2013_Interventi_06_Pala

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Eterotopie letterarie: comparatistica e letteratura mondiale da Wellek ai giorni nostri. Mauro Pala

Il totem letterario. Una generazione or sono, nel mondo accademico statunitense si registrava un marcato antagonismo fra la world literature e le letterature nazionali, con gruppi di studiosi che, servendosi di argomentazioni diverse, parteggiavano per l’una o per l’altra fazione1. Tuttavia, nella maggior parte dei dipartimenti si dava preminenza all’insegnamento delle letterature nazionali, e la world literature veniva considerata alla stregua di un corso introduttivo, buono, con il suo accattivante internazionalismo, al massimo per i principianti, ma sostanzialmente vago nelle linee generali e poco rigoroso nelle applicazioni; giusto una premessa rispetto al lavoro serio da condurre, in seguito, nell’ambito di una letteratura nazionale. Non solo questa diffidenza nei confronti della world literature era diffusa a livello didattico, ma riemergeva nel giudizio della critica sulle opere della comparatistica, specie se praticata su scala mondiale, come attestato dalle severe riserve nei confronti del capolavoro di Erich Auerbach Mimesis da parte di vari specialisti settoriali, generalmente studiosi di letterature nazionali o storici di un determinato periodo: persino René Wellek in una recensione osservava che i risultati di Auerbach risultavano “peculiarly shifting and disconcertingly vague”2. Se Mimesis conta invece tanti ammiratori odierni, bisogna ammettere che, almeno come tipologia di ricerca, non ha avuto seguito, e la maggior parte degli allievi di Auerbach non ha emulato il maestro, finendo per specializzarsi in ambiti assai più limitati. Peraltro, nel clima di sconcerto e devastazione materiale all’indomani della seconda guerra mondiale, i comparatisti nutrivano attese quasi fideistiche, certo eccessive se considerate col senno di poi, nei confronti della loro disciplina : Curtius dichiarava che Letteratura europea e Medio Evo latino non fosse “il prodotto di finalità puramente scientifiche ma della preoccupazione per la salvaguardia della cultura occidentale” e che tale salvataggio si potesse attuare nell’unità di una tradizione concepibile “solo da un punto di vista universale”3, ovvero sovranazionale. Albert

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D.Damrosch, “World Literature, National Contexts”, in Modern Philology, vol. 100, n° 4, (May 2003), The University of Chicago Press 2003, pp.512-531. 2 R.Wellek, review of Mimesis, Kenyon Review 16 (1954), pp.299-307, citato in D.Damrosch, What Is World Literature? Princeton U.P., 2003, p.282. 3 E.R.Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, (Prefazione alla seconda edizione) Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 7.


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Guérard incitava ad estirpare “l’eresia nazionalistica”, e immaginava una palingenesi europea nella quale i confini fra le nazioni si sarebbero rapidamente dissolti, e con essi anche le letterature nazionali. Oggi sappiamo che così non è stato e molto probabilmente non sarà, almeno nel futuro prossimo. Il culto della letteratura come forma di conservazione e insieme panacea per la cultura occidentale ha lungo corso: la letteratura mondiale come bene in sé, autogiustificata dalla sua funzione di antidoto contro gli effetti perniciosi del nazionalismo, paradossalmente si ritorce contro lo studio letterario, perché proprio questa alta considerazione produce un’aura astorica ed esclude lo studio del funzionamento della letteratura stessa, spianando la via alle concezioni fissiste del canone invocate da Eliot fino a Bloom. Parallelamente, la letteratura comparata è stata vista come il naturale collegamento fra questo corpus di testi semi-sacralizzati e il mondo esterno: una concezione persistente almeno fino agli anni Settanta, quando Owen Aldridge caratterizza la comparatistica come “lo studio di qualsiasi fenomeno letterario da una prospettiva sovranazionale o in collegamento con altre discipline”4. Uno slancio verso il mondo ancora ancorato ad una concezione idealista, che colloca la letteratura al riparo dagli accidenti della storia, impermeabile anche rispetto ad eventuali dubbi sulla natura dei testi canonici, a differenza di quanto avviene col metodo di analisi, il quale, sempre per Aldridge, risulta “nel migliore dei casi ambiguo”5. La logica sottesa a questa posizione ipostatizza un canone letterario, ed appare sostanzialmente affine alle motivazioni per il celeberrimo attacco ai doganieri della letteratura da parte di Wellek: il cui principale obiettivo nella critica alla rigida ripartizione fra letterature comparée e generale sancita da Van Tieghem è la nozione di genere, non il confine politico; sbaglia chi ritiene che così si volesse emancipare la critica dalle frontiere per aprire nuovi orizzonti al confronto; in realtà, secondo Wellek, le rigide classificazioni della comparatistica francese vanno rifiutate non tanto per il loro sciovinismo, quanto perché il sistema di analisi su di esse imperniato “dovrebbe trattare solo degli affari esteri fra due letterature e quindi di frammenti della produzione letteraria. Non permetterebbe di studiare l’opera d’arte individuale”, perché sottrarrebbe allo sguardo dello studioso quell’universo letterario che, al di là delle divisioni nazionali, attribuisce all’opera il suo pieno significato. Auspicando l’abbandono dei “concetti fattualistici e meccanicistici” in favore

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O. Aldridge, Comparative Literature: Matter and Method, Urbana, University of Illinois Press, 1969, p.1, cit. in C.B. (a cura di) Comparative Literature in the Age of Multiculturalism, Baltimore Johns Hopkins U.P., 1995, p.3 (traduzione mia). 5 C.Bernheimer, «The Anxieties of Comparison» in C.B. (a cura di) Comparative Literature in the Age of Multiculturalism, Baltimore Johns Hopkins U.P., 1995, p.3.


