Trasbordo ideologico inavvertito e Dialogo

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Figure ed opere della Contro-rivoluzione 2

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PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA

Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo. Note sulla guerra psicologica contro i cattolici Titolo originale: Baldeação ideologica inadvertida e diàlogo (São Paulo do Brasil, 1966) ISBN 978-88-906834-1-1 Copyright © 2012 - Editoriale Il Giglio soc. coop. a r.l. Via Crispi, 36/A - 80121 Napoli tel. e fax 081 66 64 40 www.editorialeilgiglio.it info@editorialeilgiglio.it @edilgiglio Finito di stampare nel mese di dicembre 2012 Impaginazione, fotocomposizione e stampa GRG Tipolitografica - Tel 089301908 - Salerno

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TRASBORDO IDEOLOGICO INAVVERTITO E DIALOGO

Plinio CorrĂŞa de Oliveira

Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo Note sulla guerra psicologica contro i cattolici

Traduzione e postfazione

Il mito del dialogo relativista Una strategia di conquista che continua di

Guido Vignelli

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PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA

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Presentazione Posso dire, con un tocco di licenza poetica, che ho conosciuto il prof. Plinio Corrêa de Oliveira ancor prima di nascere. Fra la Famiglia Imperiale del Brasile e quella di Plinio Corrêa de Oliveira intercorreva un lungo e cordiale rapporto. Il suo prozio paterno, João Alfredo Corrêa de Oliveira, aveva avuto un ruolo preminente durante l’Impero, come Governatore, Senatore, Consigliere di Stato e Presidente del Consiglio dei ministri. Dopo il colpo di Stato repubblicano del 1889, egli ricoprì la carica di Segretario del Direttorio Monarchico. L’amicizia fra le due famiglie si è stretta ancor più dopo la caduta della monarchia e l’esilio della Famiglia Imperiale. Nel 1922, in occasione del centenario dell’indipendenza del Brasile, alcuni membri della Famiglia Imperiale vennero in Brasile per partecipare alle cerimonie. A San Paolo le due famiglie si sono ritrovate. Ecco che nacque fra mio padre, il Principe Dom Pedro Henrique de Orleans e Bragança, e il dott. Plinio – allora di 13 e 14 anni rispettivamente – un’amicizia che non poteva che crescere nel tempo. Li univa una grande affinità ideale, visto che mio padre era stato educato da mia nonna, la Principessa Maria Pia di Borbone delle Due Sicilie, figlia di Alfonso Conte di Caserta, fratello ed erede di Francesco II, Re delle Due Sicilie. Profondamente cattolica, il suo sentimento religioso era stato affinato dalla lotta che i suoi antenati avevano portato avanti in sostegno del beato Pio IX contro le correnti liberali e rivoluzionarie che avevano usurpato il trono di Napoli e, poi, derubato la Santa Sede degli Stati della Chiesa. L’incontro con la Principessa Maria Pia segnò profondamente Plinio Corrêa de Oliveira. Egli ricorderà più tardi: “Era la personificazione stessa della grandezza, ma con moltissima dolcezza. Una persona che emanava un’aria 5


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molto materna, molto degna e, allo stesso tempo, molto cattolica. Perfetta da ogni punto di vista”. Questo incontro incise profondamente sulla maturazione intellettuale del futuro pensatore e leader cattolico: “Questo incontro ebbe non poca influenza sulla mia formazione. Mi permise di affinare tutta una serie di nozioni politiche e anche religiose. In fondo, avevo finalmente trovato un modello di principessa cattolica”. Quando, nel 1945, la mia famiglia è rientrata definitivamente in Brasile, è stato del tutto naturale che i rapporti tra mio padre e Plinio Corrêa de Oliveira, ormai diventato leader cattolico di grande rinomanza, si stringessero ancora e che quest’ultimo diventasse non solo suo caro amico, ma anche il suo principale consigliere. Mio padre fu lieto che i propri figli potessero beneficiare della formazione che il dott. Plinio dava. Fu così che mio fratello Dom Luiz, attuale Capo della Casa Imperiale del Brasile, ed io abbiamo cominciato a frequentare le sue riunioni, fino a impegnarci totalmente nella lotta contro-rivoluzionaria. Mio padre vedeva di buon occhio questa militanza, poiché ci aveva sempre insegnato che il dovere di un Principe è di essere sempre in prima linea del combattere contro i nemici della Fede e della Patria. Le monarchie sono decadute quando i Re non hanno più accompagnato le truppe. È dunque con sentimenti di profonda e filiale riconoscenza, e quale doveroso tributo a colui che ritengo il mio maestro, che scrivo queste righe per presentare al pubblico italiano l’opera “Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo”. Scritta nel 1965, essa contiene insegnamenti perfettamente attuali. Nello scrutare le cause profonde di quell’immane processo rivoluzionario che ha rovesciato istituzioni millenarie, colpendo anche la Santa Chiesa cattolica e minacciando di estinguere ogni traccia di civiltà cristiana, non possiamo non riflettere sul fatto che, al cuore, troviamo il venir meno dello spirito militante in coloro che avrebbero dovuto invece difendere la Tradizione. Ammaliati dal canto a un tempo sinistro e attraente, languido e delirante, ateo e feticisticamente credulo della modernità rivoluzionaria, forse anche segretamente persuasi che essa sia l’onda del futuro e che, quindi, ogni reazione sarebbe a priori inutile, molti difensori della Tradizione hanno cominciato a dialogare con la Rivoluzione invece di opporle un fermo non possumus! che preludesse alla riscossa. Sostituendo l’apologetica col dialogo, la militanza con l’ecumenismo acritico, la lotta con l’accomodamento, i difensori della Tradizione — sia spirituale che temporale — sono stati progressivamente corrosi dal virus del relativismo, nemico mortale di ogni principio religioso e politico. E le conseguenze sono lì, davanti ai nostri occhi. 6


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Plinio Corrêa de Oliveira compie un’approfondita analisi dei risvolti psicologici, dottrinali e strategici di questa mentalità relativista. Nella logica di quest’analisi, ogni tentativo di soluzione alla crisi attuale che non rettifichi, in radice, questo vizio intellettuale e spirituale, sarà irrimediabilmente votato al fallimento. Ecco la centrale importanza, la scottante attualità del saggio che oggi riproponiamo al pubblico italiano. Mi congratulo, dunque, con l’Editoriale Il Giglio, curatore dell’edizione, per la lodevole iniziativa, augurando nel contempo la sua più ampia diffusione. “Omnia possum in eo qui me confortat”, tutto posso in Colui che mi dà forza, scriveva S. Paolo (Fil 4,13). “Omnia possumus in ea qui nos confortat”, tutto possiamo in Colei che ci dà forza, potremmo dire noi. Affidiamo questa impresa alla Madonna, cunctas haereses sola interimisti in universo mundo, sicuri che, come proclamava S. Giovanna d’Arco, il cui 600° anniversario di nascita si celebra quest’anno, “noi combattiamo e Dio darà la vittoria!”. São Paulo, 24 gennaio 2012 Dom Bertrand de Orléans e Bragança

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Introduzione

A volte una circostanza poco importante può chiarire e spiegare tutti gli aspetti di una intricata situazione. Ciò che si vede così spesso nei romanzi, succede anche nella realtà della vita. Il presente studio nacque da una circostanza di questo tipo.

1. DISTORSIONE DI VOCABOLI AL SERVIZIO DELLA PROPAGANDA COMUNISTA Da molto tempo suonavano falsi al nostro orecchio i molteplici usi della parola “dialogo” che vengono fatti in certi ambienti. Nelle conversazioni quotidiane di questi ambienti e in alcuni commenti della stampa, intorno all’asse fisso di un legittimo significato residuo, notavamo che quella parola veniva manipolata in modo così forzato e artificioso, con audacie così sconcertanti e significati soggiacenti così svariati, che sentivamo la necessità, vigorosa come un imperativo della coscienza, di protestare contro questa trasgressione delle regole del corretto linguaggio. A poco a poco, impressioni, osservazioni, appunti raccolti qua e là, andavano suscitando nella nostra mente la sensazione che questa multiforme distorsione della parola “dialogo” aveva una logica interna che lasciava intravedere qualcosa d’intenzionale, di pianificato e di metodico, che oltretutto comprendeva non solo questa parola, ma anche altre usuali nelle elucubrazioni di progressisti, socialisti e comunisti, come ad esempio “pacifismo”, “coesistenza”, “ecumenismo”, “democrazia cristiana”, “terza forza”, etc. Una volta sottoposti ad analoga distorsione, questi vocaboli finivano col costituire una sorta di costellazione nella quale gli uni sostenevano e completavano gli altri. Ogni parola costituiva una specie di talismano per esercitare sulle persone un effetto psicologico specifico, e l’insieme degli effetti di questa costellazione di talismani ci appariva fatto apposta per operare nelle anime una trasformazione graduale ma profonda. A mano a mano che si chiarificava nell’esame, questa distorsione si realizzava sempre nello stesso senso: quello d’indebolire nei non-comunisti la resistenza al comunismo, inspirando in loro uno stato d’animo propenso alla condiscendenza, alla simpatia, alla remissività e perfino alla resa. Nei casi estremi, la distorsione giungeva fino al punto di trasformare non-comunisti in comunisti. Nella misura in cui l’osservazione ci andava facendo intravedere una linea di coerenza nitida e una logica interna invariabile in quell’uso vario e perfino 9


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sconcertante di parole efficaci e sottili come un talismano, nel nostro spirito si andava rafforzando il sospetto che, se qualcuno giungesse a scoprire e a spiegare in cosa consiste questa linea di coerenza o questa logica, avrebbe svelato un espediente nuovo e di grande portata, usato dal comunismo nella sua incessante guerra psicologica contro i popoli non-comunisti. Non per questo però pensavamo di dedicarci specificamente allo studio di un tale argomento. Un fatto tuttavia ci spinse a farlo.

2.

SVELARE UN PROCEDIMENTO

Nel 1963 pubblicammo uno studio intitolato La libertà della Chiesa nello Stato comunista1. Tradotto in varie lingue, esso valicò la cortina di ferro e Zbigniew Czajkowski, uno dei dirigenti del movimento “cattolico-comunista” polacco Pax2, giudicò necessario immunizzarne il pubblico del suo Paese, pubblicando sui periodici “Kierunki” e “Zycie y Misl” (di Varsavia e Cracovia), dei quali è collaboratore, una lettera aperta a noi diretta, nella quale cercava di opporre al nostro studio un’ampia confutazione. Rispondemmo sul noto mensile brasiliano di cultura “Catolicismo” (n. 162, giugno 1964), aprendo una polemica che ancora non si è chiusa. In un articolo pubblicato su “Kierunki” (e poi riportato su “Catolicismo”, n. 170, febbraio 1965), in uno dei passi del proprio ragionamento, Czajkowski enumerò i vantaggi ch’egli vedeva nel fatto puro e semplice del discutere, vantaggi che deriverebbero dalla discussione in quanto tale, anche senz’arrivare a un accordo. Tra le righe di quanto l’articolista di Pax scrisse a questo proposito, traspariva

1. [A libertade da Igreja no Estado comunista, Editora Vera Cruz, São Paulo 1963, traduzione italiana La libertà della Chiesa nello Stato comunista, Cristianità, Piacenza 1978. Tradotto in 8 lingue, pubblicato su 40 tra giornali e riviste, superando il totale di 163.500 copie diffuse, questo saggio ottenne una lettera di approvazione firmata dal card. Giuseppe Pizzardo e da mons. Dino Staffa, rispettivamente Prefetto e Segretario della Sacra Congregazione dei Seminari, che lo elogiarono come «eco fedelissima dei documenti del supremo Magistero della Chiesa» (N. d. T.)] 2. Pax fu un movimento politico fondato nel 1946 dal polacco Boleslav Piasecki, che durante la seconda guerra mondiale era passato dal nazionalismo al socialismo. Questo movimento fu sostenuto dal governo comunista polacco, allo scopo di dividere il mondo cristiano, assicurarsi un’area di cattolici collaborazionisti col regime e costituire una falsa opposizione interna che impedisse una seria reazione popolare anticomunista. L’adesione a Pax fu scoraggiata dall’episcopato polacco e le sue riviste furono messe all’indice dal Santo Uffizio nel 1957. Il più noto dirigente del movimento fu Tadeusz Mazowiecki, che pure polemizzò con Plinio Corrêa de Oliveira difendendo il collaborazionismo cattolico col regime sovietico; più tardi divenne capo del partito Znak e infine capo del governo sotto la presidenza di Lech Walesa. Per una breve storia delle polemiche tra l’Autore e questi due movimenti, cfr. J. Bartyzel, A experiência polonesa no pensamento religioso-social de Plinio Corrêa de Oliveira, in T.F.P., Plinio Corrêa de Oliveira 1995-2005: dez anos depois, São Paulo 2005, pp. 259-289. (N. d. T.)]

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una imponderabile ma reale influenza hegeliana; inoltre – piccola circostanza gravida di conseguenze – se si applicava il presupposto hegeliano e dialettico a tutte le parole la cui distorsione ci impressionava, ecco che il significato di questa distorsione si chiariva in modo sorprendente. Ipso facto, ci veniva svelato il punto di riferimento che spiega e ordina tutto il complesso delle nostre precedenti osservazioni e impressioni e restava messo a nudo l’insidioso procedimento di guerra psicologica che, fino ad allora, avevamo potuto solo intravedere. Siccome Czajkowski si riferiva specificamente alla discussione, per una comprensibile associazione d’immagini ci venne in mente che tutto quanto egli diceva sull’argomento era molto simile a ciò che avevamo udito o letto sul “dialogo”: parola, questa, di un significato multiforme ed enigmatico, che in tal modo ci diventava chiaro. Di conseguenza, ci veniva svelata l’importanza di certi vocaboli, e specialmente del “dialogo”, come espediente della guerra psicologica. Le meditazioni che ne derivarono ci spinsero a redigere il presente studio, che sottomettiamo al giudizio del lettore. A rigore, per essere completo, questo studio dovrebbe riservare pari sviluppo all’analisi della parola-talismano “dialogo” e a quella di ciascuno dei termini correlativi distorti dal comunismo, ossia “pacifismo”, “coesistenza”, “ecumenismo”, etc. Ci sembrò tuttavia sufficiente, per smascherare il sistema, trattare a fondo uno solo di essi – “dialogo” – e, a proposito di questo, dire l’indispensabile sugli altri. Abbiamo allora proceduto in questo modo, per far risparmiare tempo e fatica al lettore. Sia ben chiaro fin da ora – e torneremo su questo punto più avanti – che non è nel dialogo in sé o nell’ecumenismo in sé e meno ancora nella pace in sé, che indichiamo qualcosa di censurabile: ciò sarebbe da parte nostra un’aberrazione. Il nostro studio non considera quei vocaboli presi nel loro significato normale e corretto, né le realtà cui essi si riferiscono, ma solo quegli stessi vocaboli presi in quella particolarissima accezione che li trasforma in talismani della strategia comunista.

3. L ’ AZIONE

IDEOLOGICA IMPLICITA , CARATTERISTICA FONDAMENTALE DEL

PROCEDIMENTO

Appare importante mettere in evidenza fin d’ora che il procedimento di cui ci occuperemo mira a predisporre favorevolmente alla dottrina e alla tattica comuniste, e poi a trasformare alla fine in “utili idioti”, se non proprio in comunisti convinti, quelle persone che di per sé sono refrattarie alla predicazione marxista esplicita. Proprio per questa ragione, il procedimento in questione agisce nelle mentalità in modo implicito. 11


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È nota essenziale e caratteristica di questo procedimento che, durante tutto o quasi tutto il suo svolgimento, i pazienti non si accorgono che stanno subendo un’azione psicologica da parte di qualcuno, né che il comunismo sia la direzione verso la quale si orientano le loro impressioni e le loro simpatie. Con maggiore o minore chiarezza a seconda di ciascun individuo, essi hanno coscienza del fatto che stanno “evolvendo” ideologicamente, ma credono che questa “evoluzione” sia soltanto la scoperta o l’approfondimento, fatto gradualmente da loro stessi e senz’alcun concorso di altri, di una “verità” o di una costellazione di “verità” che giudicano simpatiche e generose. Di norma, durante quasi tutto il procedimento, non passa neppure per la mente di queste vittime che a poco a poco esse stanno diventando comuniste. Se in un determinato momento questo rischio apparisse loro manifesto, ipso facto essi si renderebbero conto dell’abisso nel quale stanno scivolando e farebbero marcia indietro. È solo nella fase finale di questa “evoluzione”, che l’evidenza della trasformazione interiore rivela loro che stanno giungendo al comunismo. Tuttavia, a questo punto, la loro mentalità è talmente “evoluta”, che ormai l’ipotesi di diventare seguaci del comunismo non è più per loro causa di orrore ma anzi di attrattiva.

4. IL

TRASBORDO IDEOLOGICO INAVVERTITO: RIASSUNTO DI CIÒ CHE SE NE DICE IN

QUEST ’ OPERA

Questo fenomeno – o meglio, questo sottile procedimento della propaganda comunista – lo definiamo qui trasbordo ideologico inavvertito. Ci proponiamo di descriverlo sinteticamente in ciò che ha di essenziale e, siccome comporta differenti modi di realizzazione, lo studieremo specialmente in quanto sviluppato mediante ciò che chiamiamo espediente della parola-talismano. Poi chiariremo la comprensione di questo espediente usando un esempio concreto, ossia usando il termine “dialogo” per far evolvere inavvertitamente verso il comunismo un numero enorme di persone non-comuniste. Il fenomeno del trasbordo ideologico inavvertito – è bene dirlo fin d’ora – presenta varie modalità. Esso può svilupparsi in tutta la sua ampiezza e nel suo significato più radicale, cioè può condurre la vittima fino al termine del nuovo cammino, che è l’accettazione del comunismo. Questo stesso procedimento si realizza in modo meno ampio e radicale, se la sua vittima, invece di diventare comunista, resta per esempio solo socialista. In entrambi i casi, il trasbordo è ideologico in tutta la forza dell’espressione. Questo fenomeno può anche non riferirsi specificamente a una concezione filosofica dell’universo, della vita, dell’uomo, della cultura, dell’economia, della sociologia e della politica, qual 12


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è il marxismo, ma solo a teorie e a metodi di azione. Così, un anticomunista acceso può essere trasbordato a un anticomunismo che ammette solo temporeggiamenti, concessioni e ritirate. Questo è un trasbordo ideologico in un significato diminutae rationis della parola “ideologico”. Alla fine del nostro studio, abbiamo ritenuto necessario dire in che modo si può arrestare l’azione della parola-talismano e il procedimento del trasbordo ideologico inavvertito in quelle persone in cui l’una e l’altro vanno sviluppandosi, e perfino in che modo si può prevenire in tempo gli incauti contro entrambi.

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Capitolo 1

La nuova tattica comunista: azione persuasiva nel subconscio

Prima di esaminare il trasbordo ideologico inavvertito, sembra utile porre in rilievo tutta l’importanza e l’attualità del tema, in funzione della più recente strategia comunista mirante alla conquista del mondo.

1.UNA

TESI SUPERATA SULL ’EFFICACIA DELLE TECNICHE DI PERSUASIONE E DELLA

VIOLENZA NELLA STRATEGIA COMUNISTA

Ponendosi a considerare l’argomento, non pochi lettori inciamperanno in una difficoltà preliminare. In effetti, la stampa, la televisione e la radio presentano loro continuamente le aggressioni dell’URSS e della Cina alle nazioni non-comuniste come effettuabili, il più delle volte, mediante l’unione tra l’invasione armata e le rivoluzioni sociali promosse dai partiti comunisti dei diversi Paesi da invadere. Secondo questa tesi, la violenza sarebbe di gran lunga il principale strumento di conquista del comunismo. Senza dubbio, anche tra coloro che accettano questa tesi si parla delle tecniche di persuasione come strumento di conquista. Però, in questa prospettiva, esse occupano il luogo che hanno nella guerra classica internazionale o interna, nel cui ambito costituiscono qualcosa d’indispensabile ma secondario, rispetto alle operazioni militari.

2. LE

TECNICHE DI PERSUASIONE, PIÙ IMPORTANTI DELLA FORZA

A nostro modo di vedere, nelle attuali condizioni, la persuasione ideologica non è considerata dai comunisti come cosa solo collaterale o sussidiaria rispetto all’aggressione violenta. Al contrario, essi si aspettano al giorno d’oggi maggiori risultati dalla propaganda che dalla forza.

3. IL TRASBORDO IDEOLOGICO E LA SUA IMPORTANZA ATTUALE Inoltre, in materia di propaganda, lo sforzo ideologico esplicito e diretto del partito comunista non occupa il primo piano da solo: il metodo del trasbordo ideologico 15


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inavvertito non gli è inferiore e, sotto alcuni aspetti, perfino lo supera, come tecnica di persuasione indiretta e implicita. Queste due affermazioni sono indispensabili affinché molti militanti dell’anticomunismo, che con zelo e con merito si dedicano al compito indispensabile di allarmare il mondo sul pericolo della guerra di conquista comunista e della rivoluzione sociale violenta, allarghino i propri orizzonti introducendovi anche la sollecitudine nel denunziare, prevenire e arrestare il processo di trasbordo ideologico inavvertito nelle sue varie forme, inclusa quella della parola-talismano. È alla spiegazione di questo punto che dedichiamo il primo capitolo del presente studio.

4. IL

COMUNISMO, SETTA IMPERIALISTA

Per dimostrare le affermazioni appena fatte, è necessario tenere presente, prima di tutto, che il movimento comunista costituisce fondamentalmente: - una setta filosofica atea, materialista ed hegeliana, che dai propri erronei principi deduce tutta una particolare concezione dell’uomo, dell’economia, della società, della politica, della cultura e della civiltà; - un’organizzazione sovversiva mondiale. Il comunismo non è solo un movimento di carattere teorico. Per gli imperativi della sua stessa dottrina, esso vuole far diventare comunisti tutti gli uomini e plasmare interamente la vita di tutti i popoli secondo i propri principi. Considerata sotto questo aspetto, la setta marxista professa l’imperialismo integrale, non solo perché pretende d’imporre il pensiero e la volontà di una minoranza a tutti gli uomini, ma anche perché questa imposizione coinvolge tutto l’uomo, in tutte le manifestazioni della sua attività.

5. OSTACOLI

CONTRO I QUALI URTA L’IMPERIALISMO COMUNISTA

Per realizzare la sua brama imperialistica, il comunismo deve affrontare gravi ostacoli. Ne menzioniamo alcuni, a titolo esemplificativo. A. Insensibilità delle moltitudini Da esattamente cento anni, il comunismo va predicando alle popolazioni operaie del mondo intero la rivoluzione sociale, il massacro e il saccheggio. Per questa predicazione, durante tutto questo secolo, ha avuto a disposizione quasi ininterrottamente, piena libertà di pensiero e di azione in quasi tutti i Paesi. Non gli sono mancati nemmeno imponenti mezzi finanziari, né specialisti e tecnici tra i migliori in materia di propaganda. Nonostante tutto ciò, le moltitudini si sono rivelate, 16


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nella loro grande maggioranza, poco sensibili agli stimoli della demagogia marxista, che avrebbero potuto attrarle tanto facilmente. In nessun Paese il comunismo è mai riuscito a conquistare il potere mediante elezioni oneste. La causa di questa insensibilità sta in parte nel fatto che, in molti luoghi, la situazione delle classi indigenti è considerevolmente migliorata. Ma è necessario non esagerare la portata ideologica di tali miglioramenti. In alcune zone, per esempio nel Nord dell’Italia, nelle quali le condizioni dei lavoratori non hanno smesso di migliorare dopo la seconda guerra mondiale, il comunismo ha ottenuto sconcertanti successi elettorali. La causa dell’inguaribile incapacità del comunismo a ottenere la vittoria mediante le urne sta anche, in qualche misura, nella resistenza opposta al marxismo da quel fondo di buon senso naturale che costituisce il patrimonio millenario e comune dell’umanità. Questo buon senso urta contro il carattere essenzialmente innaturale che si manifesta in tutti gli aspetti del comunismo. Nei popoli di civiltà cristiana, a questo fattore si aggiunge l’incompatibilità dello spirito, della dottrina e dei metodi marxisti, con lo spirito, la dottrina e i metodi della Chiesa. L’insieme di questi ostacoli ha prodotto il fatto, incontestabile e immensamente significativo, che – ripetiamo – in cento anni di esistenza e di azione, nessun partito comunista è riuscito a diventare maggioritario in un solo Paese. Su questo fatto non s’insisterà mai abbastanza, se vorremo vedere nella loro reale prospettiva gli ostacoli che il comunismo ha davanti. Rispondiamo ad obiezioni. “Il comunismo vinse le elezioni polacche del 1957” È vero, ma questa consultazione mancò evidentemente di libertà. I cattolici sapevano che, se avessero sconfitto Gomulka, avrebbero esposto la propria patria a una repressione russa sul tipo di quella appena subita dalla gloriosa e infelice Ungheria. Per questo, pur costituendo in Polonia la decisiva maggioranza, essi scelsero ciò che a loro sembrava il male minore, eleggendo deputati “gomulkiani”. Non ci pronunciamo qui sulla liceità di questa manovra, né sulla sua validità dal punto di vista strettamente politico. Tuttavia, sottolineiamo che non si può affermare in alcun modo che un Congresso a maggioranza comunista sia stato liberamente eletto dal nobile popolo polacco. La maggioranza comunista esistente nel Parlamento polacco non costituisce dunque argomento contro quanto abbiamo affermato 3. 3. I progressi del comunismo in Italia non invalidano minimamente quanto affermiamo sul fallimento delle vecchie tecniche di proselitismo comunista esplicito. Al contrario, essi provano il successo delle nuove tecniche. Il partito democristiano italiano – almeno considerato nelle sue correnti di centro-sinistra,

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“Se i metodi di persuasione finora usati dal comunismo sono così insufficienti, allora a cosa esso deve il fatto di essere oggi una forza mondiale di prim’ordine?” In nessun modo lo deve all’efficacia di questi metodi, di fronte ai quali l’opinione pubblica è rimasta insensibile. Il primo fattore di questo risultato, che salta agli occhi, è stato la violenza. In Russia il comunismo s’impose con una rivoluzione. In altri Paesi d’Europa, l’URSS lo instaurò con la forza bruta, essendo una delle nazioni vincitrici della guerra. Ciò nonostante, la violenza non operò da sola. Se fosse mancato l’aiuto delle potenze alleate, la Russia sarebbe mai riuscita a vincere l’invasore nazista? Nel 1939, gli eserciti sovietici subirono una vergognosa sconfitta da parte della piccola Finlandia. Come considerare indiscutibile che i Russi avrebbero vinto da soli la potente Germania? Si aggiunga pure che gli aiuti dati dall’Occidente ai comunisti non si limitarono all’appoggio militare fornito durante la seconda guerra mondiale. La politica disastrosa dello scomparso presidente Roosevelt nei congressi di Teheran e di Yalta – completata, per quanto riguarda la Cina, dagli enigmatici spropositi della missione Marshall – contribuì immensamente all’espansione sovietica. A sua volta, nella piccola Cuba, Fidel Castro avvertì tanto bene l’impopolarità del comunismo, che si travestì da cattolico durante l’intero periodo della guerra civile, convinto che altrimenti non avrebbe mai conquistato il potere. Egli si tolse la maschera solo dopo aver preso nelle mani le redini dello Stato. Tutto lascia intendere che i comunisti non avrebbero raggiunto, neppure in minima parte, i risultati dei quali oggi si vantano, se avessero sempre trovato di fronte a loro capi decisi e perspicaci. Fu quindi con la violenza, con l’astuzia e con la frode, e non con una conquista ideologica delle masse, che il comunismo raggiunse il suo attuale livello di potenza. D’altronde, conviene non sopravvalutare l’importanza di questi risultati. Infatti, se il comunismo fosse stato capace di conquistare le menti e i cuori, almeno dopo essersi imposto in alcuni Paesi, come spiegare che abbia bisogno di un immenso sinistra ed estrema sinistra – è profondamente logorato da sentimenti di affinità e paura abilmente sfruttati dal P.C.I. Costui cela, per quanto possibile, in Italia il proprio carattere materialista e ateo, e fa continuamente appello a una intesa con i cattolici, producendo così un disgelo nella Democrazia Cristiana. Nello stesso tempo, il pericolo di una guerra continua a dominare il panorama politico della penisola. Ne deriva una maggiore flessibilità del partito democratico-cristiano verso la Sinistra e una politica di buon vicinato tra esso e il socialismo. Entrambi i fattori, da parte loro, indeboliscono le disposizioni anticomuniste della maggioranza della popolazione, facilitano l’espansione del partito comunista e soprattutto causano, nell’ambito stesso dei quadri politici democristiani, un pericoloso slittamento del centro verso la sinistra socialista. Un fenomeno simile avviene in altri partiti italiani cosiddetti “centristi”, anch’essi logorati da un’analoga strategia comunista. Ne deriva il grave pericolo che l’Italia corre ai giorni nostri.

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apparato poliziesco per mantenersi al potere? Come spiegare che si veda obbligato dappertutto a limitare col massimo rigore l’espatrio dei cittadini di quei Paesi? Come spiegare che, nonostante tante precauzioni, un flusso continuo di transfughi affrontino i peggiori rischi pur di oltrepassare la “cortina di ferro”? B. Fallimento nell’organizzazione e nell’incremento della produzione Quel comunismo, che non seppe convincere né vincere onestamente, si mostrò inoltre impotente a organizzare e a produrre. La sua inferiorità rispetto all’Occidente è, al riguardo, confessata. Tanto i kruscioviani quanto i post-kruscioviani affermano la necessità di riforme fondamentali nella struttura economica dell’URSS per ottenere un aumento della produzione, e queste riforme devono consistere, secondo loro, in un ampliamento della libera iniziativa. In altri termini, è proprio da un principio fondamentalmente opposto alla loro dottrina, che i comunisti sperano di ottenere un qualche incremento della produttività! Si può facilmente misurare quanto questo insuccesso discrediti il comunismo, sia presso le popolazioni da esso dominate, sia presso l’opinione mondiale.

6. INUTILITÀ DELLA POTENZA TERMONUCLEARE PER L’ESPANSIONE DEL COMUNISMO MEDIANTE LA VIOLENZA

Questa impotenza nella persuasione ideologica esplicita e nella produzione economica, che abbiamo esaminato, causa naturalmente al marxismo innumerevoli difficoltà nella realizzazione del suo piano di egemonia mondiale, che riducono a proporzioni ben più modeste lo spettro del suo irresistibile potere. In un punto, e solo in quello, il pericolo comunista può apparire grande agli occhi di tutti i popoli, ossia nel brandire la minaccia di un’ecatombe termonucleare di ampiezza forse mondiale. Se infatti il comunismo è nulla in quanto forza costruttiva, è qualcosa in quanto forza distruttiva. È noto che il potenziale atomico sovietico è inferiore a quello nordamericano. Però, per sua stessa indole, l’URSS costituisce per il mondo, come potenza termonucleare, un pericolo maggiore di qualunque altra nazione. In effetti, per realizzare i propri piani, le forze del disordine e della rivoluzione, per loro stessa natura, hanno meno remore (quando ne hanno) che le forze dell’ordine nel ricorrere alla distruzione. La tendenza normale di un aggressore che sta in agguato sulla strada consiste nell’aggredire, quella della sua vittima consiste non nel lottare ma nel fuggire. Pertanto è maggiore il pericolo che un’ecatombe atomica sia scatenata dai sovietici o dai cinesi, piuttosto che da qualche nazione occidentale. Questo unico punto di “superiorità”, intrinsecamente negativo, che valore ha per 19


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l’espansione comunista? Saranno superati per mezzo di esso gli ostacoli che, come abbiamo visto, si oppongono a questa espansione? A quali risultati condurrebbe un conflitto termonucleare, per gli stessi comunisti? Vittoriosi all’inizio, forse, essi sarebbero le principali vittime dell’ecatombe che avrebbero scatenato. Infatti, essendo la loro potenza inferiore a quella dell’avversario, immediatamente dopo l’aggressione subirebbero probabilmente rappresaglie maggiori del danno causato e alla fine perderebbero la guerra. Niente infatti è meno probabile della loro vittoria. Se anche l’ottenessero, cosa resterebbe nelle loro mani, se non un mondo nel quale gli Stati Uniti e l’Europa sarebbero ridotti a un immenso cumulo di rovine? Su queste rovine fumanti e informi, come costruire quell’edificio del socialismo, che Marx, Lenin, Stalin e Kruscev volevano fosse elevato sulla base della tecnica più perfetta, più avanzata e insomma più capace d’imitare quella nordamericana? Ancora recentemente, la Pravda, organo del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, affermava: «In politica, accade spesso che le sconfitte subite da un campo non equivalgano necessariamente a vittorie nel campo opposto. L’esempio più sorprendente è quello della guerra termonucleare, che non avvantaggerebbe in nulla il blocco socialista, anche se in essa l’imperialismo fosse letteralmente polverizzato»4. Abbiamo qui la confessione della radicale dannosità, per le stesse nazioni comuniste, di una ipotetica vittoria termonucleare sovietica sull’Occidente.

7. L’IMPERIALISMO COMUNISTA IN UN VICOLO CIECO Facendo il bilancio di tutti questi dati, si giunge a questa conclusione: nonostante le apparenze contrarie, l’espansione mondiale del comunismo incontra davanti a sé gravissime difficoltà, prodotte da cause profonde, alcune delle quali è difficile rimuovere e altre è perfino impossibile, per cui il piano comunista di dominio mondiale si trova esposto a considerevoli rischi di fallimento.

8. COME USCIRE DAL VICOLO CIECO: UNA VIA NUOVA, LA TECNICA DI PERSUASIONE IMPLICITA

Il comunismo teme di lanciarsi sulla strada della violenza. Su quella della persuasione, perlomeno sotto forma di persuasione esplicita, promossa dai partiti comunisti dei diversi Paesi, esso non ottiene risultati incoraggianti. Come abbiamo visto, le masse si sono mostrate fredde verso questa tecnica di persuasione. 4. “Pravda”, 6 gennaio 1965; cfr. il comunicato dell’agenzia A.F.P. nella stessa data.

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L’uscita dal vicolo cieco, non potendo consistere per il comunismo nella violenza né nella persuasione esplicita, può consistere solo in una nuova via: quella della persuasione implicita. Questo è il punto centrale sul quale è necessario attirare insistentemente l’attenzione dell’opinione pubblica.

9.

CONDIZIONI PROPIZIE PER LA TECNICA COMUNISTA DI PERSUASIONE IMPLICITA

Quali possibilità offre la mentalità occidentale a questo tipo di azione? Due fattori la rendono particolarmente vulnerabile da parte sua. A. La paura L’istinto di conservazione è molto forte nell’uomo; per questo è in lui molto imperiosa la forza della paura. Nell’immaginazione di grandi masse del mondo libero, continua ad esercitare tutto il proprio potere d’intimidazione la figura del comunista aggressore, visto sia nel suo aspetto di rivoluzionario barbuto, sudicio, straccione, assetato di sangue e di vendetta, sia in quello di soldato spietato, dallo sguardo metallico, pronto a far scattare il detonatore della bomba atomica. Un desiderio di cedere quasi tutto, pur di evitare una guerra civile o una catastrofe termonucleare, influenza coscientemente o incoscientemente innumerevoli persone. B. La simpatia D’altra parte, il comunismo non è tanto l’antitesi di ciò che credono molti anticomunisti, quanto è solo l’ultima espressione, la più coerente e audace, di certi principi da loro stessi ammessi. Il liberalismo, che trionfò con la Rivoluzione Francese, sparse nell’Occidente i germi del comunismo5. Conseguentemente, alla paura verso di questo si combina spesso una certa simpatia per qualcuno dei suoi aspetti. Vi sono accesi combattenti anticomunisti, che rifiutano più i metodi violenti e il carattere dittatoriale dei regimi bolscevichi attuali, che gli scopi finali del comunismo. Essi credono ingenuamente che, se l’Occidente raggiungesse tali 5. Abbiamo sviluppato questo pensiero nel nostro saggio Rivoluzione e Contro-Rivoluzione [Sugarco, Milano 2009, pars I, cap. III, par. V]. Abbiamo avuto la gioia di verificare che le tesi principali di questo saggio, relative alla Rivoluzione Francese come causa del comunismo, sono state affermate anche da 269 Padri, appartenenti a 66 Paesi, del Concilio Ecumenico Vaticano II, nella sostanziosa esposizione delle motivazioni di una petizione promossa da due prelati brasiliani: gli ecc.mi e rev.mi Mons. Geraldo de Proença Sigaud S.V.D., arcivescovo di Diamantina, e Mons. Antonio de Castro Mayer, vescovo di Campos; questo documento chiedeva che il Concilio rinnovasse la condanna del socialismo e del comunismo (il testo integrale della petizione è stato pubblicato su “Catolicismo”, n. 157, gennaio 1964). [La traduzione italiana è riportata nel libro di p. Giovanni Scantamburlo, Perché il Concilio non ha condannato il comunismo? Storia di un discusso atteggiamento, L’Appennino, Roma 1967, pp. 177 ss. (N. d. T.)].

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scopi usando metodi incruenti, realizzando così una completa uguaglianza di beni e di condizioni sociali, allora la giustizia, l’abbondanza e la pace regnerebbero finalmente nel mondo6. C. Il binomio paura-simpatia Come si vede, nella stessa psicologia d’innumerevoli persone in Occidente agisce un binomio di forze, chiamiamolo di paura-simpatia, che ispira in influenti settori economici, politici, intellettuali e perfino religiosi, la propensione a venire a compromessi col comunismo7.

