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L’italiano in Libia. Retorica politica e discorso coloniale negli anni della prima impresa libica (1911-1912) Antonio Schiavulli (Dickinson College)
Il presupposto che sta alla base di questo intervento è che la guerra coloniale abbia costituito una delle principali strategie di creazione e di coesione dell’identità nazionale italiana all’indomani dell’Unità e fino alla caduta del fascismo. In questa prospettiva, la prima impresa di colonizzazione italiana della Libia nel 1911 assume un valore particolarmente interessante per noi da un punto di vista culturale. Quell’impresa coloniale, infatti, si presenta da una parte come la sintesi della retorica maturata dalle esperienze coloniali precedenti; e dall’altra si offre come modello per la propaganda bellicista degli anni successivi inaugurando strutture retoriche e modelli ideologici di cui il fascismo farà ampio uso durante il ventennio. L’impresa libica, inoltre, coincide con un momento di radicale ridefinizione del ruolo degli intellettuali nella nascente società di massa italiana e proprio nel contesto della fondazione dell’identità nazionale. A ridosso di quegli anni, infatti, una nuova generazione di letterati assiste alla rapida trasformazione della società italiana da una società ancora legata a modelli sociali e culturali ottocenteschi a una società massificata più aggiornata alle esigenze del nuovo capitalismo internazionale. Si tratta di una trasformazione che quella generazione di letterati per certi versi subisce, ma che insieme contribuisce a modellare1. Ciò che vorrei proporre è dunque un’analisi di questo cambiamento, dal punto di vista degli strumenti retorici e ideologici che gli intellettuali italiani mettono al servizio della retorica nazionalista e dell’identità nazionale secondo parametri inediti rispetto alla tradizione risorgimentale alla quale pure continuano in un certo modo a fare riferimento. Non propongo dunque un’analisi di come cambia il linguaggio giornalistico in Italia, ma un’analisi del cambiamento che porta alcuni intellettuali italiani a spostare la loro retorica, da una tradizione sostanzialmente risorgimentale, reboante e inattuale a 1
Si vedano, in proposito, I. Nardi e S. Gentili (a cura di), La grande illusione: opinione pubblica e mass media al tempo della Guerra di Libia, Perugia, Morlacchi, 2009 e S. Bono (a cura di), Tripoli bel suol d’amore. Testimonianze sulla guerra italo-libica, Roma, Istituto italiano per l'Africa e l'Oriente, 2005. Sulla retorica politica coloniale si veda L. Ricci, La lingua dell’impero. Comunicazione, letteratura e propaganda nell'età del colonialismo italiano, Roma, Carocci, 2005. Sulla colonizzazione italiana della Libia, F. Cresti, Non desiderare la terra d’altri. La colonizzazione italiana in Libia, Roma, Carocci, 2011.
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una forma relativamente più immediata di comunicazione. Sono giovani letterati che cominceranno a servirsi delle riviste e dei giornali per arrivare ai lettori sperimentando strumenti inediti di comunicazione sociale, che torneranno utili nelle imminenti campagne interventiste e nella ormai prossima propaganda fascista2. Alla tradizione risorgimentale, in effetti, la propaganda colonialista aveva fatto riferimento per la promozione delle campagne coloniali precedenti l’impresa libica. E la retorica carducciana, del resto, riproposta dal Pascoli nella Grande proletaria si è mossa, dimostrava quanto pervicace fosse, ancora negli anni dieci del Novecento, un modello culturale ottocentesco che aveva trovato il suo coronamento politico nell’Unità e che ancora affascinava la generazione di intellettuali, da Pascoli, appunto, a d’Annunzio, a Corradini, cresciuta nella prima fase della costruzione del paese. Vorrei cominciare dunque questa rapida rassegna proprio dall’orazione pascoliana, che viene letta in un piccolo paese toscano presumibilmente di fronte a una platea non colta, ma alla quale Pascoli si rivolge con un tono altisonante che fa riferimento a un patrimonio culturale alto e verosimilmente condiviso solo da una parte minoritaria della platea. Vediamone proprio le prime parole: Lontani o vicini alla loro Patria, alla Patria loro nobilissima su tutte le altre, che aveva dato i più potenti conquistatori, i più sapienti civilizzatori, i più profondi pensatori, i più ispirati poeti, i più meravigliosi artisti, i