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della “vera critica”6, Wellek antepone valori e qualità alla storicità del testo, e fa coincidere questa storicità con la storia della critica, sulla quale coerentemente finirà per concentrarsi7. Ecco perché egli rigetta sistematicamente ogni possibile lettura sociologica, e ritiene che il pur “ambizioso” tentativo di Remak8 di estendere lo studio della letteratura oltre i confini di un particolare paese per comprendere altre aree della conoscenza e della cultura in generale sia viziato “da distinzioni forzate e insostenibili” 9. Come osserva la Bassnett “Wellek rappresenta l’unione del vecchio con il nuovo, avendo egli cominciato la sua attività in Europa come formalista ed avendola conclusa nel nuovo Mondo in qualità di grande vecchio della letteratura comparata americana. Il suo punto di vista non è mai mutato: la storia è centrale per la letteratura comparata, ma solo nell’accezione di storia della cultura”10. Evidentemente l’esito di tale concezione, in cui la letteratura assume un senso esclusivamente grazie alla critica – ma solo quella focalizzata sulla letterarietà come elemento a se stante –, è quanto meno tautologico. Una simile idea autoreferenziale della letteratura riverbera nella considerazione dei generi, la cui evoluzione viene studiata, sia dagli esponenti del New Criticism che nella comparatistica improntata a Wellek, all’interno del paradigma nazionale che permane indiscusso, tanto che Ian Watt non aveva difficoltà ad affermare che lo sviluppo del romanzo avvenisse sostanzialmente in Gran Bretagna. Ma c’erano altri limiti non esplicitati, eppure insiti nella costruzione della storia letteraria, limiti geografici e temporali: ad esempio, non si prendevano in considerazione autori come Eliodoro o Apuleio semplicemente perché, appartenendo genericamente alla classicità, non rientravano in quello sviluppo della letteratura che, sempre seguendo pedissequamente la convenzione nazionale, si considera parallelo allo sviluppo della modernità. Altri limiti erano di tipo geografico, visto che non ci si spingeva sufficientemente a nord o a est da comprendere opere esotiche come la saga di Nials o il racconto di Genji. Una dilatazione geografica su scala veramente mondiale, capace di comprendere varianti extraeuropee così eterogenee, probabilmente non avrebbe 6

R.Wellek, «Nome e natura della letteratura comparata» in A.Gnisci e F.Sinopoli (a cura di), Letteratura comparata. Storia e testi, Roma Sovera 1995, p.72. 7 “Critica significa avere considerazione per i valori e le qualità, per una comprensione dei testi che racchiude anche la loro storicità e che richiede perciò una storia della critica per tale comprensione, e infine significa una prospettiva internazionale che prefigura un ideale lontano di storia letteraria e di critica universali”. Wellek in Gnisci e Sinopoli 1995, p.72. 8 “La letteratura comparata studia la letteratura al di là dei confini nazionali e nei suoi rapporti con le altre aree della conoscenza e della cultura in generale, come le arti, (ad esempio la pittura, la scultura, l’architettura e la musica), la filosofia, la storia, le scienze sociali (politica, economia, sociologia), le scienze esatte, la religione e così via. In breve, potremmo dire che si tratta del confronto tra due o più letterature e tra la letteratura e le altre sfere della cultura” H.R.Remak, «Definizione e funzioni della letteratura comparata», in Gnisci e Sinopoli 1995, p. 137. 9 Wellek in Gnisci e Sinopoli 1995, pp.60-61. 10 S.Bassnett, Introduzione critica alla letteratura comparata, Roma Lithos 1996, p. 68.


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potuto sostenere idee come “nascita” o “progresso” di matrice positivista ma presenti anche nelle varianti della critica crociana, ma, soprattutto, di certo non avrebbe soddisfatto gli interessi di una critica formalista o strutturalista. La Weltliteratur restava esclusa dall’analisi, estranea agli scopi di questa critica, antico retaggio di quando, nell’Ottocento, fungeva da nesso, prefigurandone il superamento, delle varie Geistesgeschichten nazionali: al tempo di Wellek della letteratura come fatto sociale non si discute, e l’attenzione si concentra sugli aspetti formali di un sistema letterario compiutamente transnazionale per la circolazione di stili e generi, ma che volta pervicacemente le spalle al mondo.

Weltliteratur als Weltschmerz Nel 1993, dopo accese discussioni, e con otto anni di ritardo rispetto alla prevista pubblicazione, venne presentato il rapporto commissionato dall’ACLA (American Comparative Literature Association) sullo stato dell’arte della disciplina, curato per l’occasione da Charles Bernheimer. A partire dal 1965 e con cadenza decennale, questo protocollo tra il formale e il discorsivo riassumeva e raccomandava modalità di analisi, stabilendo gli standard per i corsi di laurea, la disponibilità delle risorse bibliografiche, e incoraggiando un’esegesi generalmente improntata al close reading su testi in lingua originale. Ma tutto ciò, a cominciare dal tono pacato e inequivocabilmente autorevole dei reports precedenti, cambiò per sempre con quello affidato a Bernheimer: il clima teso in cui il testo è stato redatto traspare nelle sovraeccitate reazioni al rapporto stesso, dalla strenua difesa della “centralità” letteraria nella contesa con gli studi culturali da parte di Riffaterre11, all’indirizzo opposto, di tipo “centrifugo” propugnato da Rey Chow con una speciale enfasi sull’atto del comparare per emanciparsi dal pregiudizio critico eurocentrico12, fino alle riserve di Peter Brooks sulla letteratura presentata “come una pratica discorsiva fra le altre”13, accanto a generiche raccomandazioni su come sarebbe opportuno insegnare senza alcuna indicazione sulla prassi da seguire. Sullo sfondo di questo acceso confronto si staglia lo spostamento della letteratura verso “relazioni ad essa estrinseche”, nelle parole dello stesso Bernheimer14, un movimento che compendia, pur senza riuscire a metabolizzarle, tutte le sfaccettature di una crisi metodologica e tematica della comparatistica nordamericana e non, manifestatasi fra gli anni Sessanta e Ottanta del

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M. Riffaterre, «On the Complementarity of Comparative Literature and Cultural Studies» in Bernheimer 1995 (pp. 66-73), p.73. 12 R.Chow, «In the Name of Comparative Literature» in Bernheimer 1995, (pp.107-116), p.107. 13 P.Brooks, «Must We Apologize?» in Bernheimer 1995, (pp.97-106), p.99. 14 C.Bernheimer, «The Anxieties of Comparison» in C.B, 1995, (pp.1-17) p.6.