6. Si tratta di un mito ben conosciuto, presente già nelle elucubrazioni di certe sette protestanti sorte nel secolo XVI, come pure nell’ideologia di certi esponenti “avanzati” della Rivoluzione Francese. Ce ne occuperemo più avanti (cap. IV, n. 2). 7. Ci sia consentito fare, di passaggio, un commento marginale al tema, ma che può chiarire un aspetto importante del problema comunista ai nostri giorni. Le considerazioni che abbiamo fatto in questo capitolo sono infatti importanti per lo studio della vera natura dell’attuale conflitto tra l’URSS e la Repubblica Popolare Cinese. Per le ragioni che abbiamo esposto, a rigor di logica, il comunismo deve operare un consistente rinnovamento dei metodi per avviare questa nuova fase della propria lotta. Così, a proposito di ogni avvenimento importante che accade nel mondo comunista (come la rottura tra Russia e Cina), aldilà delle sue cause immediate e visibili, bisogna necessariamente domandarsi fino a che punto esso risponda ai nuovi metodi e fini della suprema e più recente strategia comunista. Un osservatore cauto, dunque, deve considerare il dissidio cino-sovietico in questa luce, usando il più accorto senso critico. In effetti, se è ben vero che esistono punti naturali di divergenza tra gli interessi nazionali della Russia e quelli della Cina, e ragioni di competizione tra il PC russo e quello cinese per quanto riguarda la direzione mondiale del movimento comunista, va però notato che il dissidio tra i due “grandi” del comunismo presenta un altro aspetto di notevole importanza, dal punto di vista propagandistico. Considerandolo in funzione del binomio paura-simpatia, è evidente che, a gli occhi dei popoli liberi, la Cina comunista rappresenta il volto cupo e aggressivo, capace di agire sulla paura dell’Occidente, mentre le proposte di “coesistenza pacifica” dell’URSS e i sintomi di “disgelo” ivi verificatisi fanno vibrare, al di qua della “cortina di ferro”, le fibre della simpatia per il comunismo. Queste due facce, quella cinese e quella russa, che formano il diritto e il rovescio di una stessa medaglia, possono ben costituire un dispositivo di doppia pressione psicologica sul binomio paura-simpatia esistente nell’opinione pubblica del mondo libero, favorendo così i supremi interessi dell’espansionismo comunista. Per comprendere la plausibilità della nostra ipotesi, bisogna tener presente che questi interessi sono, in ultima analisi, comuni a tutti i marxisti, siano essi russi o cinesi. Analoghe considerazioni vanno fatte sull’attuale tendenza a una certa restaurazione della libera iniziativa nell’URSS. Se la Russia, da un lato, desistendo per ora da una guerra suicida, in un clima di “coesistenza pacifica”, vuole competere con gli Stati Uniti sul piano della produzione, dall’altro deve necessariamente ricorrere al ristabilimento, sia pure molto rudimentale, della libera iniziativa, poiché l’esperienza sovietica prova che altrimenti nessun progresso è possibile nei settori in cui la produzione risulta più carente. Ma questo ristabilimento non verrà utilizzato propagandisticamente per altri fini? Per esempio, non potrebbe esso provocare una smobilitazione spirituale nel mondo libero, disponendolo all’illusione che l’URSS sarebbe in cammino verso un regime democratico appena semi-socialista, e che i pericolosi contrasti tra i due mondi potrebbero essere eliminati se l’Occidente, nell’interesse della pace, consentisse a “socialistizzarsi” fortemente, nello stesso tempo in cui l’URSS si “capitalistizzasse” un poco? Questa illusione, agendo sul binomio paura-simpatia, a quali ritirate e a quali rese potrebbe predisporre le nazioni libere!

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10. L’ARRENDISMO E L’AMORE PER LA VERA PACE Questa propensione, beninteso, non si confonde col nobile desiderio, comune a tutti gli spiriti ben formati, di preservare la pace mediante negoziati degni ed accordi prudenti, che non comportino per noi la rinuncia ai principi fondamentali della civiltà cristiana. La propensione cui alludiamo va molto più oltre, e induce l’Occidente a desiderare un regime semi-comunista pur di eliminare l’attrito dei contrasti nelle sue relazioni con l’altro lato della “cortina di ferro”, e pur di facilitare un accomodamento tra i due mondi.

11. PAURA E SIMPATIA, PERSUASIONE IMPLICITA ED ESPLICITA, CONGIUNTE AL SERVIZIO DEL COMUNISMO

La paura e la simpatia sembrano incompatibili. Ma non lo sono nell’attuale situazione psicologica dell’Occidente. Insomma, al comunismo non è necessario rinunciare alla sua azione intimidatoria per raccogliere simpatia, o viceversa, ma gl’importa di mantenere tutto il “prestigio” della propria potenza distruttiva. Basandosi su questo “prestigio”, esso riesce ad ammorbidire la resistenza di numerosi avversari, rendendoli propensi a un compromesso. Raggiunto questo risultato psicologico, una certa simpatia per alcuni aspetti del marxismo si accentua di quegli avversari, disponendoli ad accettare una qualche resa di fronte ad esso, considerandola come un male minore effettivamente sopportabile. Pari passu, per il comunismo non si tratta di rinunciare al proselitismo esplicito fatto mediante i partiti comunisti nel mondo intero. Questo proselitismo continua a servire al suo piano, poiché un partito organizzato e dinamico costituisce per esso un prezioso fattore d’intimidazione in qualsiasi Paese, e una scuola di formazione dei dirigenti del futuro regime marxista. Semplicemente, il comunismo spera di conquistare l’opinione pubblica mondiale non più mediante i partiti comunisti esistenti nei Paesi liberi, bensì mediante la tecnica di persuasione implicita.

12. AVVIO AL CAPITOLO SECONDO Avendo messo in evidenza che il comunismo deve rinunciare alla propaganda dottrinale esplicita come principale mezzo per conquistare il mondo, risultandogli evidente l’opportunità di un’azione ideologica implicita, e avendo trovato i punti vulnerabili che, nelle condizioni di spirito di vasti settori del mondo libero, possono favorire il successo di quest’azione implicita, ora bisogna precisare in che cosa essa consista. Ci accingiamo a farlo, esaminando il trasbordo ideologico inavvertito. 23


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Capitolo II

Il trasbordo ideologico inavvertito

Per mettere a fuoco con esattezza in cosa consiste il trasbordo ideologico inavvertito, è necessario innanzitutto illustrare in che cosa esso, in quanto metodo di persuasione, si distingue dal procedimento “classico” di un partito comunista.

1. LA “CLASSICA” TECNICA COMUNISTA DI PERSUASIONE In genere, un partito comunista si forma mediante un nucleo d’intellettuali o intellettualoidi che suscita o sfrutta i più vari fattori di scontentezza e di agitazione, usando i mezzi ben noti, cioè il reclutamento individuale nelle università, nei sindacati, nelle forze armate e in altri ambienti, le riunioni dei gruppi di seguaci, le conferenze e i comizi, l’azione nella stampa, nella radio, nella televisione, nel teatro e nel cinema. In un clima così preparato dall’uso ora dell’audacia, ora della cautela, fin dal principio oppure a partire da un certo momento, il nucleo iniziale di seguaci espone la dottrina comunista facendone una palese apologia. Si costituisce allora una corrente di proseliti fanatizzati attratta da questo indottrinamento. Il partito è fondato. In questa sua prima fase, esso suscita, stimola e recluta così tutti gli elementi comunistizzabili presenti nell’ambiente in cui agisce, predisposti ad aderire al comunismo a causa di molteplici fattori ideologici, morali ed economici. Ma l’esperienza dimostra che questi successi iniziali, e a volte rapidi, della tecnica marxista di persuasione, dopo qualche tempo cessano. Una volta reclutati in un determinato ambiente i comunistizzabili già esistenti, le fila del partito si vanno ingrossando solo a poco a poco, nella misura in cui il corpo sociale, nel suo lento processo di degrado ideologico, morale ed economico, va “elaborando” altri elementi contaminabili. La propaganda comunista può certo accelerare più o meno questo processo di degrado, per cui gli individui assimilabili dal partito possono diventare più numerosi. Però essi saranno abitualmente una minoranza e, proprio mentre il comunismo va arricchendosi di questi aderenti minoritari, la sua propaganda va scontrandosi con una maggioranza refrattaria alla sua azione. Come conquistare questa maggioranza? 25


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2. LE SFUMATURE DELL’OPINIONE PUBBLICA E IL TRASBORDO IDEOLOGICO INAVVERTITO Per rispondere a questa domanda, è necessario tener presente che, nella citata maggioranza, bisogna distinguere tre classi: quelli che simpatizzano in qualche misura col comunismo, quelli che gli sono categoricamente ostili, e quelli che, pur essendogli vagamente ostili, tuttavia restano inerti di fronte ad esso. In relazione a ciascuna di queste classi, la strategia comunista presenta un aspetto peculiare. Per quanto riguarda gli elementi parzialmente simpatizzanti col comunismo, essi sono stati raggiunti dal proselitismo comunista, ma in modo incompleto. Del marxismo accettano qualcosa, e principalmente l’ostilità alla Religione, alla tradizione, alla famiglia e alla proprietà. Tuttavia, non lo portano fino alle ultime conseguenze. Si tratta dei socialisti e dei progressisti di ogni gradazione, di alcuni “utili idioti” e di altri complici del comunismo. Gli “utili idioti”, il comunismo procura di unirli in gruppi di sinistra non specificamente marxisti. I complici, procura di collocarli per quanto possibile nei posti-chiave di questi gruppi. Questi gruppi, li utilizza nella lotta per abbattere l’attuale ordine di cose e per conquistare il potere. Una volta ottenuto tale risultato, queste sventurate comparse, se non aderiranno immediatamente al partito comunista e non gli si sottometteranno senza riserve, finiranno scacciate, perseguitate e annientate. Per quanto riguarda gli elementi categoricamente ostili al comunismo e perfino militanti contro di esso, procura di colpirli con un’offensiva psicologica totale che mira a disorganizzarli, scoraggiarli e ridurli all’impotenza. A questo scopo, è particolarmente utile agire contro i capi anticomunisti. È necessario ch’essi si sentano spiati fuori e perfino dentro le loro organizzazioni, circondati da traditori, divisi tra loro, incompresi, diffamati e isolati dagli altri settori dell’opinione, allontanati dalle posizioni-chiave del Paese e dai mezzi di pubblicità, e talmente perseguitati nelle loro attività professionali che, bastando loro appena il tempo per provvedere alla propria sussistenza, si trovino il più possibile impediti ad agire seriamente contro il marxismo. Le minacce di vendette personali contro di loro e le loro famiglie sono usate non raramente dal comunismo, per impedire l’azione di questi elementi validi. Per quanto riguarda gli elementi indifferenti al problema comunista, variamente antipatizzanti del comunismo, ma che non giungono all’ostilità militante, essi sono la maggioranza della maggioranza, per così dire. Poiché essi si dimostrano refrattari a tutte le tecniche di persuasione esplicita, il comunismo non ha che un mezzo per 26


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attirarli: la tecnica della persuasione implicita. Ovviamente, il partito comunista non può scoprirsi nell’usarla. Esso deve scegliere agenti apparentemente noncomunisti, o perfino anti-comunisti, operanti nei più diversi settori del corpo sociale. Quanto più sembreranno insospettabili di comunismo, tanto più saranno efficaci. Per esempio, sul piano dell’azione individuale, un grande capitalista, un illustre politico borghese, un aristocratico o un sacerdote, avranno a questo scopo molta maggior efficacia che un piccolo borghese o un operaio. Su questo settore dell’opinione pubblica, possono molto in favore del comunismo i partiti politici, i giornali e gli altri mezzi propagandistici che, ostentando tutte le garanzie di non essere comunisti, tuttavia non considerano la lotta contro la setta rossa come una necessità permanente e di capitale importanza nell’attuale situazione. Tutti costoro (cioè persone, partiti politici, mezzi propagandistici) prestano al comunismo un aiuto capitale e prezioso, per il semplice fatto di mantenere nel settore in questione un clima di superficialità di spirito, come pure di facile e spensierato ottimismo, nei confronti della minaccia comunista. Così, dunque, le organizzazioni anticomuniste vengono implicitamente guardate come fanatiche ed esagerate da quella maggioranza dell’opinione pubblica che normalmente potrebbe e dovrebbe sostenerle, e dall’altro canto s’impedisce che in questa maggioranza, allarmata dell’attuale gravità del pericolo, gli indifferenti passino all’ostilità verso il comunismo e gli anticomunisti non-militanti entrino nella lotta. Entrambi questi risultati sono preziosi per il marxismo, perché gli evitano un gran danno. Mentre esso recluta a volontà i propri quadri di militanti, penetra e struttura le organizzazioni di “utili idioti” e, aiutato da questi elementi, compie la sua continua e inesorabile opera distruttiva contro la società, la maggior parte dell’opinione pubblica, che reagirebbe se avesse coscienza della reale gravità del pericolo, chiude gli occhi di fronte ad esso, incrocia le braccia e lascia libero corso al nemico. Tale risultato è assai considerevole. Però non è sufficiente al comunismo. Questa maggioranza, esso l’addormenta perché non è riuscito a conquistarla. Nella misura in cui non la conquista, sarà costretto a progressi lenti. E se un giorno questi progressi prenderanno corpo e non potranno più mascherarsi, esisterà sempre il rischio che quella maggioranza annoiata e distratta abbia un sussulto ed entri in lotta. Pertanto, la setta rossa non può contentarsi di esercitare su quel settore l’azione neutralizzatrice ed anestetizzante che abbiamo descritto. Il comunismo ottenne buoni risultati fondando partiti in tutto il mondo, mobilitando sotto il suo comando le sinistre, smantellando e neutralizzando innumerevoli organizzazioni anticomuniste. Ma fallì quando volle far accettare la sua dottrina alle maggioranze. E queste maggioranze, oltre che neutralizzarle, deve 27


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assolutamente persuaderle, se vuole vincere la sua grande battaglia nel nostro secolo. Come farlo? Se questo vastissimo settore è quello che bisogna persuadere, ovviamente è su di esso che bisogna agire. In relazione alla situazione spirituale in cui si trova la maggioranza, la tecnica di persuasione implicita più appropriata è il trasbordo ideologico inavvertito.

3.

IL METODO DEL TRASBORDO IDEOLOGICO INAVVERTITO : I SUOI TRE GRADI D’INTENSITÀ E LE SUE TRE FASI

Tre sono i possibili gradi d’intensità e tre le fasi del metodo del trasbordo ideologico inavvertito, e diversa può essere anche l’intensità dei suoi effetti. Questo metodo comporta una prima fase, di carattere interamente preparatorio, che consiste nell’agire per mezzo del binomio paura-simpatia, in modo da predisporre a un atteggiamento inerte e perfino rassegnato, di fronte ai progressi del comunismo, quei settori dell’opinione pubblica che, vedendo quei progressi, sarebbero propensi ad allarmarsi e a reagire. Di questa fase abbiamo trattato nel precedente capitolo (punto 9). In essa, il trasbordo ideologico inavvertito raggiunge il minimo della propria intensità. Un grado maggiore lo raggiunge nella fase successiva. Il paziente del trasbordo – sia esso un individuo, un gruppo ristretto o una grande corrente di opinione – passa inavvertitamente dalla rassegnazione a un atteggiamento di attesa leggermente favorevole. Il processo ottiene già un risultato che non è più negativo e preparatorio, ma ha qualcosa di positivo. Infine, quando riesce a trasformare il simpatizzante in seguace convinto, il trasbordo raggiunge la sua piena intensità e produce il suo frutto peculiare.

4.

DEFINIZIONE DEL TRASBORDO IDEOLOGICO INAVVERTITO: SUOI ESPEDIENTI

Nella sua essenza, il procedimento del trasbordo ideologico inavvertito consiste nell’agire sullo spirito altrui, portandolo a cambiare ideologia senza che se ne accorga. Per giungere a questo risultato, è possibile servirsi di diversi espedienti. Il più delle volte, essi si riducono ai seguenti: a) trovare nel sistema ideologico attualmente accettato dalla vittima punti di affinità al sistema ideologico verso il quale si vuole trasbordarlo; b) sopravvalutare dottrinalmente, e soprattutto emotivamente, questi punti di affinità, in modo tale che la vittima finisca per porli al di sopra di tutti gli altri valori ideologici ammessi; c) attenuare il più possibile, nella mentalità della vittima, l’adesione a quei principi 28


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dottrinali ancora accettati che sono inconciliabili con l’ideologia verso la quale si desidera trasbordarla; d) suscitare la simpatia per i militanti e i capi della corrente ideologica verso la quale verrà trasbordato, presentandoglieli come apostoli dei principi sopravvalutati secondo quanto esposto al punto b); e) passare da questa simpatia alla collaborazione per fini comuni alla vittima e ai suoi avversari dottrinali di prima, o almeno alla lotta contro una ideologia o una corrente nemica comune; f) da qui portare la vittima alla convinzione che i principi sopravvalutati sono più in armonia con l’ideologia dei suoi nuovi collaboratori e compagni di lotta, che con la sua ideologia di prima; g) a questo punto, la mentalità della vittima sarà cambiata e la sua adesione alla nuova ideologia non incontrerà che ostacoli di secondaria importanza. Durante quasi tutto questo percorso, la vittima non si renderà conto che sta cambiando le proprie idee. E, quando se ne renderà conto, non se ne spaventerà. Dall’inizio alla fine, crederà di agire di propria iniziativa e non si accorgerà di essere manovrato da altri. Il procedimento è dunque inavvertito in due suoi aspetti: - perché il paziente non lo percepisce durante quasi tutto il trasbordo; - perché egli non si accorge che questo trasbordo è un fenomeno prodotto da altri. In tal modo, l’avversario si trasforma gradualmente in simpatizzante e alla fine in seguace.

5.

ESEMPIO CONCRETO DI TRASBORDO IDEOLOGICO INAVVERTITO

Basandoci sul trinomio così abilmente diffuso dalla Rivoluzione Francese, esemplifichiamo sommariamente in che modo una persona ostile al comunismo può essere trasbordata inavvertitamente verso di questo. Libertà, Eguaglianza, Fratellanza: è chiaro che nessuna di queste parole ha un significato intrinsecamente cattivo. Ciò nonostante, si può facilmente abusare di esse. Così, se in una vittima, per mezzo di un’abile propaganda, si esaspera il desiderio di libertà, si può suscitare in lei il desiderio disordinato di uno stato di cose in cui non vi siano più autorità pubbliche né leggi. La natura umana decaduta anela facilmente a un tale stato e i germi ideologici trasmessi dalla Rivoluzione Francese al mondo sono carichi d’impulsi in questo senso. Orbene, secondo gli ideologi marxisti, questo è anche il termine al quale lo Stato totalitario comunista deve arrivare nella sua fase finale. Se si esaspera il desiderio di eguaglianza (cosa assai facile, data la tendenza dell’uomo all’invidia e alla ribellione), ne derivano logicamente sia l’odio per ogni gerarchia sociale ed economica, sia 29


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l’egualitarismo totale, inerente al regime comunista fin dalla fase del capitalismo statale e della dittatura proletaria. Se si esaspera il desiderio di fratellanza, si giunge all’odio per tutto quanto separa e discrimina proporzionatamente e legittimamente gli uomini, e dunque al desiderio di abolire tutte le patrie per instaurare una “repubblica universale”, altro obiettivo del comunismo. Abbiamo scelto come esempio questi tre desideri perché, a nostro modo di vedere, essi svolgono un ruolo capitale nella comunistizzazione dell’Occidente. Una volta esagerata nella mente di qualcuno l’importanza di questi tre valori, una volta creato intorno ad essi un clima emotivo squilibrato, è facile condurre il paziente, di tappa in tappa, a un riformismo liberale ed egualitario che, diventando sempre più radicale, prima induce alla simpatia e alla collaborazione con i comunisti, per poi giungere infine all’accettazione del comunismo stesso, considerato come l’incarnazione assoluta e perfetta della Libertà, dell’Eguaglianza e della Fratellanza.

6.

LE RIFORME DI STRUTTURA COME STRUMENTI ACCESSORI DEL TRASBORDO IDEOLOGICO INAVVERTITO

Considerando l’esempio che abbiamo fatto, è facile capire quanto il trasbordo ideologico inavvertito, che di per sé è un metodo di azione ideologica sull’opinione pubblica, possa essere aiutato dalle cosiddette riforme di struttura. Il liberalismo e soprattutto l’egualitarismo possono ispirare (e di fatto hanno ispirato) leggi che portano a una sempre più accentuata trasformazione rivoluzionaria delle istituzioni e della vita di vari Paesi. Adducendo il lodevole proposito di eliminare privilegi e disuguaglianze eccessivi, si può andare oltre e abolire gradualmente anche privilegi legittimi e disuguaglianze indispensabili alla dignità della persona umana e al bene comune. Nella misura in cui il rullo compressore dell’egualitarismo si va così facendo più schiacciante e distruttivo, mediante le riforme socialiste ed egualitarie (la riforma agraria, la riforma urbanistica, la riforma dell’impresa commerciale e industriale)8, 8. Non usiamo qui le espressioni “riforma agraria”, “riforma dell’impresa”, “riforma urbanistica” nel loro significato naturale e appropriato, che può essere solo quello di un giusto ed equo miglioramento delle condizioni dei lavoratori cittadini e campagnoli, dei piccoli proprietari rurali e degli affittuari, nel rispetto della proprietà privata e della funzione sociale che le compete (cfr mons. Geraldo de Proença Sigaud, mons. Antonio de Castro Mayer, Plinio Corrêa de Oliveira e Luiz Mendonça de Freitas, Reforma agraria – questão de consciencia, Editora Vera Cruz, São Paulo 1962 (IV ed.), pp. XIX e 9). Usiamo queste espressioni nel significato corrente, dato loro dalla demagogia di certe leggi che, col pretesto d’imporre l’esercizio della funzione sociale della proprietà, non fanno che mutilare la proprietà stessa, come se l’esercizio adeguato di una funzione potesse esigere la distruzione del suo organo. La protezione dei lavoratori e dei piccoli proprietari rurali, la partecipazione dei

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l’intera società si andrà avvicinando all’ideale comunista e, nella proporzione in cui l’opinione pubblica vi si abituerà, anch’essa andrà diventando comunista9. Come si vede, le riforme di base socialiste e confiscatorie comportano un’azione indiretta sull’opinione pubblica, che così va comunistizzandosi a poco a poco e inavvertitamente10.

7.

UN’OBIEZIONE: L’INCOMPATIBILITÀ TRA LIBERALISMO E SOCIALISMO

Alle considerazioni appena fatte sulle cosiddette riforme di struttura, si obietterà che queste ultime risultano ispirate dal socialismo. Stando così le cose, dal momento che il liberalismo sembra essere precisamente il contrario del socialismo, come attribuire al liberalismo un ruolo in queste trasformazioni? È ben vero che un ordine di cose egualitario presupporrebbe il dirigismo, dato che la libertà produce naturalmente la diseguaglianza. Ciò nonostante, i comunisti non vedono le cose in questo modo. Per loro, il dirigismo totale inerente alla “dittatura del proletariato” deve stabilire una volta per tutte l’eguaglianza tra gli uomini. Una volta stabilitala, il potere politico dovrà scomparire, cedendo il posto a un ordine di cose interamente anarchico (nel significato etimologico della parola), nel quale la piena libertà non provocherà più diseguaglianze. Per i comunisti, non c’è che una transitoria incompatibilità tra l’eguaglianza e la libertà. Sotto la “dittatura del proletariato”, si sacrifica provvisoriamente la libertà per instaurare l’eguaglianza totale. Questa operazione, nel frattempo, prepara l’era anarchica in cui la piena eguaglianza e l’intera libertà coesisteranno, sicché il dirigismo comunista è ultraliberale nel suo spirito e nella sua mèta. Oltre a ciò, in pieno regime capitalistico, il liberalismo prepara il terreno al comunismo, per quanto riguarda la famiglia e i buoni costumi. Nella misura in cui il liberalismo etico va aprendo la via al divorzio, all’adulterio, alla ribellione dei figli e dei dipendenti domestici, effettivamente la famiglia si dissolve, per cui le menti vanno abituandosi sempre più a un ordine di cose in cui non esista più famiglia: in altri termini, vanno verso quel “libero amore” che è inerente al comunismo. dipendenti agli utili, alla gestione e alla proprietà dell’impresa (se viene stimolata nei casi opportuni e non imposta per legge), la protezione dei locatari contro possibili eccessi da parte dei locatori, non hanno nulla da spartire con le misure confiscatorie delle quali abbiamo parlato. 9. Cfr. il nostro saggio La libertà della Chiesa nello Stato comunista, § 6. 10. Non vogliamo affermare con ciò che ogni persona che promuova rimedi di questa natura sia necessariamente comunista. Il processo di trasbordo ideologico è inavvertito non solo nelle sue vittime ma, a volte, anche in coloro che lo portano avanti.

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8. CIÒ CHE C’È DI NUOVO NEL TRASBORDO IDEOLOGICO INAVVERTITO Questo multiforme scivolamento della società occidentale e cristiana da una posizione di sinistra all’altra, finendo con lo sfociare nel marxismo, è un fenomeno antico e profondo. Per sua propria essenza, esso costituisce un trasbordo ideologico più o meno inavvertito, che questa società cristiana va purtroppo realizzando, durante i secoli, in direzione del comunismo. In questa prospettiva, dunque, il fenomeno non è nuovo. Nuovo, tuttavia, è l’aspetto ch’esso assume qua e là, per via dell’uso assolutamente particolare di svariati espedienti da parte di certi circoli, allo scopo d’imprimere a questo processo una rapidità senza precedenti. D’altro canto, ora non si tratta più di ottenere che questo slittamento si produca per tappe andando dal centro verso la sinistra, o da una sinistra moderata verso un’altra un po’ più audace, bensì andando dal centro o dalla sinistra moderata verso un ordine di cose che, nel suo contenuto, sia rigorosamente comunista. Dunque, tale processo presenta oggi una nuova caratteristica che in altri tempi mal traspariva da esso: un colore rosso intenso, non solamente a causa dei già riferiti artifici moderni dai quali è provocato, ma anche perché è drasticamente, prossimamente e perfino immediatamente tendente al marxismo, in quanto è caratterizzato da una rapidità e da un’audacia senza precedenti, a diretto vantaggio del comunismo. Il trasbordo ideologico inavvertito è nuovo soprattutto in quanto, da collaterale che era, è diventato preponderante nella tattica usata dal comunismo in vista della conquista ideologica del mondo11. 11. Un esempio significativo dell’efficacia di questo scivolamento surrettizio d’intere nazioni verso il comunismo, mediante l’impiego del trasbordo ideologico inavvertito in certi settori dell’opinione, si riscontra in Algeria, in Tunisia e soprattutto in Egitto, dove sembra trovarsi in una fase di esecuzione molto avanzata. Le limitazioni progressive del diritto di proprietà e della libera iniziativa hanno condotto quelle nazioni a un ordine di cose profondamente socialista, che tende sempre più verso l’estrema sinistra. Le dichiarazioni anticomuniste di alcuni dei loro capi politici non dimostrano che le trasformazioni da essi imposte non siano comuniste e non tendano al comunismo. Infatti il carattere comunista di una trasformazione deriva dalla natura di questa, e non dall’etichetta appiccicatale dai politici che la promuovono. Allo stesso modo, le riforme di Nasser non perdono il loro carattere socialista assai avanzato, per il semplice fatto che in Egitto il partito comunista è proscritto. Sarebbe veramente ingenuo, chi ne volesse dedurre che quel Paese si muove in direzione opposta al comunismo. L’utilità di applicare, a queste tre nazioni contemporanee, il processo di trasbordo ideologico inavvertito, integrato e accentuato da successive “riforme di struttura”, è ben dimostrata dalla relativa inerzia dell’opinione anticomunista di fronte a questi risultati. Né in Egitto, né in Algeria, né in Tunisia (parliamo dei nativi) si sono registrate reazioni proporzionate a quelle che ci furono a Cuba di fronte alla bolscevizzazione esplicita e perfino teatrale promossa da Fidel Castro; né l’opinione mondiale si è impressionata tanto per i progressi del comunismo nell’Africa del Nord, come per la bolscevizzazione di Cuba.

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Capitolo III

La parola-talismano, espediente del trasbordo ideologico inavvertito

Nel capitolo precedente, abbiamo esaminato il processo del trasbordo ideologico inavvertito. Esaminiamo ora la parola-talismano.

1.

UN ESPEDIENTE TRA I PIÙ EFFICACI

L’espediente che qui denominiamo parola-talismano12 è uno dei mezzi più efficaci per realizzare il trasbordo ideologico inavvertito. Esso consiste essenzialmente nell’usare con una tecnica astutissima certi vocaboli, più o meno elastici, adatti ad agire in un modo molto sui generis sulla mente d’individui, gruppi o grandi collettività.

2.

METODO DI UTILIZZARE LA PAROLA-TALISMANO

Il metodo col quale si produce il trasbordo ideologico inavvertito mediante la parolatalismano, benché comporti necessariamente adattamenti a ciascun caso concreto, può essere descritto nelle proprie linee generali. Per maggior comodità, inizieremo questa descrizione immaginando questo metodo come applicato da qualcuno su un gruppo ristretto di persone. È evidente ch’esso può essere applicato anche da una persona che agisca individualmente su un’altra, o da un gruppo ristretto che agisca su un altro, sia pure molto maggiore. L’applicazione di questo metodo si sviluppa progressivamente nel modo che descriveremo qui di seguito. A. Un punto d’impressionabilità Come punto di partenza, il metodo presuppone, in coloro ai quali sarà applicato, una speciale impressionabilità su un determinato argomento. Nell’ordine dei problemi sociali, questo punto d’impressionabilità sarà per esempio: - una evidente ingiustizia, quale può aversi in certi privilegi di classe; - un rischio particolarmente temibile, come quello di una rivoluzione sociale; - una sciagura presente, come la fame o la malattia. 12. Com’è evidente, usiamo qui il vocabolo talismano, come anche più avanti il vocabolo magia, nel suo senso corrente e meramente metaforico.

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Nell’ordine dei problemi ideologici (filosofici, religiosi, etc.), il punto d’impressionabilità può essere, tra l’altro: - la sventura di coloro che vivono nell’errore – ad esempio, eretici, ebrei, pagani e altri “fratelli separati”13 – e la impellente necessità d’illuminarli e d’istruirli; - il timore della imminente vittoria, a livello locale o mondiale, di una falsa ideologia (quella marxista, per esempio), con tutta la catena di conseguenze religiose, culturali e morali che ne deriverebbe; - il rischio che il crescente conflitto tra ideologie e regimi contrapposti aggravi le pericolose tensioni che tormentano il mondo contemporaneo, giungendo fino al parossismo di una guerra termo-nucleare. B. Un punto di apatia All’inizio del processo, il metodo suppone inoltre, in coloro ai quali sarà applicato, un punto di apatia o d’imprudenza che sia simmetrico al punto d’impressionabilità. Nel campo dei problemi sociali, questo punto simmetrico può essere, per esempio: - l’insensibilità di fronte a ingiustizie che in nessun modo sono meno flagranti o meno numerose di quelle legate a certi privilegi giustamente detestati. Per esemplificare, ricordiamo qui le ingiustizie gravissime e assai diffuse inerenti alla 13. Nel corso del presente studio, usiamo più volte l’espressione “fratelli separati”, oggi tanto in voga. La interponiamo di volta in volta alle parole “eretico” e “scismatico”, che in certi ambienti vanno cadendo sempre più in disuso. Lo facciamo intenzionalmente, perché “fratelli separati” è anch’essa un’espressione che va subendo un uso talismanico. Essendo stati creati dallo stesso Dio e discendendo dalla medesima prima coppia, tutti gli uomini sono fratelli. A un titolo ancor più nobile, lo sono pure coloro che credono in Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, Redentore del genere umano, e in Suo nome sono stati battezzati. Per profonde e forti che siano le divergenze tra gli uomini, ciò non fa scomparire questi titoli di fratellanza. Nulla di più legittimo, dunque, della qualifica di “fratelli separati”. Dire “legittimo”, è ancora dire poco. La citata espressione, che contiene un’evidente accentuazione del sostantivo fratelli, ha il merito di dare a coloro che la usano una coscienza più viva ed attuale di questa superiorità dei vincoli fraterni sulle divisioni, e a tal titolo costituisce un fattore utile a preziosi avvicinamenti apostolici. Tuttavia, se a volte è necessario porre in rilievo che tanti uomini separati da noi sono nostri fratelli, in altre occasioni è non meno necessario porre l’accento sul fatto che questi fratelli non sono fratelli qualunque, ma al contrario sono profondamente separati da noi. Infatti è nella doverosa e intera valutazione di entrambi gli elementi – fratellanza e separazione – che si trova la piena verità sulla posizione dei non-cattolici rispetto ai cattolici. Orbene, le parole eresia e scisma esprimono la natura di questa separazione con mirabile precisione morale e canonica, rammentando l’autorità magisteriale e giuridica della Chiesa, l’enorme gravità dell’errore o della rivolta contro di Essa, la severità delle sanzioni ecclesiastiche e la necessità che i cattolici si preservino dal contagio degl’infedeli. Così, render raro l’uso delle parole eretico e scismatico, o addirittura sopprimerle per parlare solo di “fratelli separati”, comporta una vera e propria mutilazione talismanica della reale portata di questa separazione: mutilazione particolarmente dannosa in un clima infetto da irenismo e relativismo religioso, com’è il nostro. Ciò potrebbe portarci molto lontano, se è vero che una rivista cattolica olandese si è ironicamente domandata quando cominceremo a proibire la parola demonio per usare solo quella di “angelo separato”.

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sistematica distruzione dei diritti di persone, famiglie, gruppi sociali o regioni, attuata gradualmente dalla massificazione delle società contemporanee, ossia dalla trasformazione del popolo in massa, secondo il celebre insegnamento di Pio XII nel radiomessaggio natalizio del 194414. Questa massificazione può accadere sia mediante la trasformazione dei costumi, sia per effetto delle leggi socialiste, sempre più numerose nei Paesi non-comunisti, sia anche per effetto della instaurazione della cosiddetta “dittatura del proletariato”, nei Paesi dove trionfa il comunismo. In questo modo, in olocausto a ciò che molti chiamano “socializzazione”, vengono immolate senza pietà non solo peculiarità personali, familiari o regionali legittime che costituiscono valori inestimabili, ma anche disuguaglianze culturali e sociali proporzionate e organiche, fondate su giusti motivi di ordine morale, intellettuale o patrimoniale; - l’insensibilità di fronte alla considerazione che, se una rivoluzione sociale è un male gravissimo, lo è abitualmente soprattutto a causa dei suoi obiettivi ingiusti e rovinosi, per cui nulla è più assurdo che voler evitare a tutti i costi la rivoluzione facendola dall’alto verso il basso, provocando così proprio quei risultati ingiusti e rovinosi che bisognava evitare. In altri termini, è assurdo realizzare dall’alto verso il basso, per iniziativa di coloro che dovrebbero essere i naturali custodi dell’ordine, quelle stesse “riforme” che la tattica comunista vuole imporre dal basso verso l’alto: infatti, per tutto il corpo sociale, questo significa «propter vitam, vivendi perdere causas» 15; - l’insensibilità di fronte al fatto che, se contro la fame o la malattia (qui considerate come mali sociali) si deve fare assolutamente tutto quanto è possibile, in nessun modo però si deve tentare l’impossibile, l’utopico, perché ciò non farà che aggravare, in un tempo più o meno breve, quegli stessi mali che si vorrebbe eliminare. In molti casi, lente sono le soluzioni profonde e durevoli di quei mali. Questo non costituisce un motivo per applicarle senza premura; occorre porle in pratica con raddoppiata sollecitudine, onde evitare che, alla naturale lentezza della soluzione, si aggiunga il censurabile ritardo prodotto dalla nostra negligenza. Ma molte volte bisogna rinunciare al desiderio impaziente di risultati immediati; questo desiderio ci espone infatti al rischio di preferire alle soluzioni autentiche le panacee violente, efficaci solo in apparenza, preconizzate dalla demagogia. Nell’ordine dei problemi ideologici, in modo ugualmente simmetrico, si possono enunciare i seguenti punti di apatia o d’imprudenza:

14. Pio XII, Discorsi e radiomessaggi, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1960, vol. VI, p. 239. 15. Giovenale, Satire, satira VIII, 84 [«Pur di sopravvivere, perdere le ragioni stesse del vivere»].

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- l’insensibilità ai rischi di uno zelo apostolico intemperante. Poiché la conoscenza della vera Religione è la maggior fortuna, certamente sono da compiangere sommamente coloro che non la conoscono, e sono da elogiare coloro che usano tutti i mezzi per portare all’unità della Fede i nostri “fratelli separati”. Pertanto costituisce per noi un vero pericolo l’omettere, per negligenza o ignoranza, una qualunque forma di azione conducente a tal fine. Ciò nonostante, è necessario non essere insensibili ai pericoli che possono derivare dall’eccesso opposto, cioè dallo zelo disordinato dell’apostolo e dal carattere naturalistico dei propri metodi. Pur di attrarre gli acattolici, lo zelo disordinato e il naturalismo possono spingere a usare tecniche illegittime, come ad esempio la terminologia confusa, le concessioni dottrinali implicite o esplicite, ecc. Limitandoci a considerare soltanto l’efficacia apostolica di questi cattivi artifici, bisogna comprendere che i più accorti e coerenti tra i nostri “fratelli separati”, lungi dal lasciarsi ingannare da astuzie di questo genere, le guardano con sospetto. Proprio i migliori e i più avvicinabili tra loro tengono gli occhi fissi su di noi, per giudicarci in base alla nostra sincerità e alla nostra coerenza con la Fede che professiamo. Potrà provocare in loro solo pena e avversione il vedere che, nell’ansia di ottenere conversioni, confidiamo più in tecniche moralmente dubbie che nel soprannaturale. Questi sono altrettanti pericoli ai quali non possiamo essere insensibili. Infine, e soprattutto, non possiamo rimanere indifferenti al pericolo di esporre a vacillamenti nella Fede i nostri stessi fratelli cattolici, convincendoli – pur di attuare una coesistenza pacifica con i “fratelli separati” – ad ascoltare conferenze e discorsi, a leggere libri o a partecipare a convegni mediante i quali l’eresia, lo scisma o la corruzione morale penetrano nella loro anima16. Dobbiamo vigilare ben più sulla preservazione dei cattolici, che sulla conversione degl’infedeli; infatti, nella gerarchia dell’amore verso il prossimo, nessuno merita maggior amore del fratello che condivide la nostra stessa Fede, come avverte san Paolo: «Pertanto, mentre abbiamo tempo, facciamo del bene a tutti, ma principalmente ai fratelli nella Fede» (Gal. 6, 10); - l’insensibilità al fatto che è illecito rinunciare ad alcuni principi superiori e improrogabili, e accettare alcuni errori del marxismo pur di evitarne una vittoria

16. Questo rischio fu presente alle preoccupazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II. Esso dispose che il compito di conoscere meglio il pensiero dei “fratelli separati” e di presentare loro nella maniera più conveniente la nostra Fede, attraverso riunioni in cui siano trattate soprattutto questioni teologiche, non spetta a qualunque cattolico, ma solo a «persone veramente competenti» e sotto la vigilanza dei vescovi (cfr. De Oecumenismo, decreto conciliare del 21.11.1964, § 9; A.A.S., vol. LVII, n. 1, p. 98). È chiaro che, per “persone veramente competenti”, bisogna intendere coloro che non solo sono dotati di cognizioni abbastanza solide per poter resistere illese ai sofismi dell’eresia, ma hanno pure sufficiente vigore nella virtù teologale della Fede.

