Anno 18, n. 53 - Giugno 2012 Sped. in Abb. Post. Art. 2, Comma 20/C, Legge 662/96 Filiale di Padova
Attualità
Ambientalismo in crisi L’islam in Italia Marcia per la Vita
Plinio Corrêa de Oliveira
Trattato sul simbolismo L’olocausto cristiano
Le parabole evangeliche
Il mondo delle TFP
La Pravda si inquieta Campagne di piazza Accademia estiva 2012
A vent’anni del Trattato di Maastrich: una pausa di riflessione
La crisi dell’euro e il malessere europeo primo bilancio dell’integrazione
“I
È questa l’Europa che vogliamo?
n ogni trattato c’è sempre un cavaliere e un cavallo”, diceva il Cancelliere di Ferro Otto von Bismarck. E l’Unione Europea non fa eccezione.
Non ci riferiamo tanto al ruolo dominante che sta assumendo la Germania nel concerto delle nazioni europee, quanto piuttosto ai centri di potere, difficili da individuare e per niente responsabili di fronte agli elettori, che ormai fanno il buono e il cattivo tempo. A cominciare dalla Banca Centrale Europea, organismo privato, quindi indipendente dagli Stati membri, dalla quale dipende in buona parte il nostro tenore di vita. Il crack dell’euro — perché è di questo che si tratta — è un campanello d’allarme. Sintomo di difetti strutturali ben più profondi. Si cerca in ogni modo di salvare la piccola e irrequieta Grecia, solo perché altrimenti sarebbe un “disastro planetario”, secondo un dirigente della BCE. Ma ormai la sua uscita dall’euro sembra solo questione di tempo, con o senza “disastro”.
Per via dei meccanismi di integrazione messi in atto dall’Unione Europea, la crisi greca si ripercuote ipso facto in tutto il comparto. Se la Grecia si raffredda, l’Italia starnuta... Cosa succederà se la Spagna piglia la polmonite?
Privi della loro sovranità economica e politica, i Paesi non sono più in grado di schivare l’onda d’urto. La moneta unica ha tolto loro ogni margine di manovra.
Molti europei cominciano a sentirsi come cavalli di un cavaliere del quale non sanno nemmeno il nome. Quando, in una conferenza alla Luiss, il presidente Monti dichiara “quando si manifestano le crisi, i cittadini accettano cessioni di sovranità”, è lecito chiedersi cui prodest 2 - TRADIZIONE FAMIGLIA PROPRIETÀ / GIUGNO 2012
questa crisi, e a quali istanze stiamo cedendo la nostra sovranità.
Da noi, all’insegna di un governo “tecnico”, la risposta alla crisi si è finora incentrata su un mastodontico aumento delle tasse. L’esatto opposto di quanto fecero, a suo tempo, Ronald Reagan e Margaret Thatcher per tirare fuori i loro Paesi dalla stagnazione degli anni ’70. In concreto l’IMU, gravando direttamente sulla proprietà privata, stabilisce su di essa una sorta di ipoteca statale che riduce ancor di più la libertà dei cittadini. I periodi di crisi sono, quasi per definizione, anche periodi di profonda riflessione. Tutt’una serie di presupposti, forse accettati senza badarci troppo visto che le cose andavano bene, vengono messi in dubbio. Ovunque si notano i sintomi di questo profondo malessere. Dai successi elettorali dell’estrema destra in Francia, Finlandia, Ungheria ed altri Paesi, al sorprendente trionfo di un comico genovese nelle ultime consultazioni comunali in Italia, l’onda dell’anti-politica si fa sentire chiara e forte. È triste constatare che sia stata l’economia ad aver fatto scattare questo malessere, e non sia avenuto altrettanto quando v’erano ragioni ben più nobili, come ad esempio la crescente cristianofobia dimostrata dal Parlamento di Bruxelles. Ma prendiamo atto che ormai è esploso.
A vent’anni dalla firma del Trattato di Maastricht, che disegnò la road map per l’integrazione europea, per la prima volta ci troviamo di fronte alla concreta possibilità di fallimento del progetto utopistico dell’Unione Europea. Non è il momento di tirare il freno, fermarci a ragionare e porci la domanda che pochi vogliono sentire: ma è questa l’Europa che vogliamo?
Sommario Anno 18, n° 53, giugno 2012
Editoriale Inghilterra verso la repubblica? Guru ambientalista si ricrede Italia: “moschee come funghi” L’acqua non è idratante, secondo il Parlamento europeo Euroscettici: ieri disprezzati oggi profeti Maastricht, vent’anni dopo Brasile: fallisce la riforma agraria Un commento ai commenti La 194: una legge da abolire Breve trattato sul simbolismo Preghiera per chiedere il dono dell’olocausto incondizionale Brasile: attività giovanili e campagna di protesta Roma: la TFP partecipa alla Marcia per la Vita Brasile, campagna di piazza USA, convegno autunnale La TFP inquieta la Pravda Accademia estiva 2012 Le parabole evangeliche
Copertina: Unione Europea, una vecchiaia precoce?
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Tradizione Famiglia Proprietà Anno 18, n. 53 giugno 2012 Dir. Resp. Julio Loredo
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Direzione, redazione e amministrazione: Tradizione Famiglia Proprietà - TFP, Viale Liegi, 44 — 00198 ROMA Tel. 06/8417603 Aut. Trib. Roma n. 90 del 22-02-95 Sped. in abb. post. art. 2, Comma 20/C, Legge 662/96 — Padova Stampa Tipolito Moderna, via A. de Curtis, 12/A — 35020 Due Carrare (PD) TRADIZIONE FAMIGLIA PROPRIETÀ / GIUGNO 2012 - 3
Attualità
Inghilterra verso la repubblica?
Un’analisi attenta del testo svela, però, un gravissimo elemento di apprensione. Il discorso – letto dalla Regina ma scritto dal Capo di governo, David Cameron – annuncia una “riforma costituzionale (…) per riformare la Camera dei Lords”. Si tratterebbe di eliminare l’ereditarietà della House of Lords, facendola diventare elettiva.
C
on tutta la pompa prevista dal protocollo di Corte, S.M. la Regina Elisabetta II ha inaugurato il Parlamento a Westminster. Il video dell’evento, diffuso dalle agenzie, è stato “cliccato” su internet milioni di volte. A riprova di quanto l’uomo contemporaneo sia assetato di splendore.
U
L’iter legislativo non si presenta facile. Lord Strathclyde, leader conservatore nella Camera Alta, ha già annunciato guerra. E gli stessi assessori di Cameron consigliano prudenza. Sembra che la riforma, dunque, non sarà per domani. Ma la china è stata ormai imboccata.
Ora, contestare l’ereditarietà della House of Lords implica negare il principio di ereditarietà, che è il fondamento della monarchia. Quanto tempo passerà prima che qualche liberale voglia contestarlo anche alla Reale Famiglia?
Guru ambientalista si ricrede
no dei padri fondatori del moderno ambientalismo, James Lovelock, ideatore dell’ipotesi “Gaia”, secondo la quale la terra sarebbe un essere vivente, si sta ricredendo. In una recente intervista al canale MSNBC, Lovelock ha dovuto ammet-
tere che l’allarmismo sul riscaldamento globale e i cambiamenti climatici ad esso connessi era “eccessivo”.
“In realtà noi non possiamo sapere cosa farà il clima nei prossimi vent’anni — disse Lovelock con atipico candore — Vent’anni fa credevamo di sapere, ma i fatti ci hanno smentiti. Dobbiamo ammettere che di tutto ciò che noi ci aspettavamo, molto poco sta veramente accadendo. Il mondo non si è riscaldato più di tanto dall’inizio del Millennio. La verità è che le temperature si sono mantenute praticamente invariate”.
Nel 2007, la rivista Time aveva annoverato Lovelock nell’elenco dei tredici maggiori “Eroi dell’Ambiente”, insieme ad Al Gore e Mikail Gorbaciov.
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Le dichiarazioni del “guru” ambientalista stanno seminando scompiglio nel movimento ecologista. Keya Chatterjee, direttore internazionale di politica climatica della WWF-US, si sfoga: “È difficile non sentirsi schiacciato. Le nostre tesi non riescono
P
Italia: “moschee come funghi”
iù di duecentocinquanta moschee in Italia si sono federate, dando vita alla Confederazione Islamica Italiana (CII). La CII, che sarà controllata dal Marocco, viene così a sommarsi all’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOII), che controlla il 60% delle moschee nel nostro Paese.
L’UCOII è vicina alla Fratellanza Musulmana, una fazione islamica estremista. Per questo motivo, la Consulta per l’Islam italiano, un organismo del Ministero dell’Interno, si è sempre rifiutata di annoverarla. Con la CII, invece, ci sarà un dialogo sempre aperto, secondo quanto ha dichiarato durante l’inaugurazione il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. “Si tratta di un progetto storico che finalmente consentirà alla popolazione islamica presente in Italia di avere un nuovo interlocutore”, commenta l’ambasciatore del Marocco a Roma, Hassan Abouyoub.
Il primo compito della CII sarà convincere il governo a finanziare la costruzione di nuove moschee in Italia. “Le moschee stanno sorgendo come funghi in autunno — denuncia il leghista bolognese Manes Bernardini — e i sindaci non possono impedirlo perché non esiste una legge che regoli il proliferare di queste strutture”. Una situazione che tenderà solo a peggiorare con l’intervento della CII.
Con la creazione della CII, il Marocco sta cercando di esportare in Italia una strategia di controllo religioso che gli sta riuscendo assai bene nella vicina Spagna, dove il governo marocchino utilizza la Federazione Spagnola di Enti Religiosi Islamici (FEERI) per esercitare un controllo sulle credenze religiose e culturali, oltreché sulle pratiche religiose, del milione e mezzo di marocchini residenti in Spagna.
