UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI UDINE
Dipartimento Politecnico di Ingegneria e Architettura Corso di laurea in SCIENZE DELL’ARCHITETTURA (classe L-17)
Tesi di laurea:
IL KIRE DEL CONTEMPORANEO Dialoghi con il Paese del Sol Levante di alcune delle grandi personalità occidentali contemporanee
Relatore: Prof./Arch. Giovanni La Varra
Laureando: Tommaso Antiga (matr. 135846)
Anno Accademico 2018/2019
INDICE
1. INTRODUZIONE: RIDURRE IL CAMPO D’AZIONE .................................................. VII 2. PARTE PRIMA: DAL GENERALE ................................................................................ 2 2.1 LA BEVANDA DEL TE’ SPOPOLA .................................................................... 4 2.2 Intermezzo: ORIGINALITA’ ................................................................................ 7 2.3 PER UNA VISIONE OSTINATAMENTE CLASSICISTA: UN MODO PER SFUGGIRE ALLA CORRUZIONE DEL TEMPO .......................... 11 2.4 APERTURA ..................................................................................................... 15
3. PARTE SECONDA: AL PARTICOLARE ..................................................................... 20 3.1 CONSTANTIN GUYS: IL GESTO ATTENTO .................................................... 22 3.2 EDOUARD MANET: DELL’ANTI-CONVENZIONALE ....................................... 27 3.3 CLAUDE MONET: DELLA RAFFINATEZZA ..................................................... 34 3.4 VINCENT VAN GOGH: DELL’ILLUSIONE ....................................................... 40 3.5 HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC: DELL’ACCESSORIO ............................... 47 3.6 LA GUERRA RUSSO-GIAPPONESE .............................................................. 53 3.7 Intermezzo: MODERNITA’ ............................................................................... 56 3.8 ADOLF LOOS: IL KERNEL S-VUOTATO ......................................................... 62 3.9 FRANK LLOYD WRIGHT: DELL’ORGANICO, O SECONDO NATURA .......................................................................................................... 67 3.10 RAINER MARIA RILKE: DELL’INDICIBILE .................................................... 75 3.11 PAUL KLEE: DELL’INVISIBILE ...................................................................... 81 3.12 BRUNO TAUT: IL DUPLICE ANIMO .............................................................. 89 3.13 CHARLES & HENRY GREENE: UNA CASA IN LEGNO A PASADENA ................................................................................................... 95 3.14 LUDWIG MIES VAN DER ROHE: UN UNICO CONVOLVOLO ............................................................................................ 100 3.15 CARLO SCARPA: PENSARE (ANCHE) CON LE MANI ............................... 107 3.16 Conclusioni: IL MOVIMENTO METABOLISTA E LA WORLD DESIGN CONFERENCE DEL 1960 .............................................. 113 Bibliografia, sitografia e video-filmografia .................................................................. 123 III
“L’uomo moderno progredisce, l’Europa verrà rigenerata dall’Asia. E’ la legge storica per cui la civiltà si muove da Oriente ad Occidente (…). Le due forme di umanità infine si fonderanno insieme”. (di Gustave Flaubert, Bouvard et Pécuchet, in Euvres, Gallimard, 1952, vol. II, p. 985)
Fig. 1.1: Jan Stradanus, vignetta del frontespizio di Nova Reperta, intorno al 1600.
VI
1. INTRODUZIONE: RIDURRE IL CAMPO D’AZIONE
“Orientalismo (…) è anche una certa volontà o intenzione di comprendere - e spesso di controllare, manipolare e persino assimilare - un mondo nuovo, diverso, per certi aspetti alternativo” (da Orientalismo, E. Said, p. 21). Si potrebbe dire lo stesso per il cosiddetto giapponismo di fine Ottocento? La risposta penso possa essere affermativa, in quanto ritengo non ci siano grandi problemi
di significato nella semplice sostituzione dei due -ismi. Vorrei innanzitutto far volgere l’attenzione ad uno strano climax, se così è definibile, che scorre all’interno della citazione precedente, letta d’ora in poi a sostituzione avvenuta. Said utilizza cinque parole - due sostantivi e tre verbi - per sottolineare gli scopi quasi scientifici, le finalità quasi naturali e spontanee, che muovono l’occidentale incuriosito dell’epoca. Dapprima ci presenta un uomo razionale in tutto e per tutto, che si muove per “volontà ed intenzione” di comprensione, ci mostra, per così dire, l’aspetto illuminato della faccenda, la parte esibita della medaglia dell’occidentale, che ha nella Rivoluzione Illuministica il motore per ritenersi un passo avanti rispetto a coloro i quali tale progresso di pensiero e di società non l’hanno mai provato; con questo binato il climax sale. Ecco che poi, però, l’autore ci mette in guardia: “controllare e manipolare” sono i successivi due verbi, che subito ci distolgono dalle due parole precedenti per leggerci e mostrarci l’altra faccia della medaglia, quasi la parte scomoda di un surreale biglietto da visita. Perché in Occidente era intanto passato un altro secolo, la storia non si era fermata al periodo illuminista, ed era stato il tempo dello spirito di omni-potenza che aveva guidato moltissime navi ed eserciti alla volta di territori più o meno vicini geograficamente, con l’intenzione di costituire o ri-costituire un’unità nazionale, e di terre lontane, nel tentativo di arricchire su tutti i fronti la madre-patria; con questo binato il climax scende. Sì e no che ci si accorge del saliscendi interpretativo e subito l’autore, dapprima oggettivo nella sua sintesi concentrata dell’Occidente degli ultimi secoli, stavolta esprime il suo giudizio e neanche troppo velatamente, poiché quel “persino”, non in quanto tale ma proprio perché viene subito dopo il binato discendente di questo climax, occide valorialmente, in maniera definitiva per l’autore, l’Occidente, che si presenta quindi come assetato di conoscenza però finalizzata al controllo, alla manipolazione e persino, sia mai, all’assimilazione - “assimilare” è la quinta parola - degli aspetti che più potrebbero garbare del nuovo mondo. In breve: ciò che si è tentata è una scalatura, sul piano storico degli VII
ultimi due secoli, di un’affermazione fatta da Said nel 1970, cercando di ridimensionarla, rimpicciolendola ma mantenendone il piano storico di provenienza, ad una espressione giapponismo - che quasi può essere contenuta, come in un gioco di scatole cinesi, nella precedente - orientalismo - in uno zoom a livello di contenuti e Paese. Pur trattandosi di un’interpretazione nell’interlinea, di un’estrapolazione di significati e giudizi mai del tutto uguali a ciò pensato dall’autore di riferimento, che potrà anche sembrare grossolana o superficiale, questo mio tentativo si fonda sull’idea di un Occidente che praticamente da sempre vive nel mito di se stesso e per questo si relaziona all’altro da sé sempre e comunque tentando di declinare le culture diverse secondo i canoni e le categorie tipicamente propri. E’ un Occidente che, poiché lo è sempre stato, sarà sempre alla conquista di e mai nella conoscenza di, che non vuole relazionarsi senza pretese, ma sempre ricerca il fine, il senso della relazione. Lo stesso Marcello Ghilardi, filosofo, in un’intervista, mette in guardia noi occidentali agenti su un possibile futuro da subenti le altre culture, in un movimento eguale ma opposto, che muove verso, a mio
parere, un’inter-culturalità che andrebbe maggiormente, fin da ora, ricercata. Primo motivo di tale trasposizione come passaggio e messa a fuoco da orientalismo a giapponismo è la volontà di restringere il campo di studio, cosa che lo stesso Said fa all’inizio della sua opera: “Una delle cose più importanti che ritengo di avere imparato, e che ho tentato di trasmettere, è che (…) il punto di partenza è in fondo un elemento entro il campo di indagine cui ci si rivolge, che occorre innanzitutto delimitare e separare, in modo sempre in parte artificioso, da tutto ciò che lo circonda” (ibidem, p. 25). Così come Said taglia fuori dal suo discorso India, Giappone e Cina, e si sofferma quasi totalmente sul Medio-Oriente e alle sue proprie vicessitudini storiche in un dualismo di incontro o scontro con l’Occidente, io taglierò via dalla cartina mentale del discorso tutto l’Oriente che non sia Giappone, tutto l’Occidente che non sia Europa e Stati Uniti: tale seconda precisazione può sembrare più scontata della prima ma non lo è se, come vorrei fosse sempre fatto, si pensasse ad Occidente-e-Oriente come ad un dualismo efficace solo a livello geografico, mai culturale. Efficace poi, di fatto, a livello linguistico e di comprensione, ma comunque privo di senso in quanto gli stessi due termini si basano sul movimento del Sole rispetto ad una mappa eurocentrica (per cui “occidere”, laddove il Sole muore, e “oreo”, laddove il Sole nasce, si origina). Fatta questa premessa sarà chiaro come la precisazione abbia senso in quanto anche un continente come l’Africa e l’intera America del Sud siano ad ovest rispetto al Giappone. E’ scelta programmatica che non vuole significare dimenticarsi di ciò che rimane tagliato fuori o ancora peggio fare finta che questo non esista più o non sia mai esistito. Significa semplicemente restringere il campo visivo e di argomentazione, pur tenendo ben saldo ciò che c’è oltre, che mai potrà smettere, comunque, di influenzare e cambiare, cambiando, ciò che è l’argomento della trattazione. E’ dall’alba dei tempi che tutto ciò che è sconosciuto diventa uguale, quasi come un unico velo abbracciasse territori, geografie, culture e religioni anche profondamente VIII
diversi: sempre lo stesso Said prende in esame, criticandolo, il celebre Eschilo che, nel suo Persiani, opera del 472 a.C., è vero cerchi quasi di operare per rendere mansueto un popolo, al volgo, barbaro e ribelle, avendo la buona intenzione di trasformare un’alterità assai distante e piuttosto minacciosa in un insieme di figure relativamente più familiari, ma lo fa tenendo in considerazione un’unica popolazione orientale come paradigma di tutta quella che all’epoca poteva essere considerata come “Terra d’Oriente”. Dello stesso tono è la critica che Giangiorgio Pasqualotto, uno dei filosofi contemporanei che più si è occupato del rapporto tra i due mondi, muove verso A. K. Coomaraswamy, che nel testo La trasfigurazione della natura nell’arte, circa 15 anni prima, parla di teoria dell’arte in Asia. Per Pasqualotto “non si può parlare di estetica orientale per il fatto, del tutto evidente, che “Oriente” designa una varietà di regioni, culture, tradizioni assai diverse, che comprende le tre grandi civiltà dell’Islam, dell’India e della Cina, ma anche quelle meno ampie, benché non meno importanti, del Giappone, della Corea, del Tibet, della Birmania e della Thailandia, ciascuna delle quali possiede una propria lingua, proprie tradizioni artistiche, nonché propri canoni estetici. (…) Quando si parla di “Oriente” si dovrebbe quindi sempre specificare di quale Oriente si sta parlando e ci si sta occupando”. Anche perché è la stessa parola “Oriente” a mutare di significato tra un periodo storico ed un altro: è un termine contenitore che muta al mutare di ciò che contiene. Difatti nell’Europa napoleonica tale termine, utilizzato senza ulteriori aggettivazioni, indicava l’area geografica di quello che noi oggi chiamiamo generalmente Medio-Oriente, ovvero l’area geo-politica che coincide essenzialmente con quella islamica, poiché quello era il mondo altro dal quale la cristianità aveva sempre cercato di differenziarsi, di sconfiggere, di soggiogare. Nel Settecento, quindi, al di là della Persia tutto era remoto. Paesi come l’India, la Cina e chiaramente lo stesso Giappone erano quasi del tutto sconosciuti. Durante l’Ottocento vi fu un graduale avvicinamento degli estremi, per mezzo soprattutto del progresso nelle comunicazioni e nei trasporti, e di conseguenza pregiudizi ed ideali tipicamente associati, durante il secolo precedente, all’area medio-orientale, ora traslavano e andavano a denotare i paesi richiamati poco fa: erano allora la Cina, l’India, il Giappone a diventare le terre del mistero, della seduzione, dell’eccesso e dell’impostura. E di per giunta la millenaria Europa non veniva scalfita nel suo essere la patria della ragione, della morale, della misura e del diritto. Secondo motivo di questo esercizio di trasposizione risiede nel voler ampliare un minimo, restando nelle potenzialità dei miei mezzi, il ventaglio della trattazione delineato da Said, che di Giappone appunto non parla, cambiando però il focus d’interesse, passando così dall’ambito economico-geopolitico a quello umanistico, e concentrandomi su singolarità di autori, senza mai parlare di paesi e nazioni. Ora, dopo aver cercato di spiegare brevemente come si è voluto restringere il campo a livello spaziale e geografico, tenterò di farlo anche a livello temporale e storico. Ho in prima battuta utilizzato la parola giapponismo, introducendola e gettandola nel testo senza dapprima porre precise condizioni per il suo utilizzo, che penso debba IX
essere controllato. Molto spesso sentiamo parlare di -ismi in quasi tutte le discipline e ritengo che soprattutto nell’ambito storico-artistico di tale suffisso si abusi: è molto spesso solamente un tentativo di categorizzare ciò di cui si sta parlando, rendendo più facile la trattazione, in quanto ciò permette di parlare di un qualcosa di particolare affibiandogli caratteristiche storicamente riconosciute al generale in cui tale particolare noi inseriamo, riuscendo così a rendersi la vita più facile dal punto di vista comunicativo, ma senza toccare minimamente, alcune volte, il cuore della faccenda. E’ molto facile, ad esempio, parlare di un Paul Klee imbrigliandolo come astrattista, dimenticandosi totalmente, molto spesso, come per moltissimi altri grandi autori, del pittore che Klee fu prima di approdare ai suoi più famosi esiti e capolavori o, ancor di più, di ciò che egli significa per la cultura del Novecento anche come scrittore e poeta. Lo stesso si potrebbe dire riguardo ad uno dei massimi artisti del Novecento europeo, Magritte, spesso etichettato come surrealista, il ché non è completamente errato ma alquanto improprio, in quanto è lo stesso Magritte in alcuni scritti a definirsi quale “mentalista”, ricordandoci che alla corrente surrealista non si sentiva di appartenere. E volendo si potrebbe continuare, ma penso che il senso si sia colto. Ho quindi cercato di evitare proprio nelle primissime righe tali precisazioni ma, adesso che le ho rese, in quanto dovute, di sicuro sarà molto più chiaro il motivo per cui ho utilizzato il termine giapponismo. Più o meno tutti associamo mentalmente tale parola ad un periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e i primi lustri del Novecento, quando spopolarono in Europa dalle stampe nipponiche ai tipici kimono, poco più di una moda insomma, e come tale passeggera, che influenzò, nei migliori dei casi, qualche opera di Van Gogh o Monet, senza che ci venga in mente molte volte neppure quel genio che fu Henri de Toulouse-Lautrec, forte appassionato pure lui del Paese del Sol Levante. Ora, almeno per questo breve testo, vorrei che tale termine non venisse inteso in tal modo. E’ mia intenzione proporre una lettura di tale parola un po’ più ampia cercando, in primis, di staccarla da un incastro storico ormai consolidato ma abbastanza sfortunato e poco educato soprattutto nei riguardi di chi si è confrontato con uno specifico esotismo nipponico - espressione di cui forse ha già più senso parlare - prima e dopo gli anni solitamente menzionati quando si parla di tale fenomeno. Tutto questo per accorgerci che forse, allora, proprio perché sarà a breve dimostrato come tali fenomeni siano determinati -ismi molte volte solo quando vengono portati ad una conoscenza allargata ma superficiale, quando in realtà da sempre scorrono e vivono nei sotterranei - e neanche troppo - culturali, non avrà più molto senso denominare come tale un qualcosa che fa parte, consolidatamente, della cultura nella sua evoluzione tra le varie epoche. E ne fa parte, sia chiaro, più o meno accentuatamente, ma pur sempre in maniera inscindibile rispetto alla “tendenza dominante”: questa sottolineatura è dovuta in quanto capita perlopiù di pensare ad -ismi, a livello storico-artistico s’intende, per definire - e già questo non andrebbe fatto - e scandire periodi storici che s’alternano, retaggio anche questo di una pretesa costruzione ciclica della storia che, come vedremo, forse non vale più la pena di affermare. X
Ma andiamo per ordine. “Torniamo al paradigma col quale ho tentato di evidenziare l’idea di progresso nell’antichità classica, ossia l’evoluzione dal rigido stile arcaico fino alla magistrale trattazione del corpo umano che sarebbe culminata nell’arte di Lisippo, contemporaneo di Alessandro Magno. Ho descritto questo processo come l’elaborazione di mezzi tecnici per un dato scopo, per l’appunto la rappresentazione convincente del corpo umano in movimento e in quiete. Nella concezione da me chiamata l’idea di progresso “strumentale” o classica, l’evoluzione storica ha termine non appena raggiunto lo scopo e conseguita la perfezione. Gli scarsi nomi di scultori antichi posteriori a Lisippo a noi pervenuti non si possono più ordinare in un’analoga chiara successione. La concezione classica di soluzione perfetta comporta che la storia successiva non possa segnalare che il declino o, nel migliore dei casi, la restaurazione dell’arte. Niente, in fin dei conti, può essere più perfetto della perfezione. Ho anche ricordato che Vasari condivideva questa concezione strumentale dell’arte, secondo la quale la pittura era risalita dalla sua più profonda depressione sino ai capolavori di Raffaello e di Michelangelo. Ma già all’epoca in cui Vasari scriveva, la sua fede nella rinascita dell’antichità classica, nel Rinascimento, veniva impercettibilmente minata da una forza nuova e ancor più efficace, la forza del progresso tecnico e scientifico. Il caso volle che fosse proprio un allievo e collaboratore di Vasari, il fiammingo Jan van Straat o Stradanus, che diede corpo a questa fede in una famosa serie di incisioni da lui pubblicate intorno al 1600 col titolo “Nova Reperta” (Nuove invenzioni e scoperte). Come si vede dal frontespizio queste novità consistono proprio in quelle cose che distinguono l’età moderna dall’antichità: la scoperta dell’America, la bussola, la polvere da sparo, l’arte della stampa, l’orologeria, la distillazione dell’alcool, la seta, le staffe da cavallo ed un presunto rimedio contro la sifilide. E’ interessante considerare quante di queste innovazioni provenissero dall’Oriente. Tutti sappiamo dalla scuola che la bussola e la polvere da sparo vennero inventate dai Cinesi. E’ assai probabile che anche l’arte della stampa, già da gran tempo conosciuta in Cina, venisse da qui importata in Europa, e per la fabbricazione della carta la cosa è addirittura documentabile fase per fase. La seta e le staffe ci vennero dall’Asia, e la parola “alcool” è di origine araba. E’ lecito supporre che l’afflusso di questi nuovi elementi ponesse fine all’antica concezione ciclica e organica di progresso che sopravvive ancora nel termine “Rinascimento”. La rinascita dell’antichità era stata considerata equivalente al risorgere della civiltà. Il contatto con altre civiltà aveva provocato un impercettibile ma decisivo spostamento di equilibri. Grazie a queste innovazioni, specie nella tecnica, non era più desiderabile e nemmeno possibile recuperare l’antichità classica. Nella nostra incisione noi vediamo come l’età passata scompare e sopraggiunge la nuova. Non si tratta più del perfezionamento dei mezzi in vista di un dato scopo; ora mezzi nuovi rendono possibile prefiggersi nuovi fini. Nella storia non erano più possibili ritorni. Il corso del progresso veniva a perdersi nell’infinito” (da Arte e progresso, E. H. Gombrich, pp. 83-85). Facciamo quindi qualche passo indietro per cercare di discostarci rispetto ad una ormai fatidica data, quasi ci fosse solo quella per iniziare qualsiasi trattato o saggio XI
sull’esotismo nipponico, ovvero il 1854, quando il commodoro americano Matthew Perry lasciò che le ancore delle sue imbarcazioni si distendessero sul fondale della baia di Edo, odierna Tokyo. Tante date possono essere utilizzate come inizio, se mai ci fosse il bisogno di trovarne una precisa, della Contemporaneità, e penso che una di queste possa essere proprio questa, a volte poco considerata. Se la Modernità era stata inaugurata con la scoperta geografica dell’America, la stessa importanza la può rivestire per la Contemporaneità la scoperta, culturale stavolta, del Giappone. Ascoltando ciò detto da Gombrich però, bisognerebbe partire ancor prima, almeno arrivare intorno all’anno 1600. In realtà si potrebbe andare ancora e ancora indietro, fino ad accorgerci che una data precisa forse non c’è, e forse non ha neanche troppo senso chiederci se possa esistere o meno: perché allora la Contemporaneità avvolgerebbe i secoli che ora definiamo propri della Modernità, o viceversa, in maniera dipendente da come vogliamo vedere la faccenda. Ad ogni modo, così facendo creeremmo una sorta di trapassamento delle categorie temporali, molto utile ogni tanto, ma forse distorsivo
per i fini a cui tendo approdare con questo breve testo. Lasciamo quindi le distinzioni temporali così come sono, accettandole ma sorvolandole. Intorno a quel 1600, più che in altri anni, viene mosso il fondale e, con una metafora che utilizzerò anche nel susseguirsi del testo, delle orogenesi-progresso si manifestarono dallo scontro tra due placche culturali, quella orientale e quella occidentale, più che in molte altre occasioni. L’utilizzo di un termine proprio della geologia richiama quello utilizzato da Roland Barthes ne L’impero dei segni quando parla dell’illuminazione zen provocatagli da alcune scene di vita quotidiana o immagini, riflettendo sulle quali ha poi scritto il testo in questione: “Il satori (l’accadere zen) è un sisma più o meno forte (…) che fa vacillare la conoscenza, il soggetto: provoca un vuoto di parola. Ed è anche un vuoto di parola che costituisce la scrittura; è da questo vuoto che nascono quei tratti con cui lo zen, nell’esenzione di ogni senso, scrive i giardini, i gesti, le case, i mazzi di fiori, i volti, la violenza”. Ebbene, in questa sede, anche lo scontro tra due culture differenti vuole essere satori, sisma creativo, scaturigine di conoscenza e progresso. Abbiamo così portato a termine il primo passo del distacco rispetto alla convenzione. Ma ritorniamo alle ultimissime parole citate di Gombrich: “Nella storia non erano più possibili ritorni. Il corso del progresso veniva a perdersi nell’infinito”. Ora, penso di dare spazio ad una banalità dicendo che molto frequentemente si pensi ad una retta, ovvero un insieme di punti allineati, senza origine né fine, nel caso si ascoltino o leggano parole simili a quelle qui riprese. Da ciò nasce poi la netta distinzione tra una concezione lineare della Storia e quella ciclica che l’autore preso a riferimento ha appena prima smentito, sorpassato. Ma dato che egli stesso non ci presenta forme di pensiero riguardo a questa concezione dell’infinito progresso, io ritengo sia giusto immaginarla più come una spirale che come una retta, poiché proprio la spirale meglio rappresenta ciò che succede alla concezione ciclica quando viene tagliata ed aperta in un suo punto. Questo taglio o cesura è definito da Gombrich nelle seguenti parole: “Il contatto con altre civiltà aveva XII
provocato un impercettibile ma decisivo spostamento di equilibri”: proprio questo passaggio mi fa pensare ad un taglio (o kire, in giapponese) del nastro circolare - fino a quel momento - della Storia che si apre ora ad elica, avvolgendosi in spirale, iniziando un giro, apertura e avvitamento senza fine. Approfondendo a livello simbolico la questione: è cerchio la concezione di una perfezione che innanzitutto esiste ed è raggiungibile per mezzo di fasi d’ascesa; tale perfezione poi idealmente permane, ma superata è irripetibile. E’ spirale invece l’idea che trapassa quella appena descritta, che le viene dopo, che è concezione frutto del cambio dei tempi. Spirale perché il cerchio di prima si apre, non esiste più, in un movimento che non ha fine. Nella sua geometria quasi sembra ripassare in alcuni punti - basti pensare ad una stretta spirale - ma mai il passaggio avverrà esattamente nello stesso punto. Qualcosa deve per forza essere cambiato. La spirale indica ogni volta nuovi aggiornamenti delle tecniche, ogni volta nuovi scopi e fini, mai si presenta una situazione di decadenza così come mai età d’oro e perfetta: è un movimento aperto e non-gerarchico, poiché la perfezione del cerchio e assieme quella della circolarità della Storia si sono andati a perdere. Ora essa è orientata, guarda in avanti, mai si potrà ripetere uguale a se stessa. Tale ragionamento ha il suo grembo nell’evidenza storica di un’altro periodo di trasformazione, simile a quello descritto da Gombrich prima, ovvero proprio quello, cardine del discorso, di passaggio tra l’epoca moderna e contemporanea. Ed io, ancora, ci rivedo la stessa dinamica, o meglio, un secondo passaggio che ancora più chiaramente mette in evidenza il passaggio da cerchio a spirale, un ulteriore abbattimento delle verità imposte dalla tradizione. Dico “ancora di più” perché quello dell’Ottocento è il secolo di Hegel prima e Nietzsche poi, che mattone dopo mattone abbatteranno l’episteme occidentale, alla base della concezione ciclica della Storia, precorrendo un nichilismo che sarà poi in piena affermazione nel Novecento. Ed ancora una volta, per tornare al punto di partenza, guarda caso l’Oriente si fa sentire, quasi fosse comprovato che l’incontro-scontro tra le due metà del globo dia origine a grandi mutazioni. Una mutazione in forma di orogenesi-progresso ogniqualvolta le due placche si scontrano. Le immagini che possono venire in mente sono molte, e tra le più chiare vi è il tao, che ingloba spirale, opposizione ma anche fusione e movimento, tutti termini antitetici rispetto alla staticità del cerchio da cui siamo partiti. E proprio in un immaginario terremoto, che non si costituisce di scosse principali e di assestamento, bensì di continue, più o meno accentuate, scosse, scatenanti orogenesi-progresso, cercherò di inquadrare l’approfondimento. Ebbene, da questi presupposti l’intenzione è quella di leggere e cercare di scoprire quali sono stati, per così dire, i grandi terremoti di influsso giapponese tra fine Ottocento e Novecento in Europa, senza volermi dimenticare, tuttavia, delle continue varie scosse, meno discusse ma solidali alle grandi (ovvero ai grandi momenti di influsso) che, anche se non ne parlerò, penso rendano la situazione fortemente interessante, osservabile come un continuo flusso tra Oriente e Occidente e viceversa poiché, proprio come in un XIII
enorme calderone - qual è poi il nostro pianeta - l’isolamento totale rispetto al resto è impossibile, gli influssi sono sempre di più e sempre più parlano la stessa lingua. Nulla è pre-scindibile dal resto, tutto questo per una visione organicista, nella sua accezione di un tutto organico non-scindibile, interdipendente, temi e parole che ritorneranno nella trattazione. Una sorta di rivisitazione quindi, nell’epoca contemporanea, in chiave di afflussi giapponesi in Occidente, del panta rhei eracliteo, che ritorna come tema prepotente e incredibilmente attuale.
Fig. 1.2: Il simbolo del dao, o tao.
XIV
2. PARTE PRIMA: DAL GENERALE
Poste le premesse progettuali nell’introduzione appena conclusa, cercherò ora, nei successivi capitoli iniziali, di allargare ancor più le basi del discorso, evidenziando come, in primis, Europa e Giappone fossero già da tempo in comunicazione prima della fine dell’Ottocento, per via di questioni o usanze, come quella del tè, anche extra-culturali. Quindi evidenzierò il tema dell’originalità, centrale nel discorso che amplierò poi nei capitoli della seconda parte. Nel terzo smentirò tali premesse per un attimo, per far capire come, anche in una differente visione, abbia senso parlare e discutere del fenomeno dell’esotismo nipponico all’inizio della Contemporaneità. In ultima analisi, specificherò quindi le condizioni storiche necessarie per capire al meglio i prodotti artistico-culturali giapponesi tanto apprezzati dagli europei di fine Ottocento e della prima metà del Novecento.
2
Fig. 2.1: Utagawa Kunisada II, Tea ceremony, 1864.
3
2.1 LA BEVANDA DEL TE’ SPOPOLA
Perché partire da qualcosa che, a primo impatto, potrebbe sembrare così banale o futile rispetto al resto? Ebbene, lo vorrei fare a mo’ di aggiunta e allo stesso tempo conferma di ciò detto in precedenza, durante l’introduzione, attraverso le parole di Gombrich. Così come egli infatti analizza, attraverso lo studio dei Nova Reperta di Stradanus, quelle che lì sono raffigurate come scoperte eminenti per il balzo nella Contemporaneità, il sottoscritto vuole provare ad aggiungerne una, che di lì a poco, sempre in quegli stessi
anni, si affermerà tra le “Oriental stuff” approdate in Occidente: il tè appunto. Il mio non vuole essere un tentativo di elevazione di tale bevanda in modo che abbia un’importanza tale da pareggiare, ad esempio, polvere da sparo o stampa nella corsa al progresso dell’umanità. E’ solo un modo come un altro per sottolineare la continuità delle scosse o satori che creano orogenesi-progresso in ambito culturale, a cui ho prima accennato. “Lichihlai, un poeta Sung, afferma malinconicamente che tre sono le cose più deplorevoli al mondo: la rovina della migliore gioventù causata da un’educazione sbagliata, la degradazione dei bei dipinti provocata dall’ammirazione del volgo, e l’assoluto spreco di buon tè causato da una manipolazione incompetente”. La frase in questione si trova in apertura al capitolo che Kakuzo Okakura, nel suo famoso Book of tea del 1906, dedica alle scuole del tè, e già ci fa intendere perfettamente quanto tale pianta, usanza e bevanda - perché di tutto ciò si parla quando si parla di tè, in Giappone almeno - fosse considerata e venerata in quel paese. Capirne l’effettiva importanza è in realtà molto semplice: basta tenere in mente il trasposto, del tutto onesto e pesato, che può essere fatto tra l’importanza storica che ha per noi il sale con quella che, in Giappone e in generale nei paesi dell’Estremo-Oriente, riveste il tè. Così come noi possiamo parlare di “persone insipide” o di “sale in testa” riferendoci a persone rispettivamente non interessanti o dotate di intelligenza, allo stesso modo dall’altra parte del mondo, nel linguaggio comune, si dice che una persona è “senza tè” quando si rivela insensibile o poco empatica rispetto alle felicità o sciagure altrui, qualcuno insomma di tristemente impassibile. E così come in Europa si tengono spesso in considerazione le annate per quanto riguarda il vino, lo stesso in Giappone si fa per la produzione del tè. Prendendo a riferimento ciò scritto da Okakura per delineare una breve storia di tale usanza, si possono innanzitutto distinguere tre differenti modalità di preparazione del tè, che corrispondono alle diverse spinte emotive - così le intende il nostro - delle 4
dinastie cinesi T’ang (618-907 d.C.), Sung (960-1279) e Ming (1368-1644). La pianta del tè è infatti originaria della Cina meridionale, apprezzata e conosciuta fin da tempi antichissimi per le sue proprietà lenitive, rafforzanti e curative. Dalle pozioni agli impiastri, veniva storicamente utilizzata come rimedio a molti mali, per poi trasformarsi in bevanda all’incirca tra IV e V secolo nell’area valliva dello Yangtze-Chiang. Proprio come per il sale nell’Occidente romano poi, a quel tempo, “gli imperatori erano soliti elargire agli alti funzionari, quale ricompensa per importanti servigi, dei rari preparati a base di foglie di tè” (Book of tea, p. 22). Ma il culto vero e proprio per tale bevanda come lo conosciamo al giorno d’oggi si può dire nasca durante la dinastia T’ang, con Lu Wu, considerato univocamente dalle varie fedi religiose orientali come primo apostolo del tè, in un’epoca in cui buddhismo, taoismo e confucianesimo cercavano una sintesi unitaria. Egli per primo vide nell’usanza di servire il tè la stessa armonia di fondo e alla base di tutte le cose che viviamo e che ci appaiono: da questa sua riflessione nacque il Ch’a-ching (Il libro del tè), in cui spiega per filo e per segno, a partire dalle qualità della pianta e dagli utensili
per disporne, la modalità di preparazione del tempo, che Okakura denota come prima e vera, ovvero quella del tè bollito, considerata la prima scuola. Durante la successiva dinastia Sung si fece largo invece il tè sbattuto in polvere, che diede origine alla seconda scuola del tè. Le foglie della pianta erano dapprima macinate in un piccolo mortaio di pietra e ridotte in polvere finissima: tale preparato era quindi sbattuto in acqua calda per mezzo di un piccolo frullino in bambù. In generale, durante il periodo Sung, si ebbe l’apice di apprezzamento e diffusione di questa bevanda: gli stessi imperatori dell’epoca non esitavano a bandire gare con grandissimi premi per farsi ricercare e procurare le varietà migliori e più rare, tra le quali quella del tè bianco. E proprio in quest’epoca, tra i buddhisti della setta zen meridionale, che tanto aveva assorbito delle dottrine taoiste, si diede alla luce un elaborato rituale del tè, durante il quale i monaci, raccolti dinanzi all’immagine del Bodhidharma, bevevano da un’unica tazza. Fu da questo rituale zen che nel Giappone del XV secolo derivò la cerimonia del tè. Abbiamo visto quindi, nella tradizione cinese, e di conseguenza giapponese, di preparazione del tè, come le prime due storiche scuole differiscano entrambe dalla maniera classica secondo la quale siamo soliti preparare questa bevanda in Occidente, ovvero tramite infusione. Perché dunque, nell’Europa di fine Seicento, giunge tutt’altra lavorazione? Un motivo di questa nostra ignoranza deriva dal fatto che un improvviso scatenarsi delle tribù mongole nel XIII secolo, il cui risultato fu il totale asservimento della Cina, distrusse tutto ciò che la cultura Sung aveva prodotto. Solamente dopo oltre due secoli di impero Yuean, barbarico, la dinastia locale Ming, a metà del XV secolo tentò di ricostituire l’unità e l’identità nazionali, senza però ottenere grandi risultati. “Il tè in polvere venne completamente dimenticato. Abbiamo notizia di un commentatore Ming incapace di ricostruire la forma del frullino da tè menzionato in un testo classico del periodo Sung” (ibidem, p. 26). Tale dinastia Ming era tra l’altro minata da dissidi interni, che portarono la Cina ad essere dominata dagli stranieri manciù nel XVII secolo. Di conseguenza il primo 5
e principale motivo per cui il mondo occidentale ignora i metodi più antichi di gustare il tè deriva dal fatto che tale bevanda fu conosciuta in Europa solo alla fine della dinastia Ming. Un secondo motivo è il seguente. Contrariamente alla Cina, il Giappone resistette alle invasioni mongole prima e non fu preda dei manciù poi, e la tradizione del tè Sung (in polvere) continuò imperterrita, senza trovare ostacoli, fin dagli albori della sua diffusione, che avvenne nel 1191. Quest’anno vide il ritorno in patria del monaco Eisai Zenji, che si era recato in Cina per studiare la scuola dello zen meridionale. Tale dottrina si diffuse in Giappone con un’incredibile rapidità, ed assieme ad essa anche il rituale e l’ideale del tè d’epoca Sung. E proprio perché il paese, nei secoli successivi, non fu flagellato dalle guerre e dai massacri, riuscì, molto più della Cina, a trasformare la cerimonia del tè nella sua forma definitiva, a farla diventare usanza autonoma e secolarizzata. “Per il cinese dei nostri giorni, il tè è una deliziosa bevanda, non un ideale. Le sventure che a lungo hanno devastato il suo paese, gli hanno tolto il gusto di ricercare il significato della vita. Il cinese è diventato un uomo moderno, vale a dire un uomo vecchio e disincantato. Ha perso quella sublime fede nelle illusioni che rappresenta l’eterna giovinezza e la forza dei poeti e degli antichi. (…) E’ nella cerimonia praticata in Giappone che gli ideali del tèismo raggiungono il loro culmine” (ibidem, p. 26). Ma tra XVII e XVIII secolo anche in Giappone prese piede l’usanza del tè infuso, che nell’uso quotidiano soppiantò quello in polvere, seppur quest’ultimo conservi ancora il ruolo di tè dei tè. Di conseguenza, dopo tale breve racconto, appare del tutto sensata la nostra ignoranza riguardo ai metodi più antichi di preparazione. Il tè verrà infatti conosciuto ampiamente e costantemente portato in Europa solo dopo la fine del Seicento: per avere il primo carico a Londra dovremo infatti aspettare il 1669. Alcune testimonianze nei decenni precedenti furono dapprima italiane - da missionari e segretari della Repubblica di Venezia durante la fine del Cinquecento - per quanto riguarda la Cina, e quindi eminentemente olandesi per quanto riguarda il Giappone. Nel 1609 per la prima volta vascelli olandesi attraccarono a Hirado, da lì iniziarono a prelevare carichi di tè verde e a trasportarli a Bantam (Isola di Giava), luogo da cui li invieranno in Europa. Non dobbiamo dimenticarci poi che, a seguito della ribellione dei giapponesi convertiti al cattolicesimo, meglio conosciuta come Rivolta di Shimabara, a cavallo tra 1637 e 1638, tutti gli occidentali presenti nell’arcipelago giapponese furono espulsi per mezzo dell’editto di espulsione dell’anno successivo. Tutti a meno degli olandesi poiché in quell’occasione, con le loro imbarcazioni da guerra, aiutarono le forze governative shogunali a sconfiggere ed abbattere il castello di Hara, luogo in cui si erano rifugiati i cristiani. Successivamente a tali eventi gli olandesi furono sì confinati sull’isola di Deshima, di fronte a Nagasaki (città di fondamentale importanza sin dagli albori dei rapporti commerciali tra Est ed Ovest del globo: in pochissimo tempo si trasformò infatti da piccolo villaggio di pescatori in un porto internazionale) ma, da lì, furono gli unici a poter continuare, nei seguenti due secoli di sakoku o chiusura volontaria, trattative e rapporti commerciali con il Giappone.
