
Intervista Esclusiva Antonio Candreva
“L’INTER CORRE VELOCE”
I GIGANTI DEL CALCIO ESCLUSIVA intervista ESCLUSIVA
Gianluca Lapadula
“Vivo per il calcio”
FALCAO
“Noi giocavamo bene a calcio”
grandi presidenti ESCLUSIVA
speciale CHIEVO ESCLUSIVA
GARE DA NON DIMENTICARE ESCLUSIVA
ERNESTO PELLEGRINI BIRSA E I GIOVANI Il Pres dell’Inter dei Record
ALFABETO DEI BIDONI Thomas Hitzlsperger
Il miracolo continua...
DIETRO LE QUINTE Andrea Catellani
NAPOLI-STOCCARDA
La gioia della Coppa Uefa
DOVE SONO FINITI? Thomas Manfredini
NBA 2017-18 OFFICIAL STICKER COLLECTION
FIGURINE+CARD TM
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FP
CHE SIA UN GRANDE 2018…
E
un altro anno va in archivio. Un 2017 che, sportivamente parlando, sarà ricordato, purtroppo, per la cocente e inattesa eliminazione dalla corsa al Mondiale. Che peccato, davvero dura da accettare. Ma, come si suol dire, guardiamo avanti con fiducia. La Nazionale ci ha fatto piangere (o arrabbiare), speriamo che le nostre sei rappresentanti azzurre in Europa ci riportino il sorriso. A breve scenderanno in campo, determinate e compatte, per provare a “sconvolgere” le gerarchie dell’Europa che conta. Dal 2010 non festeggiamo un trofeo europeo (Inter, Champions League), direi che è arrivato il momento di gioire. Io ci credo, voglio e devo crederci. Nella prima estate, della mia vita, senza l’appuntamento con il Mondiale, spero di chiudere la stagione in corso brindando al successo di un’italiana. Forza magnifiche sei, dateci un motivo per non essere tristi e sperare in un calcio italiano migliore per l’immediato futuro. Appunto, il futuro. Nel nostro Paese è difficile cambiare. A parole siamo tutti dei rivoluzionari ma, poi, è complicato modificare i poteri vigenti. Bene, io
editoriale
Ponciroli Fabrizio
devo e voglio credere che qualcosa cambierà e non parlo solo di nomi ma di “cultura sportiva” e “statuti federali”. Speriamo… Intanto ci godiamo l’ennesimo numero della nostra/vostra rivista. Come tradizione, il primo numero dell’anno ci porta, in regalo, l’album Calciatori Panini, una delle ragioni per cui amo il calcio da sempre. Numero bello ricco quello che andrete a leggere… Siamo stati a casa di Candreva per capirne di più su questa nuova Inter del condottiero Spalletti. Bello disquisire con chi, come Lapadula, si è guadagnato tutto sul campo. Il Chievo è un miracolo da anni, giusto ricordarlo a tutti. Personalmente sono impazzito quando ho avuto la chance di intervistare un mito assoluto come Falcao (averne di personaggi simili nel calcio di oggi). Poi un reportage da Nottingham, due “missioni” per scovare Manfredini e Catellani e uno speciale dedicato a Napoli-Stoccarda, finale di Coppa Uefa vinta dai partenopei, sperando che sia di buon auspicio. Basta chiacchiere, non c’è nulla da rivedere al VAR, è ora di leggere. Buon 2018 a tutti, anche se non saremo al Mondiale…
Chiunque può arrendersi, è la cosa più semplice del mondo. Ma resistere quando tutti gli altri si aspettano di vederti cadere a pezzi, questa è la vera grandezza…
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SOMMARIO
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Calcio2OOO
Anno 21 n. 1 FEBBRAIO / MARZO 2018 ISSN 1126-1056
BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli CANDREVA 8 ANTONIO intervista Esclusiva di Fabrizio Ponciroli
58 NOTTINGHAM REPORTAGE di Gianfranco Giordano
64 FALCAO GIGANTI DEL CALCIO di Fabrizio Ponciroli
Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 10/01/2018 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246
EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872 DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello Diretto da Fabrizio Ponciroli
ALI DELL’INTER 16 LE SPECIALE di Luca Gandini
LAPADULA 20 GIANLUCA intervista Esclusiva di Fabrizio Ponciroli
PELLEGRINI 72 ERNESTO RETROSPETTIVA di Thomas Saccani
CATELLANI 78 ANDREA DIETRO LE QUINTE di Pierfrancesco Trocchi
MANFREDINI 82 THOMAS DOVE SONO FINITI di Pierfrancesco Trocchi
Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto. Hanno collaborato Thomas Saccani, Luca Savarese, Sergio Stanco, Pierfrancesco Trocchi, Gianfranco Giordano, Paolo Bardelli, Stefano Borgi, Carletto RTL Realizzazione Grafica Francesca Crespi Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview. Statistiche Redazione Calcio2000 Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it
BIRSA 28 VALTER INTERVISTA ESCLUSIVA di Sergio Stanco
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IL CHIEVO DEL FUTURO SPECIALE di Sergio Stanco
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SHALIMAR E VICTOIRE INTERVISTA ESCLUSIVA di Sergio Stanco
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NANTES MAGLIE STORICHE di Gianfranco Giordano
HITZLSPERGER 86 THOMAS L’ALFABETO DEI BIDONI di Thomas Saccani
90 NAPOLI-STOCCARDA GARE DA RICORDARE di Luca Savarese
Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805 Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688
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Il prossimo numero sarà in edicola il 10 marzo 2018 Numero chiuso il 27 dicembre 2017
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Una raccolta di figurine (e card) piena di sorprese… Se siete dei fan del mondo NBA, è finalmente disponibile l’album di figurine (e card), ufficiale, NBA 2017-2018 firmato Panini. La collezione è davvero maxi e completa, con ben 435 figurine, di cui 99 speciali metallizzate, e ben 100 card giocabili Adrenalyn XL. Grazie alle favolose card che fanno parte della raccolta, sarà possibile dar vita a match emozionanti, direttamente sul poster-gameboard inserito all’interno dell’album. Le card possono essere raccolte nello speciale astuccio porta-card che si trova gratis all’interno dello starter pack! Ad ogni franchigia sono dedicate due pagine, che ospitano 12 figurine: il logo ufficiale in figurina metal, 7 figurine dei giocatori – dei quali sono riportate le statistiche riferite alla scorsa stagione e alla carriera complessiva in NBA - + 3 figurine speciali dedicate ad altrettanti Top Player – di cui 2 metal e una in versione illustrata – e, per la prima volta, una figurina per il coach del team! Innumerevoli le sezioni speciali. La prima è dedicata agli NBA Awards 2016-17 e celebra campioni che si sono distinti lo scorso anno, tra i quali l’MVP Westbrook, Green come Defensive Player e Antetokounmpo quale giocatore cresciuto di più di livello nel corso della stagione. Poi spazio all’All Star Game 2017, all’ultima, trionfale, cavalcata dei Warriors e tante altre novità tutte da scoprire…
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bocca del leone
la
IL PIÙ FORTE MENTALMENTE Direttore, sono un amante della rivista da sempre. Spesso si sente parlare del più forte giocatore al mondo. Pelé o Maradona? A me piacerebbe far capire che bisogna essere forti mentalmente e non solo con i piedi. Se può farmi una cortesia, mi dice chi è il più forte giocatore di testa che ha mai visto? Sono curioso e complimenti per la rivista. Ezio, mail firmata Caro Ezio, grazie per i complimenti… Devo ammettere che questa è una domanda davvero particolare e inusuale. Non è facile rispondere, anche perché “essere forti di testa” può avere più significati. Io posso solo dirti che, nella mia carriera, ho incontrato ed intervistato tantissimi giocatori ma nessuno mi ha impressionato, mentalmente parlando, come Zlatan Ibrahimovic. L’ho incontrato quando giocava nell’Inter e ricordo perfettamente il suo pazzesco carisma. Eravamo tanti in quella stanza, eppure la luce era solo sua… Spero di aver risposto, in maniera esaustiva, alla tua domanda… BIDONI DEL CALCIO… Signor Ponciroli, lei non si ricorderà di me ma ci siamo incontrati al numero 200 di Calcio2000. Mi ha anche autografato il suo libro sui Bidoni del Calcio che conservo con
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GOAL CAR Da un’idea del DJ Carlo Nicoletti e dall’autore Alessio Tagliento, ecco Goal Car, la prima web serie italiana dedicata al calcio, ambientata all’interno di un’automobile sportiva di colore giallo… Non si canta ma ci si lascia andare a storie e racconti, in totale tranquillità! L’appuntamento è su YouTube.com/NoLogicTV
cura. Ho una passione per tutti quei giocatori che finiscono per fallire in Italia, un po’ come lei. Io sono di Venezia e le suggerisco un nome per la rubrica che leggo sempre con grande interesse: Ahinful. Lo prese Zamparini, sembrava un fenomeno. Io me lo ricordo benissimo, se vuole le posso raccontare anche qualche aneddoto. Forse uno dei più scarsi mai visti in Italia, sicuramente il peggiore straniero che ho visto con la maglia del Venezia. Andrea, mail firmata Ben ritrovato Andrea. Sarei un bugiardo se dicessi che mi ricordo di te ma non ho dimenticato quella festa, davvero sublime. Beh, diciamo che la passione per i Bidoni del Calcio ci unisce… Hai estratto dal cilindro un nome davvero intrigante. Augustine Ahinful, nazionale ghanese, di professione bomber. In Italia gli è andata malissimo poi però in Turchia ha segnato tanto. Sicuramente un profilo interessante, grazie del suggerimento…
È L’ANNO BUONO? Direttore Ponciroli, Leggere il suo editoriale su Tuttomercatoweb mi diverte tantissimo. Si vede che ama il calcio, anche se a volte mi sembra esagerato nei giudizi, soprattutto quando tira in ballo la squadra del mio cuore: la Roma. Le scrivo per un suo commento: abbiamo sei squadre qualificate in Europa. È l’anno buono per vincere qualcosa? Io credo che sarebbe importante vincere per quello che è successo con la Nazionale. Mi raccomando, provi a parlare meglio della Roma, potrebbe essere la sorpresa dell’anno, no? Mirko, mail firmata Caro Mirko, io adoro la Roma e, in particolare, Di Francesco. E, te lo assicuro, sto aspettando con ansia di assistere, live, ad una partita della Roma nel nuovo stadio. Giallorossi a parte, credo tantissimo nelle nostre squadre ancora in gioco in Champions League e in Europa League. Dobbiamo alzare un trofeo, renderebbe meno ama-
di Fabrizio Ponciroli
bimestrale, siamo più che certi di poter continuare a proporre Calcio2000 e abbiamo anche più tempo per “coltivare” buoni servizi. Comunque stiamo studiando degli speciali per “riempire” i vuoti. Così, di fatto, saremo presenti quasi tutto l’anno. A breve novità!
ra un’estate che, comunque, sarà durissima senza il Mondiale. Il mio sogno? La doppietta, Champions League ed Europa League, sarebbe superlativo. NON TORNATE MENSILI? Direttore, adesso che Calcio2000 mi piace davvero tanto con tutte queste storie sul calcio dei miei tempi, siete bimestrali. Ma perché? Dovete tornare mensili, io voglio continuare a leggervi tutti i mesi come ho sempre fatto. Sarà possibile pensare di tornare mensili? Grazie, attendo una sua risposta Francesco, mail firmata Caro Francesco, i tempi cambiano e bisogna sapersi adeguare. Grazie al passaggio a
MOURINHO VS GUARDIOLA Caro Ponciroli, l’ho sentita parlare di Mourinho come un allenatore che non sa più allenare. Credo abbia preso una cantonata. Mourinho è ancora il numero uno. Guardiola è bravo solo con le grandi squadre piene di campioni e non ha rispetto per gli avversari. Mourinho tira fuori il meglio dalle squadre che ha. Guardiola ha vinto con il Barcellona, tutti avrebbero vinto con Messi. Mourinho ha vinto con Porto e Inter, non se lo dimentichi. Il Triplete dell’Inter l’ha fatto Mourinho, Guardiola sa solo allenare gli squadroni. Giuseppe, mail firmata
personale opinione, meno “cattivo” rispetto al periodo nerazzurro. Magari è solo un momento di transizione, capita a tutti. Ci andrei piano con il “bollare” Guardiola come “uno che ha vinto solo con il Barcellona”. Mi pare che il Manchester City stia andando piuttosto bene, no? Allena solo squadre con grandi giocatori? Tutti i top coach allenano squadre con grandi giocatori. Io non sono un fan sfegatato di Guardiola ma lo considero uno tra i primi cinque allenatori al mondo. Se mi segue, sa che io ho un debole per il Made in Italy, anche a livello di allenatori. Conte, Allegri e Ancelotti, per essere chiari…
Ciao Giuseppe, innanzitutto scusami se ho tagliato qualche imprecazione ma non mi sembrava il caso… Allora, premetto che non ho mai dichiarato che “Mourinho non sa più allenare”. Ho semplicemente dichiarato che, a mio parere, lo Special One ha perso un po’ della sua incisività. È sempre stato un vincente e lo sarà fino a quando allenerà ma mi sembra, mia
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INTERVISTA
Antonio Candreva di Fabrizio Ponciroli
IL RE
DELLA FASCIA Quantità e qualità, in due parole: Antonio Candreva, esterno dell’Inter e della Nazionale… Servizio fotografico a cura di Daniele Mascolo
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C
i ospita a casa sua, come se fossimo amici da una vita. Persona a modo Antonio Candreva, uno che non si è mai risparmiato. Si nota che è soddisfatto. All’Inter è apprezzato, così come in Nazionale. Ma non è sempre stato così. Per arrivare al top, ha dovuto confrontarsi con la dura legge della gavetta, rimboccandosi le
maniche più volte. La sua vera dimensione l’ha trovata sulla fascia. Attacca la profondità e ripiega a dare una mano, cosa chiedere di meglio ad un esterno? Certo, può sbagliare qualche cross ma quanti attaccanti gli devono almeno un grazie? Ci siamo seduti allo stesso tavolo, per saperne di più sul giocatore e, soprattutto, sull’uomo…
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INTERVISTA
Antonio Candreva Antonio, partiamo dal tuo più grande segreto: come fai a correre tanto su quella benedetta fascia? “Sicuramente sono una persona che si allena sempre con giudizio e sta attenta all’alimentazione. Non ho mai avuto infortuni importanti e questo aiuta tanto. Certamente sono molto rigoroso nel mio stile di vita”. Insomma, la “movida” non fa per te… “Diciamo che non mi lascio mai andare troppo, come dicevo cerco sempre di essere al meglio della forma…”. Restiamo su questo ruolo da esterno. Pare che, negli ultimi anni, sia diventato un mestiere complicato. Bisogna difendere, attaccare e far segnare gli altri… “Direi che per un esterno, almeno in Italia, ormai è fondamentale saper svolgere anche la fase difensiva. Poi c’è la fase offensiva e gli assist per i compagni. A questo aggiungi che, un 7/8 gol da un esterno, fanno comodo sempre… È un ruolo in cui puoi essere decisivo per le sorti della squadra e a me piace avere responsabilità importanti”. Personalmente che rapporti hai con l’assist? Ti gratifica tanto? “Non sono mai stato un grande goleador quindi, dal mio punto di vista, valuto un assist ad un compagno allo stesso livello di un mio gol”.
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A ricevere i tuoi assist all’Inter c’è un certo Icardi. Ma è davvero così speciale in area di rigore? “Penso che Mauro sia un grandissimo attaccante e che abbia ancora tanti margini di miglioramento. Con Mister Spalletti sta migliorando molto, ad esempio partecipa molto di più, rispetto al passato, al gioco della squadra. Poi, quando gli arriva una palla, difficile che non faccia gol. Non ci sono tanti bomber del suo livello e, attenzione, non fa solo gol, diciamo così, normali. È uno che segna anche reti complicate”. Hai accennato a Spalletti, che idea hai del tuo allenatore? “Spalletti è uno davvero di grande livello. Sono felice di averlo come allenatore in questo periodo della mia carriera. Grazie a lui, sto migliorando molto. Lavora tantissimo sulla concentrazione, sulla motivazione, sulla continuità di rendimento. E’ meticoloso, direi che è tanta roba. Con lui, impari sempre qualcosa di nuovo”.
Dal giorno del tuo arrivo all’Inter, sei sempre stato titolare. DI te si dice che non hai mai sofferto la pressione di San Siro… “Me l’hanno detto anche diversi ex giocatore dell’Inter importanti. No, non ho mai sentito la pressione di San Siro. Parliamo di un pubblico molto competente che ha visto moltissimi fuoriclasse, è normale che pretenda un calcio e un livello di prestazione alto. Per questo bisogna stare attenti a sbagliare il meno possibile (Ride, ndr)”. Hai segnato più di 60 gol in carriera, mi fai la tua personale classifica dei tre ai quali sei più legato? “Il gol nel Derby con la Roma, quello nel Derby contro il Milan e il terzo spero arrivi presto e che sia decisivo per un traguardo importante”. A proposito di traguardi, quest’Inter sembra aver imboccato la strada giusta per far divertire il suo pubblico… “Guarda, rispetto allo scorso anno, sono cambiate tantissime cose. È come se ci fossimo parlati, tutti insieme, e avessimo deciso di ricominciare da zero. Sicuramente c’è un
UNA CARRIERA DI CORSA… Candreva ha dovuto correre tanto e in maniera spedita per consacrarsi al vertice del calcio italiano. Nato a Roma il 28 febbraio 1987, muove i primi passi nella Lodigiani. Inizia la sua carriera da giocatore professionista nella Ternana. In tre stagioni con i rossoverdi, dimostra di essere un prospetto dal grande avvenire. Nel 2007 firma con l’Udinese. A soli 20 anni, fa il suo esordio in Serie A proprio con la casacca dei friulani. Ironia del destino, debutta nella massima serie proprio contro l’Inter. Dopo una sola stagione a Udine (tre presenze), viene ceduto, con la formula del prestito, al Livorno in Serie B. Un’annata da urlo con tanto di promozione in Serie A. Resta al Livorno anche la stagione successiva. La Juventus decide di puntare su di lui. Nel gennaio del 2010 sbarca a Torino, sponda bianconera. Non ha grande spazio alla Juventus ma si toglie comunque delle soddisfazioni: esordisce in Europa League e segna anche due reti in campionato (contro Bologna e Siena). A fine annata, finisce al Parma. Ci resta per un anno per poi sbarcare a Cesena. Resta solo qualche mese al club romagnolo. A gennaio del 2012 arriva la chiamata della Lazio. L’inizio non è dei migliori ma, a suon di eccellenti prestazioni e gol importanti, diventa una colonna della squadra biancoceleste. Con la Lazio disputa ben 192 partite, collezionando 45 gol e la vittoria della Coppa Italia 2012/13. Nell’estate del 2016, dopo quattro anni e mezzo alla Lazio, viene acquistato dall’Inter. Nella sua prima annata nerazzurra, nonostante la squadra non riesca a decollare, segna ben otto reti, risultando uno dei migliori giocatori in rosa. E siamo ai giorni nostri, con la nuova avventura agli ordini di Spalletti…
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INTERVISTA
Antonio Candreva
Il gol nel Derby contro il Milan, un ricordo indelebile nella mente di Candreva
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gruppo unito. Inoltre c’è un allenatore che è abituato a lottare per vincere”. Argomento spinoso. Se ti chiamassi Candrevinho e fossi brasiliano, credi che avresti più credito? “Guarda, ci sono tanti giocatori stranieri che sono davvero fortissimi ma è altrettanto vero che, se sei italiano, devi comunque sempre garantire certe prestazioni. Forse uno straniero ha più possibilità di sbagliare, probabilmente perché c’è la questione ambientamento che, per un italiano, viene a decadere”. Nell’Inter hai tanti stranieri forti come compagni. Nell’altra fascia c’è un certo Perisic… “Ecco, Ivan è davvero forte. È un bel treno. In carriera ne ho visti davvero pochi come lui. Quello che mi stupisce di Ivan, è lo spirito che mette in campo. È uno che si sacrifica per tutti, non si tira indietro mai”. Noto che hai la Playstation… Mi dici tre giocatori che metteresti nella tua formazione ideale, non scegliendo tuoi compagni all’Inter?
“La Playstation è un soprammobile (Ride, ndr). In difesa metterei Nesta, a centrocampo Roberto Baggio e davanti sceglierei, tutta la vita, Messi”. Sfogliamo il libro della tua carriera. Pensi di essere arrivato tardi al calcio che conta? “No, non credo. Sono contento di tutto il percorso che ho fatto. Ho giocato in tutti i campionati, dalla vecchia Serie C fino alla Serie A. Mi è servita tutta questa gavetta, mi ha insegnato molto”. Parliamo un po’ di te… Come ti trovi a Milano? “Benissimo, mi sento a mio agio. È una città che offre tutto, sto molto bene qui a Milano”. Hai tempo anche di andare al cinema? “Purtroppo è tanto che non vado al cinema ma mi piace tantissimo vedermi un bel film, almeno quando posso e non ho mia figlia. Mi piacciono i film impegnati, con una storia vera alla base di tutto”. E a musica come andiamo? “Non sono un grande appassionato di musica. Ascolto, solitamente, musica italiana. Gente come Ligabue, Vasco Rossi o Jovanotti…”. La tua vacanza ideale? “La mia vacanza ideale? È stare con mia figlia Bianca. Quella è la mia vacanza ideale. Cartoni animati e fiabe, questo è il top per me”. Che tipo di padre sei? “Direi apprensivo. Diciamo che metto molte regole (Ride, ndr). Purtroppo sta crescendo troppo in fretta…”. Se potessi chiedere un autografo ad uno sportivo, a chi lo chiederesti? “A Roger Federer. Ha un talento unico, con uno stile di gioco disarmante”. Ti intriga la possibilità di giocare all’estero? “Sì, mi piacerebbe, un giorno, mettermi in gioco in un campionato estero”. C’è un campionato straniero che ti ispira più di altri?
13 Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
INTERVISTA
Antonio Candreva “Mi piace molto la Premier League. È davvero un campionato eccezionale. Mi piacerebbe provare a giocarci”. Hai già giocato la Champions League con la Lazio. In attesa di rigiocarla con l’Inter, mi puoi confermare che, quella musichetta della Champions, è qualcosa di speciale? “Indubbiamente. La Champions League è il torneo europeo più importante e, di conseguenza, quando ci giochi, ti senti estasiato. Quella musichetta ti fa capire che stai giocando la Champions League, il top”. La Champions League è il top e le squadre italiane? Il movimento calcistico italiano si sta riprendendo? Siamo pronti a tornare a vincere in Europa? “Sicuramente la Serie A di quest’anno sta dimostrando che il nostro è sempre un torneo difficile ma, da qualche anno a questa parte, anche con belle partite. Credo che le nostre squadre italiane stiano crescendo e, di conseguenza, si può far bene anche in Europa”. Il tempo di un caffè, gentilmente offerto dal padrone di casa Antonio (“In casa mia non può mancare la macchinetta del caffè”, ci svela) ed è tempo di salutarci. Ci chiede anche se abbiamo bisogno di essere accompagnati per trovare la porta d’uscita. Insomma, un grande giocatore ma, soprattutto, un ragazzo umile. La dimostrazione arriva proprio sul finale dell’intervista: “Il miglior complimento che mi hanno mai fatto? Dicono che sono una persona umile e questo mi rende molto orgoglioso”. Lo confermiamo, Antonio Candreva è una persona davvero di grandissima umiltà e umanità.
Il Direttore di Calcio2000 Ponciroli a casa di Candreva
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IL RICORDO DELLA COPPA ITALIA A casa di Antonio Candreva è presente una fedele riproduzione della Coppa Italia, edizione 2012/13. Quella vinta dalla Lazio nella storica finale contro i rivali della Roma (gol decisivo firmato da Lulic con Candreva in campo per tutta la gara). Una partita che è entrata negli annali del calcio e che, nella capitale, è ancora oggi fonte di inesauribile gioia per i tifosi biancocelesti: “È l’unica che ho vinto, almeno per il momento. È stata una vittoria memorabile, che mi ricorderò per tutta la mia vita. È stato un momento unico, incredibile. È un trofeo che non ha prezzo. Vinto contro la Roma in una finale, da brividi. Non credo che ricapiterà mai più e quindi me la tengo stretta, a casa mia, in attesa di altri trionfi”. Una coppa che Antonio mostra con grande fierezza: “Come vedi c’è spazio per altro, speriamo che non sia l’unica da ricordare quando smetterò di giocare a calcio”.