Il documento dei servizi iberici afferma inoltre che Rabat sta finanziando la costruzione di centinaia di moschee in Spagna, i cui imam sono nominati direttamente dal governo marocchino. Inoltre, il paese nordafricano sta tentando di imporre l’istruzione religiosa islamica nelle scuole pubbliche spagnole. Uno degli ultimi atti del governo Zapatero fu, infatti, di stabilire un’ora di religione islamica nella scuole. Quanto tempo passerà prima che il Ministero della Pubblica Istruzione si pieghi ad una simile pretesa della CII?
Secondo un rapporto dell’intelligence spagnola, pubblicato in parte dal quotidiano madrileno El País, il governo marocchino sta attuando “una strategia molto aggressiva e di grande portata” che mira a stabilire in Spagna “una società musulmana parallela”, scoraggiando i marocchini dall’integrarsi nel Paese ospitante, e incoraggiandoli invece a seguire uno stile di vita islamico, segregato dalla società europea. Il presidente Giorgio Napolitano visita la Grande Moschea di Roma
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Attualità
I
L’acqua non idrata secondo il Parlamento europeo
n questi anni, il Parlamento europeo si è reso spesso e volentieri oggetto di beffa, approvando leggi che farebbero arrossire perfino Franz Kafka.
È rimasto famoso, per esempio, il Regolamento n. 2257/94 che descrive i parametri perché una banana possa essere ritenuta tale, a norma di legge europea:
“Il calibro è determinato, 1° dalla lunghezza del frutto, espressa in centimetri e misurata lungo la faccia convessa, dal punto in cui il peduncolo si inserisce sul cuscinetto fino all’apice; 2° dal grado, cioè dallo spessore, espresso in millimetri, di una sezione trasversale del frutto praticata tra le facce laterali e nel mezzo del frutto stesso, perpendicolarmente all’asse longitudinale. Il frutto di riferimento che serve a misurare la lunghezza e il grado è il seguente: il frutto mediano, situato sul lato esterno della mano; il frutto che si trova accanto al taglio con cui è stata sezionata la mano, sul lato esterno del frammento di mano. La lunghezza minima e il grado minimo sono fissati ri-
spettivamente a 14 cm e 27 mm”. Semplice, no?
Se i parametri non coincidono perfettamente, una banana non potrà essere ritenuta legalmente una banana.
Ma sembra che adesso gli eurocrati si siano proprio superati. Una recente decisione dell’Unione europea vieta le etichette che recano la dicitura “l’acqua previene la disidratazione”. E, a pochi giorni di distanza, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, ha stabilito che mangiare molte prugne secche non provoca nessun effetto lassativo.
Caustico, l’eurodeputato britannico Graham Watson, che ha sfidato il Commissario europeo a dimostrare, nei fatti, la giustezza di questa norma sanitaria. Non meno sferzante, il suo collega Roger Helmer, che ha tacciato la normativa sull’acqua “stupida nel senso più ampio del termine”.
Euroscettici: ieri disprezzati, oggi profeti
“R
aramente nella storia politica europea una fazione o movimento ha goduto di una vittoria così completa e schiacciante come quella degli euroscettici”. Così esordisce un dirompente articolo di Peter Oborne e Frances Weaver apparso su The Telegraph, di Londra.
Nel gergo politico britannico, viene chiamato “euroscettico” chi si oppone all’attuale integrazione europea e, in particolare, alla moneta unica. Disprezzati ieri come faziosi, gli euroscettici appaiono oggi come dei veri e propri profeti.
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Gli euroscettici, secondo Oborne e Weaver, “hanno previsto con una precisione quasi-profetica come e perché l’euro avrebbe portato alla devastazione finanziaria del continente, trascinando nel vortice la nostra società. (...) Gli europeisti stanno oggi come i pacifisti nel 1940, o come i comunisti dopo la caduta del Muro di Berlino. Sono completamente KO”.
L’articolo presentava il libro dei due autori «Guilty men» (Uomini colpevoli, Centre for Policy Studies, Londra, 2012), la cui pubblicazione è imminente. Il titolo è tratto da un omonimo opuscolo pubblicato nel 1940 nel quale si chiamava a rendere conto la classe politica che, con un pacifismo esagerato e miope, aveva permesso l’ascesa di Hitler al potere. “È ora che gli europeisti rendano conto alla storia”, concludono.
Maastricht vent’anni dopo
I
l 7 febbraio 1992, i dodici Paesi che allora formavano la Comunità Europea firmarono il Trattato di Maastricht, entrato poi in vigore il 1° novembre dell’anno successivo. Il Trattato stabiliva una road map vincolante verso l’integrazione politica ed economica del Continente. Come presagendo una sorda ostilità, i vertici dell’UE scelsero di far ratificare il Trattato dai rispettivi Parlamenti, evitando quindi di sottoporlo all’approvazione dei cittadini.
Il 2 giugno, però, un referendum in Danimarca bocciava il Trattato, mettendo a rischio tutto il processo d’integrazione. Come più tardi farà in relazione al Trattato di Lisbona, l’UE decise semplicemente di ignorare la volontà del popolo danese e di indire un nuovo plebiscito, esercitando quindi feroci pressioni sul piccolo Paese scandinavo.
Il presidente François Mitterrand convocò a sua volta un referendum a settembre. In quell’occasione, la TFP francese diramò un manifesto nel quale esternava la sua opposizione a Maastricht. Col titolo “La TFP dice NO a Maastricht. Si può approvare un trattato illeggibile?”, il manifesto fu pubblicato da diversi organi di stampa e poi ampiamente diffuso in campagne di piazza.
Le ragioni di tale rifiuto sono oggi più attuali che mai, anzi si sono dimostrate lungimiranti, vista la piega che hanno preso gli ultimi avvenimenti.
Perdita della sovranità nazionale
La TFP inizia segnalando “il carattere notoriamente indigesto del testo. (...) Per l’uomo della strada il Trattato è difficilmente comprensibile, a causa dell’imprecisione dei suoi numerosi obiettivi e della complessità dei meccanismi che mette in atto. La confusione è accresciuta dal linguaggio, spesso astruso e tecnico”. Questa imprecisione sembra proprio voluta per impedirne un giudizio ragionato, lasciando così il povero cittadino in balia alla martellante propaganda paneuropeista.
Un primo pericolo, fondamentale, del Trattato di Maastricht è la perdita della sovranità nazionale. Questo Trattato, secondo la TFP, “porrebbe la Francia su un cammino il cui obiettivo è la più grande trasformazione strutturale della nostra storia, addirittura col rischio di sparire come nazione indipendente: — per la rinuncia a importanti parcelle di sovranità, a profitto delle istituzioni comunitarie;
— per il consolidamento di strutture economiche e politiche antidemocratiche, controllate da una nomenklatura di tecnocrati;
— per la formazione di un potere sovranazionale europeo, che governerebbe una massa umana senza identità, sulla via utopica di un governo mondiale”. TRADIZIONE FAMIGLIA PROPRIETÀ / GIUGNO 2012 - 7
Attualità
“Lungi dal costruire l’Europa dei popoli stiamo costruendo l’Europa senza il popolo. I vertici della Comunità Europea emettono decreti senza nemmeno preoccuparsi del consenso democratico” Jean-Pierre Chevènement
Poiché la sovranità è un potere supremo e non subordinato, non può essere né amputato né condiviso. Un primo elemento della sovranità è l’autosufficienza militare, vale a dire la capacità di difendersi, o di attaccare, con l’esclusivo uso delle proprie forze armate. Questo elemento verrebbe meno con l’integrazione delle forze armate europee.
Sovranità culturale
La sovranità implica anche l’integrità culturale del Paese. “Esiste una sovranità fondamentale della società che si manifesta nella cultura della nazione”, ammoniva Giovanni Paolo II all’Unesco il 2 giugno 1980. Il Pontefice quindi richiamava quest’organo ai suoi doveri: “Vigilate, con tutti i mezzi a vostra disposizione, su questa sovranità fondamentale che possiede ogni nazione in virtù della sua propria cultura. Proteggetela come la pupilla dei vostri occhi per l’avvenire della grande famiglia umana. Proteggetela! Non permettete che questa sovranità fondamentale diventi la preda di qualche interesse politico o economico”. Il giorno in cui un potere sovranazionale volesse privare la Francia delle sue tradizioni culturali, il Paese non si sentirebbe ferito tanto quanto nel caso di un’invasione straniera? In passato, intere generazioni di giovani hanno marciato alla guerra in difesa dell’integrità territoriale della Patria. “Che differenza — lamenta la TFP francese — fra questi valorosi patrioti e i negoziatori di Maastricht che hanno per-
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messo, con cuore allegro, che la nostra sovranità diventasse preda di oscuri interessi politici ed economici!”
Sovranità monetaria
Il manifesto della TFP francese affronta poi il problema della moneta unica.
“Il Trattato invade il campo specifico della sovranità nazionale in diversi punti centrali. Instaura una moneta unica amministrata da una banca centrale europea, non dipendente dai governi nazionali, eliminando le monete locali. Questo implica il trasferimento della sovranità monetaria. Su questo punto, il Trattato ha un carattere obbligatorio e irrevocabile. Una volta adottato, non può essere modificato dagli Stati membri, che dovranno allora obbedire a certi parametri imposti da questa banca”.
Con l’instaurazione della moneta unica, è tutta la politica finanziaria (bilancio dello Stato, regime tributario e via dicendo) che scappa dalle mani dei rappresentanti eletti del popolo, passando a quelle di ignoti burocrati.
A questo si somma una politica estera unica, grazie alla quale i Paesi membri non potranno più parlare con voce propria; una politica interna subordinata alle decisioni di Bruxelles e, quindi, non più libera di decidere sul proprio territorio; una politica sociale uniformata che non tiene conto dei propri interessi; e, soprattutto, una politica ambientalista che
imporrebbe ai Paesi membri l’agenda degli ecologisti più estremisti.
