La letteratura al crocevia dei saperi - Conversazione con Remo Ceserani by Federico Bertoni
Remo Ceserani ha appena pubblicato un libro di grande interesse, Convergenze: Gli strumenti letterari e le altre discipline (Milano, Bruno Mondadori), in cui cerca di fare il punto su un problema che attraversa le sue ricerche da molti anni: il rapporto tra la letteratura e gli altri campi del sapere, non solo quelli tradizionalmente riconducibili all’ambito umanistico (storia, filosofia, antropologia ecc.) ma anche quelli delle cosiddette scienze «dure» come la fisica, la chimica o la matematica, che la vulgata delle «due culture» vorrebbe tenere rigorosamente distinte dall’universo letterario. Con la sua consueta affabilità comunicativa e le sue formidabili doti di osservatore del dibattito letterario e culturale, Ceserani dimostra che attraversamenti e sconfinamenti disciplinari sono invece all’ordine del giorno, in un continuo interscambio di procedimenti euristici e conoscitivi. Ci è sembrato dunque che la sua voce fosse particolarmente intonata per questo primo numero di «TransPostCross».
FB: Leggendo il tuo libro, non ho potuto fare a meno di pensare a quello che Calvino diceva venticinque anni fa, nelle Lezioni americane, quando vedeva nella Molteplicità uno dei valori o delle qualità specifiche della letteratura da tramandare al «prossimo millennio», cioè quello in cui viviamo: «La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là d’ogni possibilità di realizzazione. Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura continuerà ad avere una funzione. Da quando la scienza diffida delle spiegazioni generali e delle soluzioni che non siano settoriali e specialistiche, la grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo». Può essere davvero questa, secondo te, la sfida della letteratura nel mondo contemporaneo? RC: Direi proprio di sì, ma devo aggiungere che l’impresa è davvero di quelle che possono apparire, se non proprio disperate, certo ardue e piene di azzardi. Il quadro dei rapporti fra la letteratura (intesa nel senso più
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ampio) e le altre discipline che vien fuori dal mio libro è quello di una situazione piena di contraddizioni, alcune pure positive, ma in grande maggioranza negative, e mi pare che Calvino ne fosse pienamente consapevole. Temo che quelli della mia generazione non abbiano le energie, forse neppure più la voglia (il terribile calo del desiderio!) di affrontare quelle contraddizioni e cercare di risolverle. Toccherà, credo, alle nuove generazioni, e alle nuove comunità umane, magari molto lontane ed esotiche rispetto alla nostra, di fare qualcosa: le vedo affacciarsi sulla scena con una riserva di energie fresche, e anche con un sano disincanto. Le difficoltà, per quanto riguarda la letteratura, nelle varie sue forme (la narrazione, la poesia, la saggistica, il teatro) sono tutte dentro il campo della letteratura (per usare il termine di Bourdieu). Non è solo l’effetto delle leggi del mercato, a cui ormai non si può sottrarre nessuna delle forme di scrittura, anche la più avanguardistica e sperimentale. Non è solo il sempre più forte effetto di banalizzazione e appiattimento sulla scrittura della cattiva comunicazione pubblicitaria, televisiva e in rete (impressionante l’analisi che Gianluigi Simonetti, nel fascicolo del «Ponte» di dicembre 2010, fa dei prodotti dell’industria narrativa «stile Ikea» di scrittori come Baricco, Faletti, Giordano, D’Avenia e, con rilievo particolare, Moccia – se si estendesse l’analisi a scrittori di altri paesi, temo che i risultati non sarebbero molto diversi). Ci sono due modi diversi di scandagliare e rappresentare il mondo della molteplicità. Uno è di accettarne giulivamente gli aspetti più scontati e superficiali, ripeterne tutti i luoghi comuni, accettarne acriticamente tutti i temi (l’indebolimento del soggetto, le chiusure narcisistiche, le crisi familiari e sociali, le scorribande consumistiche, la precarietà del lavoro, ecc.), imitarne tutte