LA Carriera di Candreva Stagione Squadra Totale Pres Reti 2004-2005 2005-2006 2006-2007 2007-2008 2008-2009 2009-gen. 2010 gen.-giu. 2010 2010-2011 2011-gen. 2012 gen.-giu. 2012 2012-2013 2013-2014 2014-2015 2015-2016 2016-2017 2017-2018
Ternana Ternana Ternana Udinese Livorno Livorno Juventus Parma Cesena Lazio Lazio Lazio Lazio Lazio Inter Inter
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* Aggiornate al 23/12/2017
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SPECIALE
Le ali interiste di Luca Gandini
IL VOLO DELLE INTERNAZION“ALI” La lunga ed esaltante tradizione delle ali interiste, spesso decisive in molti dei momenti più felici della storia nerazzurra.
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roprio ora che il Football Club Internazionale Milano si appresta a festeggiare il suo 110° compleanno nella speranza di poter finalmente riscattare una lunga parentesi di avvilente mediocrità, vien voglia di ripensare a tutti quei momenti in cui i nerazzurri grandi lo sono stati per davvero. Dall’epopea dell’Ambrosiana di Peppino Meazza all’Inter catenacciara di Alfredo Foni, dai trionfi euromondiali di papà Moratti alla schiacciasassi del Trap, fino ad arrivare al più recente Triplete di Moratti junior. Momenti memorabili e molto spesso nobilitati dalle prodezze di coloro che ricoprono uno tra i ruoli più affascinanti nel gioco del calcio. Hanno cambiato nome varie volte (all’inizio si chiamavano “wings”, all’inglese, poi “estreme”, poi ancora “ali” e quindi “esterni offensivi”), ma la sostanza è sempre la stessa: niente più della fantasia delle ali, anzi, delle internazion”ali”, può far volare i sogni dei tifosi. GLI SCUDIERI DI MEAZZA La prima grande ala dell’Inter, e forse del calcio italiano, era un milanese doc: Leopol-
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Mario Corso, una leggenda sulla fascia - FOTO LIVERANI
do Conti. Uno dei fuoriclasse del giornalismo sportivo, Antonio Ghirelli, nel suo Storia Del Calcio In Italia, lo descriveva come “un realizzatore implacabile e lucido, scarno ed essenziale e brillante nei cimenti di campionato come in quelli internazionali”. Dominatore della fascia destra, Conti trascinò giovanissimo i nerazzurri alla vittoria del secondo campionato della loro storia nel 1919/20, mentre negli anni della maturità fu fedele ispiratore dell’emergente centravanti Giuseppe Meazza in un’Inter divenuta “Ambrosiana” per volere del regime e tricolore per la terza volta nel 1929/30. Detentore di 31 presenze e 8 gol in Nazionale, contribuì alla conquista del primo grande trofeo del calcio azzurro: la Coppa Internazionale edizione 1927/30. Non ebbero altrettanta fortuna, qualche anno dopo, due assi come l’uruguayano Tito Frione e il ligure Felice Levratto. Rispettivamente ala destra e ala sinistra, erano il primo il beniamino dell’Avvocato Peppino Prisco, che lo inseriva puntualmente nel suo undici ideale, e il secondo un terrificante goleador a cui il Quartetto Cetra dedicò perfino una canzone. Nonostante i gol e lo spettacolo, non riuscirono ad andare oltre il secondo posto in campionato e una finale persa nella prestigiosa Coppa dell’Europa Centrale al cospetto dell’Austria Vienna del fuoriclasse Matthias Sindelar. L’Ambrosiana-Inter tornò sul trono d’Italia sia nel 1937/38 che nel 1939/40, quando a dettare legge sulle fasce vi erano Annibale Frossi e Pietro Ferraris. Frossi era soprannominato “l’Occhialuto Olimpico” perché nel 1936 era stato il bomber della Nazionale medaglia d’oro ai Giochi di Berlino. L’incorreggibile Gianni Brera, dalle pagine del suo Storia Critica Del Calcio Italiano, raccontava che tra lui e Meazza non corresse buon sangue, tanto che Peppino “gli passava palla proprio quando non sapeva a chi darla”. Ferraris si era invece laureato campione del mondo a Francia ‘38 e avrebbe fatto parte del nascente Grande Torino. In nerazzurro furono entrambi determinanti, garantendo, nei due campionati vinti, ben 33 gol complessivi.
Figo, uno che sulla fascia non aveva rivali
L’ARMANO VINCENTE Subito dopo la guerra, l’Inter riprese la sua denominazione originaria, ma per tornare al titolo avrebbe dovuto attendere il 1952/53. Fu la prima squadra di vertice ad adottare il Catenaccio, quel sistema di gioco a lungo vituperato, ma decisivo in molte delle grandi imprese del nostro calcio. Era una correzione difensiva al modulo imperante all’epoca, il WM inglese. In pratica, il terzino destro veniva arretrato alle spalle dello stopper in funzione di battitore libero, mentre l’ala destra doveva ora occuparsi di coprire tutta la fascia e non pensare più solo alla fase offensiva. Fortuna dell’Inter, l’alessandrino Gino Armano fu l’uomo giusto per rivestire questo nuovo ruolo di “ala tornante”, distinguendosi al meglio in entrambe le situazioni di gioco. A sinistra, chiamato ad esclusivi compiti offensivi, vi era invece l’ungherese István Nyers, un uomo nato per il gol, un imprevedibile dribblatore e infallibile stoccatore con entrambi i piedi. Subissato dalle critiche per lo Scudetto conquistato col Catenaccio, l’allenatore nerazzurro Alfredo Foni tornò al sistema WM nella stagione successiva. Armano, impiegato ora da ala vera e propria e non
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SPECIALE
Le ali interiste più da tornante, fu addirittura il capocannoniere della squadra con 13 reti, mentre un Nyers a mezzo servizio si fermò a 8. Ma a fine anno nessuno poté impedire all’Inter di riconfermarsi campione. VOLANDO SUL MONDO La miglior coppia di ali mai ammirata dai tifosi nerazzurri fu, con tutta probabilità, quella formata dal brasiliano Jair e dal veneto Mario Corso. Grazie alle loro scorribande sulle fasce,
Anche Zanetti ha fatto il suo dovere nell’inedito ruolo di ala
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la perfetta macchina da calcio progettata da Helenio Herrera si innalzò in un lungo volo sui cieli d’Italia, d’Europa e del mondo. Corso era arrivato all’Inter nel 1958, ad appena 17 anni; Jair lo raggiunse, 22enne, nel 1962. Insieme misero la firma su 4 Scudetti, 2 Coppe dei Campioni e 2 Coppe Intercontinentali. Lo stile raffinato, l’astuzia nel gioco e l’andatura compassata al limite dell’indolenza fecero di Corso il tipico fuoriclasse di cui o ci si innamora a prima vista o con cui si entra subito in rotta di col-
lisione. Con Herrera i rapporti erano pessimi, tanto che “il Mago” ogni anno ne chiedeva la cessione. Di tutt’altro parere il presidentissimo Angelo Moratti e la consorte Erminia, che per Mariolino e le sue punizioni “a foglia morta” avevano una sorta di venerazione. Anche con Jair, in quanto a valore, eravamo ai massimi livelli. Giocatore diverso da Corso, aveva nella progressione in velocità e nella resistenza fisica le qualità migliori. Solo la contemporanea presenza nel ruolo dell’inarrivabile Garrincha gli impedì di sfondare anche con la Nazionale brasiliana, con cui fu campione del mondo, ma senza mai giocare, a Cile ‘62. In questi anni segnati dal dominio della Grande Inter si fece strada un’altra formidabile ala destra: il bergamasco Angelo Domenghini. Nonostante la concorrenza di Jair, divenne pian piano un elemento preziosissimo per gli equilibri della squadra, per via del grande dinamismo e dei ripiegamenti a sostegno del centrocampo. Non disdegnava nemmeno le puntate offensive, grazie al potente tiro da fuori area. Un uomo a tutto campo che fece anche le fortune della Nazionale campione d’Europa nel 1968 e vice-campione del mondo a Messico ‘70. FASCE DI REDDITO Dopo una lunga fase interlocutoria, l’Inter tornò a brindare allo Scudetto nel 1979/80. Presidente era Ivanoe Fraizzoli, allenatore “il Sergente di Ferro” Eugenio Bersellini. In campo, accanto a big come il fantasista Evaristo Beccalossi, il mediano Lele Oriali e il centravanti Spillo Altobelli, non sfigurò l’ala sinistra Carlo Muraro. Ottimo crossatore e svelto come un fulmine, venne ribattezzato forse troppo frettolosamente “lo Jair Bianco”, pur non possedendo la continuità e lo spessore internazionale del brasiliano. Era invece un autentico campione Franco Causio, ma nell’unica stagione in nerazzurro (1984/85) non riuscì a ripetere gli exploit dei tempi juventini, anche perché l’età non era più tenerissima e così delle memorabili serpentine sulla destra del “Barone” non
restò che uno sbiadito ricordo. Un vero peccato. L’Inter che tornò grande con al timone Giovanni Trapattoni poté invece fare affidamento su un numero 7 che non apparteneva probabilmente alla categoria dei fuoriclasse, ma che nello scacchiere del Trap fu comunque pedina insostituibile. Agile, tecnico e generoso, Alessandro Bianchi da Cervia vinse lo Scudetto dei record nel 1988/89 e la Coppa UEFA due anni più tardi, prima che una lunga serie di infortuni ne arrestasse irrimediabilmente l’ascesa. Parli di Coppa UEFA e di ali di qualità e pensi a Francesco Moriero, grandissimo protagonista nella stagione 1997/98. Era l’Inter di Massimo Moratti, con Gigi Simoni in panchina e il miglior Ronaldo di sempre là in attacco. L’esterno destro leccese fu determinante in quella stagione, sfiorando lo Scudetto e conquistando il prestigioso trofeo europeo al Parco dei Principi di Parigi. Anche uno dei simboli della Beneamata, l’argentino Javier Zanetti, nella sua lunga militanza in nerazzurro, ricoprì spesso il ruolo di ala. Soprattutto a destra, ma a volte anche a sinistra. Dovunque ci fosse bisogno, “il Pupi” rispondeva presente. Altra grande ala destra dell’epoca morattiana fu il portoghese Luís Figo, che nonostante l’età avanzata riuscì a portare all’Inter di Roberto Mancini prima e di José Mourinho poi il suo inconfondibile tocco di campione. Non fece lo stesso, nell’anno del Triplete (2009/10), il connazionale Ricardo Quaresma. Ribattezzato “Trivela” per il tipico cross ad effetto, in nerazzurro fallì in pieno, così come fallì inspiegabilmente il brasiliano Mancini, che alla Roma, negli anni precedenti, aveva dato prova di essere un esterno offensivo di altissimo rendimento. Andò meglio al velocissimo francese Jonathan Biabiany. La sua avventura milanese nel complesso non fu esaltante, ma nessuno può togliergli la soddisfazione di aver realizzato il gol del definitivo 3-0 ai congolesi del Mazembe nella finale del Mondiale per Club 2010. Il nono e ultimo titolo internazionale dei nerazzurri. È storia di sette anni fa, ma è come se sia passata un’eternità.
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INTERVISTA
Gianluca Lapadula di Fabrizio Ponciroli
IL PIANISTA DEL GENOA Tanta gavetta e una determinazione da campione, semplicemente Gianluca Lapadula… Servizio fotografico a cura di Daniele Mascolo
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alla scorsa estate, Gianluca Lapadula gioca nel Genoa. Tuttavia, la sua famiglia, piuttosto numerosa (moglie e tre bimbe), vive a Torino. Lo incontriamo proprio nella città piemontese, dove tutto ha avuto inizio. Puntualissimo, ha un sorriso che cattura. Nessun atteggiamento da star, ma una naturalezza che contagia. L’intervista si trasforma, in pochi minuti, in una chiacchierata informale e, quindi, ancor più veritiera. Gianluca, chi ti ha fatto scoprire il calcio da bambino? “È stato mio padre a trasmettermi la passione per il calcio. Lui ha giocato, a livello amatoriale, e, quindi, portava sempre me e mio fratello al campo… Così è iniziato tutto”. Hai sempre giocato in attacco? “Ma guarda, mio padre giocava in porta quindi, quando ho cominciato a giocare a calcio, facevo il portiere. Poi, con il passare del tempo, ho sperimentato altri ruoli, fino a posizionarmi in attacco”. Quindi meglio segnarli i gol che evitarli… “Ovviamente segnare un gol è il massimo ma credo non sia neanche male, per un portiere,
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INTERVISTA
Gianluca Lapadula compiere il cosiddetto miracolo”. Quale è stato il momento in cui hai capito che avevi le carte in regola per essere un calciatore professionista? “Non c’è stato un singolo momento. Sentivo solamente che volevo fare questo mestiere. Avevo una carica che non vedevo in tanti altri ragazzi della mia età”. Una “carica” che ti ha portato a lasciare la famiglia giovanissimo… “Vero, sono uscito di casa quando avevo 15/16 anni. Sicuramente ho dovuto fare tanti sacrifici, ho rinunciato a molte uscite con gli amici ma la passione per il calcio era ed è talmente forte che non mi sono mai pentito”. Parliamo un po’ della tua lunga gavetta… Hai giocato in tantissime squadre, cambiando ogni anno città e, a volte, categoria… “E continuo a farlo (ride, ndr). Sia che facessi o non facessi gol, ho sempre cambiato squadra. Sicuramente non è stato semplice ma, d’altro canto, è stato stimolante. Devi sempre rimetterti in gioco”. Mi incuriosisce la tua decisione, nel 2013, di Tanta la voglia di lasciare il segno al Genoa, squadra dal tifo meraviglioso
trasferirti a Gorica, in Slovenia… “È stata una scelta completamente mia. Era un periodo della mia carriera in cui il Parma, proprietario del mio cartellino, mi faceva girare come fossi un pacco postale. Mi stavo stancando del comportamento del Parma e, in particolare, di Leonardi. Avevo bisogno di nuovi stimoli. Appena si è concretizzata questa possibilità, l’ho presa al volo”. E direi che hai fatto bene… Ben 13 reti e una Coppa di Slovenia… “È stata una grande annata. Abbiamo vinto la Coppa di Slovenia e abbiamo raggiunto l’Europa League. Purtroppo, a livello di vita quotidiana, non è stato facile. Il Parma non pagava e, quindi, ero, insieme agli altri italiani in squadra, in difficoltà da quel punto di vista”. E dopo Gorica, che è successo?
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CRESCITA COSTANTE Gianluca Libertazzi è più che il “semplice agente”. Insieme a Gianluca Lapadula ha vissuto tanti momenti, sia lavorativi che, soprattutto, privati: “Le nostre famiglie si conoscono da sempre. Io, di fatto, conosco Gianluca (Lapadula, ndr) da prima che nascesse… Quando ho deciso di fare l’agente, dopo un periodo in cui mi sono fatto le ossa e ho imparato il mestiere, ci siamo ritrovati ma, come dico sempre, l’amicizia è importante ma sono i risultati che contano”. Vero, verissimo e, guardando alla carriera di Lapadula, si capisce che il ragazzo ha sudato le proverbiali sette camicie per sfondare… Giovanili tra Juventus, Rivoli e Treviso poi, a 17 anni, la Pro Vercelli in C2. L’anno seguente ecco l’Ivrea. Nel 2009 lo nota il Parma che lo mette sotto contratto e lo manda a giocare nella Primavera gialloblù. Inizia così una sequela di prestiti. Brilla a San Marino, nella stagione 2011/12 (24 gol). Si cimenta anche nella massima lega slovena, con la maglia del Gorica dove vince, giocando da esterno d’attacco (segnando 13 reti), la Coppa di Slovenia, suo primo trofeo. La stagione seguente è capocannoniere in LegaPro con il Teramo (25 reti). Lo chiama il Pescara. Con Oddo in panchina diventa una sentenza: 30 gol in 46 gare, con tanto di promozione in Serie A (segna anche nella finale play-off contro il Trapani). Il Milan decide di puntare su di lui. Siamo nell’estate del 2016. Viene ingaggiato per una cifra attorno ai nove milioni di euro. Il 6 novembre 2016, contro il Palermo, segna il gol vittoria, il suo primo nella massima serie. A dicembre, il 23 per l’esattezza, vince la Supercoppa Italiana. Alla fine della stagione, raccoglierà 29 presenze (molte da subentrato) per otto gol. Ed eccoci alla nuova esperienza con il Genoa...
“Guarda, dopo quella annata, mi “La chiamata è arrivata da uno che sarei aspettato qualche offerta in non contava nulla (ride, all’intervipiù, invece si sono fatte avanti solo sta è presente Gianluca Libertazzi, squadre di LegaPro. E, infatti, sono amico e agente del bomber, ossia la andato al Teramo dove è andata bepersona che lo ha portato in rossonissimo, non bene. Ho segnato tannero, ndr.). No, a parte le battute, è tissimi gol (25, ndr), ho vissuto mostato incredibile. Appena è diventamenti fantastici a livello famigliare. ta una pista concreta, non ho avuto Insomma, davvero una stagione innessun dubbio. Poi, per un periodo, dimenticabile”. il Milan non si è fatto più sentire e io Ed ecco che, nel 2015, arriva la e il mio agente stavamo per firmare chiamata del Pescara. È lì che si è con il Genoa. Per fortuna, alla fine, visto il vero Lapadula? il Milan ha deciso di prendermi. Non “Onestamente credo che il vero Laho avuto un solo dubbio. Nel giro Si ringrazia Panini per la gentile padula si era già visto a San Marino di un paio d’ore abbiamo concluso concessione delle (24 gol in 39 partite, ndr). Poi, ovl’accordo. Qualche giorno dopo mi immagini viamente, a Pescara, c’è stato un sono anche sposato”. ulteriore step. Mi piace pensare che è stata Arrivi al Milan e, tanto per non farti notare, una crescita costante. Non so quanti giocaecco che scegli la maglia numero 9… tori hanno vinto tutte le categorie, cambiando “L’ho già sentita questa storia della maglia sempre squadra ogni anno”. numero 9… Io non sono mai stato scaramanOra però voglio sapere cosa hai pensato tico e, onestamente, mi sono sempre piaciute quando ti è arrivata la chiamata del Milan… le responsabilità. Quella maglia mi dava re-
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INTERVISTA
Gianluca Lapadula
sponsabilità importanti, quelle che cercavo”. Come giudichi il tuo anno al Milan? “Sono contentissimo di quello che ho fatto. Siamo tornati in Europa League, abbiamo vinto un trofeo (Supercoppa Italiana, ndr) e, facendo la bellezza di 13 partite complete a livello di minutaggio, sono riuscito a fare otto gol, tre assist e tanto altro che magari non si è notato molto”. Il momento più bello e quello da cancellare nella tua esperienza rossonera? “Quello più brutto, sicuramente l’inizio. Sono arrivato in condizioni fisiche pessime, dopo un anno massacrante al Pescara, con 46 partite nelle gambe, compresi i play-off. Per fortuna, con il passare del tempo, mi sono ripreso ed è andata bene. Il momento più bello? Ce ne sono stati tanti. Il primo gol in Serie A, fatto poi di tacco, la qualificazione in Europa League e la Supercoppa Italiana. Infine non dimentico l’affetto dei tifosi del Milan”. Tanta gavetta e tanti allenatori che ti hanno forgiato. A chi devi dire grazie? “Penso a Vincenzo Vivarini, ora allenatore dell’Empoli. Devo ringraziare anche Massimo Oddo, fondamentale per me a Pescara. Devo
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citare anche Mario Petrone, che ho avuto ai tempi di San Marino e che mi ha insegnato tanto. Poi, anche se non parliamo di allenatori, non dimentico neppure Andrea Arpili, grande preparatore atletico e Gianluca Libertazzi, mio agente con cui ci conosciamo da quando eravamo bambini”. Faticando, sei arrivato al top. Come li vedi i ragazzi d’oggi, soprattutto italiani? “Guarda, io ho dovuto superare tantissimi ostacoli per arrivare a certi livelli. Sono convinto che, se vuoi una cosa e la vuoi veramente, alla fine riesci ad ottenerla. È anche vero che ora ci sono tante distrazioni. Smartphone, social network, sono mezzi di comunicazione che tolgono tanto tempo ai ragazzi d’oggi. Ai miei tempi non c’erano così tante distrazioni. Io avevo in mente solo il calcio”. Parliamo del Genoa. Da cosa nasce questa scelta? “Innanzitutto voglio evidenziare che il Milan non mi ha mai chiesto di andarmene. Andare al Genoa è stata una mia scelta, voluta anche fortemente. Volevo rimettermi in gioco. Il Genoa mi ha voluto a tutti i costi e questo ha contato parecchio nella mia decisione finale”.
Che ne pensi dei tifosi del Genoa? Giocare a Marassi non è affatto male, vero? “ È come stare alla Bombonera, sono fondamentali per noi. È bellissimo vedere come sostengono, sempre, la squadra. Una meraviglia”. Obiettivo della stagione in corso a livello
LA Carriera di LAPADULA Stagione Squadra Serie Totale Pres Reti 2007-2008 2008-2009 2009-2010 2010-gen. 2011 gen.-giu. 2011 2011-2012 2012-gen. 2013 gen.-giu. 2013 2013-2014 2014-2015 2015-2016 2016-2017 2017-2018
Pro Vercelli Ivrea Parma Atl. Roma Ravenna San Marino Cesena Frosinone Gorica Teramo Pescara Milan Genoa
C2 4 0 2D 20 0 A 0 0 1D 4 1 1D 7 1 2D 39 24 B 11 1 1D 6 0 1. SNL 31 13 LegaPro 42 25 B 46 30 A 29 8 A 12 2
* Aggiornate al 23/12/2017
personale? “Il mio obiettivo è chiaro: ripagare la fiducia che la società ha in me. E non voglio dimenticare Juric che mi ha voluto qui… Voglio lasciare il segno”. Indemoniato in campo ma, a giudicare da come parli, sembri molto tranquillo fuori dal campo verde… “Quando ero più giovane, ero indemoniato in campo e anche fuori (ride, ndr). Sicuramente la famiglia mi ha tranquillizzato parecchio. Mi è nata da poco la mia terza bimba, quindi direi che ho molto da fare quando sono a casa. Tre bimbe sono impegnative ma è anche bellissimo”. Quindi, oltre che fare gol, stai pensando anche al maschio? “Ma, guarda, l’obiettivo era quello ma è nata un’altra bimba (ride, ndr). Non so, dirlo ora a mia moglie che vorrei un quarto figlio per provare ad avere il maschio non mi pare una grande idea. Devo aspettare il momento giusto”. Videogame, musica, cinema? “Non gioco ai videogame da 7/8 anni. Film ne ho visti tantissimi. Mi piacciono tutti i generi,
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INTERVISTA
Gianluca Lapadula
sono legato al film Braveheart con Mel Gibson che avrò visto decine di volte. Sicuramente la musica è parte della mia vita. Ascolto di tutto. Dalla musica italiana a quella da discoteca. E poi suono il pianoforte…”. Ecco, parliamo un po’ di questa passione per il pianoforte… “Ogni tanto, insieme a mio padre, suoniamo qualche pezzo. Mi sono esibito anche alla Domenica Sportiva e ti assicuro che ero più teso prima di quella prova televisiva piuttosto che al momento di entrare in campo a San Siro”. Sei appassionato di altri sport, oltre al calcio? “Mio zio era allenatore di bob, quindi ho seguito questo sport per un bel po’ di tempo. Mi piace moltissimo l’atletica e sono un campione a ping pong…”. Giochiamo un po’… Se fossi un presidente facoltoso, chi prenderesti nella tua squadra ideale? Tre giocatori, anche del passato… “Come primo nome dico Del Piero, esempio tutto il giorno, tutti i giorni, sia in campo che fuori. Poi prenderei Buffon, il portiere più forte di tutti i tempi e poi Seedorf”. Come mai Seedorf? “Ti racconto un aneddoto. Era una gara di Champions League e il Milan non stava attraversando un gran momento. Ricordo che Seedorf sbagliò una giocata e arrivarono dei fischi. Lui, pochi minuti dopo, riprovò la stes-
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sa giocata, sbagliandola ancora… I fischi aumentarono ma Seedorf tentò nuovamente la giocata. Poi, a fine gara, disse che i fischi non lo condizionavano ma lo stimolavano a riprovarci. Fantastico. Un vero campione. Ecco, uno con una personalità simile lo vorrei sempre nella mia squadra ideale”. Cosa avrebbe fatto Gianluca Lapadula se non fosse diventato un calciatore? “Bella domanda… Credo il veterinario, visto che ho una passione per gli animali”. Guardiamo al futuro e sogniamo in grande: preferiresti vincere la Champions League o lo Scudetto? “Guarda, io vorrei vincere tutti i trofei, non potrei mai scegliere”. L’intervista volge al termine. Gianluca Lapadula ci ha incontrati in un meraviglioso Cafè di Torino. Mentre lo intervistiamo, ci stiamo gustando una straordinaria torta di crema e pinoli fatta in casa. È la scusa per un ultimo scambio di battute… Gli chiedo come mai non abbia preso una fetta di torta… “No, meglio di no, devo stare attento alla linea…”. Ed ecco che si scopre il punto debole di Lapadula: “C’è un piatto di mia madre… È un piatto sudamericano, si chiama Arroz Chaufa, è un piatto ricco con riso, carne, pancetta, soia. Piatto importante che fa da primo, secondo e dolce”… Finiamo la torta (buonissima) e salutiamo. Una bella persona, umile e con tanta voglia di arrivare: Gianluca Lapadula.