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totale. La vittoria marxista è certamente causa di catastrofiche sciagure. Tuttavia, il nostro maggior rischio sta non nell’essere sconfitti da esso sul campo militare o politico, ma nell’inginocchiarci davanti al vincitore. Accettare un modus vivendi che comporti la rinuncia a principi per evitare le conseguenze funeste della nostra sconfitta – per esempio, rinunciare esplicitamente o implicitamente all’istituto della proprietà privata pur di ottenere la libertà di culto17 – è mille volte più triste che subire le persecuzioni provocate da un comportamento nobilmente e santamente fedele all’ortodossia; - l’insensibilità al rischio che il comunismo giunga a dominare il mondo, tra il silenzio e l’inerzia dei cristiani. Se i comunisti ci pongono brutalmente davanti all’alternativa tra rinunciare a combattere i loro errori o accettare il rischio di una guerra, implicitamente essi ci chiedono di scegliere tra compiere il nostro dovere di cristiani e apostatare concretamente. In questo caso, è necessario ripetere l’ammonimento di san Pietro: costi quel che costi, «si deve ubbidire più a Dio che agli uomini» (At. 5, 29). C. Una parola-talismano… In questa iniziale posizione – nella quale la vittima, per colpa dell’unilateralità della propria situazione spirituale, già appare favorevolmente predisposta al trattamento psicologico che sta per subire – l’uso di una parola ben scelta può produrre risultati sorprendenti. È la parola-talismano. Si tratta di una parola, il cui significato legittimo è simpatico e talvolta perfino nobile, ma che comporta una certa elasticità. Se questa parola viene usata tendenziosamente, comincia a rifulgere di un nuovo brillìo che affascina il paziente e lo conduce molto più lontano di quanto avrebbe potuto immaginare. Citeremo alcuni di questi sani e perfino nobili vocaboli. Una volta distorti, torturati, deturpati, violentati in vari modi, a quanti equivoci, errori e sbagli essi hanno fatto da etichetta di garanzia! Si può pure dire che, quanto più nobile ed elevato è il contenuto della parola della quale si abusa, tanto più dannosi sono gli effetti di questa tecnica: “corruptio optimi pessima”. Tra le parole portatrici di un contenuto valido, ma poi trasformate in ingannevoli talismani al servizio dell’errore, possiamo citare: giustizia sociale, ecumenismo, dialogo, pace, irenismo, coesistenza, etc. D. …che suscita una costellazione di simpatie e repulsioni… Così impregnato di uno spirito nuovo, ciascuno di questi vocaboli, in coloro che si

17. Cfr. il nostro citato saggio su La libertà della Chiesa nello Stato comunista.

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trovano nelle condizioni di spirito indicate più sopra (paragrafi A e B), suscita tutta una costellazione d’impressioni ed emozioni, di simpatie e repulsioni. Come vedremo più avanti, questa costellazione va orientando tali persone verso nuove rotte ideologiche: ossia verso il relativismo filosofico, il sincretismo religioso, il socialismo, la cosiddetta “politica della mano tesa”, l’aperta collaborazione col comunismo e infine l’accettazione della dottrina marxista. E. …dotata di grandi qualità propagandistiche… La vittima del processo di trasbordo ideologico si trova sempre più attratta verso queste rotte ideologiche dal fascino della propaganda. Le parole-talismano corrispondono a ciò che gli organi propagandistici in genere stimano essere moderno, simpatico, attraente. Perciò i conferenzieri, oratori e scrittori che usano quelle parole, per questo solo fatto vedono aumentate le proprie possibilità di successo nella stampa, nella radio, nella televisione. Per questo motivo, il radioascoltatore, il telespettatore e il lettore di giornali o riviste troveranno utilizzate ad ogni proposito queste parole, che riecheggeranno sempre più nel fondo della loro anima. F.…della cui elasticità si abusa per scopi propagandistici… Questo valore propagandistico della parola-talismano spinge lo scrittore, l’oratore e il conferenziere alla tentazione di usarla con crescente frequenza, ad ogni proposito e perfino a sproposito, perché in tal modo potranno farsi applaudire più facilmente. Inoltre, pur di moltiplicare le occasioni di citare questa parola, cominciano a usarla in significati analogici sempre più rischiosi, ai quali la sua elasticità naturale si presta fin quasi all’assurdo. G.…suscettibile di essere fortemente radicalizzata… Una volta che la parola-talismano si è così dotata di una vasta gamma di applicazioni sempre più rischiose, le più audaci tra queste, e perciò stesso più “avanzate”, vanno mettendo in disuso quelle più moderate, sensate e correnti. Chi tempo addietro applaudì o usò la parola-talismano nel suo significato appena un po’ deformato, come se fosse una succosa novità, finirà per applaudirla e usarla in senso sempre più estremizzato, fino a raggiungere l’apice. È il fenomeno della radicalizzazione della parola-talismano. H.…realizzando in tal modo il trasbordo ideologico inavvertito. Questa radicalizzazione della parola-talismano va di per sé operando il trasbordo ideologico inavvertito di coloro che la usano. Costoro infatti, presi dal fascino del 38


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vocabolo, vanno senz’altro accettando come ideali supremi e ardentemente professati quei significati sempre più radicali ch’esso va assumendo. Pari passu, questi ideali, con la forza dei valori accettati come supremi, vanno producendo nella vittima del trasbordo tutti quei mutamenti di atteggiamento interiore ed esteriore, nei confronti dell’avversario di prima, che abbiamo descritto nel capitolo precedente (punto 4). Così, la parola-talismano serve a innescare e portare a compimento il procedimento del trasbordo ideologico inavvertito.

3. COME

IMPEDIRE IL SUCCESSO DELLA PAROLA-TALISMANO

Il lettore ovviamente si domanderà se c’è qualche maniera per impedire il successo dell’espediente che abbiamo descritto. Questa maniera esiste: è facile scoprirla, se si tiene conto di alcune caratteristiche della parola-talismano. A. La parola-talismano è restia a esplicitarsi La parola-talismano radicalizzata è restia a esplicitare il suo significato. Infatti la sua grande forza sta nell’emozione che suscita. La chiarificazione turberebbe e impedirebbe ipso facto la fruizione emotiva e immaginifica del vocabolo, attirando verso di esso la considerazione analitica di chi l’usa o l’ascolta. Mantenendo invece così ostinatamente implicito il suo significato, la parola-talismano continua ad essere veicolo e nascondiglio del suo crescente contenuto emotivo. B. L’esplicitazione “esorcizza” la forza magica della parola-talismano L’azione della parola-talismano può dunque essere “esorcizzata” mediante la sua spiegazione. È la conseguenza di ciò che abbiamo detto. Si comprende così l’utilità del presente studio, che vuole mettere a disposizione degl’interessati il mezzo per arrestare il procedimento di trasbordo ideologico inavvertito “esorcizzando” la parola-talismano.

4. RISERVA SULL’USO DELLA PAROLA IMPREGNATA DI SIGNIFICATO TALISMANICO Sarebbe superfluo aggiungere che qui non vogliamo raccomandare di non usare mai la parola impregnata di significato talismanico, ma semplicemente di usarla solo a proposito e sempre nel suo senso naturale e legittimo.

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Capitolo IV

Un esempio di parola-talismano: “dialogo”

Le indicazioni generali che abbiamo tracciato sembreranno forse troppo astratte. Perciò in questo capitolo esemplificheremo il modo di usare le parole-talismano, analizzando il modo in cui una di esse – “dialogo” – viene utilizzata per promuovere il trasbordo ideologico inavvertito al relativismo hegeliano e al marxismo.

1. “DIALOGO”: SUOI SIGNIFICATI LEGITTIMI A. Il metodo adottato Per descrivere il processo di trasbordo ideologico inavvertito operato mediante i progressivi significati talismanici della parola “dialogo”, occorre: - studiare preliminarmente i significati naturali e legittimi di questa parola; - segnalare in quali di essi avviene l’evoluzione verso un primo significato talismanico; - descrivere come, a partire da questo punto iniziale e sotto l’azione del binomio paura-simpatia, i successivi significati talismanici si generano l’uno dall’altro e operano il trasbordo ideologico inavvertito. B. I significati naturali e legittimi a) Carattere propedeutico del loro studio Questa parte dello studio ha solo una portata propedeutica. Per l’analisi esatta del processo talismanico che più avanti faremo, per il lettore: - è comodo, nel complesso dei significati naturali e legittimi del “dialogo”, distinguere con la massima chiarezza la differenza esistente tra quello in cui avviene la prima distorsione talismanica, e gli altri; - è utile tenere chiaramente presenti gli elementi che costituiscono questo significato legittimo, nel quale avviene la prima distorsione, per intendere meglio le trasformazioni che tali elementi subiscono in ciascuna tappa della radicalizzazione talismanica. b) Molteplicità dei significati legittimi Se analizziamo i significati correnti della parola in questione, come pure di altre 41


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che hanno una certa connessione con essa – “dialettica”, “discussione”, “polemica”, etc. – possiamo verificare che le si attribuiscono significati molto diversi e a volte, da un certo punto di vista, perfino contraddittori. Questo accade tanto negli ambienti colti, quanto in quelli mediamente o scarsamente istruiti. Col trascorrere degli anni, la carica emotiva collegata ad alcune di queste parole ne ha alterato il significato, facendo sì che persone di generazioni differenti le intendano in modo altrettanto differente. Da una regione all’altra di un Paese, e a maggior ragione da un Paese all’altro, si manifestano frequentemente variazioni notevoli. D’altronde, questo fenomeno non è circoscritto all’uso corrente della parola, perché, nello stesso linguaggio filosofico, la parola “dialettica”, ad esempio, ha significati così diversi, che non è possibile usarla senza definire con molta precisione qual è il significato che le si vuole attribuire18. c) Come studiare questi significati Per ben studiare i diversi significati legittimi di “dialogo”, parrebbe consigliabile farne un inventario, studiando ciascuno di essi e confrontandoli con gli altri. Tuttavia, non avendo il presente saggio un carattere specificamente linguistico, sembra opportuno procedere in un modo più breve e più chiaro, ponendo in luce, nell’etimologia di “dialogo”, un elemento fondamentale che si trova in tutte le accezioni della parola e poi facendo una classificazione di queste accezioni usando un duplice criterio che più avanti indicheremo. Questo metodo ci fornisce un quadro complessivo dei significati del vocabolo in causa e ci permette di situare nel panorama che gli è proprio, con la necessaria precisione, le accezioni legittime che verranno corrotte dal processo talismanico. d) Criterio della classificazione Questa classificazione dei diversi significati della parola “dialogo” si fa: - dal punto di vista dell’obiettivo del “dialogo”; - dal punto di vista dell’atteggiamento emotivo dei dialoganti, che provoca conseguenze sulle modalità del “dialogo”. Sarà facile verificare che, considerando da questi punti di vista le modalità del “dialogo”, a ciascuna di esse corrisponde un significato del vocabolo.

18. L’osserva André Lalande nella voce “Dialectique” del suo Vocabulaire technique et critique de la philosophie [Presses Universitaires de France, Paris 1951, pp. 227-228; trad. ital. Dizionario critico di filosofia, Isedi, Milano 1971].

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e) Terminologia Per maggior chiarezza, indicando con una parola esplicativa complementare ciascuno dei significati classificati, si stabilisce una terminologia mediante la quale il lettore potrà seguire la nostra analisi, senza grande sforzo. f) Selezione dei significati È possibile che qualche significato legittimo di “dialogo” non sia incluso nella classificazione. Non volevamo classificarli tutti, ma solamente quelli che hanno più importanza in funzione del criterio della classificazione, ossia della natura stessa del “dialogo”. g) Riserva importante Come facilmente si vedrà, per la comprensione della nostra tesi, non ha molta importanza che il lettore preferisca un altro criterio di classificazione o che, in quello che adottiamo, lamenti l’omissione di un qualche altro significato di “dialogo”. In effetti, la classificazione che proponiamo ha carattere meramente propedeutico. La nostra esposizione può essere facilmente compresa e seguita, purché il lettore tenga presenti le diverse accezioni di “dialogo”, qui esplicitate con l’ausilio delle parole complementari costantemente usate nella nostra terminologia. h) Etimologia di “dialogo” Nell’etimologia della parola “dialogo”, si trovano gli elementi per determinarne il significato. Il vocabolo greco dià-lògos è composto da dià, che indica una separazione, una disgiunzione, e da lògos, che equivale a “verbo”. Di qui l’uso di “dialogo” in Socrate e Platone, per designare la forma di elaborazione intellettuale in cui due o più interlocutori, procedendo mediante domande e risposte, mirano a distinguere le cose secondo i rispettivi generi19. Basandosi su questa etimologia, si comprende che la parola “dialogo”, presa in senso lato, sia giunta a includere, nelle principali lingue occidentali, ogni e qualunque forma d’interlocuzione, come si riscontra nei dizionari20.

19. La dialettica come fu intesa da Aristotele, benché inspirandosi a Platone, non ci sembra in stretta relazione con la presente tematica (cfr. A. Lalande, op. cit., ibid.). 20. Nell’enciclica Ecclesiam suam, quando tratta del dialogo, il Santo Padre Paolo VI usa la parola latina “colloquium” (loqui cum), il cui equivalente in lingua attuale, “colloquio”, serve ugualmente a designare in senso lato ogni e qualsiasi interlocuzione.

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i) Modalità del “dialogo” secondo il suo scopo Nel “dialogo” in senso lato, bisogna fare una prima distinzione, la cui portata verrà facilmente compresa nel corso della nostra esposizione. Dal punto di vista del suo obiettivo: 1 - il “dialogo” è tale, che gl’interlocutori non mirano reciprocamente a cambiare le rispettive convinzioni, il che può verificarsi: a - quando le parti tendono al mero scambio d’informazioni o al passatempo (questa modalità la chiameremo dialogo-intrattenimento); b - quando le parti tendono collaborare per indagare o studiare una questione che non conoscono sufficientemente (ossia il dialogo-indagine); 2 - oppure il dialogo è tale, che gl’interlocutori, pensandola diversamente sull’argomento in questione, tendono a convincersi l’un l’altro a cambiare opinione usando ragionamenti (ossia la discussione)21. j) Corrispondenti differenze di atteggiamento emotivo A questi diversi obiettivi e intenzioni, corrispondono rispettivamente atteggiamenti emotivi diversi in coloro che partecipano al dialogo: 1 - quando gl’interlocutori non mirano reciprocamente a mutare le opinioni altrui, l’atteggiamento emotivo è di distensione: a - tale distensione è piena e continua, nel caso del dialogo-intrattenimento; b - tale distensione è piena anche nel caso del dialogo-indagine; tuttavia, siccome durante l’indagine può sorgere qualche divergenza accidentale e transitoria, è possibile che nel corso di questo dialogo sorga qualche tensione momentanea22; 2 - nel caso della discussione, normalmente l’atteggiamento emotivo degli interlocutori ha carattere diverso: le differenze di opinioni creano tra loro un’estraneità che costituisce di per sé un ostacolo alla simpatia; le argomentazioni, con le quali ciascuno cerca di convincere l’altro, possono far sorgere facilmente un tipo di rapporti più o meno simile, secondo i casi, alla polemica. Così, il “dialogo” comporta due modalità fondamentali che si distinguono per il loro obiettivo e, come corollario, per l’atteggiamento emotivo che caratterizza il rapporto tra gl’interlocutori. 21. Contrariamente a quanto avviene nella discussione e ancor più nel dialogo-indagine, il dialogo-intrattenimento ha solo una lontana relazione col “dialogo” concepito secondo la nozione platonica. 22. Se il dialogo-indagine comporta eventuali divergenze, in cosa consiste la sua differenza dalla discussione? Il dialogo-indagine verte non su un tema sul quale gli interlocutori sono in disaccordo, ma su un tema ch’essi ignorano, almeno in parte. Qui la divergenza è solo un episodio occasionale e sporadico, relativo a qualche aspetto dell’indagine. La discussione invece ha per oggetto un tema sul quale c’è disaccordo ed essa comporta fondamentalmente e continuamente una schermaglia di argomenti.

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k) Dialogo lato sensu, dialogo stricto sensu, discussione Alla modalità di “dialogo” descritta sopra (quella al numero 2 dei punti i e j), è del tutto appropriata la parola discussione (dal latino discutere, ossia dis, che indica separazione, e quatere, agitare). Ma come designare la forma di dialogo indicata nel numero 1 di quei punti? Essa non ha un vocabolo distinto: si chiama anch’essa “dialogo”. Da ciò deriva un significato ristretto della parola “dialogo”, che designa la modalità n. 1 (a sua volta comprendente il dialogo-intrattenimento e il dialogo-indagine), accanto al senso lato ed etimologico già analizzato. Di fronte a questi due significati di “dialogo”, qual è la posizione del vocabolo discussione? Come abbiamo visto, esso designa una delle modalità del dialogo lato sensu. E d’altro canto, siccome nell’ambito del genere le specie si distinguono e si oppongono, discussione è il contrario di dialogo in senso stretto. l) Discussione-dialogo, discussione pura e semplice, polemica Vi sono distinzioni da fare anche per quanto riguarda la discussione. Infatti essa comporta tre gradi d’intensità: 1 - La discussione può avere un carattere estremamente sereno e cordiale, in modo che, pur conservando pienamente il carattere discussorio, ha la piacevolezza di una tipica forma del dialogo stricto sensu. Si noti bene che, siccome ciascun interlocutore mira a mutare le convinzioni dell’altro, ci troviamo qui in presenza di un’autentica discussione e non di un dialogo in senso stretto. È unicamente in qualcosa di accidentale – ossia nella sua forma, nella soavità dei modi – che questo tipo di discussione assomiglia al dialogo stricto sensu. Pertanto, non è solo in senso lato che il termine “dialogo” si applica a questo tipo di discussione, ma lo si applica anche in un senso particolare e specifico che deriva, come per osmosi o assimilazione, dalla mera somiglianza accidentale esistente tra il dialogo stricto sensu e questa modalità di discussione. Ecco perché la chiameremo discussione-dialogo. 2 - In un secondo grado d’intensità, la discussione può avere il generico calore emotivo inerente a una interlocuzione in cui ciascuna parte cerca di mutare le convinzioni dell’altra. Questa modalità – che corrisponde al significato corrente della parola “discussione” – la chiameremo discussione pura e semplice. 3 - Infine, la discussione può avere un calore emotivo molto intenso, prendendo allora nome di polemica (dal greco pòlemos, guerra). A causa del suo particolare vigore, la polemica ha in generale un carattere molto 45


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chiassoso e, se tratta di questioni dottrinali, si estende facilmente al livello dell’attacco personale23. m) Quadro schematico dei significati legittimi di “dialogo” Tutte queste nozioni sui diversi significati della parola “dialogo”, possiamo sintetizzarle nel seguente schema: 23. È utile un confronto tra la nostra terminologia e quella usata dal Santo Padre Paolo VI nella memorabile enciclica Ecclesiam suam (in A.A.S., vol. LVI, n. 10, pp. 609-659). La tematica di questo storico documento è ben diversa da quella che ci occupa nel nostro studio. Il Papa ha fondamentalmente cura d’insegnare ciò ch’egli chiama il «dialogo di salvezza», il dialogo apostolico della Chiesa, mostrandone principalmente le caratteristiche, le modalità e la vastità del campo di azione che abbraccia l’intera umanità. Di conseguenza, l’enciclica si occupa solo collateralmente di certi aspetti negativi del “dialogo”, come per esempio l’ipotesi di un dialogo con i comunisti – da essa qualificato come «abbastanza difficile, per non dire impossibile» – o la impraticabilità del dialogo con quei non-cattolici che «lo respingono su tutta la linea o simulano di volerlo accettare». È pure solo collateralmente che il Santo Padre fa riferimento al pericolo dell’irenismo e del sincretismo nel dialogo. Orbene, nel nostro studio, il dialogo che vogliamo analizzare e indicare all’attenzione dell’opinione pubblica, è proprio quell’opposto. Non è il dialogo desiderato dalla Chiesa per attirare le anime, ma è il dialogo insidiosamente deformato dal comunismo per traviarle e mantenerle lontane dalla Chiesa. È solo a titolo preparatorio ed esplicativo che ci occupiamo del dialogo buono. Nel panorama dell’enciclica, si trovano tutte le forme d’interlocuzione tra cattolici e non-cattolici; per quanto riguarda la discussione combattiva e perfino la polemica, essa non le respinge se non quando sono «ingiuriose» e «violente», sebbene ciò accada «frequentemente». Pertanto il Papa non esclude la buona discussione né la buona polemica. Così, nello spirito dell’enciclica, l’interlocuzione, che in questo studio chiamiamo “dialogo” lato sensu, include come forme moralmente legittime (oltre ovviamente al dialogointrattenimento e il dialogo-indagine) anche le tre modalità di discussione che denominiamo discussionedialogo, discussione pura e semplice, polemica. Tuttavia, è facile notare che il Papa pone più accuratamente l’attenzione sulla discussione-dialogo, riconoscibile dalla sua cordialità, e che inoltre la considera come quella che «più genuinamente ha la natura di dialogo». In questa prospettiva, la discussione pura e semplice e la polemica restano forme autentiche e legittime di dialogo, sebbene meno pienamente. Diciamo tutto questo, per mostrare l’armonia tra ciò che affermiamo sul dialogo legittimo e ciò che insegna l’enciclica sul “dialogo di salvezza”. Molti dei rimproveri che rivolgiamo al cattivo dialogo, lo differenziano profondamente dal dialogo apostolico della Chiesa insegnato dall’enciclica Ecclesiam suam. Così, quest’ultimo dialogo non ha nulla di relativistico, perché mira essenzialmente alla conversione della parte non-cattolica. Inoltre esso non partecipa della illusione irenistica, secondo cui l’interlocutore noncattolico sarebbe sempre in buona fede. Nel parlare della possibile insincerità di certi interlocutori, della durezza di coloro che chiudono le orecchie ai tentativi di dialogo ecclesiale, dei pericoli dell’irenismo e del sincretismo come fattori che falsificano il dialogo salvifico, l’enciclica non ignora che il Peccato originale ha prodotto conseguenze nell’uomo. Infine, sebbene l’Ecclesiam suam tratti dell’irenismo solo di passaggio, non è meno certo che lo rifiuta esplicitamente e lascia intravedere le apprensioni provate al riguardo dal Pontefice. D’altra parte, di tali apprensioni non potrebbe aver dubbi chi, già prima dell’enciclica, avesse letto l’esortazione del 12 febbraio 1964 ai parroci e predicatori quaresimalisti romani, nella quale Paolo VI afferma con vigore: «La spada dello spirito sembra, nell’ora presente, riposare nel fodero del dubbio e dell’irenismo. Ma appunto per questo, il messaggio della verità religiosa deve risuonare con maggior vigore. Gli uomini hanno bisogno di credere a chi si mostri di essere certo di quanto insegna» (cfr. Insegnamenti di S. S. Paolo VI, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1965, vol. II, p. 125).

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DIALOGO-INTRATTENIMENTO DIALOGO IN SENSO STRETTO

Interlocuzione nella quale ciascuna parte non mira a mutare la convinzione dell’altra. Atteggiamento emotivo di distensione.

Mira a informare, distrarre etc. Atteggiamento emotivo di distensione piena e continua. DIALOGO-INDAGINE

Mira a investigare, studiare, analizzare. Abitualmente atteggiamento emotivo di distensione. Sono tuttavia possibili tensioni accidentali e passeggere.

DIALOGO IN SENSO LATO DISCUSSIONE-DIALOGO

ED ETIMOLOGICO

Indica qualsiasi tipo di interlocuzione.

DISCUSSIONE

Interlocuzione nella quale ciascuna parte tende a mutare la convinzione dell’altra. È l’opposto del dialogo in senso stretto. Atteggiamento emotivo che è quasi sempre di lotta.

Calore emotivo minore del normale. Relativamente al contenuto, è autenticamente una discussione, perchè mira a mutare la convinzione dell’interlocutore. Si denomina dialogo solo per la somiglianza accidentale (amenità di forma) che ha col dialogo in senso stretto. DISCUSSIONE PURA E SEMPLICE

Calore emotivo normale cioè il grado di combattività che è inerente ad un’ interlocuzione in cui ciascuna parte mira a mutare la convinzione dell’altra. DISCUSSIONE-POLEMICA

o solamente “polemica” Calore emotivo non comune, cioè particolare veemenza e carattere rumoroso.

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n) Caratteristica comune ai diversi significati di “dialogo” Eccetto ovviamente quando è presa in senso lato, la parola “dialogo” nelle sue diverse applicazioni presenta un carattere di armonia, di concordia e di pace. Questo carattere è inerente al dialogo stricto sensu, ossia al dialogo-intrattenimento e al dialogo-indagine, ai quali è proprio un atteggiamento emotivo di piena distensione. Come abbiamo visto, è solo nella misura in cui il carattere di armonia sia presente in modo rilevante in una discussione, che questa potrà chiamarsi “dialogo”, per assimilazione, costituendosi così la discussione-dialogo. Per quanto amena possa essere, una discussione-dialogo non sarà mai essenzialmente un dialogo stricto sensu, perché ad ogni e qualsiasi discussione è inerente un carattere combattivo. C. La combattività nelle diverse modalità di discussione Qual è la natura di questo carattere combattivo? È intellettuale, quando consiste in una schermaglia di argomentazioni con le quali una parte mira a convincere l’altra, a «bruciare ciò che hai adorato e adorare ciò che hai bruciato», secondo la formula di san Remigio. È volitiva ed emotiva, quando allo scontro delle idee si aggiunge il calore dell’urto tra le volontà e il contrasto tra i diversi modi di sentire. D. La discussione pura e semplice e la polemica hanno un carattere peggiorativo? Questo carattere di combattività intellettuale, volitiva o emotiva, costituisce forse un male in sé stesso? La discussione pura e semplice e la polemica hanno forse un carattere peggiorativo? Bisogna rispondere a questa domanda, perché è a partire dall’erronea risposta che molti le danno, che si sviluppa l’espediente della parola-talismano “dialogo”. Non tratteremo il problema della liceità del carattere combattivo nella discussionedialogo, nella quale esso è quasi impercettibile. Prima di tutto, vedremo quanto si riferisce alla discussione pura e semplice. a) Legame del problema col Peccato originale Di per sé, gli scontri di carattere ideologico, volitivo o emotivo, sono frutto del Peccato originale. Sarebbe auspicabile che tra gli uomini non vi fossero mai dissensi, discussioni e lotte. Tuttavia, una volta presupposto il Peccato originale, è legittima e utile la discussione pura e semplice? Di principio, sì. b) La logica, mezzo per conquistare la verità e il bene Infatti, una volta ammessa l’esistenza oggettiva della verità e dell’errore, del bene 48


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e del male, come pure la capacità della logica di portare l’uomo alla conoscenza della verità e di liberarlo dalle catene dell’errore, per portarlo ad amare il bene e per sottrarlo alla tirannia del male, si deve necessariamente riconoscere l’utilità di questa forma di discussione. Usandola infatti una persona può procurare all’altra il massimo beneficio: quello di sottrarla all’errore e al male e di darle il possesso della verità e del bene. c) L’influenza dei fattori emotivi Tuttavia qualcuno chiederà: “La discussione pura e semplice, non dovrebbe essere sempre fredda e apatica, nel senso etimologico del termine?” Pensiamo di no. Ogni uomo ha un naturale attaccamento alle proprie convinzioni e perciò, in generale, se ne allontana solo di malavoglia. Questo attaccamento è ancora più accentuato dal fatto che certe convinzioni danno coerentemente origine a tutto un insieme di abitudini, a tutto un modo di essere, a tutto un tipo di vita, per cui il cambiarle determina nell’uomo la necessità di accettare dolorosi cambiamenti in certi punti sensibili. Spinto dal nobile, ordinato e forte amore per la verità e il bene, oppure dal miserabile, tormentoso e violento amore per l’errore e il male, l’uomo, nel discutere, non si comporta come una mera e fredda macchina raziocinante. Per il fatto stesso di essere uomo, nel discutere egli s’impegna per intero, non solo con tutte le risorse della propria intelligenza, ma anche con tutto il vigore della propria volontà e col calore delle proprie passioni, buone o cattive che siano. Così impegnata, la discussione pura e semplice non consiste nella mera argomentazione, pur conservando sempre quel primato del raziocinio, dal quale le viene la propria principale ragion d’essere e il meglio della propria dignità. Per un incontestabile diritto della virtù, come pure per una frequente interferenza del peccato, è comprensibile che la discussione si presenti, molte volte, con un saliente carattere di combattività emotiva. In tal modo, se è vero che, in certe circostanze, la discussione pura e semplice si eleva assumendo una nobile e superiore serenità, vi sono altre occasioni in cui essa è feconda solo se è illuminata dal fuoco dello zelo per la verità e per il bene. d) Fattori di persuasione collaterali all’argomentazione A volte l’animo umano, con grande naturalezza, comincia a percepire la veracità di una tesi trovandola amabile o bella. Siccome tra la bontà, la bellezza e la verità c’è una profonda reversibilità, molte volte l’amore facilita la percezione della verità, e la forza di persuasione della persona che discute non sta solamente nel raziocinio, ma anche in tutto il proprio modo di essere e di parlare, che non di rado 49


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consente di manifestare la bellezza o la bontà della causa che sostiene. Orbene, nel lodare il bene e il bello, naturalmente entra in azione un fattore emotivo che facilmente porta la discussione pura e semplice a crescere in ardore, giungendo a volte fino alla polemica. e) Legittimità dell’ira nella discussione pura e semplice Tuttavia, si potrebbe obiettare che gli argomenti sopra esposti aprono le porte all’ira, che non dovrebbe mai entrare nella conversazione. Abbiamo visto poco prima che la passioni umane hanno un legittimo ruolo nel confronto delle idee. Dal punto di vista morale, ciò si spiega facilmente, perché nessuna passione è essenzialmente cattiva: sono tutte indifferenti e, se non diventano intemperanti, possono legittimamente influenzare la discussione pura e semplice. L’ira non è altro che una di queste passioni e, se rimane nei limiti della temperanza, può benissimo imprimere il proprio specifico carattere allo scontro ideologico. Si aggiunga poi che la santa ira contro l’errore e il male, invece di offuscare la perspicacia dell’ingegno, in molti casi l’aumenta e con ciò contribuisce alla lucidità della discussione pura e semplice24. f) Il contrasto e la combattività sono necessari per dimostrare la verità,… Dimostrare quanto vera, buona e bella sia una tesi, è spesso compito arduo. Abbiamo parlato poco fa degli effetti del Peccato originale, delle abitudini e delle passioni nello spirito umano, così come delle crisi provocate nell’uomo da certi cambiamenti di opinione. Al culmine di tali crisi, egli allora esita. La contraddizione tra quelle idee, che ha intuito essere vere, e la vita che conduce, gli risulta insopportabile. A sbarrargli il cammino è la famosa alternativa formulata da Paul Bourget: «bisogna vivere come si pensa, altrimenti, presto o tardi, si finisce col pensare come si è vissuto»25; conformerà egli le proprie idee alle azioni, o le proprie azioni alle idee? In situazioni così tenebrose e dolorose, è chiaro che bisogna ricorrere a tutte le risorse dell’argomentazione realmente convincenti. E una di essi è senza dubbio il contrasto. San Tommaso insegna che una delle ragioni, per cui Dio permette l’errore e il male, è quella di far risaltare maggiormente lo splendore della verità e del bene mediante il contrasto26. Nel discutere, non è lecito in alcun modo 24. In questo senso, si veda ciò che insegna san Tommaso d’Aquino nella Summa theologica, II-IIae, q. 158, a. 1. 25. P. Bourget, Le démon de midi, Plon, Paris 1914, vol. II, p. 375. 26. «Le altre cose, e soprattutto quelle inferiori, sono ordinate al bene dell’uomo come al loro proprio fine. Se nulla di cattivo esistesse nelle cose, il bene dell’uomo sarebbe grandemente diminuito, tanto per ciò che si

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disprezzare il contrasto, questa risorsa del divino Pedagogo, tanto preziosa che, nei piani della Provvidenza, in qualche modo compensa gli innumerevoli inconvenienti derivanti dall’esistenza dell’errore e del male in questo mondo. Orbene, come far valere il contrasto, se non mediante l’aperta e categorica denunzia di tutto quanto l’errore ha di falso e il male di censurabile? Infatti non basta lodare la verità e il bene. Nella discussione pura e semplice, è legittimo sviluppare, in tutta la misura del possibile, il carattere di combattività. In questo modo, diventa legittima l’aggressione tanto alle false idee quanto alle persone. … sia per quanto si riferisce alle idee,… Aggressione alle false idee, in primo luogo. Nel mostrare ciò ch’esse hanno di erroneo, di contraddittorio, d’immorale, si produce un salutare conflitto nell’animo di chi le professa. In questo modo, tutto un insieme di preconcetti e di affetti disordinati può risultare scosso, per cui la luce della verità e il profumo della virtù possono penetrare nella povera anima che fino a poco prima era interamente incarcerata nell’errore. … sia per quanto si riferisce alle persone Aggressione alle persone, in secondo luogo. Quando questa viene fatta in modo da mostrare, nella persona attaccata, soltanto l’errore e il peccato in cui si trova, senza estendersi inutilmente ad altri aspetti, si può aprirle gli occhi per mostrarle lo stato in cui vive, esortandola efficacemente a tornare alla verità e al bene. Inoltre, se l’attacco avviene in presenza di terzi, non solo si neutralizza in costoro l’effetto dello scandalo, ma si riesce anche ad aumentare, per contrasto, il loro amore per la verità e il bene. È ovvio che tali attacchi sono legittimi solo se realmente necessari e vanno fatti secondo le regole della giustizia e della carità, in modo che, per quanto siano aperti e vadano al fondo delle cose, non colpiscano, nella persona attaccata, la sua dignità di uomo ed eventualmente di cristiano. Se vengono fatti nel momento adatto e con linguaggio elevato, attacchi di tal genere, anche quando sono stati diretti contro quei potenti della terra abituati ad essere trattati con speciale rispetto, nel corso della storia hanno prodotto un gran bene: spesso un gran bene per le persone cui erano rivolti, e sempre una notevole riferisce alla conoscenza, quanto rispetto al desiderio o all’amore del bene. Infatti, per mezzo del confronto col male si conosce meglio il bene, e quando soffriamo qualche male desideriamo più ardentemente il bene; così i malati conoscono più di tutti quanto sia buona la salute e inoltre la desiderano con più ardore delle persone sane. Perciò la divina Provvidenza non escluse totalmente il male dalle cose» (san Tommaso d’Aquino, Summa contra gentes, III, 71).

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edificazione per il popolo. Ad esempio, sono celebri gli attacchi del profeta Nathan contro il re Davide, di sant’Ambrogio contro l’imperatore Teodosio, di san Gregorio VII contro Enrico IV, di Pio VII contro Napoleone. Quante e quali elette grazie ne sono derivate, sia nel senso di allontanare le anime dall’errore e dal male, sia nel senso di attirarle alla verità e al bene! I tempi cambiano, ma l’ordine profondo delle cose non cambia. Perfino i despoti totalitari del nostro secolo, benché siano certamente più intrattabili dei potenti del passato, non lo sono tanto da potersi dire che non riceverebbero benefici da attacchi di questo tipo. g) Abolire la discussione pura e semplice è un’artificiosità … Come già detto, la discussione pura e semplice non è un mero scontro di argomenti; per qualche aspetto, è uno scontro di personalità. In essa avviene tra anima e anima un contatto nel quale si esercita un’autentica influenza tra le parti, per mezzo dell’insistenza, della ripetizione (che Napoleone considerava come la miglior figura di retorica), dell’attrazione o della ripulsa di un contendente verso l’altro. Il gioco di tali fattori contribuisce ancor di più a dare, a questa maniera di conversare, una reale somiglianza a un torneo e perfino a una lotta. Tutte queste considerazioni mostrano che la discussione pura e semplice risponde a necessità naturali e profonde dell’umana convivenza e che sarebbe una grave e pericolosa artificiosità proibirla, pretendendo di ridurre le forme di questa convivenza al mero dialogo in senso stretto o alla discussione-dialogo. h) … che provoca confusione e lotta Abbiamo detto “pericolosa”, poiché ogni artificiosità lo è. Infatti le forze della natura, se violentate ed espulse, ritornano con raddoppiato vigore. Lo disse Orazio in forma lapidaria: «Naturam expelles furca, tamen usque recurret»27. Se, per un malinteso amore della concordia, non si teme di cadere nell’artificiosità, si rinuncia a un mezzo indispensabile all’umana convivenza per illustrare la verità. In questo modo, si scivola nella confusione, che è uno dei più sinistri e profondi fattori di perturbazioni, proteste e lotte prolungate, insolubili e pregne di odio. Com’è noto, niente impedisce di più quella vera pace, che è la tranquillità dell’ordine28, del fatto di estinguere negli uomini la verità e il bene, unico fondamento di questo stesso ordine. Chi nega la liceità della discussione pura e semplice,

27. Orazio, Epistole, I, 10, 24 [«Scaccia pure la natura col forcone; essa tornerà sempre alla carica»]. 28. Cfr. sant’Agostino d’Ippona, De Civitate Dei, lib. XIX, cap. 13.