le più aggiornate modalità comunicative, eccitandosi nell’esaltarne le tante e diverse manifestazioni fino all’«allergia allucinatoria», al «sublime isterico» e alla «paranoia high-tech» di cui ha parlato Fredric Jameson. L’altro modo è quello di impegnarsi a fondo per conoscere, e rappresentare, questo nuovo mondo. Affrontare, per esempio, il nuovo rapporto tra finzione e realtà (argomento, questo, su cui tu hai riflettuto approfonditamente, per cui ne sai molto più di me); andare a vedere, per esempio, come ha fatto Walter Siti in Troppi paradisi cosa hanno prodotto, nel nostro immaginario, quelli che paradossalmente si chiamano reality shows, oppure porsi ostinatamente di fronte ai grandi fenomeni mediatici, come ha fatto Don DeLillo nel caso dell’attacco terroristico alle torri gemelle: un avvenimento tragico e sconvolgente trasformato, dal continuo passaggio in TV e dall’incrocio con i film catastrofici hollywoodiani, anch’esso in un reality show, o addirittura in simbolo mediatico banalizzato d’una presunta svolta epocale, cercando invece di rappresentarne l’aspetto più drammaticamente creaturale, assumendo una posizione di
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instabilità ontologica e dubbio epistemico (come hai detto benissimo tu nella tua analisi del grande romanzo «Americano» di DeLillo: Underworld – non so ancora dire se Falling Man registri un pieno successo oppure un cedimento della qualità della scrittura, quasi si fosse anch’essa impolverata, come gli abitanti di Manhattan). A proposito del succedersi delle generazioni e della situazione confusa e periclitante in cui si trova la nostra cultura letteraria, mi piace citare quello che scriveva, parlando della sua disciplina – l’antropologia –, Clifford Geertz quando gli capitò, qualche anno prima di lasciarci per sempre, di tracciare un ironico testamento per le generazioni future. Egli si appoggiava alla famosa metafora (vedi l’importanza conoscitiva delle metafore!) usata da Isaiah Berlin, quando contrappose, parlando di Tolstoj, le qualità della volpe e del riccio. Io, che come lui mi sento molto più affine alla volpe che al riccio, credo di poter applicare lo stesso discorso alla mia, alla nostra disciplina: «Le cose non stanno, o almeno così a me sembra, trovando una progressiva armonizzazione, mentre la disciplina [dell’antropologia] muove in modo disordinato verso il futuro. E ciò riflette la direzione, se di direzione si può parlare, in cui il mondo nel suo insieme si muove: verso la frammentazione, la dispersione, il pluralismo, lo smontaggio generale, il multi-, multi-, multi-. Gli antropologi dovranno lavorare in condizioni anche meno ordinate, strutturate e prevedibili, e anche meno suscettibili di riduzioni morali e ideologiche e rabberciature politiche di quelle in cui ho dovuto lavorare io e che [...] erano già abbastanza irregolari. Essendo io una volpe per nascita (è un gene che determina questa disposizione di carattere, accompagnato da irrequietezza, elusività e un’appassionata antipatia per i ricci) questo mi sembra l’habitat naturale dell’antropologo culturale... sociale... simbolico... interpretante. Tempi interessanti, una professione incostante: invidio quelli che stanno per ereditarli (Clifford Geertz, An inconstant profession: The Anthropological Life in Interesting Times, in «Annual Review of Anthropology», 41, 2002, pp. 1-19: 14). FB: Vorrei ripartire dal paradosso con cui apri la tua riflessione: nel momento in cui la letteratura perde prestigio e la critica letteraria abbandona definitivamente le sue velleità «scientifiche», le altre scienze (sia umane che naturali) manifestano un fortissimo interesse per le forme e le modalità espressive del linguaggio letterario, soprattutto la narrazione e l’invenzione metaforica. È davvero una contraddizione oppure sono le facce di una stessa medaglia, il segno che i confini non sono affatto stabili e che viviamo in un orizzonte culturale «liquido», per riprendere da Bauman una metafora (appunto) molto efficace e fortunata?