Il Direttore di Calcio2000 Ponciroli e Lapadula
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INTERVISTA
Valter Birsa di Sergio Stanco
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Destinazione Paradiso Valter Birsa ci racconta il “fenomeno Chievo”: un ambiente, un club, una squadra speciale.
U
na volta lo chiamavano il “Chievo dei miracoli”. E la parola “miracolo” è ancora associata al club clivense ogni volta che se ne vogliano rimarcare i meriti, i risultati sorprendenti (poi sorprendenti per chi? Ancora ci si sorprende dopo tanti anni?). Ma non parlate di miracolo a chi, quel “teorico” miracolo lo compie ogni giorno, perché in tutta risposta - se vi va bene - otterrete uno sguardo truce e - se vi va male - anche qualcosa di più. Perché il Chievo è tutto fuorché il risultato di un evento soprannaturale, piuttosto è organizzazione, professionalità, lungimiranza, programmazione, competenza e molto altro. Parlare ancora di miracolo, sorpresa, prodigio, significa sminuire un progetto che dovrebbe fare scuola,
dovrebbe essere copiato e clonato, piuttosto che ammirato come se fosse un’apparizione divina. E riuscire in questa impresa, con budget limitati e un calcio sempre più business, in cui i bacini d’utenza spesso pesano di più di un gol al 90’, è “tanta roba”, come piace dire ai giocatori. Noi preferiamo definirlo “Fenomeno Chievo” e abbiamo deciso di farcelo raccontare da Valter Birsa, trequartista sloveno che, dopo tanto girovagare, proprio al Chievo ha trovato la sua dimensione ideale, una sorta di paradiso… terrestre. Allora Valter, tu che lo vivi ogni giorno questo “fenomeno”, qual è il vero segreto del Chievo? “Credo ce ne sia più di uno: innanzitutto la società è molto organizzata, lavora benissimo a livello di scouting e poi, operativamente e
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INTERVISTA Valter Birsa
concretamente, c’è grande programmazione, perché quando si va in ritiro la rosa è in gran parte già formata, per cui si lavora bene fin dal primo giorno con lo staff e questo ci permette di partire forte all’inizio, quando magari le altre squadre hanno qualche problema in più.”. Ti ricordi quando sei arrivato dal Milan? Immagino sia molto differente l’ambiente… “Cambiano solo le dimensioni, ma la professionalità, la qualità delle strutture e la serietà della società sono le stesse. Poi, sinceramente, per come sono fatto io, forse avevo anche bisogno di un ambiente tranquillo per esprimermi al meglio. Inoltre, già prima di venire qui conoscevo diversi giocatori, che mi avevano parlato benissimo del Chievo. Mi sono inserito subito e ora sto benissimo qui”. Anche quest’anno l’asticella del Chievo si è alzata presto… “Mah, questo lo dicono gli altri, noi siamo concentratissimi su quello che è il nostro obiettivo. Dire che dobbiamo innanzitutto salvarci non è una frase di circostanza, ma una realtà. Basta guardare la classifica: ci sono squadre partite con ben altre ambizioni e che adesso si ritrovano in difficoltà, basta un periodo negativo e magari ti risvegli nelle stesse condizioni. Dunque noi rimaniamo focalizzati sul nostro obiettivo, poi quando l’avremo raggiunto allora saremo ben felici di alzare l’asticella”. Il Chievo è una squadra di grande esperienza: è anche questo un piccolo segreto? “È sicuramente un vantaggio, perché l’esperienza è molto utile, soprattutto nei momenti di difficoltà anche all’interno di una singola partita, figuriamoci in un campionato intero. Dicono che il Chievo sia “vecchio”, ma finché gioca così ben venga (sorride, ndr). Siamo vecchi ma corriamo quanto i più giovani e a volte anche di più, questo è quello che conta”. Sorrentino e Pellissier sono i due highlander del Chievo: chi ti stupisce di più? “Tutti e due, ovviamente, anche se per ruolo
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capisco di più Sergio (Pellissier, ndr), anche perché, a differenza di Stefano, ci alleniamo tutti i giorni insieme e vedo quanto si impegna per farsi trovare sempre pronto. Comunque sono entrambi due calciatori che hanno dato tanto al calcio italiano ma che secondo me daranno ancora molto, non si può che parlarne bene, sono superlativi”. Nel Chievo, però, ci sono anche visti giovani interessanti…
“Nel Milan ho giocato con gente che ha vinto il Pallone d’Oro e nello stadio più bello d’Italia, cosa avrei potuto chiedere di più?”
L’esperienza al Milan fa parte del viaggio di Birsa, una tappa importante
“È vero e secondo me poco reclamizzati. Si parla sempre di un Chievo “vecchio” e non ci si accorge che invece ci sono tanti ragazzi che stanno giocando con una certa regolarità e stanno facendo bene. Abbiamo le spalle ben coperte e anche il futuro del Chievo è roseo. Non mi sembra carino fare nomi, ma basta scorrere le cronache, i tabellini e le statistiche per rendersi conto che spesso la storia del Chievo “vecchio” è vera solo in parte”. Continuità di progetto tecnico, un altro plus… “È evidente che stando insieme da tanto tempo ci conosciamo e anche questo è un van-
IL TUTTOCAMPISTA Valter Birsa è uno di quei giocatori di difficile collocazione classica in un calcio che ormai ha pensionato i numeri 10 puri. Lo sloveno classe ‘86 ha forse trovato la sua collocazione ideale proprio nel Chievo di Maran, che gli ha cucito addosso un 4-3-1-2 perfetto per le sue caratteristiche. Tuttavia non immaginatevi un trequartista classico, piuttosto un “tuttocampista” come si usa dire oggi, cioè un giocatore in grado di incidere sulla fase difensiva almeno tanto quanto su quella offensiva. Birsa, infatti, è il primo a schermare la fonte di gioco avversaria in non possesso palla e da quella posizione diventa letale in caso di recupero della stessa in zona d’attacco. All’occorrenza, comunque, lo sloveno è in grado di partire largo in un 4-4-2 classico, ma anche essere uno dei due fantasisti in un “albero di Natale”. Così, ad esempio, lo impiegava a volte Allegri nel suo Milan. A proposito di “tuttocampista” la sua naturale predisposizione ad aiutare la squadra e a ripiegare, lo rende eleggibile anche per il ruolo di mediano di un centrocampo a tre. Questa sua duttilità tattica è una dote importante almeno quanto la sua capacità di ribaltare l’azione in velocità ed essere decisivo in zona gol. E questo lo rende un calciatore completo, molto apprezzato dai suoi allenatori.
Grande la stima nei confronti del presidente Campedelli, una persona speciale
Birsa è ormai una delle colonne portanti del Chievo
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INTERVISTA Valter Birsa
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taggio importante. Poi d’estate non ci sono mai grandi stravolgimenti e questo conta. Il mister e il suo staff, infine, sono professionisti eccellenti e se siamo in questa situazione è anche grazie a loro ed è con loro che ci piacerebbe fare il salto di qualità”. Un giudizio su Maran? “Credo che sia un allenatore sottovalutato, per il lavoro che ha fatto meriterebbe ben altra considerazione da parte della critica. Per quanto mi riguarda è uno dei migliori tecnici in circolazione, perché tatticamente è preparatissimo e poi fa giocare bene la sua squadra. Non ho dubbi che continuando così riceverà le attenzioni che merita”. Cos’hai trovato al Chievo che altrove non hai trovato? “Come dicevo prima, credo che il fattore “serenità” sia stato determinante. In ogni caso io al Milan sono stato benissimo, ma anche in tutte le altre società in cui ho giocato. Qui a Verona e al Chievo, però, credo di aver trovato la mia dimensione ideale. Vale per me ma anche per la mia famiglia: qui si vive bene,
Lo sloveno si è legato ai gialloblù fino al giugno del 2021
c’è un gruppo molto affiatato e con lo staff si lavora alla grande. Dal punto di vista tattico, poi, credo che il mister mi abbia trovato la posizione perfetta, un ruolo in cui mi trovo molto bene e riesco ad esprimermi al meglio”. Rimpianti per il passato? Oggi Birsa al Milan farebbe meglio? “L’unico rimpianto che ho nella mia vita è di aver trascurato la scuola (ride, ndr). Per il
CHIEVO DOLCE CHIEVO... Valter Birsa ha avuto quanto meno una carriera da girovago: inizia in Patria ma ben presto il Sochaux si accorge delle sue doti e a soli 20 anni lo porta in Francia: tre stagioni nelle file dei Lionceaux con i quali riesce almeno a saggiare l’aria dell’Europa League. Nella sessione invernale del calciomercato del 2009 passa all’Auxerre, che trascina al terzo posto del campionato successivo, valido per i preliminari di Champions League nella stagione seguente. Ad agosto del 2010 è ancora decisivo nella qualificazione ai gironi di Champions a scapito del più quotato Zenit San Pietroburgo. Arriva a fine stagione in scadenza di contratto e il Genoa non si lascia sfuggire l’occasione: nel Grifone una sola annata con più ombre che luci prima di passare al Torino in prestito. A sorpresa nell’estate del 2013 il Milan lo richiede al Genoa nell’operazione Antonini. In rossonero giocherà solo una stagione, condendola con quindici presenze e due reti, poco per considerarla superlativa, ma abbastanza per non bollarla come fallimentare, anche perché due dei suoi tre gol hanno portato sei punti (decisivo contro la Samp e l’Udinese). Quella però è la stagione disgraziata dell’esonero di Allegri e dell’ottavo posto in classifica, quindi inevitabile che il giudizio sia in qualche modo inficiato dalle brutte performance di squadra. Nel 2014, però, l’operazione di mercato che gli cambia la vita: il Chievo lo richiede in prestito e da allora il Chievo diventa la sua casa. Questa è la sua quarta stagione nei veneti, dei quali è diventato titolare fisso ma anche elemento imprescindibile. Li chiamano leader. Ecco, forse ci ha messo un po’, come lui stesso ha ammesso nella nostra intervista, ma alla fine ha veramente trovato la sua dimensione.
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INTERVISTA Valter Birsa
resto non rimpiango nulla. L’esperienza al Milan è stata fantastica, anche se non era proprio il periodo migliore della storia rossonera, sono stato nel club più importante al mondo, ho giocato con gente che ha vinto il Pallone d’Oro e nello stadio più bello d’Italia, cosa avrei potuto chiedere di più? E, poi, comunque, io credo di aver fatto il mio in quella stagione. Sono contento di tutto quello che ho fatto nella mia carriera, non ho alcun rimpianto e rifarei esattamente tutte le scelte”. Hai rinnovato fino al 2021, quando avrai 35 anni: esageriamo se parliamo di bandiera? “Di bandiere qui ce ne sono tante. Posso dire che al Chievo ormai mi sento a casa e che sinceramente non mi vedrei da nessuna altra parte ormai. Sono grato al Presidente Campedelli che ha creduto in me e mi ha dato una chance importante dopo il Milan. L’ho detto e
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Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
lo ripeto, qui sto da Dio e non ho alcun motivo per cambiare”. A proposito del Presidente Campedelli: in molti sostengono che sia lui il vero segreto del Chievo… “Sono d’accordo, il Presidente è speciale: è al Chievo da 25 anni e pur in una società che a livello di bacino d’utenza non può competere con altre più quotate, l’ha portata ad un altissimo livello. Ci definiscono “piccola”, ma il Chievo non è “piccolo” e il Presidente è un “grande” (sorride, ndr)”, Rivedere il Chievo in Europa come accaduto qualche anno fa: sogno o utopia? “Questo non lo so, quello che ho imparato in tanti anni di carriera è che non ci si deve guardare mai indietro, ma sempre avanti. Certo, sapere quello che è stato fatto in passato può servire da stimolo e vedere esempi come Atalanta e Sassuolo fanno ben sperare, ma la forza del Chievo è sempre stata quella di non fare mai il passo più lungo della gamba. Noi dobbiamo seguire il nostro percorso e crescere passo dopo passo. È l’unico modo che conosco per arrivare a grandi traguardi”. Che obiettivo vorresti ancora raggiungere da qui a fine carriera? “Guarda, ormai non riesco più a guardare troppo a lungo termine. Il mio unico obiettivo è quello di stare bene, potermi allenare al massimo e tenere alto il ritmo. E sono convinto che, stando bene, posso raggiungere ancora tanti obiettivi importanti. Un passo alla volta”. Già, un passo alla volta, la filosofia del Chievo. E chissà che, passo dopo passo, un giorno non ci si accorga di essere tornati in Europa…
LA Carriera DI BIRSA Stagione Squadra Serie 2003-2004 2004-2005 2005-2006 2006-2007 2007-2008 2008-2009 gen.-giu. 2009 2009-2010 2010-2011 2011-2012 2012-2013 2013-2014 2014-2015 2015-2016 2016-2017 2017-2018
Primorje 1. SNL Gorica 1. SNL Gorica 1. SNL Sochaux L1 Sochaux L1 Sochaux L1 Auxerre L1 Auxerre L1 Auxerre L1 Genoa A Torino A Milan A Chievo A Chievo A Chievo A Chievo A
Totale Pres Reti
1 0 28 7 37 20 34 3 30 4 16 2 16 1 39 3 42 6 12 2 18 2 21 2 36 0 36 6 37 7 11 3
* Dati aggiornati al 28/11/2017
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Speciale
Chievo Verona di Sergio Stanco
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Il Chievo del futuro
Il Chievo non è solo la squadra più “esperta” della Serie A, ma anche un vivaio florido. Ne parliamo con Marco Fioretto, responsabile del settore giovanile dei veneti.
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uello che cerchiamo di inculcare nei nostri ragazzi tutti i giorni è che il talento è importante, ma non basta. Lo spirito di sacrificio e il lavoro quotidiano sono fondamentali, perché nel calcio nessuno ti regala niente”. Su questo punto Marco Fioretto, responsabile del settore giovanile del Chievo, insiste tantissimo durante la nostra intervista. E d’altronde, lui ne sa qualcosa, visto che a poco più di 40 anni si ritrova in “Serie A” pur non avendo una carriera da ex calciatore di alto livello. Anzi, la sua carriera da giocatore di Eccellenza si è interrotta
a 25 anni per un grave infortunio. Forse anche per questo spinge i suoi ragazzi a lavorare duro, a migliorarsi sempre, ma anche a studiare. È così che lui si è guadagnato la sua occasione, quando nel 2003 è arrivato al Chievo come allenatore in seconda degli Esordienti. Tanta gavetta, tanto impegno, fino ad arrivare in Paradiso. Quello che si augura per ognuno dei suoi ragazzi… Buongiorno Mister: dopo l’esclusione da Russia 2018 tutti a dire “bisogna ricominciare dai vivai”. È davvero così? “Sì è così, perché tutto comincia dai nostri
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Chievo Verona ragazzi, ma forse non c’era bisogno di aspettare un’esclusione dal Mondiale per capirlo. È da tempo che il nostro calcio è in crisi ed era evidente, solo che serve sempre una delusione per accorgersene. Per altro noi siamo usciti anche in maniera un po’ casuale, ma mi chiedo: se non fosse successo non sarebbe cambiato nulla? La maggior parte dei giocatori della nostra nazionale non gioca in club di prima fascia, questo dovrebbe farci riflettere”. Allora le chiedo: perché è così importante ricominciare dai settori giovanili? “Perché sono il futuro del nostro calcio, perché se siamo bravi riusciamo a far crescere i talenti di domani, ma bisogna cominciare a farlo, continuare a parlarne non serve a nulla”. Bene, qual è allora la ricetta? “Ci sono tante cose che andrebbero cambiate. Personalmente penso che per allenare i giovani servano professionisti. E con questo intendo dire allenatori specializzati in settori giovanili. Allenare i ragazzi non è come allenare i grandi,
Tra i tanti giovani in maglia Chievo, attenzione a Bastien
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servono altre competenze, conoscenze specifiche, che si acquisiscono studiando e con l’esperienza sul campo”. E a chi sostiene che i settori giovanili siano pieni di stranieri cosa risponde? “Che è un falso problema. Se ci sono tanti stranieri è perché hanno più voglia di arrivare rispetto ai giovani italiani che spesso sono coccolati e non hanno più spirito di sacrificio. Inutile stare a girarci intorno: basta un allenamento per accorgersi che gli stranieri hanno una marcia in più rispetto ai nostri ragazzi, sono più autonomi, ci mettono il cuore, non si arrendono mai, corrono dal primo all’ultimo minuto e hanno grande voglia di migliorarsi. Forse è anche un po’ colpa nostra, non riusciamo più a inculcare nei giovani che il talento non basta per arrivare all’obiettivo, ma bisogna sudare ogni giorno sul campo”. E magari anche per strada, dove i nostri ragazzi non giocano più... “Non è solo il fatto di giocare per strada, perché un allenamento
De Paoli, giovane di grande talento e dal futuro assicurato Credit Foto: Udali/Chievo
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Chievo Verona fatto bene vale più di tante ore giocate da soli, ma è proprio la quantità di tempo che oggi si dedica al calcio. Quando eravamo ragazzi, noi giocavamo praticamente tutto il giorno, oggi se va bene i ragazzi fanno otto ore di calcio alla settimana, quelle che noi facevamo solo la domenica. Ovvio che il mondo è cambiato, non si può vivere nel passato, ma probabilmente anche questo incide”. Il fatto che nelle serie minori i giovani giochino per regolamento è un vantaggio o un boomerang? “Per me è un boomerang, perché sparisce il concetto di meritocrazia. Se il ragazzo sa che la domenica giocherà al di là di come si sia allenato in settimana, secondo voi si impegnerà? Torniamo al concetto di sacrificio di cui parlavamo prima...”. Le famose squadre B sono la panacea di tutti i mali allora? “Non sono la soluzione definitiva ma aiuterebbero ad andare nella direzione giusta, quella di far misurare i nostri ragazzi in un campionato competitivo e farli crescere più rapidamente”. Tornando a voi: per il Chievo il settore giovanile è... “Da una parte una necessità, nel senso che un club come il nostro ha il dovere di puntare sui ragazzi nella speranza che riescano ad arrivare in prima squadra oppure che possano essere ceduti ad altre squadre; dall’altra però è anche un orgoglio, perché quando vedi la Primavera essere eliminata nella Final Eight giocando alla pari con l’Inter che poi ha vinto il campionato dello scorso anno, perdendo solo per 1-0 e con in campo 10 ragazzi del nostro settore giovanile, allora ti convinci di essere sulla strada giusta”. Quanto vi dà fastidio sentir ripetere sempre che il Chievo è la squadra più vecchia della Serie A? “Ma no, ci lascia piuttosto indifferenti, anche perché rispetto all’anno scorso la rosa è stata addirittura svecchiata. Abbiamo già iniziato
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un processo di ringiovanimento nelle scorse stagioni che piano piano si intensificherà nelle prossime”. E chi glielo dice a Sorrentino e Pellissier? “Io no (ride, ndr). A parte gli scherzi, l’esperienza in uno spogliatoio è un elemento imprescindibile e i giocatori di una certa età servono sia in campo sia fuori, per dare l’esempio e far capire ai giovani cosa serve per arrivare, e soprattutto restare, ad alti livelli. Io dico sempre che la squadra perfetta è un mix tra giovani e meno giovani, diciamo così”. E a proposito dei giovani del Chievo, ce li descrive? “Ovviamente ho più competenza su quelli che arrivano dal nostro vivaio, come De Paoli. Ecco, tornando al discorso che facevamo prima sullo spirito di sacrificio, questo è l’esempio perfetto: De Paoli era un giocatore bravo, di indiscusso talento, ma che è arrivato in A perché ha lavorato duro, più di altri che magari erano più tecnici di lui, ma che non
hanno dimostrato la stessa voglia. È arrivato da noi che era bambino, 8-9 anni, e per venire agli allenamenti ha preso ogni volta il bus: avanti-indietro Trento-Verona. Non ha mai mollato. E i suoi sacrifici sono stati ripagati. Vederlo in Serie A è un orgoglio per tutti noi ed uno stimolo per gli altri ragazzi che sognano di ripercorrerne le orme”. Un altro di cui si dice un gran bene è Vignato.