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immaginando a volte di agire in favore della concordia, in realtà stabilisce il dominio della discordia. i) La discussione pura e semplice non rovina la carità? Leggendo queste considerazioni, più di un lettore, influenzato dall’irenismo corrente ai nostri giorni, sentirà salire dal fondo dell’anima una preoccupazione: non sarà forse imprudente da parte nostra aver elogiato la discussione pura e semplice? Pur avendo ragione sul piano astratto dei principi, la facilità con cui si può abusare di questa forma di colloquio non è forse tale, che sarebbe meglio proibirla del tutto? Rispondiamo con l’antica massima giuridica: «abusum non tollit usum». Se la discussione pura e semplice è lecita in sé stessa, e se ha una funzione specifica nel naturale ordine delle cose, per ciò stesso svolge un ruolo nei piani della Provvidenza. «Tempus faciendi, tempus loquendi» (Eccl. 3, 7); applicando questa massima della Scrittura, possiamo dire che vi sono situazioni in cui è opportuno non discutere, ma ve ne sono altre in cui si ha il diritto e perfino il dovere irrinunciabile di farlo; ce ne ha dato l’esempio il Divino Maestro (cfr. Gv. 8 e ss.). Perciò, il non discutere affatto è peggiore del discutere a volte malamente. Se, per misura prudenziale, si presenta la discussione pura e semplice come se fosse sempre illecita, sempre pericolosa, sempre nociva alle anime, si compie una vera e propria frode dottrinale. Se poi chi ha il dovere di discutere è un cattolico, in questa frode c’è un sintomo di accentuato naturalismo. Se infatti discutere è per lui un diritto e perfino un dovere, con l’abbondanza delle grazie che la Chiesa dispensa, come ammettere che gli sia impossibile farlo secondo le norme della giustizia e della carità? Forse che per lui non vale più l’«omnia possum in Eo qui me confortat»? (Fil. 4, 13). j) Conseguenza: la discussione pura e semplice non ha necessariamente un carattere spregevole No. È inammissibile condannare di principio la discussione pura e semplice, attribuendole un carattere necessariamente spregevole. k) Nemmeno la polemica ha necessariamente un carattere spregevole Tutto quanto abbiamo detto sulla discussione pura e semplice, vale anche per la polemica. Questa possiede, nel più alto grado, la combattività inerente a quella, e perciò, quando è cattiva, può possedere in sommo grado tutto ciò che gli inasprimenti della discussione pura e semplice hanno di censurabile. Ma, per analogo motivo, anche la polemica, quando è buona, possiede in sommo grado 53


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tutte le qualità inerenti alla discussione pura e semplice ben condotta29. Questo, abbiamo avuto occasione di dimostrarlo più estesamente nel libro intitolato In difesa dell’Azione Cattolica30, che nel 1949 fu oggetto di una significativa lettera di elogio scritta, a nome dell’indimenticabile Papa Pio XII, dall’illustre sostituto della Segreteria di Stato, mons. Giambattista Montini, oggi Papa Paolo VI gloriosamente regnante. A quanti sembrerà strano ciò che affermiamo sulla buona polemica, ricordiamo semplicemente che, per palese disposizione della Provvidenza in favore del bene delle anime, lo Spirito Santo suscitò nella Chiesa eminenti polemisti che godono dell’onore degli altari e le cui opere costituiscono le legittima gloria della Chiesa e della cultura cristiana. Tra i tanti, menzioniamo san Gerolamo, sant’Agostino, san Bernardo, san Francesco di Sales. l) La discussione pura e semplice, la polemica e l’opinione pubblica Non potremmo considerare chiuse queste considerazioni, senza fare un’osservazione sulla vera dimensione dei problemi sollevati dalla discussione pura e semplice e dalla polemica. In generale, questi problemi vengono trattati unicamente in considerazione degli interlocutori che discutono o polemizzano. In realtà, quando, a causa dell’argomento, coinvolgono molte persone e vengono adeguatamente pubblicizzate, la discussione pura e semplice e la polemica hanno una portata sociale, perché provocano una miriade di controversie analoghe tra coloro che ne vengono a conoscenza. L’ampiezza del fenomeno può arrivare a formare due o più correnti di opinione all’interno della società. In un campo e nell’altro, dal confuso vociare delle dispute individuali, vanno allora emergendo voci più elevate, più ricche di pensiero e più cariche di forza espressiva, che a loro volta avviano tra loro controversie di grande portata. Tutto ciò che in entrambi i campi si va affermando allora si compendia, si precisa,

29. Sia detto di passaggio: la condanna della discussione pura e semplice e della polemica conduce al rifiuto dell’apologetica. La cattiva apologetica è come il sosia della cattiva discussione e della cattiva polemica; quella è il pregiudizio, la faziosità, la passione sregolata nell’elogiare o nel difendere qualcosa. Ma la buona apologetica è sorella della buona discussione e della buona polemica. Per ciò stesso, la difesa dell’apologetica va fatta, mutatis mutandis, esattamente negli stessi termini della difesa della discussione pura e semplice e della polemica. A sua volta, la cattiva agiografia è la trasposizione della cattiva apologetica sul piano della storiografia religiosa. Eppure, non è raro vedere la parola “agiografia” usata in un senso peggiorativo, come se essa fosse per intero solo una leggenda edificante priva di valore storico, una specie di favola cristiana. È facile capire che la difesa della buona agiografia va fatta con argomenti analoghi a quelli che difendono la buona apologetica, la buona discussione e la buona polemica, delle quali è nobile sorella. 30. Em defesa de Ação Catolica, Editora Ave Maria, São Paulo 1943, pars V.

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acquista maggior densità di pensiero, spicca il volo e viene portato fino all’estreme conseguenze. Così, le correnti di opinione si fronteggiano e si esprimono in diverse gamme; a loro volta, le discussioni e le polemiche suscitate dai maggiori si ripercuotono nuovamente sui minori, l’inspirano e li orientano. Nella forma più illustre e storicamente più importante, la discussione pura e semplice e la polemica nascono, si sviluppano e si spengono davanti agli occhi di moltitudini, sulle quali esercitano un’azione orientatrice della massima portata. In funzione di questo, moltitudini raggiungono la loro piena maturità. Considerato tutto ciò, è evidente che la strategia apostolica non può essere concepita e realizzata solo in relazione alle persone o alle correnti di opinione ristrette con le quali il cattolico discute, ma anche in relazione al pubblico talvolta immenso che segue, come interessato spettatore, la discussione pura e semplice o la polemica. Orbene, se l’adozione della conversazione più amena (la discussione-dialogo) può spesso essere conveniente per attrarre e persuadere l’altro interlocutore, a volte le legittime esigenze dello spirito pubblico imporranno di confutare e di fustigare con veemenza l’errore e il male. Infatti, in determinate circostanze, si corre il rischio che un’inopportuna pacatezza nei difensori della buona causa produca nel pubblico una vera e propria atonia del senso cattolico o della sensibilità morale. Questo è un ulteriore argomento per provare che la discussione pura e semplice e la polemica sono, in certi casi, indispensabili. In tal senso è istruttiva la lotta bimillenaria della Chiesa contro i sistemi religiosi e filosofici che le sono opposti. In questa lotta, il dialogo esige la discussione pura e semplice e la polemica, con maggiore o minore intensità, considerando che tali esigenze esistono non solo a livello di contatti individuali, ma anche di gruppi, di nazioni e dell’intero genere umano. m) La discussione pura e semplice, la polemica e il carattere militante della Chiesa La sistematica proibizione di ogni discussione pura e semplice e di ogni polemica, e la riduzione di ogni contatto fra le parti a mere discussioni-dialoghi (ossia a discussioni grandemente pacate e cordiali), avrebbero per la Chiesa conseguenze di un’importanza che non sarà mai sufficientemente messa in risalto. Tali dialoghi non potrebbero mai bastare a tutte le necessità tattiche della Chiesa militante. Infatti, qualcosa di autenticamente militante, nel vero senso della parola, è inerente all’«inimicitias ponam» (Gen. 3, 15) e alla situazione terrena di una Chiesa, che non potrà mai evitare di affrontare nemici – nel senso forte della 55


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parola – mossi da un’ostilità che, secondo i casi, va dalla semplice antipatia fino al culmine dell’odio. Questi nemici non saranno mai soltanto mere idee astratte, meri agenti sociali o economici avversi: saranno anche uomini in carne ed ossa che costituiranno fino alla fine del mondo la «stirpe del Serpente»31. E la Sposa di Cristo non potrà mai smettere di combatterli. Ciò non vuol dire che la Chiesa debba vedere solo un nemico in ogni persona o istituzione non-cattolica. Ma è utopistico immaginare che, in una qualche epoca storica, tra quanti sono estranei al suo grembo, Essa possa incontrare solo uomini pieni di simpatia che, col sorriso sulle labbra, la interroghino su un punto o su un altro del quale non sanno darsi spiegazione, e che di sorriso in sorriso, senza maggiori complicazioni, finiscano sempre col convertirsi. Inoltre, sarebbe un utopista estremo chi, in questo secolo di campi di concentramento e di cortine di ferro, di bambù o di altro, immaginasse che la Chiesa abbia di fronte solo gente tanto sprovveduta e ridanciana. Del resto, è priva di consistenza questa semplicistica distinzione dei non-cattolici in due categorie: una di avversari, l’altra d’ignoranti benevoli, per così dire. In realtà, tra i non-cattolici sono pochi sia quelli che portano all’estremo l’odio per la Chiesa, sia quelli che sono immuni da ogni antipatia verso di Essa. La maggior parte appartiene simultaneamente, e in proporzioni variabili all’infinito, a entrambe le categorie cui abbiamo alluso, sicché la benevolenza, l’antipatia e l’ignoranza verso la Chiesa si mescolano in modo peculiare a ciascuno di loro. Questo porta necessariamente ogni cattolico ad adottare, in proporzioni ugualmente variabili all’infinito, il linguaggio proprio ai diversi tipi di conversazione. Qui lo zelo ingegnoso non consiste nell’escludere qualcuno di essi, ma nell’utilizzare ciascuno di essi, combinandolo o non con gli altri, se e nella misura in cui il caso concreto l’impone.

31. «Dio ha disposto e stabilito una sola inimicizia, ma irriconciliabile, che durerà e aumenterà fino alla fine: l’inimicizia tra Maria, sua degna Madre, e il diavolo, tra i figli e servi della Ss.ma Vergine e i figli e seguaci di Lucifero. […] Dio ha posto non solo inimicizia, ma anche inimicizie, e non solo tra Maria e il demonio, ma anche tra la stirpe della Ss.ma Vergine e la stirpe del demonio. Ossia, Dio ha posto inimicizie, antipatie ed odii segreti tra i veri figli e servi della Ss.ma Vergine e i figli e schiavi del demonio. Tra loro, non c’è ombra di amore né d’intima affinità. I figli di Belial, gli schiavi di Satana, gli amici del Mondo (che sono la stessa cosa) hanno sempre perseguitato finora, e più che mai perseguiteranno in futuro, coloro che appartengono alla Ss.ma Vergine, come un tempo Caino perseguitò suo fratello Abele ed Esaù suo fratello Giacobbe, i quali rappresentano i reprobi e i predestinati» (San Luigi Grignion di Montfort, Trattato della vera devozione alla Ss.ma Vergine, §§ 52 e 54).

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2.

LA FERMENTAZIONE EMOTIVA IRENISTICA

È necessario situare nel suo contesto ideologico e nel suo quadro psicologico quella tendenza irenistica32 che analizziamo a proposito dei diversi significati delle parole “dialogo” e “discussione”. A. Un ordine di cose evoluto e paradisiaco: l’“era della buona volontà” Quali utopie, quali singolari stati emotivi sono capaci di portare qualcuno ad ammettere come auspicabile e possibile un nuovo ordine di cose, che potremmo chiamare “era della buona volontà”, nella quale gli uomini non discuterebbero né polemizzerebbero più tra loro? Quest’ordine di cose suppone che, avendo superato gli effetti del Peccato originale in virtù di una vasta evoluzione, e per ciò stesso trovandosi ad essere composto soltanto da “uomini di buona volontà”, il genere umano possa inaugurare uno stile di convivenza nel quale i disaccordi, qualora esistano, vengano eliminati dall’azione chiarificatrice di rapporti privi di combattività. B. L’“era della buona volontà”, l’utopismo anarchico inerente al comunismo e la “repubblica universale” Una volta supposta tale evoluzione dell’umanità dallo stato attuale verso questa “era della buona volontà”, i suoi effetti non si limiterebbero solo alla sfera della convivenza privata, ma passerebbero logicamente alla sfera giuridica e perfino politica. Uomini che non sbagliano né intellettualmente né moralmente, o nei quali

32. Intendiamo qui la parola irenismo non nel senso di un temperato amore per la vera pace, ma nel senso di uno sregolato amore per una pace ottenuta ad ogni costo, a danno dei principi, dei diritti acquisiti, eccetera, insomma a danno della vera pace. Su tale irenismo dice Pio XII nella enciclica Humani generis (12 agosto 1950): «Esiste anche un altro pericolo, che è tanto più grave in quanto si nasconde sotto il manto della virtù. Vi sono molti che, deplorando la discordia del genere umano e la confusione regnante negli spiriti, come pure mossi da un imprudente zelo delle anime, sono vigorosamente spinti da un ardente desiderio di rompere la barriere che separano tra loro le persone rette e onorate, e abbracciano un irenismo tale che, ponendo da parte le questioni che dividono gli uomini, pretendono non solo di combattere in unione di forze contro l’ateismo soggiogatore, ma anche di conciliare opinioni contrarie, perfino nel campo dogmatico. (…) Se tali persone non pretendessero altro che adeguare meglio, con qualche rinnovamento, l’insegnamento ecclesiastico e i suoi metodi alle condizioni e alle necessità attuali, non vi sarebbe quasi ragione di temere. Ma alcuni, accesi da un imprudente irenismo, sembrano considerare come un ostacolo al ristabilimento dell’unità fraterna ciò che si fonda sulle leggi e sui principi stessi dati da Cristo e sulle istituzioni da Lui fondate, o ciò che costituisce la difesa e il sostegno dell’integrità della Fede. Se questo crollasse, tutte le cose verrebbero unificate, sì, ma solamente nella rovina!» (Pio XII, Discorsi e radiomessaggi, vol. XII, p. 498). Di questo irenismo parla anche, in termini espressivi, il Santo Padre Paolo VI nel passo, tratto dalla esortazione ai parroci e predicatori quaresimalisti romani, riportato alla nota 23 di questo nostro studio.

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l’errore è tanto lieve che un chiarimento cordiale li riconduce immediatamente sulla retta via, hanno necessariamente una vita politica senz’attriti né frizioni. Sia le rivoluzioni che i crimini sono impossibili tra loro. Partendo da queste fantasticherie, si apre una nuova prospettiva nelle relazioni giuridiche e, di conseguenza in conseguenza, all’estremo limite dell’orizzonte appare, a rigor di logica, un tale dimagrimento delle funzioni della legge e della giustizia, che il potere pubblico finisce ridotto a un ambito meramente amministrativo e trasformato in una sorta di cooperativa. È l’ordine di cose anarchico e cooperativistico, sognato dal comunismo come ideale susseguente alla “dittatura del proletariato”. Per un’analoga concatenazione di conseguenze, che si susseguono ineluttabilmente le une dalle altre, l’evoluzione umana dovrebbe proiettare i propri effetti in una sfera di convivenza ancora più alta, ossia la convivenza fra le nazioni. Le rivalità d’interessi e le tensioni di carattere ideologico scomparirebbero dalla vita internazionale; la stessa O.N.U. morirebbe in quanto superflua. Una supercooperativa collegherebbe gli sforzi dei popoli a livello mondiale, come le cooperative minori lo farebbero a livello nazionale. Sarebbe una forma anarchica di “repubblica universale”. E, così, una concordia del tutto imperturbabile regnerebbe in tutti i tipi di relazioni tra gli individui e tra i popoli, sulla terra rigenerata e abitata esclusivamente da “uomini di buona volontà”. Non si semplifichino eccessivamente le cose. Nell’“era della buona volontà”, soprattutto al suo inizio, se restasse ancora qualcosa dell’epoca precedente, il dialogo a volte non sarebbe facile né breve. Non raramente esigerebbe una grande pazienza dall’una e dall’altra parte. Ma la certezza del positivo risultato finale darebbe agli uomini la forza per dissipare gradualmente e pacificamente tutti gli equivoci e le confusioni, e per sopportare le seccanti lungaggini inerenti a questo compito. C. L’irenismo religioso nell’“era della buona volontà” L’irenismo religioso sarebbe una delle più importanti conseguenze dell’instaurazione dell’“era della buona volontà”. La discussione nelle sue diverse forme – e, a maggior ragione, le spedizioni militari e religiose come le Crociate – dovrebbero essere vietate come intrinsecamente cattive e poste sotto il più pesante vituperio, lasciando spazio esclusivamente alle altre modalità di relazione, che costituirebbero l’unica forma lecita di contatto tra le diverse religioni. D. Irenismo, ecumenismo e modernismo A questo punto dell’analisi dell’irenismo, è impossibile non sentir affiorare alle labbra la parola ecumenismo, così frequentemente usata quando si parla del “dialogo”. Conviene subito distinguere due forme di ecumenismo. La prima, finalizzata ad 58


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avviare le anime verso l’unico Ovile dell’unico Pastore, cerca di ridurre, per quanto possibile, le discussioni pure e semplici e le polemiche, per promuovere la discussione-dialogo e le altre forme d’interlocuzione. Questo ecumenismo ha un ampio fondamento in numerosi documenti pontifici, specialmente di Giovanni XXIII e di Paolo VI. Ma l’altra forma di ecumenismo va più oltre e tenta di distruggere ogni e qualsiasi carattere militante nei rapporti che la Religione cattolica ha con le altre religioni (cfr. nota 32). Questo ecumenismo estremo ha un evidente fondo di relativismo o sincretismo religioso, la cui condanna si trova in due documenti di san Pio X: l’enciclica Pascendi contro il modernismo e la lettera apostolica Notre charge apostolique contro il Sillon. E. Altre forme d’irenismo ideologico Ciò che abbiamo qui detto sull’irenismo religioso, può facilmente riferirsi, mutatis mutandis, all’irenismo in quanto applicato ad argomenti filosofici o ideologici di qualsiasi altra natura. F. Irenismo, relativismo ed hegelismo Come si vede, nelle sue molteplici forme l’irenismo conduce al relativismo. Di fatto, l’esasperata brama di concordia unanime, completa, universale e definitiva, porta al desiderio di sminuire il valore dei punti di divergenza tra gli uomini. Come più avanti vedremo in modo più accurato, partendo da questa sottovalutazione, si arriva facilmente a una posizione relativistica che, pur di sopprimere le divergenze, finisce per relativizzare il valore di tutte le opinioni e per negare che qualcuna di esse possa essere oggettivamente vera od oggettivamente falsa. Questo relativismo totale è più negativo che affermativo. Esso nega tutti gli altri sistemi, ma non offre una concezione positiva dell’uomo, della vita e dell’universo. Ma la spinta irenistica non potrebbe contentarsi di questo. Tendendo, per naturale dinamismo, ad avvicinarsi al proprio estremo, essa prende una fisionomia hegeliana: ossia immagina che l’evoluzione del pensiero e il corso della storia siano entrambi mossi dall’eterna contraddizione tra dottrine o forze nello stesso tempo relativamente vere e relativamente false. Da questa contraddizione tra la tesi e l’antitesi, per via di superamento nascerebbe una nuova “verità” relativa che, a sua volta, si porrebbe in contraddizione con un’altra, dando origine a una nuova sintesi, e così via indefinitamente. Questo è il termine finale del lungo processo che, iniziando dal semplice irenismo, portando quest’ultimo di affinamento in affinamento, arriva al relativismo e infine all’hegelismo. 59


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G. Collaborazione con i migliori tra i “fratelli separati” nella lotta contro il relativismo irenistico A questo punto è opportuna un’osservazione. L’ecumenismo estremista produce non solo tra i cattolici, ma anche tra i “fratelli separati” – siano essi scismatici, eretici o altro – una confusione tragica, certamente una delle più tragiche del nostro secolo così pieno di confusioni. Infatti, nel campo religioso, oggi non c’è pericolo maggiore del relativismo. Esso minaccia tutte le religioni e contro di esso devono lottare tanto l’autentico cattolico quanto qualunque “fratello separato” che professa seriamente la propria religione. Vista da questa prospettiva, tale lotta può arrivare a buon fine solo mediante lo sforzo di ciascuno di conservare integro il significato naturale e specifico della propria fede, contrastando le interpretazioni relativistiche che la deformano e la corrompono. In questa lotta, alleato del vero cattolico è, ad esempio, l’ebreo o il musulmano che non abbia il minimo dubbio non solo su ciò che ci unisce ma anche su ciò che ci divide. È a partire da questa presa di posizione che il relativismo può essere espulso da tutti i campi in cui tenta di penetrare. Parimenti, solo partendo da questo l’interlocuzione nelle sue varie forme, incluse la discussione pura e semplice e la polemica, può contribuire a condurre gli spiriti all’unità. “Patti chiari, amicizia lunga”, dice un proverbio. Solo la chiarezza nel pensiero e nell’esposizione di ciò in cui si crede, porta veramente all’unità. L’ecumenismo esasperato, tendendo a che ciascuno cerchi di occultare o sottovalutare i veri punti di divergenza dagli altri, conduce a un regime di maquillage che può solo favorire il relativismo, ossia il potente comune nemico di tutte le religioni. H. Irenismo, dialogo e utopismo evoluzionista La dissoluzione dello Stato (nella sua forma attuale) e dell’O.N.U, la sostituzione di entrambi con un regime globale anarchico-cooperativista, al cui vertice starebbe una super-cooperativa mondiale, la conseguente impossibilità di guerre e quindi l’inutilità delle forze armate, l’ecumenismo esasperato, il relativismo religioso e l’irenismo, sono dunque corollari di un unico presupposto comune: l’evoluzione della natura umana verso una “era della buona volontà”, nella quale la discussione in tutte le sue forme scompaia e gli uomini pratichino tra loro solo il “dialogo”. Una volta che la tendenza irenistica, che cerca d’imporsi mediante il dialogo talismanico, è stata così presentata nel proprio contesto ideologico, sembra superfluo indicare le dottrine su cui essa si basa, poiché sono ben conosciute. Si tratta dell’utopismo, i cui lineamenti si scorgono in tante posizioni culturali durante il corso della storia, e che irruppe in Occidente, con particolare vigore, dopo il 60


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Medioevo. A partire da Moro e Campanella fino ai socialisti utopistici del secolo scorso, l’itinerario è facile da descrivere ed è già stato descritto innumerevoli volte33. I. Importanza degli aspetti emotivi dell’utopismo irenistico Nel presente studio, è certamente molto importante analizzare lo stato emotivo legato a questo utopismo; infatti, come vedremo, per provocare il crollo del mondo occidentale, il comunismo sfrutta nell’irenismo lo stato emotivo del quale si nutre, più che le idee stesse su cui si fonda. Creato per il Paradiso terrestre e per uno stato d’integrità perduto in conseguenza del Peccato, l’uomo sente nel più profondo di sé stesso un vivo desiderio di quelle perfezioni delle quali non avrebbe mai dovuto essere privato, secondo il piano divino. Questo desiderio è ben comprensibile, perché ogni essere ama il proprio bene, in forza del legittimo amore che ha per sé stesso. Si aggiunga che il termine finale di tutte le aspirazioni di quell’uomo, chiamato da Dio a un destino superiore, non sta neppure nell’integrità della propria natura o nel Paradiso terrestre, bensì nella felicità perfetta e perenne del Paradiso celeste. La tendenza a ciò che genericamente potremmo chiamare, forse con qualche improprietà, il paradisiaco, palpita dunque nel fondo di ogni uomo, come una forza ardente e insonne. Questa forza si fa sentire in lui continuamente, sebbene in gradi e modi diversi, e si mescola – ora coscientemente, ora incoscientemente – in tutto ciò che desidera, pensa o vuole. Orientato dalla fede, elevato dalla grazia, sviluppato secondo le leggi della morale cattolica, questo desiderio del paradisiaco costituisce una forza indispensabile e fondamentale per elevare l’uomo in tutti i suoi aspetti. Esso lo stimola a innalzare e perfezionare la propria anima, a migliorare, per quanto possibile, le condizioni della propria esistenza terrena, e soprattutto lo esorta ad aspirare al Cielo e a pensarvi con frequenza. Tuttavia, ciò non impedisce al cattolico di capire che l’errore, il male e di conseguenza il dolore, benché possano essere circoscritti, non possono essere estirpati da questo mondo, come insegna così bene la parabola del grano e del

33. In un futuro più remoto, la parola-talismano “dialogo” potrebbe forse portare coloro che l’usano a una posizione religiosa gnostico-platonica, nella quale gli interlocutori, mediante l’uso della parola, procurerebbero di risvegliare reciprocamente le reminiscenze del passato anteriore alla caduta? Non v’è dubbio che, nella parola “dialogo”, vi sono elementi utilizzabili per questo passaggio da Hegel a Platone. “Habent sua fata libelli”, dice un proverbio; “habent sua fata verba”, diremmo della parola in generale, specialmente della parola-talismano. “Chi vivrà, vedrà”; è qui difficile andare oltre le congetture.

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loglio (Mt. 13, 24-30). La vita terrena ha un fondamentale significato di prova, di lotta e di espiazione, che il fedele sa essere conforme ad altissimi disegni della sapienza, giustizia e bontà divine. L’ultimo fine dell’uomo, la sua felicità gloriosa, completa e perenne, stanno solo in Cielo. J. La rivolta, elemento emotivo tipico dell’utopista irenico Dato che pensa in questo modo, il vero cattolico è il contrario dell’utopista. Questi, lontano dalla luce della Fede, considera l’errore, il male e il dolore come assurde contingenze dell’umana esistenza che l’indignano. Egli pensa che per l’uomo sia naturale ribellarsi a questa triade di avversità. Non prendendo in considerazione l’esistenza di un’altra vita, l’utopista è portato a giudicare evidente, necessario, indiscutibile che si possa giungere a eliminare il dolore, il male e l’errore, poiché, in caso contrario, egli dovrebbe ammettere che lo stesso ordine dell’essere è assurdo. In ciò sta essenzialmente il fondamento della sua utopia. È comprensibile che, per l’utopista, la vita non possa avere normalmente un legittimo significato di lotta, di prova e di espiazione, ma soltanto quello di pace dolce e gratuita. Egli quindi è, per definizione, un pacifista ad oltranza, ultra-irenico e ultra-ecumenico. Nessuno dei suoi sogni avrebbe coerenza interna né potrebbe soddisfarlo pienamente, se non includesse la soppressione di tutte le lotte e di tutte le controversie. È chiaro che il paradiso terrestre su base scientifica e tecnica, sognato dall’utopismo, comporta il soddisfacimento delle passioni umane, non solo in ciò che hanno di temperato e di legittimo, ma anche in ciò che hanno di più tempestoso, disordinato e illegittimo. Dunque la mortificazione delle passioni è incompatibile con questo “paradisismo”. Tra le passioni disordinate, l’orgoglio e la sensualità occupano un posto preminente, imprimendo all’utopista due caratteristiche essenziali: il desiderio di porsi al vertice del proprio mondo, senz’accettare nemmeno un Dio trascendente, e l’aspirazione a una piena libertà nel soddisfacimento di tutti gli istinti e gli appetiti sregolati. Poiché crede solo in questa vita, l’utopista ritiene che sia immanente alla natura delle cose la possibilità di ottenere da questo mondo tutte le soddisfazioni desiderabili. Egli spera effettivamente di ottenere queste soddisfazioni grazie ai propri sforzi. Poiché ripone tutte le proprie speranze in questo mondo, egli è il mondano per eccellenza 34.

34. È evidente che la parola “mondano” non viene qui usata nel senso corrente, ossia di persona eccessivamente abituata alla vita di società elegante, raffinata e spesso frivola. La frivolezza è sempre un male; l’eleganza e la raffinatezza sono in sé lodevoli; se la frivolezza è un aspetto della mondanità, nel senso che diamo a questa parola, l’eleganza e la raffinatezza possono non esserlo.

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K. L’utopismo irenistico, caratteristica comune al mondano borghese e al mondano proletario È proprio in questo che i mondani, siano essi borghesi o proletari, hanno un denominatore comune. Il borghese mondano, con la sua ricchezza, con la sua posizione sociale, con la sua influenza politica, spera di ottenere per sé la piena indipendenza, la sicurezza e il piacere, in ultima analisi il paradiso terrestre promessogli dal suo utopismo. Il proletario mondano spera di ottenere le stesse cose, o diventando un borghese o creando per tutti gli uomini – tra i quali egli si porrà ben al centro – un microparadiso realizzato nelle condizioni meno brillanti, ma comunque abbastanza desiderabili, di una società egualitaria. In questa società, il proletariato sarebbe padrone di tutto, e le vestigia di ciò ch’era stato il potere statale resterebbero trasferite a un organismo avente la consistenza cartilaginea di una mera cooperativa. In questo paradiso egualitario e cooperativistico, il proletario sarebbe indipendente, provvisto di condizioni di vita sicure e facili, in qualche modo maggiori di quelle oggi godute dal borghese. L. Il binomio paura-simpatia agisce sul mondano borghese Sappiamo bene che l’utopismo del proletario mondano, una volta ubriacato dal comunismo, lo porta a considerare con odio quel paradiso borghese dal quale resta escluso. Dal canto suo, il borghese mondano come considera la prospettiva di un paradiso proletario? Abituato al proprio benessere, egli non desidera lasciarselo sfuggire. Ciò nonostante, logorato dalla lotta di classe, con la paura della prospettiva di guerre, rivoluzioni, saccheggi e stragi, in certi momenti gli sorride, almeno come male minore, la possibilità d’inserirsi pacificamente nel paradiso proletario, salvando forse qualche modesto vantaggio. Inoltre egli pensa: “Chissà che questo paradiso, a differenza della società borghese, non riesca davvero ad eliminare l’errore, il male e il dolore? Forse – medita ancora il borghese mondano – varrebbe la pena di rinunciare ai vantaggi di cui ora mi giovo, pur di entrare in un mondo in cui nessuno fosse sottomesso a questo triplice giogo!” Nessuno… neppure lui che, nelle pause tra i suoi affari e i suoi piaceri, si sente così vulnerabile dai mali e dai pericoli di ogni genere. E allora, con tutto l’impeto del suo desiderio di un paradiso terrestre, il borghese mondano comincia a scoprire in sé un’indole socialista e a intravedere una possibilità di venire a patti col comunismo. Sorge in lui un sentimento pacifista verso questo terribile avversario. Il dialogo irenico gli sorride… Al pari della paura, comincia ad operare in lui la simpatia. 63


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M. Il binomio paura-simpatia prepara il mondano borghese al trasbordo ideologico inavvertito Al comunismo, al quale interessa soprattutto minare la società borghese dall’interno, sarebbe impossibile trasformare l’immensa maggioranza dei borghesi mondani in convinti discepoli di Marx. Le tesi e gli argomenti di questo profeta delle tenebre sono aridi, confusi, grossolani, e il borghese mondano non prova gusto a interessarsi né ad approfondire nulla. Inoltre, l’ideologia marxista contrasta frontalmente tutte le sue abitudini di pensiero e i suoi interessi personali, ed egli non gradisce contrasti né sacrifici.Ma i dirigenti comunisti mondiali sono ben lungi dall’ignorare la situazione psicologica in cui attualmente si trovano innumerevoli borghesi mondani. Questa situazione può essere sommamente sfruttabile in favore del comunismo mediante il binomio paura-simpatia. Sotto la sua azione, come vedremo, il borghese mondano è pronto per subire quel trasbordo ideologico che – attraverso la parola “dialogo” ripetuta in mille maniere – lo condurrà a diventare comunista senz’accorgersene, o perlomeno ad adottare posizioni di resa al comunismo che apriranno a questo le porte della cittadella.

3. “DIALOGO”: SUOI SIGNIFICATI TALISMANICI A. Punti d’impressionabilità e di apatia nello spirito mondano: quadro psicologico in cui agisce la parola-talismano Una volta caratterizzato il mondanismo irenistico come abbiamo appena fatto, è facile vedere i punti d’impressionabilità e di apatia che esistono, perlomeno in germe, in un irenista e che lo rendono tanto adatto a subire il trasbordo ideologico inavvertito. 1° punto d’impressionabilità: le contese, le risse, le guerre sono in sé un grave male che è necessario eliminare a tutti i costi, per instaurare l’“era della buona volontà” e della pace; 2° punto d’impressionabilità: è quindi urgente far cessare ad ogni costo le controversie, sostituendole col dialogo irenistico; 1° punto di apatia: questa pace ad ogni costo, sarà mai possibile ottenerla? Per stabilirla, non bisognerà forse usare mezzi drastici che costituiscono un male ancor peggiore? 2° punto di apatia: l’abolizione delle controversie, non costituisce forse la vittoria del relativismo, creando il caos ideologico e morale? Non moltiplica quindi i fattori di discordia e di guerra? Non smobilita l’opinione pubblica? Non tende a sfigurare il carattere militante della Santa Chiesa?, etc. 64


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Alle domande che costituiscono i punti di apatia, lo spirito punto dalla mosca dell’irenismo tende a non rispondere. Semplicista, frettoloso e irritabile com’è ogni spirito utopico, l’irenista non è capace, per così dire, di distogliere l’attenzione dai punti d’impressionabilità, e s’irrita con chiunque lo forzi a trattenerla nei punti di apatia. Pertanto egli diventa propenso ad accettare tutte le conseguenze dell’irenismo, anche quelle (come il modernismo e il comunismo) che più avrebbe ripudiato prima che si formassero nel suo spirito quei punti d’impressionabilità. Per attenerci soltanto alle controversie e al dialogo irenico, la vera soluzione del problema che preoccupa il nostro irenista consisterebbe nell’ammettere l’impossibilità di una concordia ideologica assoluta ed eterna tra gli uomini, e la necessità di stabilire la buona convivenza su basi realizzabili. A questo scopo, tra l’altro, egli dovrebbe cercare di evitare entrambi gli eccessi: ossia, tanto l’omissione della discussione-dialogo nei casi indicati, quanto l’omissione della discussione pura e semplice o della polemica quando fossero opportune; inoltre dovrebbe impegnarsi a reprimere queste forme di discussione solo quando fossero censurabili per qualche motivo. Ma l’irenista, essendo suscettibile ai punti d’impressionabilità e senza reazione nei punti di apatia, già impaziente fin dall’inizio, è pronto ad abbandonarsi ad ogni sorta di pensieri, sensazioni e azioni unilaterali, aderendo solamente alle soluzioni che stimolano i punti d’impressionabilità. La parola-talismano comincia così a produrre i propri effetti su di lui. B. Molteplici effetti della parola-talismano La parola-talismano “dialogo” è tanto ricca di effetti che, per studiarli adeguatamente, occorre classificarli in due gruppi: - gli effetti diretti, da essa prodotti sulla mentalità delle persone che suggestiona; - un procedimento mediante il quale la mentalità così trasformata e la parolatalismano “dialogo”, radicalizzandosi reciprocamente e usando lo strumento del “dialogo”, conducono i dialoganti al relativismo hegeliano. C. Effetti diretti della parola-talismano Consideriamo innanzitutto il primo gruppo di effetti. Essi sono in numero di cinque. a) Primo effetto: il dialogo risolve tutto Sull’irenista preparato nel modo sopra descritto (punto A), comincia ad agire la parola-talismano. Gli hanno parlato di dialogo. In base a quanto osserva, questo termine viene impiegato in un senso nuovo e assai particolare, solo indirettamente collegato al significato corrente. La parola dialogo brilla così davanti ai suoi occhi con un contenuto che ha qualcosa di moderno e di elegante. Persone di 65


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fama la utilizzano come se fosse una formula nuova, semplice e irresistibile, adatta a cambiare convinzioni. Non dialogare significa comportarsi in modo retrogrado in campo ideologico, in piena era atomica. Dialogare significa essere aggiornato, distinguersi per efficacia e modernità. Allora l’irenista si mette a pensare così: “Il dialogo risolve ogni problema; niente discussioni né polemiche; è necessario solo dialogare con quelli che pensano diversamente, anche se sono comunisti. Grazie all’affabilità che lo caratterizza, il dialogo ha il dono di disarmare ogni prevenzione; esso assicura a chi lo usa la gloria di persuadere tutti gli avversari”. b) Secondo effetto: una costellazione d’impressioni ed emozioni unilaterali Basandosi sia sull’unilaterale ed ossessivo timore d’irritare gli oppositori con la discussione e con la polemica, sia sulla certezza che tutti possono essere convinti mediante il dialogo, il nostro paziente giunge a formare pari passu tutta una costellazione d’impressioni ed emozioni unilaterali, tra le quali menzioneremo solo alcune: quelle che si riferiscono al cattolico che discute o polemizza. Secondo l’irenista, questo cattolico usa metodi di apostolato sorpassati e controproducenti; agisce così, perché è irascibile, bilioso, vendicativo e privo di carità per quelli che giacciono nell’errore, trattandoli con una severità ingiusta e nociva; se costoro rimangono fuori dall’Ovile, in ultima analisi è colpa solo sua. - Odio per i cattolici più ferventi. Questa unilaterale impressione determina un’emozione, un’antipatia per l’apologista o per il polemista cattolico, che può giungere fino all’odio. Derivando dal presupposto per cui ogni controversia ideologica è cattiva, quest’antipatia coinvolge ipso facto e indistintamente tutti coloro che discutono o polemizzano, lo facciano opportunamente o inopportunamente. Per quanto possa essere assurdo, l’apologista o il polemista comincia ad essere visto con odio dal suo fratello nella Fede, che lo considera sempre più come un cattolico settario e privo di carità, e questo “errore” – il tremendo “errore” di essere ultracattolico – è l’unico che non può essere perdonato. Contro la persona accusata di questo errore, diventano lecite tutte le armi: la congiura del silenzio, l’ostracismo, la diffamazione, gli insulti; pur di provare le accuse che gli si fanno, tutto diventa consentito: i più deboli e più vaghi indizi e perfino le mere dicerie valgono come prove. Per lui, vero paria della società in cammino verso l’utopia, e per nessun altro, la partecipazione al “dialogo” è definitivamente vietata. In questo modo, nella Chiesa militante vengono esclusi in scala sempre crescente i suoi figli più ferventi, ossia i più disinteressati, i più coerenti, i più perspicaci, i più valorosi. 66