più benefici indagatori, scopritori, inventori, del mondo, lontani o vicini che fossero, queste opre erano costrette a mutar Patria, a rinnegare la nazione, a non essere più d’Italia. Era una vergogna e un rischio farsi sentire a dir Sì, come Dante, a dir Terra, come Colombo, a dir Avanti!, come Garibaldi. Si diceva: «Dante? ma voi siete un popolo d’analfabeti! Colombo? Ma la vostra è l’onorata società della camorra e della mano nera! Garibaldi? Ma il vostro esercito s’è fatto vincere e annientare da africani scalzi! Viva Menelik!». I miracoli del nostro Risorgimento non erano più ricordati, o, appunto, ricordati come miracoli, di fortuna e d’astuzia. Non erano più i vincitori di San Martino e di Calatafimi, gl’Italiani: erano i vinti di Abba Garima. Non avevano essi mai
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Per il ruolo svolto dalle riviste letterarie nella cultura italiana dell’inizio del secolo, rimando ai saggi introduttivi dei curatori dei sei volumi della Cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, Torino, Einaudi, 1960-1963. In particolare, per quello che qui ci riguarda, al saggio di D. Frigessi su «Leonardo», «Hermes» e «Il Regno» (voll. I-II, pp. 11-86); di A. Romanò su «La Voce» (1908-1914) (vol. III, pp. 1180); di G. Scalia su «Lacerba» e «La Voce» (1914-1916) (vol. IV, pp. 11-120); di F. Gozio e A. Guerra su «L’Unità» e «La Voce politica» (1915) (vol. V, pp. 13-124).
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impugnato il fucile, puntata la lancia, rotata la sciabola: non sapevano maneggiare che il coltello3. Come si vede, qui Pascoli, con grande perizia retorica mette insieme in poche righe gli argomenti che ripeterà durante l’intera orazione: il riferimento alla tradizione italiana che si esprime al livello più alto nella poesia di Dante, nell’impresa di Colombo e nel coraggio di Garibaldi; il richiamo alla cronaca più recente con l’associazione del dramma dell’emigrazione (cui il pubblico della provincia contadina toscana doveva essere, con buona probabilità, piuttosto sensibile) alle più recenti campagne coloniali; la scelta, soprattutto, di un registro patetico, ma reboante, che sottolinea la distanza culturale del poeta, del latinista, del professore universitario dai suoi ascoltatori, che egli intende persuadere marcando, piuttosto che colmando, il dislivello culturale che lo separa da loro. Pascoli, come sappiamo, messa da parte la poetica del fanciullino sta cercando di presentarsi, in questi ultimi anni della sua vita, non solo come l’erede della cattedra di Carducci a Bologna, ma anche come il continuatore di una tradizione culturale che alla poesia civile carducciana guardava come al compimento politico dei sogni risorgimentali. Maturati all’ombra di quegli ideali, Pascoli e tutti gli intellettuali della generazione nata e cresciuta all’indomani dell’Unità, si richiamano agli stessi valori che trovano in Carducci l’espressione più alta dal punto di vista ideologico e formale. Un intellettuale straordinario e poliedrico come Arcangelo Ghisleri, ad esempio, geografo e uomo politico, esponente di spicco del pensiero repubblicano e mazziniano, nato anche lui come Pascoli nel 1855, userà gli stessi espedienti retorici del poeta di San Mauro, per opporsi fieramente però all’impresa di Libia, in un’altra orazione pubblica, letta a Forlì a un anno da quella pascoliana. Leggiamone le parole conclusive: S’è fatto appello a tutto che di men puro e di meno civile sonnecchiava nei sedimenti atavici della stirpe; e questo è il perché in Europa i pubblicisti più sinceramente amici dell’Italia, da loro amata come il vivente simbolo del diritto dei popoli, del diritto di nazionalità, rimasero scandalizzati quando lessero nei nostri giornali l’apoteosi borgiana di un «ultimatum» che rivestiva i caratteri di un’aggressione e lessero poi delle stragi non necessarie, celebrate come segno e virtù delle stirpi superiori. Te, dalla rea progenie
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Il discorso pronunciato da Giovanni Pascoli nel Teatro di Barga il 26 novembre 1911 alle ore 15 mentre in Libia avveniva l’avanzata su Ain Zara era anticipato da una premessa che sosteneva che questo fosse stato scritto «per i nostri morti e feriti». Si fa riferimento qui all’edizione delle Prose di Giovanni Pascoli (a cura di A. Vicinelli), Pensieri di varia umanità, vol. I, Milano, Arnoldo Mondadori, 1968, pp. 557-569.