“Ecco, lui è invece il classico giocatore baciato dal talento, un predestinato, un funambolo, di quelli che ti basta un allenamento per dire “è un fenomeno”. Questo però nel calcio moderno non basta più, servono anche tenacia e doti fisiche. È ancora molto giovane e può ancora crescere, in tutti i sensi, speriamo che il fisico non costituisca un problema. È l’unica incognita, perché per il resto si vede ad occhio nudo che ha i numeri. Noi crediamo tantissimo in lui”. Andando ancora più indietro negli anni, chi sarà il prossimo Vignato? “Mi verrebbe da dire Vignato, il fratellino del 2004, che sembra avere le stesse qualità. Stiamo però parlando di un ragazzino, per cui è ancora presto. Tuttavia, quello che mi lascia tranquillo è che nei nostri settori giovanili ci sono tanti De Paoli, nel senso di tanti ragazzi che si impegnano tantissimo negli allenamenti e che dimostrano grande determinazione”.
vecchi a chi? Sorrentino, Pellissier, Gamberini, Dainelli, Birsa sono l’anima di questo Chievo, ma anche le chiocce pronte a guidare i ragazzi che si affacciano alla prima squadra. E nonostante le cronache continuino a rimarcare l’età media elevata dei veneti, i giovani pronti a stupire in maglia gialloblu non sono pochi: il primo della lista è Fabio De Paoli, aitante centrocampista ventenne, prodotto e orgoglio del settore giovanile. Per lui esordio in A nella scorsa stagione, ma è in questa che Maran lo ha lanciato definitivamente nella mischia. Fiducia ripagata, visto che il ragazzo ha fatto talmente bene da guadagnarsi la convocazione nell’Under 21 di Di Biagio. Emanuel Vignato, invece, si è guadagnato le copertine nel finale della scorsa stagione per un curioso siparietto: Francesco Totti gli si è avvicinato e stupito dalla sua faccia imberbe ha scambiato con lui un paio di battute: “Ma tu chi sei? Ma quanti anni hai? Ammazza, pari mi fijo”. Ed è proprio in quel Roma-Chievo penultima del campionato scorso che Maran gli ha regalato la gioia dell’esordio a 16 anni! Chissà che non sia un segnale, visto che al talentino di origini brasiliane preconizzano un “funambolico” futuro. Il belga Samuel Bastien, invece, è il più “esperto” dei tre (classe 1996) e anche quello che sta collezionando il maggior numero di presenze in prima squadra. Prodotto del florido settore giovanile dell’Anderlecht, il Chievo lo ha pescato dall’Avellino due stagioni fa e nella scorsa gli ha già dato fiducia (12 presenze e 1 gol). Pronti a seguire le orme del belga, anche il tedesco Gianluca Gaudino (classe 1996 e figlio di Maurizio, centravanti dello Stoccarda campione di Germania nel ’92) e il polacco Mariusz Stepinski (classe 1995, già nazionale polacco), che ha bagnato il suo esordio in A con il gol al Cagliari meno di 10’ dopo il suo ingresso in campo. Se non è un segno del destino questo…
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I S U L C S E A T INTERVIS Shalimar e Victoire di Sergio Stanco
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AGENTI SPECIALI Incontriamo Shalimar e Victoire Cogevina Reynal, che negli Stati Uniti hanno fondato e gestiscono l’agenzia SR All Stars. Mamma Shalimar fa la procuratrice, la figlia Victoria si occupa dell’immagine dei loro assistiti. Nella MLS statunitense sono potentissime…
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n giocatore che chiede supporto alla sua consulente finanziaria per un problema contrattuale con il suo club. La collaboratrice si dimostra così preparata, professionale ed efficace, che viene di fatto “promossa” ad agente. È così che, di fatto, nasce l’agenzia SR All Stars. Il giocatore in questione è l’attuale capitano dei Seattle Saunders nella Major League statunitense, il cubano Osvaldo Alonso, e la collaboratrice (oggi procuratrice) è Shalimar Reynal, che gestisce l’agenzia insieme alla figlia Victoire. Due donne nel “machissimo” mondo del pallone che - però - non si fanno affatto intimidire e che, anzi, dalla nascita dell’agenzia ad oggi, si sono fatte largo, facendo incetta di giocatori e allargando
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Shalimar e Victoire il loro business anche ai diritti d’immagine e ad attività di pubbliche relazioni, anche di ex calciatori come Mario Alberto Kempes. Il segreto? Ce lo confida la stessa Shalimar nella pancia di San Siro, quando la incontriamo in occasione di Italia-Svezia: “Quando parto sono così decisa che non mi ferma nessuno”. E lo vediamo con i nostri occhi: parte e salta tutti i controlli, non la ferma davvero nessuno! Noi riusciamo a bloccarla qualche minuto, giusto il tempo di questa intervista… La nascita dell’agenzia l’abbiamo descritta, ma poi come è cresciuta fino ad arrivare ad essere una delle più influenti degli Stati Uniti e del Sudamerica? “Risolto il problema contrattuale di Ozzi (Osvaldo Alonso appunto, ndr), sono di fatto diventata il suo agente – ci racconta Shalimar – e lui ha cominciato a parlare di me ai suoi compagni di squadra, ho ottenuto la licenza FIFA e ho coinvolto mia figlia Victoire, che aveva esperienze di marketing. Insieme ci siamo fissate l’obiettivo di occuparci dei contratti dei giocatori, ma anche dei loro diritti di immagine, offrendo un servizio a 360°. Tanto per fare un esempio, per un nostro giocatore cubano vicino al ritiro stiamo lavorando alla realizzazione un film sulla sua storia”.
“Abbiamo trattato con il Genoa per qualche affare, che però non è andato a buon fine” Due donne nel mondo del calcio: un’impresa titanica? “Essere donne e lavorare nel calcio non è stato così difficile per noi. Abbiamo scoperto da poco di essere la prima agenzia al femminile, è un orgoglio ovviamente, ma per noi è stato “naturale”. Anzi, la cosa ci ha forse agevolato. A volte ci si dimentica che siamo l’agenzia che gestisce il maggior numero di
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giocatori della MLS e si guarda a noi solo perché siamo donne, ma lo accettiamo, anche perché sappiamo che il mondo del calcio è “machista”, no?”. Di cosa andate più fiere? “Io di avere una figlia così brillante – ci risponde cuore di mamma Shalimar – che mi affianca in questa grande avventura ogni giorno della mia vita”. “Mia mamma è sempre stata una pioniera – interviene Victoire – ha rotto tutti i cliché, occupandosi di cose “da uomini”. È molto intelligente, la ammiro perché è sempre pronta ad aiutare tutti, in particolare i suoi giocatori, che tratta come se fossero i suoi figli”. Chi sono i vostri assistiti? “I nostri clienti sono ex calciatori come Mario Alberto Kempes, campione Mondiale con l’Argentina nel ’78 o nazionali ancora in atti-
IL GIRAMONDO Nicolas Lodeiro è un centrocampista dei Seattle Saunders, ma ha un percorso di carriera quanto meno originale: nato nel 1989 in Uruguay, è nel suo paese che ha cominciato a tirare i primi calci, attirando l’attenzione degli osservatori del Nacional di Montevideo. La sua permanenza in Patria come calciatore, però, dura davvero poco, perché a 21 anni l’Ajax nota il suo talento e lo porta ad Amsterdam completando la sua colonia uruguagia con Bruno Silva (oggi tornato in Uruguay) e Luis Suarez (attuale centravanti del Barcellona e della nazionale uruguagia). In Olanda trascorre un paio di anni senza grande fortuna, poi a scadenza di contratto si trasferisce al Botafogo. Clarence Seedorf, suo compagno di squadra, per lui spese parole importanti: “È un giocatore di grande talento”. E detto dal professore… Al Botafogo resta due stagioni prima di trasferirsi al Corinthians, dove invece ne gioca solo una nonostante un contratto di 4 anni. In tutto questo girovagare, e nonostante gli alti e bassi, Lodeiro in Patria ha sempre goduto di grande considerazione e infatti è sempre rimasto nel giro della Nazionale. Nel 2015, poi, si trasferisce in Argentina e veste la gloriosa maglia del Boca: è lì che si consacra definitivamente, diventando un elemento chiave della squadra che vinse campionato e coppa d’Argentina nel 2015. Nel 2016, dopo una cocente delusione in Libertadores, decide di abbracciare la causa della MLS e si unisce ai Seattle Saunders, con i quali vince il titolo proprio nel 2016 battendo in finale il Toronto di Giovinco. A fine stagione la MLS gli consegnerà il premio come “Rookie” (miglior nuovo giocatore) dell’anno. Con la sua Nazionale, invece, ha vinto la Coppa America conquistata in Argentina nel 2011.
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Shalimar e Victoire vità, come Nicolas Lodeiro dell’Uruguay che gioca nei Seattle Saunders. Questi solo per fare qualche esempio, perché ne gestiamo tantissimi”. La MLS è il vostro principale mercato giusto? Come mai? “Il nostro posizionamento nella MLS è stato naturale, il nostro primo cliente giocava negli Stati Uniti ed era praticamente il “Messi” della MLS. Poi noi abbiamo base a Miami, dunque è normale che gli USA siano il nostro mercato di riferimento, però ci stiamo allargando. Non mettiamo limiti, ormai il mercato è globale. Ora, ad esempio, stiamo lavorando in Premier League, un campionato che ci affascina”. E in Italia? “Abbiamo trattato con il Genoa per qualche affare, che però non è andato a buon fine. Tuttavia siamo state contattate da diversi giocatori, dunque non è detto che presto non
si riesca a concludere qualcosa”. In Italia Wanda Nara è ovviamente molto famosa per essere l’agente di Icardi: la conoscete, avete avuto rapporti, è un riferimento a cui ispirarsi? “Wanda è una ragazza molto intelligente, che sta gestendo benissimo la carriera di Icardi e che se adesso è in Nazionale molto lo deve a lei”. Che ne pensate del calcio italiano, calciatori italiani ed esclusione dai mondiali? “Il calcio italiano ha tantissima storia, è uno dei più importante al mondo. L’esclusione dai mondiali potrebbe essere l’occasione di rilancio. A livello tecnico potrebbe essere l’opportunità di cambiare le cose, anche in quanto a mentalità e gioco, perché a mio parere le qualità individuali ci sono”. Anche l’Argentina ha rischiato di essere esclusa da Russia 18, ma voi avete Messi: è questa la differenza?
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Shalimar e Victoire “Beh, Messi fa sempre la differenza, in questo caso ancora di più, perché ha realizzato i gol che servivano all’Argentina per andare ai Mondiali. Comunque in generale è un vero leader, una guida per tutti i compagni”.
“A volte ci si dimentica che siamo l’agenzia che gestisce il maggior numero di giocatori della MLS e si guarda a noi solo perché siamo donne” Il giocatore italiano che ammirate di più? “Totti e Buffon – risponde Victoire - entrambi per la loro professionalità e per la signorilità dentro e fuori dal campo. Totti anche per il suo essere stato bandiera della Roma per tutta la carriera”. Arriverà mai un altro Maradona in Italia? “Di Maradona ce n’è uno solo (sorridono, ndr), ma certamente arriveranno tanti altri giocatori argentini forti come accade ogni anno. Higuain e Dybala, ad esempio, non sono affatto male”.
DONNE AL COMANDO In Italia non esiste un’agenzia come la SR All Stars, ma forse nemmeno qualcosa di paragonabile. Il mondo del calcio, e soprattutto quello degli agenti, è ancora abbastanza “machista”, anche se qualche esempio, o sarebbe meglio dire qualche tentativo di “emancipazione”, c’è stato anche da noi. Silvia Patruno, ad esempio, è stata la prima donna italiana ad iscriversi all’albo FIFA, la sua carriera inizia addirittura nel ’90-’91, si può tranquillamente definire una pioniera nel campo. Da allora qualche altra collega ne ha seguito le tracce, ma il lavoro di agente, ancora oggi, è quasi esclusivamente appannaggio dei colleghi uomini. Tuttavia, con l’espansione dell’attività “classica” alla questione dei diritti di immagine, pubbliche relazioni, social media, eventi e sponsorship, il calcio si sta tingendo - piano piano - di rosa. In ogni caso, anche in passato le signore hanno sempre contato tanto, in particolare le mogli dei calciatori: si dice che quella di Zidane sia stata fondamentale per il trasferimento del francese dalla Juve al Real Madrid e che quella di Ibra lo abbia riportato a Milano (al Milan precisamente) dopo una sola stagione al Barcellona, dove non si era mai ambientato (o ambientata?). Poi ci sono le mamme, consigliere fidate e spesso fattori determinanti nella carriera dei giocatori: come
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Non è argentino ma arriva dall’Argentina: un vostro giudizio su Bentancur? In questi primi mesi ha impressionato… “È un giocatore molto intelligente e che ha il pregio di seguire attentamente le indicazioni del suo allenatore, per questo ha vestito una maglia importante come quella del Boca e al
momento di lasciare l’Argentina erano tante le squadre che lo avrebbero preso volentieri”. Un giocatore argentino o sudamericano o della MLS che consigliereste? “Senza dubbio il nostro Nicolás Lodeiro, un giocatore che in Europa sarebbe in grado di fare la differenza in ogni squadra”.
quella di Rabiot, 22enne centrocampista del PSG, che pare un mastino inarrestabile quando c’è da ridiscutere i contratti. La signora Veronique, infatti, è l’unica autorizzata a discutere il futuro di Adrien. Madre-procuratrice, insomma, chissà che non possa fare scuola e lanciare una nuova professione. Col passaggio alla proprietà cinese, invece, Barbara Berlusconi non ha potuto continuare il suo lavoro, ma se oggi esiste Casa Milan, la nuova avveniristica sede del club rossonero, è soprattutto merito di una sua intuizione. Attualmente, invece, a sventolare la bandiera “rosa” nel calcio italico, tocca a Jacqueline De Laurentiis, moglie del Presidente del Napoli nonché Vicepresidente del club partenopeo.
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antes, città di quasi 300.000 abitanti legata alla storia della Bretagna nonostante sia il capoluogo del dipartimento della Loira Atlantica, famosa per aver dato i natali, l’8 febbraio 1828, a Giulio Verne. Primavera del 1943, Nantes come tutta la Francia è occupata dai nazisti, il porto e la zona industriale sono diventati una risorsa strategica per la produzione bellica tedesca e di conseguenza un obiettivo per i raid dell’aviazione alleata. Nonostante tutto c’è chi pensa al calcio, alcuni uomini di sport si riuniscono per fondare una squadra in grado di dare lustro sportivo alla città e di scalare la piramide del calcio. In città sono attive dai primi anni del secolo diverse squadre di calcio, le principali sono il Saint-Pierre de Nantes (sodalizio fondato nel 1881 con una sezione calcio attiva dal 1907, colori rosso e blu) , il Mellinet (fondato nel 1902 con la palla rotonda introdotta nel 1906, colori bianco e nero) e lo Stade Nantais Université Club (fondato nel 1903 per il rugby e poco dopo aperto anche al calcio, colori rosso, verde e bianco), oltre ad altre piccole società. Un primo progetto per unire le forze è portato avanti dagli ambiziosi dirigenti dello SNUC, in particolare i signori Berte, Parlant, Marliere, e Astorg. Un secondo progetto è guidato da Marcel Saupin, presidente del Mellinet, e dai si-
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gnori Dufraiche e Simon, rispettivamente presidenti di due club dei dintorni di Nantes; lo Stade Olympique Cholet, colori rosso e nero fondato nel 1913, e l’US Basse Indre, colori rosso e verde fondato nel 1916. Questo secondo progetto è sostenuto da Gabriel Hanot, prima calciatore poi allenatore e giornalista, fu il fautore del professionismo in Francia. I due progetti sono in concorrenza tra loro e l’ago della bilancia è il Saint-Pierre, squadra di punta in città che ha raggiunto il livello più alto del calcio dilettantistico nazionale. Durante una riunione tenutasi nella sede dello SNUC, i dirigenti di questo club danno prova di malafede e Bocqueho (dirigente del Saint-Pierre) si oppone apertamente ad Astorg (SNUC). Il dado è tratto, Braud e Geoffry (presidente e dirigente del Saint-Pierre) prendono la decisione di appoggiare il progetto di Saupin. Il 24 marzo si riunisce l’assemblea generale dei soci del Saint-Pierre, all’ordine del giorno il cambio di denominazione della sezione calcio in FC Nantes e l’elezione di otto membri chiamati a formare il primo consiglio direttivo. Il 5 aprile il direttivo si riunisce presso il Café Maurice in Place du Commerce, mentre la fondazione ufficiale del Nantes FC avviene il 21 aprile 1943 presso il Café de Alliés in Rue de la Fosse, erano presenti esponenti di tutti i club calcistici di Nantes e dintorni, SNUC compreso. Del direttivo fa parte anche Jean Le Guillou, uomo d’affari arricchitosi durante l’occupazione tedesca, possiede locali notturni a Parigi, gioiellerie, boutique di alta moda ed anche un scuderia di cavalli. Il cavallo più forte è Ali Pacha ed i fantini della scuderia vestono di giallo e verde, Guillou convince il direttivo che con quei colori la squadra di calcio diventerà forte come il suo cavallo favorito. Per la stagione 1943/44 il Nantes viene inserito nel Championnat Fédéral Amateur, raggruppamento Bretagne Anjou, la prima partita si gioca domenica 12 settembre 1943 sul campo Malakoff, costruito da Le Guillou e strappato al rugby, prezzo del biglietto 30 franchi. I Nantesi superano brillantemente la
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prova battendo 4-1 (Lodo, David, Crépin e Vischer i marcatori) l’AS Brest, a fine stagione la squadra conquisterà un ottimo secondo posto. La divisa è composta da maglia di colore giallo intenso con un vistoso collo verde a camicia chiuso da tre bottoni e polsi verdi, pantaloncini bianchi e calzettoni gialli. La stagione successiva la divisa rimane invariata ed il Nantes vince il suo primo trofeo, la Coupe d’Anjou. Nella stagione 1945/46 i Canarini giocano la loro prima stagione tra i professionisti della D2, la maglia è completamente gialla, sempre con collo a camicia chiuso da bottoni, abbinata a pantaloncini bianchi o verdi e calzettoni gialli con risvolto verde. Nelle stagioni 1948/49 e seguente la maglia è gialla con collo a camicia verde chiuso da bottoni, le maniche sono verdi. Si torna ad una maglia completamente gialla con collo a camicia nel 1950/51, i pantaloncini sono verdi ed i calzettoni verdi con risvolto giallo. Nella stagione 1952/53, seguendo i canoni della moda del tempo, maglia gialla con collo a V verde e ampia V sempre verde sul petto, pantaloncini bianchi e calzettoni a righe
orizzontali gialloverdi. Questa divisa, che offre anche una variazione con collo a camicia verde di foggia più ampia, sarà in voga fino alla fine del decennio. Nel 1960/61 maglia decisamente più moderna nello stile, gialla con collo a girocollo verde ed ampie strisce verticali verdi sui fianchi con riporto sulle spalle, pantaloncini bianchi e calzettoni gialli con risvolto verde, come sempre. Questa è la divisa con cui i Canarini conquistano la D1 al termine della stagione 1962/63. Per l’esordio nella massima divisione, stagione 1963/64, i Nantesi sfoggiano una maglia gialla con eleganti bordi formati da una doppia striscia verde, il collo è a girocollo, sono anni importanti per il club che vince il campionato nel 1965 e nel 1966, quando raggiunge per la prima volta anche la finale di Coppa nazionale venendo sconfitto dallo Strasburgo, ed il secondo posto nel 1967. Come campione di Francia il Nantes ha diritto a fregiarsi del colletto tricolore nelle stagioni 1966/67 e seguente (nel periodo tra la metà degli anni 60 e la metà degli anni 80, i campioni adornavano la maglia di bordi bian-
corossoblù), successivamente si torna ad un collo verde a V mentre pantaloncini e calzettoni rimangono invariati. Nel frattempo, 1965/66, compare il logo dello sponsor tecnico, il galletto della Le Coq Sportif, al tempo azienda leader nella fornitura di materiale sportivo in Francia. Nella stagione 1969/70 e seguente un’elegante maglia con doppio bordo verde e doppia striscia orizzontale, sempre verde. Questa maglia viene usata saltuariamente fino alla stagione 1973/74. Nel 1969 approda al club per occuparsi del marketing Jean-Claude Darmon, un pioniere del settore in Francia. Sarà lui a registrare il marchio del club, a riempire il bordo campo di cartelloni pubblicitari e soprattutto a convincere Michel Axel, imprenditore nel settore della moda, a versare al Nantes 15.000 Franchi per mettere il suo nome sulle maglie dei Canarini nella stagione 1972/73. Questo è l’inizio di un periodo d’oro per il Nantes che in una dozzina di stagioni vince quattro campionati, arriva secondo in cinque occasioni, vince una Coppa nazionale ed arriva in semifinale di Coppa delle Coppe. Nella stagione 1973/74 la maglia è gialla con bordi tricolori, i Canarini sono campioni di Francia della passata stagione, i pantaloncini neri ed i calzettoni gialli con bordi verdi. Nella stagione 1974/75 cambia lo sponsor tecnico, si passa all’Adidas che prepara una maglia completamente gialla, il collo è a V, con le tre strisce verdi sulle maniche, pantaloncini neri e calzettoni gialli con bordi verdi. Nella stagione seguente ritornano i bordi verdi con collo a girocollo, il resto della divisa è immutato. Nella stagione 1976/77 la maglia prevede una versione estiva con collo a V senza bordi verdi ed una invernale con bordi verdi e collo a girocollo, ritornano i pantaloncini verdi e compare, come main sponsor, il logo Europe1 di dimensioni molto grandi sulla maglia. L’anno successivo arriva una delle maglie più belle mai viste sul rettangolo di gioco, sia per abbinamento cromatico che per disegno. Maglia gialla con bordi verdi e maniche dello stesso colo-
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re, collo a V, pantaloncini verdi e calzettoni gialli, il logo dello sponsor con il numero 1 fuori misura sul petto completa questa meraviglia. Nelle coppe europee, causa il divieto di esporre loghi pubblicitari, la maglia è più sobria ma sempre bella con i bordi tricolori ad impreziosire la maglia gialla con le maniche verdi. Nelle stagioni 1978/79 e seguente maglia di nuovo completamente gialla con bordi verdi, versione invernale con collo a girocollo e versione estiva con collo a camicia con scollo a V, pantaloncini verdi e calzettoni gialli con bordi verdi. Questa è la maglia resa famosa da Bob Marley, il cantante giamaicano si è esibito a Nantes il 2 luglio del 1980 e prima del concerto ha chiesto di incontrare i giocatori del Nantes, laureatosi campione nazionale pochi mesi prima. Bob Marley, che indossava la maglia dei Canarini, ed i Wailers hanno sfidato in una partita 5 contro 5 Henri Michel, Loïc Amisse, Gilles Rampillon, Bruno Baronchelli e Jean-Paul Bertrand-Demanes nel centro di alle-
namento della squadra. Nel biennio 1980/81 (in questa stagione finisce un record di imbattibilità durato 92 partite allo Stade Marcel Saupin tra il 4 giugno 1976, pareggio 1-1 con il Nizza ed il 7 aprile 1981, sconfitta 0-1 con l’Auxerre) e 1981/82 maglia in stile gessato gialla con righine sottili verdi, collo a camicia giallo chiuso da un triangolo verde davanti e polsi verdi, calzoncini e calzettoni rimangono uguali alla stagione precedente. Per le prime uscite della stagione 1982/83 la maglia resta la stessa, bisogna svuotare il magazzino, poi nuova versione: sempre gessata ma con collo verde a V. Nelle stagioni 1983/84 e seguenti si torna ad una blusa tutta gialla prima con collo a camicia giallo chiuso da un triangolo verde e poi con collo a V verde. L’8 maggio 1984 viene inaugurato lo Stade de la Beaujoire, partita amichevole contro la Romania. Nel biennio 1984/85 e seguente l’Adidas fornisce una maglia gialla con quattro righe verdi orizzontali nella parte alta del busto e righine sottili nel
resto della maglia, collo a camicia verde chiusura a V gialla sul davanti. Nelle due stagioni successive collo verde a girocollo nella versione invernale e collo a camicia verde con chiusura a V gialla nella versione estiva, ritorna come sponsor la radio Europe1 ma con un marchio più piccolo. Nella stagione 1987/88 la Patrick presenta una divisa diversa: la blusa con vistosi inserti verdi e bianchi mentre i pantaloncini gialli e i calzettoni bianchi, le rivoluzioni stilistiche di fine millennio sono cominciate. Nel 1990/91 torna l’Adidas come fornitore, lasciando la divisa praticamente invariata. Nel 1991/92 ritornano i fianchi verdi e spariscono gli inserti di colore bianco dalla maglia, la stagione seguente la maglia è gialloverde a strisce verticali, pantaloncini gialli e calzettoni gialli con risvolti verdi, cambiano i fornitori e cambiano le divise ad ogni stagione ma con questo stile a strisce si arriva alla fine del millennio. Nell’ultima partita della stagione 1994/95, campionato vinto con una serie di imbattibilità di 32 partite, il Nantes scende in campo con uno scudetto tricolore sul petto. Nel 2000/01 ritorna la Coq Sportif che ripropone una maglia gialla con ampie strisce su spalle e maniche, il giallo ormai è di nuovo il colore dominante, salvo un’ultima stagione a strisce nel 2010/11, talvolta aumenta lo spazio del verde come nella stagione in corso che vede una maglia con le maniche verdi dopo quarant’anni. Agli inizi le maglie da trasferta erano esattamente opposte alle maglie da casa, verdi con inserti gialli. Negli anni 70 arrivano prima la maglia blu e successivamente, dal 1973/74 la maglia rossa. Molto belle le divise completamente rosse con strisce gialloverdi su maniche e pantaloncini e logo dello sponsor Europe1 in giallo e verde, in voga nella seconda metà del decennio. Negli anni 80 e 90 domina il bianco e nel nuovo millennio più varietà di colori con spazio per il nero e l’azzurro, colore poco amato dai tifosi perché richiama i rivali del Bordeaux, oltre ai colori usati in passato. Nel 2002 il Nantes si presenta a Sochaux con le divise
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LE antes A I N C SPE he ric
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gialle, i padroni di casa, anch’essi di giallo vestiti, rifiutano di indossare la maglia di riserva e gli ospiti devono scendere in campo con delle maglie bianche con la scritta Champion sul petto. Si trattava delle maglie di allenamento del Sochaux, il Nantes si vendicò vincendo la partita. In Coppa di Francia, a partire dalla fine degli anni 60, tutte le squadre sono fornite da un unico fornitore che ha un contratto di sponsorizzazione con la FFF, stesso discorso per lo sponsor sulla maglia, questo implica che le squadre, pur mantenendo i propri colori indossano maglie diverse rispetto al campionato. Lo stemma societario appare in maniera stabile sulle maglie del Nantes a partire dalla stagione 1976/77, nel corso degli anni ci sono stati diversi restyling ma il blasone societario è tradizionalmente ispirato all’emblema araldico della città, la goletta a rappresentare il legame con il mare e gli ermellini a ricordare l’appartenenza della città al Ducato di Bretagna. A partire dalla stagione 1988/89 fino alla stagione 1997/97, è comparso uno stemma più moderno ispirato al logo della città, un’onda a rappresentare la posizione fluviale e marittima di Nantes, con l’aggiunta delle stelle, una per ogni campionato vinto. Nel 1997 si è tornati ad uno stemma tradizionale, rivisto poi in stile moderno nel 2003. Negli anni tra il 1992 ed il 2007 la denominazione del club era diventata FC Nantes Atlantique mentre nel 2008 compare la versione attuale, ispirato allo stemma del Barcellona come stile pur riprendendo i canoni tradizionali. Nel catalogo HW del Subbuteo il Nantes è il numero 142, la divisa dei primi anni settanta in tre versioni: maglia gialla con bordi e doppia striscia orizzontale in verde abbinata a pantaloncini bianchi e calzettoni gialli con bordo verde; stessa livrea ma con pantaloncini neri per il catalogo francese Delacoste, infine maglia gialla con bordi verdi accompagnata da pantaloncini verdi e calzettoni gialli con bordi verdi. Un ringraziamento a Didier del sito maillots-nantais.com.