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- Ammirazione e fiducia incondizionata per coloro che sono fuori della Chiesa. Questa esclusione si accompagna a un’ammirazione e una fiducia crescenti per coloro che sono fuori della Chiesa. Non è raro che questi sentimenti si trasformino in un “complesso d’inferiorità” capace di giungere a un vero e proprio incondizionalismo categorico. D’altronde ciò è logico. Se infatti tutti i nostri “fratelli separati” possono essere convertiti con i sorrisi, ciò accade perché, in ultima analisi, sono solo equivoci e risentimenti a tenerli lontani da noi. La loro buona volontà è piena e senza macchia. Quando il dialogo con coloro che sono fuori della Chiesa viene rettamente praticato, bisogna tenere in mente non solo ciò che ci unisce ma anche ciò che ci separa. Poi, con la destrezza della carità, bisogna saper approfittarsi di ciò che ci unisce per creare, nella misura del possibile, un clima cordiale trattando, in modo obiettivo e con tatto, ciò che ci separa. Nel clima irenico, invece, la preoccupazione del dialogante cattolico è ben diversa. Egli vede solo tutto ciò che l’unisce agli estranei, e non vede nulla di ciò che lo separa da loro. Così, egli si aspetta tutto dalla coesistenza e dalle concessioni, e nulla dalla lotta. La sua tattica è dunque ingenua, molle e arrendevole verso coloro che sono fuori dell’Ovile. La sua intransigenza, la sua combattività e la sua diffidenza sono riservate solo a coloro che, dentro la Chiesa, resistono al clima irenico. c) Terzo effetto: simpatia e notorietà prodotti dalla risonanza pubblicitaria della parola “dialogo” In forza di questa costellazione d’impressioni ed emozioni, se l’apostolo che discute o polemizza viene odiato e vilipeso, nello stesso tempo l’apostolo del dialogo irenico viene considerato in modo diametralmente opposto. Siccome, oggi forse più che mai, il pubblico brama tutto ciò che può favorire l’ottimismo e le aspirazioni alla tranquillità e al benessere, esso è predisposto ad ammirare enfaticamente l’apostolo irenista. In lui, l’uomo medio crede di vedere un’intelligenza duttile e lucida, che gli permette di capire fino in fondo sia il male insito nella discussione e nella polemica, sia le inesauribili possibilità apostoliche del dialogo. Benevolo e affabile, il dialogante irenico dà l’impressione di essere dotato di una simpatia irresistibile e quasi magica. Essendo moderno, egli si presenta come perfetto e agile conoscitore delle tattiche di apostolato più aggiornate e perciò abile nel maneggiare il “dialogo”. In una parola, nulla gli manca per apparire assolutamente simpatico. Allegro e gioviale, egli preannuncia un avvenire roseo, propiziato da un susseguirsi di successi facili e inebrianti. La simpatia e l’ottimismo aprono al nostro dialogante le porte della notorietà. Si gode nel parlare di lui, nel ripetere le sue parole, nell’elogiare le sue 67


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azioni. Sembra ch’egli possieda il dono di saper risolvere con un sorriso le questioni più intricate e di dissipare, come se fosse un sole, i pregiudizi e i rancori più inveterati, semplicemente colloquiando. Per questo, egli si trova naturalmente posto al centro degli eventi, nel punto di convergenza degl’interessi del pubblico. La stampa, la radio e la televisione lo mettono volentieri in evidenza, sicuri così di far cosa gradita al pubblico. d) Quarto effetto: sorge il miraggio dell’”era della buona volontà” Nell’animo della persona sottoposta al procedimento che stiamo studiando, tutto ciò va così aprendo indefiniti orizzonti. Al loro limite estremo, sorge un miraggio al quale abbiamo già fatto allusione in questo capitolo (capo 2, da A a C): un miraggio generalmente molto vago, certo, ma quanto radioso e attraente! È l’“era della buona volontà”, ossia di un ordine di cose “evoluto” in cui la simpatia, e quella sua pienezza che è l’amore, sarebbero capaci non solo di disarmare tutte le contese, ma perfino di prevenirle: sì, di prevenirle eliminandone le cause sia psicologiche che istituzionali. Oh, quanto guadagnerebbero la concordia e la pace, dalla soppressione di ciò per cui gli uomini vanno lottando da millenni: ossia patrie, interessi nazionali, ricchezze, prestigi di classe, poteri di comando! Oh, se l’amore giungesse ad eliminare le parole “mio” e “tuo” per sostituirle, in modo da superarle, con la parola “nostro”! Alla fine regnerebbe la pace tra gli uomini, scomparirebbero le guerre, i crimini, le punizioni e le carceri! Il pubblico potere sarebbe ridotto a un’immensa cooperativa di attività spontanee e armoniche in favore della prosperità, della cultura e della salute! Nell’ “era della buona volontà”, il completo benessere terreno delle società sarebbe la meta unica di tutti gli sforzi umani! Questo miraggio, la cui affinità al mito anarchico inerente al marxismo abbiamo già segnalato (capo 2, B), la cui forza di suggestione corrispondente alle più profonde aspirazioni dell’uomo abbiamo già descritto (capo 2, I), è capace di suscitare in innumerevoli anime un’emozione deliziosa che le domina interamente e dalla quale, come da una droga, non vogliono separarsi in nessun modo. Ne deriva il fatto che la parola “dialogo”, quando viene utilizzata in questa prospettiva, si riveste di scintillii particolarmente magici e seducenti. Come un vero talismano, essa comunica automaticamente il proprio prestigio e brillìo a coloro che l’adottano. e) Quinto effetto: la tendenza ad abusare della elasticità della parola “dialogo” Da questi diversi fattori psicologici proviene una tentazione, sempre più accentuata, di esagerare la naturale elasticità del termine in questione. 68


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Infatti, se con l’uso di una parola si ottiene un certo effetto, questo sarà tanto maggiore quanto più la si usa. Ne deriva la tendenza a usare la parola “dialogo” ad ogni proposito. Il suo uso può diventare quasi un vizio, di modo che un’intervista, un articolo, un discorso, non sembreranno completi se non contengono un riferimento al “dialogo”. D. Effetti indiretti e riflessi della parola-talismano Passiamo ora al secondo gruppo di effetti. In essi, la fermentazione psicologica prodotta dalla parola-talismano si ripercuote su questa, e all’inverso. Questa interazione, che comporta un processo di mutua radicalizzazione, si riflette a sua volta sul modo stesso di condurre il “dialogo”. Se immaginiamo due dialoganti tra i quali avvenga questa interazione, vediamo che vanno cambiando gradualmente non solo le successive maniere di dialogare, ma perfino il contenuto del dialogo. Nel suo insieme, tutto ciò porta i due dialoganti, attraverso diverse fasi, dall’irenismo fino al relativismo hegeliano. a) Primo effetto: la radicalizzazione della parola “dialogo” in nuovi e più profondi significati talismanici Come avviene l’influenza di questa fermentazione psicologica sul vocabolo? Chi riesce ad elevarsi alle alte sfere della celebrità sulle ali del “dialogo”, non tarderà a capire che le diverse applicazioni di questa parola producono risultati diseguali sul piano della popolarità. Alcune volte questo talismano viene usato con poco frutto: sembrerà opaco al pubblico; altre volte invece brillerà agli occhi di tutti ed agirà con piena intensità. Di regola, sia coloro che sfruttano la parola-talismano, sia il pubblico, avvertiranno questo fatto senza poterselo spiegare. Di conseguenza, saranno spinti a preferire alcune applicazioni piuttosto che altre; se poi avranno qualche capacità, tenderanno a forzare la naturale elasticità del vocabolo per moltiplicarne gli usi più seducenti e redditizi. Per quale ragione il talismano si rivela più irradiante in certe sue applicazioni che in altre? Qual è il polo di massimo irraggiamento col quale esso tende a identificarsi, quando viene così manipolato dai virtuosi di quest’arte linguistica? La forza d’irradiazione, per così dire, immanente alla parola-talismano “dialogo”, si fa sentire di più quando questa viene usata in modo tale, da insinuare che sia vero, desiderabile, realizzabile il mito di cui parlavamo poco fa: quello dell’amore emotivo, rigeneratore e collettivistico, immaginato come forza organizzatrice di 69


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un mondo nuovo. Questo mito è il polo verso cui tende la parola-talismano. Nell’ultimo e più recondito dei propri significati magici, il “dialogo” è il linguaggio di quell’amore. Nelle diverse tappe del descritto processo verso il suo ultimo significato, la parola “dialogo” si evolve in modo da identificarsi sempre più con questo. b) Secondo effetto: le quattro fasi del processo verso il relativismo hegeliano Una volta descritta, così in generale, l’interazione tra l’emotività irenistica e la parola-talismano, consideriamo le diverse fasi attraverso le quali, con lo svilupparsi di questa interazione, vanno progressivamente modificandosi sia le forme e i contenuti della interlocuzione tra persone di convinzioni opposte, sia correlativamente il significato della parola-talismano. Prima che inizi il processo, ognuno di questi interlocutori desidera convincere l’altro per mezzo di argomenti. L’obiettivo fondamentale di ciascuna parte in causa è pertanto quello di conquistare l’altra alla verità. Per questa via, realizzeranno tra loro quel bene prezioso che è l’unità: un’unità che si presenta legittimamente come frutto della verità e che pertanto non può essere concepita né desiderata se non mediante il possesso della verità. Prima fase: ipertrofia della cordialità nella discussione-dialogo; nasce la parolatalismano. Immaginiamo che negli interlocutori, così disposti alla discussione, si noti frattanto una fermentazione emotiva irenistica. Questa fermentazione, che prepara l’apparizione della parola-talismano “dialogo”, consiste in un vigoroso desiderio emotivo di concordia universale degli animi e di pace in tutti i campi delle relazioni umane. Questo desiderio è di tale natura, che si sentirà soddisfatto solo quando gli interlocutori saranno infine giunti a una concezione pienamente irenica e relativistica dell’uomo, della vita e del cosmo. Così, dal punto di vista emotivo, l’irenismo ha già potenzialmente guadagnato gli interlocutori in questione alla causa del relativismo e, come vedremo, del più radicale fra i relativismi, qual è quello hegeliano. Tuttavia, se questo si è realizzato dal punto di vista emotivo, non lo è ancora dal punto di vista ideologico. Gli interlocutori ammettono ancora l’esistenza di una verità oggettiva, nella quale ciascuno di loro suppone di trovarsi, come pure di un errore oggettivo, nel quale ritiene che si trovi la controparte. 70


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Per quanto concerne un tema controverso, fra di loro può logicamente aversi un solo tipo di relazioni, che è la discussione. Questa, anche quando sia molto amabile, contiene intimamente un carattere di combattività. Ma ora questo carattere contrasta nettamente con lo stato emotivo degli interlocutori. C’è dunque un conflitto tra il procedimento imposto dalla logica – ossia la discussione – e lo stile di relazioni che le persone dialoganti vorrebbero mantenere tra di loro. Ne deriva una prima modifica di questo stile di relazioni. Senza rendersene conto, le parti in causa desiderano più l’unità che la verità. In conseguenza di queste disposizioni emotive, ciascuna delle parti è portata a credere che l’altra sia sempre “in buona fede”. Il successo del suo sforzo di persuasione le sembra dipendere soltanto dall’eliminare i risentimenti della controparte. Per questo, entrambe le parti rifiutano sia la discussione pura e semplice che la polemica e ammettono la discussione solo sotto la forma, raffinatamente soave, della discussione-dialogo. Ma questa forma contiene ancora un residuo carattere di combattività che riesce sgradito all’emotività irenistica. Quest’ultima pertanto deforma il significato della discussione-dialogo, esagerando il carattere di cordialità e sminuendo quello di combattività. In questo modo, viene aggravata l’iniziale deformazione nello stile di relazioni tra le parti. Ormai, la discussione-dialogo non mira più principalmente a scoprire la verità e solo conseguentemente ad ottenere l’unità in essa, ma mira soprattutto a raggiungere l’unità per mezzo della cordialità delle relazioni tra gli interlocutori, e solo secondariamente a conquistare la verità mediante l’argomentazione. La parola “dialogo” subisce allora la sua prima deformazione, passando a designare la discussione-dialogo irenisticamente concepita e quindi diventando impregnata di un significato irenico-talismanico che brilla di tutte le attrattive del mito irenistico. Il dialogo talismanico (ossia la discussione-dialogo così deformata) diventa quindi il “dialogo” per eccellenza. Esempio concreto Per facilitare al lettore lo studio del processo di deformazione talismanica della parola “dialogo”, considerato in astratto, lo accompagneremo con un esempio concreto; l’enunciazione di ciascuna fase del processo in abstracto sarà seguita dalla descrizione della stessa fase mediante un esempio in concreto. Immaginiamo un tomista e un esistenzialista che siano colleghi in una Università e, a questo titolo, abbiano frequenti occasioni per discutere sulle loro divergenze filosofiche e anche per approfondire insieme materie non correlate a queste divergenze, come pure per mantenere quelle altre relazioni sociali abituali tra colleghi. 71


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Per quanto riguarda le divergenze esistenti tra loro, il tomista sa di essere nella verità e di aver ragione. L’esistenzialista discorda dalla posizione tomistica. Ciascuno dei due desidera convincere l’altro e il mezzo normale per riuscirvi sembra a entrambi essere la discussione. Immaginiamo che, nello sforzo di convincere la controparte, il tomista sia mosso non solo da un legittimo desiderio di apostolato, ma anche da un ardente desiderio irenistico di unione. A partire da un dato momento, questo desiderio prende il primo posto tra i moventi dello zelo e, nella sua discussione con l’esistenzialista, il nostro tomista comincia a desiderare l’unità più che la verità. Questo sovvertimento di obiettivi produce un’immediata conseguenza nel suo modo di considerare il collega. Ingenuamente, egli s’immagina che quest’ultimo sia attaccato alla propria dottrina a causa di un mero equivoco, come pure per risentimento verso il tomismo e, in ultima analisi, verso la Chiesa. Secondo l’interlocutore punto dalla mosca dell’irenismo, nella discussione la controparte si comporta sempre come se, essendo concepita senza Peccato originale, fosse incapace di un attaccamento disordinato e vizioso all’errore. Ne deriva una ripercussione della tendenza irenica sul modo di agire del tomista. Se il principale ostacolo che impedisce all’esistenzialista di accettare la verità è il proprio risentimento, allora la cosa più importante nella discussione è l’evitare che questo risentimento si mantenga o persino si aggravi. Il suo interlocutore rifiuterà dunque come pericolose e perfino ingiuste sia la discussione pura e semplice sia la polemica, e, nel trattare le questioni controverse, ammetterà solo la discussione-dialogo. Con quest’ultima, egli mirerà principalmente all’unità e solo secondariamente alla verità. Questo tipo di discussione egli la chiamerà “dialogo”, per insinuare che è tanto priva di combattività quanto il dialogo-indagine o il dialogo-intrattenimento. Nasce così la parola-talismano “dialogo”, traboccante di cordialità pacifista. Essa designa la prima forma di relazioni irenistiche tra gli interlocutori in questione e brilla delle molteplici seduzioni del mito pacifista, accentuando nel nostro tomista il bruciore del prurito irenico e spingendolo a nuovi cambiamenti nel modo di affrontare il dialogo talismanico e di metterlo in pratica. Seconda fase: la cordialità irenistica invade il dialogo-intrattenimento e il dialogo-indagine; la parola-talismano amplia il proprio significato Una volta così stabilita nella prima fase, la parola-talismano si ripercuote sulla fermentazione emotiva irenistica e questa fermentazione, così accresciuta, 72


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imprimerà alla parola-talismano un significato nuovo e più ampio. In ciò consiste la seconda fase. L’interlocutore irenista, conquistato da quel mito irenico che è l’occulto contenuto della parola-talismano, va usandola ad ogni occasione come un balocco con cui, quanto più gioca, tanto più ne resta incantato. Le relazioni tra persone divise da una divergenza non si limitano a questa divergenza. Esse possono legittimamente includere dialoghi d’indagine su altre materie e anche dialoghi d’intrattenimento su altre materie ancora. Queste forme di relazione possono provocare, anche legittimamente, una ripercussione favorevole sulla discussione-dialogo, nella misura in cui contribuiscono ad evitare che quest’ultima sia pregiudicata da risentimenti e antipatie personali, purtroppo sempre facili a sorgere. In questa prospettiva, gli interlocutori irenisti sono portati a modificare in senso irenico i loro dialoghi d’indagine e d’intrattenimento, estendendo a questi il significato talismanico incubato nella discussione-dialogo durante la fase precedente. È opportuno ora mostrare in cosa consiste la deformazione irenistica dei dialoghid’intrattenimento e d’indagine. In essi, gli interlocutori irenisti passano a sminuire il fine naturale dell’intrattenersi e dell’indagare, e a sopravvalutare irenisticamente il fattore-cordialità. In tal modo, essi orientano il “dialogo” principalmente al fine di ottenere un intenso infervoramento affettivo, mentre il passatempo e l’indagine diventano meri pretesti. Mossi dall’intento di persuadere, essi sperano che questo infervoramento eserciti sul punto di divergenza una pressione unificante e sincretista che risulti più utile dello scambio di argomenti, anche quando questo sia fatto nella soavità della discussione-dialogo irenistica, perché questa conserva ancora residui di combattività. Siccome l’irenista esagera sempre più l’importanza del fattorecordialità per ottenere la persuasione, egli è spinto sempre più a confidare nel dialogo-intrattenimento e nel dialogo-indagine, mentre la discussione-dialogo passa a sembrargli interamente secondaria e perfino pericolosa e dannosa. A questo mutamento nel tono delle relazioni tra gli interlocutori irenici, corrisponde una nuova fase della parola-talismano “dialogo”. Siccome l’elemento più dinamico del significato di questa parola è quello irenistico, esso si estende dalla discussionedialogo irenistica alle altre due forme “irenizzate” di conversazione. Così, la parola-talismano passa ad assimilare tutte le forme di relazione tra gli interlocutori che possono impregnarsi d’irenismo. In altri termini, fuori dall’influenza irenistica, il dialogo-indagine e il dialogointrattenimento possono essere visti come forme strumentali al servizio della discussione-dialogo, capaci di assicurare il buon andamento di questa. Ma, sotto 73


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l’influenza dell’irenismo, quest’ordine di valori si rovescia. Il dialogointrattenimento e il dialogo-indagine cominciano a essere considerati come i propulsori dell’azione peruasiva. La discussione-dialogo viene ridotta ad avere un ruolo secondario, strumentale, anzi fastidiosamente strumentale. In questa nuova gerarchia di valori, la parola-talismano “dialogo”, inglobando le tre citate forme di conversazione (ossia discussione-dialogo, dialogo-indagine e dialogo-intrattenimento), comincia a stimolare ancor più le aspirazioni irenistiche, dando così origine alla terza fase. Esempio concreto. Sotto il segno dell’irenismo stimolato dalla parola-talismano “dialogo”, il nostro tomista desidera estendere il fermento irenico alle altre forme delle proprie relazioni con l’esistenzialista. Fin qui, queste altre forme (dialogo-intrattenimento e dialogoindagine) gli sembravano estranee alla controversia dottrinale e idonee ad esercitare al riguardo una funzione solo strumentale: il tratto cordiale nelle faccende estranee alla controversia contribuiva a mantenerla in un’atmosfera serena ed elevata. Ma ora il tomista irenico si mette a vedere le cose in un altro modo. Gli sembra che le occasioni per l’indagine o per l’intrattenimento non abbiano solo il loro fine naturale. Desiderando produrre nell’interlocutore il bramato disarmo emotivo, queste occasioni diventano per lui solo un mero pretesto per alimentare e accrescere, nell’esistenzialista, il prurito irenico e il supremo e incondizionato anelito all’unità. Così, tutte le forme d’interlocuzione suscettibili d’impregnarsi di pacifismo (dialogo-intrattenimento, dialogo-indagine, discussione-dialogo) finiscono per essere inglobale sotto il segno dell’irenismo. Frattanto la discussione-dialogo viene a perdere il proprio ruolo principale, essendo meno adatta all’infervoramento irenistico e perfino pericolosa per il suo carattere combattivo. Nella misura in cui dissipa equivoci dottrinali, essa finisce per avere una funzione strumentale molesta e pericolosa, in un complesso di relazioni la cui nota tonica consiste nel rinfocolare la cordialità. Sentendo e vedendo così le cose, il nostro tomista continua a dialogare. Ma questo suo dialogare, quanto è diverso da quello della fase precedente! Per favorire l’azione di riscaldamento, egli evita il più possibile la controversia con l’esistenzialista e, usando le luci di un’insistenza instancabile e di una minuziosità che si compiace dei più insignificanti particolari, mette tutto il proprio impegno a focalizzare ciò che vi sarebbe di comune tra tomismo ed esistenzialismo, ossia quelli che immagina essere gli “aspetti esistenzialisti del tomismo”. Egli cerca così di ornare con una coccarda kierkegaardiana l’austero saio dell’Aquinate, 74


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allineandolo nella coorte degli ammiratori che Kierkegaard avrebbe avuto già prima di nascere. Essendo ingegnoso, il tomista irenico sa che molte volte una inimicizia comune è il miglior cemento per un’amicizia precaria e nascente. Allora, con una focosità maggiore di quella che muove il più ardente esistenzialista, cerca di attaccare qualunque venatura di “essenzialismo” che trova in questo o in quel filosofo. In questa “crociata” senza croce, egli non è certo pacifico verso l’“essenzialismo” in qualunque suo grado, modo o aspetto, ma lo è per praticare l’irenismo verso l’esistenzialismo. Gli rimane solo un timore: quello che l’esistenzialista lo sospetti di essere connivente con certi disgraziati fratelli tomisti che combattono l’esistenzialismo. Per questo motivo, egli si scaglia contro di loro considerandoli come “essenzialisti” fra i più pericolosi35. Artifici del dialogo talismanico in questa seconda fase!… La parola-talismano “dialogo” è passata dunque a designare l’insieme dei dialoghi irenistici, con preponderanza dei dialoghi d’intrattenimento e d’indagine sulla discussione-dialogo. Terza fase: la cordialità irenistica sfocia nel relativismo; la parola-talismano assume un significato pienamente relativistico. Se le due fasi precedenti si sono svolte sotto il segno dell’irenismo, la terza è già chiaramente relativistica. Fin qui, sotto la pressione dell’irenismo, l’obiettivo dell’interlocuzione stava diventando sempre più l’unità e sempre meno la verità. Nell’attuale fase, il desiderio di unità spinge gli interlocutori a scavalcare le proprie divergenze per raggiungere

35. [Alcune espressioni, qui usate dall’Autore per ritrarre la figura del tomista “esistenzialisteggiante”, potrebbero indurre il lettore a vedervi una implicita allusione al p. Cornelio Fabro, grande filosofo-teologo cattolico noto anche per aver tradotto e divulgato in Italia le opere di Kierkegaard, nel tentativo di sottrarle alla deformazione esistenzialistica promossa dalla scuola tedesca (cfr. E. Fontana, Fabro e l’esistenzialismo, Edizioni del Verbo Incarnato, Segni 2000). Si tratta però di un equivoco. L’Autore qui critica non quegli studiosi, come Fabro, che hanno “riletto” Kierkegaard in chiave tomistica, bensì quegli studiosi che hanno “aggiornato” il tomismo in chiave esistenzialistica; alludiamo a noti filosofi e soprattutto teologi, come i padri Maréchal, De Lubac, Rahner, von Balthasar, Lotz, Welte, Tischner, Nédoncelle; spesso seguaci del cattolico Blondel, del protestante Barth e dell’ateo Heidegger, costoro hanno effettivamente corrotto non solo l’originario e autentico tomismo, ma anche l’intero pensiero della Terza Scolastica, riducendoli a un modernismo soggettivistico, relativistico e pragmatico. Invece l’Autore e il gruppo di studi dell’associazione T.F.P., da lui fondata, stimarono ed elogiarono il p. Fabro, anche in quanto avversario proprio di quella corruzione della Scolastica presupposta dalla nouvelle théologie filo-esistenzialistica (N. d. T.)]

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quest’unità. Pertanto, essi arrivano a pensare che non c’è verità assoluta né errore oggettivo in nessuna delle parti in causa. Tutto è relativo. Di conseguenza, il carattere delle relazioni reciproche cambia. Partendo dal relativismo, la vera discussione è impossibile; quando trattano una materia fin qui controversa, per il fatto stesso di farlo sotto il segno del relativismo, gli interlocutori già non stanno più facendo un’autentica discussione. Siccome molte volte questo passaggio dal mero irenismo al relativismo è inavvertito, è possibile che le parti s’illudano di stare ancora discutendo, e chiamino “discussione” la loro interlocuzione. In realtà, la discussione-dialogo ha propriamente cessato di esistere; ne rimangono appena le divergenze accidentali e transitorie che sono inerenti al dialogo-indagine, come abbiamo visto (cap. IV, 1, B, j). Questo mutamento relativistico nelle relazioni tra gl’interlocutori provoca una nuova distorsione della parola-talismano “dialogo”. Il suo carattere, da semplicemente irenistico qual era, finisce col diventare relativistico; perciò essa non include più la discussione-dialogo e comprende solo il dialogo-intrattenimento e il dialogoindagine. Nell’avvicinarsi sempre più al mito dell’“era della buona volontà”, la parola “dialogo” diventa sempre più attraente e rifulgente agli occhi degli irenisti relativisti; essa trasmette ardori sempre maggiori al desiderio di unità, preparando così la fase seguente. Esempio concreto. Spinto dalla parola-talismano sulle vie sempre più sofisticate dell’irenismo, il nostro tomista fa ancora un passo ulteriore nel suo lavoro dialogante. Quelle divergenze dottrinali che, nella fase precedente, aveva già tanto sottovalutato pur di favorire i punti di convergenza, ora cominciano a sembrargli inconsistenti. In quelle divergenze, egli si mette a scoprire barlumi di verità e di errori da ambo le parti. Le differenze starebbero più nelle formule che nel contenuto. In ultima analisi, una stessa “verità” globale, del tutto relativa e presente perfino nelle più opposte formulazioni, costituirebbe il substrato di una realtà varia e indefinitamente mutevole. Impugnando una lente d’ingrandimento, il nostro irenista comincia a cercare testi di san Tommaso che, presi isolatamente, sembrano giustificare il proprio relativismo. Egli ormai non è più tomista, se non perché ha la speranza o l’illusione di trovare in san Tommaso segni precursori di Kierkegaard. In realtà, del tomismo non gli resta più nulla; egli è già un relativista convinto, forse senza rendersi conto di quanto accade nella sua mente. 76


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A questo mutamento interiore succede un cambiamento nel tono delle sue relazioni con l’esistenzialista. In questa terza fase, nella quale l’irenismo sfocia nel relativismo, egli passa ad eliminare quella discussione-dialogo che, nella fase precedente, gli pesava come la palla e la catena di ferro al piede del forzato. Le relazioni con l’esistenzialista si riducono al dialogo-intrattenimento e al dialogoindagine irenistici. Forse questo tomista, che ormai non lo è più, chiama ancora “discussione” queste forme d’interlocuzione che ormai non hanno più nulla in comune con la discussione. Designando in ogni fase le relazioni irenistiche così come vi sono praticate, la parola-talismano “dialogo” non include più la discussione-dialogo ma solo gli altri due tipi di colloquio irenistico, pregni di concezioni relativistiche. In questa fase, dunque, dialogare talismanicamente significa praticare un relativismo radicale. L’euforia di dialogare, il prestigio talismanico del “dialogo” irenicorelativistico, eccitando ancor di più i pruriti irenistici nel nostro tomista, lo preparano alla quarta fase. Quarta fase: il relativismo irenistico si struttura in termini hegeliani; la parola-talismano assume il significato del “ludus” hegeliano. Come il relativismo non è il contrario dell’irenismo ma la sua pienezza, così in questa fase il relativismo riesce a ricevere un arricchimento che non lo contraddice, ma anzi lo conduce alla pienezza. Ansiosi di portare il relativismo fino alle sue ultime conseguenze, gli interlocutori non si contentano più di un relativismo meramente negativo, che mira solo a corrodere e dissolvere i concetti di verità oggettiva e di errore oggettivo. Infatti ciò che è meramente negativo ripugna alla natura umana. Passando al piano positivo, gli interlocutori desiderano strutturare un’intera visione relativistica dell’uomo, della società e dell’universo. In questa fase la verità, già anteriormente ammessa solo come qualcosa di relativo, passa ad essere vista come il risultato di una eterna dialettica. Dopo aver assunto il carattere di mero intrattenimento e d’indagine, il “dialogo” comincia ad essere praticato come un ludus, un gioco nel quale entrambe le parti in causa ammettono che, a forza di dialogare, si produrrà tra di loro una decantazione della verità, come mediante il contrasto tra tesi e antitesi si giunge alla sintesi. Giunge così l’ultima fase della deformazione talismanica della parola “dialogo”: è quella hegeliana. Essendo evidentemente realizzato da “uomini di buona volontà” e impregnato del mito irenistico, il contrasto tra la tesi e l’antitesi sarà fondamentalmente un ludus cordiale, e tanto più cordiale quanto più va progredendo in mosse successive. 77


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Il contrasto tra tesi e antitesi potrà assumere a volte la forma della discussione pura e semplice o perfino della polemica. Ma non ne avrà la sostanza, perché non presuppone un antagonismo assoluto tra verità ed errore, tra bene e male. Pertanto, il dialogo irenistico non mira più a mutare le convinzioni delle parti in causa, ma solo a elevarle verso una “verità” di livello superiore36. Esempio concreto. Quel tomista irenico, che immaginiamo come esempio, nel suo ardore non può più accontentarsi di un relativismo meramente negativo. Egli cerca di strutturare una dinamica globale che spieghi le relazioni esistenti tra le mille formulazioni opposte nelle quali, come gli sembra, abita la “verità”. Soprattutto, egli desidera trovare in queste relazioni qualcosa che tenda ad abolire le opposizioni per evolvere verso l’unità. Questa eliminazione, egli non può concepirla nel modo in cui avrebbe fatto prima dell’inizio del procedimento talismanico, ossia come una condanna, fondata sul raziocinio, di tutte le formulazioni eccetto quella proclamabile come l’unica pienamente vera. D’altra parte, egli è in presenza di un fatto palpabile: queste formulazioni opposte si trovano in uno stato di contrasto reciproco, continuo e irrimediabile. Irrimediabile? O il rimedio consisterà proprio in questo contrasto? Il nostro tomista si compiace di rispondere affermativamente. Il contrasto tra le “verità” relativamente opposte produrrebbe, per via di superamento, una sintesi; dall’universale contrasto tra le tesi e le antitesi, generando nuove sintesi che, attraverso nuovi contrasti con formulazioni antitetiche, produrrebbero progressive sintesi, sorgerebbe un grandioso processo di universale distillazione delle “verità” e della “verità”. Ben inteso, al contrario dell’“antipatico” e “discriminatorio” procedimento del tomismo medioevale, in questa distillazione nulla verrebbe condannato e nulla verrebbe escluso. Tutto sarebbe fraternamente e amorevolmente incluso nella produzione delle sintesi successive.

36. Si potrà forse dire che, nella fase hegeliana, tutte le forme d’interlocuzione tra persone di posizione ideologica differente (ossia il dialogo-intrattenimento, il dialogo-indagine, la discussione-dialogo, la discussione pura e semplice, la polemica), pur continuando ad esistere in apparenza, si riducono in realtà a mere forme del ludus hegeliano? Per rispondere affermativamente sarebbe necessario, a rigor di logica, insistere sul fatto che ciascuna di queste forme d’interlocuzione, in quanto incubata da un significato ludico, ha una somiglianza solo estrinseca con la stessa forma presa nel suo significato legittimo (cfr. cap. IV, 1, B). Ammesso ciò, non vediamo alcun ostacolo nel rispondere affermativamente alla domanda sopra formulata. Ma l’analisi di queste prospettive più ampie richiederebbe un lavoro a parte.

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Lo stesso tomismo viene ora visto dal nostro tomista irenico come una delle formulazioni della “verità” che, emanando profumati incensi dottrinali, contribuisce a questo processo di universale riconciliazione ideologica. Egli forse immagina di essere ancora tomista. Forse s’impegnerà ancora nell’impesa di mutilare l’opera di san Tommaso, strappandole con violento arbitrio i frammenti che gli servono per presentare al secolo XX quel new look dell’Aquinate che è il rovesciamento del Dottore Comune. In realtà, non è difficile notare che, sotto la seduzione del mito irenico e volando sulle ali della parola-talismano, il nostro tomista si è trasformato in un autentico hegeliano, rivestito di una superficiale vernice tomista. Al principio del procedimento, come ne sarebbe stato sorpreso, se avesse potuto immaginare che, guidato dalla parola-talismano “dialogo” come da una maligna stella, alla conclusione di un’inavvertita evoluzione sarebbe trasbordato all’hegelismo… proprio a quell’hegelismo che prima ripudiava come contrario a tutto quanto riconosceva come vero in filosofia!

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Conclusione

Se considereremo sommariamente gli elementi principali di quanto è stato esposto in questo lavoro, emergerà chiaramente e facilmente la conclusione: il comunismo è il grande beneficiario del trasbordo ideologico inavvertito e dell’uso delle paroletalismano, specialmente di quella nota come “dialogo”. Ugualmente, risulterà evidente che questa immensa manovra comunista può essere resa innocua dal semplice fatto che qualcuno la sveli agli occhi dell’opinione pubblica.

1. LA PAROLA-TALISMANO “DIALOGO” E IL COMUNISMO Com’è noto, pur avendo abbandonato il carattere idealistico dell’hegelismo, il marxismo ne ha conservato l’essenza dialettica. Secondo Marx, la marcia progressiva dell’evoluzione della materia si realizza attraverso la tesi, l’antitesi e la sintesi, così come, secondo Hegel, accadeva per l’evoluzione dello spirito. Ciò posto, è opportuno qui domandarsi quale sia il vantaggio ottenuto dal comunismo grazie al trasbordo ideologico inavvertito effettuato mediante la parola-talismano “dialogo” sotto l’influsso del binomio paura-simpatia. Sarebbe esagerato dire che la vittima di questa parola-talismano diventi materialista per il solo fatto di accettare inavvertitamente una filosofia dialettica. Ciò nonostante, vari e importanti sono i vantaggi ottenuti dal comunismo con questo trasbordo: L’accettazione di una filosofia relativistica comporta una rottura, consapevole o inconsapevole, con la Fede e prepara l’animo alla professione esplicita dell’ateismo. L’accettazione di una filosofia che costituisce la pietra angolare del comunismo, a sua volta, prepara gli animi all’esplicita adesione a quest’ultimo. Il comunismo non può accettare la coesistenza con chi, contrariamente ad esso, professa una filosofia basata sul riconoscimento della verità e del bene come valori assoluti, immutabili, trascendenti, esistenti in modo perfetto nell’essenza divina. Viceversa il comunismo, che dal dialogo tra tesi e antitesi si 81


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aspetta solo la sintesi, non può che attendersi buoni risultati dal “dialogo” con quel cattolico relativista che riduce la dottrina della Chiesa a una “verità” relativa, a una tesi posta in prospettiva dialettica di fronte all’antitesi comunista e orientata a una sintesi superiore. Questa posizione è tanto più accettabile dal comunismo, in quanto è noto – come abbiamo già detto poco sopra – ch’esso non si ritiene una verità ultima e definitiva, ma si considera solo come un momento inserito nell’eterna dialettica della materia. Passando al campo propriamente religioso, accade che il dialogo irenico, favorendo l’interconfessionalismo, indebolisce tutte le religioni e le getta in una fase di assoluta confusione. Data la fondamentale importanza attribuita dal marxismo all’annientamento di tutte le religioni, è facile comprendere quanto questo risultato favorisca la vittoria del comunismo internazionale. Questa preparazione al comunismo, realizzata dalla parola-talismano “dialogo”, nella realtà concreta solo eccezionalmente si esaurirà in una mera preparazione. L’affinità produce la simpatia e la simpatia tende all’adesione. Quest’adesione è tanto più facile, quanto più l’opinione pubblica contemporanea è satura di un globale e ingegnoso sistema di stimoli e attrattive in favore del comunismo.