Repubblichette islamiche
Un punto spinoso è il problema dell’immigrazione. Abolendo i confini fra i Paesi membri, il Trattato di Maastricht (poi integrato col Trattato di Schengen) favorirebbe i flussi immigratori all’interno del continente. Visto l’evidente intuito di certo islam di penetrare l’Europa, avverte la TFP francese, “non ci dovremmo stupire nel vedere la creazione di stati all’interno dello stato”. Già nel 1990, l’Istituto islamico di Londra aveva preteso “la creazione di uno Stato islamico non territoriale, dotato di un Parlamento capace di emettere decreti vincolanti per la comunità musulmana”.
All’orizzonte, dunque, la possibilità della proliferazione di miriadi di “repubblichette islamiche” all’interno di un Continente liquefatto da un’integrazione innaturale e coatta.
Un sistema antidemocratico
Secondo l’ideologia democratica, alla quale i leader europei dicono di aderire, il popolo è il detentore del potere sovrano. Ora, questo non sarà più quando grosse parcelle di questa sovranità saranno state trasferite a organismi burocratici sovranazionali, vere e proprie “nomenklature” di sovietica memoria. Nomenklature, a loro volta, in continua evoluzione — come un corpo in gestazione — verso forme ancora sconosciute. “Non ci sono enunciati chiari”, ammetteva Jacques Delors, allora Presidente della Commissione europea.
cratico attraverso referendum nazionali. L’omissione di uno qualsiasi di tali elementi squalificherebbe il progetto europeista come democratico.
“Lungi dal costruire l’Europa dei popoli stiamo costruendo l’Europa senza il popolo — ammetteva con candore il socialista Jean-Pierre Chevènement — I vertici della Comunità Europea emettono decreti senza nemmeno preoccuparsi del consenso democratico”. Ricordiamo che nessun organo amministrativo della Comunità (oggi Unione) Europea è eletto dal popolo. Sono tutti “designati”. Sono quindi statutariamente indipendenti dagli Stati membri. Di conseguenza, non devono rendere conto a nessuno.
L’utopia di un governo mondiale
Avviandosi alla conclusione, la TFP francese dimostra come tutto questo punti alla “dissoluzione delle nazioni, che perderebbero i loro confini, per formare un magma, sovrastato da una babele di poteri sovranazionali. (...) Il termine di questo processo non può essere che un super-governo mondiale, che divorerà ogni società organica”.
Davanti a questa concreta prospettiva, conclude la TFP francese, non possiamo restare indifferenti e silenziosi. La nostra coscienza cattolica ci sprona a dire NO a un Trattato che distruggerà le nostre tradizioni, ricadendo anche sulla famiglia e sulla proprietà, che entrerebbero in agonia.
Ciò spiegherebbe l’ambiguità del Trattato di Maastricht: nemmeno gli autori hanno le idee chiare...
Perché la costruzione di una Europa unita possa essere autenticamente democratica, servirebbero, anzitutto, obiettivi chiari sui quali i cittadini possano discutere, salvo poi votare in modo demoCampagna della TFP francese davanti al Parlamento europeo: un deciso NO a Maastricht TRADIZIONE FAMIGLIA PROPRIETÀ / GIUGNO 2012 - 9
Attualità
Brasile: fallisce la riforma agraria
di Gregorio Vivanco Lopes
Un insediamento diventato favela rurale in Uberlandia (MG)
Una certa propaganda, e non solo di sinistra, si diletta nel denunciare ciò che ritiene sia una ingiusta distribuzione della proprietà terriera in Brasile, proponendo come soluzione una riforma agraria che spartisca i latifondi. Inutile rispondere che il Brasile ha una superficie di 8,5 milioni di chilometri quadrati (pari a 29 volte l’Italia) il 45% della quale è ancora terra vergine. Semmai c’è mancanza di proprietari, non certo di terre. Questi balbettii utopistici s’infrangono, però, di fronte ad un dato di fatto: l’evidente fallimento della riforma agraria di stampo socialista. Riproduciamo qui un breve articolo del prof. Gregorio Vivanco Lopes, della Commissione di studi agrari della TFP brasiliana.
D
agli anni 1950 il principale cavallo di battaglia della sinistra in Brasile è stato la riforma agraria, ritenuta un passo necessario verso il socialismo e il comunismo. Nel timore che l’emergere del suo vero scopo potesse provocare il dissenso dell’opinione pubblica, la sinistra mascherava le sue intenzioni presentando
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la riforma agraria come un atto in favore dei poveri. Secondo la sinistra, ripartire i latifondi in tante piccole cooperative rurali (“insediamenti”) avrebbe giovato ai contadini, che si sarebbero ritrovati proprietari di un pezzetto di terra da cui poter ricavare il sostentamento. Già all’epoca, la fallacia di questo argomento fu denunciata dal prof. Plinio Corrêa de Oliveira in numerosi libri, manifesti, articoli e interviste. Alcuni suoi interventi in merito sono poi scaturiti in campagne pubbliche della TFP brasiliana. La riforma agraria perse così il suo fascino originale, e finì per essere vista come ciò che in realtà è ed è sempre stata: l’imposizione di uno Stato socialista.
Tale imposizione era finalizzata alla demolizione della proprietà privata, basata su due comandamenti della Legge di Dio – non rubare (7°) e non desiderare la roba d’altri (10°) – che, insieme con la famiglia e con la tradizione, è la base della civiltà cristiana.
Nonostante ciò, la riforma agraria è stata sempre sostenuta da una certa sinistra di origine ecclesiastica, la cosiddetta “sinistra cattolica”, rappresentata in questo campo dalla Commissione Pastorale della Terra, organo della CNBB (Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile), affiancata
da movimenti sovversivi come il MST (Movimento dei senza terra).
Gli anni passarono e la sinistra prese il potere in Brasile, avviando diversi progetti di riforma agraria, ormai però priva del suo fascino originale. Senza questa magia, che obnubilava qualsiasi valutazione, la riforma agraria ha cominciato ad essere analizzata in base ai suoi risultati concreti, e questi si sono rivelati disastrosi.
Più recentemente, a questo quadro si è aggiunto un nuovo elemento fondamentale. Il colore della rivoluzione socialista è cambiato da rosso a verde. Il cavallo di battaglia per liquidare la proprietà privata non è più la riforma agraria quanto un certo ambientalismo. Come ubbidendo a una stessa regia, tutti i vecchi socialisti si sono riciclati in ferventi ambientalisti, a cominciare dagli alfieri della Teologia della liberazione, come l’ex frate Leonardo Boff.
Risultato: la riforma agraria è passata in secondo piano nel panorama della sinistra. Addirittura è diventato di moda segnalare il suo fallimento. Ciò non esclude che il MST continui a urlare e, ogni tanto, anche a invadere qualche proprietà rurale. Ma, da pioniere del futuro, ormai è diventato un fantasma del passato.
In questo contesto è interessante conoscere i dati recentemente presentati da un analista tutt’altro che sospetto, l’ing. Francisco Graziano Neto, già presidente dell’Incra (Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria), nonché Ministro dell’Agricoltura dello Stato di San Paolo (1). Ecco una sintesi del suo articolo. Il titoletto è mio. *
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Il peggiore fallimento del Brasile
Il Brasile ha fatto la più grande riforma agraria del mondo. Solo dal 1994 al 2011, secondo i dati dell’Incra, sono state insediate 1.176.813 famiglie, distribuite in un’area di 88 milioni di ettari. Come termine di paragone, ricordiamo che l’area coltivata in Francia è di 30 milioni di ettari.
Se ci fosse una classifica mondiale delle riforme agrarie, il Brasile sarebbe indubbiamente il vincitore per dimensione, ma l’ultimo per risultati. Detto senza giri di parole: la riforma agraria si configura come il peggiore fallimento della politica pubblica nel nostro Paese. A parte le solite eccezioni, tutti gli insediamenti sono diventati vere e proprie favela rurali.
“La riforma agraria è il peggiore fallimento della politica brasiliana”
Francisco Graziano, già presidente dell’Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria
Una ricerca fatta dall’Incra nel 2010 ha raccolto informazioni sul modo di vita, la produzione e il reddito delle famiglie che vivono negli insediamenti. I questionari sono stati completati da un campione di 16.153 beneficiari, coinvolgendo 1.164 progetti di riforma agraria. I risultati sono scioccanti. Solo il 32,6% delle abitazioni sono dotate di elettricità. Il 57% degli insediamenti non possiede strade di acceso. La sanità pubblica copre a malapena il 56% delle famiglie.
L’incapacità del governo di sostenere i nuovi produttori, insieme all’incapacità della maggior parte delle famiglie insediate, si riflette nei guadagni. Nello Stato di Ceará, il 70% dei contadini hanno un reddito annuale complessivo non superiore a due salari minimi. Con l’aggravante che il 44% di questo reddito proviene da sovvenzioni statali. Un vero disastro. Niente, però, stupisce di più gli analisti che scoprire il “buco nero” della riforma agraria: è impossibile sapere con certezza l’ammontare della TRADIZIONE FAMIGLIA PROPRIETÀ / GIUGNO 2012 - 11
Attualità
Il governo di Dilma Rousseff ha cercato in ogni modo di resuscitare il vecchio cavallo di battaglia della sinistra radicale brasiliana: la riforma agraria
A sin., una foto dell’attuale presidente del Brasile nel Tribunale di Belo Horizonte, nel 1969, accusata di terrorismo, assalto a mano armata e sequestro di persona
A dx., parte della sua fedina penale che, sotto il titolo di “terrorista/assaltante di banche”, comprende anche complicità nell’assassinio di un capitano dell’esercito
produzione agricola proveniente dagli insediamenti. Sembra incredibile, ma non ci sono dati statistici sul volume di produzione di cereali, frutta, verdure, e neanche sul bestiame, in grado di quantificare il contributo degli insediamenti alla raccolta nazionale. Sembra quasi uno scherzo.