Credit Foto maglie: www.maillots-nantais.com - www.celticdream.it
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reportage nottingham di Gianfranco Giordano Foto di Gianfranco Giordano
NOTTINGHAM CITTÀ DEL FOOTBALL Gazze, garibaldini ed un pioniere del calcio italiano
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ottingham, città di circa 300.000 di abitanti, capoluogo della contea del Nottinghamshire adagiata sulle rive del fiume Trent. Fondata dagli Anglo-Sassoni intorno al 600 d.c. e successivamente occupata dai Vichinghi, vide l’inizio della guerra civile inglese nel 1642. Durante la rivoluzione industriale divenne famosa per le industrie tessili, soprattutto merletti, ma dopo la seconda guerra mondiale l’industria tessile decadde provocando una forte crisi economica. La leggenda vuole che qui si siano affrontati un infallibile arciere di nome Robin Hood ed il perfido Sceriffo, questi personaggi, ripresi nei modi più disparati da film, cartoni e libri, hanno reso la città celebre in tutti gli angoli del mondo. Ma Nottingham è famosa anche per essere una città storica per il football con due
squadre importanti ed un pioniere della palla rotonda, le cui gesta sono altrettanto leggendarie. Si tratta, in ordine di apparizione, del Notts County FC, del Nottingham Forest FC e di Herbert Kilpin. Come se non bastasse c’è anche un pub, il Ye Olde Trip to Jerusalem che si arroga il diritto di essere il pub più antico d’Inghilterra. Ci sono abbastanza spunti per una visita alla città. Il viaggio in treno da Londra, partenza da St Pancrass, dura quasi due ore senza cambi, la stazione ferroviaria è in ottima posizione, vicina al centro città a metà strada tra la zona degli stadi e la casa natale di Herbert Kilpin. Cominciamo il tour dalla Radcliff Road, strada che divide Trent Bridge e City Ground, circa 300 metri separano i due impianti. Come il 99,9% degli italiani non capisco nulla di cricket
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reportage nottingham ma, vista la vicinanza, faccio un salto a vedere Trent Bridge. Incastrato tra Radcliffe Road, Bridgeford Road e Hound Road, Trent Bridge è lo stadio di cricket più importante della città, qui gioca il Nottinghamshire County Cricket Club, vincitore di sei campionati di contea, inoltre lo stadio ha ospitato anche alcune partite della Nazionale inglese di cricket e del Notts County, prima che le Magpies si trasferissero a Meadow Lane. Inaugurato nel 1841, è stato completamente rimodernato all’inizio degli anni 2000 ed ha una capienza di 17.500 spettatori. Ritorno verso Radcliffe Road per far visita alla casa del Forest, le traverse portano verso la Bridgford Stand e la Main Stand. Percorro Pavillon Road, arrivo all’ingresso della Main Stand ed al negozio, entrambi chiusi, continuo a camminare ed imbocco Trentside, il lungo fiume che mi conduce sotto la Trent End passando davanti alla sede del Nottingham Rowing Club. Il lungo fiume è tranquillo, alcune imbarcazioni a remi solcano le acque calme, a parte alcuni ciclisti in giro non c’è nessuno, oltre il fiume s’intravvede lo stadio dei rivali a sole 300 iarde di distanza in linea aerea, sono i due stadi per il calcio professionistico più vicini in Inghilterra (nel Regno Unito solo i due stadi di Dundee sono più vicini). Il Nottingham Forest, la denominazione deriva dal primo terreno di gioco ovvero il Forest Recreation Ground nella zona nord della città, venne fondato nel 1865 da un gruppo di giocatori di shinty, un gioco di origini gaeliche simile all’hockey su prato, riunitisi al
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Clinton Arms. Durante la riunione venne deciso che i giocatori avrebbero indossato il Garibaldi Red, in onore di Giuseppe Garibaldi al tempo molto popolare in Inghilterra, così il Forest divenne la prima squadra inglese ad aver adottato con un documento ufficiale il rosso come colore sociale, fu anche fu il primo club ad adottare i parastinchi (1874) ed a fornire all’arbitro un fischietto (1878). La prima partita venne disputata il 22 marzo 1866 contro il Notts County, risultato a reti bianche come per la partita di ritorno giocata un mese dopo. Il club ebbe il suo periodo migliore nella seconda metà degli anni Settanta sotto la guida del mitico Brian Clough, quando vinse un campionato da neopromosso e due Coppe dei Campioni, 1978/79 e 1979/80. Ancora oggi il Forest è l’unico club ad avere in bacheca più Coppe dei Campioni che campionati nazionali. Il City Ground ospita le partite del Nottingham Forest dal 3 settembre 1888 ed ha una capienza di 30.500 spettatori circa, nel 1996 ha ospitato le partite del gruppo D del Campionato Europeo. Torno indietro e svolto a destra in London Road oltrepassando il fiume, dal ponte c’è una bella vista sul Trent e sul City Ground, lo stadio è in perfetto stile inglese con le quattro stand separate e posso vedere uno squarcio della Brian Clough End. Proseguo, svolto a destra in Meadow Lane e raggiungo lo stadio. Fondato nel 1862, il Notts County è il più vecchio club professionistico del mondo ancora in attività, anche se l’attività agonistica regolare comincia nel 1864 e la prima partita ufficiale contro un
altro club, lo Sheffield FC, risale al 2 gennaio 1865. Adotta dal 1890 i colori bianco e nero della scuderia ippica del Duca di Portland, a ricordare che questa nobile famiglia ha governato la contea per molti anni. Club dal palmares limitato, in bacheca c’è solo una FA Cup vinta nel lontano 1894, ha partecipato alla fondazione della Football League. Meadow Lane venne inaugurato nel 1910 e, nel periodo tra l’autunno del 2006 e la primavera del 2014, ha ospitato le partite interne del Nottingham Rugby Union FC. Qui si svolgono anche incontri che vedono opposte le squadre delle due università cittadine, la Nottingham Trent University e l’University of Nottingham. Attualmente ha una capacità di 19.841 spettatori, ma il record di presenze (47.310 spettatori) risale al 12 maggio 1955 quando il Notts County venne sconfitto dallo York City nel sesto turno di FA Cup. Il cancello principale è aperto ed entro all’interno del perimetro dello stadio, ci sono persone che lavorano ma nessuno mi dice niente. Anche Meadow Lane è un tipico stadio inglese con le quattro tribune separate tra loro, davanti a me c’è lo spazio tra la Derek Pavis Stand e la Family Stand, il cancello è chiuso ma ho lo stesso un’ottima visuale sul campo e ne approfitto per fare alcune fotografie, di fronte la Kop Stand e la Jimmy Sirrel Stand con la classica loggetta contenente lo stemma del club. Esco su Meadow Lane e faccio tutto il giro attorno allo stadio percorrendo County Road e Cattle Market Road per poi tor-
nare in London Road e dirigermi a Nord. Dopo una mezzora di cammino, nel frattempo mi sono spostato un po’ verso il centro città, arrivo all’inizio di Mansfield Road e continuo a camminare verso nord, mi sto avvicinando al mio vero obiettivo di questo pellegrinaggio a Nottingham. Mansfield Road è una grossa arteria che dal centro porta verso la periferia nord della città, costeggiata da classiche case in mattoni rossi. Sul lato sinistro una serie di casette con tre piani fuori terra, finalmente arrivo al civico 191 dove c’è un’abitazione ormai abbandonata, qui c’è l’ex macelleria della famiglia Kilpin. In questa casa il 24 gennaio 1870, all’epoca il numero era 129 ma in seguito c’è stata una rinumerazione, nacque Herbert Kilpin uno dei padri fondatori del Milan. Nel 1891 Kilpin si trasferì a Torino per lavoro, su pressione del commerciante di tessuti Alberto Bosio, conosciuto a Nottingham. Nel 1891 contribuì a fondare l’Internazionale Torino, di cui fu anche giocatore. Nel 1898 si trasferì a Milano con il connazionale Samuel Richard Davies, e nel dicembre del 1899 contribuì alla fondazione del Milan Foot Ball and Cricket Club. Sua la famosa frase che stabilì i colori sociali del Milan: “Noi siamo diavoli ed i nostri colori saranno il rosso come il fuoco ed il nero come la paura che incuteremo agli avversari”. Arrivo sul posto, mi fermo ad osservare la casa poi attacco sulla facciata lo stendardo della Fossa Torino, che porto sempre con me quando vado a vedere le partite del Fleet, un poster del sito
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reportage nottingham Magliarossonera.it, ed una placca celebrativa. Lo stendardo ovviamente lo porterò via. Mentre sono lì davanti penso che tutto è cominciato in quella casa, che questi colori, che porto addosso come un’ossessione da sempre, sono nati qui e mi emoziono. Nel frattempo alcuni pedoni guardano la scena e si fermano, un uomo si avvicina e mi dice che sa che in quella casa è nato Herbert Kilpin e chiacchieriamo un po’. Scatto alcune fotografie, rimango ancora un po’ in adorazione poi vado via, emozionato e felice di questo mio piccolo pellegrinaggio in onore di un grande uomo di calcio. Mi piange il cuore a vedere quella casa abbandonata, sarebbe bello se la dirigenza del Milan comprasse la casa per darle la dignità che merita, ma questi sono sogni di un tifoso che non vanno d’accordo con il calcio business odierno. Kilpin morì il 22 ottobre 1916, venne sepolto al Cimitero Maggiore di Milano e poi dimenticato. Solo nel 2010 i suoi resti, grazie all’interesse di un tifoso del Milan, vennero trasferiti al Cimitero Monumentale. Finito il pellegrinaggio dedico il pomeriggio alla visita della città, in particolare la Council House in Old Market Square ed il castello. Il centro offre tre attrazioni che non si possono perdere: la statua di Brian Clough, la statua di Robin Hood ed il Ye Olde Trip to Jerusalem. Brian Howard Clough è nato a Middlesbrough il 21 marzo 1935 ed è morto a Derby il 20 settembre 2004, stroncato da un tumore. Attaccante prolifico, 251 reti in 274 presenze in campionato tra Middlesborugh e Sunderland, dovette ritirarsi
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dal calcio giocato a soli 29 anni a causa di un grave infortunio al ginocchio. Cominciò la carriera di allenatore nel 1965 con l’Hartlepools United, per passare successivamente al Derby County, Leeds United e Nottingham Forest. La parentesi al Leeds durò solo 48 giorni e si chiuse in mezzo a feroci polemiche. Molto più felici le esperienze con Rams e Forest, in entrambi i casi prese la squadra in Seconda Divisione ed arrivò a vincere il titolo di Prima Divisione. A Nottingham rimase 18 anni, vincendo un campionato di First Division, quattro League Cup, un Charity Shield, due Full Members Cup, una Supercoppa Europea, due volte la Coppa dei Campioni ed ottenne un record di imbattibilità in campionato durato 42 partite. Negli ultimi anni passati sulla panchina del Forest, Clough indossò spesso una maglia verde, sembra che la prima volta abbia preso una maglia di riserva del portiere Shilton trovata in un magazzino poi è nata la leggenda del verde porta fortuna. La statua è posta alla congiunzione tra King Street e Queen Street, in centro a due passi da Old Market Square, ed è stata scoperta il primo novembre 2008. La statua di Robin Hood invece, è posta davanti al castello. Il Ye olde Trip to Jerusalem è il più vecchio pub in Inghilterra (così dicono loro) e la fondazione risale al 1189. Scavato nella roccia ai piedi del castello, con i muri dipinti di bianco ed un arredamento caratteristico, è un po’ claustrofobico ma molto affascinante, merita una visita ed una bevuta. Il 22 ottobre, centounesimo anniversario della morte di Herbert Kilpin, il Lord Mayor della città di Nottingham ha partecipato ad una cerimonia durante la quale è stata posta una placca commemorativa sulla dimora natale, la cui facciata è stata restaurata. Contestualmente la Nottingham City Transport ha dedicato a Kilpin un autobus, il nome del fondatore del Milan compare sul muso del mezzo, e la fermata dei mezzi pubblici posta proprio davanti alla casa. A quanto pare nella città dello Sceriffo tengono ad Herbert Kilpin molto più che a Casa Milan.
TEMPO DI CALCIATORI 2017-2018!
Come da tradizione, in edicola la nuova collezione Panini dedicata alle star del calcio italiano…
Attesa terminata. CALCIATORI 2017–2018 è finalmente disponibile e, anche quest’anno, l’album è di dimensioni esagerate, un MAXI ALBUM di 128 pagine per raccogliere al suo interno le 746 figurine della collezione e raccontare, come solo la collezione CALCIATORI sa fare, il calcio italiano. Le novità di questa edizione sono come sempre molte a partire dalla copertina che racchiude in una sola immagine tutti gli elementi che rendono unico il calcio e le figurine Panini: le mani di un bambino che portano in alto, come un trofeo, un pallone. Ed il pallone, il protagonista principale, contiene al suo interno le immagini dei grandi campioni della Serie A Tim. CALCIATORI 2017-2018 risulta interamente rinnovata in tutte le sue sezioni con importanti arricchimenti anche per la parte dedicata alle squadre della Serie A Tim, dove il divertimento inizia già a partire dalle caselle destinate alle figurine dei calciatori. Nuovi scudetti, le maglie delle squadre, gli stickers speciali degli allenatori, le figurine degli stadi, la Bomberstory, il calcio femminile e molto altro ancora ti aspettano in CALCIATORI 2017-2018. I numeri sono da urlo: 746 complessive + 20 del Film del campionato che si aggiungeranno nei prossimi mesi e 48 del calciomercato che verranno vendute in referenza specifica. Ma non finisce qui. Con la nuova collezione Calciatori 2017-2018 si possono vincere le mitiche bustine speciali CALCIATORI GOL! In ogni bustina di Calciatori c’è un coupon che ti dice se hai vinto una o più bustine di Calciatori Gol! Per ritirare la bustina di Calciatori Gol! E’ sufficiente recarsi in edicola e consegnare il coupon all’edicolante che ti restituirà una bustina Calciatori Gol! All’interno delle bustine Calciatori Gol si trovano scudetti della collezione Calciatori 2017-2018 e una card UOMINI COPERTINA. Le card UOMINI COPERTINA sono in tutto 20, una per ogni squadra di Serie A. Pronti a divertirvi con la nuova collezione CALCIATORI 2017-2018?
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Paulo Roberto Falcao di Fabrizio Ponciroli
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L’OTTAVO RE DI ROMA Un campione speciale, diverso, unico: Paulo Roberto Falcao… Servizio fotografico a cura di Daniele Mascolo
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aulo Roberto Falcao. È sufficiente evocarne il nome per riportare alla memoria un calcio meraviglioso, quello dei magnifici anni ’80, quando l’Italia del pallone era il top nel mondo. La Serie A era inzuppata di campionissimi. A Roma c’era un condottiero di nome Falcao, la quintessenza dell’eleganza calcistica. Un brasiliano atipico, uno che pensava a vincere, piuttosto che al numero “da brasiliano”. Falcao ha portato a Roma il sapore della vittoria e ha contagiato l’intero popolo giallorosso. C’è stata una Roma prima e una Roma dopo Falcao… Lo abbiamo incontrato, durante Sport & Movies TV 2017, kermesse in cui, con lo splendido docu-film “Chiedi chi era Falcao”, griffata dall’abilissimo regista David Rossi, ha ottenuto la prestigiosa “Mention d’Honneur”… Un’intervista atipica. Come accadeva ai tempi in cui giocava a calcio, è stato Falcao a dirigere le operazioni… A voi il meglio di un’abbondante ora in compagnia dell’Ottavo Re di Roma… Giunti all’Hotel Dei Cavalieri, a Milano, aspettiamo nella hall… Il primo a presentarsi è David Rossi, Direttore di Radio Roma, regista
del docu-film e amico di Falcao: “All’interno di un progetto pensato per raccontare la storia della Roma, ci è sembrata una buona idea dedicare una monografia ad un mito come Falcao”. Appena viene proferito il nome della leggenda giallorossa, ecco che appare… È mattina, tempo di colazione: “Roberto, tu caffè e un bicchiere d’acqua, giusto?”, chiede David. “Caffè ma niente acqua”, la risposta di Falcao che si lascia andare ad un sorriso beffardo… “Ma se bevi sempre dell’acqua dopo il caffè…” Insiste David. “No, questa volta no, solo per darti contro”, replica il brasiliano che, un secondo più tardi, dopo aver scambiato due chiacchiere con il sottoscritto e il
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Paulo Roberto Falcao fotografo Daniele, aggiunge: “David, Ecco quindi che, anche le nuove geanche dell’acqua grazie…”. nerazioni, sanno chi è Falcao, perNon c’è bisogno di fare domande ché, grazie a lui, la Roma ha fatto un specifiche, Falcao è un abile regista, passo in avanti culturale e sportivo. sa come comportarsi in certe situaCi sono stati tanti grandi giocatori a zioni… “Che bello tornare in Italia, Roma ma Falcao è stato quello che mi trovo sempre bene qui. In queha creato un nuovo modo di vivere sti ultimi due/tre anni, sono venuto la Roma”. diverse volte in Italia, sia per lanFalcao ascolta con interesse e agciare il film che anche per vacanze. giunge: “Non mi dimenticherò mai Onestamente mi piacerebbe starci uno dei miei primi giorni a Roma. più tempo. Guarda, quello che mi Stavo in hotel, a Roma. Stavo bestupisce ogni volta, è l’affetto della vendo un caffè. Mi si avvicina un gente nei miei confronti. Sono tantifoso e mi chiede: “Falcao, quando ti anni che non gioco, sono 32 anni cominci a fare i numeri?”. Una doche non scendo in campo, eppure manda classica perché, a quei temci sono sempre tantissime persone pi, si pensava al giocatore brasiliano che mi fermano o mi chiedono un come al giocoliere che fa i numeri autografo e, spesso, sono dei rada circo con il pallone. Io gli ho rigazzini che, quando giocavo io, non sposto: “Vuoi che faccia i numeri o erano neanche nati. Tutto questo è che vinciamo lo Scudetto?”. Il tifomagico”. È straordinario ascoltare so si è quasi messo a ridere. Come Falcao… Non lo interrompiamo: “Ti poteva la Roma vincere lo Scudetracconto un aneddoto. Nel 2007, al to? Era impossibile per il tifoso di compleanno della Roma, ero nella allora… Questa è la mentalità che capitale. Mentre mi trovavo in macho trovato quando sono arrivato a china, ho notato che un’auto ci stava Roma. Io venivo dall’Internacional, seguendo da tantissimo tempo. Viavevo vinto tre volte il titolo brasisto i tempi, ho iniziato anche a preliano, avevo giocato la finale di Copa occuparmi… Alla fine ci accostiamo, Libertadores. Nel 1979 avevo vinto il ero curioso di capire che stesse actitolo senza mai perdere una partita, cadendo. Dall’auto che ci seguiva, mai successo in Brasile. Io ero abiSi ringrazia Panini sono scesi due ragazzi, di circa 20 tuato a vincere e volevo continuare per la gentile concessione anni, che mi hanno chiesto di fare vincere. Ecco, quello che ho fatto a delle immagini una foto con loro. È stato pazzesco. Roma, è portare una mentalità vinProbabilmente il padre gli aveva raccente, far capire che chi giocava da contato di me ma un conto è vedere un giosei in pagella poteva arrivare a sette/otto in catore dal vivo, un altro farselo raccontare. pagella. Una mentalità che, però, deve venire Eppure erano lì per me…”. dal cuore. Le parole non contano…”. Interviene David Rossi… “C’è una spiegazione Siamo deliziati da Falcao che snocciola anedseria a tutto questo che ben si nota nel docudoti a ripetizione: “C’è una storia che riguarfilm “Chiedi chi era Falcao”. Lui ha creato, da me e Maldera. Eravamo pronti a giocare, a dal suo arrivo a Roma, una cultura romaniRoma, contro l’Avellino. Maldera mi si avvicista che prima non c’era. Lui è la chiave del na e mi dice: ‘Oggi è dura’. Io gli chiedo: ‘Ma passaggio dalla Rometta alla Magica Roma. perché è dura? Se è dura in casa, contro l’A-
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vellino, allora cosa faremo quando andremo a giocare a Torino con la Juventus?’. Quella partita, per la cronaca, l’abbiamo vinta”. Appena viene citata la Juventus, Falcao indossa i panni dell’allenatore e ci stupisce: “Quando giocavamo contro la Juventus, Trapattoni mi metteva sempre un uomo addosso. Solitamente era Bonini. Mi marcava a uomo, non mi mollava mai. Sai cosa facevo io? Io andavo vicino a Scirea. Bonini era costretto a seguirmi e così erano in due a marcarmi. Due su di me voleva dire più libertà per un mio compagno di squadra”. Strategia, intelligenza, intuizione. L’Ottavo Re di Roma ci regala un’altra chicca: “Nel Napoli, tutto il gioco della squadra passava dai piedi di Krol. Io ricordo di aver detto a Pruzzo di andare a pressare su Krol, così da fargli perdere il ritmo. Ovunque andava Krol, c’era anche Pruzzo… È stato fantastico, anche se Pruzzo si arrabbiava perché, correndo così, era meno fresco sotto porta”. Riusciamo ad inserirci. Facciamo notare a
Falcao che, in quegli anni, la Serie A era il top… Un assist che il brasiliano raccoglie al volo: “In quel periodo, non era affatto facile vincere a Roma. Il potere calcistico era altrove. La Roma è riuscita ad imporsi nel tempo, grazie anche a Liedholm, l’allenatore migliore che io abbia mai avuto. Aveva sempre la battuta pronta, era una persona fantastica.
CHIEDI CHI ERA FALCAO Raccontare Falcao è una missione. Il docu-film “Chiedi chi era Falcao” è un meraviglioso viaggio, in compagnia dell’asso brasiliano, all’interno dell’universo Roma. Falcao ne è soddisfatto: “È stato bellissimo. Ho rivisto, grazie a questo film, persone che non vedevo da 40/50 anni. Sono tornato a quell’epoca, ho rivissuto sia cose belle che cose non belle. Mi ha ricordato come, nella vita, tutto passa. C’è una storia che voglio dirvi. È la storia di un principe ricchissimo. Ha tutto quello che una persona può desiderare ma chiede ad un orefice di realizzare qualcosa che possa aiutarlo sia quando si sente un dio, sia quando è troppo triste. Dopo tre giorni, l’orefice si presenta e mostra il suo lavoro: un semplice anello, senza nessuna gemma preziosa. Il principe non riesce a capire… All’interno c’è una scritta: ‘Questo passa’… Ecco, credo che sia l’essenza della vita. Devi sempre pensare, sia quando le cose vanno alla grande, sia quando accade una tragedia, che ci sarà sempre un domani e che tutto passa… Io guardo al passato con il sorriso, anche quando mi vengono in mente i momenti più tristi”. Insomma, una monografia emozionante, come conferma il regista David Rossi: “La chiave del film sta nel titolo. Io ho avuto la fortuna di vederlo dal vivo Falcao ma ho voluto fare il film anche per chi non ha avuto modo di conoscere Falcao da giocatore. Quando sono stato in Brasile, mi sono reso conto che non stavo realizzando solo una monografia su un calciatore famoso ma su una persona straordinaria, con un carisma fuori dal comune. Ho capito quanto ha dovuto sudare Falcao per diventare quello che è oggi. È stato davvero istruttivo”.