6
2.2 Intermezzo: ORIGINALITA’
“Per tornare alle fonti, bisogna andare nel senso contrario” (da Il Monte Analogo, Renè Daumal, 1952). L’intenzione di questa pausa è specificare che cosa? Che si è voluti partire da un’introduzione di carattere generale, in cui si è considerata anche una delle semplici mode o tendenze, che hanno però molto spesso l’arduo compito di aprire le porte verso altre
culture, rendendole più familiari e invitando alcuni ad andare più a fondo. Nella storia è comprovato infatti che solo chi vi si addentra nel profondo delle viscere culturali dell’altro da sé riesce poi a stabilire connessioni, relazioni e originare, perciò, innovazioni. Come? Cambiando il modo di vedere le cose proprio perché pensante in maniera differente a causa di quanto assorbito di diverso da sé. Ma torniamo per un attimo alle parole stesse, i cui significati più propri alle volte ci sfuggono. Originalità. Dal latino “originalem”: composto di “originem”, ovvero “origine”, con suffisso “-alem”, indicante appartenenza. C’è, fin dall’etimo della parola stessa, un collegamento rispetto all’inizio, un movimento che muove verso l’origine, un attaccamento filiale di colui che si dispone come originale e la causa prima della materia stessa all’interno della quale questo qualcuno si sta muovendo. E’ una ri-fondazione, un ri-pensare alla base. E originali furono perciò i geni creatori e gli innovatori, gli artefici del cambiamento, del progresso, miglioramento e sviluppo delle dottrine, con queste le più diverse tra loro. Ora, l’apertura del Giappone al mondo è stata fondamentale nei termini di un “accorgersi” da parte dell’Occidente di una terra fino a quel momento quasi del tutto sconosciuta. E questo avvenne in un momento di profonda crisi, già iniziata e di sicuro incentivata da ciò, all’interno del’Occidente stesso che stava, in quei decenni di fine Ottocento, rimettendo in discussione i capisaldi del suo pensiero: il culmine di tale processo si avrà con Nietzsche e la sua filosofia che sarà poi alla base della speculazione del Novecento. Detto ciò vorrei prendere ad exemplum una dottrina ed un testo per spiegare meglio questa faccenda, che è poi la scaturigine di questo stesso approfondimento. La dottrina è l’architettura ed il testo è il fondamentale La casa di Adamo in Paradiso dello storico polacco naturalizzato inglese Joseph Rykwert. Ciò scritto qualche riga fa corrisponde a grande linee ad una sintesi del concetto alla base proprio di questa sua pubblicazione. Ritengo infatti che tra Otto e Novecento succeda, anzi, si ripeta, quello che Rykwert racconta essersi sempre fatto, o meglio, fecero le migliori teste pensanti. Egli spiega come 7
i maestri del Novecento - e non solo, ma i nomi principali sono di quel secolo - abbiano sempre mosso un passo indietro prima di farne due avanti, dove questi due avanti hanno significato un portato innovativo enorme, insomma, ciò che li ha resi protagonisti della riforma del Moderno. E questa può essere definita una costante: spostandoci dall’architettura alla filosofia, lo stesso Friedrich Nietzsche riparte da Platone per capovolgerlo, ha il fegato, si potrebbe dire, di fare un enorme passo indietro, memore allo stesso tempo però di tutto il portato culturale maturato intanto in quei secoli, per farne poi più d’uno avanti: del Nietzsche definito come profeta infatti, ce ne ricordiamo tutti. Qualche decennio dopo, nella fisica, Albert Einstein ripensa dall’inizio la concezione dello spazio e del tempo nel suo studio della relatività. E questi sono solo due esempi tra i più noti, con l’unico scopo di rivelarsi chiarificatori. Coloro che sono passati alla storia, e non solo all’apice della cronaca mondana del tempo, hanno sempre voluto ri-iniziare, ri-fondare la dottrina, architettonica, filosofica o matematica che fosse. Hanno sempre voluto fare tabula rasa: ciò non significa in alcun modo, come già anticipavo prima, ignorare la sto-
ria precedente, ma anzi studiarla e conoscerla talmente bene da poterla per un attimo “interrompere” per superarla. Ripartire dalle origini, dal motivo primo del loro mestiere. Ma ritorniamo all’exemplum di Rykwert: questi grandi maestri del Moderno, in momenti decisivi della loro vicenda, proprio quando si trattava di introdurre radicali innovazioni e di risolvere i problemi in maniera aggiornata, la più intelligente possibile, si rifanno ad una mitologia delle origini del costruire, quasi inseguendo l’immagine di una prima casa giusta perchè prima, perduta ma pur sempre presente come archetipo. E proprio questo è il punto. In quegli anni il Giappone si apriva all’Occidente che proprio lì, in quel determinato momento storico, va a ricercare lo spunto, l’archetipo giusto perché primo. Il Giappone è la terra primitiva tanto ambita dai più sensibili. Ma perché, almeno agli occhi degli occidentali, primitiva? Perché “incontaminata, (…) all’unisono con le leggi fondamentali di tutta la creazione” (cit. di Le Corbusier, da La casa di Adamo in Paradiso, J. Rykwert, p. 18), terra abitata da un popolo “il cui pensiero” non era stato ancora “inceppato dall’artificio e distorto dal pregiudizio” (ibidem). Un Paradiso ingenuo, per dirla attraverso una terminologia schilleriana. Il Giappone fu quindi concepito come quel Paradiso perduto a cui, chi volle aggiornare ed innovare, fece riferimento nel momento in cui pensò all’origine, all’arché, nel tentativo del superamento di un periodo concepito come saturo. E’ tornare indietro per imboccare una via diversa, ri-pensare la dottrina per ottenere progresso, dato che la via percorsa in precedenza, si è ormai appurato, non fa altro che ripetersi. Essa sbatte contro un muro per niente valicabile. Forse solamente aggirabile. A conferma di quanto detto, recita così Walter Crane, uno dei maggiori esperti, tra i due secoli, della cultura giapponese: “L’apertura dei porti giapponesi al commercio europeo ha avuto indubbiamente un’enorme importanza sull’arte occidentale. Per quanto riguarda arte ed artigianato, il Giappone è ora un paese nelle condizioni in cui poteva trovarsi uno stato europeo nel Medioevo, con artisti e artigiani meravigliosamente istruiti 8
in ogni tipo di lavoro decorativo. Ecco finalmente un’arte viva, un’arte popolare in cui dominano tradizione e maestria e la cui espressione è di un’avvincente varietà e forza descrittiva. Non sorprende, quindi, che gli artisti occidentali l’abbiano presa d’assalto e che la sua influenza sia così preponderante”.
Fig. 2.2: Raffaello, La predica di S. Paolo ad Atene, 1515-16.
9
Fig. 2.3: Sebastiano Ricci, Predica di San Paolo, 1712-16.
10
2.3 PER UNA VISIONE OSTINATAMENTE CLASSICISTA: UN MODO PER SFUGGIRE ALLA CORRUZIONE DEL TEMPO
“Lo scopo dell’arte cristiana consiste nel porre in maniera persuasiva e toccante davanti agli occhi dello spettatore le figure sacre e soprattutto le vicende della storia sacra, per così dire trasformandolo in un testimone dei fatti e delle sofferenze dei santi o anche degli eroi antichi, su cui egli deve meditare” (da Arte e progresso, E. Gombrich, pp. 11, 14). Da questa premessa nasce il giudizio di Vasari, secondo il quale un’opera come La predica di G. Battista di Andrea Tafi, realizzata intorno al 1300, venne superata dalla successiva La predica di San Paolo ad Atene di Raffaello, realizzata nel 1516. Ciò detto da Vasari è infatti perfettamente coerente rispetto alla sua visione, esternata dalla citazione precedente, rispetto cioè alla natura strumentale dell’arte nata come cristiana. La sua è un’operazione puramente logica: a seguito di una definizione di carattere generale, le associa o meno dei casi di carattere particolare. Essendo quindi le due opere prese in considerazione facenti parte dello stesso macro-insieme dell’arte cristiana - in quanto i soggetti e le vicende rappresentate sono propri di quella tradizione - al quale è applicabile tale teorema generale, sillogismo vuole che B sia migliore rispetto ad A, in quanto gli stessi mezzi sono meglio utilizzati in vista dello stesso fine. I due autori stanno spiegando di fronte a noi lo stesso argomento, e Raffaello parla meglio. “Abbiamo ogni ragione di accusare Vasari di non essere capace o di non volere comprendere le finalità del simbolismo pittorico medievale. Tuttavia, se si prendono le mosse dai suoi presupposti circa la funzione dell’arte, egli ha perfettamente ragione quando afferma che Raffaello rappresenta un progresso rispetto ad Andrea Tafi” (ibidem, p. 16). Dove esiste uno scopo infatti, ben si può parlare riguardo al progresso, che nasce quindi da una continua attività di apprendimento e perfezionamento. Passano altri due secoli ed è il 1714 quando Sebastiano Ricci termina di dipingere La predica di San Paolo ad Atene. Come si può notare dall’omonimia, l’episodio trattato è lo stesso rispetto a quello scelto da Raffaello: questi però sembra utilizzare il sacro testo semplicemente come scusa per dare libero sfogo alla sua qualità tecnico-pittorica, al totalmente arbitrario. Un Vasari di metà Settecento ci direbbe che Ricci non supera, pur venendogli dopo, il grande Raffaello, in quanto Ricci si lascia prendere la mano - da cui il termine “manierismo”, tipicamente di concezione classicista - dimostrando la sua abilità tecnica che è però fine a se stessa - ovvero essa stessa diventa il fine del fare artistico 11
- dimenticandosi dello scopo della composizione, cioè il monito di cui parla Vasari, a fondamento dell’arte di impianto cristiano. Non sarebbe per nulla faticoso, per un qualsiasi immaginario critico del Settecento, operare negativamente rispetto a quest’opera. Banalmente basterebbe infatti aspettare qualche decennio e riprendere ciò che Rousseau dirà in proposito: “Ogni artista vuol esser applaudito. Gli elogi dei suoi contemporanei sono la parte più ambita della sua ricompensa. (…) Abbasserà il suo genio al livello del suo secolo, e preferirà comporre opere comuni che vedrà ammirate in vita, piuttosto che meraviglie destinate ad essere ammirate molto dopo la sua morte. (…) E se per caso, fra gli uomini di eccezionale talento qualcuno ve n’è dotato dotato d’animo saldo, che rifiuta di seguire l’andazzo dei tempi e di avvilirsi con produzioni puerili, infelice lui! Morirà nella miseria e nell’oblio. Bella cosa se il mio fosse un pronostico, non un’esperienza che riferisco! Carlo, Pierre” - si riferisce ai fratelli Van Loo - “è venuto il momento in cui il pennello destinato ad accrescere la maestà dei nostri templi con immagini sublimi e sante vi cadrà dalle mani, o sarà prostituito a decorare di immagini lascive i pannelli d’una vettura (…)” (dal Discorso sulle scienze e sulle arti, pp. 18-19). Ebbene qualcuno in effetti lo fece: questi fu Winckelmann. A Dresda, nel 1755, egli pubblicò il celebre Manifesto del Classicismo, i suoi Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura. Dal titolo si ricava l’impressione che l’autore volesse semplicemente consigliare a tutti gli artisti della sua epoca l’imitazione delle opere greche, ma in realtà in questo appassionato pamphlet si nasconde soprattutto una lucidissima denuncia della corruzione del suo secolo, il XVIII: qui il termine “denuncia” vuole essere letto sempre tenendo presente i presupposti dell’arte vasariani (forse l’unica differenza risiede nel fatto che, se Vasari metteva in primo piano, per giungere alla perfezione dell’arte, la padronanza dei mezzi di evocazione drammatica, Winckelmann vedeva la rappresentazione riuscita della divina bellezza come causa fondante l’opera perfetta). Una denuncia quindi che è l’espressione di un’incredibile nostalgia per una fase della civiltà ancora incontaminata dalla corruzione, intesa da Winckelmann allo stesso modo di Rousseau, ovvero come prostituzione dei valori tipici della classicità, abbandono di ciò che è giusto, vero e bello poiché “classico”, in un’equazione di aristotelica memoria. Da questo punto di vista l’appello di Winckelmann e quello che in molti faranno a fine Ottocento, ovvero un secolo più tardi, ritengo possano essere tranquillamente messi sullo stesso ripiano storico: in entrambi i casi c’è infatti il tentativo di sfuggire alla perversa moda dilagante, alla maniera ormai morta perché corrotta, ai gesti che si ripetono senza tener bene a fuoco gli scopi della loro attività. Vi è quindi di tutta risposta la volontà di cercare come riferimento due istanze che sembrano essere del tutto incontaminate: dapprima, nel Settecento, il mondo greco antico, quasi direi un tentativo di voler rimanere negli stessi luoghi ma in un tempo ancora incontaminato e, un secolo dopo, visti gli esiti evidentemente inconcludenti anche della precedente opzione, un cambiare, assieme, luogo e tempo, scappare via completamente da dove e quando la corruzione si sta attuando, ovvero dal momento attuale. Tentativo questo di ricerca di una culla da 12
cui metaforicamente ripartire da zero, impostare le basi per una nuova arte, autentica perché non corrotta. Si può quindi parlare di un forte impatto da parte dell’esotismo nipponico di fine Ottocento anche muovendosi da presupposti completamente differenti da quelli da me presentati inizialmente, per chiunque si trovasse in disaccordo con una visione di quel tipo. Ma non è per nulla mia intenzione rivedere la situazione introduttiva: questo capitolo vuol essere semplicemente un accesso secondario. L’errore di fondo in una visione di questo tipo è infatti, secondo me, oltre all’importante riduzione di importanza operata nei confronti di un esotismo rilegato ai “momenti di necessità” occidentali, quello che è poi anche alla base della teoria vasariana, che ha senso fino ad un certo punto della storia, e non di sicuro nel Settecento inoltrato: come dicevo nell’introduzione infatti, riprendendo sempre la lettura operata da Gombrich, dall’inizio dell’epoca moderna, ed in particolar modo dal Seicento, l’incentivato confronto con altre culture e popolazioni aveva portato alla conoscenza di nuove tecnologie. Ora mezzi aggiornati presupponevano l’aggiornamento anche dei fini, che non potevano più da quel momento essere concepiti uguali a quelli di anche solo qualche decennio prima. Emile Zola, un secolo dopo, dava infatti il colpo di grazia a questo tipo di ideale classico, sventrando del tutto l’ormai profonda crepa che segnava l’impalcato teorico di Winckelmann e dei suoi discepoli: “C’è ancora un’altra divertente piacevolezza: la credenza che esista qualcosa come la bellezza artistica, una verità assoluta ed eterna (…). Come ogni altra cosa, l’arte è un prodotto dell’uomo, una secrezione umana: il nostro corpo trasuda la bellezza delle nostre opere. Il nostro corpo si modifica a seconda del clima e delle usanze, e in egual modo si modificano anche le secrezioni. Ne consegue che l’opera di domani sarà diversa da quella di oggi. Non si possono formulare regole né stabilire precetti. Dovete abbandonarvi con coraggio alla vostra natura e non cercare di mentire a voi stessi” (Zolas Salons, a cura di F. W. Hemming e R. Niess, p. 62).
13
Fig. 2.4: Stampa giapponese rappresentante il Commodoro Perry, 1854 circa.
14
2.4 APERTURA
Una solita introduzione partirebbe da qui, alla metà del XIX secolo, anni in cui il Paese del Sol Levante si aprì all’Occidente. Per l’intera durata del precedente periodo Edo, tra il 1602 e il 1867 (tali secoli sono conosciuti in patria con il nome di sakoku), il Giappone, soggetto al dominio degli shogun Tokugawa, si era chiuso in se stesso, coltivando tradizioni profondamente radicate e alimentandone di nuove come il teatro kabuki e le stampe ukiyo-e. Tale periodo di netta clausura rispetto all’altro da sé nacque
a seguito della progressiva unificazione del paese per mano di tre grandi condottieri, Oda Nobunaga (1543-1582), Toyotomi Hideyoshi (1536-1598) e Tokugawa Ieyasu (15421615). Dopo un primo periodo di apertura agli stranieri questi avevano posto un freno ai contatti esterni, dapprima con l’editto di espulsione di tutti i missionari cristiani (1587) ed in seguito con l’editto proibitivo nei confronti dei mercantili europei, in particolar modo portoghesi, ad eccezione di quelli olandesi (1639). Dei tre, sarebbe stato poi Tokugawa Ieyasu ad assumere, successivamente al 1603, il totale controllo dell’arcipelago, dando vita all’egemonia della sua famiglia e discendenza, che tutt’oggi conosciamo col nome di periodo Edo, o Tokugawa appunto. Sotto questo regime, che durò due secoli e mezzo, il paese ebbe un governo fortemente conservatore e autoritario, caratterizzato da numerosissime restrizioni che impedirono qualsiasi tipo o tentativo di evoluzione politica. Nessun abitante poteva infatti lasciare il paese, pena la morte, e nemmeno furono più costruite imbarcazioni in grado di resistere ed affrontare il mare aperto. Anche per i giapponesi che si trovavano all’estero non fu più possibile tornare. “La scelta di isolamento operata dal governo Tokugawa era avvenuta in base a diverse considerazioni, come lo sforzo di assicurare stabilità interna dopo anni di guerre, il desiderio di garantire il monopolio del commercio estero ed il timore del cristianesimo, che aveva portato ad una severa censura sull’importazione di libri dall’Occidente. Riducendo la libertà del commercio però si limitò anche il potenziale sviluppo economico del paese, ma nello stesso tempo la chiusura garantì la pace e diede al Giappone la possibilità di sviluppare al massimo le proprie risorse economiche e culturali. Questi avvenimenti quindi evidenziano il notevole divario con l’Europa che contemporaneamente stava per entrare in un’epoca di straordinario sviluppo economico e scientifico. (…) Poi, verso la fine del XVIII secolo il Giappone fu costretto a prendere atto che il mondo esterno era cambiato e un gruppo di potenze occidentali aveva cominciato a penetrare nei suoi mari. Negli anni tra il 1830-50 gli Stati Uniti furono la nazione 15
occidentale più coinvolta nell’apertura dell’impero giapponese. L’interesse dell’America verso il Giappone era aumentato a causa del commercio con la Cina, ma anche nella speranza di intrattenere rapporti con quel lontano impero. Gli americani avevano fatto vari tentativi per avviare relazioni con il Giappone fino a quando la nave mercantile Morrison entrò nella baia di Edo e venne respinta” (da Architettura giapponese e architetti occidentali, A. Alabiso, pp. 19, 22). A partire dall’8 luglio del 1853, giorno in cui le cosiddette “navi nere”, fregate americane guidate dal commodoro Matthew Perry, incaricato dal presidente Fillmore, costrinsero il Giappone ad affacciarsi alle potenze occidentali, il paese iniziò ad aprirsi in un processo che iniziò l’anno seguente per mezzo del trattato di Kanagawa, negoziato alla seconda venuta del comandante Perry, e che culminò con la restaurazione Meiji termine in realtà più esatto per definirla è rinnovamento o aggiornamento, come ci dice P. Corradini nella sua Introduzione alla storia del Giappone - partita nel 1868 e terminata - si fa per dire - nel 1912, con il ritorno sul trono dell’imperatore. Dall’autunno del 1858
quattro nazioni europee ovvero Inghilterra, Francia, Olanda e Russia, conclusero trattati simili a quello appena citato. Durante questo periodo il Giappone raccolse l’ardua sfida dell’aggiornamento rispetto alle novità tecnologiche, sociali ed economiche che si trovava di fronte per la prima volta. In cambio di tali conoscenze il Giappone “offriva” all’Occidente le sue ricchezze decorative: ventagli, kimono, ciotole laccate e stampe. Tutto ciò cominciò a plasmare una sorta di dilagante affezione all’Oriente nell’Europa dell’epoca, cosa che è ormai a tutti ben nota. Ora, quasi sempre, più o meno approfonditamente, ma l’analisi storica dell’apertura del 1854 muore così. Un momento, un lampo nell’esatto mezzo del XIX secolo che, a quanto pare genuinamente, illuminò l’incontro ed il vicendevole “scambio di doni” tra due popoli che fino a quel momento si erano perlopiù ignorati. Ma pensandoci bene, la faccenda sembra un po’ troppo impietosa non tanto nei confronti del Giappone stesso, quanto invece per l’Occidente. Fummo veramente così ingenui da accontentarci di qualche suppellettile in cambio di un aggiornamento valido duecento e più anni di storia? Non sono infatti rare, nella storiografia artistica occidentale, frasi come la seguente: “Arrivati a Yokohama e a Yedo (o Edo, antico nome di Tokyo fino al 1868), ci eravamo messi a frequentare i negozi e ad acquistare qualche ninnolo più per curiosità che per uno scopo ben preciso” (da Livres et albums illustrés du Japon réunis et catalogués par Théodore Duret, Ernest Leroux, Parigi, 1900). Forse allora ci stiamo dimenticando di qualcosa, a cui ho però già accennato in apertura. Non dobbiamo scordarci infatti che quelli sono i decenni della grande espansione europea. E in generale il periodo di maggiore influenza dell’orientalismo (non serve ora scendere nello specifico del Giappone) coincide con l’epoca dello sfrenato colonialismo europeo, che si protrae negli anni che vanno dal 1815 al 1914, quando le aree coloniali dell’Europa arrivavano a comprendere quasi l’ottantacinque per cento delle terre mondiali. Le esplorazioni ed in generale la crescente conoscenza dell’Oriente, cosa alquanto 16
scontata, si svilupparono proprio grazie alla forte politica di stampo coloniale. Tutto ciò per suggerire una lettura, l’unica possibile dal mio punto di vista, in chiave politico-economica del fatto in questione. Fin troppo banale, e purtroppo piuttosto sadico, il motivo per cui il Giappone non venne fisicamente invaso come molti altri territori: il paese poteva infatti essere soggiogato “pacificamente” attraverso l’importazione della dottrina e della cultura occidentali, sarebbe diventato, con le sue stesse mani, occidentale. Non vi sarebbe stato neppure il bisogno di spendere eserciti ed armate. Inaspettatamente però, per l’una e per l’altra parte, l’esito fu duplice: vi fu, a conferma di ciò pensato dalle potenze occidentali, quello che Okakura, sempre nel suo Book of tea, chiama il “disastro bianco”, ovvero una repentina accettazione di tutto ciò proveniente dal mondo appena scoperto. E questo non solo dal punto di vista tecnico ma anche e soprattutto da quello intellettuale e culturale. Il cuore della critica dello stesso Okakura, che lo porterà poi a coniare l’espressione usata in precedenza, muove proprio da qui, ovvero dalla sua tristezza dovuta alla visione della rassegnazione e silenziosa sottomis-
sione del suo popolo rispetto ad un altro che poteva essere sì considerato ben più valido tecnicamente, soprattutto dal punto di vista militare e navale, ma non, secondo l’autore, eticamente e moralmente. Si creò quindi uno squilibrio strutturale vero e proprio tra la cultura appena importata e recepita a discapito di quella esportata, configurandosi così quindi il Giappone come un importatore di cultura da un lato, ma esportatore di “sole” merci dall’altro, quasi ricercando, vanamente, un possibile equilibrio tra queste due partite per nulla omogenee. E proprio nel passo in cui spiega ciò sta, a mio avviso, uno dei più grandi insegnamenti esposti nel libro di Okakura. Di fatto quindi, i giapponesi, assorti nella valutazione e nell’adozione di vari aspetti della civiltà occidentale, almeno agli inizi, si dedicarono ben poco alla diffusione della loro propria cultura all’estero. Vi fu anche però, da parte loro, una tenacia non indifferente nel riuscire a non cadere del tutto nel giogo occidentale: venne sempre mantenuta infatti un’alta indipendenza rispetto agli stati europei egemoni. Si ebbero poche o scarse modificazioni delle tradizioni culturali endemiche: queste resteranno come congelate, andando a costituire un solidissimo scrigno e prezioso tesoro di valori etici - ma ancor più estetici - cui il popolo nipponico fa tutt’oggi ricorso in casi di pesante difficoltà o turbamento. Tale indipendenza fu resa possibile anche grazie, in realtà, alla dimostrazione, durante la Guerra Russo-Giapponese nei primissimi anni del Novecento, di cui parlerò in seguito, di una potenza bellica nipponica oramai alla pari con le altre potenze mondiali. Brevemente quindi, l’introduzione della cultura europea in terra nipponica si può dividere in tre fasi. La prima può essere considerata quella che va dal primissimo - documentato - arrivo dei portoghesi nell’isola di Tanegashima (1543) fino all’editto di espulsione di tutti gli europei sopracitato (1639). La seconda fase vede un graduale consolidarsi delle conoscenze occidentali in Giappone: è anche detto rangaku (studi olandesi) o komo bunka (sapere dai capelli rossi), che inizia con l’editto dello shogun Yoshimune per la mitigata oppressione per i libri occidentali (1720) e termina con la fine del periodo 17
di clausura stesso (1867). La terza fase inizia con la restaurazione Meiji (1868), che avvia un totale ridimensionamento della politica giapponese.
Fig. 2.5: Liang Kai, Bodhidharma, pittura sumi-e del XIII secolo.
18
3. PARTE SECONDA: AL PARTICOLARE
Non per correnti o movimenti, bensì per singoli ritratti, cercherò ora - inquadrate le condizioni iniziali storico-generali nella prima parte - di presentare al meglio alcune tra le più grandi personalità del panorama culturale europeo nel periodo che va dal 1854, anno di apertura al mondo del Giappone, fino al 1960, anno della World Design Conference di Tokyo, che ho deciso di porre come punto di chiusura e insieme nuovo inizio: ne esporrò il perchè. Questi maestri guardarono al Paese del Sol Levante e, a parer mio proprio per questo, rinnovarono e furono decisivi per la loro dottrina. Tre esempi su tutti, forse, Monet in pittura, Wright in architettura e Rilke nella poesia. Questi, così come gli altri presentati e alcuni altri ancora che non compaiono in questo testo - per motivi di minore interesse personale o perchè marginali rispetto a quelli proposti - hanno saputo, da geni innovatori quali furono, scorgere il potenziale di una conoscenza e cultura extra-europee, o meglio, di un tentativo di studio e coesione con il diverso da sè, come appunto accennavo nell’introduzione, tendendo quindi, a differenza di altri, a quell’unione di civiltà profetizzata da Flaubert quando disse: “(...) le due forme di umanità infine si fonderanno insieme”.
20
Fig. 3.1: Constantin Guys, Cocchieri e carrozze nella nebbia, 1890 ca.
21
3.1 CONSTANTIN GUYS: IL GESTO ATTENTO
Era il 1805 quando Constantin Guys nacque a Flessinga, piccola cittadina della Zelanda, regione olandese. A 22 anni si arruolò volontario e combatté per l’indipendenza della Grecia; fino al 1830 militò in Francia, forse in Africa del Nord. Nel 1842 si trasferì a Londra e lì, qualche anno più tardi, cominciò a collaborare allo Illustrated London News come disegnatore: per la testata venne mandato più volte in giro per l’Europa, dalla Crimea, come inviato di guerra, nel 1854 - durante la cosiddetta Guerra d’Oriente - fino alla Spagna due anni più tardi, a testimoniare le vicende di instabilità politica del regno. Sempre nello stesso 1856 tornò in Francia, dove risiedette fino alla morte, avvenuta nel 1892. Come biografia, quella di Guys, potrà sembrare relativamente povera, o di sicuro di minore interesse rispetto a quelle di altre personalità del suo tempo. Ma allora perché è proprio lui il personaggio di riferimento di una delle principali, in quanto summa della sua concezione estetica, opere di un autore passato alla storia come Charles Baudelaire, ovvero Il pittore della vita moderna? Cosa in lui attira “il primo dei maledetti” - così Verlaine denominerà l’autore francese negli anni ’80 dell’Ottocento - tanto da rendergli un “omaggio” nel quale lo elegge a figura, tra le prime nel panorama dell’epoca, a poter essere definito realmente moderno? A mia detta è il suo gesto, le geste. E non è forse questo sua maniera di dipingere felicemente accostabile, in particolar modo, alla pittura sumi-e - pennello ad inchiostro, tipicamente su carta di riso - tradizionale giapponese? Questo è quello che brevemente cercherò di dimostrare.
Non si hanno dubbi: anche se Constantin Guys non lascia per iscritto nulla, egli vive, durante la piena maturità fisica e di produzione, nella Parigi della seconda metà dell’Ottocento, ovvero proprio in quella che Benjamin eleggerà a “capitale del XIX secolo”. E’ da lì infatti, da Parigi, che inizieranno a circolare per l’Europa i nomi di Hiroshige, Hokusai e Utamaro - solo per citare i principali - ovvero quelli dei grandi maestri delle stampe ukiyo-e nipponiche; è lì che vengono pubblicati i primi saggi, da quelli prettamente divulgativi ai più seri, su quella terra, che appariva ancora così lontana, quale il Giappone; è sempre da lì che, non unicamente ma anche, qualche anno più tardi partirà quella rivoluzione “floreale” - o “della forma lineare” - che è ancor oggi un apice di prestigio nella cultura europea. E, se dagli artisti che faranno la storia della corrente floreale-lineare appena citata, sarà espressamente dichiarato il riferimento ad un decorativismo - parola che forse sminuisce il portato di quel momento storico - tipicamente 22
giapponese, ebbene quella di Guys, che può quasi essere inteso - graficamente - come il primo di questi futuri rivoluzionari, è un’opera che dal mio punto di vista ha tanto a che fare con il mondo del Sol Levante. E ciò conferma ancor di più la mia affermazione, in un precedente punto, che suggerisce il guardare, da parte di alcuni dei “geniali innovatori” dell’ultimo secolo, alla tradizione e al pensiero nipponici. Ma andiamo per ordine. Baudelaire lo dice fin da subito nell’apertura di questo suo breve saggio: Guys fa parte dei poetae minores. Non è né Raffaello né Racine. Ma è proprio per questo, insieme ad altri contemporanei, che lo si deve, almeno per Baudelaire, tenere in forte considerazione. Questo perché così come “il bello è sempre, inevitabilmente, di una composizione duplice, (…) il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile, la cui quantità è oltremodo difficile da determinare, e di un elemento relativo, occasionale, che sarà, se si preferisce, volta a volta o contemporaneamente, l’epoca, la moda, la morale, la passione” (da Il pittore della vita moderna, p. 14), anche l’arte possiede questa natura duale. E se un Raffaello, come Racine, rappresenta l’animo eterno, classico dell’arte, i vari Guys vanno letti come coloro che sono portatori dell’altra metà - termine da non leggersi quantitativamente parlando - ovvero come le personalità che cercano ciò che è proprio del loro tempo e ne fanno motivo di bello artistico. Tali due parti costituiscono una sorta di endiade in quanto nessuno dei due può essere scisso da o pensato-senza l’altro. Continua infatti il nostro: “Senza questo secondo elemento” quello contingente appunto - “che è come l’involucro dilettoso, pruriginoso, stimolante, del dolce divino, il primo elemento sarebbe indigeribile, non degustabile, inadatto ed improprio alla natura umana. Sfido chiunque a scovarmi un esemplare qualsiasi di bellezza dove non siano contenuti i due elementi” (ibidem, p. 14). Di fatto questo involucro “alla moda” di “cose sempiterne” rappresenta, richiamando una scena lucreziana, il miele sul bordo della tazza che rende ingeribile l’amara medicina. E’ l’unico modo attraverso il quale possiamo disporre della natura della bellezza, dell’arte, ma proprio per questo motivo è esso stesso da ricondurre alla natura propria della bellezza e dell’arte. Ed esattamente in questi termini nella tradizione del Sol Levante si intende la totalità delle cose, tra cui le persone stesse, che non sono unicamente corpo e anima ma un unicum di corpo-e-anima, dato che senza il primo non possiamo accedere o minimamente pensare la seconda, e viceversa. In realtà Baudelaire non lo chiama nemmeno “artista”, bensì “uomo di mondo”, in una distinzione per mezzo della quale cerca di far cogliere un altro aspetto nella natura di quest’uomo molto vicina, a mio modo di vedere, alla tradizione zen: “Pochi uomini hanno” - come Constantin Guys - “il dono della facoltà di vedere; e sono ancora meno quelli che possiedono la facoltà di esprimere. (…) E’ un io insaziabile del non-io, il quale, ad ogni istante, lo rende e lo esprime in immagini più vive della vita stessa, sempre instabile e fuggitiva” (ibidem, pp. 24, 26). Per Baudelaire egli è un attento fanciullo. Fanciullo in quanto si lascia cogliere di sorpresa da tutte le cose, attrattore innato di impressioni, quasi fotografie mentali del reale, di tutto ciò che accade intorno a lui, passivo nella loro 23
ricezione - che altrimenti sarebbe subordinata alle logiche e categorie dell’uomo maturo, non più alla verginità del bambino - ma incredibilmente attivo nella loro ricerca: qualsiasi cosa, anche e soprattutto quelle mondane, lo interessa e risveglia in lui, appunto, l’attenzione. Un’attenzione che è spaventosamente forte, dettagliata ed improntata a non lasciarsi sfuggire nulla: la si sminuirebbe denominandola “memoria visiva”, non penso sia riducibile a tale. Dovrebbe essere infatti denominata, oltre che visiva, anche come espressiva, temporale, della situazione. Insomma, è un’attenzione che nasce dall’immersione totale nella cosa osservata, del tutto simile all’attenzione tipica della meditazione zen e buddhista, dove qualsiasi atto, qualsiasi momento della respirazione, qualsiasi cosa osservata, diventa portatore di conoscenza se e solo se la soglia di attenzione è al massimo, e se, cioè, sì è tutt’uno con la cosa osservata o agita o pensata. In questa situazione tale cosa osservata è la folla, ovvero la protagonista per eccellenza, direbbe Benjamin, del suo tempo, il XIX secolo. Constantin Guys - si potrebbe sintetizzare per arrivare al cuore della questione -
rappresenta la folla attraverso un gesto pittorico attento e naturale, e proprio questo è il motivo del parallelo con la tecnica sumi-e giapponese. Quello di Guys è un gesto attento per i motivi appena elencati; quello dell’arte sumi-e lo è in egual modo in quanto la attenta meditazione, di cui parlavamo qualche riga fa, è l’incipit di qualsiasi forma artistica, sacra e profana, della tradizione nipponica: è infatti prerogativa essenziale non solo per concepire, ma anche per cercare di capire ed intuire l’importanza relativa delle varie opere, dalle stampe alle scene del teatro no (è questo il motivo per cui i grandi artisti della tradizione del Sol Levante furono innanzitutto grandi maestri del buddhismo zen, “dottrina” nella quale il ruolo della meditazione è centrale). E così come la parola naturale è un aggettivo che si ritrova sempre tra le nozioni alla base di zen e taoismo, dove letteralmente la parola shizen (ovvero “natura”) significa “ciò che si fa da sé” (il concetto verrà ulteriormente ampliato e sottolineato in alcuni dei prossimi capitoli. L’interpretazione è sulla scia, tra i primi, di Schiller, che nel suo Sulla poesia ingenua e sentimentale apre dicendo: “(…) la natura non è altro per noi se non la vita spontanea, il sussistere delle cose per se stesse, l’esistenza secondo leggi proprie e immutabili”), anche il gesto di Guys può dirsi naturale, difatti, ancora Baudelaire: “Così nell’esecuzione” - esecuzione sempre mnemonica, mai dal vivo - “di G. si manifestano due qualità: l’una è una concentrazione di memoria che risuscita e chiama alla vita (…); l’altra è un fuoco, un’ebbrezza della matita, del pennello, da somigliare quasi a un furore. E’ la paura di non andare abbastanza svelto, lasciandosi sfuggire il fantasma prima di estrarne e coglierne la sintesi: terribile paura che possiede tutti i grandi artisti e fa desiderare loro così acutamente di impadronirsi di tutti i mezzi espressivi, perché mai gli ordini della mente siano alterati dalle esitazioni della mano; e alla fine l’esecuzione, l’esecuzione ideale, divenga tanto inconscia, tanto fluida quanto può essere la digestione per il cervello dell’uomo sano che ha pranzato. (…) Si accanisce con la matita, la penna e il pennello, fa schizzare l’acqua del bicchiere sul soffitto, asciuga la penna sulla camicia, impaziente, 24
violento, aggressivo, quasi temendo che le immagini vogliano sfuggirgli (…). E sulla carta le cose rinascono, naturali e più che naturali (…)” (ibidem, pp. 26, 34-35). Notare inoltre come Baudelaire non elenchi o parli mai di gomme o correzioni sul foglio fatte da Guys. Impossibile immaginare una personalità del genere, tutta presa e rapita dal suo flusso di disegni e schizzi - che è assieme uno mnemonico flusso di verità - fermarsi a cancellare qualche imperfezione nel tratto della matita. Guarda caso anche in questo, volente o nolente, il nostro “pittore della vita moderna” ricalca perfettamente la sagoma del tipico artista sumi-e orientale che non è mai stato dotato nella sua “cancelleria” - e chiamarla così è cosa avversa - di qualsiasi tipo di strumenti per la correzione. E’ quindi, in breve, la stessa volontà di fondo quella che unisce Guys, artista occidentale, con la pittura ad inchiostro sumi-e, giapponese: il segno pittorico vuole raggiungere il suo apice, trasformandosi per farlo, passando da un veicolo o contenitore di significato ad una chiamata-ad-essere del significato della cosa stessa. L’immagine, superando la condizione di superficie della cosa raffigurata, ambisce così ad esserne la verità, l’essenza stessa.