Il fatto è che mancano, in modo più assoluto, i dati concreti che ci permettano di valutare positivamente la riforma agraria in termini di produzione. Sappiamo che l’analisi dei costi/benefici non è mai stata il forte del popolismo agrario. Come se la sem-
plice distribuzione della terra fosse un passaporto per la felicità eterna. *
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Fin qui, l’articolo dell’ingegner Graziano.
Vista questa situazione, non sorprende che la maggior parte dei contadini insediati vendano il loro pezzetto di terra appena possibile e a qualsiasi prezzo. O semplicemente lo abbandonino. Questo si ripercuote nel calo di militanza all’interno del MST. Di fronte all’evidente fallimento degli insediamenti, i contadini non se la sentono più di essere raggirati dalla demagogia socialista. È quanto constata con rammarico il principale leader del MST, il marxista João Pedro Stedile, che dichiara al quotidiano O Estado de S. Paolo (16-04-12): “Siamo in un periodo di declino storico del movimento di massa e di mancanza di cambiamenti strutturali. Questo incide sulla nostra capacità di mobilitazione, sia nelle campagne sia nelle città. L’ultimo sciopero generale risale al 1988”.
Di fronte a questo evidente fallimento della riforma agraria, finora presentata, specie dalla “sinistra cattolica”, come una panacea universale per tutti i mali del Brasile, non possiamo non rendere omaggio a colui che, sin dall’inizio, ha saputo scorgere il problema in profondità, denunciandolo pubblica-
“Di fronte all’evidente fallimento della riforma agraria non possiamo non rendere omaggio a colui che, sin dall’inizio, ha saputo scorgere il problema in profondità, denunciandolo pubblicamente: Plinio Corrêa de Oliveira. A lui il Brasile deve molto”
A sin., il leader cattolico tiene una conferenza sulla riforma agraria all’Università di Belo Horizonte nel 1962 12 - TRADIZIONE FAMIGLIA PROPRIETÀ / GIUGNO 2012
Un commento ai commenti
“L
A proposito della Marcia per la Vita adran Sancho, señal che cabalgamos - Ci abbaiano, Sancho, vuol dire che cavalchiamo”.
Questa frase, attribuita a Don Chisciotte della Mancia, svela una grande verità: il successo di un’impresa si può misurare non solo dall’importanza dei risultati ottenuti, ma anche dalla reazione che suscita tra gli avversari. Anche in questo senso, l’esito della Marcia per la Vita tenutasi a Roma lo scorso 13 maggio, giorno della Madonna di Fatima, ha superato le previsioni più ottimistiche.
sia”; ed altri siti comunisti che hanno apostrofato così i manifestanti “integralisti, negazionisti, razzisti e omofobi”, la reazione della sinistra è stata mordace e compatta.
Questa reazione è comprensibile. In fondo la Marcia rappresentava l’esatto opposto, in termini morali, culturali e politici, agli aneliti della sinistra. Meno comprensibile, invece, la reazione di certi ambienti cattolici.
Una reazione al limite del surreale
Il putiferio che ha scatenato la Marcia per la Vita ha toccato picchi quasi surreali. Dall’Unità, che ha raccolto le accuse di “neofascismo, omofobia e antisemitismo” lanciate da esponenti del PD; a La Repubblica, che invece si è fermata a “fondamentalismo” e “neofascismo”; al segretario del PSI di Roma, Atlantide Di Tommaso, che ha inveito contro le “frange dell’estremismo di destra di funesta memoria”; fino al giornale comunista online Contropiano.org, che l’ha chiamata “marcia dell’ipocri-
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Attualità
Una legge DC
Senza voler giudicare le intenzioni, un sospetto, però, ci viene in mente.
Da noi esiste una sostanziale “anomalia” tutta italiana. Mentre negli altri Paesi — a cominciare dall’URSS nel 1923 — la legge sull’aborto è stata votata dalla sinistra, in Italia essa è creatura della Democrazia Cristiana.
Si va da alcune testate cattoliche che hanno contestato l’opportunità politica della Marcia, fino all’allucinante intervento di Paolo Sorbi, l’ex-comunista riciclatosi presidente del Movimento ambrosiano per la vita. Su ilSussidiario.net, un quotidiano online di area CL, Sorbi si è scagliato contro “questa marcia strumentale, settaria, con un retroterra culturale fortemente inficiato da forze che non hanno niente a che vedere con la cultura della vita e che hanno matrici di carattere neopagano”. Un commento talmente scomposto che è stato subito cancellato dal sito, non però prima che migliaia di persone lo leggessero e lo facessero circolare.
“Chi tocca la 194 muore — commentava giustamente il prof. Roberto de Mattei — Non di morte fisica come i cinque milioni di bambini vittime, dal 1978, di quella legge; ma di morte mediatica inflitta attraverso le accuse di «fascismo», «omofobia», «integralismo anticonciliare», e così via”. La domanda sorge spontanea: perché questa “condanna a morte” per gli oppositori della 194?
“Una prima avvisaglia del tradimento dello Scudo crociato — scrive Mario Palmaro — si era già avuta il 26 febbraio 1976, quando il gruppo DC alla Camera votò insieme al PCI contro l’eccezione di incostituzionalità alla legge abortista. Nell’estate del 1976 sarà sempre un governo a guida democristiana (l’Andreotti Terzo) ad autorizzare in via straordinaria aborti eugenetici per le donne colpite dalla nube tossica di diossina a Seveso, nei pressi di Milano”.
Durante il dibattito in Parlamento, dove pure esisteva una maggioranza antiabortista, la DC rifiutò ostinatamente i voti del MSI, respingendo anche ogni forma di ostruzionismo. Giunta alla votazione del 21 gennaio del 1977, la legge è passata con 310 voti a favore e 296 contro. L’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti scrisse quel giorno nel suo Diario. “Mi sono posto il problema della controfirma a questa legge (...) Ma se mi rifiutassi non solo apriremmo una crisi appena dopo aver appena cominciato a turare le falle ma (...) la DC perderebbe anche la presidenza e sarebbe davvero più grave”. In altre parole, la perdita della presidenza di un Governo veniva considerata più grave della responsabilità morale di sottoscrivere una legge che, decretando la sentenza di morte per l’innocente, calpestava gravemente la legge divina.
Quando venne pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 22 maggio 1978, la legge portava in calce la firma di cinque politici della DC, a cominciare dallo stesso Andreotti. Il Capo dello Stato, anch’esso democristiano, Giovanni Leone, avrebbe potuto rimandare la legge 194 alle Camere per sospetta incostituzionalità. Invece la firmò dopo solo quattro giorni. In seguito, il governo Andreotti giunse ad assumere ufficialmente la responsabilità di difendere la legge abortista di fronte alla Corte Costituzionale, dove era stata sollevata l’eccezione. A sin., la Marcia per la Vita di Roma Pagina a dx., il presidente Giulio Andreotti, firmatario della Legge 194
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L
La 194: una legge da abolire
’appoggio “cattolico” alla 194 si fonda su un sofisma.
Secondo questo sofisma, la 194 conterrebbe alcuni aspetti positivi che, però, non sono stati mai attuati. In altre parole, sarebbe una legge buona applicata male. Invece di chiederne l’abolizione, dovremmo batterci per la sua applicazione integrale.
Questo è un tranello che bisogna assolutamente fugare.
Nella normativa legale precedente alla 194, l’aborto in Italia non era consentito, anzi veniva sanzionato dalle norme contenute nel titolo X del libro II del Codice Penale, che prevedeva la reclusione da due a cinque anni per chiunque cagionasse l’aborto di una donna consenziente. Nel caso di donna non consenziente, la pena saliva da sette a quindici anni. Tuttavia, alla luce dell’articolo 54 dello stesso Codice, venivano contemplate alcune eccezioni, quale per esempio ‘salvare la vita della gestante’. La 194 capovolge questa concezione giuridica, ritenendo l’aborto un atto di per sé legale, salvo poi applicare qualche restrizione. La 194 sud-
divide in modo del tutto arbitrario la vita intrauterina in tre periodi, fissando per ciascuno di essi una differente disciplina e avendo come esclusivo criterio di riferimento i rischi per la salute della donna, senza il benché minimo accenno ai diritti del nascituro, al quale viene pertanto negata la condizione di persona. Ecco l’intrinseca malvagità di questa legge. Secondo la morale cattolica, nell’impossibilità di ottenere il bene perfetto, è lecito scegliere un male minore, purché — ed ecco la sfumatura fondamentale — si dichiari trattarsi d’una scelta non perfetta in attesa di tempi migliori. Nel caso in questione sarebbe dunque moralmente lecito auspicare: “Come primo passo, vediamo pure di migliorare la 194, applicandola bene, fermo restando che noi, come cattolici, puntiamo alla sua abolizione e ci batteremo in questo senso”. Volontà — essenziale per la moralità dell’atto — che manca in molti cattolici “moderati” o “adulti”. E allora la scelta diventa immorale: non si può assolutamente accettare tout court la 194 come buona.
Cedere, cedere, cedere...
La 194 va abolita. Punto
Questa linea della DC era, inoltre, spalleggiata da ambienti ecclesiastici che con essa condividevano non solo l’ispirazione dottrinale di matrice murriana, ma anche la sua concreta e capillare influenza nazionale, costruita in mezzo secolo di virtuale egemonia politica. Insomma, se non un vero e proprio regime, almeno un “sistema” collaudato che, a loro giudizio, non doveva essere messo a rischio. Già in occasione del referendum sull’aborto del 1981, mentre l’Alleanza per la Vita — una coalizione di movimenti antiabortisti con la quale la TFP collaborava — si opponeva sic et sempliciter all’aborto e, quindi, proponeva l’abrogazione della Legge 194, questi settori ecclesiastici sostenevano invece il neonato Movimento per la Vita, che aveva presentato due quesiti referendari volutamente minimalisti. Oltre a seminare la confusione nelle fila cattoliche, le proposte del MpV
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Attualità
In questo senso, la legge sull’aborto nel 1978, come prima quella sul divorzio nel 1970, non è stata un incidente di percorso, bensì un tassello imprescindibile nel disegno storico di scristianizzare l’Italia.