2. ECUMENISMO, IRENISMO E COMUNISMO È chiaro – bisogna ripeterlo (cfr. cap. IV, 2, D) – che la parola ecumenismo ha, di per sé, un significato eccellente. Ciò nonostante, essa è suscettibile anche di un significato irenico. Se tutte le religioni vengono ammesse come “verità” relative, disposte tra loro in un dialogo hegeliano, l’ecumenismo assume l’aspetto di un’evoluzione dialettica di tutte le confessioni verso una religione unica e universale, prodotta fondendo i frammenti di verità presenti in tutte loro e purificandole dalle scorie delle contraddizioni attualmente esistenti. Così inteso, l’ecumenismo è una immensa preparazione di tutte le religioni, realizzata mediante il dialogo hegeliano, affinché esse, una volta unificate, entrino in un ulteriore dialogo con l’antitesi comunista. 3. “DIALOGO”, RELATIVISMO DIALETTICO E “COESISTENZA PACIFICA” COL COMUNISMO Mentre il comunismo può coesistere con i veri cattolici solo nella lotta37, la sua coesistenza con le religioni che accettano il relativismo dialettico può essere 37. Cfr. l’interessante articolo del rev.mo padre Giuseppe De Rosa S.J., L’impossibile dialogo tra cattolici

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davvero pacifica, poiché il dialogo con esse non ha nulla di combattivo e presenta solo un carattere collaborazionista. 4. “DIALOGO”, IRENISMO E PERSECUZIONE RELIGIOSA Il fatto che il comunismo accetti la “coesistenza pacifica” con le varie religioni che gli si oppongono, indica forse che il periodo delle persecuzioni antireligiose è chiuso? A rigor di logica, no. Il comunismo ammetterà tale coesistenza con le religioni e con i gruppi religiosi che, ponendosi nella prospettiva hegeliana, avranno accettato di dialogare con esso su una base relativistica. In ciò il suo atteggiamento può sembrare nuovo; tuttavia, riteniamo che la novità non stia in esso, ma in certe correnti religiose la cui posizione di fronte al relativismo si va facendo sempre più debole e complice. Il comunismo perseguitava le religioni, quando queste lo combattevano. Da parte sua, è coerente lo smettere di combattere quelle religioni che si mostrano disposte a intavolare con esso un dialogo relativistico, in un clima di “coesistenza pacifica”. Queste osservazioni trovano interessanti conferme nei fatti. A nostro avviso, è proprio questa la ragione per cui il comunismo polacco appoggia il gruppo Pax. Le persone che compongono questo gruppo, pur dichiarandosi cattoliche, accettano di collaborare col regime comunista per costruire il mondo socialista. Esse così insinuano che il pensiero sociale della Chiesa si sia evoluto e comporti attualmente, verso il socialismo, un atteggiamento flessibile che prima non aveva. Orbene, se il pensiero della Chiesa può evolversi nel campo sociale, può farlo anche in qualsiasi altro campo. La posizione del gruppo Pax contiene un’implicita confessione di relativismo, che mira a presentare al pubblico la dottrina cattolica come mutevole in tutti i suoi aspetti. Inoltre, accettando il dialogo irenistico con i comunisti, Pax finisce per rivelarsi uno strumento che mira interamente a promuovere la diffusione del relativismo negli ambienti cattolici dell’infelice Polonia. Questo modo di sentire relativistico emerge anche dal celebre libro Il dialogo alla prova38, nel quale alcuni suoi coautori lasciano intravedere che, dal punto di vista del “dialogo”, gli uomini non si dividono in gruppi ideologici ma in due grandi

e comunisti, su “La Civiltà Cattolica” (Roma), del 17 ottobre 1964, pp. 110-123. [Tuttavia, appena due anni dopo, il p. De Rosa cambiò idea e sostenne la possibilità ed anzi opportunità per i cattolici italiani di collaborare con i comunisti; si vedano i suoi libri Cattolici e comunisti oggi in Italia, Edizioni La Civiltà Cattolica, Roma 1966, e Chiesa e comunismo in Italia, Coines, Roma 1970. (N. d. T.)] 38. Il dialogo alla prova, a cura di Mario Gozzini, Vallecchi, Firenze 1964.

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categorie sovra-ideologiche. Gli uni, sono quelli che – nelle varie cornici dottrinali – essendo sensibili al “dialogo” e capaci di praticarlo, progrediscono verso la “coesistenza pacifica” e la sintesi; costoro sono i buoni. Gli altri, sono insensibili alle attrattive del “dialogo” e si ostinano nella mera controversia di tipo “dogmatico” e pertanto priva di stampo relativistico: costoro sono i cattivi, i testardi, gli intransigenti. Non è necessario avere grande perspicacia politica per capire che, per i cattivi, non ci saranno le delizie della “coesistenza pacifica”, ma gli inflessibili rigori della più feroce persecuzione. 5. IL

PACIFISMO IRENISTICO E IL

“DIALOGO”

Per essere nati sul terreno dell’utopia irenica, i vocaboli “dialogo” e “coesistenza” formano, con la parola “pace”, una sola catena. La pace irenica non si riduce alla mera mancanza di guerre termonucleari o convenzionali, di rivoluzioni o guerriglie: essa include una dottrina, consiste in uno stile di vita (non solo pubblica ma anche privata) nel quale tutti i fattori di attrito sono sostituiti da una coesistenza cordiale e dialettica tra tesi e antitesi, in una continua collaborazione per preparare la sintesi. Il dialogo irenistico è l’applicazione diretta di questa dottrina, il linguaggio di questo stile di vita, lo strumento di questa collaborazione39. 39. Nel leggere tutte queste considerazioni, una vittima della parola-talismano “dialogo” non tralascerà di domandarsi se l’autore, essendo così ostile all’irenismo, sia indifferente al pericolo di un’ecatombe termonucleare. Questa domanda è, di per sé, offensiva: infatti solo un pazzo o uno spietato può essere indifferente a questo pericolo. Un cattolico che non lo tema con tutte le forze dell’anima non è sincero nella propria fede, ma in realtà non sarà altro che un fariseo. Ciò nonostante, per un sincero cattolico, c’è un male ancor più grave della guerra: il peccato. Sant’Agostino rende ben chiaro questo pensiero: «Che cosa c’è da condannare nella guerra? Forse il fatto che in essa, affinché i vincitori possano vivere in pace, si uccidono quegli uomini che comunque sono tutti destinati a morire un giorno? Una tale condanna della guerra sarebbe cosa da pusillanimi, non da uomini religiosi. Ciò che va condannato, a giusto titolo, nelle guerre, è il desiderio di causar danni, la crudeltà della vendetta, l’ostilità implacabile e nemica di ogni pace, la ferocia delle rappresaglie, la sete di dominio e altre simili passioni» (Contra Faustum manichaeum, 22, 74; cfr. P. L., Editions Garnier, Paris 1886, vol. 42, p. 447). Se questi sono i peccati ai quali la guerra può indurre gli uomini, nelle attuali circostanze l’irenismo può indurci a un peccato molto più grave: l’apostasia infatti è il più grave dei peccati, in quanto attenta a quella Fede che è radice di tutte le virtù. Se il prezzo per conservare la pace sta nel fatto che i figli della Chiesa accettino una concezione relativistica della Religione – capziosamente introdotta in loro mediante la parola-talismano “dialogo” e altre simili – e una civiltà socialista, allora è necessario ammettere francamente che, per il genere umano, si pone l’alternativa tra l’obbedire a Dio, che ci comanda di credere a ciò che ha rivelato, e l’obbedire a quei despoti comunisti che, additando la bomba all’idrogeno, ci comandano di rifiutare la Rivelazione. Di fronte a quest’alternativa, ancora una volta, non c’è da dubitare: come avverte il Principe degli Apostoli, «bisogna obbedire più a Dio che agli uomini» (At. 5, 29). Tuttavia, neghiamo che la reale scelta, di fronte alla quale si trova l’umanità, sia quella tra l’apostasia e la distruzione

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TRASBORDO IDEOLOGICO INAVVERTITO E DIALOGO

6.

UNA COSTELLAZIONE DI PAROLE-TALISMANO TRASBORDATRICI

Dialogo, coesistenza, pace, essendo parole-talismano, vengono usate qua e là in accezioni a volte enigmatiche. Se però vengono intese in senso evoluzionistico ed hegeliano, il loro carattere enigmatico scompare e questi vocaboli talismanici diventano chiari, precisamente determinati e perfettamente congruenti tra loro. Questo ci pone fin d’ora in presenza dell’azione trasbordatrice non di una sola parola (dialogo), ma di tutta una costellazione di parole-talismano affini. Costituita a partire da elucubrazioni irenistiche sulle relazioni tra cattolici e noncattolici, questa costellazione conduce a un relativismo di sapore hegeliano e marxista. 7. IL “DIALOGO” E LA VIA ITALIANA AL COMUNISMO Abbiamo fin qui considerato il “dialogo” come uno strumento del trasbordo ideologico inavvertito. Prima di chiudere il nostro studio, è il caso di domandarsi se, parallelamente a questo trasbordo, il comunismo internazionale abbia in vista qualche operazione politica di grande portata, per risolvere il problema che abbiamo esposto nel principio di questo lavoro, ossia il fallimento mondiale del proprio proselitismo esplicito. Se così fosse, l’importanza del trasbordo ideologico inavvertito diventerebbe ancor più evidente al lettore. atomica. Di certo abbiamo, da un lato, il precetto divino e, dall’altro, la minaccia comunista; ma il pericolo dell’ecatombe termonucleare sarà maggiore se disubbidiremo a Dio, che se disubbidiremo ai despoti di Mosca o di Pechino. Se infatti l’opinione pubblica – dominata dal binomio paura-simpatia e intossicata dalle parole-talismano dell’irenismo, tra le quali “dialogo” – pur di salvare la pace, accetterà una concezione relativistica ed hegeliana della Religione, imporrà inevitabilmente alle nazioni non comuniste di accettare la comunistizzazione generale del mondo, sotto l’apparenza della coesistenza. Per lo stesso fatto di essere commesso non solo da individui ma anche da nazioni, questo supremo peccato è sottoposto in modo particolarissimo alla divina Giustizia. In effetti, mentre i peccati degli individui possono essere puniti sia in questo mondo che nell’altro, non avviene lo stesso con i peccati delle nazioni. Non potendo essere compensate né punite nell’altra vita, è in questa che le nazioni ricevono il premio delle loro buone azioni e il castigo dei loro crimini, come dice sant’Agostino [cfr. Leone XIII, Exeunte jam anno, enciclica del 25 dicembre 1888]. In termini di Giustizia, quindi, a un supremo peccato delle nazioni corrisponde un supremo castigo in questo mondo, e questo castigo può essere proprio la catastrofe termonucleare. Si corre dunque maggior pericolo di una tale catastrofe con l’apostasia che con la fedeltà. Quest’affermazione la si prova ancora meglio, se consideriamo non solo il castigo ma anche il premio. Le nazioni fedeli alla Legge divina devono ricevere su questa terra la giusta ricompensa. Dunque, anche per ciò che riguarda i beni terreni, niente è più adatto a propiziare a un popolo la protezione e il favore di Dio, che una eroica fedeltà di fronte al pericolo termonucleare. Questa fedeltà è il mezzo per eccellenza per allontanare tale pericolo.

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Se consideriamo la linea di condotta assunta dal Partito Comunista Italiano per ciò che riguarda la politica interna della Penisola, c’imbattiamo in certi fatti che c’inducono a una risposta affermativa. Per molto tempo, il P.C.I. ha tentato di distruggere la Religione mediante una lotta violenta ed aspra. Ma dopo la seconda guerra mondiale, di fronte alla dominante influenza elettorale dell’opinione cattolica, esso ha gradualmente mutato atteggiamento e oggi i suoi rappresentanti più qualificati affermano che, se i cattolici concordano nel collaborare all’edificazione di una economia socialista, da parte loro i comunisti saranno disposti ad ammettere la religione come un valido fattore della rivoluzione sociale e a dare alla Chiesa piena libertà di culto. In questi termini, si stabilirebbe una “coesistenza pacifica” con la Chiesa e l’ateismo comunista entrerebbe in un regime di “dialogo” irenico con la Religione cattolica, allo scopo di produrre una nuova sintesi. Il libro Il dialogo alla prova (sopra citato al punto 4) contiene in questo senso testi importanti. Anche l’articolo del rev.mo padre Giuseppe De Rosa S.J. (sopra citato al punto 3) riproduce interessanti documenti comunisti che implicitamente ammettono l’attuale indistruttibilità della Religione cattolica in Italia e suggeriscono il “dialogo” e la “coesistenza pacifica” tra cattolici e comunisti di quella nazione. In opposizione alla cosiddetta “via russa” – ossia quella della lotta ideologica e della persecuzione poliziesca, seguita in modo quasi continuo nell’U.R.S.S. – si delinea così una “via italiana”, ispirata dal carattere opportunista del comunismo e formulata in termini d’irenismo, dialogo relativista e coesistenza. Un documento fondamentale della “via russa” sarebbe il famoso Rapporto Ilytchev40; il documento fondamentale della “via italiana” sarebbe il non meno famoso Memoriale di Yalta, steso da Palmiro Togliatti 41, defunto segretario generale del P.C.I, a proposito del Rapporto Ilytchev. La “via italiana” al comunismo è simile alla politica di temporeggiamento con la Chiesa e di pieno appoggio al movimento Pax, seguita dal dittatore comunista polacco Gomulka. L’omogeneità religiosa della Polonia crea per il comunismo, in quel Paese, problemi analoghi a quelli che avrebbe un governo comunista in Italia. In ultima analisi, la “via italiana” rivela che i comunisti sperano che i cattolici della Penisola, pressati dal binomio paura-simpatia, pur di evitare la persecuzione, accettino in gran numero una velata apostasia.

40. Ossia il discorso pronunciato il 26 novembre 1963 dal presidente della Commissione Ideologica del Comitato Centrale del P.C.U.S., nella riunione allargata della detta Commissione. 41. [Cfr. P. Togliatti, Memoriale di Yalta, Sellerio, Palermo 1988.]

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TRASBORDO IDEOLOGICO INAVVERTITO E DIALOGO

Non crediamo che, in una nazione come quella italiana, questa manovra possa riuscire nei confronti della grande maggioranza. Ma, giacché i comunisti ripongono le loro speranze in questa manovra per risolvere il problema italiano, è opportuno chiedersi se non si aspettino qualcosa da essa anche per altri Paesi cattolici, ad esempio per il Brasile e le nazioni sorelle dell’America Latina. Ampliando la domanda, ci chiediamo se il comunismo abbia in vista un’analoga manovra verso Paesi che seguono le altre religioni. Tutto ci fa pensare di sì e, a nostro parere, in ciò sta uno degli aspetti più attuali della materia trattata in questo studio.

8.

UTILITÀ DEL PRESENTE STUDIO: LA POSSIBILITÀ DI

“ESORCIZZARE”

LA PAROLA -

TALISMANO, RENDENDO VANO LO STRATAGEMMA COMUNISTA

Come abbiamo detto al principio di questo studio, i settori non-comunisti dell’opinione pubblica mondiale si trovano in una situazione psicologica contraddittoria. Nella misura in cui osservano il comunismo di fronte, chiaramente esplicitato, essi lo respingono per fedeltà a tutto un complesso di valori in cui ancora credono, valori procedenti dal buon senso universale o dall’eredità cristiana. Ma se osservano il comunismo di traverso, ossia solo nelle sue manifestazioni annacquate e implicite, essi vanno accettandolo gradualmente sempre di più. Li spinge a questo il mito irenistico e il binomio paura-simpatia. Se dunque, per il comunismo, l’essenziale è mantenere velato nella parola-talismano il significato ultimo del mito, per analoga ragione la sua vittima è anch’essa riluttante a renderlo esplicito. Per la maggior parte delle persone, quel mito evocato e insinuato dalla parola “dialogo”, galvanizzante come l’elettricità di cui è caricato, attrae solo in quanto si mantiene vago, sfumato, avvolto nelle nebbie della poesia. Com’è bello abbandonarsi al vago sogno di una completa e definitiva concordia in tutti i campi delle relazioni umane! Spiegare questo sogno, cercare di studiarlo, equivarrebbe a sopprimerlo (cfr. cap. III, 3). Ma poi, perché mai spiegare? Perché capire? Tali miti sono fatti non tanto per essere capiti quanto per essere gustati. In generale, il drogato non s’interessa della composizione chimica della droga, non vuol capire ma sentire l’oppio. Per esorcizzare la parola-talismano e render vano il suo effetto magico, bisogna soprattutto svelare, nella pluralità dei significati che essa possiede, il mito che in essa si cela. 87


PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA

Tutto ciò che esiste tende a manifestarsi. Nella mente dei suoi fanatici, il mito esiste. Impedendo l’accesso alle vie della sua spiegazione, esso si manifesta col massimo dell’intensità e della chiarezza incubato nelle sfumature più radicali della parola-talismano “dialogo”, come abbiamo già detto. E così, anche quando si ostina a rimanere implicito, il mito può essere svelato, caratterizzato e alla fine messo a nudo da un osservatore che conosca le regole tipiche di questo procedimento. Il modo di svelare il mito consiste nel considerare la parola-talismano nei suoi significati più applauditi e irraggianti e nel confrontarli con i significati successivamente meno magici, arrivando fino al significato innocuo e banale. Una volta così costituita la gamma comparativa che contiene i significati mitici e quelli non-mitici, il contrasto tra i primi e i secondi permetterà di scoprire il contenuto recondito della parola che traspare nelle sue applicazioni mitiche e radicali. Nel caso del “dialogo”, il confronto farà sempre emergere l’irenismo. Nella gamma dei significati, nella misura in cui quel vocabolo va perdendo la propria forza talismanica, si vedrà diminuire il contenuto irenico. Questo contenuto è assente dall’uso elementare della parola in causa. Il mito irenico, relativistico ed hegeliano è dunque la forza magica della parola-talismano “dialogo”. In altri termini, il metodo di questa ricerca assomiglia a un esperimento di ottica, nel quale l’occhio umano abbia innanzi a sé uno schermo translucido e una sorgente luminosa posta dietro di questo. Quanto più prossima la sorgente, tanto più luminoso lo schermo. Quanto più distante quella, tanto meno luminoso questo. Tale esperienza proverebbe che la luce non è immanente allo schermo, ma proviene dalla sorgente mobile che gli sta dietro. Analogamente, possiamo dire che il vocabolo “dialogo” brilla di una luce che non nasce da quello, ma da un mito che gli sta dietro. Quanto più prossima al mito, tanto più luminosa la parola, e quanto più distante da esso, tanto più opaca. Una volta che il mito è stato messo a nudo da chi lo studia, costui può “esorcizzare” la parola-talismano divulgando la propria scoperta. Così, esplicitando il mito, egli offrirà alle vittime del trasbordo ideologico inavvertito i mezzi per aprire gli occhi sull’azione che viene esercitata su di loro, per farli diventare consapevoli della direzione verso la quale vengono spinti, e per difendersene. Una volta svelato il mito, l’incantesimo verrà neutralizzato. Allora entrerà in azione il naturale rifiuto del comunismo da parte delle persone in tal modo avvertite, e la manovra comunista verrà vanificata. Contribuire a dare alle vittime di questo procedimento il mezzo per difendersene efficacemente, è lo scopo per cui è stato scritto questo lavoro. * * * 88


TRASBORDO IDEOLOGICO INAVVERTITO E DIALOGO

Preghiamo la Madonna di Fatima affinché accolga come filiale omaggio d’amore questo studio e, benché sia un insignificante strumento, si degni di usarlo per realizzare la grande promessa che ha fatto al mondo nella Cova da Iria: «Infine, il mio Cuore Immacolato trionferà».

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Quadro schematico delle quattro fasi

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1a FASE Penetrazione irenistica

2a FASE Espansione irenistica

La cordialità irenistica si La cordialità irenistica passa Gradi di intensità dell’emozione irenistica erge a fattore complementare ad essere il fattore preponderante indispensabile alla persuasione della persuasione Ripercussione dell’emozione irenistica nelle relazioni tra gli interlocutori

Nella discussione-dialogo si esagera la cordialità. La polemica e la discussione pura e semplice sono proscritte

La cordialità irenistica contamina il dialogo-indagine e il dialogotrattenimento. Questi diventano preponderanti: la discussionedialogo è appena tollerata

Ripercussione dell’emozione irenistica sull’obiettivo della conversazione

Con disgusto l’interlocutore irenista ammette ancora che vi sono una verità ed un errore oggettivi, che è necessario convincere l’interlocutore, e che l’unità è solo un frutto dello sforzo di persuasione

L’interlocutore irenista benché ammetta ancora che vi sono una verità e un errore oggettivi, e che è necessario convincere, nondimeno, passa a considerare che il fine supremo della conversazione non è la verità ma l’unità.

Ripercussione dell’emozione irenistica sull’esplicitazione del mito irenista

Prima esplicitazione del mito: tutti gli uomini sono ben intenzionati; le divergenze sono sempre frutto di risentimenti o di equivoci

Seconda esplicitazione del mito: è tale la buona volontà degli uomini che gli equivoci dottrinali non hanno quasi importanza; essenziale è acquietare i risentimenti

Ripercussione dell’emozione irenistica sul contenuto della parola-talismano dialogo

Sorge la parola-talismano dialogo a designare per antonomasia la discussionedialogo irenica

La parola-talismano dialogo si estende al dialogo-indagine e al dialogo-trattenimento imbevuti di irenismo; e quasi non include più la discussione-dialogo

Ripercussione della parola-talismano dialogo sull’intensità dell’emozione irenistica

L’uso della parola dialogo, pregna di significato miticoirenistico e di efficacia talismanica, aumenta a sua volta l’emozione irenistica e prepara così la fase seguente

L’uso della parola dialogo, pregna di significato mitico-irenistico e di efficacia talismanica, aumenta ancor più l’emozione irenistica e prepara così la fase successiva

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TRASBORDO IDEOLOGICO della INAVVERTITO DIALOGO della deformazione talismanica parolaE«dialogo»

3a FASE Trionfo irenistico: relativismo

4a FASE Apogeo irenistico-relativistico: hegelismo

La cordialità irenistica si erge a fattore esclusivo della persuasione: relativismo

La cordialità irenistico-relativistica si struttura come «ludus» hegeliano

Il dialogo-indagine e il dialogo-trattenimento Il dialogo passa ad essere concepito come il diventano le uniche forme consentite di gioco hegeliano della tesi, dell’antitesi e della dialogo. La discussione-dialogo è proscritta sintesi

L’interlocutore irenista passa ad ammettere che non vi sono verità né errori oggettivi (relativismo) per cui non è necessario convincere per raggiungere l’unità

L’interlocutore irneista passa a sostenere che in virtù del «ludus» hegeliano delle «verità» relative l’unità si afferma e progredisce

Terza esplicitazione del mito: l’uomo di buona volontà prende coscienza del fatto che gli equivoci dottrinali sono inconsistenti. La verità è relativa; la cordialità per sé sola realizza l’unione completa

Esplicitazione totale del mito: per gli uomini di buona volontà, mediante il confronto amichevole delle «verità» relative, si ottiene il progresso nell’unità e nella verità

La parola-talismano dialogo passa a comprendere appena il dialogo-indagine e il dialogo-trattenimento, posti su basi interamente relativistiche. Si esclude la discussione-dialogo

La parola-talismano dialogo passa a significare il confronto ludico della tesi e dell’antitesi in vista dell’enucleazione della sintesi

L’uso della parola dialogo, pregna di significato mitico-irenistico e di efficacia talismanica, ancora una volta aumenta l’emozione irenistica e prepara così la fase successiva

L’iterazione all’infinito della parola-talismano dialogo e dell’emozione irenistica influenza il processo hegeliano in modo che esso si sviluppi in un’atmosfera non solo sincretistica, ma di cordialità crescente

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PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA

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TRASBORDO IDEOLOGICO INAVVERTITO E DIALOGO

Guido Vignelli

Il mito del dialogo relativista Una strategia di conquista che continua

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PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA

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TRASBORDO IDEOLOGICO INAVVERTITO E DIALOGO

I

l lettore si chiederà perché mai ristampare un libro come questo, scritto 45 anni fa, che tratta questioni legate alla sua epoca e si riferisce a vicende superate quali la propaganda comunista, la “distensione” tra Est ed Ovest, il “dialogo” tra Chiesa e mondo sovietico. Potremmo rispondere ricordando che è sempre utile ristampare quei testi classici la cui validità trascende le contingenze storiche che li hanno occasionati. Ma questo saggio di Plinio Corrêa de Oliveira è importante per tre motivi speciali: primo, esso fece una profetica denuncia del pericolo relativista, prevedendone rovinose conseguenze che poi si sono realizzate; secondo, esso mantiene una scottante attualità che ci permette di cogliere ed evitare analoghi pericoli incombenti; terzo, esso delinea una strategia di riscossa che contribuirà a salvare la residua civiltà cristiana dalle insidie che la minacciano. Le illusioni di un’epoca ottimistica Il primo motivo che rende importante questo libro sta nell’aver avvertito l’opinione pubblica sulle gravi insidie del dialogo relativista e pacifista, riuscendo a limitarne le prevedibili conseguenze; il che fu tanto più meritorio, in quanto contrastò la mentalità dell’epoca. All’inizio degli anni Sessanta infatti dominava un clima di ottimismo. Il progresso sembrava preparare un’era di pace, sicurezza e benessere universali e definitivi. La propaganda di un “umanesimo laico” sembrava capace di risolvere i conflitti ideologici, politici e religiosi, superando la contrapposizione tra “opposti integrismi”. La progettazione di un “nuovo ordine mondiale” sembrava capace di risolvere lo storico contrasto tra la liberté e l’égalité nella fraternité, mediante la convergenza tra democrazia comunistizzata, comunismo democratizzato e cristianesimo modernizzato. Il movimento ecumenico sembrava preparare l’unione delle Chiese e la loro riconciliazione con la “modernità”. Queste speranze erano incarnate dalle tre personalità che, nei loro rispettivi settori, avevano avviato il “dialogo”, la “distensione” e la “coesistenza pacifica”: Kennedy con la “nuova frontiera”, Krusciov con la “destalinizzazione” e Giovanni XXIII con l’“aggiornamento”. Nello specifico campo religioso, tra il 1959 e il 1963 Papa Giovanni XXIII aveva fatto i celebri discorsi, scritti e gesti di “apertura al mondo”, che sostituivano la critica e la condanna col dialogo e la collaborazione, concedendo agli erranti una benevolenza poi estesa ai loro errori1. Di conseguenza, il Concilio Ecumenico

1. Cfr. P. Neglie, La stagione del disgelo, Cantagalli, Siena 2009, pp. 154 ss.

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PLINIOGUIDO CORRÊA VIGNELLI DE OLIVEIRA

Vaticano II evitava di pronunciare condanne e taceva sui due maggiori nemici della Chiesa: la setta massonica2 e quella comunista3. Dopo l’enciclica di Paolo VI sul colloquium (Ecclesiam suam, 1964) e la costituzione conciliare sul rapporto Chiesa-Mondo (Gaudium et spes, 1965), la Santa Sede elevava il dialogo dalla fase sperimentale a quella istituzionale, inserendolo nella pastorale ecclesiale e affidandolo ai due Segretariati Pontifici appositamente istituiti: quello per il “dialogo con i non-cristiani” (1964) e quello per il “dialogo con i non-credenti” (1965). In teoria, questa operazione doveva preservare il dialogo da sperimentalismi avventurosi e da deviazioni eretizzanti, fondandolo su una solida base teologica e regolandolo con una rigorosa normativa disciplinare sorvegliata da Roma. Tuttavia, fin dall’inizio questa operazione assumeva un carattere ambiguo. Da una parte, per farlo accettare agli ambienti conservatori, il dialogo si presentava come una mera riforma necessaria per “salvare il salvabile”. Il dialogo politico serviva ad evitare il conflitto politico-militare tra Est ed Ovest e quello economicosociale tra Nord e Sud, a mantenere la pace, l’ordine e il benessere mondiali grazie a “mutua comprensione”, “reciproca accettazione” e “coesistenza pacifica” fra tutti gli uomini “in buona fede” e “di buona volontà”. Il dialogo religioso serviva ad adeguare l’annuncio evangelico alle moderne esigenze della libertà di opinione, di critica e di scelta, nel tentativo di convertire quell’uomo contemporaneo che non accetta più imposizioni alla propria sovrana coscienza. Ma dall’altra parte, per farlo promuovere dagli ambienti progressisti, il dialogo si presentava come una rivoluzione necessaria per favorire l’avvento di un nuova era egualitaria e relativista. Nel campo politico, esso serviva ad abbattere le divisioni tra Est ed Ovest, tra Nord e Sud del mondo, superando le disuguaglianze e le contrapposizioni non solo nazionali, politiche e militari, ma anche ideologiche, morali e sociali. Le più influenti élites intellettuali, mediatiche e politiche (e in parte anche quelle ecclesiastiche) erano convinte che la modernità fosse irreversibile, che il comunismo ne fosse una fase storicamente necessaria alla emancipazione dei popoli e che il sistema sovietico dovesse essere non abbattuto ma solo riformato in senso “democratico”. Queste élites credevano quindi che l’Occidente dovesse non solo rinunciare all’anticomunismo, ma anche dare l’esempio di una completa

2. Cfr. P. Siano F.I., Alcune note su Concilio e postConcilio tra storia, ermeneutica e Massoneria, su “Fides Catholica” (Firenze), a. 2010 n. 1, pp. 317-382. 3. È ormai storicamente dimostrato che il silenzio del Concilio sul comunismo fu concordato, prima da Giovanni XXIII e poi da Paolo VI, direttamente col Patriarcato “ortodosso” russo e indirettamente col Kremlino (cfr. J. Madiran, L’accordo di Metz tra Kremlino e Vaticano, Pagine, Roma 2011); in questa trattativa, i democristiani italiani Fanfani e La Pira svolsero un importante ruolo di mediazione (cfr. P. Neglie, op. cit., pp. 166-174).

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“democratizzazione” d’idee, norme e strutture, in modo da incoraggiare quella del sovietismo. Agli organismi politici soprannazionali, come l’O.N.U. e la nascente Unione Europea, spettava gestire questa convergenza politica finalizzata a costruire una “Repubblica Universale”. Nel campo religioso, il dialogo mirava a “purificare” le Chiese cristiane e poi anche le confessioni non-cristiane dal loro “integrismo” e arcaismo, adeguando dogmi, riti, leggi e istituzioni alle esigenze di una religiosità evoluta basata sul “culto dell’Uomo”4. Agli organismi religiosi internazionali, come il Consiglio Ecumenico delle Chiese, spettava gestire questa convergenza confessionale, allo scopo di creare una Chiesa planetaria che assicurasse l’unità e la pace religiose necessarie per favorire l’avvento della citata “Repubblica Universale”. I timori espressi dai “profeti di sventura” Come sappiamo, questo ambizioso progetto ha prodotto nel ventennio successivo risultati opposti a quelli sperati, realizzando non una rinascita religiosa ma la grande svolta secolarizzatrice, non la pacificazione globale ma la globalizzazione dei conflitti, non la democratizzazione del comunismo ma la sua massima espansione. A questo risultato la pratica del dialogo ha dato un grave contributo. Per attenuarne le responsabilità, si suole dire che allora era impossibile prevederne le gravi conseguenze. Ma quest’affermazione è smentita da un fatto storico che si vorrebbe nascondere: proprio allora, molte personalità lungimiranti denunciarono privatamente il pericolo e le più coraggiose fra loro lo fecero anche pubblicamente, avvertendo sia l’opinione pubblica che le autorità politiche ed ecclesiastiche5. Ad esempio, già nel 1958, Rafael Gambra obiettò che il dialogo nasceva da una mentalità dominata dai seguenti presupposti: «la “comprensione universale”, che si apre a tutto senz’aver alcun baluardo da difendere; l’idea del “pluralismo”, che nega l’oggettività della verità e del bene; il disegno dell’“ecumenismo”, che postula una sorta di mercato comune delle religioni; il pacifismo, che si rifiuta di difendere 4. Ad esempio, secondo alcuni le Chiese dovrebbero tradurre le proprie idee in un linguaggio secolarizzato e rinunciare «al dogmatismo e alla coercizione sulle coscienze» (J. Habermas, I fondamenti prepolitici dello Stato liberale, in J. Habermas e J. Ratzinger, Etica, religione e Stato liberale, Morcelliana, Brescia 2004, p. 35). 5. Fra le personalità cattoliche che obiettarono pubblicamente, ricordiamo: i laici Thomas Molnar, Augusto Del Noce, Nicola Petruzzellis, Rafael Gambra, Francisco Canals Vidal, Jean Ousset, Jean Madiran, Etienne Gilson, Georg May; i sacerdoti Bernardo Monsegù, Julio Meinvielle, Piercarlo Landucci, Dario Composta, Cornelio Fabro, Enrico Zoffoli, Ennio Innocenti, Philippe de la Trinité. Anni dopo si pronunciarono anche Romano Amerio, p. Claude Barthe, p. Brunero Gherardini, p. Charles Morerod e i cardinali Giuseppe Siri, Pietro Parente, Silvio Oddi e Giacomo Biffi.

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alcunché in quanto non si possiede né si ama nulla d’importante»6. Nel 1964, Augusto Del Noce obiettò che i dialoganti occidentali, specie quelli cattolici, erano dominati da un complesso di colpa sul passato (medioevale), da un complesso d’inferiorità sul presente (moderno), da illusioni pacifiste sul futuro, nonché dal rispetto umano verso i “fratelli separati” e i “compagni di strada” e dalla ossessione di evitare divisioni e conflitti nella illusione di essere così accettati da tutti7. Nel 1966, Thomas Molnar obiettò che il dialogo «serve solo a mascherare l’intenzione di realizzare l’era post-cristiana e la città secolare»8. L’intervento più importante sul problema fu certamente quello del prof. Plinio Corrêa de Oliveira. Tempestivamente, nell’agosto del 1965, egli scrisse il saggio che qui presentiamo – Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo – e lo fece pubblicare dapprima sulla rivista cattolica brasiliana “Catolicismo” e l’anno dopo in forma di volumetto9. Pur essendo di non facile lettura, questo libro ebbe notevole successo, anche grazie alla diffusione promossa dall’associazione T.F.P.: esso contò 5 edizioni nella originale lingua portoghese, 6 in spagnolo, una in tedesco e una in italiano10, raggiungendo un totale di 136.500 copie; venne inoltre pubblicato su riviste brasiliane, argentine, cilene, colombiane, statunitensi, portoghesi e spagnole. Esso incoraggiò la timida obiezione di coscienza al dialogo, diventò un testo di riferimento sul tema e come tale fu spesso “saccheggiato” sebbene raramente citato, come spesso si è fatto con gli scritti del professore brasiliano! Sviluppando un’analisi critica avviata fin dal 1943 sui discutibili metodi di apostolato allora emergenti nell’Azione Cattolica11, in questo saggio del 1965 l’autore denunciò il dialogo come un metodo pericoloso che spingeva i fedeli a gareggiare “lealmente” su un terreno, con regole e in uno spirito funzionali all’avversario politico e religioso, ponendoli in una posizione subordinata ad esso. Ad esempio, una pericolosità del dialogo consiste nel suo agire mediante un’astuta dinamica progressiva che falsa i termini del confronto alternando lusinghe e

6. R. Gambra, El exilio y el reino, su “Verbo”, n. 231-232 (1958), pp. 73 ss. 7. Cfr. A. Del Noce, Dialogo tra Chiesa e cultura moderna, su “Studi Cattolici”, n. 45 (a. 1964), poi in Id., L’epoca della secolarizzazione, Giuffré, Milano 1970, pp. 108 e 105. 8. T. S. Molnar, Vero e falso dialogo, Borla, Torino 1967, p. 191. 9. P. Corrêa de Oliveira, Baldeação ideologica inadvertida e diàlogo, su “Catolicismo”, nn. 178-179, ottobrenovembre 1965, pp. 2-12; poi Editora Vera Cruz, São Paulo do Brasil 1966. 10. P. Corrêa de Oliveira, Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo, Edizioni de L’Alfiere, Napoli 1970. Questa edizione italiana uscì grazie all’impegno di Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica, e di Silvio Vitale, direttore della storica rivista napoletana “L’Alfiere” e della omonima casa editrice. 11. P. Corrêa de Oliveira, Em defesa da Ação Catòlica, Artpress, São Paulo 1943, parti III e IV.

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minacce, simpatia e paura, “zuccherino e bastone”. All’inizio apparentemente modesta, la portata del colloquio cresce col suo svilupparsi, perché ogni risultato ottenuto viene elogiato come “promettente” (ecco lo zuccherino) ma anche criticato come “insufficiente” (ecco il bastone); pertanto il dialogante estremista spinge quello moderato a fare concessioni sempre maggiori, facendogli subire un trasbordo ideologico inavvertito col quale abbandona le posizioni tradizionali e assume quelle rivoluzionarie. Inoltre, questa dinamica progressiva cambia implicitamente sia l’oggetto che lo scopo del dialogo. Difatti il suo oggetto va estendendosi dalle forme ai contenuti; dalla ricerca dell’intesa cordiale, che comporta il sopprimere solo antipatie, incomprensioni e pregiudizi, si passa alla ricerca di un compromesso ideologico che comporta la soppressione delle divergenze dottrinali, comprese quelle dogmatiche e morali, riducendole a opinioni irrilevanti, relative e sorpassate prodotte da pregiudizi intellettuali, complessi psicologici, condizionamenti sociali, eredità da rinnegare, colpe storiche di cui pentirsi. Inoltre, lo scopo del dialogo non consiste più nello scoprire la verità oggettiva per convertirsi ad essa, ma nel creare una verità fittizia che giustifichi un accordo sociale che a sua volta istituisca un potere “democratico” capace di assicurare certi risultati pratici: l’unione e la pace mondiale, il benessere, i diritti umani, l’ecumenismo, la salvaguardia della natura. Insomma, si mira a realizzare non più l’unità nella verità, ma al rovescio la verità nell’unità: diventa vero ciò che mette d’accordo tutti – o almeno la maggioranza, o almeno i più influenti – mediante un compromesso che realizzi una “nuova sintesi condivisa”12. Questo risultato viene poi imposto da un potere mediatico-politico-giudiziario (talvolta anche ecclesiastico) che deride, condanna e punisce ogni “integrismo” avverso al “politicamente (o religiosamente) corretto”; e così, una cinica dittatura relativista impone l’opinione e l’arbitrio con l’assolutezza e con l’intransigenza negate alla promozione della verità. Possiamo fare un parallelo: come le logge massoniche usano il metodo della libera discussione, mettendo tutto in dubbio allo scopo di distruggere le premesse razionali della Fede; come le cellule comuniste usano il metodo della dialettica marxista, suscitando la lotta di classe allo scopo di distruggere le basi sociali del Cristianesimo; così gli ambienti progressisti usano il metodo del dialogo, ponendolo al servizio della strategia psicologica e della guerra propagandistica rivoluzionarie. Queste

12. Viene qui applicato quel meccanismo rivoluzionario – già denunciato un secolo fa da Augustin Cochin – che sta all’origine delle moderne democrazie e in particolare del sistema dei partiti e delle lobby (cfr. A. Cochin, Le società di pensiero e la Rivoluzione Francese. Meccanica del processo rivoluzionario, Il Cerchio, Rimini 2008, parte I).