25
Fig. 3.2: Edouard Manet, Le chemin de fer, 1872-73.
26
3.2 EDOUARD MANET: DELL’ANTI-CONVENZIONALE
“I nostri padri ridevano di Courbet, e guardate ora, noi ne siamo entusiasti. Noi ridiamo di Manet, e i nostri figli delireranno per i suoi quadri (…). Io sono così persuaso che domani Manet verrà considerato un maestro che penserei di fare un buon affare se fossi così ricco da comprare tutti i suoi quadri. Nel giro di dieci anni varranno quindici o venti volte tanto, e allora certi dipinti che oggi costano quarantamila franchi non ne varranno quaranta. Non occorre nemmeno essere troppo bravi per fare una simile previsione” (da Zolas Salons, a cura di F. W. Hemming e R. Niess, pp. 63, 65).
Questa è una delle tante sentenze brevi con le quali Emile Zola sostenne Edouard Manet e la sua pittura, pure durante gli anni in cui fu aspramente criticato ed osteggiato. Dopo di lui, in tanti si sono dedicati all’arte di Manet. Dagli anni ’50 in poi tre fra i più importanti furono Georges Bataille (Manet, 1955), Michael Fried (Il modernismo di Manet, 1996) e Michel Foucault (La pittura di Manet, originalmente in forma di conferenza), tutti inscrivibili all’interno della cosiddetta “critica formalista”, termine che lascia il tempo che trova, utile giusto per differenziarla quel poco che basta dalla cosiddetta “critica iconologica” (di cui fa parte ad esempio The Painting of Modern Life, di T. J. Clark, 1999, che mette l’accento maggiormente sui contenuti piuttosto che sulla forma). Ma non è questo il punto. Tutti e tre questi studi presi in considerazione, infatti, rivelano delle affinità straordinarie tra ciò trovato, da ognuno degli autori, come punto primo della rivoluzione manetiana e aspetti diversi, ma egualmente importanti, del pensiero tradizionale giapponese: ritengo difatti che ognuno dei punti salienti individuati dai tre autori sia ravvisabile come punto di incontro tra una delle più raffinate menti di fine Ottocento europeo e un modo di pensare completamente altro, ma che proprio in quegli anni stava sinuosamente affluendo all’interno della cultura occidentale, alla ricerca questa di nuovi stimoli e per certi aspetti incuriosita da questo nuovo mondo. Ma proseguiamo nell’ordine. La tesi portata avanti da Bataille nell’interpretazione della pittura di Manet potrebbe essere, secondo il sottoscritto, intesa e riassunta come quella del non, e più specificatamente, per quello che mi può interessare spiegare, come l’arte del non-sapere. Nella lettura di Bataille la rivoluzione di Manet sta nel suo ritorno alle origini - per tornare a toccare un tema presentato fin da prima - della dottrina artistica stessa: egli vuole superare la concezione classico-accademica dell’arte cosiddetta storica, ritornando a far sì che 27
questa sia sostanzialmente in-utile come lo fu durante il periodo pre-storico. Manet non fa altro che ri-fondare la pittura, riportandola su quelli che per lui erano e sono i giusti binari, utilizzando tecniche e mezzi aggiornati, in vista di un fine però consimile a quello pensato dai primi uomini nelle grotte di Lascaux. Bataille afferma che Manet intendesse l’arte come “dilettevole gioco dell’inutile” ed è proprio a partire da ciò si muove in direzione opposta rispetto alle costrizioni delle regole accademiche, dell’arte come espressione di forme sovrane e di potere, divino o temporale che fosse. L’origine dell’arte è nel non-sapere, nel mondo degli excreta del sapere. E così come quella di Manet è pittura del non-sapere è anche pittura dell’in-significanza: l’accademismo si può pensare come partorito dalla teoria umanista dell’arte, figlia a sua volta della Poetica aristotelica, secondo la quale la pittura, così come la poesia, deve descrivere l’azione umana, da cui consegue che la grande pittura sarà quella che rievoca la Storia o le Scritture, il mito come i grandi eventi del passato. Manet rompe con questa tradizione della pittura erudita, dove l’assenza di definizione è tale da sottolineare ancora di più l’effetto ricercato, volendo distogliersi dalla verosimiglianza e dalla resa realistica. Insomma, per Bataille quella di Manet è un’operazione di fondamentale importanza in quanto rivoluzionaria nel significato più proprio di tale termine, ovvero del “rigirare le carte in tavola”, voltare la faccenda per ri-percorrerla e ri-animarla. Ed egli lo fa attraverso un non-sapere che riecheggia la condizione di mushin - letteralmente “mente vuota” - tipica del buddhismo zen: tale situazione è necessaria per l’illuminazione (satori) e riguarda, appunto, lo stato della mente di colui che vuole giungere a tale stato, che dev’essere al contempo ricca-e-svuotata, deve aver appreso per poi superarsi e svuotarsi. Potremmo dire che Manet capisce, e vuole esprimere, quanto l’arte non possa essere intesa solo come del sapere - arte tipicamente storica - ma vista nella sua totalità, unendovi la parte pre- e post-storica, descritte da Bataille come del non-sapere. Per il critico, egli ci sta mostrando l’altra faccia della medaglia, che da sempre abbiamo tenuta voltata ma non per questo di minore importanza rispetto alla principale. E’ inoltre una pittura dell’in-significanza, intesa, come abbiamo visto prima, nella sua accezione di anti-storica: immediato quindi il paragone con le famose stampe ukiyo-e che spopolavano nei negozi dell’epoca, che erano solite rappresentare scene di vita quotidiana, persone del popolo e non personaggi di racconti più o meno importanti (Manet e il Constantin Guys visto poco fa furono i primi a farlo). Rimanendo all’interno del parallelo con le stampe giapponesi, seguiamo ora il ragionamento di Michel Foucault, che propone una lettura di Manet differente rispetto a quella appena vista, anche “solo” per lo slittamento che egli opera dell’accento rivoluzionario di questo artista, che infatti muove dall’anti-convenzionalismo di Bataille verso il fattore della bi-dimensionalità pittorica dei dipinti. Se per il primo l’arte cosiddetta storica si dispiegava dall’epoca degli ultimi ominidi fino a fine Ottocento, per Foucault l’inizio di tale “periodo artistico” risiedeva nel Rinascimento. Lo strumento cardine di tale arte era la prospettiva. L’arte era intesa differentemente dal segno linguistico, in quanto, se questo era arbitrario, tra somiglianza e rappresentazione pittorica ci doveva essere equi28
valenza: il carattere fondamentale di tale arte era perciò la mimesis, che Manet abbatte proprio per cercare di avvicinare il segno artistico al segno linguistico, ovvero di rendere il primo astratto quanto il secondo rispetto alla realtà delle cose. L’operazione effettuata da Manet si può quindi desumere consimile a quella fatta, qualche decennio dopo, da Magritte: il metodo è però differente. Il secondo riconfigura completamente le visioni e scene quotidiane, cercando di rendere afferrabile la realtà stessa delle cose, la cosa per come realmente è, e non per come ci appare nei suoi rapporti di interdipendenza con “l’habitat” nel quale usualmente la vediamo; Manet invece, pur sempre eseguendo un’astrazione, ci giunge attraverso la piattezza e la bi-dimensionalità delle sue tele, che si discostano così dalla tri-dimensionalità tradizionalmente studiata, imparata e ricercata per l’inganno e la finzione nell’arte storica, in quanto questa doveva imitare la realtà nel miglior modo possibile. E, per ricollegarmi al parallelismo di partenza, dirò che è proprio questa bi-dimensionalità un aspetto tipico delle stampe nipponiche, in cui, ad esempio, non era il segno a far intuire primo e secondo inquadramento, ma campiture di differente sfumatura, piani - per l’appunto bi-dimensionali - l’uno sovrapposto all’altro. E così come in numerose stampe si utilizzava lo sfumato, o il vuoto bianco del foglio, a mo’ di nebbia per cercare di descrivere ciò che non si poteva vedere, quasi ad indicarlo senza spiegarlo, così fa Manet ne Le Chemin de fer, opera del 1873, dove una nuvola non meglio definita si pone come secondo piano (o addirittura terzo?) del quadro, facendo intravedere solamente qualche dettaglio delle architetture della città. Nel caso di questo dipinto noi siamo alquanto ciechi rispetto alla cosa rappresentata, possiamo solo intuirla: non sappiamo cosa accade nel luogo dove la donna guarda - che è poi il nostro luogo -, in quanto il suo sguardo è proiettato all’infuori della tela, verso di noi; non sappiamo nemmeno cosa la bambina stia osservando, in quanto il fumo ce lo impedisce. Sia recto che verso del quadro ci sono inaccessibili: e proprio perché solo due sono gli aspetti che ci sono dati da intendere del quadro, ovvero recto e verso, noi lo intendiamo come cosa a due dimensioni, non più tre. Questo è uno dei casi estremi, apici della sua pittura, in cui egli, oltre che a superare l’utilizzo scenico della prospettiva in sé, nella quale l’occhio è fermo, immobile - in quanto uno e solo uno è il punto esatto per l’osservazione del quadro in prospettiva - va oltre, facendo muovere l’occhio, suggerendo allo spettatore di girare intorno al quadro, quasi cercando di evitare l’ingombro di quella nuvola, che è fastidiosa per la sua comprensione. “Ed è questo gioco dell’invisibilità, assicurata dalla stessa superficie della tela, che Manet usa all’interno stesso del quadro in un modo che si può comunque definire, lo vedete bene, perverso, astuto e malizioso, poiché, in definitiva, è la prima volta che la pittura si offre mostrandoci qualcosa di invisibile: gli sguardi sono lì per indicarci che vi è qualcosa da vedere, qualcosa che per definizione, e per la natura stessa della pittura, e per la natura stessa della tela, è necessariamente invisibile” (da La pittura di Manet, pp. 45-46). Con Manet si comincia a capire che, cosa che si evolverà ulteriormente durante tutta la prima metà del Novecento, una cosa è la rappresentazione e altra cosa è ciò che viene rappresentato. 29
La terza riflessione in materia è quella portata avanti da Michael Fried, che vede la modernità di Manet non tanto nella “forma linguistica” del dipinto o nella sua natura anti-storica, bensì nel ruolo dello spettatore da egli concepito. Fino a quel momento la pittura aveva visto una costante separazione tra scena rappresentata e osservatore: la prima era infatti teatrale, i suoi personaggi teatralmente disposti su un palcoscenico, distaccati e non condizionabili da colui che guarda l’opera. Manet riesce a rompere in maniera radicale con questa tradizione, riconsiderando e integrando la presenza dello spettatore nei suoi quadri. Vuole, allo stesso tempo, fare in modo che l’osservatore sia imprescindibile per l’in-sé dell’opera stessa. Per poter parlare veramente di quel quadro o di quell’opera non si potrà quindi più pre-scindere da colui il quale quel quadro o quell’opera la osserva, non si potrà più prescindere dalla sua fisica presenza che è astrattamente suggerita nei dipinti. Se nella tradizione la scena non era allestita per lo spettatore, ovvero egli ne risultava totalmente escluso, ora con Manet è lo spettatore che è necessitato dall’opera per il suo chiudersi in se stessa, per il suo - dell’opera - essere
completa. I volti e gli sguardi di Manet invocano quindi una relazione duale, endiadi-ca - e questa è l’affinità con il pensiero giapponese che abbiamo già osservato in Guys e richiamerò in altri autori e capitoli - dove tale frontalità dei volti richiama la presenza dello spettatore. Che è così come il bianco invoca il nero. Come l’essere invoca il non-essere. Ed il tu invoca l’io.
30
Fig. 3.3: Edouard Manet, Ritratto di Emile Zola, 1868.
31
“Eccoci all’influenza che gli impressionisti hanno in questo momento sulla nostra scuola francese. E’ un’influenza considerevole. E io uso questo termine di impressionisti perché occorre pure un’etichetta per designare il gruppo dei giovani artisti che, al seguito di Courbet e dei nostri grandi paesaggisti, si sono votati allo studio della natura… In fondo, come pittore operaio, Courbet è un magnifico classico (…) I veri rivoluzionari della forma appaiono con Manet, con gli impressionisti, con Monet, Renoir, Pissarro, Guillamin e altri ancora. Costoro si propongono di uscire dallo studio, in cui i pittori si sono rintanati da tanti secoli, di andare a dipingere all’aperto (…). All’aperto non vi è più un’unica luce, si hanno quindi molteplici effetti. Questo studio della luce nelle sue mille scomposizioni e ricomposizioni è ciò che viene chiamato più o meno propriamente l’impressionismo, perché da allora un quadro diventa l’impressione del momento provata davanti alla natura. Ciò ha offerto spunti agli umoristi della stampa per le caricature dei pittori impressionisti, fatte afferrando a volo delle impressioni, in quattro colpi informi di pennello: e bisogna confessare che disgraziatamente alcuni artisti hanno giustificato questi attacchi, accontentandosi di abbozzi rudimentali. Secondo me è giusto cogliere la natura dell’impressione di un attimo; solo è anche necessario fissare per sempre questo attimo sulla tela attraverso un procedimento accuratamente studiato (…). E come resta stupefatto il pubblico quando lo si pone di fronte a certe tele dipinte all’aperto, in ore particolari; rimane a bocca aperta davanti all’erba blu, ai campi viola, agli alberi rossi, alle acque che fanno scorrere tutte le iridescenze del prisma. Tuttavia l’artista è stato coscienzioso; forse, per reazione, ha esagerato le nuove tonalità scoperte dal suo occhio; ma l’osservazione in fondo è di un’assoluta verità, la natura non ha mai avuto la notazione semplificata e puramente convenzionale che le tradizioni scolastiche le attribuiscono. Di qui le risate della folla davanti ai quadri degli impressionisti, malgrado la buona fede e lo sforzo tanto ingenuo dei giovani pittori. Li si tratta da buffoni, da ciarlatani che si prendono gioco del pubblico e batton la grancassa intorno alle loro opere, mentre sono invece dei severi e convinti osservatori. Ecco dunque qual è l’apporto dei pittori impressionisti: una ricerca più esatta delle cause e degli effetti della luce, che influisce tanto sul disegno quanto sul colore. Li hanno accusati, giustamente, di essersi ispirati alle stampe giapponesi (…). Certo, è che la nostra pittura nera, la nostra pittura al bitume, è rimasta sorpresa e si è rimessa allo studio di fronte ai limpidi orizzonti e alle belle macchie vibranti degli acquerellisti giapponesi. V’era nelle loro opere una semplicità di mezzi e un’intensità di effetti che hanno colpito i nostri giovani artisti e l’hanno avviati a questo nuovo tipo di pittura intrisa d’aria e di luce, che impegna oggi tutti i nuovi venuti di valore”. (di Emile Zola, tratto da Les Archives de l’Impressionisme, L. Venturi, ed. Durand-Ruel, 1939, Parigi-New York)
32
Fig. 3.4: Claude Monet, Il ponte giapponese, 1899.
33
3.3 CLAUDE MONET: DELLA RAFFINATEZZA
“La raffinatezza del loro gusto mi ha sempre incantato e condivido interamente le implicazioni del codice che le ispira: evocare una presenza attraverso un’ombra, il tutto attraverso un frammento” (da Arte, di F. Whitford, p. 167). La sentenza appena citata è dello stesso Monet, forse l’artista più conosciuto del panorama europeo di fine Ottocento. Allievo di Manet prima, punto di riferimento per
tutti gli impressionisti poi, si costruì fama e reputazione quasi esclusivamente da auto-didatta, in quanto evitò perennemente la frequentazione dell’accademia e dei suoi circoli, ispirato in ciò dallo stesso Manet e rinvigorito nel farlo dalla schiera di apprendisti e discepoli che intanto si stavano stringendo attorno a lui, in particolar modo durante la seconda metà della sua carriera, quando il gruppo degli impressionisti - che deve il nome proprio ad un quadro dello stesso Monet, ovvero Impressione, sole nascente, opera del 1872 - conobbe la fama, superando l’iniziale condizione di “reietti” dell’arte ufficiale (è da ricordare infatti come, durante i primissimi anni della loro attività, gli impressionisti furono costretti ad esporre nei cosiddetti Salon des Refusés, contraltari degli ufficiali Salon dell’epoca). Il continuo evitare, da parte sua, qualsiasi tipo di accademismo a livello di insegnamento artistico, nasceva dalla propria profonda convinzione, da uomo moderno qual era e quale l’avrebbero potuto definire i vari Baudelaire o Zola, del vedere, nel perpetuare uguali a se stesse le attività dei padri, un atto puramente storicistico - nell’accezione negativa di tale termine - senza alcun merito o finalità artistici veri, con la sola, vana pretesa di intendere arte un qualcosa che si inserisca in una tradizione di maniera, con tutto il resto escluso. Ancora meglio: per Monet - e così fu per tutto il movimento impressionista - cercare la mimesis tradizionale perscrutando boschi e fiumi non poteva essere un’attività artistica aggiornata seriamente concepita, ma solo un vezzo storicistico appunto, di allenamento tecnico nato e morto davanti ad una tela, in un appartamento di qualche metro quadro nel centro di Londra o di Parigi. La novità, ed assieme unicità, del diciannovesimo secolo stava sì nelle metropoli, ma non di sicuro dentro ad uno studiolo scarsamente illuminato nella notte da qualche candela: il soggetto artistico per eccellenza stava al di fuori, in mezzo alle strade, nelle stazioni o nelle metro, insomma in tutti quei posti che, figli del progresso tecnologico, cambiavano giorno dopo giorno i volti di città secolari. Qualora poi, lo spirito libero di un qualsiasi pittore, lo avesse trasportato tra le 34
campagne, sulle rive dei fiumi o sotto le fronde degli alberi nei piccoli boschi appena più in là delle crescenti periferie urbane, questi non doveva mai e poi mai tornarsene a casa, in città, tutto soddisfatto di qualche schizzo ed appunto fatti sul suo taccuino, bensì armarsi dapprima di cavalletto e tela, colori e pennelli, e fare dell’en-plein-air un’attività quotidiana. Solo così avrebbe potuto apprezzare le differenti qualità che la luce del sole, variando di intensità e provenienza, dona ai soggetti rappresentati, mutandoli nel loro permanere uguali a se stessi. Tutto questo per catturare il momento e solo quello, nella sua unicità, diffidando da qualsiasi riproduzione successiva allo sguardo, come se la mano del pittore non dovesse essere d’impiccio alla fulminea attività dell’occhio e della mente (discorso questo che sarà terreno fertile, in quegli anni, per l’avvento e l’evoluzione della fotografia, a partire da Louis Daguerre che aveva per primo aperto le danze, proponendo il dagherrotipo circa cinquant’anni prima). Questo era, per Monet, essere veramente moderni, che nel caso in questione, molto similmente ai Manet e Guys di cui abbiamo già parlato, coincideva con l’essere anti-accademici.
Ma ritorniamo alla frase iniziale, decomponiamola in sentenze più brevi per cercare di carpirla appieno. Il nostro parla in primis di una “raffinatezza di gusto” delle stampe giapponesi che lo ha “sempre incantato”: oltre che a notare, tramite quest’ultimo avverbio, quanto la sua affezione per l’arte giapponese non fosse cosa frivola o dell’ultimo momento, bensì quasi un qualcosa che egli si portava appresso dalla sua nascita - intesa artisticamente parlando - non a caso, secondo chi vi parla, parla di “raffinatezza” e non di una più generica “eleganza”. E così facendo coglie subito il punto chiave: difficilmente le stampe giapponesi si potrebbero ritenere “eleganti” in quanto né i soggetti rappresentati sono definibili come tali, in quanto gli artisti dell’ukiyo-e guardano al volgo e alle scene di vita quotidiana, né la tecnica xilografica può essere annoverata tra quelle ufficiali, o meglio, nobili del fare arte in Giappone, dove il posto d’onore lo ha tutt’oggi la pittura ad inchiostro chiamata sumi-e. La “raffinatezza” di cui parla Monet è quindi ben altro, ma proprio perché altro rispetto ad una presunta “eleganza” lui andava cercando. Una personalità come la sua, inquadrata all’interno di una stagione artistica appena presentata nelle righe precedenti, mai avrebbe potuto essere interessata da un’eleganza, che come tale è sempre di status, bensì da una raffinatezza che è di per sé estetica: contro quindi un’eleganza pesante e pedante, associata a quella tradizione continuamente perpetuata e riproposta nelle accademie, sceglie una raffinatezza leggera, quasi frivola alle volte, ma sicuramente maggiormente onesta e originale nei confronti dell’epoca da lui vissuta. Poco a poco, negli anni successivi, non solo alcuni nomi, collettivi o circoli, ma l’intera Europa si accorgerà che “si stava affermando una diversa concezione della realtà considerata come un flusso in continua evoluzione che gli artisti avrebbero tradotto nell’esaltazione dell’impressione momentanea, dell’attimo fuggente, della luminosità delle cose. Le immagini delle stampe giapponesi sembravano rispondere alle nuove esigenze occidentali: era l’arte di un paese lontano dove si praticava la filosofia del vivere giorno per giorno, basata sull’idea che qualunque evento è soltanto un attimo” 35
- ma proprio per questo unico ed importantissimo - “nel flusso perenne dell’universo” (da Architettura giapponese e architetti occidentali, A. Alabiso, p. 31). Aspetti raffinati, secondo il nostro, della stampa giapponese, quali le viste a volo d’uccello o l’assenza della prospettiva e della linea d’orizzonte, verranno più volte ripresi nelle famose serie della cattedrale di Rouen e in quella delle ninfee, fiore tra l’altro tipicamente nipponico e particolarmente amato dall’artista. Théodore Duret dirà in quegli anni che “bisognava proprio che arrivassero da noi gli album giapponesi perché qualcuno osasse (…) mettere insieme su una tela un tetto di un rosso brillante, un muro bianco, un pioppo verde, una strada gialla e l’acqua azzurra, prima sarebbe stato impossibile. Il pittore mentiva sempre. Era accecato dalla natura e dai suoi colori violenti; sulle tele si vedevano solo colori tenui, immersi in una tonalità sfumata”. Monet poi continua mettendo in luce quello che lui chiama “codice”, che è proprio e unicamente capace di mettere in luce le opere prese a riferimento da lui come da altri artisti. Egli afferma inoltre di condividere questo “codice”: e tale nient’altro è che ciò appena ripreso, ovvero il pensiero tipico del buddhismo zen avente alla base la concezione della vita come flusso continuo in perenne mutamento, dove ogni evento o scena vissuta, nella sua in-significanza, significa e porta luce - qualsiasi evento è infatti lampadoforo per colui che sa osservare - rispetto alla comprensione del tutto cosmico, chiave di lettura questa particolarmente cara ai taoisti come ai buddhisti in generale. Tutto questo per arrivare alla chiusura della citazione: “il tutto attraverso un frammento”, che richiama perfettamente a sé tale istanza. Così come una persona racchiude e dice l’umanità ed il fiore richiama e dice la natura tutta, così un’ombra rivela una presenza. Ovvero il non-essere l’essere ed il vuoto il pieno. E difatti sarà proprio Monet l’autore degli studi e delle serie, sopracitate, sui mutevoli giochi della luce durante le differenti ore del giorno sulla facciata della cattedrale di Rouen, così come dell’avvicendarsi delle stagioni nella serie che ha per oggetto dei semplici covoni, oppure, ultima nell’ordine ma la prima per affinità nipponiche, la serie delle ninfee, realizzata sempre en-pleinair, tra un pomeriggio e l’altro passato tra iris e bambù, percorrendo brevi ponti in legno nel suo giardino giapponese a Giverny, in Normandia, creato ad hoc dallo stesso artista di fianco alle sue mura, tra le quali facevano per altro capolino, dalla sala da pranzo fino alle camere, innumerevoli stampe giapponesi dei più conosciuti e apprezzati maestri del genere, quali Horonobu, Hokusai ed Hiroshige, tutte probabilmente acquistate durante i precedenti numerosi soggiorni nei Paesi Bassi. Più che nei capitoli precedenti, lascerò ora parlare le immagini.
36
Da sinistra. Fig. 3.5: Ando Hiroshige, Donna con ombrello sotto la neve, stampa xilografica di metà Ottocento. Fig. 3.6: Claude Monet, Ragazza con il paravento, 1886.
37
Dall’alto. Fig. 3.7: Ando Hiroshige, Serata di neve a Kanbara, stampa tratta dalla raccolta Cinquantatre stazioni del Tokaido, 1834. Fig. 3.8: Claude Monet, Boulevard Saint-Denis ad Argenteuil in inverno, 1875.
38
Fig. 3.9: Vincent Van Gogh, Autoritratto con orecchio bendato, 1889.
39
3.4 VINCENT VAN GOGH: DELL’ILLUSIONE
E quasi a completamento e continuazione di ciò appena detto a proposito di Monet, vorrei ora soffermarmi su di un altro grande artista di quell’epoca, addirittura conosciuto ai più forse come il pittore per eccellenza, ovvero Van Gogh, il quale, da buon olandese, fu uno dei primi ad accaparrarsi, tramite l’ininterrotto aiuto del fratello Theo, stampe ed incisioni di ogni tipo. Fu così che, in breve tempo, cortigiane in kimono, ponti in legno ed arbusti in fiore divennero soggetti integranti della sua attività pittorica. Il suo lavoro
infatti, come lui stesso affermerà, “è in qualche modo basato sull’arte giapponese, la quale, in decadenza nel suo paese, è ora la fonte degli impressionisti francesi” (dalla Lettera n. 510 del luglio 1888 al fratello Theo, in Further letters of Vincent Van Gogh to his brother, 1886-1889, di Contable and Co., Londra, 1929). Una sola precisazione deve forse essere fatta riguardo a queste parole: non è del tutto corretto infatti parlare di “decadenza” per spiegare la situazione in cui si venivano a trovare le opere giapponesi nel loro paese natale durante la fine dell’Ottocento, in quanto in Giappone queste creazioni erano da sempre considerate alla stregua di prodotti d’artigianato e come tali trattate, pagate e gestite, in virtù del fatto che gli stessi artisti ed incisori erano considerati come artigiani e non come artisti. Da sottolineare in seconda battuta poi come, in quella terra, non ci fosse minimamente l’intenzione - né la capacità linguistica in realtà - di arrivare ad una definizione di artista tale e quale la potevamo e possiamo tutt’oggi concepire noi occidentali, in quanto inesistente una distinzione netta tra arte e artigianato, alla pari di quella, anticipando in parte il discorso che farò per Paul Klee, tra pittura e scrittura. Ad ogni modo, a precisazione avvenuta, la prima parte della frase ripete quello che, in maniera lampante, si riscontra in moltissime delle sue opere, ovvero un’affezione morbosa per i colori, le scene e i protagonisti delle stampe. Se Monet coglie, potremmo dire, più raffinatamente i caratteri essenziali e peculiari della “regola” dell’opera nel Paese del Sol Levante, tralasciando in molti casi i soggetti che invece è solito sostituire con quelli tipicamente occidentali, Van Gogh cerca in tutti i modi di riproporre tali e quali le incisioni xilografiche ma su tela, attraverso le materiche pennellate di colori ad olio, sua impronta stilistica universalmente riconosciuta. La sua è prettamente quindi un’operazione stilistico-materica, cosa che, dal mio punto di vista, risulta leggermente meno interessante rispetto a quella riscontrata in Monet e che si vedrà anche in Toulouse-Lautrec, ma che ugualmente rende chiare a tutti noi le intenzioni dell’artista: così come il pittore parigino studia e guarda alle opere nipponiche alla ricerca di modalità nuove per trattare argo40
menti e soggetti tipicamente occidentali, diversamente l’artista olandese è alla speranzosa ricerca fisica di quella terra. Ritengo che i suoi dipinti a tema nipponico si possano interpretare come l’arduo tentativo, operato da un autore di fine Ottocento nato e cresciuto nel nord dell’Europa, di trascinare il più possibile con vigore la bellezza e la natura di una terra appena disvelatasi, ma che lo ha fin da subito conquistato. Van Gogh è colui che più di tutti, forse anche a causa di una sensibilità incredibilmente accentuata da una malattia incurabile, vuole divincolarsi e liberarsi dalle catene di quel momento storico in cui lui mai avrebbe voluto vivere, in un’Europa intrisa di positivismo ed industrializzazione, attraverso la fuga verso una terra, a suo modo di vedere, libera perché ancora incontaminata da tali “mali”. Con le seguenti parole egli si esporrà infatti, sempre in una sua lettera al fratello, intorno agli anni ’90 del secolo: “Studiando l’arte giapponese si vede un uomo indiscutibilmente saggio, filosofo e intelligente, che passa il suo tempo a fare che? A studiare la distanza tra la Terra e la Luna? No; a studiare la politica di Bismarck? No, a studiare un unico filo d’erba. Ma quell’unico filo d’erba lo
conduce a disegnare tutte le piante e poi le stagioni e le grandi vie del paesaggio e infine gli animali, e poi la figura umana. Così passa la sua vita e la sua vita è troppo breve per arrivare a tutto. Ma insomma, non è quasi una vera religione quella che ci insegnano questi giapponesi così semplici e che vivono in mezzo alla natura come se fossero essi stessi dei fiori? E non è possibile studiare l’arte giapponese, credo, senza diventare molto più gai e felici, e senza tornare alla nostra natura nonostante la nostra educazione e il nostro lavoro nel mondo della convenzione” (da Tutte le lettere, V. van Gogh, Milano, 1959, vol. III, Lettera 542, p. 56). Il nostro è sinceramente attratto non solo dalla tecnica “pittorica” alla base delle opere d’arte nipponiche, ma anche e soprattutto dal mondo di godimento estetico che queste racchiudono e, lasciandovisi sorprendere, dischiudono. In breve, quella di Van Gogh può essere assunta come una perturbante ansia di evasione verso un mondo fluttuante - a questo significato si rifà infatti il termine ukiyo-e, con il quale venivano denominate le xilografie - fatto di colori e di purezza, guidata dall’attrazione verso queste grandi superfici monocrome, i netti neri contorni di perimetro delle figure, le piatte e surreali angolazioni che rivelano, inquadrate in nuove geometrie, le forme dei volti e dei corpi umani. Il Giappone al quale egli pensa è quello magico dei paesaggisti di Edo, dotato di una costante serena bellezza che solamente varia di sfumature tra una stagione e l’altra. “E’ quel che facevano gli artisti giapponesi (…) la relazione fra loro era evidentemente fraterna (…) quanto più potremo imitarli, tanto meglio sarà per noi” (da Arte, di F. Whitford, p. 181) sarà ciò che dirà a Gauguin e Laval mentre li invita a scambiarsi i ritratti in segno di amicizia e reciproco rispetto. E ancora: nel 1889, nel celebre Autoritratto con orecchio bendato, il suo profilo si staglia in mezzo ad una stampa giapponese; due anni prima collocava il Ritratto del Père Tanguy davanti ad una parete ricoperta di stampe dei vari Hokusai, Hiroshige e Eisen. Insomma, per Van Gogh quella del Giappone è la meta del sogno, dell’irraggiungibile e del non vagliabile, e le incisioni che andava collezionando, assieme a tutte le 41
sue riproduzioni tentate in maniera più o meno convincente, ne sono solo un surrogato, atto a dargli quello stimolo e quel poco di felicità di cui aveva bisogno, ma di cui farà tranquillamente a meno appena verrà a trovarsi in condizioni ambientali tali per cui già solo quelle gli basteranno per mandarlo, almeno con l’animo, a viaggiare nel Paese del Sol Levante. E di ciò ne avremo conferma quando dirà, ancora scrivendo a Theo, pochi giorni dopo il suo arrivo ad Arles, città sulla costa mediterranea francese dove la luce non fa ombre, “sai che io” - qui - “mi considero in Giappone” (da Tutte le lettere, V. van Gogh, Milano, 1959, vol. II, Lettera 469, p. 575. Come ci ricorda poi Flavia Arzeni nel suo L’immagine e il segno, anche in un’altra lettera il pittore torna, forse più esplicitamente ancora, su questa immaginaria congruenza tra il Sud francese ed il Giappone: “(…) e non si deve andare in Giappone, vale a dire, a quello che corrisponde al Giappone, cioè il Sud?” (ibidem, vol. II, Lettera 500 da Arles, p. 634), da cui si appura come le conoscenze di Van Gogh sul Giappone si limitassero all’ambito artistico). Così come per Monet, data la mole di opere prodotte, lascerò anche per Van Gogh, più che in altri capitoli, parlare le immagini.