Segni dei tempi
La vecchia DC è morta, vittima di Mani Pulite. Il “sistema” non c’è più. Anche a livello ecclesiastico la situazione è alquanto mutata. La tendenza cedevole di certi cattolici continua, però, imperturbabile... Ed essa si manifesta in modo quasi paradigmatico nel campo dell’azione per la vita.
erano state giudicate da eminenti teologi romani moralmente inaccettabili.
Allora come adesso, al coro delle critiche comuniste, socialiste e radicali all’Alleanza per la Vita, si sommò anche certa stampa cattolica. In un articolo a firma di Pier Giorgio Liverani, per esempio, Avvenire liquidava l’iniziativa antiabortista come “di destra” e “lefebvriana” (sic).
Insomma, già a quel tempo il cri de guerre era “la 194 non si tocca!”.
Questo atteggiamento scaturiva non solo da calcoli politici congiunturali — non si voleva far saltare il “sistema” — quanto soprattutto dalla stessa natura della DC, un “centro che guarda a sinistra”, nella celebre definizione degasperiana. Un centro sinistrogiro che, all’ideale di restaurazione cristiana proposto da Papa Pio XII, aveva contrapposto quello della laicizzazione dell’Italia, a pretesto di “modernizzarla”.
Alle molteplici e lodevoli iniziative in favore della maternità e della vita nascitura, come ad esempio i CAV (Centri di Aiuto alla Vita), si aggiunge, in alcuni ambienti, una cocciuta opposizione a qualsiasi iniziativa che intenda impedire la pratica dell’aborto, abolendo la 194 e, quindi, tornando alla normativa legale precedente. Insomma, secondo questi ambienti, si può difendere la vita purché ci si resti all’interno di certi parametri che non intacchino la modernità laicista.
Da ciò scaturisce la loro contrarietà all’idea d’una Marcia per la Vita in Italia. Chi scrive ha avuto più d’una discussione con i vertici del MpV, che escludevano a priori una tale prospettiva, preferendo invece una pacata azione politica. Punto! Nyet! In Italia non si marcia! E, intanto, la 194 continua a mietere vittime... Ora, sarebbe proprio il caso che queste persone si guardassero un po’ intorno. Dappertutto, da Washington a Parigi a Varsavia a Bruxelles, passando per Madrid, Budapest e Lisbona, ormai il popolo della vita si sta svegliando e sta cominciando a far sentire la sua voce, attraverso le “Marce per la Vita” che costituiscono la nuova frontiera dell’azione pro life. Finora, l’Italia è stata la “maglia nera” del movimento internazionale in difesa della vita. Ora non più.
La Marcia per la Vita è un’idea il cui tempo è giunto. L’enorme successo della Marcia a Roma, lo scorso 13 maggio, mostra come essa abbia toccato una fibra molto profonda dell’anima pro life nazioSopra, parte della delegazione della TFP che ha partecipato alla Marcia Sotto, i Frati Francescani dell’Immacolata 16 - TRADIZIONE FAMIGLIA PROPRIETÀ / GIUGNO 2012
Breve trattato sul simbolismo
Il pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira
di Plinio Corrêa de Oliveira
Nel numero di giugno 2009 abbiamo pubblicato un saggio sulla “Via Pulchritudinis”, ovvero la “Via della Bellezza”, con riflessioni del prof. Plinio Corrêa de Oliveira riguardo alla contemplazione sacrale dell’ordine dell’universo. Sacrale in quanto ci conduce, di perfezione in perfezione, fino all’Assoluto, cioè a Dio. Cammino privilegiato di evangelizzazione nei giorni nostri, secondo quanto afferma un documento del Pontificio Consiglio della Cultura, l’apostolato della bellezza era un tema ricorrente nel pensiero e nell’azione del leader cattolico brasiliano. Riportiamo qui oggi alcune annotazioni raccolte durante una conversazione informale del prof. Plinio Corrêa de Oliveira nel corso di una cena il 6 gennaio 1988. Senza revisione dell’autore. I sottotitoli sono redazionali)
Burg Hohenzollern, presso Stoccarda TRADIZIONE FAMIGLIA PROPRIETÀ / GIUGNO 2012 - 17
L’
Il pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira uomo è fatto di anima e corpo, ovvero un elemento angelico ed uno animale. L’uomo è una sorta di centauro. Non un cavallo con tronco e testa di uomo, ma un essere corporale con un’anima spirituale analoga a quella dell’angelo. E ciò determina il suo modo di conoscere le cose.
L’uomo conosce con i sensi
L’angelo conosce le cose senza la necessità di un contatto materiale con l’oggetto. Anzi, la materia per lui non ha senso. L’uomo, invece, è fatto in modo tale che, per conoscere interamente un oggetto, ha bisogno di un certo contatto materiale con esso. Altrimenti non può conoscerlo nella sua interezza.
Perciò, nella Sua sapienza Dio ha disposto che nell’universo vi siano oggetti materiali che, per analogia, per somiglianza, consentono all’uomo di conoscere meglio le cose dello spirito. In altre parole, oggetti che gli permettano di conoscere con i sensi corporali ciò che il suo spirito forse ha già intuito, ma non è ancora riuscito ad afferrare per intero.
Vi faccio un esempio. Immaginiamo che, per il bene della causa cattolica, convenga fare un corso di angelologia. Ingaggiamo, perciò, un grande teologo,
di intelligenza brillante e ortodossia perfetta. Egli viene a San Paolo e tiene per noi lezioni teoriche di altissimo livello. Immaginiamo di applicarci con la massima diligenza allo studio. Alla fine del corso, dovremmo sapere tutto sugli angeli: la loro esistenza, la loro natura, le loro operazioni, la gerarchia angelica e via dicendo. La nostra conoscenza sugli angeli sarebbe, dal punto di vista teorico, perfetta.
Supponiamo, però, che il nostro teologo chiuda il corso annunciando un evento straordinario: “Cari allievi, ora vi offrirò un vero dono del Cielo. Ho pregato molto durante le Sante Messe, ho fatto una Novena alla Madonna, ed ho ottenuto da Lei una grazia insigne: alla fine di questa lezione, vi apparirà un angelo!” Non è forse vero che questo contatto sensibile con l’angelo completerebbe la nostra conoscenza del mondo angelico? Anzi, credo che il buon teologo non riuscirebbe nemmeno a terminare la lezione, tale sarebbe la nostra trepidazione per vedere, alla fine, l’angelo... Perché?
Perché conoscendo l’oggetto attraverso i sensi corporali, tutto il nostro essere si aggiusta a quella conoscenza che, fino a poco tempo prima, era solo intellettuale. Si stabilisce un’armonia interiore per la quale la conoscenza spirituale viene completata con quella sensibile. Senza l’aspetto sensibile, la conoscenza sarebbe comunque sempre parziale, visto che siamo fatti di spirito e materia. Ci sarebbe uno squilibrio.
“Tu non potrai vedere il mio volto...”
Facciamo un esempio estremo: la conoscenza di Dio.
Fra tutti i bisogni dell’uomo, il più forte è quello di conoscere Dio. Tuttavia Dio non può mostrarSi all’uomo. Mosè — definito dallo storico Cesare Cantù “l’uomo più grande della storia, poiché Gesù Cristo era Dio” — aveva parlato varie volte con Dio ed era stato nella Sua intimità sul monte Sinai. Ma, il bisogno umano di stabilire un contatto sensibile che completi quello spirituale è tale che, a un certo Fra tutti i bisogni dell’uomo, il più forte è quello di conoscere Dio A sin., Dieric Bouts il Vecchio, Mosè davanti al roveto ardente (1465-1470), Museum of Art, Philadelphia 18 - TRADIZIONE FAMIGLIA PROPRIETÀ / GIUGNO 2012
Dio ha creato il leone in modo tale che, certi suoi atteggiamenti e movimenti sono analoghi, in chiave animale, agli atteggiamenti e movimenti che avrebbe un uomo se fosse un eroe. Carlo Magno, per esempio, aveva molto di “leonino”. (Sopra, testa di Carlo Magno della nave Réal de France, 1694)
punto, persino Mosè desiderava vederNe il volto. Gli chiese dunque di mostrarSi.
Risposta di Dio: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. Ciò nonostante, per misericordia, Egli permise a Mosè di vederLo “di spalle” perché “il mio volto non lo si può vedere”.
La grandezza di Dio è tale che, se Lo vedessimo faccia a faccia, ci disintegreremmo ipso facto. Ed ecco un’apparente contraddizione nell’opera di Dio. Da una parte abbiamo il fortissimo bisogno di conoscerLo ma, dall’altra, siamo parzialmente impossibilitati a conoscerLo. Come si risolve quest’apparente contraddizione?
Il ruolo dei simboli
Con la Sua divina sapienza Dio ha disposto, in modo meraviglioso, che, pur non vedendoLo, i nostri sensi corporali possano comunque averne una certa conoscenza. Questo è il ruolo dei simboli.
Cos’è un simbolo? È una creatura di Dio che ci permette di conoscere le realtà spirituali, le realtà soprannaturali, le realtà angeliche e Dio stesso attraverso i nostri sensi, in modo da coinvolgere tutto il nostro essere, anima e corpo. In questo modo, la nostra sensibilità accompagna il nostro intelletto. Analizziamo, per esempio, l’eroismo, un elemento della fortezza, una delle quattro virtù cardinali.