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Paulo Roberto Falcao
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Foto Liverani
Tutti erano con lui, lo rispettavamo. Anche la stampa lo amava. Scherzava sempre. Aveva un modo di vedere il mondo e il calcio davvero unico”. Ci spostiamo sull’altro amore di Falcao: la nazionale brasiliana. Gli chiedo del Brasile del 1982, una delle squadre con più talento di sempre, fermata, tuttavia, dall’Italia nella corsa al Mondiale: “Come gioco e talento, difficile trovare un’altra squadra così forte. Avevamo una grande condizione atletica, fisicità, con giocatori come me, Cerezo o Socrates. C’era Zico, poi avevamo Eder. Due treni come Junior e Leandro. Eravamo pure forti di testa, con Oscar e me. Purtroppo, in un torneo come il Mondiale, può succedere di tutto. L’Italia, contro di noi, ha fatto una partita bellissima. Anche perché, attenzione, l’Italia aveva una squadra davvero fortissima. Scirea, Conti, Cabrini, Tardelli e Rossi che si è svegliato proprio contro di noi. È stato un grande dispiacere, forse più di altre sconfitte perché c’era un intero Paese a spingere la nostra
squadra. Comunque siamo comunque entrati nella storia. Nonostante quella squadra non sia riuscita a vincere il Mondiale, a chiunque chiedi del 1982, ti parla di noi. Siamo qui, a distanza di 35 anni, e ancora parliamo di quel Brasile”. Ed ecco che fuoriesce, nuovamente, il Falcao allenatore: “La mia idea di calcio è sempre stata che, in campo, devi giocare bene. Se tu vinci giocando male, ti può andar bene una volta ma, alla lunga, smetterai di vincere. Non dura. Ecco, noi eravamo giocatori che sapevano giocare bene a calcio. Infatti tutti hanno avuto una carriera importante”. Usciamo dal contesto Brasile 1982 ed entriamo in tackle: c’è un nuovo Falcao al giorno d’oggi? “Questa è la domanda che mi fanno tutti. Ogni volta penso ad una risposta intelligente da dare, ma non mi viene nulla (ride, ndr). Guardando al Brasile, dico che Neymar è, al momento, il nostro miglior talento. È molto bravo, è il nostro fuoriclasse. Forse, rispetto ai nostri tempi, c’è più povertà calci-
LA Carriera DI Falcao
Stagione
1971 1972 1973 1974 1975 1976 1977 1978 1979 1980 1980-1981 1981-1982 1982-1983 1983-1984 1984-1985 1985 1986
Squadra
Internacional Internacional Internacional Internacional Internacional Internacional Internacional Internacional Internacional Internacional Roma Roma Roma Roma Roma San Paolo San Paolo
Serie A A A A A A A A A A A A A A A A A
Pres
Totale Reti
0 0 34 21 19 15 9 27 20 12 32 30 39 43 8 0 10
0 0 0 2 1 5 0 5 5 3 4 6 10 6 1 0 0
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Paulo Roberto Falcao stica. Vale per tutti gli ambienti, non solo calcistici. C’è meno qualità in giro, meno talento. In Brasile, ai miei tempi, c’erano 3/4 giocatori di talento per squadra. Ora fatichi a trovarne uno ma, nel calcio di oggi, s’è hai organizzazione, allora puoi vincere. Il Corinthians ha vinto proprio grazie alla sua miglior organizzazione di gioco. Ecco, nel calcio moderno, la figura dell’allenatore, conta molto di più, proprio perché c’è più attenzione alla tattica, all’organizzazione e meno talento”. Falcao è uno spasso. Mentre ci prendiamo una pausa, torna a parlare della sua esperienza italiana. Ci si interroga su chi sia riuscito a metterlo più in difficoltà in campo: “Il guardalinee vale?”. Non c’è altro da aggiungere… Anzi, c’è qualcosa da aggiungere: “Guarda, il giocatore che mi ha più impressionato in quegli anni è stato Tardelli. Quando stava bene fisicamente, era un portento. Faceva di tutto
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in campo. Sapeva marcare e pure impostare il gioco. Ed era anche un giocatore rispettoso dell’avversario. Ricordo una partita contro di lui. Io avevo problemi al ginocchio. In un momento del gioco, lui avrebbe potuto affondare il tackle e magari farmi male ma non lo fece… Un signore”. Il tempo stringe e abbiamo ancora tanto da chiedere. Cerchiamo di scoprire l’attuale rapporto di Falcao con il calcio moderno: “Il problema di oggi è che c’è troppo calcio. In Brasile, ad esempio, si gioca tutte le sere e, poi, ci sono tutti i campionati stranieri d’élite, come Premier, Liga, Bundesliga e, ovviamente, la Serie A. Non è neanche facile seguire tutte le squadre e tutti i campionati. Sicuramente il Barcellona mi diverte sempre, così come il Real Madrid. Ad esempio mi piace l’idea che, in Italia, ci siano, quest’anno, più squadre che possono lottare per lo Scudetto. È un bene per il calcio italiano”. Calcio italiano, ecco che, automaticamente, si finisce a parlare della clamorosa eliminazione dal Mondiale dell’Italia: “In Brasile continuano a chiedermi cosa sia successo… Mi chiedono cosa dicono in Italia. Io rispondo che sono tutti tristi e, onestamente, lo siamo tutti. Comunque io credo che ci sarà un riscatto. L’Italia è un paese che vive di calcio, non può restare ai margini per troppo tempo. Questa eliminazione deve servire da esempio per non sbagliare più. Bisogna pensare a fare un grande Europeo ma senza troppa pressione. L’Italia sa giocare a calcio”. E pure Falcao sapeva giocare a calcio… Ci informano che siamo ben oltre il tempo a nostra disposizione. Staremmo ore, forse giorni interi a parlare di pallone con un maestro, di calcio e di vita, come Falcao. Purtroppo lo dobbiamo salutare. Prima gli mostriamo un album di figurine Calciatori Panini, edizione 1983/84, con la sua caricatura. Lui guarda anche le altre caricature: “Mamma mia, quanta gente forte che c’era in Italia”. Come dargli torto, gli anni ’80 sono stati uno spasso…
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una vita, un’impresa Ernesto Pellegrini: un grande imprenditore e un uomo nerazzurro...
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o abbiamo incontrato, a Palazzo Giureconsulti, in quel di Milano, per un evento organizzato dalla FICTS. Sempre disponibile, Ernesto Pellegrini, ex presidente dell’Inter (ruolo ricoperto dal 1984 al 1995), ha spiegato ai presenti il motivo per cui non fa più parte del calcio italiano: “Mi hanno offerto, negli anni, tante società di calcio ma io sono sempre stato legato all’Inter, la squadra per cui faccio il tifo”. Come dargli torto… E un suo ritorno alla Beneamata: “Guardi - risponde con enorme eleganza -, io sono abituato a comandare in azienda e all’Inter non potrei farlo, quindi non credo sia fattibile…”. Poche parole ma che ben esprimono la personalità di un uomo che “si è fatto da solo”. La sua vita è un susseguirsi di sfide, la maggior parte delle quali vinte. Per comprendere a fondo il personaggio, consigliamo un libro “Una vita, un’impresa”, una sorta di diario in cui è raccolta l’intera storia,
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sportiva e professionale, di un uomo che non ha mai smesso di guardare al futuro… “Tutto è cominciato da una cascina e ora sono arrivato fino a qui”, svela… In effetti, di strada, il buon Ernesto Pellegrini l’ha fatta. Oltre agli innegabili e superlativi traguardi nel mondo degli affari, Pellegrini coltiva, da sempre, una grande passione per il calcio. Nel 1968, si legge nel suo libro, “… su La Notte, quotidiano del pomeriggio di allora, lessi un curioso titolo: ‘L’Alcione cerca un presidente’… Sarà la prima società calcistica ad averlo come presidente, per ben due anni. Tuttavia, il vero amore calcistico di Pellegrini era, è e resterà sempre l’Inter. Ci svela, nella chiacchierata informale post evento, di essere diventato tifoso della Beneamata attorno ai 14 anni e di aver amato alla follia giocatori come “Veleno” Lorenzi o “Nacka” Skoglund. Nel libro autobiografico scopriamo che la sua prima partita a San Siro è un Inter-Juventus (4 apri-
le 1954). Un 6-0 storico per i nerazzurri, con doppietta di Brighenti. Il primo “contatto” con il calcio che conta arriva grazie alla Juventus. La società di Pellegrini acquista la struttura alberghiera di Villar Perosa, da sempre sede del ritiro della Vecchia Signora. Ma il cuore batte per i colori dell’Inter. Decide così di scrivere all’allora presidente nerazzurro Fraizzoli per presentarsi e chiedere se ci sia posto, per un tifoso DOC come lui, nella società a tinte nerazzurre. La risposta di Fraizzoli arriva prontamente: Pellegrini, agli inizi degli anni ’80, entra a far parte del Consiglio Direttivo dell’Internazionale FC. In poco tempo diviene vicepresidente. Nell’autunno del 1983, Fraizzoli apre alla possibilità di farsi da parte e
“Da neo presidente e proprietario della Beneamata decide di fare subito un grande regalo al popolo nerazzurro: Rummenigge”
UN VERO SIGNORE Tra i giocatori che hanno militato nell’Inter durante la presidenza Pellegrini c’è anche Fulvio Collovati, Campione del Mondo 1982. Quattro le stagioni in nerazzurro, tutte con Pellegrini come presidente: “Una persona fantastica, con cui sono rimasto in contatto anche dopo aver concluso la mia attività da calciatore. Si è sempre comportato in maniera elegantissima, dimostrando di essere una persona vera e un grande tifoso dell’Inter”, ricorda lo stesso Collovati. La memoria torna agli anni da interista: “Era un presidente esigente ma non ha mai alzato la voce, anzi era sempre pronto a confrontarsi con tutti. Con lui mi piace ricordare le trasferte europee, tipo a Madrid, anche se, alla fine, ci è mancato qualcosa per regalargli qualche trofeo prima dell’Inter dei record”. Il ricordo va alla formazione 1984-85, superata dal Verona di Bagnoli: “È il cruccio della mia carriera e penso anche del presidente Pellegrini. Quella era una formazione davvero fortissima. Zenga, Bergomi, Ferry, Causio, Altobelli, Rummenigge, insomma uno squadrone. Purtroppo, nei momenti decisivi del campionato, ci è girata male”. Per fortuna, poi l’Inter di Pellegrini ha vinto: “Si è meritato ogni singolo trofeo e, a mio parere, per quello che ha dato all’Inter, avrebbe meritato anche qualche grande vittoria in più. È stato un grandissimo presidente e, come persona, ha creato un impero, restando sempre umile”.
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RETROSPETTIVE Grandi Presidenti
Ernesto pellegrini
Il giorno della presentazione di Rummenigge, primo grande colpo di Pellegrini - Credit Foto Liverani
pensa proprio a Pellegrini come suo degno successore. “Com’era nel suo stile franco e diretto, mi comunicò il prezzo d’acquisto del pacchetto azionario che deteneva, e che ammontava a poco più di 5 miliardi di lire. Presi qualche giorno di tempo per metabolizzare lo shock e, quando lo rincontrai per confermargli la mia disponibilità, siglò l’accordo alla maniera dei galantuomini d’altri tempi: con una stretta di mano”, si legge nel libro “Una
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vita, un’impresa”. Subentrato a Fraizzoli nel gennaio del 1984, Pellegrini decide, da neo presidente e proprietario della Beneamata (è il 17esimo della storia del club) di fare subito un grande regalo al popolo nerazzurro: arriva, per 6,2 miliardi di vecchie lire, Kalle Rummenigge, il fuoriclasse tedesco del Bayern Monaco. Una scelta voluta, a forza, dallo stesso Pellegrini che aveva un debole per Kalle e per la sua immensa classe. Oltre a Rummenigge,
alla Pinetina sono presenti altri nomi di grosso calibro come Collovati, Causio, Mandorlini, Zenga, Ferri e Brady. Sembra una squadra, con Castagner alla guida, destinata a vincere lo Scudetto ma, a festeggiare al termine della stagione 1984/85, sarà l’Hellas Verona di Bagnoli. “Campionato e Coppa della stagione 1984-85 mi avevano chiaramente dimostrato che per vincere non basta essere i più forti; bisogna fare i conti anche con l’impondera-
bile e la fortuna”, il commento letterario dello stesso Pellegrini ad un’annata nata sotto buoni auspici e terminata con un pugno di mosche tra le mani. In effetti, i primi anni di “presidenza” non portano grandi frutti a Pellegrini che investe tempo e risorse ma non alza al cielo nessun trofeo. La forza del presidente (e del suo staff) e di non arrendersi alle avversità, sicuri che, prima o poi, qualcosa di buono accadrà. La musica cambia nella sta-
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RETROSPETTIVE Grandi Presidenti
Ernesto pellegrini
gione 1988/89, quella passata alla storia per essere stata l’annata dell’Inter dei record (58 punti in 34 partite, quando la vittoria valeva ancora due punti). Nell’estate del 1988, al tecnico Trapattoni viene consegnata una rosa davvero di primissima qualità. Da Matthaus a Brehme, passando per “l’acquisto dell’ultima ora” Berti, oltre ad una rosa già eccezionale. L’Inter domina il campionato e il 29 maggio 1989, a San Siro, contro il Napoli, è matematicamente Campione d’Italia. “Quei momenti mi ripagavano dell’impegno profuso, degli onerosi investimenti, di qualche torto subito nei primi quattro anni della mia presidenza, delle delusioni e delle amarezze per gli obiettivi sfumati quando sembravano a portata di mano”, le parole del presidente riportate nella sua opera letteraria. Uno Scudetto vinto con merito, il primo di una serie di importanti successi. Nelle stagioni successive, ecco arrivare la Supercoppa Italiana (1989) e le
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due Coppa Uefa (1990/91 e 1993/94). Il tempo scorre e, come accade in ogni bella favola, arriva il momento di chiedersi se è giunto il momento di lasciare ad altri il compito di guidare l’Inter. Pellegrini inizia a pensare alla cessione della società. I media fanno mille nomi ma c’è un solo, vero candidato, come spiega, perfettamente, lo stesso Pellegrini: “La tifoseria cominciò a “spingere” il nome di Massimo Moratti, e penso che fu proprio questa pressione a persuaderlo”. L’Inter finisce nelle mani di Massimo Moratti. L’era nerazzurra di Ernesto Pellegrini va agli archivi. “La conclusione della presidenza dell’Inter mi tenne lontano dallo stadio per molti anni”. Per fortuna, il suo grande amore per i colori nerazzurri non è mai venuto meno, come ci confida mentre ci autografa il suo libro: “Sono sempre stato interista e lo sarò fino alla fine dei miei giorni”. Un grande imprenditore, un presidente straordinario: Ernesto Pellegrini.
I COLPI DI PELLEGRINI Nei suoi 11 anni di presidenza all’Inter, Ernesto Pellegrini ha messo a segno una serie di colpi importantissimi a livello di mercato. Ecco i migliori acquisti, quelli che sono rimasti nella storia del club. Al suo primo anno di presidenza, come già accennato, Pellegrini regala ai tifosi nerazzurri Karl-Heinz Rummenigge, il “primo grande colpo di mercato” della sua era. L’anno seguente, dai rivali storici della Juventus, arriva Marco Tardelli (resterà per due stagioni). Nel movimentato mercato estivo del 1985, oltre all’avvento di Giovanni Trapattoni sulla panchina, da registrare il memorabile colpo Daniel Passarella. Nell’estate del 1987, Pellegrini punta sul talento belga Enzo Scifo anche se saranno fondamentali, per i futuri successi, la riconferma di Walter Zenga e il rientro in squadra di Aldo Serena. È durante la finestra di mercato estiva del 1988 che l’Inter cambia marcia con gli innesti di Lothar Matthaus, Andreas Brehme e dell’ex Fiorentina Ramon Diaz. Arrivano anche due giovinastri che faranno parlare tanto di sé, ossia Nicola Berti e Alessandro Bianchi. Al via del campionato seguente, al posto di Ramon Diaz, viene presentato un altro nome da urlo: Jurgen Klinsmann. L’acquisto più rimarchevole dell’estate del 1990 è quello di Davide Fontolan. Si cerca di cambiare “filosofia” nella stagione 1991/92, affidandosi al tecnico Corrado Orrico e a giovani interessanti, come Stefano Desideri. Altra rivoluzione 12 mesi più tardi con Osvaldo Bagnoli in panchina e due acquisti di grande impatto mediatico come Darko Pancev e Totò Schillaci. Sembra l’inizio della fine ma il presidente ha ancora un paio di colpi da assestare. Agli inizi del 1993 ha già l’accordo con Dennis Bergkamp e Wilhem Jonk. L’ultimo nome di spicco arriva durante il mercato del 1994 con l’approdo, all’Inter, di Gianluca Pagliuca.
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DIETRO LE QUINTE
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Andrea Catellani
di Pierfrancesco Trocchi
LA FORZA
DELLA SERENITÀ Intervista ad Andrea Catellani, ex tra le altre di Spezia, Catania, Modena, Sassuolo ed Entella, con una grande storia da raccontare.
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e c’è qualcosa di più arduo del raggiungimento di un sogno, è doverci rinunciare. Pensare che, dal giorno dopo, quell’impeto che le grandi imprese regalano dovrà essere incanalato in altro modo per avere successo o, addirittura, non risultare controproducente. Lasciare alle spalle la carica di uno stadio gremito, di un goal, di uno spogliatoio in cui ti senti come a casa. Farebbe male ai più, soprattutto a 29 anni, ma non è stato così per Andrea Catellani, costretto al ritiro nella scorsa estate per un’inopportuna aritmia cardiaca. Opportuna, forse, per lui, che ha trasformato la malasorte in una sfida, spinto da una coriacea passione: quella per la vita. Quando i medici ti hanno comunicato la notizia, come hai reagito? “ Fu un fulmine a ciel sereno, io avevo già la testa al ritiro con la squadra. Quando, durante le visite mediche di inizio stagione, emerse questo problema, la mia unica speranza era che non ci fossero ripercussioni nella mia vita quotidiana. Fortunatamente, gli esami successivi hanno escluso questa eventualità”.
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L’hai accettato serenamente? “Ho cercato di vedere tutti gli aspetti positivi. È vero, non avrei più giocato, ma tutto ciò che ritenevo fondamentale sarebbe rimasto. Mia moglie, i miei genitori, i miei amici… Li avrei avuti al mio fianco. L’importante era questo, così ho subito cercato di voltare pagina”. Come ti sei sentito la mattina successiva ad un cambio così radicale?
“Durante la mia carriera, pensavo sempre che mi sarebbe piaciuto fare anche altro, quindi mi applicavo nel quotidiano, studiando e cercando di costruirmi delle conoscenze tali da farmi trovare pronto dopo il calcio giocato. Questo momento è arrivato prematuramente, ma sono rimasto molto sereno perché, grazie a questo, sapevo che la mia vita sarebbe risultata stimolante allo stesso modo”. È un approccio raro tra i calciatori. “Ai miei compagni più giovani ho sempre consigliato di cercare di sviluppare una propria cultura per crearsi un’alternativa. Forse in anticipo sulla tabella di marcia, ho sempre avuto interesse riguardo a ciò che ruotava attorno al marketing, al business, alla comunicazione nel mondo dello sport, mantenendo il cervello allenato”. E ti sei appena diplomato Direttore Sportivo con un bel 110 e lode! “Studiare per il corso non è stato faticoso, anzi, semplicemente un tentativo di disciplinare tutte le conoscenze che da calciatore avevo accumulato e che ora devo utilizzare”. Hai avuto da subito l’idea di diventare DS? “Il presidente Gozzi, fortunatamente, mi ha voluto nella famiglia della Virtus Entella, facendomi scegliere quello che avrei voluto fare. La mia intenzione era quella di dare un taglio più dirigenziale alle mie competenze, quindi ho passato questi ultimi mesi a fianco del DS Superbi e del DG Matteazzi, figure fondamentali per il mio apprendimento e la mia voglia di crescere”. All’Entella devi tantissimo, immagino. “Assolutamente. Ho trovato nel presidente una persona ricca di valori, dallo spessore umano incredibile; credo sia stato proprio questo a permettergli di essere un imprenditore di tale successo. Vengo sostenuto da una grande famiglia, prima che da una grande società, e la mia serenità è dovuta al fatto che ogni mia volontà è stata assecondata dall’Entella. Allo stato attuale, qual è il tuo ruolo in società? “Inizialmente ho ricoperto quello di scout, mentre ora sto cercando di fare tutto ciò che
il club richiede. L’Entella è molto attiva nel sociale, vado spesso nelle scuole a raccontare la mia storia, quindi sto seguendo un percorso di ampio respiro che mi sta formando sotto tanti aspetti. Ne sono davvero felice”. Parliamo della tua carriera. Cosa ti manca di più del calcio giocato? “Sicuramente il contatto quotidiano col pallone, appena vedo una pallina o un’arancia mi viene voglia di fare un palleggio. Per assurdo, però, la mia salvezza è stato sapere che da questo problema non sarei potuto tornare indietro, perciò ho dovuto cercare subito una soluzione al problema. Non volevo stare male, anzi, ma cambiare mentalità e cercare qualcosa che mi facesse stare bene allo stesso modo del campo”. Sei soddisfatto del tuo percorso da calciatore? “Sì, molto. Ho avuto la fortuna di aver creato e conservato grandi rapporti con ogni squadra in cui abbia militato, senza ricordi negativi né rimpianti. Inoltre, non ho mai subito infortuni e, se è finita qualche anno prima, pazienza. Sono sempre stato un ottimista, atteggiamento che mi ha aiutato molto durante i miei anni in campo e mi aiuta anche ora”. Quali sono le squadre che ti hanno segnato di più? “Oltre all’Entella, senza dubbio la Reggiana, la squadra della mia città, e La Spezia, città dove mi sono consacrato, dove vivo e dove ho stretto le più importanti amicizie”. E dove hai vinto anche la classifica dei cannonieri della B con 19 reti e segnato il millesimo goal della storia spezzina. “È assurdo, vista la grande rivalità che intercorre tra le due piazze liguri (ride, ndr). È stato qualcosa di speciale, davvero. È stato il periodo più bello della tua carriera? “Sì, anche perché ho avuto un allenatore, Nenad Bjelica, che a livello umano e affettivo mi ha dato più di tutti, rivelandosi essere una persona davvero eccezionale. In più, la città mi regalò qualcosa di fantastico, che è andato oltre il campo”. E se dovessi raccontarmi, invece, il momento
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più bello? “La vittoria del campionato di Serie C2 con la Reggiana, fu il coronamento di un sogno. È ciò per cui avevo lavorato fin da bambino, facendo tutta la trafila delle giovanili, il raccattapalle allo stadio… Prima di andare via da Reggio, avevo promesso a me stesso che non avrei lasciato la squadra così in basso dopo il fallimento, tanto che rifiutai squadre di A. Alla fine, ce l’abbiamo fatta”. Nei tuoi anni da calciatore incontrato anche tante personalità che sono diventate di spicco: Giuntoli, Di Francesco, Montella… “Anche Giampaolo, al Catania, Romairone, DS del Chievo, e Lo Monaco, grandissima personalità. Ho sempre cercato di “rubare” tanto da loro, è stata una fortuna perché ciò che ho appreso mi regala un valore aggiunto, ora che devo mettere le conoscenze in pratica”. Hai mai avuto il dubbio se fare il DS o l’allenatore? “Già da calciatore dicevo di no alla possibilità di allenare, perché sono sempre stato attratto dagli aspetti dirigenziali. Mi piacerebbe coniugare all’aspetto tecnico anche la conoscenza di ciò che, dal punto di vista finanziario e comunicativo, ruota intorno ad una società, per rendere la mia figura professionale la più completa possibile. Sono ancora giovanissimo e posso farlo”. Qual è il tuo sogno da DS? “Quello attuale per me è un periodo di formazione e non mi sono ancora dato obiettivi, fatico a delineare la mia carriera. Vivo alla giornata, saranno gli eventi ad identificare la strada che dovrò prendere. Ho tante persone più brave ed esperte di me che mi sostengono, anche solo con un consiglio o una telefonata: è il mio segreto per migliorare, con grande umiltà”. Oltre al lavoro, a quali altre passioni hai potuto dare spazio dopo il ritiro? “Ogni giorno c’è qualcosa di nuovo da fare, dunque ho molto tempo in meno rispetto a quando giocavo (ride, ndr). Ho dedicato il mio tempo libero soprattutto a mia moglie, che ha vissuto esattamente ciò che ho vissuto io, standole vi-
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cino e pensando tanto a lei. Tra i miei hobby, ho una grande passione per la pesca, anche se ultimamente l’ho un po’ trascurata”. E anche per il basket, dicono. “Sì, è una passione grande quasi come quella che ho per il calcio. Sono molto tifoso della Reggiana, di cui cerco sempre di guardare le partite, e, in generale, seguo il basket europeo e la NBA. La pallacanestro americana è una grande fonte d’ispirazione, soprattutto per quanto concerne il marketing. Gli statunitensi sono avanti anni luce, dovremmo prendere spunto da loro”. Soprattutto in un momento di tale difficoltà per il nostro calcio. Quale consiglio ti senti di dare?“Si dovrebbe ripartire dalla passione per il calcio, fare sì che non venga regolato da numeri o giochi di potere, evitare che venga gestito da persone che non lo hanno mai toccato con mano. Questa crisi può rappresentare una grande opportunità di cambiamento e ritengo che Damiano Tommasi sia il profilo giusto per guidarlo, perché è una persona che conosce dall’interno le dinamiche calcistiche. Dobbiamo tornare alle origini, a quello che ci ha fatto grandi”. Ad esempio? “L’Italia è terra di grandi difensori e di calciatori di infinita qualità, anche all’eccesso. Negli ultimi anni ci siamo “inquinati”, volendo assomigliare agli altri e dimenticandoci di noi stessi. È necessario fare un passo indietro, non pretendere che i difensori sappiano per forza giocare la palla o, all’inverso, rendere un giocatore di qualità anche di quantità. Non dimentichiamoci
SEMPRE AVANTI “Emiliano di nascita, ligure d’adozione”. Così si definisce Andrea Catellani, nato il 26 maggio 1988 a Reggio Emilia, città in cui muove i primi passi da calciatore. Infatti, segue tutta la trafila delle giovanili con la maglia della Reggiana, segnalandosi come attaccante centrale, fino al debutto da professionista nel 2005 in Serie C2. Catellani resta in amaranto fino alla promozione in C1, conseguita nella stagione 2007/08. Nell’annata seguente viene ceduto al Catania, che, per due anni consecutivi, decide di girarlo in prestito in Serie B, al Modena, dove colleziona 16 reti in 68 presenze. Nella stagione 2010/11 ancora un prestito, sempre in Emilia, ma questa volta a Sassuolo, per la prima delle due esperienze in neroverde. L’anno dopo, con la maglia dei siciliani, arriva finalmente il momento dell’esordio in A, agli ordini di Vincenzo Montella: 21 presenze e il primo ed unico goal nella massima serie. Ecco allora la seconda, più importante, parentesi a Sassuolo, dove, nel 2013, contribuisce con 6 reti alla prima, storica promozione degli emiliani in Serie A. La storia, però, viene fatta con lo Spezia, dove, dal 2013 al 2016, Andrea trova la propria consacrazione. In bianconero, infatti, nel 2014/15 con 19 goal diventa capocannoniere della Serie B, dopo più di settant’anni dall’ultimo alloro spezzino di Aquilotti. Ha tempo anche di segnare la millesima rete della storia del club, prima di un nuovo prestito, a Carpi, dove resta fino a gennaio 2017, quando viene acquistato dalla Virtus Entella. Dopo una buona partenza, il 29 luglio è costretto ad annunciare il proprio ritiro, ma rimane in società come scout. Ora, una nuova sfida: fare goal anche dalla scrivania da DS!