42
Da sinistra. Fig. 3.10: copertina di un numero del Paris Illustré del 1886; sulla destra vi si staglia una riproduzione di una cortigiana di Eisen, artista giapponese della seconda metà del XVIII secolo. Fig. 3.11: Vincent Van Gogh, Cortigiana (dopo Eisen), 1887.
43
Da sinistra. Fig. 3.12: Ando Hiroshige, Ponte sotto la pioggia, 1856. Fig. 3.13: Vincent Van Gogh, riproduzione del Ponte sotto la pioggia di Hiroshige, 1887.
44
Da sinistra. Fig. 3.14: Vincent Van Gogh, Ritratto del Père Tanguy, 1887. Fig. 3.15: Vincent Van Gogh, Ramo di mandorlo in fiore, 1890.
45
Fig. 3.16: Henri de Toulouse-Lautrec, Ritratto di Adéle de Toulouse-Lautrec, 1886.
46
3.5 HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC: DELL’ACCESSORIO
Malauguratamente sconosciuto ai più, questo personaggio forse merita una presentazione un po’ più di altri autori. Henri de Toulouse-Lautrec-Monfa nacque ad Albi, una cittadina della Francia meridionale, nel 1864, dal matrimonio tra il conte Alphonse di Provenza e una sua cugina, Adéle, cosa che al giorno d’oggi farebbe rabbrividire ma che all’epoca era consuetudine nelle famiglie portatrici di importanti cognomi, al fine di “preservare” il sangue nobile. Ed è proprio per questo motivo, oggi sappiamo, che Henri
nasce malato, sofferente di una malattia che gli causa nanismo e fragilità ossea. Vezzeggiato dalla madre, guardato con sospetto dal padre, cresce nella residenza familiare ostentando fin da subito un’altezzosità e un ego spropositati, pieno di ammirazione per un padre fiero e cavalleresco, ma anche per la madre, al contrario particolarmente timida e devota. La giovinezza, a causa della malattia, è un vero e proprio calvario: i genitori cercano in tutti i modi, portandolo in vari ricoveri e impianti termali, di fargli acquisire quella forza e quella portanza che il padre tanto vorrebbe propri del figlio, erede della dinastia. Inutile dire che tali tentativi saranno del tutto vani. Il giovane Henri, per ripicca, non sentendosi accettato dalla sua figura paterna, comincia a disegnare, facendolo molto bene fin dai primi schizzi: soggetto preferito sarà la madre, rappresentata sempre sola, con le palpebre abbassate, in una posa commovente, che raramente tornerà nelle successive opere, aventi come soggetto le facili donne dei bordelli, quasi a sottolinearne ancor di più la totale differenza ed estraneità. Convintosi anche il padre che il ragazzo non sarebbe stato l’uomo forte da lui tanto voluto, approva, assieme alla moglie, di mandarlo a studiare pittura a Parigi: sfortunatamente però i vari apprendistati durano molto poco a causa delle ricadute fisiche che spesso gli si presentano, a seguito delle quali la madre lo riporta al Sud nel tentativo, volta per volta, di curarlo. Nei primi quadri Toulouse è molto più “aristocratico” nella rappresentazione di volti contadini piuttosto che quelli della nobiltà, che risultano invece essere molto più “caricaturali”, quasi non riuscisse ad intravederne la bellezza, accecato dall’esperienza paterna. Poco più che ventenne tornerà di nuovo a Parigi, sperando di entrare nello studio di Degas come apprendista, ma verrà cacciato subito, neanche oltrepassata la soglia, nemmeno preso in considerazione, forse anche per l’aspetto piuttosto bizzarro. Toulouse è però ostinato e continua a dipingere, affina le tecniche pittoriche tradizionali apprese, variandole cercandone la modernità, imitando l’olio coi pastelli e viceversa, 47
ottenendo risultati sorprendenti. Da Degas, pur non incontrandolo più, rimarrà perennemente affascinato, e proprio da lui imparerà quella rappresentazione, tipica delle stampe giapponesi, della donna occupata, sempre inquadrata di scorcio e mai di fronte, mentre svolge un’attività nella sua quotidianità: è così che nascono le varie tele della fine degli anni ’80 del secolo, raffiguranti ragazze allo specchio, intente a pulirsi durante la lavanda mattutina, mentre si pettinano e acconciano o nel momento in cui si legano il corpetto, pronte per uscire tra le vie della metropoli. E queste scene, queste pose, sono quelle che tradizionalmente venivano raffigurate nelle illustrazioni ukiyo-e nipponiche, quelle di Utamaro soprattutto, famoso proprio per la rappresentazione delle geishe dei locali a luci rosse del quartiere del piacere di Edo, odierna Tokyo, assieme ad infinite immagini delle beltà femminili così come dell’atto sessuale. Sempre tramite Degas guarderà ad un altro elemento proprio della cultura giapponese della rappresentazione, ovvero quello dell’accessorio, del dettaglio: calamai, pennelli, matite, fogli, rotoli e pergamene entrano a far parte degli inquadramenti su tela di Toulouse-Lautrec, di regola senza ombre, senza riflessi, in toni piatti e dai colori dosati, proprio come avessero intorno a sé quell’aurea di sacralità che era solita intravedersi nelle opere giapponesi. Nella capitale francese, probabilmente incontrato in un locale del centro alla ricerca di japoneserie, incontrerà anche Van Gogh, uomo che lo colpirà per i colori chiari della sua carne, assieme con i capelli biondissimi: lo colpisce il “tipo” di Van Gogh, la sua figura. E così come per la sua, Toulouse comincerà ad affezionarsi a tutte le figure più strane e particolari che troverà negli strabordanti locali della Parigi fin-de-siécle, dai caffè ai bordelli passando per le case da gioco e i bistrot, cosa che lo farà risultare particolarmente ostile a tutti gli autori invitati invece ai Salon ufficiali, con i quali i vari Manet e Monet già stavano combattendo, per la sua scelleratezza nelle pose, assenza di prospettiva e di inquadramento tradizionale, ma soprattutto per la sua mancanza di simbolismo e riferimenti elevati. Memorabile l’occasione in cui, facendo il verso al quadro appena esposto e largamente apprezzato al Salon di Pierre Puvis, Il bosco sacro, inserisce, tra muse, spiriti ispiratori ed allori, la Parigi contemporanea - deturpando il pomposo dipinto originale - raccontata da una indistinta massa di persone che guardano straniate la scena idillica originale: massa indistinta dalla quale però spicca, per bassezza, la figura di Toulouse-Lautrec stesso che, di spalle, si raffigura mentre orina, facendosi beffe degli “alti richiami” del quadro di Puvis. Ancora dal mondo giapponese il nostro prenderà le “bianche facce” rappresentate in moltissimi dipinti, tra cui quello dell’interno del Moulin Rouge, ovvero queste figure femminili in primo piano, spesso con espressioni stranianti, da seduta spiritica, tutte cosparse di fondotinta bianco, che richiama quella farina di riso con cui si truccavano e si truccano tutt’oggi le donne soggetti dell’arte giapponese, dalle geishe alle attrici - oltre che attori - del teatro no. Il mondo di Toulouse è claustrofobico, notturno, a risposta del gusto impressionista che aveva inondato l’Europa fino al decennio precedente. Le prostitute non vengono 48
abbellite, ma nemmeno prese in giro: sono inquadrate con umanità, con pietas, quasi tenerezza. L’ulteriore novità introdotta dall’artista francese è l’accorgersi, anche qui superando la mentalità del periodo impressionista, che da questo punto di vista rimase ancora “elitario”, che l’arte sta apprestandosi a diventare cosa diffusa, accessibile alla maggior parte delle persone: suoi sono numerosi album incisi, riprodotti in serie, che mette in vendita a cifre bassissime rispetto agli standard proposti dal mercato dell’arte dell’epoca. Album, questi, deliziosi - quasi avesse pittoricamente riprodotto certe frasi delle più belle e passionali poesie di Verlaine - intitolati Elles, Loro, che raccontano ancora una volta, ancora più efficacemente, la mondanità delle prostitute, senza diventare pornografici, come invece furono moltissimi libretti illustrati giapponesi, chiamati shunga, da cui prenderà pose ed attività. Elles rappresenta il prima ed il dopo, racconta la vita, non il lavoro, di queste ragazze, di queste donne. E più che in qualsiasi altra opera del tempo proprio in Elles si ritrova, tornando al tema comune ormai a numerosi degli autori trattati, il dettaglio che va oltre il suo proprio significato figurativo letterale, dischiudendo altresì un gesto, uno status, un intero mondo. La stessa sua sigla o firma - la si ritroverà in moltissime sue affiches, ovvero le locandine o cartelloni pubblicitari degli eventi mondani ai vari moulin cittadini di Montmartre, stampati in serie per mezzo della litografia - richiamerà i tipici caratteri dei sigilli giapponesi che venivano impressi dalla censura, dopo che le opere avevano passato il vaglio dell’autorità. Una di queste Loro è distesa, stanca, sul letto, tra lenzuola accartocciate. Nessuno è più al suo fianco. Solo un bastone ed una bombetta, che sembrano quasi essere illuminati dai raggi del primo sole. Quella di Toulouse è l’arte dell’accessorio, intesa biunivocamente sia come accessoria essa stessa - e qui si aprirebbe un discorso lungo quanto la storia dell’arte: mi basterà precisare che egli non trovava alcuna differenza di valore tra l’arte “pura”, ovvero quella ricercata nelle accademie, e quella cosiddetta “commerciale” -, sia come dell’accessorio, ovvero attenta al particolare, a quei pochi dettagli che riescono a farci intuire, in un attimo, tutto quanto. Proprio come bastano pochi ma attenti sguardi ai suoi tratti rivoluzionari per capire l’immenso valore dell’opera di questo artista, fin troppo spesso sciaguratamente lasciato in disparte.
49
Fig. 3.17: Henri de Toulouse-Lautrec, Ritratto di ragazza durante la toilette, 1889.
50
Da sinistra. Fig. 3.18: Kitagawa Utamaro, stampa raffigurante due geisha alle prese con la pettinatura, fine ‘700. Fig. 3.19: Henri de Toulouse-Lautrec, una delle stampe litografiche dell’album Elles, 1896.
Da sinistra. Fig. 3.20: Henri de Toulouse-Lautrec, affiche di presentazione di una delle performance dell’allora famosissimo Aristide Bruant, 1892. Fig. 3.21: Henri de Toulouse-Lautrec, affiche del 1892 e sigillo personale di chiara ispirazione nipponica (elaborazione grafica delle tre iniziali del suo nome: H, T ed L).
51
Fig. 3.22: Scenario geo-politico della Guerra Russo-Giapponese ad inizio secolo.
52
3.6 LA GUERRA RUSSO-GIAPPONESE
“L’occidentale medio si era abituato a considerare barbaro il Giappone nel periodo in cui si dedicava alle delicate arti della pace, e lo chiama civile da quando ha iniziato a compiere massacri sui campi di battaglia della Manciuria” (da Lo zen e la cerimonia del tè, K. Okakura, pag. 12). Ovviamente le ambizioni espansionistiche mai furono relegabili unicamente agli stati
occidentali, anzi. Il Giappone, in pieno rinnovamento di epoca Meiji, assimilò non solo gli aggiornamenti tecnici e scientifici ma anche quelli più propriamente politici e culturali. Esso voleva conservare la sua propria sovranità e allo stesso tempo farsi forte e grande agli occhi delle potenze occidentali, grazie alle quali era rinato ma verso le quali non voleva affatto dimostrarsi come l’ultimo arrivato, anzi. Da questo punto di vista si può dire che l’iniziale grande fascino occidentale sul Giappone fu quello dello scuro e nero metallo delle navi da guerra con le quali il commodoro Perry, 50 anni prima, si presentò al “primo appuntamento”. A partire proprio dal 1853, infatti, il Giappone riorganizzò la struttura statale e avviò un rapidissimo processo di industrializzazione. La rivoluzione del 1868 restaurò l’autorità dell’imperatore ed il nuovo governo avviò un intenso programma di sviluppo economico che favoriva le attività imprenditoriali, facilitando l’assunzione di tecnici stranieri e diffondendo l’istruzione tecnica e professionale. Nella penisola giapponese si realizzò quindi un rapido progresso tecnologico, ma la struttura sociale preesistente e la cultura tradizionale non ne furono modificate in maniera radicale. Queste anzi contribuirono forse a rendere socialmente “ordinato” questo grande fenomeno di trasformazione economica, vero e proprio boom. Sostiene lo storico Fernand Braudel: “In modo dapprima del tutto incomprensibile” - il Giappone - “ha realizzato la rivoluzione industriale e la riconversione delle attività che questa comporta senza che le strutture sociali abbiano subìto una rottura rivoluzionaria (…). Le ragioni sono forse le seguenti: si trattava di una società disciplinata che, nella nuova esperienza che le fu imposta dopo il 1868, conservò la sua antica disciplina. Obbediente, rispettosa della gerarchia, la società giapponese aveva sempre accettato senza mormorare il fatto che il lusso fosse riservato a pochi; ha anche accettato, senza sempre rendersene conto, che il capitalismo moderno venisse edificato in mezzo a rapporti ancora feudali (…). E’ un po’, mutatis mutandis, l’immagine che offrono le 53
grandi organizzazioni industriali giapponesi, quelle che, nel XIX secolo, hanno garantito il successo dell’operazione e ne hanno tratto i benefici, senza provocare la reazione delle masse operaie. Quindici famiglie al massimo rappresentavano, prima della guerra del 1942, più dell’ottanta per cento dei capitali giapponesi. Il gergo le designa col nome oggi diventato classico di zaibatsu; sono i famosissimi Mitsui, Mitsubishi, Sumitovo, Yasuda, e la casa imperiale, a detta degli esperti, di gran lunga la più ricca di quelle ricchissime famiglie (…). Sul piano della gerarchia sociale, questi signori del big business sono l’equivalente dei daimyo (signori feudali) di una volta e dei loro clan; gli operai sono i loro servi; i capomastri, i direttori d’azienda, gli ingegneri sono i samurai dei tempi nuovi. Le imprese conservano una struttura familiare, mistura di feudalesimo e di paternalismo, in un ambiente dove la libera impresa e il comunismo sono sentiti come idee strane e straniere, distruttrici del kodo, la via imperiale del Giappone”. Dopo circa un quindicennio dedicato al consolidamento economico, l’oligarchia al potere diede vita ad una nuova stagione di riforme istituzionali, culminate con la promul-
gazione, nel 1889, di una nuova Costituzione. Il modello di riferimento del nuovo impianto costituzionale fu quello della Germania guglielmina: così come in Germania, ora anche in Giappone le élite puntarono al consolidamento del loro potere e della loro posizione, attraverso un sistema squilibrato, in cui il sovrano era sovraccaricato di un potere enorme, pressoché assoluto, in cui il parlamento possedeva un ruolo del tutto subalterno, senza reali poteri e strumenti per poter contare qualcosa nelle decisioni statali: unico potere assegnatoli era quello del diritto di veto sulle leggi finanziarie. Il paese quindi, in ben pochi anni, si affermò come potenza industriale e coloniale. La pressione demografica, la richiesta di materie prime, la ricerca di mercati extra-nazionali per i prodotti in eccesso, assieme ad un’ondata di nazionalismo, spinsero, negli ultimi anni dell’Ottocento, il governo giapponese ad imboccare la via dell’espansionismo territoriale, che lo portò, in primis, a doversi confrontare con la Cina, in quanto enorme possibile mercato. In quel momento storico in Cina il funzionamento della macchina statale era affidato, come fin dall’antichità era sempre successo, a poche grandi famiglie di funzionari, i mandarini, che ovviamente puntavano a mantenere e conservare qualsiasi privilegio da “casta” dominante, in un impianto fortemente conservatore, per nulla progressista o innovatore, senza alcuna volontà di introdurre qualsiasi elemento di modernizzazione. Il territorio cinese, già verso la metà dell’Ottocento, divenne così oggetto delle mire espansionistiche delle grandi nazioni industriali dell’Occidente. Prima l’Inghilterra, poi la Russia e la Germania riuscirono di fatto a spartirsi i territori del “Celeste Impero”, senza sopprimere apparentemente l’unità nazionale e l’autorità statale. Il Giappone seppe quindi inserirsi abilmente in questa situazione e, passando per un breve conflitto che perdurò dal 1894 al 1895, conquistò la Corea, l’isola di Formosa e l’arcipelago delle Pescadores (queste due assieme costituiscono l’odierno stato di Taiwan). Tuttavia tre potenze occidentali quali Russia, Germania e Francia intimarono al Giappone di abbandonare le postazioni della penisola del Liaodong e di Port Arthur (punta 54
geografica all’estremo sud della regione della Manciuria, questo porto ha da sempre posseduto un’importanza enorme dal punto di vista geo-politico, soprattutto proprio per la Russia) il 23 aprile del 1895: il Giappone obbedì, su pagamento di un indennizzo economico che sfruttò per comperare più navi da guerra possibili, di avanzata tecnologia britannica. Sempre la Russia poco dopo chiese, promettendo la futura protezione dai giapponesi, l’utilizzo della stessa Manciuria e di Port Arthur, e occupò quasi subito i territori appena citati. Mutui interessi di inglesi e giapponesi portarono ad una alleanza anglo-giapponese il 30 gennaio del 1902 e futuro schieramento al fianco dei giapponesi da parte degli inglesi nel caso in cui la Russia fosse stata aiutata nel conflitto da un qualsiasi altro stato. Questa rispose firmando un trattato consimile con la Francia nel marzo dello stesso anno. Intanto continuava sempre a fare pressione sulla Cina per il totale controllo della Manciuria. Questo non fa desistere il Giappone che vuole ottenere a tutti i costi la Corea, e la richiede alla Russia, che viene quindi informata ma attende fin troppo nel dare risposta certa, così il Giappone, fortemente irretito, dichiara guerra: è il 10 febbraio 1904. Le forze armate giapponesi sconfissero i russi in una serie di battaglie navali e terrestri, una iniziale sorpresa per gli osservatori militari che la seguirono. Nel tempo le conseguenze di queste battaglie inclinarono la bilancia del potere nell’Asia orientale, dando sempre maggior rilevanza all’ingresso del Giappone sulla scena della storia. C’è da dire che la Russia fu sicuramente distratta dalle questioni interne - rivoluzione del 1905 - e preferì negoziare una pace piuttosto che continuare a mandare uomini su uomini, pure malamente comandati e supportati, in quanto le truppe ed i rifornimenti, in quel momento, servivano altrove. L’offerta di mediazione del presidente statunitense Roosevelt condusse al Trattato di Portsmouth, era il 5 settembre 1905. La Russia cedette la metà meridionale dell’isola di Sachalin (che tornò loro solo successivamente alla Seconda Guerra Mondiale). Inoltre essi dovettero rinunciare al controllo della base navale di Port Arthur e della sua penisola. Si ritirarono quindi dalla Manciuria e riconobbero la Corea come sotto l’influenza giapponese. Il Paese del Sol Levante, che dopo aver annientato l’esercito dello zar Nicola II, diede il via libera per l’intensificazione della propria politica coloniale, soprattutto a discapito della Cina, scatenò numerose proteste internazionali che terminarono, assieme al decennio di espansionismo nipponico, solamente a causa della scoppio della Grande Guerra.
55
3.7 Intermezzo: MODERNITA’
Modernità: sostantivo derivato da “moderno”, a sua volta composto, nel latino di origine, dall’avverbio “modo”, che ha accezione temporale di “poco fa”, “al presente” (che attiene a “modus”, ovvero a “misura”, “regola”), ed il suffisso “-ernus” che indica appartenenza. In breve: che appartiene al nostro tempo; dei nostri giorni; che è secondo l’uso presente; nuovo; novello. “In quest’epoca di democrazia, gli uomini applaudono ciò che è considerato il meglio dalla massa, incuranti di quel che provano realmente. Desiderano le cose costose, non quelle raffinate; ciò che è di moda, non ciò che è bello. Alle masse la fruizione dei periodici illustrati, degno prodotto della società industriale, procura un nutrimento estetico di gran lunga superiore a quello fornito dai primitivi italiani o dai maestri Ashikaga, che hanno la pretesa di ammirare. Per loro, il nome dell’artista è più importante della qualità dell’opera. “La gente giudica la pittura con le orecchie”, si rammaricava un critico cinese di molti secoli fa. Questa mancanza di spontaneità nel giudizio è responsabile degli orrori pseudo-classici che oggi si offrono al nostro sguardo, da qualunque parte esso si volga. Un altro errore diffuso è quello di confondere l’arte con l’archeologia. La venerazione tributata all’antichità è uno dei tratti più nobili della natura umana, e sarebbe auspicabile che fosse diffusa in misura persino maggiore. Gli antichi maestri devono essere giustamente onorati per aver aperto la strada ai futuri progressi. Il fatto stesso che siano passati indenni attraverso secoli di critica, giungendo fino a noi ancora circondati di gloria, impone rispetto. Ma saremmo davvero stolti se apprezzassimo le loro conquiste semplicemente sulla scorta dell’antichità. E tuttavia lasciamo che il sentimento storico prenda il sopravvento sulle nostre valutazioni estetiche. Offriamo fiori in segno di ammirazione quando l’artista giace nella tomba, al riparo da ogni rischio. Il XIX secolo, imbevuto di evoluzionismo, ci ha indotto a perder di vista l’individuo in nome della specie. I collezionisti smaniano di procurarsi esemplari che illustrino periodi e scuole, dimenticando che un singolo capolavoro può insegnarci molto più di tanti prodotti mediocri di un determinato periodo, o di una certa scuola. Classifichiamo troppo e apprezziamo troppo poco. Sacrificare il metodo estetico a favore di quello cosiddetto scientifico è stata la rovina di molti musei. Qualunque modello d’esistenza che intenda essere vitale non può ignorare i diritti dell’arte contemporanea. L’arte dei nostri giorni è quella che” - l’unica aggiungerei - “realmente ci appartiene: è il nostro specchio. Condannandola, non facciamo che con56
dannare noi stessi. Affermiamo che l’epoca attuale è priva di arte: chi ne è responsabile? E’ davvero vergognoso che, nonostante tutto l’entusiasmo per gli antichi, prestiamo una così scarsa attenzione alle nostre potenzialità. Artisti che lottano, anime tormentate che si trascinano in mezzo a un gelido disprezzo! Nel nostro secolo dominato dall’egocentrismo, quale ispirazione offriamo loro? Il passato può ben compatire la miseria della nostra civiltà; il futuro riderà della pochezza della nostra arte. Distruggendo la bellezza nella vita, distruggiamo anche l’arte. Ci vorrebbe un grande mago in grado di estrarre, dal ceppo della società, un’arpa possente le cui corde sappiano risuonare al tocco del genio” (da Lo zen e la cerimonia del tè, cap. V. Apprezzare l’arte, K. Okakura, pp. 62-63) In pratica cosa ci sta dicendo qui Okakura, oltre che a mostrarci, pur da perfetto nipponico qual era, una cultura occidentale sconfinata? (Egli fece parte, infatti, di una delle prime generazioni di studenti giapponesi cresciuti nelle nuove scuole e facoltà universitarie oramai “occidentalizzate” nel pensiero e nelle materie insegnate). Ci sta parlando, e ricordo che lo fa nel 1906, ad inizio secolo, da uomo fortemente moderno. Quasi ci rivedo, in queste poche righe, tutto il percorso che faranno architettura moderna e restauro (questo soprattutto nel secondo Dopoguerra) di lì a pochi anni. Ci sta parlando di rottura rispetto a classificazioni storiche, ci sta parlando di cesura rispetto a correnti e stili, di esaltazione dell’individualità persa nel secolo precedente, dove la classificazione denominata “scientifica” aveva ingabbiato personalità in periodizzazioni, puntando ad una semplificazione fatta di correnti e stili. Ma tutto il successivo dialogo, dal restauro all’architettura contemporanea sarà incentrato su due cardini fondamentali: riproposizione dell’artista-al-centro - come colui che è irriducibile ad un filone o ad una corrente, appunto - e all’affermazione senza alcuna paura, senza timore reverenziale nei confronti degli antichi, del nostro tempo, che non deve essere supposto aprioristicamente inferiore a nessuno dei precedenti. Ma Okakura a questo cosa aggiunge? E’ proprio perché non ne riusciamo a partorire uno nostro di “figlio”, che cerchiamo di averlo richiamando e pseudo-ricreando figli già avuti dalle epoche che ci hanno preceduto. Okakura ci sta dichiaratamente supplicando di ritornare a muoverci attraverso il sentimento estetico e non di valutazione scientifica di un’opera, a guardare e non ascoltare la pittura, a credere e prendere una posizione senza defilarci dentro facili limbi. Al termine ritorna alla leggenda che poche righe prima raccontava: così come tale Po Ya era stato l’unico a riuscire a suonare la meravigliosa, ma allo stesso tempo “indomabile”, arpa, in quanto unico, tra i tanti che ci provarono, ad aver suonato se stesso, senza rifarsi a nessun “brano” già scritto, proprio così noi contemporanei dobbiamo cercare di essere noi stessi, dobbiamo far risuonare noi stessi nell’arte affinché questa possa fungere anche solo da stimolo alle prossime generazioni, evitando di essere completamente dimenticata. Il presente è l’unico tempo che ci appartiene. Non dandogli la giusta importanza, senza ovviamente dimenticarci mai di chi ci ha preceduto e di chi ci succederà, saremmo solo corpi di passaggio, senza ricordo alcuno nelle epoche a venire. Questo è in sintesi il pensiero di Okakura, di questo suo discorso sulla coerenza al 57
tempo attuale che l’arte deve possedere come unico modo per essere tale, ovvero per essere considerata arte. Ma quella di Okakura in questione è solo - si fa per dire - una delle risposte più avvedute di inizio Novecento ad una questione aperta ben prima di lui, rimasta da quel momento sempre attuale, forse perché sempre circolata tra le menti più fini di ogni periodo. A seguire sono opinioni. “Così, quando Schiller distingue tra poesia ingenua e poesia sentimentale non vuole limitarsi a operare un’interpretazione “storica” (…). La distinzione non vuole certo dunque riprodurre senza variazioni l’ormai vecchia disputa tra antichi e moderni, bensì instaurare un piano metastorico di definizione del poetico e della sua funzione conoscitiva: piano che vede comunque i contemporanei allontanarsi sempre più dall’ingenuo per perdersi nelle tensioni del sentimentale, all’interno del quale vien meno il contatto originario con la natura, sostituito da un’unità mediata, che passa cioè attraverso una relazione morale, che è rappresentazione, e non diretta intuizione, del reale, dunque costante tensione verso una perfezione irraggiungibile. (…) Infatti, a suo” - di Schiller - “parere, il poeta ingenuo è colui al quale la natura “ha concesso il favore di operare sempre come un’unità indivisa, di essere in ogni istante una totalità autonoma compiuta e di rappresentare nella realtà l’umanità nel suo pieno valore”. (…) L’ingenuo, categoria che comprende poeti antichi come Omero e moderni come Shakespeare, è tuttavia un orizzonte di unità che il moderno disperde: si situa su un territorio utopico che ha lo scopo di prospettare nel futuro ciò che è stato nel passato” (dal commento di Elio Franzini al testo Sulla poesia ingenua e sentimentale, F. Schiller, pp. 106-107).
“Se si dà un’occhiata in giro alle mostre di pittura moderna, si resta colpiti dalla generale tendenza degli artisti a vestire tutti i soggetti di costumi antichi. Ciascuno di loro, quasi sempre, si serve delle mode e dei mobili del Rinascimento, come David si serviva delle mode e dei mobili romani. L’unica differenza è che, per avere scelto soggetti specificatamente greci o romani, David non poteva fare a meno di vestirli all’antica, mentre i pittori d’oggi, scegliendo soggetti di una natura generale buona per tutte le epoche, si ostinano a paludarli di costumi del Medioevo, del Rinascimento o dell’Oriente. E’ il segno evidente, questo, di una grande pigrizia (…). La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e immutabile. Vi è stata una modernità per ogni pittore antico; e la maggior parte egli splendidi ritratti che ci restano dei tempi passati indossano i costumi del proprio tempo. Essi sono perfettamente armoniosi dal momento che il costume, l’acconciatura e perfino il gesto, lo sguardo e il sorriso (ogni epoca ha un proprio portamento, il proprio sguardo e sorriso) formano un insieme di una compiuta vitalità. (…) Se al costume dell’epoca, che s’impone per un rapporto necessario, se ne vuole sostituire un altro, si produce un controsenso che non trova giustificazione se non nel caso di una mascherata voluta dalla moda. (…) Insomma, perché 58
ogni modernità acquisiti il diritto di diventare antichità, occorre che ne sia tratta fuori la bellezza misteriosa che vi immette, inconsapevole, la vita umana. (…) Guai a chi nell’antico studia qualcosa che non è l’arte pura, la logica, il metodo generale! Per immergervisi oltre il dovuto, egli perde la memoria del presente, abdica al valore e ai privilegi offerti dalla circostanza, ché quasi tutta la nostra originalità proviene dal marchio che il tempo imprime sulle nostre sensazioni” (da Il pittore della vita moderna, cap. IV. La modernità, C. Baudelaire, pp. 27-31). “Io disprezzo profondamente i piccoli trucchi, i calcolati lenocinii, tutto ciò che si può apprendere mediante lo studio. (…) la parola “arte” non mi piace affatto, contiene ogni possibile idea di disposizioni necessarie e di ideali assoluti (…). Ciò che io ricerco sopra ogni cosa in un quadro è l’uomo e non il dipinto. (…) Oggi il vento spira a favore della scienza. Che lo vogliamo o no, noi siamo spinti allo studio esatto delle cose e degli eventi. E così tutte le forti personalità che hanno qualcosa da dire si esprimono nel senso della veracità. La tendenza dell’epoca è certamente realistica, o meglio positivistica. Sono quindi costretto ad ammirare coloro che sembrano dimostrare una certa affinità familiare tra di loro, questa loro affinità deriva dal tempo in cui vivono. Ma basta che domani nasca un altro genio, uno spirito che si opponga, e allora io gli prometto la mia adesione, purché ci dischiuda con forza un mondo che sia tutto suo” (da Zolas Salons, a cura di F. W. Hemming e R. Niess, pp. 60-61, 70). “La storia dell’umanità non ha dovuto registrare finora nessun periodo di inciviltà. All’uomo della città, nella seconda metà del secolo diciannovesimo, era riservato il privilegio di dar vita a questo periodo. Fino a quel momento lo sviluppo della nostra civiltà aveva continuato a scorrere come un fiume bello e regolare. Si ubbidiva all’esigenza del momento e non si guardava né avanti né indietro. Ma poi sono sopravvenuti dei falsi profeti. Hanno detto: eppure com’è brutta e senza gioia la nostra vita. E misero insieme tutto ciò che apparteneva a tutte le civiltà, lo collocarono in musei e dissero: vedete, questa sì che è bellezza. Voi invece siete vissuti in una bruttezza miserevole. C’erano suppellettili provviste come le case di colonne e di cornicioni, c’erano velluto e seta. E soprattutto c’erano ornamenti. E poiché l’artigiano, essendo un uomo moderno, civile, non era in grado di disegnare ornamenti, si costruirono scuole nelle quali giovani sani venivano distorti finché non riuscivano a farlo. (…) Il gotico? Noi siamo più in alto degli uomini del periodo gotico. Il Rinascimento?! Noi siamo più in alto. Noi siamo diventati più esigenti e più nobili. Ci manca quella saldezza di nervi che occorre per bere in un boccale d’avorio sul quale è intagliato un combattimento di Amazzoni. (…) I nostri templi non sono più come il Partenone dipinti in rosso, blu, verde e bianco. No, noi abbiamo imparato a sentire la bellezza della nuda pietra” (da Parole nel vuoto, cap. Architettura, A. Loos, pp. 243-244).
59
“La mia carriera professionale cosciente cominciò nel 1910 circa (…). Erano tempi veramente confusi e nessuno voleva o poteva dire cosa fosse in realtà l’architettura (…). Solo dopo la guerra, durante gli anni Venti, divenne sempre più chiaro quanto lo sviluppo tecnico influenzasse molti aspetti della nostra vita. Noi riconoscemmo nella tecnica una forza civilizzatrice con cui dover fare i conti. Nel campo del costruire la tecnica in via di sviluppo offriva nuovi materiali e metodi pratici di lavoro, che spesso si trovavano in netta antitesi con la nostra concezione tradizionale di architettura. Tuttavia io credevo alla possibilità di sviluppare un’architettura con questi nuovi mezzi. (…) Oggi, come da lungo tempo, credo che l’architettura abbia poco o nulla a che fare con la ricerca di forme “interessanti” o con le inclinazioni personali. La vera architettura è sempre oggettiva ed è espressione dell’intima struttura dell’epoca nel cui contesto si sviluppa” (da Mies van der Rohe, W. Blaser, 1977, Zanichelli, Bologna, p. 8).
60
Fig. 3.23: Interno del famoso Kartner American Bar, realizzato a Vienna da Adolf Loos nel 1907. Uno spazio incredibilmente riuscito benché molto ristretto.