Una persona può possedere tutte le nozioni teoriche sull’eroismo, nonché tutti i risvolti filosofici, teologici e morali collegati a questa virtù. Ma è, o non è vero, che la sua conoscenza dell’eroismo potrà essere arricchita e completata quando vedrà un leone?
È facile capire come, conoscendo un uomo eroico, si possa ammirarlo e, in questo modo, acquisire nozioni sull’eroismo. Questo si comprende. Ma come si può recepire tutto questo attraverso un animale, cioè un essere di natura inferiore, un essere irrazionale? Dio ha creato il leone in modo tale che, certi suoi atteggiamenti e movimenti sono analoghi, in chiave animale, agli atteggiamenti e movimenti che avrebbe un uomo se fosse un eroe.
Carlo Magno, per esempio, aveva molto di “leonino”. Vedendo un leone noi, che non abbiamo conosciuto il grande imperatore carolingio, possiamo acquisire una conoscenza, attraverso i nostri sensi, di alcuni aspetti eroici della sua anima che, forse, avevamo già nell’intelligenza, ma che sono completati con la conoscenza sensibile. Da questo punto di vista, il leone è un simbolo che, per una misteriosa somiglianza con alcuni tratti dell’anima umana, ci permette di conoscere meglio i suoi aspetti “leonini” e, quindi, di capire meglio la virtù cardinale della fortezza.
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Il pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira
Immaginiamo di entrare in una cattedrale romanica o gotica. Non è vero che, in tali circostanze, possiamo avvertire qualcosa di soprannaturale? In concomitanza con le impressioni sensibili, Dio permette all’uomo di cogliere qualcosa di soprannaturale analogo a ciò che i suoi sensi stanno percependo. (Sopra, Holy Rosary Cathedral, Toledo, Ohio)
Anche l’aquila è un simbolo. Contemplandola possiamo farci un’idea dell’audacia, un’audacia piena di fierezza che non si ferma davanti a interessi meschini, ma vola molto alto. Il volo dell’aquila ricorda certe gesta di uomini audaci. L’uomo “aquilino” non vola, ma il volo dell’aquila può farci conoscere meglio, attraverso i sensi, alcuni aspetti della sua anima.
Simboli e grazia divina
Questi che abbiamo menzionato finora sono simboli naturali. Ma possiamo prendere in considerazione anche alcuni simboli che ci permettono di toccare già nel soprannaturale. Per un fenomeno che non esito a definire mistico (non si tratta, chiaramente, della “grande” mistica dei santi contemplativi), Dio può esercitare su un’anima che ammira, per esempio, una vetrata gotica, un’azione che la elevi fino al soprannaturale.
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Immaginiamo di entrare in una cattedrale gotica, in quella, ad esempio, di Bourges nel Belgio. La chiesa è vuota, silenziosa, raccolta, tutta illuminata dagli sfavillanti raggi del sole che, filtrando dalle vetrate, disegnano giochi di luce e colore sul pavimento, rendendolo simile ad un tappeto di pietre preziose... Ad un tratto, il maestro comincia a suonare l’organo. L’eco delle note musicali risuona tra le enormi volte, invade la navata. Così, alla sensibilità visuale delle forme e dei colori, si somma quella uditiva della musica. Non è vero che, in tali circostanze, possiamo avvertire qualcosa di soprannaturale? È un’azione della grazia per la quale la persona comprende, quasi, direi, “sente” la misteriosa analogia fra quelle forme, quei colori, quei suoni e alcuni elementi del mondo soprannaturale. In altre parole, in concomitanza con le impressioni sensibili, Dio permette all’uomo di cogliere qualcosa di soprannaturale analogo a ciò che i suoi sensi stanno percependo.
L’uomo può avere l’impressione che siano le cose sensibili che determinano quella conoscenza. Ma la fede gli dice che è la grazia divina.
Cos’è la grazia? La grazia è una partecipazione creata nella vita increata di Dio. Attraverso la grazia, la nostra intelligenza può cogliere, in modo fugace, qualcosa dello stesso lumen divino. In questo senso, le forme architettoniche, i colori, i suoni, possono servire all’uomo da strumenti per conoscere qualcosa di Dio stesso. Sono, appunto, simboli.
Ricordo un episodio che ho letto in un libro di memorie. Al tempo in cui Venezia faceva parte dell’Impero austro-ungarico, durante un ballo di gala un diplomatico austriaco si rivolse a un nobile veneziano e, con tono giocoso, esclamò: “Che strano il vostro Paese dove i leoni hanno ali!”. Senza scomporsi, il gentiluomo rispose per le rime: “Non più strano di quel Paese dove le aquile hanno due teste...”
L’araldica
È per questo che possiamo comprendere e apprezzare certi simboli dell’araldica, che di per sé sarebbero mostruosi. Io non conosco un simbolo araldico più bello dell’aquila bicipite. Un’aquila con un solo corpo e due teste sarebbe, di per sé, un mostro. Se da un uovo di aquila spuntasse un pulcino con due teste, sarebbe subito portato in qualche istituto di anatomia patologica...
I simboli sorvolano la realtà concreta, rivelando valori metafisici superiori. Ai simboli si permettono certe audacie che, invece, non si addicono alla realtà concreta
Ebbene, questo essere che, in natura, sarebbe certo mostruoso, è il simbolo della Casa Imperiale e Reale d’AustriaUngheria. Una cosa bellissima! L’aquila bicipite nello stemma degli Asburgo non suscita repulsione. Anzi, esprime la nobiltà e l’universalità del potere della dinastia asburgica, un potere tale che una sola testa non basta per portare la corona.
Stesso commento per il leone alato. Il leone non vola, è pesante. Per volare avrebbe bisogno di ali di dimensioni inimmaginabili. Una mostruosità. Ebbene, uno dei più bei simboli araldici è il leone alato della Serenissima Repubblica di Venezia.
In realtà, i due scherzavano, nel modo raffinato consono ai salotti nobiliari, sul fatto che i simboli dei loro rispettivi Paesi sono, dal punto di vista naturale, un’assurdità. Ma, i simboli, essendo tali, sorvolano la realtà concreta, rivelando valori metafisici superiori. Ai simboli si permettono certe audacie che, invece, non si addicono alla realtà concreta.
Ancora un esempio: il giglio dorato dei Borbone, chiamato in araldica fiordaliso. Io non credo che esista in natura un giglio dorato. Non ne ho mai sentito parlare. Eppure, il giglio dorato su sfondo blu è il simbolo della monarchia francese. Un simbolo per il quale tanti francesi hanno sacrificato la propria vita.
Se un tale esclamasse: “Ma che strano, un giglio dorato! Non ne ho mai visto uno! I gigli dorati non esistono!” - risponderei “Mio caro, Lei non ha capito proprio niente...”
Giungiamo così alla conclusione che i simboli, pur appartenendo perfettamente al mondo reale, rimettono a una sfera superiore. Il simbolo avrà tanto più valore quanto più rimetta a tale sfera. Il ruolo del simbolo è di offrire alla sensibilità la chiave per comprendere il mondo spirituale. TRADIZIONE FAMIGLIA PROPRIETÀ / GIUGNO 2012 - 21
Il pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira Possiamo affermare che la finalità più alta dell’arte è far sì che le cose esprimano questo “imponderabile”. Da qui il mio gusto per alcune scuole impressioniste. L’impressionismo mostra la realtà non come si presenta ai sensi, ma avvolta in una sorta di nebbia. L’impressionismo mostra più la simbologia delle cose che non la loro realtà. Immaginiamo un castello gotico arroccato sulla cima di un altissimo monte. È bello. Immaginiamolo adesso avvolto nella bruma. È ancor più bello. La bruma fa risaltare il suo aspetto leggendario, favoloso, quasi irreale. La bruma invita la fantasia ad aggiungere qualcosa alla realtà del castello.
Simbolismo e ragione
Io ritengo che la sensibilità ai simboli sia un’eccellenza dello spirito. Ma reputo un’eccellenza ancor superiore l’avere uno spirito sensibile ai simboli e, tuttavia, capace di farne a meno. Vi faccio un esempio. Immaginate un esercito in battaglia, quale, ad esempio, quello di Goffredo di Buglione nella prima Crociata. Egli, con impeto incontenibile, incita i suoi soldati a caricare. Nella mischia l’avversario s’impadronisce del gonfalone, lo calpesta e lo brucia davanti agli occhi di tutti.
L’esercito può reagire in due modi. Accendersi ancor più di sacro furore, a prescindere dal simbolo vilipeso, e assalire il nemico con maggiore veemenza fino alla vittoria finale. Oppure davanti alla perdita del vessillo, farsi prendere dallo sgomento e indietreggiare. Quale esercito è superiore? Evidentemente il primo. Così deve essere l’uomo: sensibile ai simboli ma, allo stesso tempo, non fare di questa sensibilità un fattore risolutivo.
La TFP, come credo e mi auspico sia, apprezza molto i simboli e se ne serve abbondantemente. Però, se per qualche motivo essi venissero a mancare, la TFP diventerebbe il simbolo di se stessa, continuando ad avanzare imperterrita!
Qualcuno potrebbe obiettare: se i simboli sono dispensabili, perché complicarsi la vita con essi? Non converrebbe piuttosto puntare tutto sulla formazione strettamente intellettuale e abbandonare i simboli? 22 - TRADIZIONE FAMIGLIA PROPRIETÀ / GIUGNO 2012
Esattamente il contrario. Il simbolo aiuta la sensibilità a elevarsi fino alle vette dove l’intelletto è già arrivato con la ragione e, soprattutto, con la Fede. È così che l’uomo, anima e corpo, trova l’equilibro. Non può fare a meno dei simboli un uomo che, prima, non se ne sia servito abbondantemente.