mai che la nostra scuola resta quella più invidiata del mondo”. Ripartire dalle basi, quindi. Cosa diresti ad un ragazzino che inizia la sua carriera ora? “Troppo spesso il calciatore sta sotto ad una campana di vetro, staccato dalla realtà, la sua vita si limita quasi sempre soltanto al proprio mestiere, senza la volontà di costruirsi un’esistenza al di fuori del pallone. Molti ragazzi non riescono a capire che l’esperienza del calciatore è temporanea, quindi, sì, bisogna fare il proprio lavoro al meglio, ma completarlo con altro, come la semplice lettura di un libro o la cura di quegli affetti che sai di poter avere sempre al tuo fianco. Sembra scontato, ma prenderne coscienza è il primo passo per vivere una vita extracalcistica felice”. Queste parole dimostrano che il tuo profilo è davvero atipico, lontano dagli stereotipi. “Deriva dall’educazione che ho avuto fin da bambino, la mia famiglia ha sempre fatto sì che il calcio venisse sempre dopo la scuola, anche
perché mia madre è professoressa di italiano e ha sempre tenuto molto a questo aspetto. Era normale, quindi, dedicarmi ad altro prima che al pallone. Ha ricevuto gli stessi insegnamenti anche Giorgio Chiellini, che, al di là del campo, resterà una grandissima risorsa per il calcio italiano. Giorgio deve essere un esempio, perché dietro al calciatore c’è un uomo ed è compito di tutto il sistema rendersi conto di quanto sia importante che una salda cultura sia alla base di un grande calciatore”. Parole sante. In conclusione, dove vedremo Catellani tra 10 anni? “Sinceramente, faccio fatica a pensarci, perché quello che è successo mi ha insegnato che la vita può cambiare da un momento all’altro. Di certo, mi vedo sereno e questa è la cosa più importante”. Anche noi ti vediamo così, Andrea, con quel sorriso che ti ha fatto e ti farà grande, prima di tutto nei nostri pensieri.
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TM IL CAVALIERE DELLA DEA
DOVE SONO FINITI?
Thomas Manfredini
di Pierfrancesco Trocchi
Intervista a Thomas Manfredini, ex tra le altre di Genoa, Atalanta e Sassuolo. Nuova vita per il difensore, che oggi si dedica a due sue grandi passioni…
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e lo ricordiamo compiere continue scorrerie box-to-box, con l’iconica chioma bionda ondeggiante e il passo deciso, quasi minaccioso, a fendere i campi di mezza Italia. Carismatico, ma sempre mite, impetuoso, ma mai arcigno, come un pirata buono. Non è un caso che Thomas Manfredini, dopo tanto peregrinare, abbia trovato il suo porto felice a Misano Adriatico, a specchiarsi sul mare, circondato dai suoi cani e dai suoi ca-
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valli, a rinnovare quella generosa passione che gonfiava d’orgoglio tutta Bergamo e non solo. Quella che, a dirla tutta, ci fa rimpiangere un po’ il tempo perduto. Partiamo col botto: qual è il ricordo più bello da calciatore? “Ci sono diversi momenti, ma forse quello più determinante è stato il debutto in A con l’Udinese, contro la Roma, nel 1999. Hai presente quando sei “posseduto”? Ecco, allora feci una
delle partite migliori della mia carriera. Poi, nel 2008, Atalanta-Napoli 3 a 1, quando feci goal al 90’ su punizione. Pareggiavamo 1 a 1, anche per causa di un rigore che avevo procurato con un mio fallo. Venne giù lo stadio, fu incredibile”. Quella partita è un po’ il riassunto della tua carriera, cadute e resurrezioni. Credi di essere diventato troppo tardi il Manfredini che conosciamo ora? “Penso di avere fatto un ottimo primo anno di Serie A, poi mi cambiarono la posizione in campo e feci un po’ fatica. Facevo il quinto in modulo con difesa a tre, quindi un ruolo intermedio, non ben delineato. In più, da giovane ebbi diversi infortuni che influirono negativamente a livello mentale, non ero ancora maturo per assorbire tutte le pressioni”. Era un’altra Serie A… “A quei tempi tutti i fuoriclasse venivano qui, era un onore giocare anche un solo minuto. Non mi sono mai ritenuto un campione, ma un buon giocatore che, allora, era ancora mentalmente impreparato”. Dopo alti e bassi a Udine, nel 2004 la Serie B, con Fiorentina e Catania. Poi ti compra l’Atalanta. “Anche in B mi trovai a giocare terzino, non trovandomi a mio agio. Colantuono stesso, arrivato a Bergamo, mi vedeva terzino, quando io mi sono sempre ritenuto un difensore centrale; così, per due anni consecutivi fui mandato in prestito”. Rimini e Bologna. Pensavi che mano a mano la tua carriera si sarebbe assestata verso il basso? “Avevo la sensazione di essere un “mezzo” giocatore, non ancora ben definito. Quella Serie B era molto competitiva, ma avevo il desiderio di tornare in Serie A per riscattarmi dopo aver perso il primo treno a 19 anni, quando avevo un futuro luminoso davanti”. Ecco che all’Atalanta, nel 2007, arriva Delneri. Cambia tutto. “Sì, perché il mister, che aveva seguito i miei progressi fin dai tempi di Udine, iniziò a provar-
Tra le tante squadre in cui ha giocato, c’è anche il Genoa.
mi centrale. Tornato dai prestiti, gradualmente ebbi la possibilità di giocare sempre di più: fu la mia rinascita”. Confessa… Riuscivi a capire il mister? “Parla veloce, ma poi ci fai l’abitudine. Dovevi capirlo per forza, in un modo o nell’altro (ride, ndr). A parte gli scherzi, sono davvero molto legato a lui, gli devo tantissimo”. Nel 2010, sempre con la Dea, il tuo allenatore è nuovamente Colantuono. Vecchie ruggini? “No, le incomprensioni avevano riguardato soltanto il mio ruolo, il mister aveva una sua filosofia di gioco in cui inizialmente non era riuscito ad inserirmi. Col tempo, Colantuono capì che ero diventato un giocatore di personalità e mi impiegò con regolarità”. A Bergamo ti affermasti come uno dei migliori difensori della Serie A. Cosa significa per te l’Atalanta? “Io sono il giocatore che conoscete per merito dell’Atalanta, le devo tutto, è stata la mia rinascita e la mia conferma negli anni. In quel periodo più di un giocatore si è ricostruito, penso a Doni e Guarente, oppure si è fatto conoscere
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DOVE SONO FINITI?
TM partendo quasi da zero”. Anche ora con Gasperini succede lo stesso. Evidentemente la Dea ha qualcosa di speciale. “A Bergamo i tifosi sono i primi a capire quando dai il massimo, a loro non importa soffermarsi sul risultato immediato. Anche quando le cose vanno male, la tifoseria ti sta vicina, ti comprende, non ha la pretesa di avere tutto e subito. Avendo sempre avuto a che fare con giovani promesse, l’ambiente dà ai giocatori il tempo di migliorare negli anni, senza sovraccaricarli di pressioni”. Vedi Spinazzola e Cristante. “Di Spinazzola sono stato compagno di squadra a Vicenza, dove faticava a trovare la propria dimensione, ma, oltre a loro, penso anche a Petagna, rinato dopo l’esperienza al Milan. L’Atalanta ti offre la possibilità di dare il massimo, ognuno ti fa sentire grande anche quando non hai fatto nulla, regalandoti entusiasmo e fiducia”. Rinascite, ma anche cadute. Parliamo del brutto episodio che, nel 2011, ti vide coinvolto nell’operazione “Last Bet”: come vivesti quel momento? “Molto male, perché ero in mezzo ad un tourbillon, tutti erano accusati o colpevoli. Purtroppo, al contrario di quella ordinaria, la giustizia sportiva non dà nemmeno la possibilità di difesa, il tuo destino dipende esclusivamente dai giudici. Dopo le dichiarazioni di Micolucci (allora giocatore dell’Ascoli, ndr), che sosteneva che io avessi chiesto il pari durante AscoliAtalanta (del 12 marzo 2011, finita 1 a 1, ndr), fui accusato, ma non condannato. Ero totalmente estraneo ai fatti e fui prosciolto, ma solo perché chiedere il pari non venne ritenuto sufficiente
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per la condanna, non perché mi ascoltarono”. Infatti, torni in campo con l’Atalanta fino al 2013, poi Sassuolo e il brutto epilogo di Vicenza. “In biancorosso prima mi lesionai il tendine d’Achille, poi fui costretto ad operarmi al calcagno e, alla prima partita dopo l’infortunio, mi ruppi il tendine. Mi è dispiaciuto smettere così, io avrei continuato ancora un paio d’anni, ma il fisico non me l’ha permesso. Per una volta, fui obbligato ad ascoltare i segnali del mio corpo e smettere di fare il ‘capoccione’…”. La testardaggine prorompente, una delle tue doti migliori anche in campo. “Mi sono sempre prefissato degli obiettivi e ho cercato di ottenerli a tutti i costi. Forse ho fatto degli errori, sicuramente avrei potuto ottenere di più, ma credo di avere vissuto una carriera ricca di soddisfazioni”. Vicenza, una bella stagione quando tutti ti davano per “finito”. “Ero reduce da un anno terribile a Sassuolo, dove mi avevano messo da parte. In Veneto, però, incontrai un altro allenatore a cui sono molto legato, Marino: rinacqui, come tutta la squadra. Da dodicesimi, con una grande risalita, arrivammo fino ai playoff. Il mister riuscì a regalarmi di nuovo la voglia di giocare, mi riempì di fiducia”. Veniamo al Manfredini post calcio. Hai tante passioni, su tutte quella per i cavalli. “Li ho sempre amati, fin da piccolo. Dopo la scuola andavo sempre all’ippodromo di Ferrara e, finalmente, a 19 anni ebbi la possibilità di comprare il mio primo cavallo. Ora che ho finito la carriera da calciatore posso dedicarmi anima
e corpo a questa passione”. Curiosando sui tuoi canali social, scopriamo che non ti limiti a fare il proprietario. “Sì, corro anche come driver. Vengo chiamato occasionalmente per partecipare alle gare della categoria “gentleman”, quella, appunto, dei proprietari”. Andavi a trotto anche quando giocavi? Dicci la verità… “Sì, d’estate andavo a correre. Qualche presidente lo sapeva, qualcun altro no (ride, ndr). A parte gli scherzi, correvo piano per paura di farmi male, mentre ora posso permettermi di “tirare” e prendermi qualche rischio in più”. Da buoni impiccioni, abbiamo notato che un’altra delle tue passioni è quella per i cani. “Mi ci dedico quotidianamente, appesi gli scarpini al chiodo volevo qualcosa che mi tenesse “impegnato”. A casa mia, a Misano Adriatico, ho un allevamento, “AnthoGolden”, di Golden Retriever di linea americana. Per ora ho sei cani adulti e sei cuccioli, ma piano piano la famiglia si allargherà. È un mondo in cui ci vuole studio e attenzione, anche perché i miei cani partecipano a concorsi di bellezza che mi impegnano con grande trasporto”. I tuoi hobby non finiscono qui: il pugilato, la palestra… “Lasciare del tutto l’attività fisica non fa per me, dopo anni di lavoro concentrato sul mio corpo è normale che cercassi qualcosa di simile. Ho voluto staccare con il mondo del pallone, almeno per il momento”. C’è un motivo particolare? Ti piacerebbe tornare nel calcio, prima o poi? “Avevo intenzione di coltivare tutte le mie passioni, ora ne ho la possibilità e il tempo. Inizialmente, dopo tutti gli infortuni, ho voluto allontanarmi; ora, invece, ti dico: “Perché non tornare?”. È un mondo che mi ha dato tanto, ti confesso che mi manca”. Prima hai parlato dell’affetto per Delneri e Marino. E tra i calciatori hai mantenuto qualche amicizia? “Sono in frequente contatto con Sergio Floccari,
Manfredini ai tempi in cui militava nell’Atalanta
con cui ho giocato al Bologna, all’Atalanta e al Sassuolo”. Anche lui un “capoccione” come te. “Per me è un giocatore davvero forte, inoltre lo stimo molto come persona. Tra l’altro, abita a San Marino, quindi abbiamo potuto riavvicinarci e portare avanti una bella amicizia”. E gioca a Ferrara, tua città natale. Sei anche un tifoso della SPAL? “Certamente. Sono felice, perché finalmente abbiamo trovato una società competente, che crede con passione nel progetto. Non è un caso che abbiamo vinto due campionati di fila, deve esserci qualcosa di profondo che lega tutto l’ambiente”. Chiudiamo con la classica domanda acchiappa-lettore: qual è il tuo sogno? “Il mio primo sogno, quello di fare il calciatore, l’ho avverato. Adesso come adesso, il mio desiderio è quello di vincere un Gran Premio con i miei cavalli, ma mi piacerebbe anche salire con i miei cani sul gradino più alto del podio di un concorso. In queste attività investo la stessa passione che mettevo in campo”. Sogni e pragmatismo, uniti in un ossimoro vincente. Non c’è modo di fermarlo, Manfredini, ed è un bene per Thomas e per tutti noi, per il bel ricordo che abbiamo, fiammante ed energico come le serate all’Atleti Azzurri d’Italia, come la Serie A dei campioni del Mondo, con quell’inconfondibile profumo misto di gloria e malinconia che questa intervista ridesta.
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l’alfabeto dei bidoni
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Thomas Hitzlsperger
di Thomas Saccani
IL MARTELLO… DI PLASTICA Thomas Hitzlsperger: nazionale tedesco, visto, poco, con la casacca della Lazio…
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homas Hitzlsperger. Un nome che incute rispetto al solo pronunciarlo. Ultimo di sette fratelli (ha cinque fratelli e una sorella), cresce, calcisticamente parlando, nelle giovanili del Bayern Monaco, nel 2000 viene messo sotto contratto dall’Aston Villa che, di fatto, lo scippa all’affermato club tedesco. Il 13 gennaio 2001, a 19 anni, fa il suo esordio con la casacca dei Villans, contro il quotato Liverpool.
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Viene ceduto al Chesterlfield per farsi le ossa ma viene richiamato, dopo solo due mesi, a Birmingham. Diviene, con Graham Taylor in panchina, una delle colonne dell’Aston Villa. Resta in Inghilterra sino al 2005 poi, ancora una volta gratuitamente (è svincolato), cambia squadra. Torna in Germania, scegliendo lo Stoccarda. È il periodo migliore della sua carriera. Nella stagione 2006/07, da autentico protagonista, vince la Bundesliga con la ca-
sacca dello Stoccarda. È stabilmente nel giro della nazionale tedesca, insomma un giocatore di altissimo livello. Durante il mercato invernale della stagione 2009/10, la Lazio riesce a convincerlo a trasferirsi in Italia. Crede moltissimo in questo centrocampista di corsa e qualità, tanto da fargli sottoscrivere un contratto triennale. Hitzlsperger accetta l’offerta biancoceleste soprattutto per dimostrare di essere pronto per giocarsi il suo secondo Mondiale, ossia quello in Sud Africa del 2010 (ha già partecipato a Germania 2006 e pure ad Euro 2008). Il suo sbarco nella capitale è salutato con grande enfasi. Il giocatore ha un curriculum importante e la Lazio, alle prese con un’annata nera, ha bisogno di elementi di sicuro affidamento. Viene presentato insieme ai nuovi acquisti “invernali” Dias e Biava. Il tedesco ha le idee chiare: “Voglio esprimere la mia contentezza, la Lazio è un club di grande tradizione, la sua tifoseria è fantastica. Vorrei avere un percorso di grande successo con questa maglia, i miei compagni mi hanno aiutato e mi hanno dato il benvenuto. Lichtsteiner parla la mia lingua e mi ha aiutato ad integrarmi”. Sceglie la maglia numero 15. Il tecnico Ballardini lo fa esordire, in Serie A, all’Olimpico, il 7 febbraio 2010, contro il Catania. I biancocelesti perdono la gara (0-1, rete di Maxi Lopez) e il tedesco, dopo 65’ di nulla, viene sostituito. Kicker, media tedesco, il giorno dopo riporta una dichiarazione dello stesso Ballardini: “Era in difficoltà. Forse sarebbe stato meglio rimandare il suo debutto”, le parole che avrebbe proferito Ballardini. In realtà la Lazio, per scuotere l’ambiente, decide di esonerare Ballardini. Al suo posto, sulla panchina della Lazio (alle prese con una stagione complicata), arriva Reja. Il neo allenatore non lo considera una primissima scelta. Disputa uno spezzone di partita in Lazio-Fiorentina (1-1 il finale) del 27 febbraio 2010 (entrando al posto di Mauri). Lo si rivede in campo contro il Bari. Una gara assurda. I biancocelesti escono sconfitti (0-2),
Ben 52 le presenze con la nazionale tedesca per Hitzlsperger
complicando la loro posizione in classifica e avvicinandosi ulteriormente alla zona “rossa”. Il tedesco, soprannominato The Hammer (Il Martello) per il suo gran sinistro, entra, al 37’, al posto di Matuzalem ma, 32’ dopo, viene tolto dal campo (dentro Mauri). Un disastro, anche se la Lazio non è da meno. Dopo quasi due mesi di anonimato, riappare contro l’Inter, sempre entrando dalla panchina e, ancora una volta, la Lazio perde (0-2 contro l’Inter). Gioca 2’ contro il Livorno ma, finalmente, all’ultima giornata di campionato, con la Lazio salva, arriva il suo momento di gloria. Schierato titolare contro l’Udinese, al 18’, fa partire, da posizione siderale, il suo proverbiale sinistro che, grazie ad una deviazione di Domizzi, finisce alle spalle del portiere bianconero Romo. Tutti i compagni lo abbracciano, quasi avesse segnato in finale di Cham-
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l’alfabeto dei bidoni
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pions League. Nella stessa partita, sfiora anche la doppietta nel 3-1 finale a favore dei biancocelesti. Una giornata indimenticabile, l’unica in maglia Lazio. A fine della stagione, il suo rapporto con la Lazio si interrompe. Non viene convocato per il Mondiale. Decide così di tornare in Inghilterra. Firma con il West Ham, con i media inglesi scatenati: “Gli Hammers firmano The Hammer”. La seconda esperienza inglese non è un gran ché (tanti problemi fisici ad inizio stagione ne condizionano il rendimento). Fa notizia solo per una sua pazzia: viene fermato dalla polizia inglese mentre sfreccia, a bordo della sua auto, a circa 165
Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
km/h. Dopo un solo anno con i Villans, si ripropone con il Wolfsburg (contratto triennale). Altro buco nell’acqua. Dopo un sono anno, è nuovamente a spasso. Da svincolato, nell’ottobre del 2012, si accasa all’Everton senza lasciare il segno (solo sette presenze). Circa un anno più tardi, esattamente il 3 settembre 2013, annuncia, a 31 anni, il suo ritiro dal calcio giocato: “Sono sicuro, non giocherò più. La decisione è figlia di tanti cambi di club e troppi infortuni. Ho capito: ho bisogno di qualcosa di diverso”, le sue parole a Süddeutsche Zeitung. Non un finale di carriera da urlo ma la “riscossa” è dietro l’angolo…
IL COMING OUT DI THOMAS A quattro mesi dal suo ritiro dal calcio giocato, il 31enne Hitzlsperger torna, prepotentemente, sulle pagine di tutti i media del mondo. In un’intervista a Die Zeit, l’ex centrocampista della Lazio fa coming out, dichiarando la sua omosessualità: “Voglio introdurre l’argomento dell’omosessualità nello sport professionistico. Io non mi sono mai vergognato di come sono fatto, ma nel calcio non è sempre facile affrontare questo argomento, viene ignorato. Immaginate 20 uomini seduti intorno a un tavolo, mentre bevono qualcosa e fanno battute sui gay, lasci fare se non sono troppe offensive, ma non è facile. Io ho giocato in Germania, in Inghilterra e in Italia e l’omosessualità non è considerata un problema, neanche negli spogliatoi, però nello sport professionistico si è molto competitivi, c’è voglia di lottare e di vincere e tutto questo, secondo alcuni stereotipi, non si adatta alle femminucce”. La notizia viene salutata con grande favore, anche dal governo tedesco che, attraverso la portavoce Steffen Seibert, dichiara: “Siamo in un Paese in cui nessuno deve preoccuparsi di atti di intolleranza se dichiara le sue tendenze sessuali”. Un’ammissione che, di fatto, fa cadere l’ultimo tabù nel mondo del calcio. Il più bel gol di Thomas Hitzlsperger… Recentemente, Die Zeit, Hitzlsperger è tornato al giorno in cui ha deciso di dichiarare a tutti la sua omosessualità: “Ricordo che avevo l’impressione di saltare da una torre alta dieci metri. Volevo saltare, ma ero anche preoccupato e timoroso. Poi sono saltato e mi sono rialzato senza nessuna ferita”. Ora Hitzlsperger fa parte dei quadri dirigenziali dello Stoccarda, la squadra con cui ha conseguito i risultati più importanti sul campo. È attivissimo a livello sociale: giornalista per il media Störungsmelder, partecipa a più iniziative contro la xenofobia, il razzismo e l’antisemitismo. È anche un apprezzato opinionista. Ha anche un suo personale sito (www.thomas-hitzlsperger. de). Insomma, un uomo che incute grande rispetto…
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Gare da ricordare
NS
Napoli - Stoccarda
di Luca Savarese
IL NAPOLI CONQUISTA
L’EUROPA
Stagione 1988-89. La squadra di Ottavio Bianchi va a caccia del primo trofeo internazionale. È una cavalcata. Il Napoli fa fuori ai quarti la Juve, in semifinale il Bayern. La Coppa Uefa arriva grazie alla doppia finale con lo Stoccarda. 2 a 1 al San Paolo, 3 a 3 in Germania. I sogni azzurri diventano realtà europea.