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Novecento con un’apertura verso l’estetica, l’ideologia, le nozioni di gender, inquadrate in una visione pervasiva del potere, onnipresente anche nell’ambito della cultura, ovvero proprio in quella sfera che la generazione di Wellek riteneva immune, per la sua stessa natura, da ingerenze politiche. In una parola, un ritorno prepotente dello storicismo, ma orientato non da macrostrutture di matrice hegeliana quanto verso una microfisica del potere legata al decostruzionismo e alla nozione foucaultiana di discorso, fattori che rivoluzionano la sfera linguistica, destabilizzando equilibri saussuriani anche attraverso la riscoperta della polifonia bachtiniana, e irrompono nella teoria politica grazie all’egemonia gramsciana e alle rivendicazioni delle periferie postcoloniali. Queste tendenze costringono a riconsiderare gli strumenti e il campo degli studi letterari, a cominciare proprio da quegli ambiti che prima esulavano dalla sfera specialistica, per analizzare la letteratura secondo una nuova prospettiva attenta all’interazione con la società civile e quindi, in ultima istanza, sensibile anche rispetto alle dinamiche della politica internazionale. Nel 1991, quindi poco prima del rapporto Bernheimer, scriveva Ceserani: “da ‘casa dei doganieri’ la comparatistica americana si è trasformata in ‘centro strategico internazionale della teoria letteraria” per il dispiacere di Aldridge e dei suoi sodali: ma questa apertura quasi indiscriminata ha un prezzo, in “un certo troppo facile e disinvolto eclettismo teorico e metodologico. È capitato a molti, credo, di vedere i comparatisti americani, soprattutto i giovani, al lavoro. Essi fanno uso delle varie metodologie critiche come se queste fossero tutte allineate e a disposizione ugualmente dello studioso, nel reparto delle utilities del loro computer” oltre che, conseguenza ancora più grave dell’eclettismo privo di spessore, quegli stessi studiosi adottano “un’ottica sempre più approssimativa e generica, che vede tutte le cose dalla stessa distanza”15. Come se idealmente dialogasse con Ceserani, Bernheimer conferma il disagio appena diagnosticato, immaginando un tipico studente – anzi, prendendo in considerazione il nuovo discente tipo, una studentessa – di letterature comparate, alle prese con una disciplina che in poco meno di vent’anni da sicuro approdo della cultura occidentale “alta” (nella diaspora nordamericana della generazione di Auerbach e Wellek) si è trasformata in una materia “ansiogena”, dalle pratiche quanto mai incerte, costrette come sono a confrontarsi con letterature e culture extraeuropee che rivendicano visibilità nonché, a nome delle minoranze etniche immigrate, un riconoscimento istituzionale, a cominciare dall’accademia.

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R.Ceserani, «Gli studi di comparatistica: esperienze a confronto, difficoltà e prospettive» in R.Luperini (a cura di) Teoria e critica letteraria oggi, Milano Franco Angeli 1991, pp.56-57. Cfr. anche G.Benvenuti e R.Ceserani, La letteratura nell’età globale, Bologna Il Mulino 2012.


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Su questa nota, nella consapevolezza di un’ineludibile “congiuntura critica” si chiude il rapporto Bernheimer, con l’auspicio che “i curricula siano strutturati per espandere la prospettiva degli studenti e stimolarli a pensare in termini pluralistici”16. Gli elementi di tale controversia testimoniano di un’America al bivio, impegnata nella difficile transizione verso quel multiculturalismo che, dopo essersi affermato come principio del politically correct, cerca conferme partendo dal campo dei diritti civili, fin nei programmi di studio e nelle reading lists. Gli effetti di questa evoluzione vengono trattati nel report del 2004, in cui, significativamente, la letteratura comparata non si confronta più con l’era contrassegnata dal multiculturalismo ma piuttosto dalla globalizzazione. Quello di Haun Saussy è un bilancio contraddittorio: a fronte di una dimensione transnazionale delle letterature e delle culture ormai “universalmente riconosciuta”, al punto che le conclusioni degli specialisti sono diventate senso comune, “ciò che occorre propagare è il riflesso comparativo, il modo di pensare comparativo, non semplicemente ‘comparativo’ sull’etichetta di un dipartimento”, e tuttavia “il nostro modo di pensare, scrivere e insegnare si è diffuso come un vangelo e non è stato seguito (nonostante ciò che i nostri colleghi sotto assedio nei dipartimenti di lingua e letteratura possano affermare) da un impero”17. Emerge da questo rapporto l’immagine di uno studio delle letterature decisamente proteso verso il mondo, al contrario dei passati trascorsi formalisti, al punto da mettere in discussione, tenendo conto della Weltpolitik, collaudati strumenti di analisi, come le strutture elaborate da Levi Strauss, invalidate da un fattore di cui l’illustre antropologo non aveva tenuto conto: l’ineguaglianza. “La letteratura comparata ha sempre riflettuto sulla differenza, ma l’ineguaglianza resta estranea al nostro vocabolario (…) la globalizzazione ci costringe a riflettere costantemente sull’ineguaglianza”18. E, in linea con questo esordio, la politica contemporanea caratterizza l’intero rapporto, nel quale le espressioni letterarie globalizzate vengono valutate col metro della trasparenza dei mercati, della delocalizzazione industriale, dell’informatizzazione dell’informazione; non manca, ovviamente, un contributo sulla “comparatistica nell’età del terrorismo”19. Eppure quella che pochi anni prima sarebbe stata considerata un’insopportabile ingerenza - argomenta Haun Saussy – può rivelarsi invece un punto di forza nell’ambito di una disciplina “istituzionalmente fragile”, per via della mancanza di un oggetto di studio ben definito, o di una collocazione curriculare slegata rispetto a campi di ricerca e canoni ben precisi.