Altri potrebbero controbattere: riconosciamo l’importanza del simbolo per la conoscenza totale dell’uomo, ma una volta assolta la sua funzione, cioè aiutare la sensibilità a unirsi all’intelletto, possiamo dispensarlo?
Nemmeno in questo caso. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole. Può darsi che un uomo molto coraggioso pensi di non avere bisogno dei simboli. Ma ci sono momenti in cui il pericolo è tale che egli comincia, istintivamente, ad aver paura. L’istinto di conservazione è troppo forte. Nella ribellione contro gli istinti, un simbolo può essere un potente aiuto. Ancora un’obiezione: Ma c’è la grazia divina. Dunque il simbolo diviene dispensabile.
Piano, piano. La grazia supplisce quando mancano i simboli. Ma, avendo la possibilità di usare simboli, messi alla sua portata dalla Divina Provvidenza, l’uomo dovrebbe servirsene per il suo bene. D’altronde, col supporto dei simboli, l’azione della grazia è molto più possente e dinamica. Dio ci ha dato la possibilità di praticare l’eroismo attraverso l’azione congiunta della preghiera, che ci ottiene la grazia divina, e dell’intelletto, ma non ci esonera dal servirci dei simboli che ha messo a nostra disposizione per il nostro bene spirituale.
I simboli nella TFP
È chiaro quindi perché la formazione nella TFP dovrebbe essere intensamente simbolica. L’entusiasmo collettivo suscitato dalle nostre cerimonie — per esempio, la solenne Messa celebrata in occasione del Natale appena trascorso [1987] — è dovuto in larga misura all’uso dei simboli. In tutte le nostre manifestazioni essi sono presenti. E la nostra sensibilità, devastata da milioni di simboli cattivi con cui la Rivoluzione ci bombarda ogni giorno, viene ripulita, quasi come se le cerimonie fossero un detergente spirituale. Le cerimonie disintossicano l’anima dall’azione malefica della Rivoluzione e ristabiliscono l’equilibrio.
“La formazione nella TFP dovrebbe essere intensamente simbolica. Sono convinto che le TFP dovrebbero, beninteso senza eccessi, moltiplicare i loro simboli” Nella foto, gli stendardi delle TFP europee sventolano sul Danubio, nei pressi di Linz, Austria, in occasione d’una Accademia Estiva
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Il pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira Ecco perché sono convinto che le TFP dovrebbero, beninteso senza eccessi, moltiplicare i loro simboli.
In quest’ottica va altresì considerata la cortesia abituale che contraddistingue le TFP. Noi ci diamo del “Lei” e siamo nei confronti del prossimo molto cerimoniosi.
Qualcuno potrebbe replicare: ma cosa cambierebbe se cominciassimo a darci del “tu”?
Rispondo: cambierebbe il valore simbolico. Il “Lei” è una parola simbolica che induce la persona a collocarsi, nei confronti dell’altro, in una posizione di apprezzamento del suo lato più elevato. Due fratelli, sin da piccoli, si danno naturalmente del “tu”, un’abitudine che traduce la legittima uguaglianza che esiste tra fratelli. Ma se entrambi diventano, poi, sacerdoti, il loro passato di intimità viene superato dalla nuova condizione, molto più nobile. Quegli stessi bambini, che giocavano insieme ai soldatini di piombo, sono stati chiamati dalla grazia a servire Dio in modo molto speciale.
È come se Dio parlasse loro: “Figli miei, Io vi ho scelto per servirmi nel sacerdozio, deviando il corso naturale delle vostre vite. Dovete abbandonare le piccole prospettive delle vostre vite passate e camminare invece su quelle dell’eroismo e dello splendore. Voi adesso siete Miei!”
Cosa analoga succede nella TFP. Se due fratelli entrano nella TFP, accedendo dunque a uno stile di vita di dedizione e di eroismo nella lotta contro la Rivoluzione, è logico che il loro comportamento debba rispecchiare la stima per la nuova situazione dell’uno e dell’altro. E, quindi, usano il “Lei” per esprimere reciproco rispetto.
Un altro esempio. Immaginiamo due principi fratelli che ereditano il trono di due diversi Paesi. Essi non possono più chiamarsi con i nomignoli che usavano quando erano bambini. In un discorso pubblico, per esempio, uno non potrebbe assolutamente rivolgersi all’altro come “mio caro Peppino...” Dovrà chiamarlo “Altezza Reale”. E viceversa.
Qualcuno dirà: Ma questo è il modo in cui un suddito si rivolge al Re. Il fratello del Re, invece, non ha bisogno di queste formule di cortesia poiché è uguale in dignità. Invece ne ha proprio bisogno! Proprio perché l’uguaglianza fra i due rischierebbe di non far risaltare la dignità della carica occupata dall’altro, entrambi i fratelli devono usare formule che esprimano questo rispetto. 24 - TRADIZIONE FAMIGLIA PROPRIETÀ / GIUGNO 2012
Alla luce di queste considerazioni si comprendono tutt’una serie di usanze nelle TFP. Per esempio, il modo di inginocchiarsi e di pregare il Santo Rosario: deciso, militante. Un modo che sembra dire: Io sono cattolico, apostolico, romano! E me ne vanto!
Non meno emblematico è il nostro modo di salutarci: Salve Maria! Questo saluto è stato introdotto da me, quando ero leader delle Congregazioni Mariane [negli anni 1930]. Quando ci incontriamo, noi non ci diciamo “Buon giorno” o “Buona sera”, ma “Salve Maria!”. Questo saluto intende sottolineare la nostra primordiale appartenenza alla Madonna. Se noi ci incontriamo per pregare, per pranzare o per lavorare, ci salutiamo “Salve Maria!” per indicare che facciamo tutto ciò per la gloria di Nostra Signora.
“Beati i puri di cuore”
Esiste, poi, un rapporto molto intimo fra la purezza e la sensibilità ai simboli. Vi ricordate della beatitudine “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”?
Questa beatitudine implica una promessa: i puri di cuore vedranno Dio. E questo si può realizzare già su questa terra. Il puro di cuore diventa molto sensibile ai simboli, che gli permettono di elevarsi a Dio. Egli approfitta abbondantemente dei simboli che Dio ha messo a sua disposizione sulla terra.
Il puro di cuore è dotato, inoltre, un certo discernimento dello spirito per cui è capace di vedere la virtù nelle altre persone, ravvisandovi il soprannaturale, proprio perché “vede Dio”. Cioè, egli “vede Dio” simboleggiato in quella virtù. Egli discerne la grazia che è una partecipazione nella vita di Dio. Questa purezza di cuore produce la castità.
Fra tutti i difetti dell’uomo, l’impurezza è quella che più lo avvilisce perché colloca la sua intelligenza al di sotto della sua sensibilità, degradandolo a una condizione quasi animalesca.
L’impurezza impedisce all’uomo di “vedere Dio”. L’uomo impuro insegue soltanto i godimenti della carne, perde interesse per le cose più elevate e può addirittura diventare insensibile alla grazia divina.
Dio non smette mai di bussare al cuore di un peccatore. Ma se questi se ne infischia, al punto da diventare insensibile a questo appello?
Pr eg h i er a pe r c h i ed e re il d on o d e ll ’ ol o c au s t o i n co n d iz i on a l e di Plinio Corrêa de Oliveira
oncedeteci, Madre e Signora nostra che, alla stregua del guerriero che non sceglie il teatro di battaglia, ed è disposto a fare, in qualsiasi campo, olocausto della propria vita, così pure noi sappiamo lottare contro i nemici, velati o dichiarati, del Vostro nome e della Santa Chiesa, ovunque siamo mandati, tanto nell’anonimato quanto nella gloria, tanto nell’eroismo invisibile e come che impalpabile dell’esistenza prosaica di ogni giorno, quanto nelle tragiche circostanze degli avvenimenti che il Vostro messaggio di Fatima preannunzia. Noi Vi imploriamo questa grazia come un favore di cui non siamo degni, e se non fremiamo dinanzi a tutto ciò che essa significa, e perché sappiamo di poter confidare, con illimitata fiducia, nel Vostro Cuore Immacolato, forza dei deboli, speranza degli indifesi, rifugio e consolazione dolcissima degli umili.
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Così sia.
(Per recitazione privata)
La Torre di Davide a Gerusalemme TRADIZIONE FAMIGLIA PROPRIETÀ / GIUGNO 2012 - 25
Il mondo delle TFP
Pellegrinaggio a Treviri
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Il corteo passa davanti a Porta Nigra
l Duomo di Treviri, in Germania, custodisce una delle più preziose reliquie della Cristianità: la Sacra Tunica. Si tratta della tunica che indossava Nostro Signore Gesù Cristo al momento della crocefissione. Nel 2012 la Chiesa ha indetto un’ostensione straordinaria. Sabato 21 aprile era riservato ai fedeli che prediligono il rito romano antico, ai sensi del Motu Proprio Ecclesia Dei, promulgato da Giovanni Paolo. Quasi tremila per-
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sone, tra cui un centinaio di soci e cooperatori delle TFP europee, hanno presso parte a questo evento.
La giornata è cominciata con una solenne Messa pontificale in rito tridentino celebrata da S.Em. il Cardinale Walter Brandmüller, Presidente Emerito del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, nella Imperiale Basilica di S. Massimino. Presente nel presbiterio il vescovo diocesano, Mons. Ackermann, che ha rivolto un saluto ai pellegrini.
Dopo la Messa i fedeli hanno formato un lungo corteo che, snodandosi per le vie del centro storico di Treviri, ha raggiunto il Duomo dove si è svolta la venerazione della Sacra Tunica. Alla fine, si è cantato il Tantum Ergo secondo la tradizione tedesca, vale a dire con la musica originale di Haydn successivamente trasformata (con un testo diverso) nell’inno nazionale tedesco. Alle strofe in onore al Santissimo Sacramento ne seguono alcune dedicate alla Tunica: “Pange lingua ter sacratae, Tunicae praeconia, Deitatis incarnatae, Quae velavit viscera”, ecc. Nel pomeriggio, di nuovo nella Basilica di S. Massimino, i Vespri Solenni hanno concluso questa splendida giornata di fede.