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Degli oppressor discesa... Li rammentate i versi del Manzoni, nel coro dell’Ermengarda, che vi ho già citato? Là, in quei versi, era il vero sentimento della nostra stirpe, contro un Nietzismo, antico quant’è antica nella storia la teologia o la filosofia della tirannide. V’era in quell’antitesi tra gli oppressori e gli oppressi la coscienza nuova del nostro Risorgimento, v’era l’anima della generazione che, dopo aver messo Radetsky in fuga coll’esplosione popolare delle Cinque Giornate, poteva gloriarsi d’una vittoria «pura di vendette e di crudeltà»4. Ghisleri dimostra qui di essere cresciuto alla luce di modelli letterari (Carducci) e politici (il Risorgimento) sostanzialmente corrispondenti a quelli di Pascoli, e di un codice ideologico-linguistico non troppo diverso da quello pascoliano che nel richiamo patriottico a una lunga tradizione di civiltà finisce per riflettere tutti i limiti dell’umanesimo europeo come semplice rivendicazione identitaria. Nel pur sincero moralismo di Ghisleri, vi è insomma tutta l’inefficacia di un codice che nelle sue astrazioni risulta insufficiente a rendere conto della complessità del presente e che si affanna a inseguire un reale che continuamente lo eccede. Lo stesso Carducci, a dire la verità, si era dimostrato poco sensibile al fascino della politica coloniale italiana quando, nel 1887, aveva respinto l’invito, giunto dal sindaco di Roma, a farsi patrono della commemorazione dei morti di Dogali e dell’inaugurazione di un monumento celebrativo in quella che ancora oggi si chiama piazza dei Cinquecento. Carducci si rifiutò perché convinto assertore delle ragioni degli abissini contro gli italiani come lo era stato di quelle degli italiani contro gli austriaci5. Dimostrando fra l’altro come, la reversibilità della retorica umanistica dalle ragioni del
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Arcangelo Ghisleri, La guerra e il diritto delle genti secondo la tradizione italiana. Conferenza tenuta nel Teatro di Forlì il 3 Novembre 1912 con appendice di note documentali, Roma, Libreria Politica Moderna, 1913, pp. 72-91.
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Scrive Carducci: «Ciò che io sento degl’italiani morti in Dogali, non è bisogno dire. Dico che io non approvo il rumore ed il fasto che si continua a menare ed a fare su quella sventura. Mi dà da pensare lo sfogo di memorie classiche a questi giorni che l’amore per i classici studi è tra noi sì basso ed oscuro. […] Il popolo italiano vero, il popolo italiano che lavora e che pensa, quello che non parteggia e non specula e non s’inebbria e non tira alle avventure, quel popolo, dico, interrogato puramente e severamente, risponderebbe che non vuole esserci. Non vuole esserci, perché guerra non giusta; e gli abissini hanno ragione di respingere noi come noi respingevamo o respingeremmo gli austriaci. Non vuole esserci, perché guerra non politica; e distrarrebbe le nostre forze quando maggiore è il bisogno di tenerle raccolte e pronte. Non vuole esserci, perché guerra non utile, anzi dannosa, impensabilmente dannosa: per vedere vantaggi in Abissinia bisogna spossare l’immaginazione in chimere di falliti: per vedere i danni, giacché oramai del sangue si fa buon mercato, basta guardare ai milioni che già accennano a cascarci su’l capo». G. Carducci, Il monumento ai Caduti d’Africa e Giosue Carducci, in «Il Resto del Carlino», 19 maggio 1887, ora Al sindaco di Roma, in Opere scelte, vol. II, Prose, commenti, lettere, a cura di M. Saccenti, Torino, Utet, 1993, pp. 512-515 (la citazione proviene dalle pp. 513-514).