61
3.8 ADOLF LOOS: IL KERNEL S-VUOTATO
L’idea alla base di questo tentativo è quella scaturita dalla similitudine, troppo evidente per essere ignorata, a mia detta, tra la concezione proto-organicista propria dell’architetto Adolf Loos (Brno, 1870 - Kalksburg, 1933) e del suo progettare, e la morfogenesi della stanza da tè, nel mondo del buddhismo zen e del taoismo, tipicamente giapponese. Ricordo che anche qui, come sarà ad esempio nel caso di Paul Klee, non c’è un esplicito riferimento, attraverso qualche lettera o appunto, dell’autore in questione al mondo e maniera giapponesi. Molto probabilmente anche lui sarà stato alla conoscenza del japonisme dilagante durante gli anni della sua maturità, possiamo quindi dedurre possa aver conosciuto e magari apprezzato qualche stampa, ma non si può storicamente affermare nulla di certo. Di conseguenza le mie parole sono volte ad un esercizio di rilettura di questa fondamentale personalità del secolo scorso, nell’intento di spiegare le medesime cose sotto però una diversa luce, senza alcuna pretesa di ragione rispetto ad altre letture, magari contrastanti, a riguardo. Vorrei far partire questa breve analisi con la ripresa di un brano dello stesso Loos tratto dalla raccolta dei suoi principali scritti: “I miei allievi si suddividono in studenti ordinari e straordinari. Gli studenti ordinari lavorano nel mio studio, quelli straordinari possono frequentare le mie lezioni. (…) Tre cose venivano (da me) insegnate: il costruire dall’interno verso l’esterno, la storia dell’arte e la conoscenza dei materiali. (…) I progetti dovevano svilupparsi secondo un processo che andava dall’interno verso l’esterno, il pavimento e il soffitto (pavimento di legno e soffitto a cassettoni) dovevano essere risolti per primi, la facciata veniva in seguito. Si attribuiva la massima importanza alla distribuzione ordinata delle parti e alla sistemazione logica degli arredi. In questo modo ho insegnato ai miei allievi a pensare in tre dimensioni, a pensare al cubo. Sono pochi gli architetti che oggi lo sanno fare. Oggi sembra che la preparazione dell’architetto sia conclusa quando ha appreso a pensare sul piano” (da Parole nel vuoto, cap. La mia scuola di architettura, A. Loos, pp. 263-264). Vorrei innanzitutto far focalizzare l’attenzione sul movimento descritto, ovvero quello che va dal dentro al fuori. La sua, e quella che cercherà di impartire, è una progettazione che parte dal soggetto, è tremendamente antropocentrica - dico “tremendamente” per sottolineare quanto fosse avanti rispetto alla gran parte dei suoi contemporanei -. Il soggetto, colui che abita, è posto al centro dell’esercizio, in quanto la progettazione parte proprio dall’interno, si muove e si apre a spirale dal kernel, che è nocciolo vuoto, o me62
glio s-vuotato-per, prossimo ad ospitare una qualche attività, una qualche percezione-di quell’ambiente. A seconda della sua destinazione e natura questo vuoto che diventa luogo dovrà apparire in un certo qual modo, dovrà essere rivestito, tappezzato, forse in legno, forse intonacato, e veicolare, attraverso le sue finiture, le altezze e l’arredo, le sensazioni che un ambiente di quella natura deve evocare (famoso l’esempio estremo della camera da letto pensata per la moglie, completamente rivestita in moquette e dotata di ampi tendaggi, a formare un velo unico che unisce pavimento, pareti, letto, arredo: quello Loos andava cercando, e proprio quello esprime, attraverso i materiali, in ciò progettato). La concezione dell’esterno architettonico per l’architetto nato a Brno nasceva dai presupposti che avrebbero dotato di senso l’interiorità dell’abitazione: il resto-esterno era “semplicemente” il risultato del lavoro di progettazione fatto per gli ambienti interni vissuti e osservati, che guidavano, nella gerarchia, gli esterni osservati ma non vissuti, spesso simili a tele bianche aperte in piccoli momenti da finestre il cui allineamento non era ricercato. Loos è uno dei primi a cercare di non lavorare mai o in pianta, o in prospetto, o in sezione, ma a pensare l’abitazione tridimensionalmente, come sintesi di ambienti in cui si svolgeranno diverse attività che però necessitano di cercarsi l’un l’altra. Ma questa maniera nasce da ciò anticipato in precedenza: quel kernel s-vuotato è spazio, non piano, e la sua progettazione quindi non potrà che essere nello spazio, e non arrestarsi al piano. Penso sia proprio con Loos che l’architettura volgerà maggiormente l’occhio allo spazio vuoto come costituente primaria degli spazi progettati, e non solo alle componenti fisiche piene quali sono i muri, i solai, colonne, che rimangono però fondamentali per permettere allo spazio interno di costituirsi. C’è inoltre una volontà ferrea dello stesso Loos di fare in modo che tali spazi, anche se vissuti, possano sempre tornare ad essere concepiti come di nuovo s-vuotabili e s-vuotati: “Che cosa deve fare” - infatti “l’architetto veramente moderno? Deve costruire delle case nelle quali tutti quei mobili che non si possono muovere scompaiano nelle pareti” (ibidem, p.323). Ed innumerevoli sono gli esempi, letterari soprattutto, che sottolineano l’attenzione che da sempre permane, nella cultura zen, per lo spazio vuoto nelle arti, o meglio, il rapporto dialettico come base della vita delle cose: l’uno, il pieno, non può essere detto che per mezzo del due, il vuoto, con un rapporto gerarchico inesistente, in quanto si necessitano reciprocamente. Una sorta di endiade, ovvero, letteralmente, dire l’uno attraverso il due e viceversa, in una sintesi binomiale, né monista, né dualista, bensì dialettica. I tentativi che gli architetti delle stanze da tè fecero sono, secondo me, molto simili all’operazione duplice di spoliazione e, appunto, partenza dal centro vuoto di Loos. Spoliazione non tanto rispetto all’ornato (che potrebbe risultare come terzo possibile incontro) ma rispetto all’idea o funzione alla base di un ambiente: così come nella stanza da tè il centro era l’altarino sul quale molto spesso venivano posizionati semplicemente dei fiori, così anche Loos, nel cercare l’identità del progetto sembra quasi chiedere ai futuri ambienti: “Che cosa volete diventare?”. Una volta trovata questa causa architettonica il resto viene da sé (è questa un’operazione molto simile a quella che fa Louis Kahn, 63
esemplificata nel motto “Che cosa vuoi essere?”, domanda che l’architetto americano si poneva come punto primo per qualsiasi progetto). Partenza dal vuoto centrale tale quindi per i motivi appena elencati, che possono essere idealmente riassunti graficamente in un movimento a chiocciola o spirale dal dentro al fuori, in un continuo rapportarsi dell’interno rispetto non tanto all’esterno inteso come intorno - questo lo farà soprattutto Frank Lloyd Wright - ma all’immagine dell’interno all’esterno, al negativo che nasce spontaneo rispetto alla fotografia che si vuole fare degli ambienti interni-vissuti. In breve: penso che quello che da cui inizi il procedimento di Loos è proprio ciò da cui partivano i giapponesi della tradizione classica per costruire. Sottolineo in particolar modo i due verbi da me appena utilizzati, ovvero “iniziare” e “partire”. Non voglio arrivare ad eguagliare le due pratiche, molto semplicemente perché le due non sono eguagliabili in tutto e per tutto. Solamente che, allo stesso modo di come i giapponesi partano immaginando il dentro, perché luogo dell’uomo, così fa Loos, fermandosi appunto all’aspetto
interno di tale similitudine. Le sue architetture infatti si chiudono molto di più rispetto agli esterni maggiormente tenuti in considerazione da architetti come il già citato Wright (volendo anche prima dello stesso Loos), Mies van der Rohe, Philip Johnson, Richard Neutra o Bruno Taut, che forse proprio perché entrarono in diretto contatto con la terra alcuni, e la cultura e dinamiche tutti, del mondo giapponese, compresero appieno i motivi alla base della costruzione tradizionale nipponica e di come potessero essere molto utili, tecnologicamente aggiornati e ripensati, nella rivoluzione portata avanti dall’architettura moderna di cui loro furono i padri e maggiori esponenti. Con ciò non si vuole in nessun modo minimizzare l’importanza del portato di Loos ma anzi, è un modo per valorizzare ancora di più la logica progettuale proposta dall’architetto austriaco - d’adozione si intende - confrontandola con un “fare architettura” che molto probabilmente lui non conosceva, ma col quale, secondo il sottoscritto, trova numerosissime affinità. E penso che, rapportandolo con il parallelo nipponico, proprio questo aspetto ovvero il partire dal kernel, sia stato trattato da Loos molto più fedelmente rispetto a come la intendevano i giapponesi rispetto a molti altri architetti del movimento moderno che sì, guardavano maggiormente, coerentemente, al rapporto col luogo che avrebbe ospitato quella architettura, ma quasi rilegavano il primo ad un mero - aggettivo da non connotare negativamente ma nel suo senso oggettivo - funzionalismo, quasi un esercizio d’arredo o disposizione. Loos invece, come bene ci fa intendere da scritti, disegni e schizzi, oltre che da opere costruite, partiva dall’interno ricercando il motivo, la sensazione, la fotografia pensata-prima di un luogo, di una stanza, o anche, di un solo oggetto d’arredo (che però, per dirlo con parole simili alle sue, è meglio sia lasciato agli artigiani e non agli architetti). Insomma: la sua è un’attività del tutto umanistica, intesa come attività in cui l’uomo si pone al centro, è ricercare un’esperienza, una sensazione negli e per gli ambienti senza sfociare negli estremi, per nulla banali o di portato inferiore, ma totalmente altri, dell’existenz-minimum che furono propri, ad esempio, dell’ultimo Le 64
Corbusier. Altra similitudine ravvisabile, questa volta, più nella sua concezione della dottrina dell’architettura, rispetto al suo fare architettura, si può provare a delineare lasciando parlare, ancora per un momento, l’autore stesso: “E io domando allora: perché tutti gli architetti, buoni o cattivi, finiscono per deturpare il lago? Il contadino non lo fa. Neppure l’ingegnere che costruisce sulle sue rive una ferrovia o traccia con il suo battello solchi profondi nel chiaro specchio del lago. Essi creano in modo diverso. Il contadino ha delimitato sull’erba verde il terreno su cui deve sorgere la nuova casa e ha scavato la terra per i muri maestri. Ora compare il muratore. Se c’è nelle vicinanze un terreno argilloso, c’è anche una fornace per i mattoni. Se non c’è, basta la pietra delle rive. E mentre il muratore dispone mattone su mattone, pietra su pietra, il carpentiere ha preso posto accanto a lui. Allegri risuonano i colpi d’ascia. Egli costruisce il tetto. Che specie di tetto? Un tetto bello o brutto? Non lo sa. Il tetto. (…) E’ bella la casa? Sì, è bella proprio come sono belli le rose e il cardo, il cavallo e la mucca” (da Parole nel vuoto, cap. Architettu-
ra, A. Loos, pp. 241-242). Qual è dunque la differenza fondamentale che intercorre, per Loos, tra il contadino, l’artigiano, l’ingegnere e gli architetti dell’epoca? Questa differenza a me viene da riassumerla tramite un sostantivo: il naturale. Un naturale inteso non tanto come facente parte, sin dalla nascita, della natura, bensì inteso come colui che lavora in armonia con la natura, ovvero con la propria terra ma anche il proprio tempo ed il proprio compito. E così come Loos intende naturali il contadino, l’ingegnere e la casa al pari della rosa, del cardo e della mucca, anche nella tradizione classica giapponese si è soliti definire un dipinto, un’architettura o un qualsiasi oggetto d’uso come naturali se particolarmente riusciti, in sintonia con le leggi della natura. Riprendendo le belle parole di Marcello Ghilardi: “E’ assente” - nel pensiero giapponese della tradizione - “l’idea della natura come creazione di qualcosa d’altro da sé (…). Per questo motivo “naturale” può essere (…) anche un artefatto, un oggetto di artigianato o un’opera d’arte, nella misura in cui la sua eccellenza formale lascia la sensazione che si sia fatto da sé, senza l’intervento di una volontà soggettiva” - ed in Loos la volontà soggettiva è proprio l’architetto suo contemporaneo che egli definisce come “s-radicato” ovvero letteralmente “senza più radici”, quindi distante dal naturale - “Addirittura, nell’ambito dell’apprezzamento estetico, la qualifica di “naturale” è la qualifica suprema, che supera anche la qualifica di “divina” o “spirituale”” (da La filosofia giapponese, 2018).
65
Dall’alto. Fig. 3.24: Katsushika Hokusai, La cascata di Yoshino, 1833. Fig. 3.25: Frank Lloyd Wright, Vista esterna per il progetto di casa Kaufmann, realizzazione intorno al 1936-’39.
66
3.9 FRANK LLOYD WRIGHT: DELL’ORGANICO, O SECONDO NATURA
- F.L.W.: “We don’t really understand what it is to live in an organic building with organic character. (…) Let’s say natural, would that suit you better?” - F.L.W.: “I’ve always considered myself deeply religious. (…) I go occasionally to this one (church), and then sometimes to that one, but my church I put a capital N on Nature and go there. (…) You spell God with a G, don’t you? (…) I spell Nature with an N, capital”. - Int.: “When you go out into a big forest, with towering pines, and this almost a feeling
of awe, that frequently you do get in the presence of nature, do you then not feel insignificant, do you not feel small in the same sense that I feel small and insignificant (while being inside St. Patrick’s Church)?” - F.L.W.: “On the contrary, I feel large, I fell enlarged and encouraged, intensified, more powerful. (…) And that’s because, why? Because in the one instance you are inspired by Nature, and the other instance you are inspired by an artificiality contrary to Nature. Am I clear?” - Int.: “You are clear, although I must say that I don’t agree because whatever inspires a feeling of reverence, a feeling of goodness (…) it’s good for the insides, it’s good for the soul” - F.L.W.: “Maybe very bad, very bad. (…) Our natures are now so warped in many directions, we are so conditioned by education, we have no longer any straight, true, clean reaction that we can trust, and we have to be pretty wise and careful what it is we give up to, what it is we admire, what it is we are inspired by? I dare say that the stevedor’s inspired by the prostitute whom he seeks, I dare say that all these things may be good so far as they go because they are necessary. But I wouldn’t say that they are what should be, I wouldn’t say that they are ideal” (brani di conversazione tratti da due interviste fatte nel 1957 a Frank Lloyd Wright, nello studio del programma The Mike Wallace Interview). Mai e poi mai cercherò, in un breve capitolo come questo, di parlare o provare ad analizzare anche una sola opera del più grande architetto che l’America abbia mai avuto. Proverò invece a spiegare, nel modo più chiaro possibile, le motivazioni culturali di fondo che stanno alla base del suo credo e del suo essere, ancor prima che delle sue opere: queste ne saranno poi il coerente e materico trasposto a livello architettonico. Nella breve intervista citata in apertura, una cosa si nota a primo impatto di questo personaggio: Wright era fermamente e convintamente americano, senza però mai ottusamente 67
mancare di accettare i difetti, oltre che pregi, della questione. Se Thomas Jefferson era il suo chiaro punto di riferimento per una politica improntata sulla democrazia e per uno stato incentrato sull’individuo e sulla famiglia come elementi costituenti primi, in più di un’occasione lo si sentirà pacatamente affermare che “we are not a culture, we are a civilization”, prendendo atto della mancanza di “cultura”, da intendere come integrità storica, ovvero, nell’accezione loosiana, di unitarietà armonica tra l’uomo interiore e l’uomo esteriore, che sola garantisce un pensiero ed un’azione razionali: di fatto, per Wright, l’America era civilizzazione in quanto storicamente gemmazione di-, e non nascita spontanea di-. In quanto, all’America mancava e mancherà sempre, rispetto all’Occidente europeo, il mito, che è di per sé fondativo di quella che possiamo intendere come kultur, senza la quale si può vivere al massimo in una coesione sociale, ma non in un vero e proprio stato (per non parlare di qualsiasi ambizione di carattere nazionale). Egli è lucido nell’avvertire la differenza tra una generica somma di persone rispetto ad uno stato di sintesi organizzata delle parti, che appunto sarebbe irriducibile alla somma di queste, ne
avrebbe un più alto valore. La parola chiave dell’intera intervista - che è poi anche la concezione cardine del pensiero di Wright -, sulla quale l’architetto si sofferma e sottolinea numerose volte, è Natura, con la lettera maiuscola per essere precisi. Da questa partirò per cercare di arrivare poi, in breve, a riassumere un altro termine fondamentale per capire il suo lascito, ovvero organicità. Ma andiamo per ordine. Facciamo un passo indietro, per la precisione torniamo al 1893. Wright era un ventiseienne già pienamente avviato al mestiere per il quale lo conosciamo. Figlio di un laureato in legge, che per problemi di denaro finì per fare, tra le altre cose, anche il pastore battista, fino agli undici anni conobbe diversi spostamenti di città in città, a causa dei debiti e successivi sfratti imposti al padre, fino a quando non andò a vivere definitivamente con la madre nel 1885, successivamente al divorzio tra i due coniugi. Neanche diplomato, riuscì comunque ad entrare presso la Wisconsin University, abbandonandola però dopo appena due semestri. Deciso sul suo futuro di architetto, nel 1887 fece domanda e venne assunto nello studio di Joseph Lyman Silsbee - cugino del famoso Ernest Fenollosa, primo fra tutti gli studiosi del Giappone - che lasciò dopo un anno per trasferirsi in quello di Dankmar Adler e Louis Sullivan a Chicago, questo da lui successivamente considerato come “il miglior luogo per imparare un’architettura non tradizionale”. Da subito si ricavò una posizione importante come disegnatore, senza mai perdere la curiosità che lo aveva sempre contraddistinto: durante questo periodo infatti approfondì la conoscenza delle stampe giapponesi, iniziate ad osservare probabilmente da Silsbee, ma che pure tappezzavano le pareti dello studio di Sullivan, insieme ad un discreto numero di libri sul Giappone riposti sugli scaffali, in quanto ne fu forte appassionato pure lui. E proprio Chicago è la città che, nel 1893, ospitò l’Esposizione Mondiale: il Giappone vi partecipò, chiedendo proprio a quel Fenollosa citato poco fa di decidere gli oggetti che meglio potevano rappresentare il Paese del Sol Levante - dalle lacche ai kimono, 68
passando per le porcellane ed appunto le stampe -, e al Kakuzo Okakura approfondito nei primi capitoli di redigerne il catalogo. Quell’esposizione passò alla storia in quanto proprio in quell’occasione venne ricostruita la famosa Sala della Fenice, l’edificio più importante del tempio Byodoin, costruito nell’XI secolo vicino a Kyoto. “Ogni sezione venne costruita seguendo diversi stili; così l’ala nord era nello stile Heian, che prevedeva uno spazio rettangolare decorato con dipinti dai colori luminosi. L’ala sud comprendeva invece una biblioteca e una sala da tè, che richiamavano nella struttura il Padiglione d’argento (Ginkakuji), risalente al 1484 e fatto costruire dallo shogun Ashikaga Yoshimasa. Quest’ala seguiva lo stile architettonico residenziale del tempo ed era improntato alla essenzialità del buddhismo zen. La sala centrale era infine la ricostruzione di una stanza del castello di Edo, per cui si presentava divisa in diversi livelli, oltre che fiancheggiata da due stanze più piccole. Pareti scorrevoli, rientranze, dipinti (…)” (da Architettura giapponese e architetti occidentali, A. Alabiso, pp. 40-41). Tale costruzione poi, terminata l’Esposizione, fu regalata dall’amministrazione giapponese e rimase presso il Jackson Park di Chicago fino al 1946, anno in cui venne gravemente danneggiata dall’incendio e quindi demolita. Il nostro presenziò all’Esposizione e visitò queste sale riuscendo a non farsi sfuggire alcunché degli aspetti tradizionali dell’architettura nipponica. Nella sua testa già cominciavano a crearsi quelle riflessioni nelle quali andrà poi più a fondo qualche tempo dopo. Cinque anni alle dipendenze di Sullivan bastarono a Wright per rendersi indipendente aprendo così il suo studio, senza però dimenticarsi di nessuna delle lezioni impartitegli da quello che considererà fin da subito come il suo vero maestro. Nel marzo del 1905 parte, assieme alla moglie Catherine, per la prima volta verso il Giappone e di ritorno, nel maggio successivo, porta con sé in America una quantità esorbitante di stampe giapponesi, assieme ad un modello particolarmente dettagliato di un’abitazione giapponese tradizionale. Da quel momento in poi i due coniugi divennero collezionisti di oggetti giapponesi ed organizzarono più di una mostra sul tema. Nella sua biografia si può infatti leggere: “Durante gli anni trascorsi nello studio di Oak Park, le stampe giapponesi mi presero e mi affascinarono molto. L’eliminazione dell’insignificante, un processo di eliminazione in arte, che pure cominciò a prendermi quando avevo ventitré anni, trovavano un’evidente corrispondenza in queste stampe. L’arte giapponese, io trovavo, aveva un reale carattere organico, era più vicina alla terra, era un più spontaneo prodotto di condizioni native di vita e di lavoro, quindi più prossima ad una modernità quale io intendevo, di ogni altra civiltà europea passata o presente” (da Frank Lloyd Wright. Disegni, di M. Angrisani, p. 12). Wright nelle stampe vede qualcosa su cui aveva già soggiornato col pensiero, e proprio per questo le trova alquanto interessanti e le capisce, in una modalità di interesse-comprensione che richiama una sentenza del futuro Tractatus dell’allora neanche ventenne Wittgenstein: “Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi o, almeno, pensieri simili”. Sulla stessa scia un commento che farà successivamente al suo primo viaggio: “All that was like an open book to me (…) and I knew how to read it. I could read 69
every word in it (…). It was a great educational experience”. Possiamo quindi affermare che il Giappone funge da attivatore più che da stimolatore per Wright, quasi come avesse pienamente fatto fiorire e finalmente sbocciare una rivoluzionaria concezione che in lui stesso già stava maturando. Nel 1916 Wright torna in Giappone per firmare il contratto per la costruzione dell’Imperial Hotel di Tokyo, e da lì in poi, fino al 1922 ci tornerà spesso per seguirne i lavori. Da questo periodo fino al 1930 la sua produzione diminuì, per tornare più vivace di prima all’alba degli anni ’30, quando diede libero sfogo ai suoi ideali di architettura democratica e portò a compimento la concezione di architettura organica, termine che da quel momento gli rimarrà per sempre affibiato anche nei libri di storia dell’architettura. Un periodo, quello dal ‘22 al ‘30, di minori impegni e meno frequenti spostamenti, a cui seguirà quello di sua più densa ed affannata attività. Ritengo che siano stati proprio questi gli anni in cui Wright “raggiunse l’illuminazione” - satori - a livello artistico e culturale, superando tutti coloro i quali, da occidentali, lo spirito giapponese lo avevano appena
sfiorato o avvertito ma non inalato ed apprezzato, capito fino in fondo. Nessuno come Wright ebbe una particolare affezione verso non solo l’arte, ma la generale disposizione d’animo e filosofia giapponesi, che trovano numerosi riscontri in alcuni degli aspetti principali del pensiero dell’americano, come l’innato amore per la Natura e la ricerca della costruzione fatta di semplicità e materiali genuinamente utilizzati. Penso rimarrà uno dei pochi che carpirà appieno la chiave del pensiero tradizionale giapponese e la riproporrà, re-inventandola, come linfa vitale per il progresso dell’architettura nel mondo occidentale. E’ probabilmente in quegli anni infatti che arriverà alla concezione matura della sua dottrina organicista che ha a cuore, in primis, la costruzione dell’architettonico secondo Natura, nella declinazione nipponica di tale termine che abbiamo già incontrato ad esempio per l’attento gesto di Constantin Guys, ovvero quell’istanza secondo la quale più qualcosa è naturale, più sembra esservi assente l’artefizio della mano dell’uomo nella sua concezione e creazione. Forse però andrebbe aggiunto un altro aspetto poco rimarcato in precedenza nella spiegazione di tale termine: naturale è, innanzitutto, per Wright, libero. Esente cioè da costrizioni, o conformismi, o norme di qualsiasi tipo che vogliano complicare la “semplice” situazione delle regole interne al mondo naturale stesso, dalla quale l’architettura, così come anche il prodotto di arredo o d’artigianato, dovrebbe provenire e ben permanere. Così come fu anche per Adolf Loos, l’architettura doveva partire dal kernel, dal centro inteso come luogo dell’attività umana, posto dove l’individuo - termine quest’ultimo tanto caro al pensiero americano - avrebbe dovuto vivere, con tutto ciò che questo avrebbe implicato (difficile non notare la somiglianza fra i due nella questione appena trattata. Frasi come: “Lo spazio interno è la realtà dell’edificio”. Oppure: “(…) Per architettura organica io intendo un’architettura che si sviluppi dall’interno all’esterno, (…) distinta da un’architettura che venga applicata dall’esterno (…)”, sono di difficile attribuzione, non fosse per l’aggettivo “organica” nella seconda che funge da indizio. Interessante il parallelo che può essere fatto con 70
sentenze brevi derivanti dal mondo del taoismo come la seguente, di Lao-tzu: “La realtà del recipiente è nel vuoto che contiene”). E’ quindi anche nel suo caso, quella dell’architetto, un’attività prima umanistica e quindi scientifica: è poi un’architettura democratica in quanto organizzata e concepita allo stesso modo - sempre in realtà poi differente a seconda delle singolarità - per qualsiasi persona. Sempre nuova l’espressione finale, sempre uguali i termini iniziali. E anche in questo discorso tornano le stampe giapponesi che di fatto costituivano la prova fisica, per Wright, di come fosse possibile realizzare arte di ottima fattura per la gente comune: questo era uno dei principali obiettivi suoi e in generale del Movimento Moderno in architettura. “Architettura organica vuol dire più o meno società organica. Un’architettura che s’ispira a questo ideale non può riconoscere le leggi imposte dall’estetismo o dal semplice gusto, così come una società organica dovrebbe rifiutare quelle impostazioni esterne alla vita contrastanti con la natura o col carattere dell’uomo che ha trovato il suo lavoro e il posto dove poter essere felice e utile, in una forma di esistenza adatta a lui.
(…) Che una vera architettura nasce dalla terra e che, in un modo o nell’altro, le condizioni industriali locali, la natura dei materiali e il fine per cui è stata costruita, devono inevitabilmente determinare la forma e il carattere” (da Frank Lloyd Wright, architettura organica. L’architettura della democrazia, di A. Gatto, 1945, ed. Maggioni, Milano, pp. 27, 51). Egli, nel progettare, guarda sempre alla Natura (e se non a quella prima, vera e propria, al massimo alle meravigliose interpretazioni di essa fornitegli dalle stampe ukiyo-e). Parlare quindi di naturale e organico in Wright ha lo stesso significato: entrambi i termini infatti assumono e significano un movimento, quello che muove dall’interno all’esterno, che muove dall’individuo verso la natura che lo ospita e lo alimenta, o ancora, che muove dallo spazio s-vuotato al servizio dell’attività umana verso il pieno del perimetro delle mura. E più ancora che in Loos, Wright riesce a permutare nella forma architettonica queste idee, in quanto i suoi tetti si alzano a più livelli e sporgono accentuatamente (richiamando i templi della tradizione giapponese), dei lunghi setti entrano ed escono dall’abitazione donandole quell’orizzontalità che sarà tipica soprattutto delle “Prairie Houses”, forti sbalzi diventano come braccia che, distese, si protendono verso l’intorno non costruito, quando invece nell’architetto di Brno i volumi si chiudono compatti, bianchi, monolitici e squadrati, segnati da finestre piccole in confronto alle aperture snelle e a tutt’altezza tipiche dell’americano. Il tutto è confermato dalle genuine parole di Walter Behrendt: “(…) Le abitazioni costruite da Wright sono come le case giapponesi (…) manifestano lo spirito della natura, la stessa tendenza verso una struttura organica” (da Modern Building: its nature, problems and forms, di W. C. Behrendt, Londra, 1938, pp. 134-135). Sfortunatamente, nel caso di Wright, un Emile Zola di turno non vi sarà per tessergli le lodi anche nei momenti di difficoltà. Mi basterà quindi allora ricordare quanto l’operato di questo architetto sarà di fondamentale importanza e grande ispirazione per tutti coloro i quali eccelleranno in materia negli anni a venire: dalle Prairie Houses alle residenze 71
personali, passando per edifici tra i più iconici come il Larkin’s, il fu Imperial Hotel, il Johnson Wax Administration Building o la famosissima Kaufmann House, meglio nota come “casa sulla cascata”. Tutti quanti segnati dal convogliarsi, volenti o meno, di una passione, ovvero quella per l’arcipelago del Sol Levante, alla quale, da quanto si narra, dedicò tanto tempo quanto ne spese tra i vari disegni di progetto, ed alla quale, probabilmente, le innumerevoli biografie non hanno ancora reso il dovuto omaggio, poiché, così come avrebbe potuto dire, per mezzo di parole dalla vibrazione quasi mistica, un maestro zen, “un edificio deve sembrare quasi sorgere dal terreno con natura certa ed essere configurato in modo da armonizzare con la natura circostante, se è presente, e altrimenti crearla, così come avrebbe fatto essa stessa se ne avesse avuto l’opportunità” (da Frank Lloyd Wright. Disegni, di M. Angrisani, p. 8).
72
Dall’alto. Fig. 3.26: vista esterna dell’ingresso principale dell’Imperial Hotel. Fig. 3.27: vista dell’ingresso secondario. Foto del 1930 circa.
73
Fig. 3.28: Leonid Pasternak, bozza preparatoria per il ritratto di Rainer Maria Rilke, 1900 circa.
74
3.10 RAINER MARIA RILKE: DELL’INDICIBILE
Il Giappone non fu mai la meta dei viaggi fisici di Rilke: lo furono la Russia, l’Italia, la Francia, l’Egitto, la Spagna, ma mai il suo animo gli fece muovere un passo verso l’altro capo del mondo. Il Giappone resto però, in più occasioni, la meta spirituale dello scrittore e poeta nato a Praga nel 1875. Si può parlare, forse, di suoi due fondamentali incontri con quella terra, tramite i quali egli tornò, per così dire, sui suoi passi, rimuginò su cose già pensate, capì che molto probabilmente, alcune cose a cui lui aveva già dato
spazio nella sua testa, non erano poi così distanti o differenti rispetto a ciò che costituiva l’essenza ed assieme i migliori risultati artistico-culturali di un terra lontana migliaia di chilometri, quasi del tutto sconosciuta e appena pregustata in Europa per assaggi, perlopiù edulcorati o alle volte avariati. Il primo avvenne nel 1907, mentre Rilke era a Parigi, metropoli dalla quale l’esotismo nipponico del periodo era scaturito, nella sua esperienza d’atelier con Rodin, durante gli anni di iniziazione alle arti figurative e, come lui stesso dice, “di una accresciuta ampiezza dello sguardo”. Egli a quel tempo guarda le cose, Rodin da maestro lo fa osservare, e dopo averlo fatto cerca di smuoverlo a calare nelle sue opere la natura visibile, la realtà delle cose stesse. Proprio in quegli anni è lo stesso Rilke a dirci quanto lo avessero positivamente impressionato e spronato a ricercare la sua strada le tele di Cézanne, il modo in cui quest’ultimo riusciva a rappresentare e portare in vita il rapporto tra la volontà della creazione artistica e l’amara pena del lavoro: “(…) lavorare. A quanto pare senza gioia, con rabbia continua, in dissidio con ciascuno dei suoi lavori”. Questo è fondamentalmente, per Rilke, Cézanne, “e questa è la fatica che costa dipingere quelle mele, quei limoni cavandone fuori rabbiosamente la segreta natura fino a far loro perdere ogni commestibilità e a farli diventare veramente cose, così semplicemente indistruttibili nella loro caparbia essenza. Rilke ricercava il metro e la misura delle sue opere, di quelle compiute e di quelle ancora da compiere. Le arti figurative gli davano il senso di un risultato raggiungibile passo passo, pennellata su pennellata, partendo come faceva Cézanne dal nero del nulla e sovrapponendovi, uno alla volta, i colori” (da L’immagine e il segno, F. Arzeni, pp. 161-162). Questa chiara, e forse “triste”, etica del lavoro del pittore francese richiama subito alla mente alcune frasi di una personalità che, nell’altra metà del globo, era intanto già passata alla storia - in qualsiasi modo si voglia intendere quest’espressione - ed alla quale Rilke dedicherà, dopo averlo conosciuto, pare attraverso lo stesso Rodin, un posto d’onore nell’Olimpo della storia dell’arte di fianco a uomini come Leo75
nardo, Villon, Li Tai Po, Verhaeren, lo stesso Rodin, il già più volte citato Cézanne e Dio. “Sin dall’età di sei anni ho avuto la smania di disegnare la forma degli oggetti. Verso i cinquant’anni avevo pubblicato un’infinità di disegni, ma tutto ciò che ho fatto prima dei settant’anni non vale la pena di essere tenuto in considerazione. All’età di settantatré anni ho più o meno capito la struttura autentica della natura, degli animali, delle erbe, degli uccelli, dei pesci e degli insetti. (…) Di conseguenza, all’età di ottant’anni avrò compiuto ulteriori progressi; a novant’anni penetrerò il mistero delle cose; a cent’anni avrò sicuramente raggiunto un livello di eccellenza e quando avrò centodieci anni, ogni cosa mia, che sia un punto o una linea, diventerà viva. (…) Chiedo a chi vivrà quanto me di verificare se manterrò la parola. (…) Scritto all’età di settantacinque anni da me, già Hokusai, (…) il vecchio pazzo per il disegno” (da Hokusai, il pittore del mondo fluttuante, E. de Goncourt, 1922 - citazione ripresa da L’Art japonais, L. Gonse e A. Quantin, 1883). Fu anche Hokusai, come si capisce bene da queste parole, lavoratore infaticabile, che sul letto di morte, a quasi novant’anni, ne richiese altri cinque al Creatore per poter por-
tare a termine la sua opera. Fu un uomo in tutto e per tutto consimile al Rilke degli anni parigini, domato da una ferrea etica del lavoro che era in realtà solo una “scusa” all’ossessiva ricerca del fatto artistico, dell’opera perfetta, pienamente compiuta. Ora, come dicevo, fu molto probabilmente lo stesso Rodin a proporre e tirar fuori il nome di questo artista in presenza del suo allievo Rilke, che ne aveva già visto qualche opera - in quanto le stampe policrome di Hokusai erano tra quelle più apprezzate e che più circolavano nella Francia dell’epoca - senza però soffermarvisi più di tanto. Questo “incontro” si può dire ebbe qualcosa di profetico in quanto, molto probabilmente, non avremmo potuto apprezzare le Neue Gedichte (Nuove poesie) rilkiane, scritte tra il 1907 e il 1908, senza tale influsso. Sì perché se la serie di Saint-Victoire, vista al Salone d’autunno dell’anno precedente, fu alla base dello suo stimolo letterario, la conoscenza di Hokusai, creatore anche lui di addirittura due serie che hanno come protagonista il Monte Fuji - ovvero le famose Cento e Trentasei vedute del Fuji - non potè che spingerlo ancor di più a scrivere poesie come, appunto, Der Berg (La montagna), che inizia proprio richiamando l’opera dell’artista giapponese: Trentasei e cento e cento volte ha il pittore di quel monte i tratti riprodotto e poi strappato e aggiunto (trentasei e cento e cento volte) (…) Rilke ben intende come, così come in Cézanne, anche nelle serie di Hokusai, la montagna, prima di diventare cosa poetica, è cosa concreta, tangibile anche se distante, materica. Ed il poeta si pone le stesse domande che, probabilmente, accomunavano i suoi 76
due grandi maestri ovvero si chiede quali siano le motivazioni e le ragioni che leghino assieme, tengano uniti colui che guarda al reale ed il reale che è guardato. In una lettera alla moglie, sempre in quegli anni, spiegherà come sia Cèzanne sia Hokusai furono grandi creatori, e proprio in quanto tali persone che non cercavano di fuggire dalla vita, dalla miseria, dal dolore, magari rifugiandosi nel sogno. Personalità che rimangono invece nel reale e narrano la tremenda realtà del mondo, che anche da vecchi vivono della loro ostinazione per l’arte, per la creazione artistica, rifiutandosi sempre qualsiasi periodo di soddisfazione, che hanno per scelta lasciato morire la loro vita perché ostinatamente spostavano tutta la linfa nell’arte: una vita per l’arte o, ancora meglio, arte al posto della vita. La maggiore differenza forse, tra la concezione occidentale per tale tipo di attitudine rispetto a quella che poteva essere propria di Hokusai risiede nel fatto di un ottimismo di fondo del pittore ed incisore giapponese che invece non poteva far parte della sensibilità europea, all’epoca come ancora al giorno d’oggi. Un ottimismo il suo che sarebbe derivato dalla pacata e serena accettazione della maniera della sua attività così come
questa si sarebbe presentata di volta in volta. Insomma, Hokusai mai si sarebbe chiesto l’alternativa a quella vita, perché quella era e non poteva essere altrimenti. Cézanne e più ancora Rilke invece probabilmente soffrivano della condizione richiesta dalla natura della loro arte poiché pensavano forzatamente, da occidentali, all’idea dell’esistenza di una vita artistica alternativa, e quindi mai “accettando” veramente tale condizione, che però ammettevano essere l’unica per mezzo della quale potevano approdare ai loro esiti artistici. Il secondo incontro di Rilke con il Giappone avvenne più di un decennio dopo, stavolta non attraverso le arti figurative ma tramite la letteratura. E’ il 1920 infatti quando il poeta boemo, naturalizzato austriaco, scrive in una lettera ad un’amica di aver apprezzato particolarmente un capitolo sui fiori e l’arte giapponese dell’ikebana proprio di quel breve ma fondamentale Book of tea, citato più volte in precedenza. Lo stesso Okakura, autore del libro in questione, si può dire dia vita ad un’opera rilkiana: egli riconduce qualsiasi umile strumento o materiale alla sua più vera natura simbolica senza mai, allo stesso tempo, che questi perdano alcunché in concretezza. Rilke difatti se ne innamorò, soprattutto in quei passaggi più poetici, come appunto quello sui fiori o sulla cerimonia del tè. Pochi mesi dopo, sempre in una lettera, parla dell’apprezzamento per una breve strofa di impianto metrico giapponese, usanza che tanto si stava diffondendo all’epoca, il cosiddetto hai-kai o haiku. Ed ancora una volta Rilke è colpito da una descrizione poetica di natura floreale: Elles s’épanouissent, alors On les regarde, - alors les fleurs Se flétrissent, - alors… (rien de plus! c’est délicieux!).