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Roma: TFP partecipa alla Marcia per la Vita
nsieme ad altre centocinquanta associazioni, la TFP italiana ha partecipato alla Marcia per la Vita tenutasi a Roma lo scorso 13 maggio, giorno della Madonna di Fatima. Sotto un sole sfavillante, presagio di grandi vittorie in difesa dei “principi non negoziabili”, oltre 15mila persone hanno sfilato dal Colosseo fino a Castel Sant’Angelo. Alla testa del corteo, il cardinale Raymond Leo Burke, Prefetto della Segnatura Apostolica.
In un clima di grande entusiasmo, i partecipanti hanno richiesto l’abolizione della Legge 194, un vero “omicidio di Stato”, visto che permette l’uccisione di innocenti. Si tratta della seconda Marcia nazionale, ma diventerà un appuntamento tradizionale. Infatti, la prossima Marcia è stata già fissata per domenica 12 maggio 2013.
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Il mondo delle TFP
Brasile: campagna di piazza
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ecentemente, un gruppo di volontari dell’Istituto Plinio Corrêa de Oliveira sono scesi in piazza per difendere la famiglia. Questa volta, gli stendardi hanno sventolato sul cuore finanziario di San Paolo del Brasile, il prestigioso Viale Paulista, per l’ennesima campagna per la moralità dei nostri figli.
Lo squillo delle trombe, il suono delle cornamuse, gli slogan scanditi dai megafoni hanno attirato l’attenzione dei passanti, sensibilizzandoli sui pericoli dell’aborto e dell’agenda del movimento omosessualista, che minacciano l’istituzione familiare.
L’accoglienza dei paulisti è stata al di sopra delle aspettative. Molti hanno chiesto di intensificare queste campagne pubbliche, nelle quali vedono un modo coraggioso ed efficace di difendere la famiglia. Alcuni hanno anche commentato l’aspetto estetico della campagna, fermandosi per ammirare quello che uno di loro ha definito “una scena meravigliosa”.
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USA: convegno autunnale
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ome è ormai tradizione, la TFP americana ha realizzato il rituale Convegno autunnale nella sede centrale dell’associazione, nei pressi di Spring Grove, Pennsylvania. Tema di quest’anno: “La lotta per la tradizione, la famiglia e la proprietà. Le prospettive immediate”. All’evento hanno partecipato quasi 300 supporters. Ha presieduto l’assise una Madonna pellegrina internazionale di Fatima.
Aprendo i lavori John Horvat, vice-presidente della TFP americana, ha aspramente criticato la mentalità individualista che distrugge i valori della società organica tradizionale. Michael Whitcraft, responsabile del settore giovanile della TFP, ha spiegato in modo diretto e vivace perché un cattolico deve agire oltre a pregare. Così come la fede senza opere non è vera fede, come afferma S. Paolo, la preghiera senza lotta non è vera preghiera. Mario Navarro, direttore dell’Ufficio delle TFP a Washington D.C. ha svolto una dettagliata relazione sul messaggio di Fatima e la sua importanza per i nostri giorni, mentre Norman Fulkerson ha dimostrato come l’autentica felicità stia nel darsi interamente alla Madonna, partecipando alla Sua causa.
Una banchetto sotto un tendone — mentre fuori infuriava una tempesta di neve — ha concluso gioiosamente questo weekend di preghiera, di studio e di riflessione. Ha chiuso il convegno S.A.I.R. Principe Bertrand d’Orleans e Braganza, della TFP brasiliana, che ha illustrato la vita e l’opera del “crociato del XX secolo”, il prof. Plinio Corrêa de Oliveira. u
Sopra, l’auditorio durante una conferenza. A dx, il Principe Dom Bertrand d’Orleans e Braganza. Sotto, il banchetto finale
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Il mondo delle TFP
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La TFP inquieta la Pravda
hi non ricorda la famigerata Pravda, organo del Partito comunista dell’Unione Sovietica?
L’antico organo del Partito Comunista dell’Unione Sovietica si dichiara molto preoccupato con i campeggi estivi orientati ai giovani organizzati dalla TFP americana Nelle foto, scene dei campeggi estivi in Louisiana
L’URSS non c’è più. E neanche la vecchia Pravda, vittima di un decreto di Boris Eltsin nel 1991. Come la Fenice, però, la Pravda è risorta dopo poche settimane, presa in mano da alcuni componenti della vecchia redazione. Nel 1999 il quotidiano è diventato online, con edizioni in varie lingue. E, a quanto pare, continua imperterrito la sua opera di disinformazione comunista.
Diverse volte in passato questo organo aveva attaccato le TFP. Rimarrà nella storia, per esempio, l’ardente difesa che il quotidiano sovietico fece, nel 1976, di alcuni vescovi cileni, chiamati in causa dalla TFP di quel Paese per la loro connivenza con la sinistra radicale, ispirati da quella teologia della liberazione che da lì a poco sarebbe stata condannata dal Vaticano. A preoccupare adesso i redattori della Pravda sono i campeggi estivi per ragazzi organizzati da alcune TFP e, in particolare, dalla TFP americana.
Nell’edizione in inglese dello scorso 16 novembre, l’organo comunista prende di mira “l’ultra-cattolica (sic) Tradizione Famiglia Proprietà (TFP), una replica di quella fondata nel 1960 a San Paolo del Brasile dal politico, giornalista e scrittore Plinio
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Correa de Oliveira”. Secondo l’autore, la TFP sarebbe “dietro l’ascesa dell’ultra-conservatore Tea Party”.
“Plinio odiava la Rivoluzione francese – continua la Pravda, almeno per una volta dicendo il vero – odiava anche il protestantismo, il liberalismo e il marxismo”.
Ciò che preoccupa di più questi nostalgici dell’URSS è, però, l’apostolato giovanile della TFP: “Fra le altre cose, la TFP si dedica al reclutamento di giovani attraverso curiosi campeggi dal sapore medievale chiamati ‘A call to Chivalry’. Nel corso di questi incontri, ci si diverte con l’uso di arco e freccia. La lotta con la spada sembra riscuotere un grande successo fra i giovani”.
Ciò che inquieta i redattori della Pravda non è, evidentemente, l’uso dell’arco o della spada – perfettamente inutili in una guerra moderna – bensì il fatto che un numero sempre crescente di giovani stiano abbracciando la Tradizione, anzi la Contro-Rivoluzione. Un fenomeno assolutamente contrario agli schemi ideologici marxisti-leninisti nei quali sono cresciuti.
(Juan Gelman, “U.S. who is behind the rise of ultraconservative Tea Party”, pravda.ru, 16-11-2011)
Quest’anno, l’Accademia estiva delle TFP europee si terrà dal 17 al 21 luglio, nel castello di Zamec Niepolomice, in Polonia. Per informazioni, telefonare allo 06-8417603, oppure scrivere a info@atfp.it
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Le parabole evangeliche
Nostro Signore trasforma le cose banali in raggi di sole
di Plinio Corrêa de Oliveira
alvolta vi è una certa attrazione dello spirito umano per le cose banali. Questo perché la realtà creata da Dio è così vasta, che i nostri occhi non si interesserebbero per certe cose troppo piccole se non avessero, appunto, l’incanto della banalità.
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Le parabole di Nostro Signore Gesù Cristo nei Vangeli sono l’una più bella dell’altra. A confronto, qualsiasi forma di letteratura umana non è altro che polvere e cenere. Ebbene, Egli spesso tratta banali episodi della vita quotidiana di quel tempo.
Un esempio è quando Egli commenta i gigli del campo: “Perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?” (Mt. 6, 28 29).
Nella Palestina di allora non c’erano industrie tessili. La gente indossava i vestiti che le donne filavano. In questa parabola, Nostro Signore paragona i gigli del campo allo splendore di Salomone, re famoso per la sua saggezza, nota in tutto il mondo. Tuttavia, neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva con la bellezza di un banale giglio del campo. Il giglio del campo offre umilmente la sua bellezza a chi lo contempla. La gloria di Salomone
ha raggiunto una celebrità storica. Nostro Signore collega questi due elementi e, accostandoli, li trasforma in raggi di sole. La parabola è di una bellezza solare!
Potremmo esaminare in dettaglio le tante parabole dei Vangeli. Cosa notiamo? Molte trattano di cose banali della vita quotidiana. Tuttavia, da quest’apparente banalità, Nostro Signore tira fuori meraviglie che poi risuoneranno per tutta l’eternità! Egli tocca la polvere col Suo dito divino, ed essa si trasforma in polvere d’oro!
Con questo, la divina sapienza ci dà una lezione: dobbiamo iniziare a prestare attenzione alla realtà creata, anche nei suoi aspetti apparentemente più banali. Se lo facciamo con occhi di Fede, il nostro spirito si eleverà a considerazioni così eccelse che non riusciremo nemmeno a trovare le parole adatte per descriverle.
Mi viene in mente un termine molto bello, purtroppo oggi poco utilizzato: ineffabile. È un vocabolo bellissimo, che indica certe verità che lo spirito umano riesce a cogliere, ma poi non è capace di esprimere in parole.
È bene che la mente umana concepisca qualcosa, salvo poi trovare le parole appropriate per esprimerlo. Tuttavia, è anche bello ideare qualcosa e non riuscire a trovare le parole adeguate.
Sono principi bellissimi che possiamo imparare leggendo le parabole del Nostro Divino Salvatore.
(Brani d’una conferenza tenuta dal prof. Plinio Corrêa de Oliveira il 26 gennaio 1980. Senza revisione dell’autore. Sopra, Il Sermone della Montagna, Gustave Doré.)