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ggi la gioielleria dell’orefice scelto Maurizio Sarri, diverte, vince, creando, partita dopo partita, un calcio nuovo e bellissimo. Lavorano i teori-
ci, si sbizzarriscono o forse si sbiz(sarri)scono gli esteti, fremono i puristi. Un collettivo di bravi giocatori plasmato da un profeta della panchina. Ieri, alla fine degli anni ‘80 le cose Credit Foto: Liverani
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dalle parti di Fuorigrotta, andavano diversamente. Si perché la compagnia di Ottavio Bianchi, recitava a soggetto, ed il soggetto era uno: Diego Armando Maradona, il copione si scriveva per le sue giocate, il teatro si riempiva per lui. Anno di grazia 1987, mese di maggio, preci mariane e maradoniane, giorno 10, come il suo numero di maglia. Napoli è sul tetto d’Italia, lo spettacolo non è al Teatro San Carlo, ma allo stadio San Paolo. Opera lirica, festa tricolore. Napoli si prende lo scettro del paese. Dopo una compilation tutta italiana, si ha voglia di ascoltare qualche melodia internazionale. Ma la prima Coppa Campioni di quel Napoli, dura pochissimo. L’ebrezza di un turno, dove gli azzurri partenopei s’inchinano al Real Madrid. Addio sogni europei. Il momento per rifarsi arriva al termine della stagione ‘87-’88, terminata dal Napoli al secondo posto. Il Milan degli immortali si aggiudicherà il titolo, però Diego si porterà a casa, con 15 reti, la classifica marcatori. Al tempo solo la prima accedeva alla Coppa dalle grandi orecchie. Napoli quindi in Uefa. Non ci sono più il mitico portiere Garella che oltre alle mani, attrezzi del mestiere, si avvaleva spesso dei piedi, andato all’Udinese, non c’è più Bruno Giordano sceso in B nella vicina Avellino, sono partiti Bagni e Ferrario e soprattutto si ritira, dopo anni di lunga e fedele militanza con la fascia al braccio, Beppe Bruscolotti. Però a Napoli arrivano i pezzi giusti: Corradini dal Toro, terzino che al centro della difesa si esalta, Luca Fusi tappabuchi preziosissimo in mezzo al campo, dalla Samp, Giuliani, estremo difensore dal Como. Questi ultimi due già allenati e tastati da Bianchi al Como. Poi Crippa dal Toro, quantità che flirta con la qualità e la ciliegina sulla torta o meglio sub babà, Alemao dall’Atletico Madrid, uno spilungone brasiliano ma dal fisico e dai tratti marcatamente teutonici, da cui l’appellativo di Alemao, “tedesco” in portoghese che si prende il centrocampo. Ma quei due lì, ci sono ancora, Maradona, il dies, Careca, il 9. Il 10 argentino e il 9
Ancora oggi, Careca, stella di quel Napoli, è amatissimo dal pubblico partenopeo
brasilero, Zeus e Dioniso possono rinnovare la loro mitologia napoletana e poi Andrea Carnevale ad imparare dall’uno e a rubare segreti dall’altro e nel tempo che restava, andando anche lui a bombardare le difese. Quegli anni il calcio italiano sembrava la bottega del rinascimento: in Italia l’Inter si godeva la sua cupola non di Brunelleschi ma del Trap: primato, scudetto con 58 punti nell’era dei 2 punti. Nell’Europa della Coppa Campioni brillava la Notre Dame di Arrigo Sacchi: un Milan dinamico ed elevato al cielo, come la cattedrale parigina. Ed ecco il Napoli, il cui colonnato lo stava innalzando, pilastro dopo pilastro un Bernini silenzioso che alle parole preferiva far parlare la giustezza dei fatti. Ottavio Bianchi, operaio del centrocampo negli anni ‘60 e ‘70 con le maglie di Brescia, Napoli, Atalanta, Milan, Cagliari e Spal e in quei favolosi anni ‘80 del nostro calcio, allenatore capace di ascoltare, dosando con la giusta misura, bastone e carota. Stagione ‘84-’85, in riva al Lario sulla panca del Como fa uno scalpo di lusso a San Siro, dove dentro una scala del calcio innevata, i lacustri battono il Milan di Liedholm per due a zero con reti di Matteoli e Bruno. Però. Ferlaino lo fa suo. Adesso si continua con lui, che
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GARE DA RICORDARE
NS dice spesso di sé: “A Como dovevo fare l’incendiario, a Napoli il pompiere”. Adesso mette in freezer gli eccessi della piazza ne esalta i pregi e via a sognare al di là del Vomero, dove gli stadi sono catini internazionali che ribollono di storia. Sotto allora con la Coppa Uefa. Il viaggio europeo di quel Napoli, inizia al San Paolo. Primo avversario il Paok di Salonicco, l’antica Tessalonica. I discendenti di dei e filosofi devono arrendersi al semidio Maradona, che dal dischetto, mette le cose al sicuro. In terra greca un uno ad uno; il gol azzurro di Careca permette al Napoli di marciare verso la prossima stazione. Dalla Grecia alla Germania, da Salonicco a Lipsia. Un altro uno a uno, prezioso. Di Francini la rete campana. Al ritorno ecco il risultato all’inglese, lo timbrano Careca di cabeza e un autogol tedesco. Gli ottavi per la Bianchi band vogliono dire Bordeaux. Basta uno squillo di Carnevale per inguaiare i giron-
Maradona, il simbolo del Napoli che dominava in Italia e in Europa
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dini che al ritorno non vanno oltre lo zero a zero. Il Napoli non vive solo un viaggio ma affronta, con fierezza ed una notevole cifra tecnica, una cavalcata, senza paura ma con il passo di chi vuole scrivere la storia. Il primo passo falso la squadra lo vive ai quarti. Siamo ai primi di marzo ed i partenopei, con un’insolita maglia granata, fanno visita a casa della Signora. Un bolide di Pasquale Bruno in controtendenza rispetto al suo epiteto di animale per le dure entrate, e un autogol di Corradini fanno gioire i bianconeri. Il Napoli però ha il grande merito di non abbattersi. Sa che ha ancora una gara per potersi rialzare, ribaltare e passare oltre. Tutti in città, da San Gennaro al venditore itinerante del casatiello, la squisita torta rustica locale, credono al miracolo sportivo. In pochi giorni i biglietti per il big match sono infatti polverizzati. Forse, concorderanno molti tifosi, il fatto che si doveva fare l’impresa e che dall’altra parte ci fosse non una squadra qualunque ma la Juventus, aumentò l’adrenalina di tutti e rinsaldò ancora di più la speranza di potercela fare. Il San Paolo è un tizzone pronto a far esplodere il fuoco azzurro di Napoli. Fuorigrotta si riempie, ognuno porta un pezzetto della propria certezza. Prima del fischio d’inizio, previsto per le 20.30, si sommano 83 mila pezzetti di certezze. Le cose però non partono bene per l’ambiente napoletano. Laudrup segna, ma il gol è annullato. Dallo spavento ad un nuovo inizio e il gioco è fatto, il ribaltone, quasi. Maradona dal dischetto e Carnevale riescono, prima dell’intervallo, a portare in perfetta parità con l’andata il confronto. Risultato che permane invariato per tutta la ripresa. Napoli soffre ma spera, sembra l’Adelchi incoraggiato dalle parole del fido Anfrido nella celebre tragedia manzoniana. Ai supplementari trasforma la speranza in certezza, come già erano certi i tifosi. Careca spende le ultime energie e va sulla destra. Scodella in mezzo una palla che o’ scellone Renica di testa mette alle spalle di Tacconi. Il Napoli ha evitato i rigori, il Napoli è in semifi-
IL TABELLINO DELLA FINALE GARA D’ANDATA Napoli, Stadio San Paolo, 3 maggio 1989 NAPOLI-STOCCARDA 2-1 Napoli: Giuliani; Ferrara, Francini; Corradini (1’ s.t. Crippa), Alemao, Renica; Fusi, De Napoli, Careca, Maradona, Carnevale. Allenatore: Bianchi Stoccarda: Immel; Schmaler, Schroder; Hartmann, Buchwald, Allgower; Shafer, Katanec, Walter (30’ s.t. Zietsch), Sigurvinsson, Gaudino Allenatore: Haan Arbitro: Germanakos (Grecia) Marcatori: 17’ p.t. Gaudino (S), 23’ s.t. Maradona (N) (rigore), 42’ s.t. Careca (N). Ammonizioni: Buchwald, Schroder, Immel Note: Spettatori: 81.100
nale. Dopo aver battuto un mostro sacro come la Juve, ora davvero la Coppa è più vicina al lungomare di via Caracciolo. Al primo atto della semifinale infatti bastano tre tocchi: De Napoli-Maradona e Careca ed anche il Bayern Monaco, spesso industria di coppe, è avvisato. Bissa di testa Carnevale. In Baviera il pibe serve sotto porta Careca, per il 9 brasiliano, è un gioco da ragazzi. E uno. Wohlfarth mantiene in vita il Bayern. L’asse Maradona-Careca, più divino che umano, consegna alle macchine targate NA il coupon per la finale. A nulla vale il 2 a 2 bavarese siglato da Reuter. La finale di Uefa, avrà un’andata e un ritorno, copione classico fino al 1998 quando con Inter-Lazio a Parigi, inizierà l’era delle finali in gara unica. La prima sfida sarà giocata a Napoli, il 3 maggio 1989. Avversario è lo Stoccarda, squadra allenata dall’ex calciatore olandese Arie Haan, capace di regalarsi una giornata memorabile al mondiale argentino del 1978 quando, nella gara tra Olanda e Italia, bucò, con un tiro quasi da casa sua, Zoff. In campionato i biancorossi veleggiano a ritmo blando. Arriverà un quinto posto finale. Ma in Uefa, mettono la
GARA DI RITORNO Stoccarda, Stadio Neckarstadion, 17 maggio 1989 STOCCARDA-NAPOLI 3-3 Stoccarda: Immel, Schaefer, Schroeder, Katanec, Hartmann, L.N. Schmaeler, Algoewer, Walter (33’ s.t. O. Schmaeler), Klinsmann, Sigurvinsson, Gaudino. Allenatore: Haan Napoli: Giuliani, Ferrara, Francini, Corradini, Alemao (31’ p.t. Carannante), Renica, Fusi, De Napoli, Careca (25’ s.t. Bigliardi), Maradona, Carnevale. Allenatore: Bianchi Arbitro Sanchez Arminio (Spagna). Marcatori: 19’ p.t. Alemao (N), 27’ p.t. Klinsmann (S), 40’ p.t. Ferrara (N), 17’ s.t. Careca (N), 24’ s.t. autorete De Napoli (S), 45’ s.t. O.Schmaeler (S) Note: Spettatori: 63.000
quinta. È un gruppo solido che può avvalersi di qualche pregiata individualità: il tignoso, è un eufemismo, difensore Guido Buchwald, pochi stavano appiccicati come lui agli attaccanti. A Italia 90 nella finale mondiale, non fece nemmeno respirare Maradona, tanto da guadagnarsi il nomignolo di “Diego”. Poi ci sono Srecko Katanec, centrocampista sloveno tanto esile ma alto 1 e 90 e futura pedina della Samp scudettata di Boskov, Maurizio Gaudino, punta dalle evidenti origini salernitane (il cui figlio oggi gioca nel Chievo), Jurgenn Klinsmann, che prima di essere sbeffeggiato come “Pantegana bionda” dalla Gialappa’s (farà in maglia Inter gol difficilissimi e sbaglierà quelli facili), era “Klinsi”. Ai trentaduesimi la formazione teutonica lascia al palo gli ungheresi del Tatabanya. Ai sedicesimi, sotto con la Dinamo Zagabria, nelle cui fila giocava un giovane Zorro Boban. Battuta. Agli ottavi la masnada del Land Baden crocifigge, impallinandolo di gol, 5 tra andata e ritorno, il Groningen. La Real Sociedad è il prossimo gradino, duro. Ci vogliono i rigori per superarlo: per i tedeschi segnano tutti, compreso capitan Buchwald che
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GARE DA RICORDARE
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Credit Foto: Liverani
non sceglie un tiro ma un missile. Immel respinge invece i tiri di Martinez e Gajate. Lo Stoccarda è in semifinale. Qui, il calcio di fine anni Ottanta scrive una delle pagine più storiche. Si perché tra la finale e lo Stoccarda c’è la Dinamo Dresda, compagine della Germania Est. Tra le due Germanie, Ovest ed Est, c’era ancora il Muro di Berlino che sarebbe caduto sei mesi dopo. Al Neckarstadion, a Stoccarda, il primo atto. Quando tutto divide, ci pensa il pallone, rotolando e disegnando nuove traiettorie, ad unire. Nella stessa nazione viaggiano, rigorosamente separati, ci sono dogane quasi ovunque ma eccoli lì, nel rettangolo verde, divisi solo dalla riga bianca del centrocampo. Il blocco occidentale sfida il mondo sovietico, il calcio ha come una missione intrinseca, rompere le barriere, fare la corte alle cortine, per sedurle di stupore. Nella Dinamo Dresda, che viaggia spedita verso la conquista del campionato della DDR, furoreggiano giocatori come Gutschow, Kirsten e Summer, che approderà in seguito proprio allo Stoccarda per poi vivere una breve parentesi nerazzurra e alzare il pal-
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lone d’oro nel 1996 come giocatore del Dortmund. Al Neckarstadion, casa dello Stoccarda, hanno la meglio i padroni di casa grazie ad un sinistro di Allgower. A Dresda arriva un 1 a 1, quel che basta alla truppa di Haan per andare a giocarsi la Coppa col Napoli. Il presidente Ferlaino, tuttavia, non nasconde un po’ di paura, vede una squadra altalenante, capace di entusiasmare ma anche di cadere. Dopo il 2 a 2 colto col Bayern, nella semifinale di ritorno disse infatti: “Questa squadra può vincere contro chiunque ma perdere anche contro la Primavera”. Ma ora dissapori e malumori vanno in tribuna, c’è da giocarsi una finale, anzi due. Il campionato ormai è andato all’Inter, il Napoli vedrà sfumare un’altra Coppa, quella italiana, che in finale saluterà i partenopei e coccolerà la Samp, tutte le energie sono dunque da mettere nel binario della finale Uefa, il mastice, capace di incollare le forze residue e di farne un collage solidissimo. La sigla dell’Eurovisione anticipa, su Rai2, il racconto della gara. Il San Paolo è una cattedrale dell’emozione. 3 maggio 1989. Non c’è un
seggiolino libero. 82.000 cuori. Ma tutti e tutto il mondo napoletano assistono a quella gara. Anche via San Gregorio Armeno, quella sera, è libera: lei che di giorno sforna statuine sacre e profane, adesso spera che sia il Napoli a ridurre a statuine lo Stoccarda. Giuliani, Ferrara, Francini, Corradini, Alemao, Renica, Fusi, De Napoli, Careca, Maradona, Carnevale. Questi i cavalieri che manda in campo il paladino Ottavio Bianchi. Nello Stoccarda davanti non c’è Klinsmann, squalificato e già tentato dal mercato italiano. C’è Maurizio Gaudino. Il 17, si sa, non è ben visto dalla cabala napoletana. Numero gramo, portatore di iella. Infatti al minuto 17 del primo tempo, proprio Gaudino spara un tiro centrale da fuori area che s’infila, tra le mani non proprio sicure nell’occasione, di Giuliani. Stoccarda in vantaggio. Un vero guaio. Ma c’è tutto il tempo per ribal-
In quel fantastico Napoli, in difesa, c’era un certo Ciro Ferrara.
tare la situazione. Il magic moment arriva al 22’ del secondo tempo. De Napoli mette in mezzo una palla, dalla destra. In mezzo il più lesto a sentirne l’arrivo è Maradona che la colpisce di sinistro facendola sbattere sul braccio di Schafer. L’arbitro greco Germanakos concede il rigore. Per il pibe è una formalità, mette una sigla mancina e riapre la gara. Adesso sono i tedeschi ad avere paura. L’Argentina e il Brasile che riempiono l’attacco azzurro nei corpi famelici di Maradona e Careca si scambiano sguardi innamorati. Sta finendo la partita, Maradona che tutti si aspettavano sulla sinistra, all’improvviso diventa trapezista della fascia opposta. Dribbling e via un pallone forte per il destro di Careca, che prima controlla, poi arpiona e infine fredda Immel. Robe brasiliane, idee argentine. Tripudio napoletano. Ma la scaramanzia impone di rispettare il copione della prudenza. Il Napoli ha vinto una battaglia ma la guerra vivrà le ultime fasi a Stoccarda, al ritorno, quindici giorni dopo. 17 maggio 1989. Nel cammino verso la dimora dello Stoccarda, il Neckarstadion, Maradona, che nel 1986 aveva vinto il mondiale spaventando per la sua classe e mandando dall’analista l’Inghilterra con quel gol del secolo, carica i suoi a più non posso. Ecco il leader, quello che prima di tutto fa vibrare le corde interiori. Ricorda infatti Alemao che Diego continuava a parlare di ogni sfida come fosse la gara più importante di tutte. Già Diego. Da abile istrione sa che ci sono delle mosse che fanno esaltare alcuni e terrorizzare altri. Così decide di scendere in campo per il riscaldamento con gli scarpini slacciati, la faccia tosta e la palla attaccata ai piedi. Non svolge nessun esercizio di stretching o robe del genere, ma sfruttando anche la musica che pompa dalle casse del teatro tedesco, fa passare la palla da un piede all’altro, ogni tanto ci mette anche la testa. I suoi compagni sgobbano, lui si diverte e intanto spaventa e avverte il pubblico di casa. Il video poi negli anni 2000, grazie all’avvento di Youtube, diventerà virale, ma all’epoca bastò
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GARE DA RICORDARE
NS “UN BEL FILM”
Luca Fusi, lecchese classe 1963. Centrocampista tappabuchi, davanti al libero e oltre. Maradona lo battezzò “Calamita”. Al Napoli dal 1988 al 1990. Luca quella coppa aveva un peso non solo fisico per una piazza come Napoli? “Era un trofeo importante, fu il primo a livello europeo per la squadra, e rispetto agli ultimi anni la Coppa Uefa era difficilissima, potevi incontrare squadre che l’anno prima erano state protagoniste nei loro campionati, c’era una concorrenza molto alta, con Bayern, Juve, Inter, grossi calibri”. Il vostro più che un cammino fu una cavalcata “Si, il momento più difficile fu nella gara d’andata ai quarti con la Juve dove avevamo perso in maniera netta a Torino e non era facile pensare di ribaltare il risultato, ma al ritorno grazie ad un pubblico fantastico riuscimmo a vincere ai supplementari e dopo quell’impresa capimmo che potevamo vincere la Coppa”. Tu avevi già avuto Bianchi al Como? “Esatto, con lui avevo un ottimo rapporto e riuscì, dopo due anni che feci alla Samp, a portarmi a Napoli”. Che cosa ha voluto dire per te giocare con Maradona e Careca “Un’ esperienza unica, vissuta grazie a mister Bianchi, che mi tengo ben stretta”. Un ricordo di quel doppio confronto con lo Stoccarda? “È tutto un film bello. Al ritorno ricordo il viaggio in pullman dall’aeroporto di Napoli a Soccavo con la Coppa, scortati da un sacco di tifosi in macchina, in moto: non avevo mai visto nulla di simile”.
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ad iniettare il virus della paura alla tribù dello Stoccarda, che schiera Klinsmann nel frattempo annunciato come primo acquisto per la nuova Inter, ma non ha Buchwald squalificato. La società ha reclamato per l’arbitraggio dell’andata. Risposta del Napoli: volete solo ingigantire tensioni ed innervosire. La partita delle parole, è già iniziata in una vigilia ardente. La formazione di Ottavio Bianchi, è la stessa dell’andata. Careca ha recuperato da un infortunio e gioca. L’arbitro è lo spagnolo Arminio. Dopo un quarto d’ora e più di studio, Alemao piazza la prima sorpresa concludendo in gol un assist di Careca ed una lunga corsa personale. Passano dieci minuti e lo Stoccarda trova il pari. La bionda chioma di Klinsmann salta più in alto di tutti su un angolo. Equilibrio e gol, come da finale che si rispetti. Al 39’ però la Coppa prende la strada di Napoli. Maradona batte un corner dalla destra. Respinge la difesa, Diego decide di metterla in mezzo di testa. La palla incontra Ciro Ferrara che si era portato in avanti. Il numero 2 la calcia col destro, al volo. Immel, frastornato, è battuto. “Con una smorfia di gioia e commozione va a rifugiarsi nell’abbraccio dei compagni”, commenta Bruno Pizzul, l’aedo televisivo della gara di ritorno. Quel Napoli era la profezia di Maradona e la grazia di Careca ma era anche l’amministrazione attenta di Renica e Ferrara. Non scindeva mai la sua bellezza dalla sua concretezza. Lo Stoccarda non capisce più niente di questa sciarada campana. Al 17 del secondo tempo ecco la coppia più bella di Napoli che si diverte come bimbi in spiaggia. Maradona corre, arresta il passo sente Careca dall’altra parte, lo serve. Il brasiliano riceve palla e con un tocco sotto fulmina Immel. Ciao ciao Stoccarda. I tedeschi hanno ancora ossigeno, troveranno prima l’autogol di De Napoli e poi la rete di Schamaler ma il respiro della Coppa Uefa è tutto azzurro, è tutto Napoli, che diventa internazionale, che sotto il Vesuvio porta l’Europa.
SCOVATE
da carletto Il dj/speaker di RTL 102.5 Carlo Carletto Nicoletti seguirà i profili Instagram e Twitter dei giocatori più importanti del pianeta Calcio e ci segnalerà le foto e i tweet più divertenti e particolari. Segnalate quelle che magari potrebbero sfuggirgli scrivendogli al suo profilo Twitter e Instagram @carlettoweb
DONNARUMMA
Fischiato dai suoi tifosi si sfoga chiarendo la sua posizione sui social.
RODRIGUEZ
Ritorno a Firenze per Natale per l’ex difensore viola e rimpatriata con gli ex compagni .
BOATENG
Botta non piacevole per il Boateng del Bayern Monaco.
PIRLO
Ormai ritiratosi si gode la neve di New York.
98
DE SILVESTRI
Cena di squadra tutto il TORINO al completo e con commento dell’ex Zappacosta, adesso al Chelsea.
MORATA
Erede in arrivo per l’ex attaccante della Juventus.
PRINCE BOATENG Bel ko per il Boateng ex Milan.
SEPE
Cena di Natale anche per il Napoli! Sepe con Hamsik, Insigne e Allan.
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TIRA FUORI IL CAMPIONE CHE C’E’ IN TE!
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celocelomanca
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