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«diritto delle genti» – come lo chiamava Ghisleri – a quelle dell’oppressione coloniale fosse ormai prossima all’esaurimento della propria funzione storica. Spetterà a una nuova generazione di intellettuali porsi il problema di rinnovare il linguaggio della comunicazione politica nella direzione auspicata dal nuovo ruolo che essi cominciano solo ora a rivestire in una società massificata. Proviamo allora a leggere un intervento polemico pubblicato ancora a ridosso dell’invasione italiana della Libia: Signori filistei di questo paese, attenti! L’Italia non è più la terra del carnevale o dei suoni o dei limoni goethiani: sta diventando un regno delle fate, un paese delle meraviglie, una vera Dreamland. Io mi chiedo con terrore quel che direbbero e farebbero questi giornali se ci fosse sul serio una guerra seria, una guerra in grande con una nazione grande, coll’Austria o colla Francia, per esempio. Se oggi, contro la Turchia debole povera e lontana, sentono il bisogno di far rimbombare la loro prosa più dei cannoni di Faravelli e di Aubry e di chiamare a raccolta gli italiani in nome delle memorie degli avi come se ci fosse un risorto Annibale che dall’Africa meditasse un nuovo passaggio dell’Alpi, vorrei vedere quali frasi, quali accenti, quali scatti, quali squilli troverebbero nell’anima e nel calamaio se veramente un esercito potente ci stesse di fronte e l’esistenza della patria fosse messa a repentaglio?6 Si tratta delle parole di esordio di un articolo apparso su un numero della rivista «La Voce» nel 1911, scritte da un giovane Giovanni Papini, allora trentenne, che elabora una prosa che, attraverso una sintassi di fatto semplificata rispetto a quella che abbiamo visto operare in Pascoli, riunisce i tratti colloquiali della cronaca giornalistica senza rinunciare al richiamo letterario, con un chiaro e ricercato effetto di sarcasmo, accentuato dall’apostrofe con cui apre il suo intervento. La sua derisione di certi eccessi nazionalistici, dei quali pure egli stesso è corresponsabile, si svolge attraverso una retorica il cui grado di elaborazione formale nulla toglie all’immediatezza del messaggio e che ammicca alle competenze culturali di un pubblico presumibilmente colto come quello della «Voce». Qui anzi, l’intento canzonatorio rivolto a ottenere dal lettore l’adesione alle proprie posizioni sollecitandone la risata complice, si deve principalmente all’uso dell’epistrofe («sul serio una guerra seria» e, subito dopo, «una guerra grande con una nazione grande»), alla scansione sintattica secondo cadenze ritmate (ad esempio, la terna «debole, povera e lontana»), all’iperbole («far rimbombare la loro prosa più dei 6
G. Papini, La guerra vittoriosa, in «La Voce», III, n. 42, 1911, pp. 669-671, ora in La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. III, «La Voce», cit., pp. 384-392.
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cannoni di Faravelli e di Aubry») e, infine, al climax rafforzato dalla struttura anaforica («quali frasi, quali accenti, quali scatti, quali squilli»). Non meno che in Papini, anche nel suo sodale Giuseppe Prezzolini e in molti altri di questi giovani polemisti nati fra gli anni settanta e ottanta dell’Ottocento conta però soprattutto che si utilizzi un linguaggio più colloquiale, che sottintende, nella comune percezione di un mondo di fatto più prosaico, un rapporto diretto con un pubblico meno disponibile a farsi sedurre dalle volute di un codice inattuale. È in gioco in questi intellettuali certamente anche il senso della distanza, quando non del vero e proprio rifiuto, dalla ormai consumata retorica carducciana così presente ancora nell’eloquio pascoliano, per esempio, ma già lucidamente avvertita da Serra come «qualche cosa di mancante, come un ponte spezzato: un vuoto che ci vaneggiava davanti» 7 . È insomma forte fra questi giovani la convinzione di un netto scarto generazionale che non può darsi altrimenti che nella misura del linguaggio. Non è un caso, del resto, che proprio un giovanissimo Prezzolini scriva nel 1907, a venticinque anni, un’Arte di persuadere che insegna a puntare tutto sui sentimenti e sull’ironia anziché sui sillogismi della logica; sull’ambiguità, sull’eufemismo, sul doppio senso anziché sulla chiarezza; sulla derisione dell’avversario anziché sull’indignazione8. Ciò che sta accadendo, insomma, è che la generazione di intellettuali trenta/quarantenni sta avvertendo come inservibile una tradizione retorica inadeguata a rispondere alle urgenze del presente, alla preoccupazione sempre più incalzante di egemonizzare le masse. Se n’era accorto, solo un paio di anni prima dell’impresa libica, il fondatore del movimento futurista, quando proprio su un radicale rinnovamento del linguaggio nell’adesione all’appello di una società tecnologizzata (o in via di rapida tecnologizzazione), aveva espresso con furia iconoclasta il rifiuto per la polverosa retorica accademica. Anche Filippo Tommaso Marinetti, di solo pochi anni più vecchio di Papini e Prezzolini, infatti, non perde l’occasione di partecipare all’entusiasmo per la campagna libica, ma lo fa con uno stile piuttosto sorprendente se paragonato a quello con cui aveva destabilizzato la cittadella letteraria al momento della pubblicazione di Mafarka il Futurista. In un reportage pubblicato nel 1912, ma che risale alla fine dell’anno precedente, Marinetti abbandona la sperimentazione parolibera per rispondere alla necessità di informare o, meglio, per usare le sue parole, di «rispondere alle frottole turche».