77
Di sicuro la mediocre traduzione francese di tale haiku non aiutò a renderlo migliore, dato che Nejima Onitsura, autore della strofa in questione, non passò alla storia come grande poeta haiku. In ogni caso da ciò si può comprendere come Rilke fosse completamente immerso nella moda dell’epoca, che vedeva molti giornali e riviste addirittura bandire concorsi e gare per la realizzazione di alcune di queste brevissime poesie, quando però molti dei partecipanti nemmeno sapessero riconoscere la vera natura dell’impressione poetica dalla quale ogni haiku doveva nascere, scaturire spontaneo. Come tutta la poesia difatti anche questo tipo di componimenti ricercava l’infinito, ma non l’infinitamente alto o profondo, bensì l’infinitamente piccolo, breve e semplice nel quale, in un pensiero tipicamente orientale, l’immenso cosmo nella sua totalità si riverbera. Lo haiku recita un istante terreno che richiama però a sé degli echi in cielo. E mai definisce, esprime con nettezza, spiega, ma sempre allude, circoscrive, al massimo indica, facendo in modo, anche attraverso immagini contrapposte, che il senso non appaia. Non perché non deve, ma perché non può. Sono questi e solo questi i presupposti per i migliori componimenti haiku della poesia orientale. Su tutti, Basho: Nel cadere al suolo, stilla la corolla l’umore del fiore di camelia. Sulla scia di quello accennato in precedenza, ovvero di un ripensamento, da parte di Rilke, attivato dal profumo dei ciliegi in fiore giapponesi, su discorsi che egli stesso aveva già in parte concepito o scritto, un esempio nitido rispetto ai versetti di Basho appena citati sono le tre righe appuntate nel 1905 nel suo Studenbuch (Il libro d’ore): Perché noi siamo solo la buccia e la foglia. La grande morte che ciascuno ha in sé, questo è il frutto, intorno a cui tutto si volge. Ed è molto probabilmente proprio grazie a Basho, Buson e altri grandi autori classici giapponesi che Rilke non abbandonerà subito questa forma poetica, che per la stragrande maggioranza dei suoi contemporanei fu solo una moda passeggera, durata ben poco. Il primo tentativo del poeta nel cimentarsi con queste composizioni non si fa per nulla attendere, ma più che di rosei petali profumerà di boulevard parigini e mode mittel-europee. Ma più leggeva, più trovava il suo pensiero come riflesso in questi componimenti, di oltre due o tre secoli precedenti, e negli esiti seguenti si dimostrerà di averli intesi nella loro natura sostanziale. I temi infatti sgorgheranno spontanei da un’osservazione minima, lucida e rassegnata allo stesso tempo. Un qualsiasi attimo insignificante si carica d’importanza e pathos, o aware, per usare un termine caro al pensiero classico taoista. Non è infatti da dimenticare come questa forma di poesia nasca dalla tradizione 78
taoista e del buddhismo zen, diffusi in Giappone secoli or sono, a partire dalla Cina. I tratti fondamentali che la poesia haiku ripercorre in maniera esatta rispetto al pensiero taoista e buddhista sono sicuramente il gusto profondo per le semplici cose quotidiane ed il non ricercare il concetto, la delimitazione e la definizione, bensì l’esperienza vera ed autentica che può essere tale solo a partire dall’accettazione della nostra fisicità, che può essere superata solo se dapprima considerata in quanto tale, ovvero non dimenticata. E ancora, il rifiuto dell’intelligenza fine a sé stessa, dell’analisi e del raffronto: vi vuole essere invece immedesimazione e compenetrazione dell’oggetto conosciuto. Come conferma il letterato giapponese Hideo Fujikawa, non solo le ultime creazioni, ma tutta l’opera poetica di Rilke pare essere permeata di logiche ed echi giapponesi. Non sapremo mai quanto volutamente questo autore, prima ancora di conoscere lo haiku, aveva ricercato una metrica ma soprattutto una visione delle cose vicinissima per certi versi a quella tipicamente zen. Lo stesso Fujikawa parla però di una Weltinnenraum di Rilke (ovvero la visione del suo spazio interiore) molto simile al muga nipponico, quella
perdita dell’io, di compenetrazione tra soggetto ed oggetto che è tipica dello zen e soprattutto della meditazione legata più in generale a tutto il buddhismo. E’ sempre lo stesso Rilke a dirci inoltre come sia in realtà netto e chiaro quel legame, molte volte definito segreto, che si cela ad esempio negli haiku, che vuole unire visibile ed invisibile: in questi componimenti tale cucitura risalta, secondo lui, nella misteriosa unità che si viene a creare tra fenomeno naturale, dal quale parte la speculazione, e immaginazione. Nasce insomma, attraverso questi brevi componimenti, una sorta di collegamento che lega il visibile, o sensibile, a qualcosa di più alto, indicibile, ed invisibile per l’appunto. E’ - ed anche in questo caso si torna ad una visione paradossale tipicamente orientale - dire per mezzo del non-detto. Storicamente Rilke non può essere collocato a rigore, in una distinzione che nasce nel Dopoguerra, né tra coloro i quali credevano ancora nella parola come mezzo di comunicazione - i vari Valéry e Claudel - né tra i cosiddetti distruttori del linguaggio, tra coloro i quali cioè che prendevano ispirazione non tanto dalle idee o dalla tradizione ma dalle esperienze irrazionali o dal mito - come Eluard o Pound. Questo perché egli fu attirato inizialmente dall’eleganza formale, per poi però rivelare un’affinità, che va oltre il sensibile, con quello che può essere definito come spazio di incontro e fusione tra essere e non-essere, per dare luce a versi che, con il riferirsi a fenomeni, sondano l’indicibile. “Rilke ha percepito meravigliosamente che il senso della bellezza sta nell’incompiutezza, nel divenire e non nel risultato, nella possibilità che altri, altrove, la portino a termine. La bellezza, dice Blyth, dello haiku, è scoperta solo da chi completa mentalmente l’incompleto. La specificità dell’estetica giapponese non sta tanto nel tendere alla concisione quanto nel tendere a raggiungerla attraverso l’ellisse. La brevità dello haiku è” - per chiudere ritornando ad uno dei concetti chiave esposti nell’introduzione - “(…) la sintesi di una spirale” (da L’immagine e il segno, F. Arzeni, p. 173).
79
Fig. 3.29: Paul Klee, Tipi di accrescimento ovvero spostamento, rotazione, specularità, 1900 circa.
80
3.11 PAUL KLEE: DELL’INVISIBILE
Nell’introduzione a questo breve saggio ricordavo di quanto Klee sia stato fondamentale per la poesia del Novecento, a discapito del poco che poi di fatto viene raccontato solitamente a riguardo: è vero, forse non è corretto, almeno per gli studi portati avanti fino questo momento, piazzarlo di fianco ad autori del calibro di Hemingway, Joyce o Pound, che del “Secolo Breve” hanno costituito l’animo, ma vorrei almeno sottolineare con forza l’importanza che i suoi scritti hanno rivestito per lo stesso Klee. La sua era difatti un’attività duplice, fatta di pittura-e-scrittura: che poi quest’ultima fosse prosa o poesia forse non interessava minimamente nemmeno a lui. Era però parte integrante del suo fare artistico, che non poteva esistere senza una delle due, entrambe momenti necessari di sfogo di un animo inquieto - anche perché rinchiuso in un fisico malato - ma geniale. Un parallelo chiarificatore potrebbe essere fatto con il Le Corbusier architetto-e-pittore, con le dovute attenzioni però, in quanto è vero che anche nel suo caso le due attività andavano di pari passo “fisicamente”, poiché è documentato quanto amasse passare numerose giornate a dipingere, ma erano, rispetto a quello che poi fece Klee, maggiormente sfasate dal punto di vista “spirituale”. Se nel primo possono essere fatti interessanti ed intriganti paralleli tra il suo modus operandi in pittura e quello in poesia, con Le Corbusier diventa un’operazione più difficile e probabilmente anche più sterile. In tutto ciò la mia volontà risiede in quello appena accennato, ovvero non tanto sminuire il portato epocale del lavoro dell’architetto svizzero, bensì tentare, con le armi a mia disposizione, di delineare i principali intrecci e paralleli tra l’operato del Klee pittore e quello del Klee poeta, ricollegandomi, nella lettura che farò, ad esempi tipicamente giapponesi di concezione del dipinto-poesia. E’ già interessante notare ad esempio quanto, per tutto quello detto finora e richiamando Clement Greenberg che parla di un “Klee che utilizza la tela come una pagina”, avrebbe senso parlare di “scrivere un dipinto” o “dipingere una poesia” nel caso in questione. Ebbene, nella lingua giapponese, figlia di una maniera di pensare a-categorica completamente diversa dalla nostra, è del tutto normale parlare e scrivere in questi termini. I kanji (caratteri dell’alfabeto nipponico) difatti si scrivono-e-dipingono: questo in primis per la storica non-separazione che pervade il sapere zen e taoista, dappoi per l’importanza e la cura che in quella tradizione è da sempre riservata anche alle cose mondane, tra le quali lo scrivere, che diventa così la forma più frequente, ma non banale, del dipingere. Per preparazione ed interesse personali non lo farò, ma volendo si 81
potrebbe arrivare, per completezza, a considerare la, più che duplice, bensì triplice attività creatrice del genio di Klee, considerando assieme alla pittura e alla poesia anche la musica, nella quale talento ed interesse gli derivarono dalla madre e che in molti casi lo salvarono nel vero senso del termine, in quanto grazie all’occupazione più o meno costante nell’Orchestra di Vienna portò a casa il pane nei momenti più sfortunati della sua carriera. “Varia, varia più che puoi!” fu il motto leonardesco. Egli non sappiamo se lo conoscesse, possiamo però dire che lo attuò appieno. Tuttora non si sa con certezza se e quanto Klee venne alla conoscenza della cultura giapponese che fluiva nell’Europa di inizio Novecento. Non si può supporre quindi, di fatto in quanto, a differenza ad esempio di Rilke, sue lettere o scritti non ce lo raccontano, a priori se anch’egli sia stato influenzato dalla cultura nipponica nei suoi più vari aspetti: dalle ceramiche alle stampe, per arrivare al teatro o alla poesia. Di perciò questo, come gli altri di questo breve saggio, vuole essere e rimanere un tentativo di rilettura dell’autore in questione in chiave orientale, giapponese per l’appunto, in maniera tale da arrivare ad un suo studio attraverso un parallelismo che, anche se magari non del tutto veritiero, spero possa risultare utile alla comprensione dello stesso Klee, così come degli altri autori.
Ora, ripartiamo da un qualcosa che lega Klee con lo stesso Rilke, trattato in precedenza, attraverso alcune parole che l’artista scrive in Form: “L’arte non ripete il visibile, ma rende visibile”. Senza diventare prolisso, ripetendo le questioni toccate parlando di Rilke, vorrei semplicemente aggiungere un collegamento che si potrebbe rivelare fondamentale per la comprensione di più d’una personalità trattata in questa sede. L’autore infatti che più nell’ultimo secolo pose l’accento sui due termini in questione, ovvero visibile ed invisibile, fu Maurice Merleau-Ponty, filosofo di indubbia rilevanza internazionale. E lo stesso Merleau-Ponty sarà il mio tramite nel ragionamento che vuole avvicinare Klee al sapere orientale: è nota difatti la vicinanza del pensiero del filosofo francese al mondo giapponese, sia per temi toccati che per esiti di pensiero raggiunti. Due sono i concetti fondamentali partoriti da questo filosofo che vorrei portare all’interno della mia trattazione: il primo è il rapporto, come accennavo prima, tra visibile ed invisibile, il secondo, in realtà chiave per la comprensione anche del primo, è il concetto di chiasma - parola che deriva dalla “chi” greca - ovvero intreccio, incrocio, compenetrazione. Vorrei quindi partire proprio da quest’ultimo che è emblematico della concezione merleau-pontiana del mondo e della realtà. Alla base v’è infatti una non-distinzione categorica tra anima e corpo, spirito e materia, o meglio, un necessitarsi l’un l’altro vicendevolmente: l’immagine forte, utilizzata spesso dal filosofo, è quella delle due mani che si toccano, si intrecciano, le cui dita si aggrovigliano, si cercano le une con le altre. E’ un essere toccati-e-toccanti allo stesso tempo. Tale concezione ritorna anche nella risposta che Merleau-Ponty dà alla questione percettiva: il nostro corpo difatti è “finestra sul mondo”, unico metodo che abbiamo anche solo per partire con le nostre speculazioni. Non possiamo dimenticarcene - e qui ci si collega fortemente a ciò detto in precedenza, 82
ovvero alla tipica visione endiadi-ca del pensiero giapponese - poiché senza di esso la nostra speculazione non avrebbe più senso, non sarebbe più tale, cambierebbe, e allora non troveremmo il motivo del chiederci le cose a cui abbiamo sempre cercato di dar risposta. Liberati dal corpo vedremmo cose che non potremmo vedere, non perché invisibili in sé e per sé, ma perché invisibili a noi, in quanto è impensabile una concezione del vedere e dell’osservare scissa dal soggetto che vede, che osserva. E, come anticipato, proprio qui risiede la chiave per capire la riflessione merleau-pontiana del Visibile e l’invisibile (suo testo omonimo del 1955): questi due enti non possono essere pensati come separati, essendoci uno vi dovrà per forza essere anche l’altro, si richiamano e si necessitano a vicenda. L’arte perciò deve abbattere, secondo Merleau-Ponty, le barriere solite della percezione - dal linguaggio alle convenzioni tutte - per farci assaporare l’invisibile, quel qualcosa che non è sotto i nostri occhi ma che può solo essere evocato, oppure, come farà ad esempio Magritte, farci tornare alle cose stesse, cioè andare più a fondo del solito sguardo, che vede le cose solo in quanto associate ad una utilità, una funzione. Un esempio di come Klee riesca ad indicare ciò che non c’è può essere la sua Motto (la cui traduzione italiana non utilizzo né fornisco in quanto è unicamente distorsiva rispetto ai fini della spiegazione): Sturm und Wurm Sang und Drang Wurm und Sang Drang und Sturm La parola in Klee è un segno, così come lo è qualsiasi altro segno grafico. L’intuizione suggerita dalla citazione di Greenberg, presentata qualche riga fa, è la seguente: questi due segni diversi hanno per Klee lo stesso valore, e proprio per questa ragione egli li utilizza allo stesso modo, assolvono per lui cioè alle stesse funzioni. Così come nei suoi dipinti, anche in una poesia come Motto il segno - parola o tratto che sia - è in Klee astratto, è, citando Signac, “un elemento che ha la stessa funzione di una nota in una sinfonia”. Trova quindi il suo perché nei rapporti interni alla costruzione poetica o pittorica in cui è utilizzato. Una poesia come questa, di una semplicità disarmante, quasi azzerante, oltre a rivelare questa musicalità, scandisce lo spazio ed il tempo della lettura attraverso elementi timbrico-fonetici - vocali “a” ed “u” - ed elementi lessematici - le parole utilizzate - ovvero “Sturm”, “Wurm”, “Sang”, “Drang” e “und”. A livello fonetico la lettura è molto semplice. Si potrà infatti pervenire ad uno schema a scacchiera, assegnando l’1 alla “u” ed il 2 alla “a”, del tipo:
83
1-1-1 2-1-2 1-1-1 2-1-1 Sul piano lessematico invece, come abbiamo visto, gli elementi sono cinque, definibili come: A. “Sturm”; B. Wurm; C. “Sang”; D. “Drang”; E. “und”, dai quali si può dedurre una tabella del tipo: A-E-B C-E-D B-E-C D-E-A Lo stesso lessema si presenta così una volta per ciascuna verticale e due volte sui piani orizzontali, fatta eccezione per la colonna centrale degli “und”, che si differenzia dagli altri lessemi in quanto svolge funzione di articolazione del discorso: ha quindi funzione sintagmatica, in quanto è ciò che permette la congiunzione degli elementi del discorso, che grazie a ciò vengono posti sullo stesso piano. In breve: “und” è sostituibile con un segno “+”, elemento base di questa scacchiera, che non può cambiare anche se verranno aggiunti altri lessemi, in quanto comporterebbe una variazione nella struttura. Una prima deduzione è quindi questa: tale componimento è, volendo, ripetibile all’infinito. Successivamente alla lettura difficilmente la nostra mente si distaccherà dalla “regola” di fondo della poesia, intercettata tra le righe, e continuerà quasi spontaneamente i quattro versetti, intrecciando e scambiando i lessemi utilizzati da Klee, tenendo ben salda però la congiunzione centrale. Di conseguenza è come se uno scritto così breve non avesse in realtà fine, tendesse all’infinito, al non-detto, attraverso le poche parole utilizzate. Anche qui, come nel caso di Rilke, si ha un componimento che non ha esistenza autonoma rispetto a colui che legge, è irriducibile alla semplice somma delle sue parole. E’ poesia solo in quanto letta, compresa e mentalmente continuata dal lettore. Questi quattro brevi versi però, oltre a richiamare i concetti appena espressi, riflettono una concezione che è tipicamente giapponese, ovvero quella del kire, inteso, anche grammaticalmente, il più delle volte come kire-tsuzuki, che vuole intendere una cesura che allo stesso tempo però unisce, una continua-discontinuità (studiata approfonditamente e ben espressa da R. Ohashi negli ultimi anni ’80). Perché dico questo? L’immagine ad inizio paragrafo è presa da una raccolta di alcuni suoi studi grafici sul colore (foglio n. 60/71, Tipi di accrescimento: spostamento, rotazione, specularità). Ciò, oltre a farci capire meglio di mille inutili parole quanto i “giochi” e le meccaniche di Klee appena descritte a livello poetico possano essere trasposte appieno sul piano figurativo, ci illumina a riguardo di quel kire appena evidenziato. Se ci concediamo di ruotare di novanta 84
gradi il disegno, in modo che il tratto orizzontale di separazione della scacchiera in alto compaia verticale rispetto al foglio, ci possiamo accorgere che siamo di fronte all’esatto trasposto della colonna degli “und” vista in precedenza, che è allo stesso tempo soglia tra le colonne di destra e sinistra e quindi le separa, ma anche congiunzione, in quanto è il “+” che lega nella lettura i termini ai lati. E kire-tsuzuki è proprio questo: una soglia che, proprio in quanto tale, separa-e-unisce quello che sta presso i suoi lembi. Ma ci si può muovere ancora oltre: in Motto la volontà di Klee è quella di procedere da una convezione secolarizzata, come quella del linguaggio, verso un Ur-Codex, un codice primo di espressione, di resa lessicale. Sempre in Motto, ed in molti altri componimenti del tutto simili, il livello della sintassi manca, o per meglio dire, è ridotto al minimo: è minima l’articolazione del discorso. La cosiddetta Poesia delle strofe recita così: 1. Strophe: Rach und Degen
ein Dach dem Regen Schurm und Stirm im Sturm ein Schirm 2. Strophe: Rach und Degen Schurm und Stirm im Sturm ein Schirm ein Dach dem Regen 3. Strophe: Schurm und Stirm im Sturm ein Schirm Rach und Degen ein Dach dem Regen Neue Moeglichkeiten: Degen und Rach dem Regen ein Dach Stirm und Schurm ein Schirm im Sturm Schurm und Stirm Rach und Degen ein Dach dem Regen im Sturm ein Schirm 85
La complessità è di sicuro maggiore rispetto alla più semplice Motto, ma la struttura continua a funzionare in maniera simile. E’ vero che non v’è più la colonna centrale fissa degli “und”, questi però si nota come permangano a coppie in ogni strofa, lasciando spazio alle altre locuzioni utilizzate, che però ancora una volta sono matematicamente alternate, quasi tale componimento potesse non aver fine. Richiamo un meccanismo “matematico” perché a livello di significato tali poesie non dicono nulla, sono da leggere come esercizi alla pari di quelli pittorici, volti alla ricerca ostinata di “un significante assoluto, all’assenza, al vuoto. In effetti la sesta strofa è un vero e proprio “buco” nel testo, perfettamente individuabile e perfettamente vuoto, infatti non c’è, ma la sua mancanza è ben definita ed assolve a precise funzioni strutturali. In termini lacaniani questo “buco” non può che essere un’ipotesi strutturale di significante per il significato assoluto ed inattingibile. E’ l’equivalente testuale di ciò che nella cosmogonia è il “caos vero”, cioè quel “buco” non leggibile dell’universo. E’ un significato (il Significato) privo di significante. A questo conduce la coerente applicazione testuale del famoso principio enunciato da Klee in apertura della Confessione creatrice: “L’arte non ripete il visibile, ma rende visibile”. Che cosa rende visibile? Non casualmente manca l’oggetto, e manca per la buona ragione che non c’è: si tratta di indicare, “rendere visibile”, un’assenza, l’Assenza assoluta (altrimenti si tratterebbe di un semplice, banalissimo e “realistico” spostamento)” (dall’introduzione di G. Manacorda a P. Klee, Poesie, ed. Guanda, 1978, p. 33). Nella pittura l’attenzione è sul meccanismo, non sul colore che lo ricopre: così anche in poesia non traspare nessun colore, nessun evento. A livello di significato vi è una fondamentale piattezza, solo continui giochi e rimandi a livello di significante. La funzione del codice o convenzione non è più, nel caso di Klee, quella di creare testi qualsiasi, ma creare testi che siano codici e modelli per altri testi. Di conseguenza il testo stesso, composto di codici, si fa codice, si realizza l’identità tra la parte ed il tutto, che diventa a sua volta parte di un tutto più esteso, in un’analisi che richiama per certi aspetti lo spirito tipicamente nipponico di veder riverberato l’intero cosmo nelle piccole cose. E’ da notare inoltre come il significato, che abbiamo appurato azzerato, non risulti, coerentemente quindi, nemmeno nei titoli, che di solito invece tendono a sintetizzare il significato appunto delle strofe che accompagnano. La parola Motto parla più della struttura schematica a scacchiera che gestisce le strofe piuttosto di rievocare qualche parola utilizzata nei versi; ugualmente sarà anche in pittura. Nel quadro Armonia della flora nordica la parola “armonia” rimanda al significante in quanto forma della composizione, al suo ordine metrico-cromatico, e la coppia “flora nordica” è vero che potrebbe trarre in inganno in tale studio in quanto sembra richiamare un referente figurativo, ma questo non è proprio presente, nel dipinto non c’è: ecco che allora, ancora una volta, il titolo parla di struttura, non di significato, a conferma del disinteresse di Klee per quest’ultimo. Se è vero perciò che quello che conta nell’arte concettuale “è il procedimento mentale che sta a monte dell’operazione” (da La linea analitica dell’arte moderna, F. Menna, 86
p. 6) penso si possa parlare, nel caso di Klee, di un artista che giunge ai limiti di tale corrente, capace di unire armoniosamente, nella loro struttura e procedimento, colori su di una tela così come note in un diario.
87
Fig. 3.30: vista interna di Villa Hyuga, realizzata nel 1936 da Bruno Taut nella località di Atami, in Giappone.
88
3.12 BRUNO TAUT: IL DUPLICE ANIMO
All’incirca un secolo e mezzo dopo Immanuel Kant, nel 1880, a Konigsberg (odierna Kaliningrad), nacque Bruno Taut. Conseguita la maturità, si diploma alla scuola professionale edile, la Baugewerkschule, e poco tempo dopo inizia a collaborare con lo studio berlinese di Bruno Moehring, uno dei più conosciuti esponenti dello Jugendstil tedesco, e successivamente con quello di Theodor Fischer a Stoccarda, periodo durante il quale aiutava il maestro in molte delle sue realizzazioni, acquisendo sempre maggiore dime-
stichezza e negli impianti strutturali architettonici e nelle decorazioni interne ed esterne, senza mai volersi dar troppa luce attraverso i concorsi, che giudicava una perdita di tempo in quanto mere esibizioni di vesti grafiche particolarmente accattivanti. Dopo cinque anni di apprendistato torna a Berlino dove apre uno studio assieme a Heinz Lassen, con il quale inizia la sua attività di progettazione architettonica a piccola e grande scala: Taut infatti, pochi anni dopo, sarà nominato consulente per l’urbanistica al comune di Berlino, dando vita ai progetti delle città giardino di Falkenburg e al complesso residenziale Reform a Magdeburgo, tra gli altri. Conosciuto ai più per la costruzione nel 1914, in occasione della Werkbund Exibition a Colonia di quell’anno, del cosiddetto Glasspavillon, o Padiglione di vetro (distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale) in onore alla personalità e agli scritti del poeta Paul Scheerbart, che in quegli anni sosteneva la cosiddetta architettura “espressionista”, fu colui che molto probabilmente, animato da uno spirito più eccentrico ed eclettico rispetto ad altri, unirà scritti ed opere costruite in quella che potrebbe essere concepita come una “traslitterazione”, da parte dello stesso Taut, dei motivi che più lo avevano colpito ed intrigato della cultura giapponese, in forme e progetti prodotti fortemente innovatori per l’Europa del tempo, senza mai finire per essere accostabile, in tutto e per tutto, alla corrente modernista con in testa i vari Loos, Le Corbusier e Mies van der Rohe. Quella di Taut è quindi, io ritengo, una personalità per niente valutabile all’interno di un filone - come nessuna dovrebbe mai del tutto essere, in realtà - bensì solamente, di volta in volta, relazionabile ed associabile a diverse teorie, ideali e spunti provenienti tutti da fonti anche profondamente differenziate tra loro. Così come furono le sue architetture, si potrebbe definire Taut considerandolo profondamente moderno e progressista nell’animo, pur senza mai mancare di fuggire dal monotono e dal ripetitivo nel corpo, come se non proprio tutto gli andasse a genio del Movimento Moderno e cercasse, di volta in volta, di spiegare, in primis a lui stesso, il perché provando a “degenerare” sempre in qualcosa, 89
dove questo qualcosa molto spesso sarà l’impianto compositivo o l’organizzazione degli esterni o ancora le colorazioni e fantasie delle facciate. E proprio questo vuol essere il nocciolo della questione. All’inizio degli anni ’30 il nostro si trova a Mosca, dove stava seguendo il cantiere di un albergo da lui progettato e dove, sempre in quegli anni, apre uno studio. Quando nel 1933 cerca di tornare in Germania, a Berlino, viene a conoscenza del fatto che il suo nome era stato intanto inserito in una lista di proscrizione: perciò fugge prima a Stoccarda, quindi in Svizzera e poi in Giappone, dove resterà fino al 1936 - guadagnandosi intanto da vivere collaborando con numerosi istituti d’arte - anno in cui poi deciderà di tornare più vicino all’Europa, ovvero in Turchia, dove trovò occupazione come ministro della Pubblica Istruzione. Fu attivo inoltre come architetto ed urbanista durante il periodo di Weimar poco prima della prematura morte, che lo colse nel 1938. Due furono i viaggi che, molto probabilmente, più influirono sul suo operato o, per meglio dire, furono per lui decisivi sia in campo architettonico sia in campo letterario (non dobbiamo dimenticarci infatti di come egli fosse costantemente attento ad appuntarsi
pensieri e teorie a cui, giorno per giorno, lasciava tempo per riflettere, portandolo questo ad essere autore di numerose pubblicazioni). Il primo, quello in Inghilterra, nel periodo subito successivo al suo apprendistato presso Fischer, intrapreso su consiglio dell’ormai anziano Hermann Muthesius, che gli consigliò tale destinazione per osservare le cosiddette new-town, o città-giardino, inglesi di nuova attuazione; il secondo, maggiormente forzato rispetto al primo ma, ai fini della trattazione, molto più interessante, ovvero quello che lo portò in Giappone negli anni dell’esilio dall’amata Berlino. Egli giunse nel Paese del Sol Levante nel maggio del 1933 e, a quanto si racconta, neanche due giorni dopo il suo arrivo fu invitato a visitare la Villa imperiale di Katsura: da qui in poi fu in gran parte suo il merito di aver portato all’attenzione dei modernisti del XX secolo questa meravigliosa architettura risalente all’inizio del Seicento. Più d’uno sono gli aspetti che Taut, studiando e scrivendo a proposito della Villa, in parte riconosce come potenzialmente interessanti per l’architettura occidentale in pieno rinnovamento. Sottolineerà poi però anche degli aspetti che saranno perlopiù scartati dalla corrente modernista/razionalista europea quando invece erano già propri dell’operato dell’architetto tedesco: nel suo caso difatti, non si può parlare di una vera e propria influenza del Giappone e della sua tradizione di usi e costumi. Taut, come si può notare stando attenti alle date, frequentò il Giappone qualche anno prima di morire, di conseguenza sarebbe improprio, in quanto anacronistico, porre dei paralleli ragionati di causa-effetto tra alcune sue opere degli anni ’10 e ciò che lui vide in siti come quello di Katsura o in generale nei tre anni giapponesi. Si può dire invece che Taut da buon moderno - abbastanza similmente a come penso avrebbe fatto Loos fosse riuscito ad esplorare quella magnifica terra - riscontra e ritrova in Giappone e nella sua architettura tradizionale la massima accentuazione degli aspetti che, proprio in quegli anni, tanti come lui cercavano di presentare al pubblico occidentale come radicalmente innovativi, ma perché di fatto poi lo erano. Egli non si ferma però a questo. 90
Torniamo ancora per un momento al complesso monumentale della Villa di Katsura. Quando Taut la visitò per la prima volta, appena giunto in Giappone, molto probabilmente sapeva poco o nulla di questa costruzione e in generale di questa cultura: si può supporre difatti che avesse visto qualcuna delle stampe circolanti nella Mitteleuropa del tempo; si può forse ipotizzare avesse letto qualcosa sull’arte nipponica nello studio del Bruno Moehring suo primo maestro che, da ottimo interprete dello Jugendstil qual era, può darsi avesse comperato da sé qualche pubblicazione in materia. Nulla di più è accertato. Eppure, egli sarà probabilmente l’unico a dedicare una così elevata attenzione a tutto ciò che poteva essere qualitativamente apprezzato nel complesso della Villa. Mi spiego meglio. Nei suoi diari, certamente lo si sentirà spesso affermare istanze del tipo: “Un’architettura pura e spoglia. Commovente, innocente come un bambino. Realizzazione di un desiderio moderno (…)” ma assieme, altrettante volte, cosa che lo distinguerà da quasi tutti gli altri autori che guarderanno all’architettura tradizionale con occhio ancora troppo “squadrato”, affermazioni come la seguente: “Se si considera Katsura come un tutto, si rimane colpiti dalla straordinaria armonizzazione ed integrazione di tutte le sue parti. E’ chiaro che, tanto le parti quanto il tutto sono stati impostati in modo da soddisfare a specifici intenti, e precisamente: 1) essere idonea a trascorrervi un genere di vita non molto lontano dalla normale vita quotidiana; 2) avere uno stile di vita di altissimo livello; 3) essere chiaramente informata di spirito filosofico. Bisogna riconoscere che queste tre intenzioni sono state stupendamente tessute insieme e unificate in una sorta di divina veste inconsunta. Un risultato veramente straordinario. (…) Impressionante da subito per la ricchezza di riferimenti. (…) Sentiero con quattro pietre aspre, respingenti (…). Lungo ponte di pietra sopra l’acqua, casa da tè soprelevata. Raffinata armonia. (…) Ricchezza totale nel procedere all’interno, aspetto sfarzoso delle sale, negli ambienti di soggiorno nessuno sfarzo. Raffinatissima differenziazione del godimento artistico. (…) Bellezza per l’occhio. A Katsura l’occhio è un elemento di mediazione tra pensiero e arte, o tra filosofia e realtà” (da L’Architecture d’Aujourd’hui, di B. Taut, Parigi, 1935). Da queste ultime affermazioni si appura che cosa? Che ci troviamo di fronte ad una delle poche eccezioni fra gli architetti di allora, alla mente che forse più lucidamente, tra gli architetti, al pari unicamente di Carlo Scarpa, intuisce non solo gli aspetti che andavano più “comodi” all’architettura del momento ma apprezza e fa suoi tutti gli infiniti aspetti delle composizioni architettoniche del Giappone: apprezza il dettaglio delle finiture così come l’edificio nella sua maestosa interezza, vede le connessioni tra l’ordine dato alle cose dentro-e-fuori il perimetro delle stanze, capisce l’importanza dello sfarzo di alcuni ambienti così come quella dell’austera nudità di altri. Capisce la complessità, non fermandosi al semplice, seppur mai banale, apprezzamento del labor limae di fondo che si concede la tradizione architettonica nipponica: egli capisce che la pura semplicità guardata con tanto entusiasmo dagli occidentali è sì una fondamentale parte costituente della cultura costruttiva locale, ma non costituisce da sola la sua interezza. E, così come 91
farà Scarpa, vedrà ed apprezzerà più di altri le asimmetrie, l’idea alla base del palazzo-e-giardino come unicum nella composizione, vedrà le necessità spirituali congiunte a quelle terrene nel miglior modo possibile, in un’espressione - quest’ultima - che vuole ragionatamente rimandare a quella ben più famosa di Viollet-le-Duc nel suo descrivere l’architettura gotica elevandola ad exemplum. Tale il Giappone sarà per Taut. Un mondo in cui qualsiasi elemento si armonizza con l’altro da sé, in un unione di stilemi (in quanto la costruzione stessa della Villa è incentrata sull’utilizzo delle due differenti maniere della tradizione giapponese, ovvero quella shoin, usata da secoli nei templi e nelle abitazioni più prestigiose, e quella sukiya, caratteristica delle case da tè e delle comuni abitazioni). Ed è proprio in tale ambiguità raffinatamente congiunta - notare anche qui, come abbiamo visto qualche capitolo in precedenza con Monet, come venga utilizzata la parola “raffinatezza” (e sue derivate) per intendere la naturale, spontanea e genuina bellezza di quest’architettura che spezza il fiato, davanti alla quale manca la parola - che stanno la vera ed intrinseca bellezza ed il fascino di queste costruzioni. Pur non raggiungendo, nel suo operato, gli apici di Scarpa, Bruno Taut è forse, tra gli architetti, il miglior osservatore e narratore di questa cultura e delle sue realizzazioni architettoniche. Se, come anticipavo già prima, sarebbe del tutto insensato tracciare delle linee di causa-effetto tra il suo operato e la visita al Giappone per motivi temporali, penso però si possa parlare chiaramente di una sorta di spirito gemello - il suo - nei confronti di una cultura alla quale forse era, senza saperlo, particolarmente vicino. Già nei suoi progetti di intere zone residenziali degli anni berlinesi si nota un’accentuata propensione verso gli aspetti extra-edilizi, ovvero un’attenzione alla forma e funzione del verde e dei suoi percorsi, il rapporto di apertura-chiusura tra il blocco progettato e l’intorno esistente, il colore ed i rivestimenti dei prospetti. Il suo unico progetto ancora esistente in terra nipponica, la cosiddetta Villa Hyuga ad Atami, cittadina nel Centro-Sud, fu sommersa da sfortunatissimi pareri sia dai giapponesi, che la consideravano “troppo occidentale”, sia dagli occidentali stessi che, viceversa, la consideravano “troppo orientale”. Questo a sottolineare ancor più ciò detto prima, in quanto, nell’unico esempio di cui possiamo veramente parlare senza cadere in alcun anacronismo, si può vedere quanto Taut avesse appreso la complessità - intesa come inscindibilità dei vari aspetti costituenti - dell’architettura nipponica e, ancora una volta in maniera completa e complessa, l’avesse cercata di unire, in un’opera questa sì che possiamo ritenere figlia dei due animi - quello occidentale congenito e quello orientale acquisito -, con le sue conoscenze derivanti dalla formazione e mestiere operati in Europa, arrivando ad un risultato il cui alto livello sarà apprezzato con qualche decennio di ritardo di troppo. In quanto l’interesse di quest’opera, così come di gran parte dell’operato di Taut, nel suo essere “espressionista” e “moderno”, “eccentrico” e “razionale”, “troppo occidentale” ed assieme “troppo orientale”, sta proprio nel suo animo duplice ed in se stesso contrapposto.