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C.Bernheimer, «The Bernheimer Report», in C.B. 1995, p.47. H.Saussy, «Exquisite Cadavers Stitched from Fresh Nightmares» in H.Saussy (ed.), Comparative Literature in an Age of Globalization, Baltimore The Johns Hopkins U.P., 2006, pp.4-5. 18 Saussy, 2006, p.28. 19 D.Kadir, «Comparative Literature in an Age of Terrorism», in Saussy, 2006, pp.69-77. 17


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Se, sovvertendo il corso della sua storia, questa comparatistica equiparata a un “esperimento” si apre al confronto con l’attualità, non è casuale che ciò avvenga in un momento in cui il dibattito sulla letteratura mondiale o Weltliteratur viene rilanciato non da un accademico, ma da una giornalista, Pascale Casanova, la quale suscita nel 1999 un clamore inatteso - sulla stampa prima che nell’ambito accademico - con La république mondiale des lettres 20. Il libro presenta un punto di contatto con il rapporto coordinato da Saussy perché entrambi i testi danno ampio risalto alla questione del mercato: un mercato deregolato delle merci e della produzione materiale che, secondo Saussy, è responsabile del fatto che “dieci anni dopo [il rapporto Bernheimer] la globalizzazione ha preso una piega tale da sembrare per molti versi esattamente l’opposto del multiculturalismo”21. Un mercato inteso invece positivamente come “borsa dei valori letterari” per la Casanova, fattore determinante anche per la critica, “la cui costante crescita in futuro risponderà a due termini: storia e internazionale”22. Ma questo palcoscenico mondiale “non corrisponderà a una rappresentazione pacificata del mondo nel nome della globalizzazione” – dove curiosamente “globalizzazione” assume un’accezione opposta rispetto a quella attribuitale da Saussy – in cui “la storia (come l’economia) della letteratura, per come la si intende qui, è, al contrario, la storia delle rivalità che hanno la letteratura come posta in gioco e che hanno fatto – a colpi di dinieghi, di manifesti, di atti di forza, di rivoluzioni specifiche, di deviazioni, di movimenti letterari – la letteratura mondiale”23. Una visione dichiaratamente agonistica della letteratura mondiale che non può non evocare gli scenari dello scontro di civiltà di Huntington o certe aggressive tendenze neoliberiste, per quanto poi, paradossalmente, il concetto di nazione ne esca rafforzato attraverso processi che equiparano l’appartenenza nazionale alla fedeltà rispetto a un marchio di fabbrica. La république mondiale des lettres ripercorre percorsi egemonici di varie opere, che risultano però eccessivamente e univocamente debitrici, nel tragitto verso l’agognata consacrazione come classici – dove “classico” viene inteso, ancora una volta, in relazione a un canone fissista - nelle nazioni a cui i rispettivi autori appartengono24. In alcuni casi poi, come con il Rinascimento Irlandese, si confonde un variegato movimento poetico, teso verso un’idea altrettanto eterogenea di

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P.Casanova, La république mondiale des letters, Paris, Éditions du Seuil, 1999. Saussy, 2006, p.25. 22 Casanova, 1999, p.23 (traduzione mia). 23 Casanova 1999, p.31. 24 Il contesto a cui fa riferimento la Casanova resta invariabilmente franco centrico, sia per l’importanza che viene attribuita a Parigi come polo di attrazione mondiale, status tramontato dopo gli anni Sessanta, sia per l’arbitraria equiparazione di ‘capitale’ con ‘capitale letterario’, secondo una metafora mutuata da Bourdieu. Cfr. C.Prendergast, The World Republic of Letters in C.P. (a cura di) Debating World Literature, London Verso, 2004, pp.2-25. 21


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emancipazione culturale, con “una rivolta riuscita” contro un non meglio precisato “ordine letterario”25. Nella (limitata) misura in cui Comparative Literature in an Age of Globalization e La république mondiale des lettres possono essere considerati rappresentativi di un periodo che copre grosso modo il decennio di fine millennio e i primi anni del ventunesimo secolo, è lecito osservare che quelli che una volta si indicavano come elementi estrinseci del testo letterario hanno preso il sopravvento sull’analisi testuale, dimenticando così che, come sosteneva Szondi “ogni opera d’arte ha in sé un che di monarchico”26: trascurare questo iato – che non ha nulla di idealista - fra la produzione letteraria e le strutture sociali nelle quali essa prende forma svia dall’obiettivo di fondo della letteratura comparata, la possibilità di attribuire dei contorni a una letteratura mondiale.