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R. Serra, La commemorazione di Giosue Carducci (discorso tenuto presso il Teatro comunale di Cesena la sera del 21 marzo 1914), ora in Id., Scritti letterari, morali e politici, Torino, Einaudi, 1974, p. 354. 8
G. Prezzolini, L’arte di persuadere, Firenze, Lumachi, 1907.
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Quanto alle donne fatali dell’oasi, che i nostri soldati in foia avrebbero violate o brutalizzate, parliamone pure, se volete… Le meno ripugnanti hanno occhi fradici o loschi e colonie di mosche fissate come smeraldi agli angoli delle labbra o sulla fronte, nel castone di qualche piaga purulenta. Tutte, fin dall’età di quindici anni, chiudono negligentemente nella cintola delle poppe crollate più giù dell’ombelico… E provatevi, se potete, a respirare il fetore della loro biancheria sporca, che contiene, in bagni di sudore pestilenziale, le più ricche colture di microbi del colera, della lebbra e della sifilide… Concluderete dunque con me che i nostri soldati non potevano avvicinarsi a donne simili altrimenti che in uno slancio di compassione, per saziarne la fame o curarne le malattie. Si trattava di ben altro che d’amore e di ratti, in quella orribile infermeria, dalle viuzze selciate di escrementi, che era diventata la città di Tripoli, sotto la dominazione dei Turchi9. Alcuni elementi di questo brano meritano la nostra attenzione: intanto, l’evidente trivialità dei contenuti, del tutto coerente con le campagne propagandiste del movimento già espresse negli altri manifesti di fondazione, che confermano il linguaggio protofascista e il sessismo e il razzismo di fondo, il bellicismo nella sua declinazione colonialista; ma soprattutto, per quello che più interessa il nostro discorso, è notevole qui l’abdicazione alla sperimentazione futurista per un’opzione linguistica più direttamente comunicativa che nell’immediatezza di una comunicazione finalizzata alla persuasione trova la forma più adatta per l’espressione della sua ideologia. Occorre chiedersi a questo punto che cosa è cambiato nei pochi anni, circa un ventennio, che separano la generazione di Pascoli e di d’Annunzio da quella di questi giovani intellettuali. Molto approssimativamente possiamo dire che fra il 1896 e il 1914 l’Italia sta uscendo da una condizione di vera e propria arretratezza economica e si avvia a una rapida espansione industriale. In un torno di tempo brevissimo e saltando molte delle tappe che avevano consentito agli altri paesi europei di costruirsi una più stabile tradizione economico-politica, l’Italia sviluppa cioè un modello di produzione capitalistico che favorisce la costituzione delle principali strutture di un capitalismo monopolistico.
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F.T. Marinetti, Risposte alle frottole turche, in La battaglia di Tripoli (26 ottobre 1911) vissuta e cantata da F.T. Marinetti, Milano, Edizioni Futuriste di «Poesia», 1912, già pubblicato in francese nella rivista «Intransigeant» del 25-31 dicembre 1911 e tradotto presumibilmente da Decio Cinti, segretario dell’autore, pp. 65-84.