92
Fig. 3.31: dettaglio esterno della Gamble House costruita dai fratelli Greene nel 1907 a Pasadena, California.
93
Fig. 3.32: vista esterna della Gamble House.
94
3.13 CHARLES & HENRY GREENE: UNA CASA IN LEGNO A PASADENA
Al giorno d’oggi la cittadina californiana di Pasadena è conosciuta ai più soprattutto in quanto sede di una delle più grandi ed ambiziose sedi della N.A.S.A. e, forse, per l’enorme “Rose Bowl”, uno degli stadi più capienti al mondo. Difficilmente si sarebbe portati a pensare all’accostamento tra questa località e l’argomento trattato, anche se un collegamento c’è. E’ proprio qui che, difatti, i fratelli architetti Greene, pur non passando come altri alla storia, costruirono una delle abitazioni più iconiche ed interessanti dei
primi anni del Novecento, la cosiddetta Gamble House, intorno al 1907. Ma una breve introduzione è forse d’obbligo per presentare queste due personalità molto poco conosciute, anche se estremamente interessanti ai fini della trattazione da me intrapresa. Figli di un medico dell’Ohio - dal quale, fin dalla prima giovinezza, i due impararono l’importanza della luce solare e della circolazione dell’aria all’interno delle stanze per la preservazione della salubrità dell’abitazione - Charles e Henry intrapresero dapprima gli studi presso la Scuola Artigiana di Formazione Professionale dell’Università di Washington, dove apprendono le tecniche di lavorazione del legno e del metallo; quindi proseguirono la loro avventura accademica - tra l’altro mai pienamente apprezzata soprattutto da Henry - alla Scuola di Architettura dell’Istituto di Tecnologia del Massachussets, dove conobbero gli stili classici e tradizionali ed ottennero il certificato per poter collaborare con gli studi professionali privati di architettura. Nel frattempo i genitori si erano trasferiti a Pasadena, appunto, dove i due figli decisero di raggiungerli terminati gli studi, nel 1893: il viaggio intrapreso verso Pasadena si rivelò fondamentale per loro in quanto, durante questo, passarono per Chicago, dove videro e conobbero per la prima volta le architetture tradizionali giapponesi esposte alla World’s Columbian Exibition proprio di quell’anno, dove, come abbiamo visto in precedenza, anche Wright spese qualche giornata. Non ci volle molto ai due fratelli per capire quanto l’architettura nipponica, nella sua integrazione con l’ambiente circostante e nelle forme e nei materiali adoperati, potesse essere presa come spunto per il futuro operato in California, regione che, tra le altre cose, godeva di un clima molto simile a quello del Sol Levante, in quanto due luoghi geografici, questi, posti all’incirca sullo stesso parallelo. Colpì loro poi anche l’incredibile maestria degli architetti ed artigiani giapponesi nell’utilizzo del legno, lavorato e non. Ed allora, fu esattamente un anno dopo, nel 1894, a Pasadena, che i due iniziarono assieme l’attività di architetti, aprendo uno studio con la firma Greene&Greene, che perdurò fino al 1922, anno in cui decisero di intraprendere differenti binari: i due fratelli diventa95
rono ben presto i massimi esponenti di quello che può essere considerato il trasposto americano del movimento inglese delle Arts&Crafts di William Morris. “L’attività dei due architetti culminò tra il 1903-1909 con la costruzione dei cosiddetti bungalows, ossia villette con struttura lignea nelle quali svilupparono un personale linguaggio architettonico adatto allo stile di vita e al clima della California del sud. Tra i boschetti di agrumi e le colline della San Gabriel Valley i Greene conquistarono la loro notorietà cambiando l’aspetto di strade, quartieri ed intere comunità” (da Architettura giapponese e architetti occidentali, A. Alabiso, p. 138). Ora, vorrei porre sotto i riflettori una ed una sola delle opere di questi due architetti, che per il sottoscritto - così come per lo storico Kevin Nute - riflette uno dei tentativi più prossimi alla fedele imitazione - intesa questa come copiatura ragionata - dell’architettura giapponese in ambito occidentale, ovvero la Gamble House costruita, come detto prima, tra il 1907 ed il 1908, in appena dieci mesi di cantiere. Interamente in legno - date anche le conoscenze acquisite nel periodo degli studi dai due - richiama sia nella struttu-
ra che nei decori, essi stessi vere e proprie opere com’era d’altronde nelle intenzioni del movimento Arts&Crafts, i motivi alla base dell’architettura tradizionale nipponica. L’elenco dei principali rimandi potrebbe iniziare, ad esempio, dalle falde dei tetti lignei, particolarmente ampi ed aggettanti, oltre che numerosi e sovrapposti l’uno all’altro, richiamando lo stile irimoya dei templi giapponesi. “Nella Gamble House il tetto largo e sporgente protegge la struttura dal sole, mentre le pesanti travi di sostegno sono tagliate in modo da poter sopportare le intemperie, ma hanno anche una funzione estetica. Modellate da abili artigiani sono assemblate per mezzo di perni e pioli, sistemi di incastro ed elementi in ferro battuto” (ibidem, p. 140). I due sono stati eccelsi nell’operare anche sul piano funzionale, oltre che dei rimandi estetico-artistici: hanno capito alla perfezione le tecniche di raffrescamento e ventilazione delle case giapponesi e le hanno applicate anche in questa abitazione dove una struttura portante completamente lignea assieme ai rivestimenti parietali funge da isolamento naturale, coadiuvata allo stesso tempo da numerosi accorgimenti atti soprattutto a smorzare il caldo dell’estate californiana: un banale esempio sono le finestre, nelle più grandi delle quali i vetri sono colorati - con perizia sopraffina - proprio per rendere più opachi tali punti d’ingresso della luce. La stessa porta d’entrata - sui vetri della quale è raffigurata una quercia di cui non si sa il reale riferimento, in quanto potrebbe sia rimandare alla vegetazione circostante sia all’albero tanto caro ai pittori giapponesi - richiama, nel suo essere tripartita, i paraventi giapponesi byobu: le due parti laterali di questa fungono esclusivamente da pannelli che permettono il ricambio dell’aria. Altri elementi facilmente ravvisabili derivati della tradizione nipponica all’interno della Gamble House sono i pilastri lignei a vista che sorreggono l’intera costruzione, così come l’utilizzo dei binati o doppi sostegni accostati. Moltissima importanza, come ho già accennato, riveste poi il rapporto tra la casa e l’ambiente naturale circostante: a sottolineare ciò le spaziose verande - che richiamano, nel loro frapporsi tra pieno e vuoto, 96
l’engawa della tradizione giapponese, ovvero la zona all’aperto coperta dalle sporgenti falde della casa, che si comporta da filtro - che quasi circondano la casa, dando l’impressione, anche questa di rimando estremo-orientale, dell’assenza di un prospetto ed ingresso principale, o meglio, di una casa che si rivolge a trecentosessanta gradi verso l’esterno (in quanto una sottolineatura gerarchica dell’ingresso in realtà c’è, attraverso le decorazioni e la tripartizione a mo’ di portale di questo vista prima). Un ultimo dettaglio giapponese degno di nota è l’incrociarsi delle travature presso gli spigoli d’intersezione delle gronde. Una casa costruita quindi, dai due fratelli, in maniera tale da unire gli aspetti tecnici, nonché artistici, della cultura giapponese e della sua architettura in un ambiente altro, quello californiano, che però ne richiama la situazione climatica, rendendo del tutto riutilizzabili alcuni accorgimenti propri delle costruzioni in legno del Sol Levante. D’altronde la breve descrizione appena presentata di tale opera potrebbe essere perlopiù scambiata con le parole che Edward Morse - che molto probabilmente i nostri conoscevano, in quanto tra i principali autori della primissima fase di esportazione della cultura estremo-orientale in Occidente - dedica in numerosi libri alle costruzioni della tradizione giapponese, che sembrano veramente poter prendere il posto di tutte le descrizioni possibili di quest’operato dei fratelli Greene. A dimostrazione del fatto, cardine del discorso, di un generoso affondare, da parte dei due architetti, nel vaso della cultura architettonica giapponese, fonte di ispirazione senza la quale, quasi certamente, un’opera come la Gamble House non avrebbe visto la luce. Lascerò quindi ora spazio alla narrazione di Morse. “Quando si entra in una casa giapponese sono visibili dappertutto elementi strutturali scoperti, pilastri, sostegni, traverse, tutto in legno massiccio. (…) Il soffitto di assi, le travi poste negli angoli e al centro delle pareti e i raccordi trasversali, sono tutti completamente a vista. (…) Nelle case giapponesi spesso l’ingresso è un tutt’uno con il soggiorno e, poiché si può accedere alla casa da due o tre lati, l’ingresso può essere dappertutto. La parte posteriore della casa è sempre completamente apribile, in modo che tutte le stanze si affaccino sul giardino. (…) Lo spazio fra l’architrave, kamoi, e il soffitto è detto ranma e fornisce ai giapponesi altro terreno su cui dar prova di quel talento per la decorazione che in loro è così naturale. (…) Quanto al valore decorativo, dopo il chigaidana” termine quest’ultimo che designa una nicchia con alcune mensole posizionate a-simmetricamente, solitamente posta vicina al tokonoma, l’alcova o luogo centrale della casa, paragonabile per ruolo a quello che fu nel nostro mondo il caminetto, in quanto nicchia che racchiude, solitamente, una composizione floreale secondo le regole dell’ikebana, oppure un kakemono o un makemono, pergamene dipinte rispettivamente in verticale ed orizzontale: il tutto sulla base della percezione estetica del proprietario dell’abitazione - ritengo che il ranma sia l’elemento più curato dal progettista e lavorato con più finezza dall’ebanista. (…) Questo spazio generalmente è suddiviso in due o più pannelli e sulle loro superfici progettista e carpentiere trovano ampio spazio per realizzare quelle 97
affascinanti meraviglie che compaiono negli interni giapponesi. I motivi decorativi sono ovviamente innumerevoli. (…) I pannelli in legno traforato vengono adoperati molto spesso nella decorazione del ranma. (…) L’opera deve apparire leggera ed ariosa, ma deve essere molto resistente. (…) Va da sé che gli interstizi tra i motivi decorativi, esclusi quelli a traforo, sono sempre del tutto aperti sulla stanza accanto. Attraverso queste aperture del ranma viene garantita un’ottima aereazione delle stanze quando il fusuma” - i famosi pannelli scorrevoli - “è chiuso. (…) Nicchie e rientranze si trovano nella stanza principale in cui si ricevono gli ospiti. Queste nicchie hanno una profondità che varia da due a tre piedi o più, a seconda delle dimensioni della stanza, e sono quasi sempre nella parete che fa angolo con la veranda. (…) In Giappone quasi tutte le case sono provviste di una veranda, riparata da gronde molto aggettanti o da una leggera tettoia supplementare che sporge al di sotto delle gronde. (…) Le pareti esterne della casa giapponese sono composte da assi lunghe e sottili, allineate in verticale, e da listelli di legno che coprono le sconnessure. (…) La casa giapponese è così aperta che si è dovuto rifornirla di una
quantità di paraventi mobili, di schermi di bambù, di tramezzi. Elementi a cui è stata dedicata molta inventiva e una dose infinita di talento artistico. (…) i byobu, o paraventi pieghevoli, sono composti da diversi pannelli o pieghe: ogni piega o pannello può contenere un dipinto diverso oppure una composizione ininterrotta (…) i paraventi possono avere due, tre, o perfino sei pieghe. I fusuma, che costituiscono gli elementi mobili tra le stanze, hanno entrambe le superfici rivestite di carta robusta (…) spesso sontuosamente decorata. (…) Qualche volta una scena si snoda ininterrottamente lunga tutta la parete di una stanza come una veduta panoramica. Di solito i fusuma delle case normali hanno decorazioni che possono essere di un’infinità di tipi come paesaggi o rami fioriti” (da La casa giapponese, E. Morse, pp. 28, 74, 116, 123 169-170).
98
Fig. 3.33: vista esterna dell’ingresso alla Crown Hall di Mies van der Rohe, costruita nel 1958 a Chicago, Illinois.
99
3.14 LUDWIG MIES VAN DER ROHE: UN UNICO CONVOLVOLO
“Nel XVI secolo il convolvolo era ancora una pianta rara, da noi. Rikyu” - che fu uno dei più famosi maestri del tè della tradizione zen - “aveva un intero giardino di convolvoli, che curava assiduamente. La loro fama giunse agli orecchi del taiko (regnante), che espresse il desiderio di vederli. Rikyu lo invitò dunque a casa propria per un tè mattutino. Nel giorno stabilito il taiko attraversò il giardino, ma non vide traccia di convolvoli. Il terreno era stato spianato e cosparso di ciottoli e sabbia. Livido di rabbia, il tiranno entrò
nella stanza del tè, ma la visione che lo attendeva gli restituì la serenità. Nel tokonoma” - alcova centrale nella stanza da tè - “in un prezioso vaso di bronzo di lavorazione Sung, c’era un unico convolvolo - il re di tutto il giardino!” (da Lo zen e la cerimonia del tè, K. Okakura, p. 75). Ebbene sì, forse tutti noi siamo taiko quando visitiamo un’opera di Mies van der Rohe. E non lo siamo più di tanto per scelta nostra. Più di ogni altro architetto infatti egli ha appreso, e trasposto in materia architettonica, la parte maggiormente apprezzata dagli occidentali dei capisaldi della tradizione estetica giapponese. Come abbiamo visto con Bruno Taut, sappiamo essere la cultura architettonica - in ripresa di quella estetica - del Sol Levante particolarmente incentrata su due aspetti fondamentali, ovvero la semplicità e purezza delle strutture e degli arredi unita ai meravigliosi e sopraffini decori degli shoji e dei paraventi, così come di molti tetti dei templi. Di conseguenza, sminuire il portato di questo paese nei confronti della cultura occidentale alla “sola” introduzione di accorgimenti atti alla semplificazione verso il minimo essenziale all’interno dell’abitazione sarebbe alquanto errato, anche se, c’è da dirlo, questo aspetto fu quello maggiormente compreso, studiato ed apprezzato soprattutto dagli architetti di area germanica, da Gropius a Van der Rohe, appunto. Il riferimento iniziale ad una sorta di leggenda, narrata all’interno della tradizione del buddhismo zen e, come moltissime altre di questo tipo di narrazioni, dal retrogusto paradossale, ritengo sia fondamentale per aprire il discorso su Mies. Ora, l’attenzione non deve essere tanto sul quale narrazione o sorta di mito si possa associare al meglio alla trattazione dell’architetto nato ad Aquisgrana - anche perché molte di queste storie si assomigliano negli insegnamenti impartiti e nella loro sorta di morale conclusiva - bensì sul come queste vicende appunto quasi paradossali riescano ad essere il riflesso più cristallino dell’intera teoria del nostro, della quale un motto fa 100
da sintesi più che appropriata, benché sia stato più e più volte frainteso e banalizzato. Sto parlando ovviamente del famosissimo Less is more, che oramai regna sovrano in qualsiasi trattazione dell’architettura moderna. Penso saldamente però che tale motto come mi pare doveroso chiamarlo - non possa essere ridotto alla sua banale accezione economicistica e funzionalistica, secondo la quale quel Less consisterebbe in una mera riduzione dei costi della costruzione accompagnata da un elevato funzionalismo della struttura. O meglio, se tale lettura può essere comunque interessante, suppongo però che sia alquanto scontata: non direbbe nulla di nuovo rispetto al, molto più antico, De Architectura vitruviano che già sottolineava quella che, da parte del progettista, doveva e dovrebbe sempre essere un’oculata parsimonia nella scelta delle spese da effettuare per la costruzione (aggiungo che, per sottolineare la formidabile attualità di questo testo forse troppo poco preso in considerazione, ancora Vitruvio potrebbe essere chiamato in causa per spiegare al meglio un altro famosissimo motto moderno come il form follows function pronunciato da Louis Sullivan circa un secolo e mezzo fa, e non da qualche
membro del Bauhaus come spesso si è portati a credere. Ancora una volta, anche qui, non si dice molto più di quello che Vitruvio, ben più di un secolo e mezzo prima aveva già splendidamente esternato, ovvero di come una qualsiasi architettura dovesse possedere, oltre a quello della firmitas, i requisiti di utilitas e venustas, senza che nessuno dei due - quelli che ci interessano nel paragone sono quest’ultimi - avesse una posizione prevaricante rispetto all’altro. Lo stesso Louis Sullivan, infatti, terrà ben presente tale motto nella giusta accezione con la quale andrebbe sempre tenuto a mente, che non prevede quindi una sua lettura nei termini di una deriva funzionalistica della cosa, bensì della comprensione di come form and function siano i due binari paralleli sul quale deve sedere e viaggiare il vagone dell’architettura. Quel follow possiede quindi una semantica orizzontale, non verticale). Ora, dopo aver sottolineato questi due aspetti che, dal mio punto di vista, sono da tenere in perenne considerazione soprattutto nello studio dell’architettura dell’ultimo secolo, torniamo alla questione di Mies e del suo motto, superando la sempre utile ma piuttosto banale considerazione a riguardo, appena accennata. Consci o meno, Mies dicendo Less is more, richiama ed evoca a sé un’intera tradizione estetica, ovvero quella estremo-orientale, che vorrebbe essere forse spiegata in più di qualche punto. La concezione alla base di questa “sentenza breve” - tipicamente buddhista nel suo essere sinteticamente generale - è quella racchiusa nel termine Ha, che in giapponese significa distruzione: ovviamente, come sempre accade nella tradizione di pensiero e quindi linguistica nipponica, un termine difficilmente svela un unico aspetto della realtà. In un Paese del Sol Levante permeato di pensiero di matrice buddhista infatti, ogni parola ed ogni concetto - termine quest’ultimo che è in realtà improprio, troppo occidentale nel suo richiamare la distinzione tipicamente nostra di una natura delle cose teorica contrapposta ad una di ambito pratico - rievoca a sé anche il suo opposto: è così che la distruzione è sempre anche creazione, la rottura è sempre nuova nascita. Un approccio, questo, basato sulla convinzione di una creatività che diventa 101
possibile solo distruggendo i concetti esistenti che, già di per sé esistendo prima dell’atto, sono pre-concetti. Mies capisce quindi la potenza che possiede l’atto distruttivo, al pari di quello creativo. E attenzione, l’operato dell’architetto tedesco non è affatto di perciò definibile come diabolico - in quanto distruttivo, in un’accezione dei due termini in chiave religiosa, ogni tanto tentata ma già lessicalmente errata - in quanto non separa (dal greco diabolein, ovvero “separare”) bensì egli è maestro nel fare architettura tenendo assieme le parti, che, questa volta sì, si fanno numericamente inferiori nel progetto. Non si può quindi interpretare in chiave, per così dire, esoterico/religiosa Mies come colui che si contrappone fastidiosamente, da moderno, alla creazione architettonica attraverso una malvagia distruzione, ovvero come colui che si contrappone alla tradizione dell’architetto creatore - e quindi divino - proprio per la fondamentale questione che divino non è colui che crea, bensì colui che religa, cioè tiene uniti i vari aspetti delle cose, fa convivere. E questo lui lo farà al pari di molti suoi illustri antecedenti. Architettura è, da Mies in poi per tutti, distruzione-e-creazione assieme.
Per un secondo punto di approfondimento sulla vera natura del motto espressione sintetica del pensiero di Mies van der Rohe, rileggiamo per un attimo la citazione iniziale, richiamandole assieme un’altra famosa frase del nostro, ovvero God is in the detail, dove per Dio mi sembra qui doveroso intendere il tutto della cosa, al singolare per sottolineare non il richiamo all’indefinita totalità delle cose, bensì il senso primo dell’architettura costruita di cui quel dettaglio fa parte. Anche e soprattutto in questo caso ci si può rifare, nella spiegazione, ad un’altra parola giapponese, Bi, che sta ad indicare proprio la totalità nei dettagli. Nel suo pensiero, che Mies riprende chiaramente dalle dottrine estremo-orientali, sono proprio i dettagli ad abbracciare l’intero e non viceversa. In termini di spazio quindi, è il dettaglio architettonico che incorpora il tutto. Come poche altre infatti penso che le architetture di Mies siano riconoscibili proprio anche attraverso fotografie di dettaglio, senza una presentazione precedente del tutto esteriore dell’edificio: quello che può sembrare un banale gioco di memoria ed associazioni ritengo sia invece un metodo valido per far capire quanto ogni parte, ogni minimo dettaglio degli edifici progettati dal nostro sia in armonia con il tutto che lo ospita, che a sua volta non ricade nell’essere una mera somma di parti ma la raffinata sintesi della totalità di queste. Mi azzardo a dire che penso sia più “difficile” sostituire, nella forma e nei materiali, un pilotis cruciforme di Mies piuttosto che uno degli snelli cilindri utilizzati molte volte da Le Corbusier, quasi il primo non potesse essere fatto altrimenti che così, nel suo riflettere - non solo letteralmente stavolta, ma anche matericamente - il tutto di cui fa parte. Vi è poi, in ultima analisi, forse un terzo aspetto da tenere in considerazione nella spiegazione ragionata delle costituenti fondamentali del pensiero di Mies. Anche qui un termine di riferimento, ovvero Fu, che sta a significare una semplificazione che porta ad un arricchimento (ovviamente è da tener presente come il termine “semplificazione” non sia equivalente a quello di “banalizzazione”). Less is more rimanda infatti ad uno svuotar-si dello spazio: Mies cerca però di comunicarci come questo svuotamento non sia 102
affatto debilitante, in primis in quanto distruttivo - che è cosa meritevole di attenzioni per i motivi visti prima - ed in secondo luogo in quanto, appunto, recante spazio al vuoto, che, come ci insegna proprio la tradizione filosofica giapponese, tanto cara al nostro, non è necessariamente da intendersi come nulla, ovvero assenza di tutto, bensì come qualcosa che lasci intravedere, nel suo non-esserci, i semi di una futura presenza, di una futura diversità ed alterità. E’, come abbiamo visto in Loos, uno s-vuotamento per un qualcosa, per una qualche futura azione o presenza, attività. Ed è proprio questa vuota preparazione per una futura presenza che permette al nulla, orientalmente inteso, di possedere un carattere positivo, anziché negativo come tendiamo a concepirlo nella maniera di pensiero occidentale, a partire da Parmenide stesso. Ovviamente, per Mies van der Rohe, è fondamentale conoscere i materiali e le tecniche costruttive al meglio per poter poi manipolare in tutti i suoi aspetti - e quindi dettagli - il progetto architettonico: “(…) Guidiamo gli studenti sulla via della disciplina partendo dal materiale, passando per la funzione, per arrivare all’opera creativa! Guidiamoli dentro il sano mondo dei metodi costruttivi primitivi, dove c’era un significato in ogni colpo d’ascia, una espressione in ogni solco di scalpello (…)” (da Mies van der Rohe, P. C. Johnson, 1953, p. 197). Ed è proprio questa modalità di apprendimento che trasmise, continuando purtroppo per molto poco l’operato del grande Walter Gropius - i due si conobbero alle dipendenze di Peter Behrens -, ai suoi studenti della Bauhaus, ed è forse proprio questo aspetto quello che più manca, ancor oggi, nell’insegnamento di tale dottrina. Partendo dalla conoscenza magistrale delle tecniche del produrre architettura, Mies ha fatto in modo di poter controllare al meglio le sue opere, fino, appunto, al minimo dettaglio. Ed è così che, sentendone parlare e studiandolo, siamo invogliati ogni volta a visitarne le architetture, ad andare ad ammirare il suo bellissimo “giardino di convolvoli”. E perennemente, prima di entrare, rimaniamo spiazzati, quasi furibondi per tale vuotezza, per poi allietarci quando, in uno spazio eccezionalmente controllato e ridotto all’essenziale, egli ce ne presenta ogni volta solo e solamente uno: “il re di tutto il giardino!”.
103
“Fotografai per la prima volta Katsura più di trent’anni fa, nel 1953, circa un anno dopo il mio ritorno in Giappone dagli Stati Uniti (…). A quell’epoca non sapevo nulla o quasi della Villa. Perciò arrivai senza la minima conoscenza o preparazione, entrai e scorsi gli shoin. Fui immediatamente conquistato dalla delicata, squisita bellezza dei teneri e vasti prati, dai folti muschi verdi e, ovviamente, dal complesso degli shoin. Quel che mi colpì (…) fu la strana sensazione di leggerezza di quest’architettura che sembrava fluttuare nell’aria. (…) Quando l’impressione iniziale cominciò a decantarsi, vennero delineandosi sempre più nitidamente i motivi e le forme creati dagli shoji, dalle pareti bianche scandite da colonne, architravi, balaustre e dalle superfici leggermente nerastre della veranda. Quale sorpresa quando cominciai a ravvisare nelle linee e nelle forme degli shoin i piani motivi strutturali che avevo visto ogni giorno intorno a me a Chicago. (…) Ma a questo punto, che fare delle ambigue curve dei tetti e di certi particolari del decoro interno e dell’elaborata costruzione delle scansie? Mi sembrava che questi particolari sciupassero quasi l’ideazione modernista, e per questo motivo cercai di scartarli. Devo confessare che non fu per niente facile tenere fuori questi elementi dalle mie fotografie (…). Quando, nel 1975, ebbi il privilegio di fotografare il Mandala dei due regni nel tempio Toji a Kyoto, quest’opera mi sconvolse così profondamente da rappresentare per me una rivelazione (…). I fenomeni che si suppongono separati o contraddittori (massimo e minimo, positivo e negativo, vita e morte, fisico e spirito) sono in realtà interdipendenti e reciproci (…). In questo io vidi la verità dell’universo. Mi si chiarì che la bellezza che avevo inseguito per tutta la vita era quel che chiamai “bellezza sottratta”. Avevo sempre voluto strappar via gli eccessi, i tratti superflui, per estrarre soltanto l’essenza, soltanto le forme giuste. Ma che cos’era questa rigida correttezza se non ristrettezza mentale? Aggiungere o togliere cose non faceva differenza alcuna; se una casa era bella, continuava ad essere bella, e come tale andava accolta. Per la prima volta cominciai a nutrire dei seri dubbi sul modernismo. I modernisti non avevano forse cercato di rendere eccessivamente ordinato il mondo e i suoi abitanti? (…) Nel 1982 tornai a fotografare Katsura, dopo che erano stati completati i lavori di restauro e ricostruzione. Ebbi, questa volta, una più intensa percezione della bellezza della villa. Era chiaro, adesso, quanto fossero appropriate, nel descrivere queste straordinarie architetture, la raffinata combinazione di sobrietà e ornamentazione, raffinatezza e rusticità del primo periodo Edo. Questa volta andai oltre il gioco delle linee e degli spazi, addentrandomi nei dettagli delle forme e dei colori. La decorazione, ed anche la costruzione, mi rivelarono una ricchezza di aspetti così grande da superare ogni mia aspettativa. L’ingegno, l’abilità tecnica che si manifestava in ogni parte di un singolo spazio, la purezza e la dignità, la luminosità e l’elettrizzante leggerezza dell’insieme mi riempirono d’inesprimibile meraviglia. (…) Questa volta è stato naturale per me fotografare anche i tetti e le scaffalature della Villa (…) per non escludere nessun elemento e per trovare inquadrature che rilevassero le miriadi di sfaccettature di Katsura (…)”. (parole del fotografo Yasuhiro Ishimoto (1921-2012), da La villa imperiale di Katsura. L’ambiguità dello spazio, di A. Isozaki, 1987) 104
Fig. 3.34: una delle foto all’interno della Villa di Katsura della prima raccolta di Yasuhiro Ishimoto, 1953.
105
Fig. 3.35: Carlo Scarpa, disegni di studio per l’arcosolio del complesso di Tomba Brion a S. Vito d’Altivole, 1970 circa.
106
3.15 CARLO SCARPA: PENSARE (ANCHE) CON LE MANI
“Sen no Rikyu, un maestro di rituale del tè, voleva appendere un cestino di fiori su una colonna. Chiese a un falegname di aiutarlo, e lo guidò nel lavoro dicendogli di spostare il cestino un po’ più su o un po’ più giù, più a destra o più a sinistra, finché non ebbe trovato il punto giusto. “Così va bene” disse finalmente Sen no Rikyu. Il falegname, per mettere alla prova il maestro, segnò il punto e poi fece finta di averlo dimenticato. “Era quello il punto giusto? Forse era qui? o qui?” continuava a domandare il falegname, indicando diversi punti della colonna. Ma il maestro di rituale del tè aveva un così perfetto senso delle proporzioni che approvò soltanto quando il falegname tornò ad indicare esattamente il punto scelto prima” (da 101 Storie zen, 48. Proporzione perfetta, di N. Senzaki e P. Reps (a cura di), p. 61).