Per un’archeologia del sapere (comparare) “La letteratura comparata come disciplina intesa in senso tradizionale non è più attuale e d’ora in poi dobbiamo abituarci a considerare gli studi sulla traduzione come la disciplina principale, rispetto alla quale la letteratura comparata è un’area di ricerca sussidiaria, anche se importante”. Così si pronunciava Susan Bassnett nel 1993, motivando la sua preferenza con il carattere di “attività trasgressiva, e di grande responsabilità” che i translation studies possiedono rispetto a quello che è stato finora “un partner dominante”27. L’insofferenza verso una disciplina che traduce in universali quelli che all’origine sono valori occidentali, bloccandone allo stesso tempo la confutazione proprio in nome della patente di universalità che gli è stata attribuita, si ripresenta dieci anni più tardi in una pubblicazione della Spivak che già nel titolo dichiara la sua diagnosi: Death of a Discipline28. Si parte da un giudizio sul rapporto Bernheimer in cui lo si equipara ai cosiddetti studi di area, ovvero transnazionali, opportunisticamente concepiti negli Stati Uniti durante la Guerra Fredda, con lo scopo “di rafforzare le buone relazioni internazionali in un tempo in cui ciò era di fondamentale importanza”

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. In altre parole, lo studio dell’Altro su basi solo

apparentemente paritarie in nome di interessi imperialistici surrettizi.

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Casanova, 1999, p.424. P.Szondi, Poetica dell’idealismo Tedesco, Torino Einaudi 1974, p.15. 27 Bassnett, 1996, p.234. 28 G.Spivak, Death of a Discipline, Columbia U.P., 2003 tr. it. Morte di una disciplina, Roma Meltemi 2003. Nelle note seguenti farò riferimento all’edizione italiana. 29 Spivak, 2003, p.31. 26


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Per la studiosa di origine bengalese la comparatistica nell’era Bernheimer è, analogamente, una “mezza soluzione”, che sceglie il connubio con gli studi culturali per rafforzare su scala mondiale la diffusione della comparatistica senza fare aggio sul dominio, come in epoca coloniale, quanto su relazioni che celano diseguaglianze già nell’ideologia del metodo impiegato30. Mentre la Bassnett denuncia l’egemonia della comparatistica sotto forma di “high culture”, la Spivak si spinge oltre, ed ipotizza una riforma radicale della disciplina: un mutamento di prospettiva che si può comprendere solo alla luce delle rappresentazioni del “come se” nei romanzi della Woolf o di Coetzee, ovvero attraverso la narrazione di situazioni liminali fra concezioni del mondo profondamente diverse in cui il lettore è invitato o, piuttosto, costretto a “esperire lo sguardo dell’altro” per trovare in questo la definizione di sé stesso. La riflessione femminista aiuta a cogliere - in questo difficile passaggio - una fenomenologia dell’alterità nell’ambito di una collettività erroneamente immaginata, sulla scia del fortunato testo di Benedict Anderson31, come omogenea. Alla luce di queste premesse, Spivak propone una rilettura contrastiva di Heart of Darkness e Season of Migration to the North di Tayeb Salih, il quale capovolge lo schema colonizzatorecolonizzato del testo di Conrad per smentire, attraverso lo sguardo del colonizzato, le scontate dicotomie che plasmano le categorie di giudizio occidentali e, insieme ad esse, i protocolli stessi della comparatistica. Poiché “la letteratura contiene l’elemento che sorprende lo storico. Ma è anche vero che un testo letterario produce l’effetto di essere inevitabile; di fatto si può ribattere che l’effetto è ciò che provoca la lettura, come trasgressione del testo”32. La provocazione della Spivak ha un dichiarato obiettivo didattico e, oltre a questo merito, ne presenta anche un altro, cioè il riferimento, in questo appello per una riforma etica della comparatistica, ad un’analisi testuale; la letteratura ritorna al centro della scena per illustrare ciò che, nelle intenzioni dell’autrice, è una guida alla “sfigurazione”, dove il termine richiama un’operazione opposta a quella di “estrema spiritualizzazione del processo mimetico” esposta magistralmente da Auerbach33 a proposito della testualità dantesca. Decostruendo la sintesi figurale si smaschera la concrezione di teoria - solo apparentemente imparziale – all’interno della prassi dell’analisi comparativa, operazione su cui si

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Una tesi di fondo assimilabile alla proposta della Spivak si può rintracciare nella vasta e articolata opera di Armando Gnisci da Creoli meticci migranti clandestini e ribelli, (Roma Meltemi 1998) a (con Franca Sinopoli e Nora Moll) La letteratura del mondo nel XXI secolo, Milano Bruno Mondadori 2010. Franca Sinopoli ha contribuito con Il mito della letteratura europea (Roma Meltemi 1999) e La letteratura europea vista dagli altri (Roma Meltemi 2003) ad illustrare ed argomentare le dinamiche postcoloniali di ricezione della letteratura europea nel resto del mondo. 31 B.Anderson, Imagined Communities, London Verso 1983, tr. it. Comunità immaginarie, Roma Manifestolibri, 1991. 32 Spivak 2003, p.76. 33 E.Auerbach, Studi su Dante, Milano Feltrinelli 1979, p.8.