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In un clima di diffusa arretratezza culturale emerge dunque, e molto rapidamente, l’iniziativa promossa in special modo dalla borghesia milanese, che appare come la più avanzata nel paese dal punto di vista economico e politico. Essa, infatti, per l’espressione della sua visione politica comincia ad affidarsi a uno strumento di effetto immediato e pratico come i giornali che consentono, fra l’altro, di offrire, alla nuova piccola borghesia intellettuale di origine rurale da poco inurbata, una opportunità in più per esprimersi e, alla grande borghesia imprenditoriale metropolitana, di sussumerne le inquietudini e, laddove vi siano, gli impulsi eversivi. Dall’altra parte, molti intellettuali di estrazione piccolo borghese, o che ideologicamente si attestano su posizioni piccolo-borghesi, stanno andando incontro sempre di più, in questi anni, al pericolo di una grave disoccupazione che li spinge il più delle volte a nutrire un violento impulso di ribellione e di rifiuto anarchico dell’assetto sociale e politico costituito. Un impulso che, dato che spesso finisce per prendere di mira proprio il nascente modello capitalistico, occorre controllare e reindirizzare, deviandolo da un eventuale obiettivo materialisticamente fondato e dalla sempre più pericolosa e concreta alternativa anarchica e comunista. E che, là dove è possibile, occorre, infine, convertire in programma ideologico organico agli interessi del capitalismo industriale che, non a caso, ha in mano anche giornali, periodici e case editrici10. Non stupisce allora che, in questo quadro, acquistino particolare rilievo i temi bellici capaci di coniugare individualismo, cameratismo e nazionalismo, superomismo e imperialismo, ribellione antiparlamentare e militarismo. Attraverso di essi il capitalismo industriale può colmare il solco esistente tra i propri interessi economici e la propaganda più adeguata a promuoverli e può assicurarsi una valvola di sfogo in cui convogliare le istanze eversive poste dalla massa di intellettuali piccolo-borghesi disoccupati utilizzando questi ultimi come veicolo di propagazione dell’ideologia imperialista verso la classe dirigente e le masse. Spesso diretta imperialisticamente alla conquista e allo sfruttamento coloniale della terra africana e dei suoi abitanti, la guerra diviene così l’argomento principale della letteratura politica dei nostri intellettuali a cavallo fra Otto e Novecento. Essa appare l’asse portante della costruzione dell’identità italiana nel contesto più ampio 10
A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica, Torino, Einaudi, 1965, in part. capp. IV, V e appendice I; V. Castronovo, La storia economica in AA.VV., Storia d’Italia, vol. IV, tomo I, Torino, Einaudi, 1975, parte I e II; G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VII, La crisi di fine secolo e l’età giolittiana, Milano, Feltrinelli, 1974, cap. II; G. Baglioni, L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, Torino, Einaudi, 1974, in particolare, per quello che qui ci riguarda, alle pp. 114-115; M. Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Bologna, il Mulino, 1974, in part. capp. II-IV; F. Curi, L’estetizzazione della politica [1987], che si legge ora in Tra mimesi e metafora. Studi su Marinetti e il movimento futurista, Bologna, Pendragon, 1995, pp. 17-46.