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usano astute tecniche di persuasione e di manipolazione psico-sociale, implicita od occulta, che mirano a ingannare, sedurre e traviare i cristiani, facendoli scivolare prima nel disarmo psicologico (“buonismo”), morale (permissivismo) e culturale (relativismo), poi nella resa politica, economica e militare, fino a trasbordarli inavvertitamente nel campo nemico. Questa operazione viene favorita dall’influsso di una sorta d’incantesimo tenebroso d’ispirazione demoniaca, degno di essere studiato da quella demonologia sociale che si occupa delle influenze, infestazioni, ossessioni e possessioni esercitate dai demoni sulle mentalità, sensibilità e tendenze dell’opinione pubblica13. Per vincere quest’azione preternaturale non bastano i rimedi naturali; è necessario un soprannaturale intervento disinfestatore; giustamente quindi il compianto Silvio Vitale, presentando l’edizione italiana di questo libro, lo paragonò a un “esorcismo” capace di dissipare quel diabolico incantesimo14. Com’è noto, molte autorità politiche e religiose criticarono, derisero e isolarono le personalità che obiettavano sul dialogo, coinvolgendole nella sprezzante condanna pronunciata da Giovanni XXIII su quei “profeti di sventura” che ostacolano il progresso diffondendo timori e diffidenze perché incapaci di cogliere i “segni dei tempi” e di accettare l’“aggiornamento” richiesto dall’“apertura al mondo”15. Gli anni successivi dimostrarono ampiamente che quelle obiezioni erano fin troppo giustificate e che, come spesso accade, quei “profeti di sventura” avevano previsto giusto; eppure essi non sono stati ancora riabilitati dalle autorità che li avevano denigrati... Un bilancio ormai ineludibile In quegli scivolosi anni Sessanta, la fondazione teorica e la regolamentazione pratica del dialogo, tentate dalle autorità ecclesiastiche e politiche, furono troppo vaghe e deboli per impedire il moltiplicarsi delle ambiguità, delle confusioni e dei cedimenti16. Manovrata dai mass-media e dalle lobby progressiste, alimentata 13. Cfr. E. von Petersdorf, Demonologia, Leonardo, Milano 1995, pars II, cap. XVI. In particolare, l’ispirazione demoniaca del dialogo ecumenico relativista venne affermata fin dal 1470, sebbene in forma semiseria, dal noto poeta umanista Luigi Pulci, mettendola in bocca al personaggio del diavolo Astarotte invocato dal mago Malagigi (cfr. L. Pulci, Morgante, canto XXV, strofe 235-238). 14. S. Vitale, Prefazione a P. Corrêa de Oliveira, Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo, cit., p. 7. 15. Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia, discorso per la solenne apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, dell’11.10.1962, § 3. 16. «Paolo VI (…) si è volutamente astenuto dal dare alla proposta di dialogo una vera e propria fondazione teologica; il che forse è alla fonte delle intemperanze e delle ambiguità che hanno poi aduggiato la cristianità» (card. G. Biffi, Prospettive teologiche e pastorali in tema di dialogo, su “Cristianità”, n. 307, a. 2001).

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dall’opportunismo dominante, l’ondata del dialogo sfuggì al controllo dei suoi promotori ufficiali, abbatté le dighe e i canali che avrebbero dovuto arginarla e orientarla, dilagò dovunque e devastò tutto, confermando il noto ammonimento delle Sacre Scritture: «poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta» (Os. 8,7). E così quel dialogo, che avrebbe dovuto essere solo un metodo settoriale, temporaneo e facoltativo per favorire una riforma e una svolta rispetto al passato, diventò un criterio di giudizio globale, irreversibile e obbligatorio che favorì una rivoluzione e una rottura con la Tradizione. Ormai non si può più eludere un oggettivo e spassionato bilancio del dialogo, nella sua applicazione sia politica che religiosa, valutandolo in base agli evidenti risultati di mezzo secolo di tentativi che hanno impegnato un’enorme quantità di risorse, sia spirituali che materiali, che avrebbero potuto essere impiegate in modo proficuo. Oggi si tende ad ammettere che tutto quel dialogare ha prodotto risultati “deludenti”, “fragili” e “precari”, come si dice eufemisticamente per non ammettere che sono semplicemente fallimentari17; ma un bilancio onesto deve decidersi a denunciare un risultato gravemente negativo. Il dialogo infatti favorì il dilagare dell’ambiguità e dell’opportunismo, l’elusione delle verità e dei doveri più esigenti, la preferenza per le opinioni e per le scelte più comode, il prevalere del compromesso, del cedimento e della resa18. Esso suscitò uno stile di pensiero, di comunicazione e di vita, che spinse gli apostoli della verità (incerti, indecisi e cedevoli) a ripiegare su un pensiero debole, una politica debole e una religione debole, subordinandosi alle manovre dei fanatici dell’opinione (convinti, decisi e aggressivi). Tutto ciò contribuì a una crisi intellettuale, morale e sociale senza precedenti nella storia dell’Occidente cristiano, compromettendone talmente l’identità, la stabilità e la sanità, da impedirgli di resistere al micidiale attacco sferratogli dalla rivoluzione culturale a partire dal 1968. Questo bilancio negativo prova che quel dialogo era erroneo: lo era nei suoi presupposti, perché supponeva il relativismo come necessaria premessa alla discussione; nei suoi metodi, perché ricorreva a un irenismo che ricorreva a nascondimenti, ipocrisie, slealtà, servilismi, complicità; nei suoi protagonisti, perché era gestito da rappresentanze culturali, politiche e religiose scelte apposta per evitare chiarimenti ritenuti forieri di divisione e conflitto e per suscitare equivoci ritenuti forieri di unione e pacificazione. E così, pretendendo di “scrivere diritto sulle righe storte”, si è finito con lo scrivere storto sulle righe diritte; pretendendo 17. Cfr. ad es. B. Salvarani, Il dialogo è finito?, Edizioni Dehoniane, Bologna 2011. 18. Si noti che questo risultato era stato previsto già da Pio XI nella sua enciclica Mortalium animos, del 6 gennaio 1928, § 2.

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di “gettare un ponte verso gli altri”, questo ha trasbordato dalla verità e dalla Chiesa alle ideologie rivoluzionarie e alle sette anticristiane. Il fallimento del dialogo è stato favorito e viene confermato da un suo aspetto contraddittorio e paradossale. Si è voluto dialogare con tutti tranne che con gli “integristi”, ossia con coloro che, professando la verità e desiderando convertire ad essa, rifiutavano di sacrificarla agli idoli della pace, della “solidarietà” e dell’unità ad ogni costo. Aggiornando il motto di Voltaire e Robespierre (“nessuna tolleranza per i nemici della tolleranza!”), si è proclamato “nessun dialogo con i nemici del dialogo!”. Come spesso accade, l’amore per il lontano ha favorito l’odio per il vicino, per il prossimo, per il fratello nella fede. Considerati molto più colpevoli e pericolosi degli agnostici, degli atei e degli empi militanti, gli “integristi” sono stati accusati di essere nemici della pace, causa delle divisioni e dei conflitti rimanenti, responsabili del fallimento ecumenico, per cui sono stati zittiti, derisi, isolati e talvolta perseguitati in tutti i modi, a volte da quelle stesse autorità che essi rappresentavano e difendevano. Questa posizione oggi subisce una meritata nemesi punitiva, perché ormai l’accusa di “integrismo” colpisce non più solo i cattolici intransigenti, ma anche quelli transigenti, anzi i cattolici in quanto tali, compreso il Papa. Il fallimento del dialogo politico Fallimentare è il risultato del dialogo politico19. Lo dimostra proprio il campo sul quale si esercitò con maggior cura e tenacia: quello dei rapporti Est-Ovest, ossia tra le democrazie liberali e le dittature comuniste. La storia recente ha dimostrato che un’intesa leale non era possibile e che la “distensione” era solo una manovra del Kremlino per attirare dalla propria parte i credenti illusi, dividere l’Occidente e l’intero mondo cristiano, impedirne la salutare reazione anticomunista, rinviare il crollo del sistema sovietico per permettergli di guadagnar tempo e terreno estendendo la propria influenza in Asia, Africa ed America Latina. Infatti, lungo i disastrosi anni Sessanta e Settanta, è proprio questo ciò che è accaduto con grave danno per la libertà, anche religiosa. In Occidente, il dialogo fu giustificato dall’intenzione di ammansire i capi comunisti per spingerli a “democratizzare” il sistema sovietico concedendo una certa libertà ai popoli da esso sottomessi; invece si riuscì solo a rendere gli Stati democratici

19. Fra molti altri, lo ha ammesso Giuliano Amato in una intervista pubblicata su “Il Tempo”, 11.1.2010.

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complici del carnefice, rafforzandone il potere e aggravando e prolungando le sofferenze delle sue vittime20. Questa complicità gettò sulle democrazie un discredito che poi si aggravò a causa della loro incapacità di correggere una politica internazionale che si rivelava controproducente. Infatti la “distensione” avviata nel 1959 era fallita già nel 1966, quando il nuovo capo sovietico Breznev, una volta ottenutine i vantaggi, si era rimangiato le promesse e aveva ripreso la “guerra fredda” e le persecuzioni. Eppure il dialogo continuò ostinatamente per altri 25 anni, culminando in quella Conferenza di Helsinki (1975) che rafforzò le posizioni del comunismo internazionale con la complicità del Vaticano. Ancora all’inizio degli anni Ottanta, i vertici politici ed ecclesiastici continuarono a dialogare col moribondo potere sovietico, illudendosi di trovare un’intesa sulla base dei “valori comuni” e del “rispetto delle differenze” per “gestire insieme il futuro assetto globale”21. Tra il 1986 e il 1990, quei vertici fecero l’ultimo tentativo, noto come “compromesso storico mondiale”: una ristrutturazione (perestroika) politico-economica globale avrebbe dovuto realizzare l’osmosi tra un Oriente sovietico democratizzato e un Occidente democratico sovietizzato, preparando il passaggio a un “nuovo ordine mondiale” favorito dalla mediazione del Vaticano e di una Unione Europea a gestione socialdemocratica22. Invece anche questo esperimento fallì, perché i capi comunisti si resero conto che esso non era accettato dall’opinione pubblica e non riusciva a coinvolgere pienamente gli Stati né le Chiese, ma solo isolati vertici politico-ecclesiastici o ridotte basi tendenzialmente scismatiche. Allora, piuttosto che ammettere i propri errori e mantenere l’ipocrita promessa di “democratizzarsi”, il Kremlino preferì lasciar morire il corpo del sistema sovietico per farne sopravvivere l’anima, in modo che il morbo comunista, non più individuabile in un blocco ideologico-politico o etnico-geografico, potesse diffondersi come una metastasi tumorale nelle società occidentali ed orientali, propagandosi occultamente

20. Lo dimostrarono le giuste critiche rivolte alla Ostpolitik, specie a quella vaticana, da parte dei dissidenti slavi, fra i quali spiccarono personalità ecclesiastiche come i cardinali Mindszenty, Slipij, Korec, Swiatek (cfr. ad es. A. Floridi S.J., Mosca e il Vaticano. I dissidenti sovietici di fronte al “dialogo”, La Casa di Matriona, Milano 1976). 21. Ancora nel febbraio 1984 a Lubiana e poi nell’ottobre 1986 a Budapest, il Pontificio Segretariato per i Non-Credenti organizzò a questo scopo convegni assieme ad autorità marxiste slave; si legga l’analisi critica del Centro Culturale Lepanto, Cattolici e comunisti a Budapest rilanciano il dialogo, su ‘Lepanto’ n. 58, gennaio 1987, pp. 1-5. 22. Si legga l’analisi critica del Centro Culturale Lepanto, Verso il compromesso storico mondiale?, su “Lepanto”, n. 69, dicembre 1987, pp. 1-3; cfr. anche V. Bukovskij e P. Stroliov, E.U.R.S.S.: Unione Europea delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, Spirali, Milano 1997.

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in organismi economici, politici, culturali e religiosi rimasti refrattari. E così il Kremlino riuscì ad evitare di essere processato per i propri crimini e fallimenti, a impedire la piena guarigione dal virus egualitario, a rilanciare quei poteri terzaforzisti e quelle aree politiche terzomondiali o terzomondiste che sono rimaste (o sono diventate) nemiche dell’Occidente e della Chiesa23. Fu così avviata una nuova fase rivoluzionaria dissolutoria, in stile no global, per preparare quel “nuovo disordine mondiale” col quale le forze anticristiane, ad esempio islamiche, oggi tentano di distruggere l’Occidente “corrotto e infedele”. Quanto al dialogo realizzato nella società civile occidentale, esso produsse risultati ancor più rovinosi. Ad esempio, nella famiglia, l’aver ridotto i rapporti tra marito e moglie e tra genitori e figli a un dialogo paritario indebolì il principio di autorità, trasformando i genitori in meri amici dei figli e il focolare in un luogo di scambio di favori, connivenze e ricatti psicologici. Nella scuola, l’aver ridotto il rapporto tra insegnanti e alunni a un dialogo e l’insegnamento a un gioco compromise gravemente la missione educativa dei docenti e la maturazione delle nuove generazioni. Nella società, l’aver imposto il sistema della “concertazione” permise alle organizzazioni burocratiche più potenti e ricattatorie di esercitare una dittatura consociativa. Nello Stato, i rapporti gerarchici furono sostituiti da quelli clientelari caratterizzati da favoritismo, complicità e prevaricazione. Insomma, invece di pacificare e unire, la pratica del dialogo ha finito col favorire nuove forme di divisione conflittuale. Non bisogna meravigliarsene, perché già nel XIX secolo Juan Donoso Cortès aveva avvertito: «Sono persuaso che la discussione degeneri ben presto in disputa, la quale finisce con l’accendere le passioni e con l’indurre i contendenti a venir meno ai tre grandi rispetti: ossia al rispetto che ognuno deve alla verità, a sé stesso e agli altri»; e aveva concluso ammonendo: «Tutti i popoli che, anziché ricevere la verità, hanno voluto inventarla – vale a dire, tutti i popoli che hanno smesso di essere veramente cattolici per essere meramente discussori – sono alla fine caduti sotto il giogo di orrende dittature e di brutali rivolte. […] Dio ha sempre dato il comando alle razze guerriere e ha condannato alla servitù quelle ciarliere»24.

23. Cfr. P. Corrêa de Oliveira, Comunismo e anticomunismo sulla soglia dell’ultimo decennio di questo millennio, sul “Corriere della Sera”, 7.3.1990. 24. J. Donoso Cortés, Lettera al direttore del giornale “El Heraldo” di Madrid, del 30.4.1852.

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Il fallimento del dialogo religioso Fallimentare è anche il risultato del dialogo religioso nelle sue varie aree di applicazione25. Il dialogo interno alla Chiesa cattolica ha favorito uno spirito di fazione, di rivendicazione e di ribellione che ha risvegliato vecchie divisioni e ne ha suscitate di nuove, producendo una situazione disciplinare di “scisma latente” (espressione del cardinal Journet); per di più, esso ha posto in questione dogmi, leggi e istituzioni, diffondendo un relativismo che ha prodotto un’“apostasia silenziosa” (espressione di Paolo VI). Il dialogo tra le Chiese cristiane si è rovesciato nel risorgere di chiusure e rivalità che hanno messo in crisi perfino il rapporto che sembrava più facile: quello tra la Chiesa cattolica e le Chiese “ortodosse”26. Il dialogo tra le grandi religioni si è rovesciato nel ritorno di “guerre sante” alimentate dalle confessioni più ostili al Cristianesimo, come quella islamica e quella induista. Il dialogo tra le civiltà si è rovesciato nell’ormai innegabile “conflitto di civiltà”. Il dialogo tra la Chiesa cattolica e la “modernità” si è rovesciato in una nuova e crescente conflittualità tra fede e laicismo. La situazione internazionale manifesta l’aggravarsi di una conflittualità globale che sta suscitando un “nuovo disordine mondiale”27, alimentato da un fattore religioso che non svolge più quel ruolo di oppio sedativo, che ieri gli veniva rimproverato dal marxismo, ma anzi svolge quel ruolo eccitante e incendiario, che oggi gli viene rimproverato dal laicismo. Paradossalmente, quel dialogo che ha avvicinato fisicamente e verbalmente i dialoganti, li ha allontanati intellettualmente e moralmente, come ammise Paolo VI già nel 1972: «predichiamo l’ecumenismo e ci distacchiamo sempre più dagli altri»28. Iniziato con lo scopo di adeguare l’annuncio della verità alla pratica della carità, il dialogo ha danneggiato entrambe; invece di unire i credenti, ne ha aggravato le divisioni; invece di avvicinare i lontani alla vera Fede,

25. Questo fallimento è stato ammesso più volte da Giovanni Paolo II, ad esempio nel suo discorso del 13.12.1992 al Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Successivamente, Benedetto XVI ha precisato che «il dialogo interreligioso, nel senso stretto della parola, non è possibile», perché comporta il porre in discussione verità, norme e beni soprannaturali indisponibili alla Chiesa in quanto donatile da Gesù Cristo stesso (cfr. Benedetto XVI, Lettera-prefazione a M. Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani, Mondadori, Milano 2008). 26. Ciò viene confermato dal recente caso di alcune comunità anglicane recentemente accolte dalla Chiesa cattolica. Infatti queste comunità sono state convertite non da un dialogo paritario e accomodante ma da un apostolato autenticamente ecumenico che le ha convinte a risanare la loro situazione scismatica tornando nell’unica vera Chiesa. 27. Cfr. M. Schooyans, Il nuovo disordine mondiale, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2000; C. Jean, Geopolitica del caos, F. Angeli, Milano 2007; Y. M. Laulan, La planète balkanisée, Hachette, Paris 1994. 28. Paolo VI, Resistite in fide, allocuzione del 29 giugno 1972.

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ne ha allontanato generazioni di battezzati; invece di rafforzare la solidarietà, l’ha indebolita favorendo relativismo, disimpegno ed egoismo29. Tutto ciò è accaduto perché il dialogo vero è stato sostituito da quello falso, ossia irenista e relativista. «Il dialogo neoterico [= modernista] non è il dialogo cattolico. Primo, perché ha funzione puramente euristica, come se la Chiesa dialogante non possedesse ma cercasse la verità, o come se dialogando potesse prescindere dalla verità. Secondo, perché non riconosce la posizione poziore della verità rivelata, come se fosse caduta la distinzione di grado assiologico tra natura e Rivelazione. Terzo, perché suppone parità, sia pure soltanto metodica, tra i dialoganti, come se il prescindere dal vantaggio che ha la fede divina, anche solo per finzione dialettica, non fosse un peccato contro la fede. Quarto, perché postula che tutte le posizioni dell’umana filosofia siano indefinitamente disputabili, come se non esistessero invece punti di contraddizione principiale che troncano il dialogo e lasciano solo la possibilità della confutazione. Quinto, perché suppone che il dialogo sia sempre fruttuoso e che “nessuno deve sacrificare alcunché” (Osservatore Romano, 19.11.1971), come se non vi fosse un dialogo corruttore che spianta la verità e impianta l’errore, e come se non si dovesse, nel caso, rigettare l’errore prima professato» 30. Insomma, questo dialogo si è manifestato come «una radice di amarezza spuntata fuori per suscitare turbamenti e produrre infezioni in molti» (Ebr. 12, 15), un movimento mosso non dal divino Spirito di Verità ma dal diabolico «spirito di vertigine» (Is. 19, 14), perché ha imitato il metodo usato da Satana dapprima per traviare Adamo ed Eva (Gen. 3, 1-5) e poi per tentare inutilmente d’insidiare il Cristo (Mt. 4, 1-11). Di conseguenza, poiché «una reale riforma della Chiesa presuppone un inequivocabile abbandono delle vie sbagliate che hanno portato a conseguenze indiscutibilmente negative»31, fra queste “vie sbagliate” da abbandonare va inclusa quella del dialogo così com’è stato finora praticato. Metamorfosi e rilancio del dialogo Il secondo motivo dell’importanza del libro di Plinio Corrêa de Oliveira riguarda non il passato ma il presente, perché questo saggio ci fornisce idee e categorie

29. Sull’attuale situazione religiosa italiana, si legga l’analisi di Armando Matteo La prima generazione incredula, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010. 30. R. Amerio, Iota unum, Fede & Cultura, Verona 2009, cap. XVI. 31. J. Ratzinger, Rapporto sulla fede, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1985, p. 28.

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necessarie per capire e denunciare alcuni inganni e pericoli che oggi minacciano la Chiesa e la Civiltà cristiana residua. Nonostante la crisi delle utopie, delle democrazie liberali, del sistema sovietico e del progressismo religioso, la Rivoluzione non si è pentita del suo progetto “moderno”: tuttavia, nel tentativo di salvarsi dal fallimento, oggi si è imposta una metamorfosi e punta su un nuovo progetto, detto ambiguamente “postmoderno”. Essa pretende di realizzare una fraternité tra i popoli, non unendoli spiritualmente, gerarchicamente e armonicamente nella comune Verità religiosa (ossia nell’unica Chiesa di Cristo e nella sola Civiltà cristiana), bensì unificandoli fisicamente, ugualitariamente e disordinatamente mediante una paradossale “solidarietà tra estranei” 32 . A questo scopo, l’avanguardia rivoluzionaria favorisce una globalizzazione che sia non uniforme, pacifica e ordinata, bensì “complessa”, conflittuale e caotica33. Questa operazione serve ad alimentare una “rivoluzione permanente” capace di mantenere la società in continua effervescenza impedendole di adagiarsi nell’“egoismo” e nel “conformismo”, ossia nelle sue certezze e sicurezze (specialmente se religiose). Poiché l’opinione pubblica è preoccupata da questa operazione, la propaganda rivoluzionaria tenta di tranquillizzarla, facendole credere che l’unica possibile alternativa al caos incontrollato provocato dal conflitto di civiltà consista in un “caos pilotato” da una governance tecnocratica mondiale: falsa alternativa, se mai ce n’é una! Nel nuovo contesto rivoluzionario, anche il dialogo può sopravvivere al proprio fallimento solo imponendosi una metamorfosi. I suoi promotori più esigenti pretendono ch’esso sia fallito perché è stato “tradito”, non è stato realizzato in modo abbastanza radicale e audace: la tesi e l’antitesi, invece di scontrarsi lealmente, hanno ripiegato in ipocriti compromessi, impedendo la nascita della sintesi. Pertanto il nuovo dialogo deve alimentare un confronto che non tema di arrivare allo scontro34; invece di attenuare le “diversità” riducendole a un minimo comun denominatore, esso deve acuirle per poi superarle e inglobarle in una sintesi dei contraddittori. Da alcuni anni infatti vediamo opposte fazioni ideologiche,

32. Cfr. J. Habermas, Solidarietà fra estranei, Guerini, Milano 1997; Id., L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano 1998. 33. Questo solidarismo viene motivato con giustificazioni non solo politiche ma anche etiche, filosofiche e perfino teologiche; si legga l’analisi critica di Roberto de Mattei, 1900-2000: due sogni si succedono, Fiducia, Roma 1990, e di Gianfranco Morra, Il quarto uomo: postmodernità o crisi della modernità?, Armando, Roma 1992. 34. «Bisogna far nascere l’unione non malgrado le differenze, ma grazie al confronto anche radicale tra le opinioni» (C. Cirotto, presidente del Movimento Ecclesiale d’Impegno Culturale, su “Avvenire”, 22.10.2011).

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politiche e religiose impegnarsi nel riscoprire e riaffermare le loro identità per alimentare uno scontro bipolare o multipolare capace di produrre un “salto di qualità” che rilanci la rivoluzione sottraendola all’attuale paralisi. Questa manovra però resta ambigua perché muta in relazione alla parte a cui si rivolge. Ad extra, infatti, il dialogo avvia un’opera di eccitamento evidenziando, accentuando e portando all’estreme conseguenze le divergenze ideologiche, politiche e religiose; questa operazione viene tentata mobilitando le forze del terzomondismo, specialmente quelle islamiche. Ad intra, invece, il dialogo prosegue un’opera sedatrice, addormentando e paralizzando l’opinione pubblica rimasta conservatrice, specie se cristiana, per impedirle di reagire; questa operazione viene tentata mobilitando i complici del terzaforzismo, ossia le solite sirene del “buonismo”, del moderatismo e del pacifismo; il loro ruolo consiste nell’illudere che la salvezza stia nel “cedere per non perdere”, rinunciando ai principi, disarmandosi psicologicamente, arrendendosi socialmente, aprendo le porte sia agli “antichi barbari” che penetrano dall’esterno con l’invasione migratoria35, sia ai “nuovi barbari” che nascono dall’interno per colpa della crisi educativa della civiltà occidentale. Ad esempio, alcuni sostengono che, per salvare la pace, bisogna andare oltre il dialogo passando dalla “condivisione con l’altro” alla “inclusione dell’altro” e infine alla identificazione con l’altro mediante “reciproca accoglienza” e “piena integrazione” in un nuovo sistema multiculturale e multireligioso36. Pertanto, si pretende che l’europeo, soprattutto se cristiano, abbia l’obbligo di assicurare non solo ospitalità territoriale e assistenza sociale, ma anche “ospitalità ideologica”, diritti politici e riconoscimenti giuridici a tutte le etnie, tribù, comunità e sette religiose immigrate, anche se pensano e agiscono in contrasto con la sua fede, cultura, morale e diritto37. Questo nuovo dialogo viene rilanciato in un clima di ricatto psicologico, di pressione mediatica, d’insicurezza politica, di rivolta sociale, di persecuzione giudiziaria, talvolta anche d’intimidazione terroristica. Il dialogante convinto e aggressivo (come il laicismo, l’islamismo o il terzomondismo) illude il dialogante incerto e

35. Cfr. Comunità di Sant’Egidio, Stranieri nostri fratelli. Verso una società multirazziale, Morcelliana, Brescia 1889. Per una critica, si legga A. Carosa e G. Vignelli, L’invasione silenziosa, Il Minotauro, Roma 2002. 36. «La riscoperta dell’altro, come possibile fondamento delle ragioni del vivere», può «fondare eticamente la prassi, (…) constatando che il prossimo, per il solo fatto di esistere, può essere ragione del vivere, perché è sfida a uscire da sé, a rischiare l’esodo» (mons. B. Forte, Il nichilismo si vince con l’Altro, su “Avvenire”, 3.8.2011). 37. Cfr. ad es S. Morandini, Il dialogo ecumenico come vocazione in un mondo globalizzato, su “Credere Oggi”, n. 160, luglio-agosto 2007; A. Riccardi, La medicina del dialogo per i conflitti fra popoli e religioni, su “Zenit”, 4.9.2008; mons. A. Marchetto, Diritti umani e dignità del migrante nell’epoca della globalizzazione, su. “Zenit”, 14.2.2009.

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cedevole (come la Chiesa in crisi o l’Occidente disorientato) che potrà evitare persecuzione e rovina solo se esaudirà le proprie pretese; ma d’altra parte è evidente che l’aggredito, se cederà a questo ricatto, incoraggerà la prepotenza dell’aggressore. Infatti le sette rivoluzionarie stanno già propagando una “cristianofobia” che tenta d’imporre la «esclusione dal dialogo pubblico di chi sostiene di essere in possesso della verità»38 e la repressione di chi si ostina a far rispettare la verità; di conseguenza, i poteri laicisti stanno promuovendo una nuova forma di persecuzione anticristiana fatta in nome del “pluralismo”, della “libertà” e della “uguaglianza” anti-discriminatoria. Ormai ad essere combattute non sono più solo le verità soprannaturali, ma anche quelle naturali che favoriscono la rinascita religiosa; ad essere attaccata non è più solo la Chiesa nel suo potere, ma anche nella sua mera influenza e anzi nella sua stessa esistenza. Mass-media, università, magistrature e autorità politiche e religiose attaccano pesantemente non solo il generico Cristianesimo, ma anche la Chiesa cattolica, il clero e il Papa, avvertendoli che si trovano in stato di libertà vigilata e ammonendoli a stare ben attenti ad attenersi al “religiosamente corretto”, se non vogliono essere perseguitati più severamente. In Italia, personalità come Stefano Rodotà e Paolo Flores d’Arcais condannano un dialogo che, nascondendo la gravità delle divergenze, rinvia quell’urgente soluzione dei problemi impedita dall’ostinazione della Chiesa cattolica a non adeguarsi completamente alla “modernità” e ad opporsi alla secolarizzazione39. Altri, come Massimo Cacciari e Gianni Vattimo, proclamano «basta con la retorica del dialogo!» ed esortano a «passare dal dialogo al conflitto»40. Altri ancora, come Umberto Eco, Eugenio Scalfari e Alberto Asor Rosa, auspicano una dittatura che istituisca un nuovo “Comitato di Salute Pubblica”, come quello della Rivoluzione Francese, capace d’imbavagliare e reprimere dissidenti e oppositori alla laicità. Perfino un noto teologo come il protestante Jürgen Moltmann, dopo aver proclamato che le esigenze religiose devono cedere a quelle superiori della pace, dell’unità e dell’ecologia, lancia questo ammonimento: «le comunità religiose, che continuassero a porsi in contrasto con simili istanze, verrebbero considerate nemiche del genere umano»41. E così quell’accusa, che fu rivolta dagli antichi pagani alle prime comunità cristiane per perseguitarle, viene oggi ripetuta dall’O.N.U. e dall’Unione Europea alla Chiesa cattolica e alle confessioni conservatrici per ridurle all’impotenza.

38. 39. 40. 41.

Lo ha denunciato mons. Mario Toso su “Avvenire”, 29.6.2011. Cfr. “Micromega”, a. 2009, n. 1. Cfr. “Corriere della Sera”, 15-10-2008. J. Moltmann, Dio nel progetto del mondo moderno, Queriniana, Brescia 1999, p. 129.

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Il senso soprannaturale deve farci capire che queste nuove persecuzioni, da una parte, sono un’offensiva satanica che mira alla distruzione della civiltà cristiana e della Chiesa; ma dall’altra parte, sono un’amara medicina disposta dalla divina Provvidenza per salvarle, punendo l’apostasia dell’Occidente e spingendo i cristiani al pentimento e alla conversione: il che fu profetizzato quasi un secolo fa dalla Madonna a Fatima in quel “terzo segreto” che è stato tenuto nascosto ai fedeli proprio durante il decisivo quarantennio successivo alla svolta di fine anni Cinquanta42. I “dogmi laici” del falso dialogo Sebbene pretenda di rifiutare presupposti e pregiudizi per mettere tutto in discussione, il dialogo si basa su un’ideologia implicita che presuppone alcuni “dogmi laici” ritenuti indiscutibili. Il dogma fondamentale consiste nel relativismo, ossia nella pretesa che verità, principi, valori e leggi siano creazioni umane emergenti dal basso, dalle esigenze vitali e dalle esperienze storico-socio-psicologiche. Il vero nascerebbe dal libero esame delle opinioni, mediante una discussione permanente e ugualitaria che si svolge su tutto e fra tutti; ciò presuppone il rinunciare alle certezze, dubitare di tutto, “mettersi in ricerca”, “lasciarsi interpellare”, “porsi in questione”, “aprirsi agli altri” mediante interminabili dibattiti. Analogamente, il bene nascerebbe dal libero esercizio delle scelte, mediante un permissivo confronto-scontro fra volontà individuali e collettive; la giustizia poi nascerebbe dalla libera concorrenza delle esigenze sociali, allo scopo di realizzare una “società aperta, partecipativa e democratica” nella quale tutti decidano su tutto, anche se privi di meriti, capacità e competenze. Un tipico modello di riferimento è quello della “comunicazione globale” e del “comunismo cibernetico”, strutturato in una rete (web) che permette a chiunque d’interagire alla pari con tutti, livellando il verticale nell’orizzontale, abolendo ogni disuguaglianza e gerarchia. Poiché l’errore, il male e l’ingiustizia sarebbero dovuti solo ad equivoci, chiusure e divieti causati dalla carenza di comunicazione e di partecipazione, il dialogo universale permetterebbe di superare le divisioni storiche, psicologiche e dottrinali ed assicurare così una felicità attuata da fattori meramente naturalistici, convenzionali e utilitaristici. Questa ideologia è stata rilanciata nel XX secolo da varie correnti filosofiche, teologiche e politiche43. In nome del primato della soggettività, col pretesto di 42. Cfr. A. Borelli, Fatima: messaggio di tragedia o di speranza?, Luci sull’Est, Roma 2009, cap. IV. 43. Tra queste va segnalata la cosiddetta filosofia del dialogo, elaborata da pensatori come Buber, Ebner, Rosenzweig, Lévinas e Calogero; essa ha purtroppo avuto una rovinosa influenza sulla teologia, anche cattolica.

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scongiurare ogni forma di “integrismo”, essa pretende di pensare e agire senza un riferimento oggettivo o tradizionale o supremo, senza fondamenti né presupposti né eredità, usando come metodo il dubbio, la contraddizione e la dissipazione; essa tenta di ridurre l’identità, lo spessore e la stabilità dell’essere alla pluralità, superficialità e precarietà delle relazioni in perenne divenire44. Ad esempio, questa ideologia riduce la verità alla sintesi delle opinioni discusse liberamente, la scienza e la tecnica all’uso dei metodi d’informazione e di manipolazione elaborati utilitaristicamente, il bene al prodotto delle volontà prevalenti arbitrariamente, la società all’equilibrio delle forze influenti politicamente, il diritto all’applicazione delle procedure stabilite convenzionalmente, l’economia al compromesso tra gli interessi dominanti socialmente, l’individuo stesso al complesso delle relazioni vissute collettivamente45. Pertanto Stato, Chiesa, società, famiglia e persona umana sono ammessi solo se, smettendo di chiudersi nelle loro identità dogmatiche, morali e organizzative, si aprono per integrarsi tra di loro, nel mondo e nell’ “ecosistema”, per realizzare una “democrazia pluralistica”, ossia multietnica, multiculturale, multireligiosa (e multisessuale, aggiungono alcuni), il cui modello teologico è il pantheon politeistico. Questa ideologia è contraria alle tre fonti di conoscenza e regole di azione: fides, ratio, experientia. Innanzitutto è contraria all’esperienza, perché la storia dimostra che, quando si confrontano le opinioni fra loro senza misurarle sulla verità oggettiva, «la libertà di discussione conduce necessariamente all’errore, come la libertà di azione conduce necessariamente al male»46 e in particolare alla perdita dell’ordine, della stabilità e della sicurezza. Inoltre è contraria alla ragione, perché si vogliono porre domande solo per rifiutare le risposte, “mettersi in ricerca” solo per non trovare nulla di certo e definitivo, “aprirsi all’altro” solo per eludere i doveri verso il prossimo. Pertanto in questo dià-logos il lògos, ossia quella scoperta della verità che è il fine, viene sacrificata al dià, ossia a quella relazione colloquiale che è il mezzo. Ad esempio, è falso che, per capirsi e tollerarsi a vicenda, i dialoganti debbano “abolire ogni presupposto” e “parlarsi senza pregiudizi”; se infatti essi hanno posizioni inconciliabili, il loro confronto diventa un conflitto che porta al caos e poi, per reazione, si rovescia nella paralisi del relativismo: infatti caos conflittuale

44. Cfr. E. Morin, Scienza con coscienza, F. Angeli, Milano 1984, pp. 176-201. 45. Si legga la critica svolta dal padre Giovanni Cavalcoli O.P., Il personalismo relazionista, su www.riscossacristiana.it, 6.10.2011. 46. J. Donoso Cortés, Lettera al conte di Montalembert, del 26.5.1849; ovviamente questa critica colpisce solo la libertà assoluta, cioè quella liberale.

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e relativismo paralizzante non si escludono (come pretende un diffuso luogo comune) bensì si alimentano a vicenda47. È pure falso che, per dialogare sinceramente e lealmente, ognuno debba “rispettare la tesi” dell’interlocutore; di principio, una tesi ha diritto di essere rispettata solo se rimane nel campo dell’opinabile e dell’innocuo; se invece sconfina nell’erroneo e nel dannoso, essa perde quel diritto; infatti il celebre motto di sant’Agostino, tratto dalle Sacre Scritture, impone di «amare l’errante, ma odiare l’errore». Infine e soprattutto, questa ideologia è contraria alla fede, perché favorisce un relativismo nel quale «l’ortoprassi diventa la sola ortodossia»48, per cui la dottrina e l’apostolato vengono sostituite dalle pie intenzioni e dai “progetti pastorali”; come ironizzava già Kierkegaard, «non servono più miracoli ma solo istruzioni per l’uso». Invece la Sacra Scrittura ammonisce: «non abbandonarti ad ogni vento e non percorrere ogni via» (Eccl. 5, 9); «non disputare con lo stolto, abbassandoti al livello della sua follia, per non diventare anche tu simile a lui; ma rispondi alla follia dello stolto, perché egli non giunga a credersi saggio» (Pv. 26, 4-5); «non discutere sulle opinioni» (Rom. 14, 1), per non fare la tragicomica fine di quell’assemblea che, a furia di dibattere, «era caduta nella confusione e aveva dimenticato la ragione per cui si era riunita» (At. 19, 32). Anche Pio XI aveva avvertito: «proprio questa è la via che conduce alla negligenza della Religione (o indifferentismo) e al modernismo, secondo cui la verità dogmatica non è assoluta ma relativa, vale a dire adatta alle varie necessità di tempo e di luogo e alle varie disposizioni degli animi, […] dunque adeguabile alle esigenze vitali dell’uomo»49. Pertanto, «se non vogliamo cadere nell’assurdo, non possiamo dire di essere nello stesso tempo gente che crede e gente che è in ricerca; […] il cattolico che si mette a cercare dichiara per ciò stesso di non essere cattolico»50; «il cristiano non può andare in cerca della verità, perché questa gli è stata già consegnata; quello che deve fare è realizzarla effettivamente»51. Insomma, la verità non sale “democraticamente” dal basso ma scende autorevolmente dall’alto: ossia non deriva dalla orgogliosa pretesa di mettere tutto in discussione per “farsi una opinione” e di tentare tutte le esperienze per “scegliere

47. Cfr. G. Turco, Paradigmi della critica al relativismo, in I.P.E., I fondamenti della dignità della persona, Loffredo, Napoli 2006, pp. 34-36. 48. J. Ratzinger, Rapporto sulla fede, cit., p. 197. Questo pragmatismo applica il noto assioma modernista, secondo cui la verità non è che “l’adeguamento del pensiero alla vita” (moderna, ovviamente); si legga l’analisi critica di José R. Flecha, La verdad como praxis, su “Salmanticensis”, n. 47 (a. 2000), pp. 5-34. 49. Pio XI, Mortalium animos, cit., § 9. 50. J. H. Newman, Grammatica dell’assenso, Jaca Book, Milano 2005, p. 149. 51. V. Solov’ev, Les fondements de la vie spirituelle, Paris 1958, p. 131.