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dovrebbe poi innestare un avviamento alla lettura dove “imparare a leggere è imparare a s-figurare, ripetutamente, la figurazione indicibile in una letterarietà responsabile”34. Dall’accento sulla responsabilità individuale Spivak estende la sua critica al concetto di collettività, a suo parere “indecidibile” e, come tale, svuotata della sua funzione di sostegno a un ideale umanistico ormai anacronistico, usato come puntello a imprese “universali”. Lo stesso ideale che è sotteso, seppure non esplicitato, nella nozione di collettività / comunità, centrale nel progetto sul romanzo fra Ottocento e Novecento di Franco Moretti35: una comunità come ricettacolo del gusto estetico e tacito punto di riferimento per chi, da Goethe a Flaubert o Verga volesse dar forma tangibile a un’idea di nazione. Ma “c’è qualcosa di disonesto nell’usare Goethe, Marx e Weber come giustificazione per aver scelto una teoria dei sistemi mondiali che mira a stabilire una legge dell’evoluzione della letteratura, specialmente dato che Marx ed Engels celebravano le dubbie acquisizioni della borghesia e del mercato mondiale” 36. La critica della Spivak a Moretti va di pari passo con un attacco all’antropologia come disciplina arroccata su un’episteme occidentale per formulare un’interpretazione del mondo altro: quando Spivak afferma che “lo studio corretto della letteratura può farci accedere alla performatività delle culture così come la narrativa le esemplifica” ripropone “il desiderio di un’antropologia, e quindi di testi antropologici, più letteraria, o meglio teorico letteraria per stile e consapevolezza: un’antropologia cioè, che dedichi più tempo alle riflessione sulla testualità del proprio sapere e meno alla discendenza matrilineare”37. La crisi dell’antropologia, disciplina fondata, come le letterature comparate, sull’esperienza dell’alterità e della differenza richiede per Said un ripensamento “mondano” delle categorie di analisi. E tuttavia, come correttamente osserva Clifford nella sua replica circostanziata alle accuse mosse dal critico di origine palestinese alla disciplina antropologica, “è evidente che un’ampia gamma di assunti umanistici occidentali sfugge all’analisi oppositiva di Said, e lo stesso vale per le alleanze discorsive di sapere e potere elaborate dai movimenti anticoloniali, e, soprattutto, nazionalisti”38. La doppia affiliazione teorica di Said riaffiorerà proprio nella centralità da lui affidata al concetto di umanesimo, anche se inteso secondo modalità e intenti niente affatto idealisti, nella sua opera postuma39. Clifford peraltro è il

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Spivak, 2003, p.91. F.Moretti, Il romanzo, (in 5 volumi) Torino Einaudi 2001. 36 Spivak, 2003, p.48. 37 E.Said «Rappresentare i colonizzati» in E.S. Nel segno dell’esilio, Milano Feltrinelli 2008, p. 344. 38 J.Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Torino Bollati Boringhieri 1999, p.305. 39 E.Said, Humanism and Democratic Criticism, New York, Columbia U.P., 2004. 35


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l’esponente forse più rappresentativo di quella svolta etnografica che pone l’antropologia sulla scia delle aperture comuni alla generazione dei comparatisti dell’era post Wellek: una etnografia come “esplicita forma di critica culturale che condivide le prospettive radicali del dada e del surrealismo”, per la quale “se l’autenticità è relazionale, non può darsi essenza se non come invenzione politica e culturale, una tattica locale”40 e che adotta un quadro teorico che è portato a preservare le differenze dall’impatto livellante della globalizzazione. Ma il problema di fondo sul versante dei comparatisti resta: come è possibile, date le condizioni del dibattito epistemologico su questo tema, articolare una letteratura su scala mondiale senza cadere nella polarizzazione di umanesimo e politiche identitarie, visto che entrambe queste opzioni “banalizzano la lettura e la scrittura come allegoria del sapere e del fare” ed entrambe “fungono da potenti esempi performativi di una politica della collettività non indagata”41?

Ellittiche rifrazioni Dopo aver letto Spivak sorge spontaneo il quesito: esistono ancora i margini per concepire una letteratura mondiale e, se la risposta è positiva, per rappresentarla? Una risposta a questa domanda attraversa l’opera di David Damrosch, al quale è ascrivibile, in anni recenti, uno dei tentativi più articolati e, soprattutto, documentati di ricostruire i termini e l’evoluzione del dibattito intorno alla world literature42, facendo di questa approfondita ricognizione la base per un bilancio del funzionamento della letteratura contemporanea, e, allo stesso tempo, un esperimento su come rilanciare la comparatistica, replicando con l’esegesi sul campo a diverse delle riserve, sia sul metodo che sull’oggetto della disciplina, cui si è accennato in questa breve sintesi. L’analisi dello studioso di Harvard prende l’avvio dal capovolgimento del paradigma nazionale adottato dalla Casanova: a differenza de La république mondiale des lettres dove l’idea di politica nazionale predomina e presiede alla dialettica simbolica, comunicativa, editoriale della letteratura, qui la prassi letteraria conserva una centralità che però non si traduce in una sfera a sé stante, sul modello della letterarietà di Wellek, quanto piuttosto si manifesta in un’insieme di pratiche che si confrontano e interagiscono con altre strutture, dallo Stato all’editoria, pur mantenendo una propria specificità.

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Clifford 1999, pp.24-25. Spivak 2003, p.51. 42 D.Damrosch, What is World Literature? Princeton U.P., 2003. D.Damrosch, How to read World Literature, Oxford, Wiley Blackwell, 2009. 41