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dell’ideologia modernista poiché è essa stessa moderna e tecnologica. Ma insieme, e con un curioso rovesciamento, essa è antica e mitologica, ascrivibile a una generica retorica classicista e alle radici di un sapere antico, capace di richiamarsi agli istinti primordiali dell’uomo in una singolare sintesi di natura e cultura. Sempre più determinata in tutta la sua spaventosa fisionomia dalla discrepanza tra l’esistenza di poderosi mezzi di produzione e la insufficienza di mercati di sbocco, la guerra imperialistica (nazionalista, colonialista e razzista) appare così come strumento privilegiato di costruzione della comunità nazionale e come mezzo di espansione esterna in grado di sostituire efficacemente la guerra sociale (interna, internazionalista e di classe). È questa insomma la prima manifestazione di quel processo di «estetizzazione della politica»11 che Walter Benjamin individuerà quale asse portante della politica culturale del fascismo. In questo contesto, l’impresa libica del 1911-1912 rappresenta un momento particolarmente significativo, il primo forse, per l’espressione di una nuova generazione di intellettuali nati fra gli anni settanta e ottanta dell’Ottocento. Essa viene avviata quando, dopo un trentennio di politica coloniale italiana, è ormai matura in Italia, fra le classi dirigenti e le masse, una coscienza coloniale. In secondo luogo, essa assume i contorni di un banco di prova per le forme dell’imminente campagna interventista. Attorno ad essa, infine, si formeranno i quadri dirigenti della gerarchia fascista e gli intellettuali che, durante il ventennio, sosterranno il regime. Vorrei concludere però questa rassegna con un ultimo esempio significativo tratto dal reportage di un intellettuale che ai tempi dell’impresa libica ha sessant’anni e appartiene dunque alla generazione di Pascoli e di d’Annunzio. Si tratta del reportage fotografico, il primo, per quanto ne sappiamo, nella storia del giornalismo italiano, redatto da Paolo Valera per informare gli italiani della ribellione del popolo libico alla fine dell’ottobre 1912 nell’oasi di Sciarasciat. Ad essa seguirà una repressione violentissima da parte del governo italiano di occupazione, che Valera cercherà di documentare instancabilmente anche con il supporto fotografico che ha a disposizione. Sentiamo dalla sua voce uno stralcio del racconto. I particolari sono orribili. I soldati, con o senza ufficiali, agguantavano, legavano, spingevano con i calci dei fucili e a pochi passi li fucilavano con volate di piombo. Dappertutto la brutalità era la signoreggiatrice dell’ambiente. Un povero ragazzo nero ha implorato pietà e ha ricevuto per risposta un terribile ceffone sulla bocca. La compassione era assente. Si sono uccisi mendicanti,
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W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [1936], saggio raccolto ora nella silloge omonima, Torino, Einaudi, 1991, pp. 17-56.
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storpi, gente sciancata, cieca. Al sud della linea degli avamposti dove era avvenuta l’aggressione araba c’era una casa turca abbandonata. Il cortile ha servito per il radunamento dei prigionieri. L’edificio pareva una dogana. Giunto un ufficiale si vuotò il cortile inviandoli fuori a gruppi a sentire la sentenza sommaria fatta di piombo. La maggioranza era indifferente alla morte, ma la minoranza ci teneva alla vita. Era divenuta cadaverica. Si udivano gli spari. Si udivano le strida con dei tonfi. Molti si sono messi a gridare, a strepitare e a cercare di fuggire. Si dicevano innocenti. Vuotavano le tasche per dimostrare che non avevano che datteri. Inutile. Il calcio del fucile li faceva camminare. Di fuori era la catasta. Una cinquantina di persone erano sdraiate nella morte12. Anche quella di Paolo Valera è, com’è ovvio, una formalizzazione della realtà, tanto più interessante in quanto non possiamo sapere se l’autore è riuscito veramente ad arrivare in Libia, braccato com’era dalle forze del governo italiano. Eppure ancora oggi ci impressiona la sobrietà del suo linguaggio che nulla ha a che vedere con la pomposa retorica risorgimentale o con l’incipiente oratoria tribunizia protofascista. Con una prosa lucidamente paratattica lo scrittore naturalista cerca qui di presentare i fatti, convinto com’è che essi bastino da soli a denunciare la verità. Anche grazie alla sua opera sappiamo oggi che al di là della retorica, al di là della forma, quella verità è la verità dell’oppressione e della violenza coloniale e che dietro le parole di Pascoli e di Papini, di Marinetti e Corradini, scorre il sangue di una generazione di libici (si parla, per difetto, di almeno centomila uomini e donne sterminati dalla brutalità dell’esercito italiano). Alla memoria di quegli uomini e di quelle donne è dedicato questo breve intervento. Bibliografia AA.VV., La Cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, 6 voll., Torino, Einaudi, 1960-1963; Baglioni G., L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, Torino, Einaudi, 1974; Barbagli M., Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Bologna, il Mulino, 1974; Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1991;
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P. Valera, Le giornate di Sciarasciat fotografate, supplemento a «La Folla», n. 14, Milano, Borsani, 1912, pp. 3-32. Si legge ora, riprodotto in copia anastatica, in Romain Rainero, Paolo Valera e l’opposizione democratica all’impresa di Libia, in «Quaderni dell’Istituto italiano di cultura di Tripoli», n. 3, 1983.
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