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una soluzione”, bensì deriva dal riconoscere ed accettare umilmente l’evidenza oggettiva scoperta o ricevuta per via naturale o soprannaturale. Di regola, la verità viene rivelata da un’autorità che già la possiede e può trasmetterla a chi la cerca chiedendosi: «come posso capire, se nessuno me lo spiega?» (At. 8, 31). Questa eredità ricevuta, vissuta e trasmessa socialmente, ossia questa tradizione, fonda l’unione, la pace e il progresso sia politici che religiosi; ogni società deve basarsi non sul compromesso tra le opinioni né sul bilanciamento tra le scelte, individuali o collettive che siano, bensì sul consenso alla verità, sul perseguimento del bene comune e sulla obbedienza alle legittime autorità. Il vero dialogo quindi non parte dal nulla né crea la verità, ma anzi presuppone «quelle verità primordiali e sante che non possono essere messe in discussione proprio perché sono il fondamento di ogni discussione; sono verità che non possono essere mai messe in dubbio, senza far sì che l’intelletto si perda oscillando tra verità ed errore e che il chiarissimo specchio dell’umana ragione si appanni e s’intorbidisca»52. Si obietterà che questa posizione contraddice il moderno dogma liberale fondato sul “pluralismo” e sulla “laicità”. Ma, ammoniva Pio XII, «l’azione cristiana non può, neppure oggi, rinunciare al proprio titolo e carattere, solo perché qualcuno vede nell’odierno consorzio umano una società cosiddetta pluralistica, […] insofferente di ogni collaborazione che non si svolga sul piano semplicemente “umano”. Se questo “umano” significa – come sembra – agnosticismo circa la Religione e i veri valori della vita, ogni invito alla collaborazione equivarrebbe ad una richiesta di abdicazione, alla quale il cristiano non può consentire»53. Pertanto, «al desiderato ritorno degli erranti figli alla sincera unità in Cristo, non si arriva mediante quella teoria che pone a fondamento del concorde consenso dei fedeli solo quei punti di dottrina sui quali tutte le comunità, o la loro maggioranza, […] si trovano d’accordo; bensì [si arriva] mediante l’altra teoria, quella che accoglie integralmente qualsiasi verità da Dio rivelata, senza eccettuarne né sminuirne alcuna»54. Un altro dogma presupposto dal dialogo è quello “buonista”, solidarista e pacifista. Opponendo alla verità del Peccato Originale l’errore della “immacolata concezione dell’Uomo”, esso pretende che l’uomo sia buono per natura, per cui non deve compiere la propria missione affidatagli da Dio, ma deve solo accettare la propria “autenticità” per essere accolto dagli altri “così com’è”, perché “tutti siamo fratelli”, “nessuno può essere escluso” o criticato e tanto meno punito, nemmeno il criminale, 52. J. Donoso Cortés, Obras completas, B.A.C., Madrid 1970, vol.II, p. 425. 53. Pio XII, radiomessaggio natalizio del 22-12-1957. 54. Pio XII, Orientalis Ecclesiae, enciclica del 9-4-1944.

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il quale anzi va favorito come vittima della società. Ma così l’amore del prossimo viene sostituito dalla idolatria del lontano, ossia dell’“altro”, del “diverso” e dello straniero; anche l’amore per il nemico sparisce, perché si rifiuta il concetto stesso di “nemico”55. Di conseguenza, i dialoganti si negano a vicenda la carità della verità e si legano con le complici catene del rispetto umano, favorendo le manovre di chi cinicamente li pilota per scopi tenebrosi. In realtà, l’amore cristiano esige che l’errante venga rispettato non come tale, ma solo come uomo capace di convertirsi alla verità: «Ama ciò che Dio ha fatto, ma non ciò che l’uomo ha fatto. Non amare l’errore ma l’uomo, perché l’uomo viene da Dio, l’errore invece viene dall’uomo»56. L’errante quindi va rispettato solo se erra in evidente buona fede, ossia per ignoranza invincibile o leggerezza incolpevole, e solo allo scopo di guarirlo dall’errore. Ma se egli, una volta illuminato, si ostina a errare, allora finisce con l’identificarsi con l’errore e con l’essere coinvolto nella condanna di questo; pertanto, avendo perso quell’aspetto (non metafisico ma morale) della dignità umana che gli viene dal rispettare la verità, egli perde anche il diritto di essere rispettato, perché «è scandaloso onorare un peccatore» (Sir. 10, 23). Quello stesso sant’Agostino, che esortava ad amare gli erranti incolpevoli, ammoniva che i colpevoli propagatori di errori socialmente o religiosamente dannosi non vanno rispettati, ma anzi vanno rimproverati, condannati e repressi dall’autorità sia politica che ecclesiastica, affinché non nuocciano al bene comune57. Inoltre, non bisogna presupporre ciecamente che l’interlocutore sia sempre “in buona fede”; questa va anzi esclusa quando appare evidente ch’egli agisce con malizia: il che accade molto più spesso di quanto si crede, e chi fa apostolato ne ha esperienza frequentissima. «Ben inteso, può anche darsi un attaccamento in buona fede a certi errori. Ma purtroppo, quanto esso è raro!, e com’è facile che l’errore, anche quando viene accettato in buona fede, dia luogo a un attaccamento vizioso, giungendo a uccidere quella buona fede!»58. Coloro che supponiamo siano in buona fede, in realtà spesso dialogano con malizia e perfidia per contestare la verità, per indurre al dubbio, allo scetticismo e al relativismo, per giustificare i propri vizi e spingerci a imitarli. Così facendo, essi commettono quel peccato che 55. Si legga l’analisi critica di Bernard Dumont, La culture du refus de l’ennemi, Presses Universitaires de Limoges, Limoges 2007 56. S. Agostino d’Ippona, Trattato sulla Lettera di san Giovanni sulla carità, VII, 1, 7, 6. 57. Si leggano le severe disposizioni agostiniane contro eretici e scismatici, raccolte nell’antologia Il pensiero politico cristiano, vol. III: Sant’Agostino, U.T.E.T., Torino 1965, pp. 153-375. 58. P. Corrêa de Oliveira, Dialogo, coexistencia e hecatombe termonuclear, su “Catolicismo”, n. 170, febbraio 1965, p. 6.

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consiste nell’“impugnare la verità conosciuta”, peccato tipico di coloro che «si ribellano alla Luce, non vogliono conoscere le direttive di Dio né percorrere le Sue vie» (Gb. 24, 13), peccato mortale che offende quello Spirito Santo che illumina e infervora ogni uomo sinceramente aperto alla verità e disposto al bene (Mt. 12, 31-32)59. Questo peccato viene commesso da coloro che, pur conoscendo la verità (naturale o rivelata), la respingono e la combattono con competenza e abilità, dimostrando in tal modo un odio per quel Dio che è ipsa et summa Veritas. Questo rifiuto della verità non deriva da un mero problema psicologico d’incomprensione, dovuto a difficoltà nel comunicare o ad antipatia del comunicatore, ma deriva da un problema morale di pregiudizi ed ostilità dovuto proprio all’avversione a ciò che viene fedelmente ed efficacemente comunicato. In tal caso la soluzione non sta tanto in un nuovo modo di comunicare, quanto nel preparare gli animi a uno spirito di sincera e leale accoglienza della verità. Regole e condizioni del vero dialogo Il terzo motivo dell’importanza del presente libro di Plinio Corrêa de Oliveira riguarda non il passato né il presente ma il futuro, perché questo saggio ci aiuta a impostare una terapia del morbo relativista e pacifista e ci dispone a vincere – col decisivo soccorso divino – la nuova offensiva caotica e persecutoria che minaccia la Chiesa e la civiltà intera. La soluzione del problema sta nel sostituire il dialogo falso con quello vero, ossia apostolico e apologetico, convinto e combattivo, che imita il comportamento tenuto da Gesù Cristo con i suoi discepoli e da san Paolo nell’Areopago ateniese (At. 17, 22-31). Ma ciò presuppone il ripristinare regole e condizioni preliminari finora eluse o violate. In altri suoi libri, Plinio Corrêa de Oliveira ha accennato ad alcune massime auree del vero dialogo: «Si dica la verità con carità, si faccia della carità un mezzo per condurre alla verità; ma non ci si serva della carità come pretesto per una qualche diminuzione o deformazione della verità, nemmeno per ottenere applausi, fuggire critiche, cercare inutilmente di accontentare tutte le opinioni; altrimenti la pratica della carità ci condurrà non alla verità ma all’errore»60. «Ristabilire o ravvivare la distinzione tra il bene e il male. […] Evitare tutte le formulazioni che abbiano il sapore di morale “laica” o interconfessionale, perché il laicismo e l’interconfessionalismo portano logicamente all’amoralismo.

59. Cfr. (Nuovo) Catechismo della Chiesa Cattolica, § 1864. 60. P. Corrêa de Oliveira, Em defensa da Ação Catòlica, cit., p. 230.

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[…] Sfruttare tutte le occasioni per indicare la missione della Chiesa come Maestra della virtù, fonte della grazia e nemica inconciliabile dell’errore e del peccato»61. Innanzitutto, il vero dialogo dev’essere al servizio della verità. Bisogna ristabilire il retto ordine gerarchico intuito dalla ragione e imposto dalla Fede trinitaria: lo Spirito-Amore procede dal Verbo-Verità, non viceversa62. Se quindi il falso dialogo pretende di adeguare la verità alle esigenze della vita, quello vero invece deve adeguare la vita alle esigenze della verità; esso deve ridursi a strumento posto al servizio della integrità della fede e della intransigente testimonianza della verità, allo scopo sia di togliere i veli che le nascondono o il fango con cui vengono ricoperte o gli ostacoli che le impacciano, sia di combattere l’errore, demolendo pregiudizi, illusioni e resistenze del miscredente per facilitarne la conversione. Ad esempio, oggi è necessario un dialogo «che mette in luce, nella storia contemporanea, la verifica dello scacco di ogni forma del pensiero normalmente detto laicistico; e che, da questo scacco, trae le condizioni per un’autocritica che deve svolgersi all’interno dello stesso pensiero laico e che il pensiero cattolico deve stimolare e aiutare»63. L’attuale crisi della “modernità” è una storica occasione offerta dalla Provvidenza alla Chiesa per aiutarla a convincere gli apostati a tornare nella Casa del Padre, un’occasione da sfruttare senza temere di “approfittarsi slealmente” delle difficoltà dell’avversario; in tal modo la Chiesa, ben lungi dall’allontanare gli uomini d’oggi, li attirerà a sé: «saranno i miscredenti a ritornare da te, non tu ad andare da loro» (Ger. 15, 19). Inoltre, il vero dialogo dev’essere anagogico: cioè deve elevare l’interlocutore alla verità integrale, ampliando e rafforzando i parziali e deboli “coaguli” di verità64 presenti in lui. A questo scopo, bisogna aver cura di usare argomenti apologetici che siano adatti alla concreta situazione dell’interlocutore, evitando quelli astrattamente corretti ma in realtà controproducenti. Ad esempio, un argomentare basato sui concetti di natura, etica naturale e diritto naturale è senz’altro opportuno, se ci si rivolge a miscredenti che, pur rifiutando il soprannaturale, ammettono l’esistenza di un oggettivo ordine naturale quale base della discussione; ma questo stesso argomentare diventa pericoloso, se ci si rivolge a credenti che ammettono il soprannaturale, perché in tal modo li s’induce nella tentazione di

61. P. Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, Sugarco, Milano 2009, p. II, cap. X. 62. Si leggano al riguardo le illuminanti riflessioni di Romano Amerio, Stat Veritas, Riccardo Ricciardi, Napoli-Milano 1997. 63. Del Noce, L’epoca della secolarizzazione, cit., p. 108. Non è quindi la Chiesa che deve pentirsi e fare autocritica, bensì la Rivoluzione! 64. Su questo concetto di “coagulo”, cfr. P. Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, cit., parte II.

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considerare le questioni, anche religiose, riducendole al loro aspetto meramente naturale. Lo stesso vale per gli argomenti basati sulla umanità, sull’umanesimo e sui diritti umani, i quali rischiano di far dimenticare ai credenti che l’uomo ha valore e diritti solo se e in quanto realizza la missione affidatagli da Dio suo fine supremo. Inoltre, il vero dialogo deve avere un carattere autorevole, magisteriale e pedagogico. Bisogna quindi che le élites rimaste lucide e sane, sia laiche che ecclesiastiche, riprendano la loro missione di testimoniare, insegnare e formare i cittadini e i fedeli nella verità e nella giustizia. In particolare, la famiglia, la società civile e lo Stato devono ricuperare il loro ruolo di educatori, nei loro campi ed entro le loro competenze. La Chiesa deve svolgere il ruolo non solo di amorosa Mater, ma anche di autorevole Magistra di vita divina, ossia trascendente e soprannaturale, compiendo l’evangelica missione di “istruire gli ignoranti” e di “consigliare i dubbiosi”; Essa quindi deve non tanto sollevare problemi ponendo domande, quanto proporre soluzioni fornendo risposte. Pertanto l’autorità ecclesiastica deve impedire agli organismi dialoganti di svolgere un magistero parallelo o perfino un anti-magistero, e deve ricondurli al rispetto della Rivelazione e della Tradizione. Ovviamente la Chiesa deve svolgere anche il ruolo di Medico, imitando quel “buon Samaritano” che soccorse lo sventurato rimasto vittima della sua imprudenza nel percorrere una via pericolosa insidiata dal Nemico (cfr. Lc. 10, 30-37); ma, per far questo, un prudente Samaritano non può ammalarsi per solidarietà con la vittima e tanto meno illuderla sulla buonafede dei suoi carnefici, bensì deve mantenersi sano per curarla e metterla in guardia da loro insegnandole ad evitare le loro insidie. Si noti che questa opera di risanamento interno alla Chiesa va fatta prima della conquista esterna: «Innanzitutto, si deve volere la santificazione di coloro che sono buoni; in secondo luogo, la santificazione dei cattolici allontanati dalla pratica della Religione; in ultimo luogo, infine, la conversione di coloro che non sono cattolici. […] Nel piano della Provvidenza, la santificazione delle anime buone svolge un ruolo centrale nella conversione di peccatori e infedeli. […] È più importante reintegrare nella pienezza della legge della grazia i cattolici che abbandonano la pratica religiosa, piuttosto che convertire gli infedeli. […] I peccati commessi dai propri figli danneggiano la Chiesa e ne impediscono l’espansione ben più delle persecuzioni scatenate contro di essa dai suoi nemici»65. Infine, il vero dialogo deve correggere l’errante propinandogli l’amara ma risanatrice medicina della critica, del rimprovero, della condanna e della punizione.

65. P. Corrêa de Oliveira, Em defensa da Ação Catòlica, cit., pp. 184, 186, 191 e 194.

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Dio stesso ammonisce che «tutti coloro che amo, Io li rimprovero e li castigo» (Ap. 2, 19), perché «la correzione e la punizione conducono alla salvezza» (Pv. 6, 23); pertanto «correggi francamente il prossimo tuo, se non vuoi renderti colpevole per causa sua» (Lev. 19,17). Il fedele deve ripetere all’infedele l’ammonimento che Dio rivolse a Caino: “timshèl!”, “tu puoi!” (Gen. 4, 7), puoi salvarti convertendoti e vincendo la tentazione di peccare66. Secondo sant’Agostino, «la carità è una forza che sollecita a correggere e migliorare gli altri. […] Se ami davvero l’uomo, allora lo correggi»67; «se invece trascuri di correggere il peccatore, ti rendi peggiore di lui»68. Pertanto, «al cristiano non è sufficiente un atteggiamento puramente passivo-negativo verso il proprio fratello, che si limiti a un distaccato rispetto, alla non-offesa, alla non-violenza. […] Amare i nemici e i peccatori in genere, è diventato sinonimo di rassegnarsi ai loro soprusi. Invece amare è salvare, e salvare è anzitutto aggredire il male nel suo covo, che è la coscienza dell’uomo; amare insomma è lottare. […] L’amore effettivo dev’essere diretto non semplicemente ad accettare il fratello “così com’è”, ma – per quanto è possibile – a migliorarlo, a guarirlo, a condurlo a quella pienezza di perfezione che gli compete» 69. È noto che il “buonismo” e il pacifismo, per ottenere la rinuncia a combattere e il disarmo generale, pretendono che la verità, il bene e la giustizia siano sempre capaci di difendersi da soli con la sola forza del loro diritto, per cui non avrebbero bisogno di essere difesi dal diritto della forza, ossia da poteri spirituali e da “braccia secolari”. Ma questa grave illusione è smentita clamorosamente dalla storia, che insegna che «il Cattolicesimo dimostra debolezza, se patteggia con gli errori che s’insinuano nelle fila dei propri fedeli; al contrario esso dimostra vitalità, se espelle le scorie e impurità dottrinali che cercano d’insinuarsi fra loro»70. Soprattutto, questa illusione è condannata sia dalla ragione che dalla Fede: «È un errore supporre che la bontà possa sempre disarmare la malvagità umana. Neppure gli innumerevoli benefici fatti da Nostro Signore nella sua vita terrena riuscirono a evitare l’odio che Gli portavano i malvagi. Così, sebbene nella lotta contro la Rivoluzione si debba di preferenza orientare e illuminare amichevolmente gli spiriti, è chiaro che un combattimento diretto ed esplicito contro le sue varie forme, […] usando tutti i mezzi giusti e legittimi, è lecito e generalmente perfino indispensabile»71. Verità, 66. 67. 68. 69. 70. 71.

Si legga la commovente scena finale del noto romanzo di John Steinbeck, La valle dell’Eden (Mondadori). S. Agostino d’Ippona, Trattato sulla Lettera di san Giovanni sulla carità, VII, 1, 7, 6. S. Agostino d’Ippona, Sermones ad populum, sermone LXXXII, § 4. G. Zucconi O.F.M., L’altra carità, Porziuncola, Assisi 1989, pp. 112-113 e 54. P. Corrêa de Oliveira, Em defensa da Ação Catòlica, cit., p. 16. P. Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, cit., p. II, cap. XI.

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bene e giustizia vanno difesi con tutti i mezzi messi a disposizione dalla divina Provvidenza, non solo soprannaturali ma anche naturali, compresi quelli politici e militari; ciò giustifica le élites cattoliche nel loro sforzo di edificare una Cristianità che faccia da baluardo della Fede, affinché «abbia la pietà sede secura»72. Pertanto, a chi pretende che «nessuno tocchi Caino» e «nessuno condanni Giuda» (Iscariota), bisogna obiettare che solo alla fine del mondo «non ci sarà più alcun anatema» (Ap. 22, 3) e bisogna rispondere che «nessuno tocchi Abele» e «nessuno condanni Gesù Cristo»; a chi propaganda la falsa mistica del disarmo e della resa, bisogna opporre il riarmo spirituale e la fede nella vittoria finale. Si noti che il vero dialogo presuppone il realizzare un urgente risanamento linguistico73. San Paolo ammonisce: «Evita i profani e futili discorsi dei falsi dottori, perché costoro progrediranno sempre più nella loro empietà» (2Tim. 2, 16); «noi ripudiamo tutti gli indegni sotterfugi della viltà, non procediamo con astuzie né falsifichiamo la Parola di Dio, ma manifestiamo chiaramente la verità» (2Cor. 4, 2). Bisogna evitare di usare parole, idee e massime ambigue e scivolose che indeboliscono o impediscono la proclamazione e la testimonianza della verità: «Stiamo ben attenti che il timore di non essere amabili non finisca col toglierci il coraggio di essere veridici. […] Il pericolo viene dal considerare innanzitutto le disposizioni d’animo per poi adattare ad esse, più o meno, non solo l’esposizione della dottrina ma anche la dottrina stessa. Più spesso si arriva ad attenuare una verità essenziale per non urtare frontalmente una opinione in voga. […] Si è cercato e si cerca invano di sostituire alla dottrina cattolica formule ritenute più abili per tentare di ottenere lo stesso risultato col minimo sforzo. […] Per far perdere al maggior numero delle persone ogni senso della verità, non c’è mezzo più sicuro del concedere ai compromessi e alle formule opportunistiche toni e qualità che sono dovuti solo alla verità di sempre. Si eviti quindi di dogmatizzare tali formule bastarde e, nel caso debbano essere tollerate, non si tema di designarle per quello che sono; infatti è meno grave tollerare un male, indicandolo come tale, che presentare l’adozione di una verità imbastardita come se fosse un progresso nel vero»74. Ad esempio, bisogna individuare e combattere parole, slogan, massime e categorie impropriamente usate dalla Rivoluzione per ingannare, sedurre e traviare l’opinione 72. T. Tasso, Gerusalemme liberata, canto I, strofa 23; cfr. P. Corrêa de Oliveira, Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nell’insegnamento di Pio XII, Marzorati, Milano 1993. 73. L’esigenza del risanamento linguistico fu affermata già un secolo fa da mons. Henri Delassus ed è stata recentemente ribadita, fra molti, dal p. Alfonso Lòpez Quintàs (cfr. H. Delassus S.J., Il problema dell’ora presente, rist. Cristianità, Piacenza 1978, vol. II, cap. XIX; A. Lòpez Quintàs, La revoluciòn oculta, P.P.C., Madrid 1998, capp. VI e XI). 74. J. Ousset, L’action, Club du Livre Civique, Paris 1998, pp. 250, 234, 230 e 225.

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pubblica manipolando menti, sentimenti e coscienze. In particolare, bisogna smascherare e neutralizzare quelle “parole-talismani” – denunciate dall’Autore nel libro qui pubblicato – che sostituiscono la verità con un surrogato seducente ma fuorviante75; i loro propagatori vanno ammoniti con l’accusa del profeta Geremia: «voi cambiate il significato delle parole del Dio vivente!» (Ger. 23, 36) e con la minaccia del salmista: «verrà chiusa la bocca ai mentitori!» (Ps. 62, 12). Bisogna contrastare questa insidia sul suo stesso terreno, contrapponendole parole, slogan, massime e schemi che permettano di purificare il linguaggio corrente rimettendolo al servizio della verità. Finora, tale risanamento linguistico è sostanzialmente mancato. Anzi, perfino gli ambienti cattolici hanno spesso preferito adeguarsi al linguaggio rivoluzionario, nell’illusione di attirare il nemico alle proprie posizioni o di ritorcergli contro le “parole-talismani”, attribuendo ad esse un significato e un ruolo accettabili, nella pretesa di trovare posizioni e soluzioni intermedie tra la verità e l’errore. Ma i fatti dimostrano che questa tattica ha prodotto risultati rovinosi: ormai «domina un linguaggio che, […] con l’oricalco di un estro contraffatto e di ricercati neologismi, dissimula il vuoto delle idee, le apparenti fusioni di opposte e incompatibili esigenze, la distorta logica di certi compromessi»76; l’aver adottato un linguaggio estraneo ha favorito quella infiltrazione nella Chiesa di un «pensiero estraneo» denunciata da Paolo VI; il linguaggio bivalente ha trasbordato i fedeli dalle posizioni ortodosse a quelle dapprima ambigue e poi eterodosse77. Il confronto della nostra epoca Come tutti i problemi, anche quello del falso dialogo ha la sua origine nella radicale questione del male, ossia dell’errore, del peccato e dell’ingiustizia. Di fronte ad essa, solo due sono le posizioni nette e decisive. Da una parte c’è la posizione dialettica: essa giustifica il male considerandolo come inevitabile componente della natura o necessario fattore della storia, per cui gli attribuisce un preteso “diritto della zizzania” e collabora attivamente con esso; questa è la posizione

75. Fra le “parole-talismani” usate dall’“anti-linguaggio” oggi dominante, segnaliamo le seguenti: pace, riconciliazione, solidarietà, interdipendenza, convergenza, cambiamento, liberazione, autenticità, cattolicesimo adulto, laicità, pluralismo, multiculturalità, meticciato, tolleranza, accoglienza, condivisione, riconoscimento delle differenze, riduzione del danno, libera scelta, pari opportunità, discriminazione, autodeterminazione, ecosistema, biodiversità, qualità della vita, diritti riproduttivi, salute sessuale, orientamento sessuale, omofobia. 76. N. Petruzzellis, Il metro della libertà, Volpe, Roma 1975, p. 147. 77. Cfr. A. Gnocchi e M. Palmaro, La Bella Addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi; perché si risveglierà, Vallecchi, Firenze 2011.

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gnostica e anticristiana, che ha la sua avanguardia nella Rivoluzione. Dalla parte opposta c’è la posizione polemica: essa rifiuta al male ogni valore o giustificazione e ogni diritto all’esistenza o all’azione78, per cui lo condanna e lo combatte senza cedimenti; questa è la posizione cristiana e tradizionale, che ha la sua avanguardia nella Contro-Rivoluzione. Tra questi due poli esiste una posizione intermedia che riduce il male a risultato di un mero equivoco, dovuto a ignoranza e imprudenza, che può essere dissipato e risolto mediante un approfondimento ideologico e un dialogo esistenziale che favoriscano la comprensione e la tolleranza universali. Questa posizione è tipica della gente (“prudente, moderata ed equilibrata”) che rifiuta ogni fanatismo evitando gli “opposti estremismi” dell’empietà e della santità, che è disposta a sopportare tutto e a cedere in tutto pur di evitare dissidi, fastidi, sacrifici, lotte, persecuzioni, che s’illude di “salvare il salvabile” rinunciando a combattere il male e ripiegando su un “male minore” che permetta la “riduzione del danno”. In realtà, questo “terzo partito” pratica non una prudente moderazione, bensì quella imprudente esagerazione tipica di chi esagera per difetto, perché non difende adeguatamente la verità e il bene e non combatte adeguatamente l’errore e il male79. «Costoro sono tanto più pericolosi, in quanto assumono una certa qual apparenza d’imparzialità […] e in tal modo si fanno giudici del campo, obbligando a comparire davanti a loro l’errore e la verità, e con falsa moderazione cercano tra i due chissà quale impossibile termine medio. […] Ma tra l’errore e la verità non c’è alcuna via di mezzo, […] per cui coloro che si pongono in questo vuoto sono tanto lontani dalla verità quanto coloro che sono nell’errore» 80; difatti essi spesso finiscono col diventare una “quinta colonna” composta da “utili idioti” che servono (sia pure malvolentieri) un aspetto o un settore della Rivoluzione. Il loro centro è solo un limbo degli ignavi – «a Dio spiacenti e ai nimici sui»81 – che introduce all’Inferno; la loro via media è solo una lunga, contorta e logorante deviazione che conduce al fallimento e all’umiliazione: essi finiscono sconfitti dal Nemico, privati dell’onore delle armi e imprigionati nella Città diabolica per compiervi i servizi più avvilenti. Pio XII ammoniva che, «nei grandi conflitti d’idee che agitano presentemente l’umana società […] non vi è posto che per gli spiriti saldi e irriducibili. Gli altri – i dubbiosi, gli ondeggianti, gli incerti – nonostante tutta la

78. Pio XII, discorso all’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani, del 6-12-1953, § 5. 79. Cfr. P. Corrêa de Oliveira, Il moderatismo: il grande eccesso del nostro secolo, su “Catolicismo”, marzo 1954. 80. J. Donoso Cortés, Lettera al cardinal Fornari, del 19-6-1852. 81. Dante Alighieri, La Divina Commedia, I (Inferno), canto III, v. 63.

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loro intelligenza di cui possono essere dotati, debbono rassegnarsi a fallire o a soccombere» 82. Questa posizione pacifista, dialogante e collaborazionista col male, pur essendo diffusa anche nel mondo cattolico, è contraria alla fede. Il Vangelo insegna che esistono solo due Città, due Stendardi, due Eserciti in guerra, due Generali, insomma i due “Padroni” tra i quali bisogna scegliere: Gesù Cristo e Satana (Mt. 6, 24). L’unico modo in cui queste due fazioni possono “dialogare”, è quello usato da Gesù Cristo quando respinse il diavolo tentatore (Lc. 4, 1-13); l’unico modo in cui esse possono “confrontarsi”, è quello previsto da Dio stesso quando disse al Serpente: «porrò inimicizie tra te e la Donna, tra la stirpe tua e quella sua», profetizzandogli che «la Donna ti schiaccerà il capo, mentre tu Le insidierai il calcagno» (Gen. 3, 15); se cioè il diavolo tenta di avvelenare la Donna mordendola nella sua parte più umile e debole, questa reagisce schiacciando l’incauto aggressore83. Pertanto «la soppressione di questa lotta, allo scopo di tentare una “riconciliazione ecumenica” tra la stirpe della Vergine e la stirpe del Serpente, conduce a regredire alla orgogliosa Torre di Babele, che il neopaganesimo cerca di riedificare in ogni modo»84. Chi pensa che la lotta non sia conforme allo spirito evangelico, dimentica che Gesù Cristo stesso attaccò i nemici, accusò gli ipocriti, ammonì gli indecisi, esortò i tiepidi; così deve agire anche il fedele, purché lo faccia non per interesse o per odio, ma per zelo della Verità e per carità verso l’errante. San Paolo esortava i fedeli non solo a difendersi dai nemici ma anche ad aggredirli, «usando le armi offensive e difensive della giustizia» (2Cor. 6, 7); come in ogni esercito, anche nella Chiesa non basta che ci sia una retroguardia che difenda, ma ci vuole anche un’avanguardia che attacchi. Il cristiano infatti deve non solo difendere la verità, ma anche attaccare gli errori confutandone i sofismi, dimostrandone la falsità e la contraddittorietà, rivelandone i veri moventi e le trame, denunciandone le gravi conseguenze. Ciò esige che l’apologetica, la controversia e la polemica vengano ricuperati come mezzi necessari all’evangelizzazione e all’apostolato; pertanto, «non basta dire che la discussione e la polemica sono legittime. […] C’è di più: in molte situazioni esse sono indispensabili, perché sono richieste dalla natura stessa delle cose. […] La proibizione della polemica è contro natura, è contraria sia ai

82. Pio XII, Quale anniversario, discorso del 10-6-1945. 83. Pio IX, Ineffabilis Deus, bolla di proclamazione del dogma della Immacolata Concezione di Maria, 8.12.1854. 84. P. Corrêa de Oliveira, Volta à Torre de Babel?, su “Folha de São Paulo”, 12.8.1980.

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diritti della verità e del bene, sia agli interessi delle numerose anime sommerse dall’errore e dal vizio»85. Bisogna quindi ricuperare la concezione biblica di Dio Padre come “Signore degli eserciti”, di Dio Figlio come supremo Condottiero, di Dio Spirito Santo come “fuoco distruttore”, degli Angeli come vindici sterminatori, della Madonna come “vincitrice di tutte le eresie”, della Chiesa come società militante, della Cresima come iniziazione di soldati, insomma della vita cristiana come lotta. Bisogna opporre quello spirito d’intransigenza, di missione e di crociata, che ieri ha costruito la Cristianità, a quello spirito del dialogo pacifista e relativista, che oggi tenta di distruggerla. Oggi che la battaglia per la verità è giunta alla fase cruciale, ogni altra via è destinata al fallimento. I timidi e distratti uomini d’oggi iniziano ormai a rendersene conto perché costretti dalla dura lezione dei fatti, perché patiscono le dolorose conseguenze della moderna apostasia. Ma Plinio Corrêa de Oliveira, aveva compreso e insegnato tutto questo molto tempo fa, svolgendo quel ruolo profetico tipico di chi illumina le future generazioni preparandole alla loro missione: «Facesti come quei che va di notte / portando il lume dietro, e a sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte»86. Anche per questo, la futura Cristianità restaurata lo celebrerà usando le parole incise sulla sua tomba: vir catholicus, totus apostolicus, plene romanus.

85. P. Corrêa de Oliveira, Dialogo, coexistencia e hecatombe termonuclear, cit. 86. Dante Alighieri, La Divina Commedia, II (Purgatorio), canto XXII, vv. 67-69.

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TRASBORDO IDEOLOGICO BIBLIOGRAFIA INAVVERTITO E DIALOGO

Plinio Corrêa de Oliveira, Diálogo, coexistncia e hecatombe termonuclear, su “Catolicismo”, n. 170, febbraio 1965 Philippe de la Trinité O.C.D., Dialogue avec le marxisme? “Ecclesiam suam” et Vatican II, Editions du Cèdre, Paris 1966 Plinio Corrêa de Oliveira, Diálogo, coexistncia e hecatombe termonuclear, su “Catolicismo”, n. 170, febbraio 1965 Plinio Corrêa de Oliveira, Diálogo e ateismo, su “Catolicismo”, n. 193, gennaio 1967 mons. Antonio de Castro Mayer, Le insidie della setta comunista, Cristianità, Piacenza 1975 Plinio Corrêa de Oliveira, A Iglesia ante a escalada da ameaça comunista. Apelo aos bispos silenciosos, Editora Vera Cruz, São Paulo 1976 Alessio U. Floridi S.J., Mosca e il Vaticano. I dissidenti di fronte al dialogo, La Casa di Matriona, Milano 1976 Ennio Innocenti, Dialogo tra cattolici e socialisti?, su “Palestra del Clero”, a. 1981, n. 8 pp.1-8 Plinio Corrêa de Oliveira, Comunismo e anticomunismo sulla soglia dell’ultimo decennio di questo millennio, su “Cristianità”, n. 179 (1990) Norbert A. Zmijewski, The catholic-marxist ideological dialogue in Poland (1945-1980), Darmouth Publishing Company, Aldershot (GB) 1991 Benedetta Rossi, Giovanni XXIII e il comunismo sovietico, Università di Trieste, Gorizia 2004 Pietro Neglie, La stagione del disgelo. Il Vaticano, l’Unione sovietica e la politica di centrosinistra in Italia (1958-1963), Cantagalli, Siena 2009 Jean Madiran, L’accordo di Metz tra il Kremlino e il Vaticano, Pagine - Il Borghese, Roma 2011

127


PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA

INDICE

Presentazione di S.A.I.R. Dom Bertrand de Orléans e Bragança

pag.

5

Introduzione

9

Capitolo I La nuova tattica comunista: azione persuasiva nel subconscio

15

Capitolo II Il trasbordo ideologico inavvertito

25

Capitolo III La parola-talismano, espediente del trasbordo ideologico inavvertito

33

Capitolo IV Un esempio di parola-talismano: “dialogo”

41

Conclusione

81

Quadro schematico delle quattro fasi della deformazione talismanica della parola “dialogo”

90

Una strategia di conquista che continua

93

Bibliografia

“ 125

IL MITO DEL DIALOGO RELATIVISTA

128


La prima edizione brasiliana del 1965 (a sinistra) e la prima edizione italiana del 1970 (a destra) di “Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo�


Il prof. Plinio CorrĂŞa de Oliveira negli anni della pubblicazione del suo saggio sulla rivista Catolicismo (1965)


Primi passi del dialogo ecumenico: Papa Giovanni XXIII (1958-1963) riceve in Vaticano il rappresentante di una setta shintoista.

Papa Paolo VI, riceve in Vaticano Josip Broz Tito (1892-1980), fondatore del partito comunista jugoslavo e dittatore per 35 anni della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.


Sviluppi del dialogo: (in alto) in Presidente USA, Bill Clinton (1993-2001) riceve alla Casa Bianca il leader palestinese Yasser Arafat, per decenni alla guida di formazioni terroristiche internazionali (23 settembre 1999); (in basso) Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della Repubblica Italiana (1992-1999) riceve il dittatore cubano Fidel Castro.


La fase attuale del dialogo: (in alto, da sinistra) Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma; Andrea Riccardi, Presidente della Comunità di S. Egidio, poi Ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione del governo Monti (2011); il Card. Paul Jean Poupard, Presidente emerito del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso; Abdallah Redouane, Segretario generale del Centro Culturale Islamico Italiano; l’imam Sami Salem della Moschea di Roma; l’On. Walter Veltroni (PD), all’epoca Sindaco di Roma; Leone Pasermann, allora Presidente della Comunità Ebraica di Roma, all’incontro interreligioso di Roma (2006); (in basso) il Segretario di Stato USA, Hillary Clinton, a colloquio con il presidente egiziano Muhammad Morsi, eletto nel giugno 2012 dal partito Libertà e Giustizia, espressione politica dell’associazione fondamentalista dei “Fratelli Musulmani”, vicina ad Hamas e ad altri gruppi terroristici mediorientali.


Effetti del dialogo ecumenico: eludendo il confronto sulle VeritĂ di fede e sfumando qualsiasi distinzione, il dialogo verte sui temi dell’ecologismo e del pacifismo e su una vaga religiositĂ agnostica e aconfessionale. In alto: rappresentanti di confessioni religiose e di sette hanno celebrato il 25° anniversario della fondazione del WWF, ad Assisi il 28 settembre 1986. In basso: la celebrazione interconfessionale che ha riunito ortodossi, protestanti riformati, cattolici e musulmani nella Chiesa del Santo Salvatore, ad Arras (Francia), il 26 ottobre 2011.


Effetti della strategia del dialogo: (in alto) il 5 marzo 1994, circa duecento islamici manifestano in Piazza Duomo a Milano, durante una protesta antisraeliana; (in basso) l’identica situazione quindici anni dopo, il 3 gennaio 2009, ma gli islamici radunati in Piazza Duomo, al termine di una manifestazione a favore dell’organizzazione terroristica palestinese Hamas, questa volta sono diverse migliaia ed agiscono in accordo con altri gruppi che contemporaneamente occupano il sagrato di San Petronio, a Bologna.


La copertina dell’edizione 2012 di “Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo” mette a confronto due immagini emblematiche degli effetti di cinquant’anni di strategia del dialogo: all’attacco violento e diretto sferrato contro l’Occidente, le organizzazioni politiche e civili, laiche e religiose, rispondono con manifestazioni di “buonismo” pacifista.


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