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Secondo Damrosch, l’età della globalizzazione rende più semplice - ma per altri versi anche più complesso – scrivere una storia della letteratura mondiale. Risulta più facile che in passato poiché fino a poco tempo fa un’iniziativa del genere era così “pesantemente influenzata dai paradigmi nazionali da apparire poco plausibile e decisamente poco interessante”43, a conferma del disinteresse, sotto l’egida di Wellek, per un vasto campo di indagine considerato non pertinente allo studio della letteratura. Ecco dunque che, in concomitanza con la trasformazione sancita dal rapporto Bernheimer, si registra la pubblicazione dell’Harper Collins World Reader curato da Ann Caws e Christopher Prendergast in cui gli autori extraeuropei costituiscono un’alta percentuale di 475 scrittori rappresentativi della letteratura mondiale e, subito dopo, della versione aggiornata ed estesa della Norton Anthology of World Literature, dove, parallelamente alla scomparsa dal titolo del lemma caro a Bloom “World Masterpieces”, si sono aggiunte duemila pagine di letteratura proveniente da aree culturali non occidentali. Damrosch si chiede però a questo punto se tale espansione e la relativa eclisse del paradigma nazionale siano sufficienti per parlare di letteratura mondiale o se, al contrario, si rischi, proprio in questa fase, una dilatazione del fenomeno che lo svuota di senso, data la vastità della rassegna di testi coinvolti e della “pletora di storie letterarie locali in competizione reciproca”. C’è infatti il rischio che l’idea di una storia complessiva del mondo a partire da un materiale così eterogeneo risulti impensabile; proprio su questo aspetto si può verificare anche un’importante divergenza tra la storia letteraria e alcune delle voci della storiografia contemporanea, dove, ad esempio, uno storico come Bruce Mazlish intende la globalizzazione come un fenomeno risalente al massimo a cinquant’anni fa, che riflette un cambiamento radicale nella concezione che ciascuno ha di sé44. Ma se anche si pensa la globalizzazione nei termini drammatici dei conflitti identitari cui fa riferimento il postcoloniale – come avviene con Spivak –, non si può ignorare che il problema delle letterature “mondiali” è immediatamente politico in quanto implica criteri di rappresentazione cruciali per un discorso di riconoscimento, che, nel caso specifico, non riguarda tanto il numero di autori presenti nell’antologia quanto i parametri che la strutturano. Sotto questo aspetto, imprese veramente ciclopiche nella concezione, nei costi e nel numero degli esperti che vi hanno contribuito, come la History of European Literature scivolano impercettibilmente ma inesorabilmente, proprio a causa della vastità e varietà dei contributi, su un versante enciclopedico dove nessuna opera può pensare oggi di competere con Wikipedia. Perché allora continuare a

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D.Damrosch, «Toward a History of World Literature», in New Literary History, n° 39, 2008, p.481. B.Mazlish, The New Global History, New York, Routledge, 2006.


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scrivere antologie della letteratura mondiale? Damrosch riformula il quesito chiedendosi a che cosa si opporrebbe un’antologia letteraria oggi e la risposta è: ad un nazionalismo asfittico e a un illimitato e perciò indiscriminato globalismo45 nonché a un “insistent presentism”46 causa di quella mancanza di spessore storico che lamentava Ceserani. Come conciliare allora l’approfondimento con la leggibilità? Attraverso un volume cartaceo che offra una supervisione di un fenomeno letterario, un periodo o un tema, accoppiato a una serie di hyperlinks per l’approfondimento in rete. Entrambi questi poli devono essere suscettibili di costante revisione e aggiornamento. Un buon modello per il testo che dovrebbe fungere da legenda di questa mappa è offerto dal fondatore putativo (o da uno dei fondatori) della comparatistica, Hutcheson Macaulay Posnett, il quale pubblicò nel 1886 un testo intitolato, per l’appunto, Comparative Literature. La tesi di fondo del testo è che esista una traiettoria nel corso della storia letteraria, non un telos ma un percorso diverso rispetto a un andamento progressivo: la letteratura non documenta né prefigura l’affermazione di nessuna civiltà, ma piuttosto coincide con una inarrestabile ibridazione. Secondo Posnett la sequenza di cui la letteratura rende testimonianza parte dal livello del clan o comunque da un consesso ristretto, di tipo tribale, per estendersi poi alla cerchia di uno Stato o, ancora oltre, all’ambito imperiale o sovranazionale. Significativamente questo processo comincia molto prima dell’era degli stati nazionali, già ai tempi dell’impero romano che, anche grazie alla sua prodigiosa estensione geografica, consentiva molteplici forme di meticciato transculturale. Una visione così aperta sul mondo è tanto più sorprendente se si considera che Posnett scriveva dalla Nuova Zelanda. Non è quindi così importante che la storia della letteratura mondiale segua il modello “letterario” di Goethe (che Damrosch smitizza, ricostruendo il paradossale rapporto fra il genio e il suo segretario Eckermann) e quello prettamente “storico” di Wallenstein “quanto che esponga i vari processi e le varie strategie attraverso le quali gli autori hanno, sia collettivamente che singolarmente, fatto progredire la lunga negoziazione fra culture locali e oltre”47. In questo approccio, che sottolinea un’ibridazione – letteralmente – senza frontiere, il primo problema che si pone ruota intorno al concetto di nazione, all’interno del quale ogni prodotto letterario continua, ancora oggi, ad essere classificato. Per quanto la nazione sia un’invenzione relativamente recente, è ancora una volta ad essa che si fa riferimento nel sussumere un’opera premoderna all’interno di una tradizione che, seppure di carattere etnico antropologico, viene

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Damrosch, «Toward A History of World Literature», p.489. Damrosch, 2003, p.17. 47 Damrosch, «Toward a History of World Literature» p.485. 46


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proiettata sul concetto familiare di nazione48. Peraltro la nazione continua a designare un popolo, una comunità, e, all’interno di questa comunità, la cultura che la caratterizza. In senso lato, le grandi opere della letteratura continuano a mostrare le tracce della propria origine all’interno di una nazione, anche quando sono entrate a buon diritto nella world literature. E tuttavia in questa delicata esposizione, in cui il bardo Shakespeare diviene, a seconda della prospettiva, insieme il fulcro e il simulacro di una nazione, ebbene, proprio in quella fase il personaggio storico e la figura letteraria di Shakespeare vengono simultaneamente alienati rispetto a quella stessa tradizione, intesa come alveo stabile ed accogliente. In altre parole, per affermarsi a livello di world literature Shakespeare come figura simbolica deve essere messo in gioco, e dunque confrontarsi e affrontare le incertezze della ricezione; perché solo la ricezione può garantire il riconoscimento della fama a livello veramente mondiale, – dove “mondiale” non ha nulla di magniloquente - e la ricezione è spesso un processo controverso e contraddittorio, come dimostra la Bassnett a proposito della ricezione di Shakespeare in India o Jauss per ciò che concerne l’esperienza del quotidiano, in cui “l’orientazione quotidiana viene appositamente costituita per il lettore perché, con lo sforzo eccessivo cui il suo sapere – e la sua volontà di sapere –vengono costantemente sottoposti, egli si renda conto della schematicità della sua esperienza quotidiana e dell’irriducibile complessità della realtà, apparentemente ovvia, della vita”49 Questo tipo di ricezione dialettica, conforme a modelli dinamici della scuola della ricezione che ricordano la classicità in Calvino50 e riverberano in Eco51, può garantire grandezza duratura nel senso di una ricezione mutevole nel corso del tempo. Ecco perché Damrosch non accetta acriticamente una definizione, ma entra nel merito della dialettica di più letterature, considerandole non un’ordinata sommatoria di libri importanti né, tanto meno, un insieme di libri eterogenei che esiste solo per essere ordinato e soddisfare così le nostalgie totalizzanti di Bloom, quanto piuttosto un universo di pratiche – e la metafora cosmico geografica non è casuale – che vanno comprese piuttosto che ordinate, per mettere in relazione ambiti diversi e geograficamente lontani, sempre più remoti nello spazio e nel tempo, come la letteratura sumera o precolombiana.