Studiare l’opera di Carlo Scarpa è complesso. E lo è per due fondamentali motivi: il primo di questi sta nell’incredibile ammontare di materiale grafico prodotto - sono oltre ventimila i disegni conservati presso l’archivio omonimo di Treviso, senza tener conto delle centinaia, se non migliaia, di tavole e bozze preparatorie proprietà ora di artigiani, collaboratori, committenti così come di varie istituzioni pubbliche e private - che, come vedremo, ritengo possa essere considerato alla stregua di un suo saggio sul metodo progettuale, ancor più forse che un’autobiografia artistica; il secondo motivo della complessità di tale questione sta proprio nella complessità stessa delle soluzioni, delle forme e delle geometrie, oltre che dei dettagli costruttivi, da lui ingegnati nelle varie opere, queste ultime veri e propri gioielli nel panorama architettonico del XX secolo. Ora, con ciò anticipato, mi sembra evidente, molto similmente a quanto detto per Frank Lloyd Wright, quanto possa essere ardua, e a parer mio insensata, la trattazione di anche una sola delle sue opere, nella sua integrità, in poche righe. Vorrei perciò limitarmi ad analizzare e, in parte, cercare di interpretare il suo processo progettuale, soprattutto in quanto proprio in questo si rivelano i numerosissimi rimandi con il mondo e l’architettura giapponese. E vorrei farlo cercando di tracciare una linea di discorso che sia di unione tra i due motivi di complessità appena enunciati. Come ho accennato poco fa, la quantità dei disegni di mano scarpiana è elevatissima, una di quelle cifre quasi difficile da quantificare mentre ce la si propone mentalmente, tutta frutto di oltre cinquant’anni di operato, a partire dal 1926, anno in cui termina la formazione presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia, sua città natale che tornerà più 107
volte, insieme al Giappone, come “musa ispiratrice” del suo operato, fino al 1978, anno in cui morì mentre si trovava a Sendai, in Giappone per l’appunto. E proprio tale corpus di opere grafiche penso possa essere considerato un vero e proprio saggio sul metodo - suo proprio di Scarpa - del fare architettura, un’interpretazione alla sua maniera della dottrina. E’ in particolar modo, questo corpus, una testimonianza di quella che per lui era la normale genesi, o meglio morfo-genesi, progettuale: in breve, in questi disegni, che lo stesso Manfredo Tafuri definì come “tra i più autonomamente significativi nella storia dell’architettura contemporanea italiana”, si può arrivare a riconoscere, passo dopo passo, lo sviluppo del progetto, dagli albori fino agli esecutivi. Ed è proprio per questo motivo che sono così numerosi. Lo stesso Scarpa dirà: “Voglio vedere le cose, non mi fido che di questo. Voglio vedere, e per questo disegno. Posso vedere un’immagine solo se la disegno” (da Carlo Scarpa e Edoardo Gellner. La chiesa di Corte di Cadore, di E. Gellner e F. Manuso, Electa, Milano, 2000, p. 38). Di fatto, più che una ristrettezza di immaginazione, questo procedimento è necessario al nostro per vedere, direi quasi sentire con la mano, lo spazio (e difatti la tecnica da lui maggiormente utilizzata nella rappresentazione sarà la prospettiva, che più di ogni altra modalità di rappresentazione consente di raffigurare lo spazio, appunto, tra le cose. Prospettiva la sua, tra le altre cose, sempre impostata all’altezza dell’occhio umano, a sottolineare la ricerca della sensazione spaziale che una determinata scelta progettuale avrebbe creato). La sua è una vera e propria necessità fisica: qualsiasi cosa immaginata o pensata teoricamente doveva avere il suo trasposto fisico, doveva essere disegnata, passare insomma al vaglio della mano, attraversare fisicamente lo spazio per poter essere intesa, e quindi costruita, se accettata come possibile soluzione finale. Per Scarpa concepire un’architettura senza disegnare era di fatto impossibile: la teoria del e nel pensiero non poteva essere scissa in alcun modo dall’atto pratico della realizzazione, frutto ovviamente quest’ultimo di un pensiero generante. Ed è questo il cuore della questione: quei disegni sono incredibilmente importanti in quanto proprio da lì si capisce come tali pensieri generanti primi siano gerarchicamente e temporalmente sullo stesso piano rispetto all’atto fisico del disegnare, e quindi per nulla primi, ma successivi ad un flusso continuo di pensiero-e-disegno, di teorico-e-pratico, mente-e-mano. Egli, disegnando, pensa quello che poi ridisegnerà, su cui poi ripenserà, e così via, in un processo alquanto duale, che necessita senza mezzi termini dell’una e dell’altra parte, sempre. E le numerosissime scritte alla sommità o a fianco dei disegni non sono altro che le varie illuminazioni - o satori, per dirla in termini giapponesi - che, una dopo l’altra, sopraggiungono al nostro durante la concentrazione di quei momenti: sono commenti che lui stesso fa del suo operato proprio in virtù del fatto che egli, quando parte a disegnare, non sa ancora del tutto cosa gli riuscirà fuori, e di conseguenza corregge il tiro ogniqualvolta nota delle sbavature, così come degli inceppi a livello tecnologico o costruttivo. A confermare questa natura imprevedibile e illuminata del suo fare progettuale, una dichiarazione che fece egli stesso, che riprendo da un articolo in merito alla questione: “Per progettare, l’architetto ha necessità di trovare 108
uno spunto di partenza, un tema che dia avvio al processo creativo. Di questa dinamica, retaggio forse della sua formazione accademica, danno testimonianza numerosi episodi. Ad esempio, convocato in extremis con Corrado Ricci e Bruno Munari per l’allestimento del padiglione italiano all’Expo di Montreal del 1967 e sollecitato a dare una risposta in tempi brevissimi, egli dichiara: “non lo so, forse domani mi viene un’idea, forse tra un anno, forse mai”” (da Carlo Scarpa e il disegno, articolo di O. Lanzarini in bibliografia, p. 6). Ed egli farà questo anche nelle occasioni, numerose e stupendamente risolte, in cui sarà chiamato a progettare degli allestimenti per delle opere d’arte, dai dipinti di Klee alla Biennale del 1948 fino alle sculture del museo di Castelvecchio: Scarpa voleva fin da subito entrare in stretto contatto con le opere d’arte, e per farlo le ridisegnava, più e più volte, rendendone il profilo di massima o replicandole in dettaglio a margine degli schizzi di progetto o addirittura, nel migliore dei casi, inserendole direttamente nell’ambiente per loro pensato e disegnato, quasi a tracciare delle direttrici nello spazio architettonico che partissero dalle opere stesse, la cui geometria interna voleva sempre cercare di afferrare, di carpire appieno. “Se c’è una differenza tra le realizzazioni di Scarpa e quelle di Franco Albini è che quelle di Albini le puoi guardare con le mani in tasca, sei sempre affascinato da questo altissimo dominio della ragione, dall’esprit de geometrie; in Scarpa invece senti qualcosa di più, devi andare a toccare qualcosa che diventa tuo” (dall’intervista ad Arrigo Rudi, in Giordano S., Il mestiere di Carlo Scarpa. Collaboratori, artigiani, committenti, tesi di laurea dell’a.a. 1983-84, relatori F. Dal Co, G. Mazzariol, I.U.A.V. di Venezia, p. 49). Si potrebbe quindi dire che Scarpa, nel suo processo di genesi progettuale, sia in preda alla mente così come alla mano, due elementi che, equamente, si spartiscono la maternità dell’opera, quasi due poli opposti di inventiva ed applicabilità tecnico-costruttiva. Scarpa pensa (anche) con le mani. Detto questo, sarà ora più chiaro il motivo per cui egli riesca a raggiungere livelli di complessità nel dettaglio incredibili - per tornare al secondo motivo esposto in apertura - rispetto a molti altri suoi colleghi del tempo: difatti, proprio per questo suo disegnare e ri-disegnare, gli è impossibile fermarsi al primo stadio, che è quello del dettaglio pensato e disegnato, fine. Lui va oltre, cogliendo le varie migliorie apportabili per far funzionare al meglio quella sezione, quel nodo o quell’incastro, in maniera tale da evidenziarne il più possibile gli aspetti estetici così come quelli di efficienza tecnica. E questo gli è possibile in virtù del fatto che riesce a scavalcare la complessità del pensare quel qualcosa - da tutti noi percepita guardando alle sue opere - disegnandolo, e facendolo ancora e ancora, fino a quando non ne avrà portato alla luce la semplicità definitiva, tale semplicità da intendersi ovviamente non come facilità di esecuzione grafica ma massima coesione tra linee di forza fisiche-strutturali ed estetico-spirituali. Tale incapacità, da parte del nostro, di fermarsi ad una prima ipotesi di risoluzione progettuale è confermata dalle parole di Andrea Vianello Vos, suo collaboratore, che dirà: “Se Scarpa era in vena non si accontentava mai della prima stesura grafica di un determinato tema, vi sovrapponeva una carta velina, e tracciava un’altra soluzione, poi una terza e così via. Era come un vul109
cano e infine, quando si trattava di redigere il disegno esecutivo, ci si trovava in grande imbarazzo perché tutte le stesure erano ottimali” (da Carlo Scarpa e Edoardo Gellner. La chiesa di Corte di Cadore, citato sopra, p. 39). Esito ultimo, per certi versi estremo ed inarrivabile, di questo suo procedimento, possono essere considerati gli oltre duemila disegni per la “travagliata gestazione” (parole riprese da Francesco Dal Co) del complesso monumentale di Tomba Brion a San Vito d’Altivole, in provincia di Treviso, in cui risiede la totalità del repertorio di soluzioni scarpiane: dai numerosissimi risalti e rincassi del calcestruzzo - che quasi fanno intendere una escavazione della pietra da parte dell’aria e del vento, un modo per scandire l’unitarietà tra opera costruita e ambiente che l’accoglie -, passando per la vasca d’acqua che attornia il cosiddetto Padiglione della meditazione - vasca e padiglione di chiara ispirazione nipponica anche in quanto popolata, la prima, da numerose carpe e piante di loto -, per arrivare alle scale dai gradini sfalsati - in realtà omaggio ad una soluzione loosiana, reinterpretata più volte durante la sua carriera - così come alle lastre in pietra,
poggiate su binari metallici, del percorso d’ingresso con le loro fughe, mai tutte uguali, che, allo stesso modo di quanto progettato a Venezia per l’ingresso alla sede dei Tolentini, si muovono leggermente nel momento in cui vengono percorse, battendo per un attimo contro il binario sottostante, producendo un suono del tutto non casuale che provoca, o almeno dovrebbe provocare in noi, quella stessa attenzione, di matrice buddhista zen, che dovrebbe essere attivata ad ogni passo, così come nel guardare e nel sentire, ogni piccola cosa che ci circonda. Le stesse fughe tra una lastra e l’altra variano in larghezza proprio in richiamo al roji giapponese di accesso alla stanza da tè, il quale era formato dall’avvicendarsi di pietre di forma e dimensioni differenti, al di sopra delle quali ogni passo era differente, doveva essere ponderato. La fuga massima la si trova, coerentemente col discorso appena fatto, quando si sta per entrare al di sotto della copertura del padiglione, a mo’ di soglia che separa ed allo stesso tempo unisce “l’esterno” rispetto “all’interno” del padiglione, dove la concentrazione giunge al massimo stadio. Copertura del padiglione che costringe il visitatore ad abbassarsi per un attimo, nella stessa maniera in cui, prima di entrare in una stanza da tè, una persona era costretta ad abbandonare il suo armamentario e chinarsi, in quanto il pertugio d’ingresso era molto ristretto, in segno di democratico rispetto. E vorrei ora fermarmi qui, per non smentire ciò detto in testa al capitolo riguardo all’impossibilità logica - e forse linguistica - di dispiegare integralmente la trattazione di una sua opera. In quanto penso che l’espressione più appropriata che ci potremmo permettere nel tentare di descrivere, al meglio possibile, ciò che si prova nel visitare e vivere le sue architetture, sarebbe forse quel semplice “Caspita!”, da Scarpa stesso più volte appuntato nei disegni, tra uno schizzo e l’altro, quasi a volersi ricordare da solo la sensazione ottima ed indescrivibile provata nell’immaginarsi, in uno spazio tridimensionale, da grande architetto quale fu, quel dettaglio o ricamo in carboncino nero abbozzato appena prima. 110
Forme che ritornano. Da sinistra. Fig. 3.36: Yasuhiro Ishimoto, foto di dettaglio dell’esterno della Villa di Katsura, 1953. Fig. 3.37: Carlo Scarpa, dettaglio della canaletta del giardino del complesso di Tomba Brion a S. Vito d’Altivole, 1978.
Carlo Scarpa, complesso di Tomba Brion a S. Vito d’Altivole, 1978. Da sinistra. Fig. 3.38: dettaglio della soglia di accesso al Padiglione della meditazione. Fig. 3.39: vista ad altezza d’uomo dell’arcosolio dal di sotto del Padiglione della meditazione.
111
Fig. 3.40: Kiyonori Kitukake, Marine City, 1959.
112
3.16 Conclusioni: IL MOVIMENTO METABOLISTA E LA WORLD DESIGN CONFERENCE DEL 1960
Come già ho accennato nelle brevi note introduttive a questa seconda parte del testo, quest’ultimo capitolo vorrà essere assieme di conclusione e di nuovo inizio rispetto al percorso tracciato sino ad ora. Sempre tenendo presente infatti, per le motivazioni portate avanti durante l’introduzione, una concezione spiraliforme della storia - in base ai presupposti di infinito progresso e divenire (per i quali si assume come impossibile una storia circolare statica) ma allo stesso tempo di “somiglianza”, a distanza di decenni
o secoli, di alcuni avvenimenti (per la quale ho pensato che potesse essere propria una visione di storia circolare dinamica, ovvero elicoidale/spiraliforme, forma che funge da trait-d’union per i due presupposti appena ricordati) - ecco allora che si potrà leggere il fenomeno metabolista degli anni ’60 come quasi un successivo step, più che diretta continuazione, di quell’esotismo nipponico partito alla fine dell’Ottocento e protrattosi fino al periodo tra le due guerre. Non diretta continuazione in quanto cambiano temi e materie d’interesse; successivo step in quanto tale Movimento risulterà poi, nell’ultimo quarto di secolo, di enorme interesse per la ricerca architettonica occidentale. Un periodo, questo, nel quale, per l’appunto, ancora per una volta, il Giappone sarà motivo d’interesse per il sapere occidentale, in tale caso in ambito architettonico: figurativamente, la spirale sembra quasi ripassare per lo stesso punto, sembra che la storia si ripeta. Ebbene, in un certo qual modo sì, ma mai veramente uguale a se stessa, in quanto di fatto, i tempi e i modi di influenza verso l’Occidente del Movimento Metabolista saranno profondamente diversi rispetti a quelli appena spiegati a cavallo tra i due secoli, a partire da quel Constantin Guys che Baudelaire definì “il primo moderno”, ultimo ritratto di questa mia trattazione ho deciso infatti fosse Carlo Scarpa, da intendere quasi quindi come ultimo - e assieme apice - del primo periodo di un Moderno chiaramente influenzato dal Sol Levante (si utilizza qui la parola “moderno” in quanto tale è la definizione che usualmente si dà, in campo artistico e architettonico, ai prodotti della cultura tardo-ottocentesca e della prima metà del Novecento. In ambito puramente storico si assume invece tale periodo, sempre come sottolineavo in apertura, come facente parte della Contemporaneità). Scarpa, assieme ad alcune sue opere, supera sì temporalmente, per la realizzazione di queste, gli anni ’60, ma tali progetti scaturiscono da riflessioni da lui portate avanti a partire da molto prima, dagli anni ’30 e ’40: è anche per questo - oltre che ai cristallini rimandi in molte sue opere - che ho deciso di presentarlo come ultimo grande esempio di personalità geniale interessatasi genuinamente alla cultura del Sol 113
Levante, con quest’ultima che, come in molti altri casi studiati, ha fornito ad egli numerosissimi spunti di riflessione e progettuali. Con l’avvento dei Metabolisti, questa volta in ambito architettonico più che puramente artistico, l’interesse per il Giappone sarà infatti mosso dallo studio dei radicali esperimenti di questo gruppo più che dalla ricerca della raffinatezza delle stampe ukiyo-e, che insieme ai loro colori e tratti fisici trasmisero, a figure del calibro di Frank Lloyd Wright per esempio, la passione per tutta una cultura estetica celata all’interno di queste raffigurazioni. L’interesse volgerà ora verso i prodotti della cultura architettonica di un Giappone in piena globalizzazione, per metà occidentalizzato ma allo stesso tempo mai dimentico delle sue tradizioni secolari. Vorrei quindi partire attraverso un frammento del testo City of the Future, vero e proprio manifesto letterario metabolista, scritto da Noburu Kawazoe, una delle menti del gruppo: “Quando presentiamo un’immagine totale non vogliamo affatto specificare dettagliatamente come può essere la città del futuro. Le nostre proposte sono suggerimenti su quelli che ci sembrano i metodi e le vie da prendere. Non vi può essere un punto finale
a cui la città possa un giorno arrivare nel suo sviluppo, perché, se questo accadesse, la città si ridurrebbe istantaneamente in rovina. Questo non significa che noi formuliamo soggettivi e impossibili sogni fantastici: noi siamo alla ricerca di un metodo che accomuna una varietà di immagini diverse” (da City of the Future, di N. Kawazoe, in Zodiac, num. 9, 1962, p. 99). Le idee e i presupposti di questo raggruppamento erano però già ben chiari anche prima dell’esternazione, tramite questa pubblicazione, di Kawazoe. Kiyonori Kitukake, nel 1958, scriveva: “Al contrario del passato, l’architettura contemporanea deve essere mutevole, mobile e (…) capace di venire incontro alle cangianti esigenze dell’età contemporanea. Al fine di riflettere la dinamica della realtà, non è necessaria una funzione statica e fissa, ma piuttosto una capace di seguire i cambiamenti metabolici (…). Dobbiamo smettere di pensare in termini di funzione e forma, e pensare invece in termini di spazio e funzione variabile”. Come ben si può notare dall’ultima sentenza citata, Kitukake sta fondamentalmente ribaltando la questione dell’architettura intesa fino a quel momento: in pratica il progetto non si pone più in un determinato tempo, ma lo supera, per esserne sempre al suo interno; un qualsiasi progetto deve essere pensato come infinitamente variabile, locuzione questa al limite del paradossale, in quanto porta, in estremi termini, alla deriva linguistica di un progetto che è tutti i progetti, e tutti i progetti che dovrebbero essere interni a quel progetto. Molto spesso infatti i progetti del gruppo Metabolista si incentreranno su mega-strutture urbane, concepite come enormi supporti immutabili per le varie cellule (residenziali, lavorative, ecc.) che, anno dopo anno, sarebbero scambiatesi tra loro e mutate nella forma e nei comfort interni. Famosa sarà una delle proposte (Marine City, immagine in apertura del capitolo), dello stesso Kitukake, per delle vere e proprie comunità a forma di torre: altissime strutture a mo’ di tronco avrebbero ospitato, come foglie, una vicina all’altra, incastrate alla struttura principale, le varie cellule abitative di diverse famiglie, pronte ad intraprendere l’avventura all’interno di questa nuova comunità, senza mai essere sottratte alla più estesa so114
cietà cittadina. Qualora poi la famiglia si spostasse in un altro luogo, o qualora dovesse estinguersi, l’abitazione sarà rimossa, proprio come una foglia morta cade dal ramo di un albero. Molto spesso sarà proprio la capsula, o cellula, l’unità alla base dei progetti del gruppo in quanto vista non come elemento di omologazione bensì differenziazione, proprio in base alle sue diversità in risposta al proprio, unico, fruitore. Questa muta al mutare del suo abitante. “La capsula è un’architettura cyborg. L’uomo, la macchina e lo spazio costruiscono un nuovo corpo organico. L’architettura d’ora in avanti assumerà il carattere di apparecchiatura” (da Metabolism in Architecture, di K. Kurokawa, 1977, p. 75). E’ questo, di fatto, l’estremo punto di arrivo della teorizzazione della machine à habiter di Le Corbusier. Se infatti quella dell’architetto svizzero rimaneva “macchina”, in grado quindi di poter essere cambiata in base alle esigenze, quella dei Metabolisti è “apparecchiatura” che si trasforma essa stessa al cambiare delle esigenze di chi ne usufruisce, senza dover essere per forza cambiata. E’ quindi proprio in questo carattere di infinita reversibilità dell’architettura al completo servizio delle persone che sta il cuore
della ricerca metabolista, in completa rottura e superamento rispetto alle avanguardie precedenti, da vera ultima avanguardia quale fu. Ora, perché tanta attenzione dovrebbe essere riservata proprio al Movimento Metabolista? Due premesse lessicali: in primis, cosa che non è avvenuta fino ad ora nella trattazione, si vuole parlare di un vero e proprio movimento, per il quale - seconda premessa - mi sembra doveroso utilizzare l’-ismo che lo rappresenta non tanto, tornando anche qui al discorso portato avanti nell’introduzione, come termine ombrello per cercare di banalizzare la questione, bensì perché il raggruppamento di persone che nel 1959, nello studio di Kenzo Tange, si unisce e fonda tale Movimento, stila di fatto un Manifesto, il Manifesto Metabolista appunto: detto ciò mi sembra corretto quindi adoperare i termini in questione. Tange può essere definito senza mezzi termini il padre di tale gruppo che, per l’epoca, si rivelerà alquanto radicale e di rottura: egli, dopo aver fatto propri i principi del Moderno architettonico di Gropius e Le Corbusier, darà vita, durante gli anni del secondo Dopoguerra, ad una intensa attività di ricerca e progettazione diretta a ricreare e ridare vita ai numerosi spazi urbani distrutti durante il conflitto. Sono suoi i progetti per il Palazzo della Prefettura di Kanagawa (1953) ed il Memoriale della Pace ad Hiroshima (1955), architetture espressamente moderne - a partire dall’utilizzo preponderante, per la struttura, del calcestruzzo armato -, senza mai mancare però di chiari riferimenti alla tradizione costruttiva tipicamente giapponese (soprattutto nel primo caso): dai binati di travi o pilastri, passando per le soluzioni d’angolo a travature incrociate, per arrivare alle sporgenti terrazze perimetrali su ogni piano che richiamano le ampie falde su più livelli dei tetti dei templi nipponici. Di fatto egli, in questi progetti, esegue una rilettura modernista di stilemi tipicamente propri dell’architettura in legno del Paese del Sol Levante, come aggiornando quest’ultimi attraverso l’utilizzo di materiali moderni. Non è però questo l’esito più interessante e fortemente innovativo a cui giunge Tange durante quegli anni: se infatti questi interventi si inseriscono nel periodo in cui il nostro approfondisce 115
le lacerazioni dei tessuti urbani dovute alla guerra, restano, i due esempi fatti così come in realtà la maggior parte, interventi puntuali, certamente di grandi dimensioni, ma non ancora di scala urbana. Il salto di scala, oltre che di radicalità di proposte progettuali, lo si avrà proprio negli anni del Movimento Metabolista. Tale Movimento - afferma Rem Koolhaas in Project Japan (2011), pubblicazione di lunga gestazione dedicata esclusivamente allo studio e all’analisi delle personalità di questo Movimento e alle proposte, realizzate o meno, più iconiche di tale gruppo - sarà “l’ultimo movimento avanguardista” vero e proprio, l’ultimo che sfiderà i confini delle moderne tecniche del fare architettura e dell’immaginazione umana per cercare di spingersi oltre, in una ricerca dallo sguardo “futurista” - uso questo termine per rifarmi ad un altro Movimento iconico del primo Novecento - in accezione però, appunto, metabolista, ovvero di un metodo di ricerca che fosse improntato sulla necessità, da parte di qualsiasi città del futuro, di trasformarsi, mutare e crescere di pari passo, senza lunghi tempi di aggiornamento, alle sempre maggiori innovazioni della tecnica e conseguenti modifiche allo stile di vita delle persone. Proprio a questo concetto rimanda infatti la parola stessa - altro motivo per cui, rifacendomi a ciò detto appena prima, mi sembra corretto e doveroso utilizzarla -: metabolè in greco significa “cambiamento”, “mutazione”. Insomma: la loro ricerca era tesa verso una futura città - metropolitana - capace di saper assorbire anno dopo anno le modifiche intanto giunte nel modus vivendi dei suoi abitanti, progettata fin dall’inizio per mutare, cambiare volto e pelle ogniqualvolta ce ne fosse stata necessità, il tutto all’interno di un unico progetto iniziale capace di comprendere qualsiasi tipo di variazione futura al suo interno. “Metabolismo è il nome di un gruppo che cerca di offrire una visione concreta della società che verrà. Noi postuliamo la società umana come un processo di sviluppo cosmico dall’atomo alla nebulosa. Usiamo il termine biologico “Metabolismo” perché per noi progettazione e tecnologia non sono nient’altro che estensioni del potere vitale dell’uomo. Per questa ragione, non accettiamo semplicemente il metabolismo della storia come naturale ma cerchiamo di svilupparlo attivamente” (da The Manifesto of Metabolism).
Ma il Movimento Metabolista non sarà solo questo. Successivamente al Secondo Conflitto Mondiale, infatti, il Giappone era un paese atterrito, le cui due ginocchia si erano appena spezzate nelle giornate del 6 e 9 agosto del 1945. I successivi quindici anni di grande fatica da parte di tutto il popolo avevano fatto sì che il paese potesse ancora ritenersi all’altezza delle altre potenze mondiali, ed una grandissima occasione era alle porte, sia dal punto di vista culturale che economico: la World Design Conference del 1960 si sarebbe infatti tenuta proprio lì, in Giappone. Ed è esattamente in occasione di questo avvenimento che si forma il Movimento Metabolista: Kenzo Tange sa benissimo che un’occasione del genere per farsi conoscere nel mondo non doveva essere assolutamente sprecata. Doveva essere, per i giapponesi tutti, un modo per ri-aprirsi ad un Occidente svelatoglisi di fronte esattamente un secolo prima, che aveva però ora perso 116
fiducia ed ammirazione nei suoi confronti a causa, soprattutto, delle nefaste vicende belliche. Due potevano essere i modi per rispondere e reagire ad una situazione del genere: un nuovo periodo di sakoku - chiusura volontaria - a mo’ di rassegnazione in attesa di tempi migliori per qualsiasi contatto extra-nipponico, cosa tra l’altro di fatto impossibile a metà inoltrata del XX secolo; oppure tentare di andare oltre, voltare senza mai strappare la pagina di storia precedente, senza troppe inibizioni, in maniera coraggiosa, cercando di impegnarsi al massimo per restituire la migliore immagine possibile di un paese culturalmente oramai avanzato, artisticamente ricercato e tecnologicamente all’avanguardia. Ed allora autori come Yukio Mishima e Noburu Kawazoe riaccendono l’interesse del popolo attraverso i loro scritti, ricercando una nuova, moderna, virilità asiatica. Gli architetti Kiyonori Kikutake, Fumihiko Maki e Kisho Kurokawa - solo per citare i maggiori e più conosciuti anche all’estero - uniscono le forze e le idee e, per l’appunto nel ’59, nasce nello studio di Tange il gruppo. Tutti i vari progettisti metabolisti, sia in previsione che successivamente alla World Design Conference dell’anno dopo - altra grande occasione di esposizione pubblica e confronto sarà infatti l’Expo di Osaka nel 1970 -, ognuno con le proprie fantasie ed aspirazioni, cercano di trasformare il paese, uniti tutti dal filo rosso dell’ottimistico sguardo al futuro. Un futuro di non-reclusione bensì di apertura e dibattito dialettico con l’Occidente, attraverso, anche in questo caso, c’è da dirlo, il potente uso di segni ed immagini, quasi ricercando un simile fascino onirico, e speranzoso nei confronti della realtà come del divenire, intravisto da alcune delle menti più geniali dell’Occidente nelle stampe a partire da un secolo prima.
117
Fig. 3.41: Kisho Kurokawa, Capsule Tower, Nakagin, Giappone, 1972. Fu uno dei pochi progetti espressamente metabolisti ad essere realizzati. Da lustri versa ormai in condizioni pessime. Kurokawa disse di questo progetto: “I designed the building to have its capsules replaced every 25 years. I designed it as sustainable architecture”.
118
“(…) Le due forme di umanità infine si fonderanno insieme”
Bibliografia: - A. Alabiso, Architettura giapponese e architetti occidentali, 2014, ed. Novalogos, 2014, Aprilia; - F. Arzeni, L’immagine e il segno. Il giapponismo nella cultura europea tra Ottocento e Novecento, 1987, ed. Il Mulino, 1987, Bologna; - R. Barthes, L’impero dei segni, 1970, ed. Einaudi, 2007, Torino; - C. P. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, 1863, ed. Marsilio, 2002, Venezia; - W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, cap. Di alcuni motivi in Baudelaire, pp. 89-130, raccolta, ed. Einaudi, 2014, Torino; - D. Brignone, Liberty e giapponismo. Arte a Palermo tra Otto e Novecento, 2017, ed. Silvana - collana: Arte, 2017, Milano; - C. Dalla Costa, G. Dorfles, G. Pieranti, Arte. Artisti, opere e temi, voll. 2-3, 2010, ed. Atlas, 2010, Bergamo; - A. Forty, Parole e edifici. Un vocabolario per l’architettura moderna, 2000, ed. Pendragon, 2015, Bologna; - M. Foucault, La pittura di Manet, 2004, ed. Abscondita, 2005, Milano; - M. Ghilardi, La filosofia giapponese, 2018, ed. Scholè, 2018, Brescia; - M. Ghilardi, Un’estetica del “passaggio”. Note sull’architettura giapponese, articolo tratto da Costruire, Abitare, Pensare, a cura di L. Taddio, ed. Mimesis, 2010, Milano/ Udine; - E. H. Gombrich, Arte e progresso, 1971, ed. Laterza, 2011, Bari; - E. de Goncourt, Hokusai, il pittore del mondo fluttuante, 1922, ed. Luni Editrice, Oriental Press, 2006, Firenze, MIlano; - R. Koolhaas, H. U. Obrist, Project Japan. Metabolism talks, 2011, ed. Taschen, 2011, Colonia;
123
- O. Lanzarini, Carlo Scarpa e il disegno, articolo tratto da DISEGNARECON (rivista digitale, link dell’articolo: https://disegnarecon.unibo.it/article/view/1683), giugno 2009; - A. Loos, Parole nel vuoto, 1962, ed. Adelphi, 1972, Milano; - G. Manacorda (a cura di), Paul Klee. Poesie, 1960, ed. Guanda, 1978, Milano; - K. Okakura, Lo zen e la cerimonia del tè, 1906, ed. Feltrinelli, 2018, Milano; - G. Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, 1992, ed. Marsilio, 2019, Venezia; - G. Pulsoni, Il taglio e il vero fiore, articolo del 04.08.2018 tratto da Alias (supplemento de Il Manifesto), pag. 7; - P. Reps e N. Senzaki (a cura di), 101 storie zen, 1957, ed. Adelphi, 1973, Milano; - J. Rykwert, La casa di Adamo in Paradiso, 1972, ed. Adelphi, 2005, Milano; - E. Said, Orientalismo, 1978, ed. Feltrinelli, 2016, Milano; - F. Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, 1795, ed. Abscondita, 2014, Milano; - P. Sparke, Design giapponese, 2009, ed. MoMA Design Series, 2009, New York; - S. Wichmann, Giapponismo. Oriente-Europa: contatti nell’arte del XIX e XX secolo, 1980, ed. Fabbri, 1981, Milano.
Sitografia: - autore non specificato, Guerra russo-giapponese, tratto da Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_russo-giapponese, data di ultimo aggiornamento: 22.04.2019, data di ultima lettura: 24.04.2019; - autore non specificato, Il fascino del Giappone nell’impressionismo francese, tratto da Diario dell’Arte, https://diariodellarte.wordpress.com/2017/04/22/il-fascino-dellarte-giapponese-nellimpressionismo-francese/, data di ultimo aggiornamento: non specificata, data di ultima lettura: 22.04.2019; 124
- autore non specificato, Italy: the new domestic landscape, tratto da MoMA (archivio online), https://www.moma.org/calendar/exhibitions/1783, data di ultimo aggiornamento: non specificata, data di ultima lettura: 22.04.2019; - autore non specificato, Ludwig Mies van der Rohe, tratto da Domus, https://www.domusweb.it/it/progettisti/ludwig-mies-van-der-rohe.html, data di ultimo aggiornamento: non specificata, data di ultima lettura: 20.08.2019; - autore non specificato, Movimento metabolista, tratto da Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Movimento_metabolista, data di ultimo aggiornamento 04.04.2019, data di ultima lettura: 05.05.2019; - autore non specificato, Storia del tè in Occidente, tratto da Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_tè_in_Occidente, data di ultimo aggiornamento: 28.02.2018, data di ultima lettura: 15.07.2019; - autore non specificato, Toulouse-Lautrec: l’importanza delle stampe giapponesi, tratto da epertutti, http://www.epertutti.com/storia-dell-arte/ToulouseLautrec-IMPORTANZA-DEL74364.php, data di ultimo aggiornamento: non specificata, data di ultima lettura: 15.08.2019; - autore non specificato, Van Gogh e l’influenza dell’arte giapponese, tratto da Restaurars, https://restaurars.altervista.org/vincent-van-gogh-linfluenza-dellarte-giapponese/, data di ultimo aggiornamento: non specificata, data di ultima lettura: 13.08.2019; - A. Bietti, Come il Giappone ha influenzato l’Occidente, tratto da Medium, https://medium.com/gio23arch/come-il-giappone-ha-influenzato-loccidente-8d1aad964d31, del 20.06.2017, data di ultima lettura: 22.04.2019; - G. Favero, Che cosa vuoi essere? Essenza e vuoto nell’architettura di Louis Kahn, tratto da La Chiave di Sophia, http://www.lachiavedisophia.com/blog/che-cosa-vuoi-essere-essenza-e-vuoto-nellarchitettura-di-louis-kahn/, del 21.12.2018, data di ultima lettura: 22.04.2019; - G. Favero, Elogio della casualità e dell’imperfezione: l’esempio dell’arte orientale, tratto da La Chiave di Sophia, http://www.lachiavedisophia.com/blog/elogio-della-casualita-dellimperfezione-lesempio-dellarte-orientale/, del 16.01.2019, data di ultima lettura: 22.04.2019; - G. Favero, Equilibrio tra idee e corpo: Giangiorgio Pasqualotto sulle filosofie d’Orien125
te, tratto da La Chiave di Sophia, http://www.lachiavedisophia.com/blog/equilibrio-idee-corpo-giangiorgio-pasqualotto-filosofie-oriente/, del 12.01.2019, data di ultima lettura: 22.04.2019; - O. Geffken, Otto manifestazioni dell’estetica giapponese, tratto da Cultor, prima parte: http://www.cultor.org/JPN/E1.html - seconda parte: http://www.cultor.org/JPN/E2.html, data di ultimo aggiornamento: non specificata, data di ultima lettura: 20.08.2019; - E. Hill, 9 types of printmaking you need to know, tratto da Artsy, https://www.artsy.net/ article/editorial-nine-types-of-printmaking-you-need-to, del 16.08.2018, data di ultima lettura: 22.04.2019; - K. Hosmer, The Infinite Beauty of Classic Japanese Architecture, tratto da My Modern Met, https://mymodernmet.com/yasuhiro-ishimoto-katsura-imperial-villa/, data di ultimo aggiornamento: 03.10.2013, data di ultima lettura: 22.08.2019; - S. Karstrom Keig, A personal account of the World Design Conference in Tokyo, Japan 1960, tratto da Display, http://www.thisisdisplay.org/features/a_personal_account_of_the_world_design_conference_in_tokyo_1960, data di ultimo aggiornamento: 29.08.2013, data di ultima lettura: 07.05.2019; - R. Lederman, Yasuhiro Ishimoto: Katsura, tratto da aperture, https://aperture.org/blog/ yasuhiro-ishimoto-katsura/, data di ultimo aggiornamento: 29.01.2016, data di ultima lettura: 22.08.2019; - C. Lesser, The centuries-old japanese tradition of mending broken ceramics with gold, tratto da Artsy, https://www.artsy.net/article/artsy-editorial-centuries-old-japanese-tradition-mending-broken-ceramics-gold, del 24.08.2018, data di ultima lettura: 22.04.2019; - K. Richman-Abdou, Older versions of Hokusai’s Great Wave show its surprising evolution over time, tratto da My Modern Met, https://mymodernmet.com/hokusai-great-wave-evolution/, del 28.12.2018, data di ultima lettura: 22.04.2019; - Sakura, Arte e pittura. Quando il Giappone influenzò Monet, tratto da Sakura Magazine, http://sakuramagazine.com/arte-e-pittura-quando-il-giappone-influenzo-monet/, del 30.05.2018, data di ultima lettura: 22.04.2019; - Sakura, Hokusai. L’arte di Hokusai influenza anche l’Occidente, tratto da Sakura Magazine, http://sakuramagazine.com/hokusai-larte-di-hokusai-influenza-anche-loccidente/, del 18.05.2015, data di ultima lettura: 22.04.2019; 126
- L. Scarlini, Giappone, tagliare per far emergere il bello, tratto da Il Giornale dell’Arte, https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/2018/2/128837.html, data di ultimo aggiornamento: 08.02.2018, data di ultima lettura: 13.09.2019; - K. Whatley, How Japan has inspired western artists, from the Impressionists to today, tratto da Artsy, https://www.artsy.net/article/artsy-editorial-japan-inspired-western-artists-impressionists-today, del 10.08.2018, data di ultima lettura: 22.04.2019.
Video e filmografia: - M. Ghilardi, Le forme del Bello tra Europa, Cina e Giappone, video della conferenza del 19.01.2018, tratto da Romanae Disputationes, https://youtu.be/dVCVrta47Qg, caricata il 19.01.2018, data di ultima visione: 05.06.2019; - R. Koolhaas, H. U. Obrist, B. Steele, Project Japan. Metabolism Talks, video della conferenza del 07.02.2012, tratto da AA School of Architecture, https://youtu.be/OpwcTQ5RKbw, caricata il 18.09.2015, data di ultima visione: 12.05.2019; - N. Oshima, Ecco l’impero dei sensi, 1976, durata: 99’, case di produzione: Argos Films, Oceanic (Parigi), Oshima Productions (Tokyo); - A. Torterolo, Aspettando Toulouse-Lautrec, video della conferenza del 18.05.2017, tratto da Mediateca Santa Teresa - Biblioteca Nazionale Braidense, prima parte: https://youtu. be/CTZMymHJUf0 - seconda parte: https://youtu.be/iLfe1l6rN6k, caricata il 18.06.2017, data di ultima visione: 15.08.2019; - M. Wallace, F. L. Wright, Frank Lloyd Wright Interview, video di un’intervista del 1957, tratto da Darlur Namsill, https://youtu.be/DeKzIZAKG3E, caricata il 14.01.2014, data di ultima visione: 16.08.2019.
127