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Damrosch, «World Literature, National Contexts», pp.513-514. E.R.Jauss, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria (vol.II) Domanda e risposta. Studi di ermeneutica letteraria, Bologna Il Mulino 1988, p.98. 50 “I classici sono quei libri che arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o, più semplicemente, nel linguaggio e nel costume)” I.Calvino, Perché leggere i classici, Milano Mondadori 2010, pp.7-8. 51 Cfr. sul concetto di traduzione in U.Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano Bompiani 2003. 49


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La vitalità della disciplina si configura allora come un’affascinante ipotesi, la possibilità di individuare e seguire un insieme di circuiti comunicativi che, cronologicamente o geograficamente si intersecano e si trasformano vicendevolmente, secondo un modello che ricorda il big bang. Questo complesso processo per Damrosch è la cosiddetta “rifrazione ellittica”, un’operazione che non si limita al commercio estero della letteratura come inteso da Wellek, ma non sfocia “né in un universalismo trascendentale”52 (come paventato, fra gli altri, da Spivak e da Said) né può essere concettualizzato in un concetto finito: l’enorme scarto fra il grande teorico della scuola americana e le tendenze della critica contemporanea si misura nell’accettazione di questa possibile mutazione all’atto della ricezione, fino allo stravolgimento. La fedeltà all’originale scompare e l’attenzione del critico si incentra su una ricostruzione della reazione che un’opera letteraria avvia. Questa apertura diacronica e geografica smentisce molti dei presupposti di una comparatistica dominante per esplorare, attraverso un capovolgimento di ruoli, il campo designato da Susan Bassnett come più appropriato per i translation studies. Tuttavia, se costituisce un vantaggio a livello teorico, rendere giustizia alla cultura da cui si attinge diventa estremamente problematico con le letterature53. Una reazione alla proliferazione di culture entro le quali si inquadra il fenomeno letterario è la nascita di macro sistemi di tipo linguistico come quello ideato da Ever Zohar per la traduzione o quello prettamente politico di Wallerstein. Se il sistema fa riferimento a un genere letterario, come lo studio del romanzo europeo di Franco Moretti fra l’Ottocento e il Novecento, ci si trova dinanzi a ostacoli apparentemente insormontabili, come quelli determinati da una ricezione estremamente variabile delle varie opere a livello locale. La soluzione prospettata da Moretti consiste nell’abbandonare ogni ipotesi di esegesi dettagliata sul modello del close reading per concentrarci invece su grandi raggruppamenti formati partendo da caratteristiche che necessariamente dovranno essere molto generali. L’opzione prospettata da Moretti implica il rifiuto dell’analisi testuale fosse anche soltanto di un’opera a favore di una giustapposizione di caratteristiche che saranno analizzate, ancora una volta, dallo specialista di letteratura nazionale. Ma può il comparatista accettare di lavorare su acquisizioni di seconda mano? L’ambizione di riuscire a produrre una forma sintetica assimilabile alla letteratura mondiale ora si misura nella distanza rispetto al testo. Damrosch assimila il progetto di Moretti alle grandi associazioni di genere di Northorp Frye, dove la similitudine nella selezione si esplicita nella metafora di alberi e onde: esattamente come un individuo rientra in una genealogia, così, per l’autore del grandioso studio sul romanzo occidentale,

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Damrosch, 2003, p.284. D.Damrosch, “World Literature, National Contexts”.


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una singola opera fa parte di un ceppo nazionale, ma, a differenza dello studio su base nazionale, la comparatistica di tipo mondiale dovrebbe muoversi secondo le onde che caratterizzano una produzione su scala mondiale. Di diverso avviso è Damrosch: “Dobbiamo vedere sia la foresta che l’albero”54 è la sua conclusione, proiettata su un orizzonte gadameriano di attese e nuovi orizzonti che si dischiudono, in primo luogo, all’osservatore. Le rifrazioni ellittiche non costituiscono ovviamente la conclusione, ma solo l’ultima tappa di una ricostruzione retorica molto sommaria – o, se si preferisce, una flebile attribuzione di senso allo studio letterario in un certo lasso di tempo – in un percorso che resta aperto, ma certo testimoniano di una soluzione bifida a una storia che prosegue con la comparatistica stessa. La letteratura mondiale si configura così come un processo (anche) molto privato e introverso, legato a percezioni più che a luoghi reali. E in questo nodo la comparatistica, compressa in attitudine di chi legge e insieme si rispecchia “incontra l’eterotopia, l’epoca della giustapposizione, in cui il mondo si sperimenta, più che come un percorso che si sviluppa nel tempo, come un reticolo che incrocia dei punti e che intreccia la sua matassa”55.

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Damrosch 2003, p.26. M.Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Milano Mimesis, 2008, p.19.


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