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RC: Nell’introduzione al mio libro ho ricostruito brevemente la discussioni recenti sull’interdisciplinarietà, riferendo le opinioni, molto scettiche, di Stanley Fish e quelle assai più positive di altri studiosi e fra queste quelle abbastanza moderate e sagge del cognitivista francese Dan Sperber. Egli ha fatto notare che l’attuale struttura e gerarchia delle discipline risale sostanzialmente all’Ottocento, ma che fenomeni recenti (non esclusa la clamorosa diffusione della rete) stanno ridisegnando l’intero panorama disciplinare. Uno studioso di retorica americano, David D. Cooper, che insegna alla Michigan State, in un saggio del 1995 (The Remapping of Interdisciplinary Inquiry, in «Issues in Integrative Studies», 13, pp. 49-58) ha esaltato l’interdisciplinarietà per le sue potenzialità epistemologiche, etiche ed estetiche. Mi è parso che, a incoraggiare il superamento dei confini disciplinari, sia stata in particolare la tendenza, molto diffusa presso molte discipline (anche quelle più forti e strutturate), a utilizzare, non solo nei momenti divulgativi, ma anche in quelli in cui si trattava di esprimere in parole ipotesi e risultati della ricerca, due strumenti retorici che tradizionalmente erano appannaggio del mondo della letteratura e dell’immaginario: la metafora e la narrazione. Per quanto riguarda il discorso metaforico, tradizionalmente avversato dalle culture scientifiche, ho potuto ricostruire un movimento molto consistente, anche da parte degli scienziati, verso un riconoscimento dell’utilità euristica della metafora. Ancora più entusiastica e diffusa la considerazione positiva del discorso narrativo. Lo studioso americano James Bruner, molto noto anche da noi per i suoi studi di psicologia, pedagogia e sistemi cognitivi, ha pubblicato nel 1991 su «Critical Inquiry» un saggio pioneristico intitolato The Narrative Construction of Reality, nel quale ha sostenuto con forza che «la narrazione è una forma non solo della rappresentazione ma anche della costruzione della realtà» e ha invitato i suoi colleghi psicologi, e per estensione tutti gli studiosi interessati a forme di conoscenza, di aggiornarsi attingendo agli studi di narratologia che sono stati elaborati in ambito letterario. Che aspetto ha questa «rivoluzione cognitiva» che si è sviluppata contemporaneamente nei territori interdisciplinari delle scienze umane e di quelle naturali? Faccio un esempio: quello della produzione di romanzi scritti da scienziati. Quello che mi ha colpito, facendo un esame abbastanza ampio (anche se inevitabilmente per campioni) della produzione sterminata di romanzi che caratterizza il nostro tempo, è la straordinaria versatilità del mezzo. Tutti ormai, se sanno tenere in mano la penna e hanno una buona capacità di applicazione (e qualche manuale e ricettario a disposizione, o qualche editor pronto a dare una mano), possono scrivere romanzi raccontando le proprie esperienze (amori, sfizi narcisistici, malattie, lutti, avventure, viaggi, attività creative, attività canore, fortune o sfortune finanziarie della famiglia come altrettanti Buddenbrooks e impegni ideologici o
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politici, campagne per diventare presidenti degli Stati Uniti o segretari e vicesegretari del partito democratico, ecc.). Tutti possono mettere in pagina i propri sogni, incubi, desideri veri o immaginari, le proprie malinconie e crisi depressive. I giovanotti e le signorine di belle speranze raccontano le proprie esperienze infantili o scolastiche e i primi rapporti di amicizia e di sesso. Ogni uomo maturo mette insieme il suo piccolo Bildungsroman, non solo i vecchi professori o i vecchi attori o i vecchi avventurieri raccontano le proprie imprese gloriose o mediocri – ciascuno con il suo blog, un po’ più esteso e strutturato di quelli disponibili in rete. Ma capita anche che un paleontologo come Björn Kurtén, professore prima a Helsinki poi a Harvard, frustrato per le difficoltà di dover ricostruire la vita nelle caverne degli uomini di Neanderthal sulla base di qualche scheletro e qualche antico manufatto, decida, per capire come vivevano quegli antichi popoli, di provare a trasformarli in protagonisti di due romanzi (La danza della tigre, 1978, Zannasola, 1982), facendo un’opera che è al tempo stesso fiction e prova sperimentale di un’ipotesi scientifica. Oppure capita che un grande sociobiologo come Edward O. Wilson, la cui disciplina, da lui stesso lanciata, sta già a cavallo tra due discipline, per di più esperto mondiale nello studio delle formiche, scriva un romanzo molto scientifico (ma anche molto fiction) sulla vita delle formiche intitolato Anthill (Formicaio), e che si guadagni, sulla «New York Review of Books», una recensione entusiastica di una grande e raffinatissima romanziera come la canadese Margaret Atwood. Questa situazione, che non mi pare scorretto definire «liquida» o «fluida», richiederebbe un lavoro di grande responsabilità da parte della critica. La critica, invece, nella grande maggioranza dei praticanti, essendo a sua volta sottoposta alle pressioni del mercato e alle proprie crisi interne, si dimostra, nella situazione odierna, del tutto inadeguata ai compiti che le sono assegnati. Quanto a Zygmunt Bauman, inventore della metafora della società liquida (ricavata, come è noto, da un passo del Manifesto di Marx e Engels del 1848), merita rispetto e un’attenzione non sbadata al suo pensiero, nonostante il profluvio dei suoi libri, articoli e interventi. Di lui e della sua capacità di descrivere miti e comportamenti delle nostre società e di preannunciare nuovi movimenti e valori, mi sono occupato in varie occasioni (per esempio nel saggio Verso una morale liquida?, in L. Ballerini, A. Borsari e M. Ciavolella (a cura di) Navigatio vitae. Scritti per i settant'anni di Remo Bodei, New York, Agincourt Press, 2010, pp. 440-455). Mi preme ricordare che Bauman, oltre a essere un acutissimo osservatore della nostra condizione sociale, ha anche una raffinata formazione letteraria e un gusto sicuro. In un’intervista a Keith Tester (Conversations with Zygmunt Bauman, Cambridge, Polity Press, 2001), alla solita domanda sui libri da portare nell’isola deserta, non ha elencato
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grandi testi filosofici o scientifici ma quattro romanzi, un suo piccolo canone di capolavori: L’uomo senza qualità di Musil, La vita istruzioni per l’uso di Perec, I labirinti dello spirito di Borges e Le città invisibili di Calvino. Quanto a Calvino (da cui Bauman ha raccolto, proprio dalle Lezioni americane, la proposta di includere la leggerezza fra i caratteri dominanti del nuovo clima sociale) ha più volte puntato il suo sguardo acutissimo, come ho ricordato in un saggio (Qualche considerazione sulla modernità liquida, in «La modernità letteraria», 3, 2010, pp. 11-26), sulle qualità e sulle potenzialità metaforiche della liquidità, fluidità o (con maggiore aderenza alla metafora marxiana) della gassosità proprie e specifiche della situazione postmoderna. Già nel 1973, in un saggio raccolto poi in Una pietra sopra, con il titolo L’utopia pulviscolare, Calvino scriveva: «Oggi l’utopia che cerco non è più solida di quanto non sia gassosa: è un’utopia polverizzata, corpuscolare, sospesa». FB: I capitoli del tuo libro sono intitolati agli «altri» – Filosofi, Matematici, Fisici, Chimici, Biologi, Antropologi e Paleontologi ecc. Eppure, credo che i veri protagonisti siano gli scrittori, che la domanda di fondo riguardi non tanto le altre discipline ma la letteratura, il suo ruolo, la sua funzione nel sistema dei saperi e nella società contemporanea. E qui c’è forse un altro paradosso, che riflette su una diversa scala quello da cui parti. Nel momento in cui la letteratura sembra totalmente «inutile» e un Ministro della Repubblica invita beffardamente a farsi un panino con la Divina Commedia, il ricorso alle narrazioni e all’immaginazione letteraria sembra più forte che mai: ogni giorno, come hai detto poco fa, si pubblicano centinaia di romanzi, gli editori si moltiplicano, le facoltà letterarie sono le più frequentate, i festival della letteratura spopolano, Roberto Saviano cattura milioni di lettori o di spettatori con le sue affabulazioni sul mondo reale. Al tempo stesso, i critici letterari sembrano chiudersi sempre più in un «circuito senza finestre», come notava qualche anno fa Mario Lavagetto in Eutanasia della critica, che anche tu citi nel tuo libro. Che cosa sta succedendo? E soprattutto, che cosa si può fare? RC: Accennavo prima a questa situazione così fluida (o liquida) e alle grandi responsabilità della critica. Anche qui mi pare che il problema non stia soltanto nelle regole interne dell’istituzione letteraria («io presento il tuo libro alla libreria Feltrinelli, tu presenti il mio al Mondadori Multicenter o da Mel Books, tu fai una passata a Domenica in e io da Fazio, io ti recensisco su «Alias» e tu su «Alfabeta», e speriamo che gli uffici stampa delle case editrici e le giurie dei premi letterari facciano bene il loro dovere»); non soltanto nei principi etici che richiedono trasparenza, chiarezza e onestà di giudizio, ma nella forte carenza di ragioni teoriche e di concezioni serie e
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aggiornate della letteratura. Conosciamo tutti le denunce della crisi che sono state pronunciate in anni recenti da studiosi autorevoli come Segre e Lavagetto. Segre, in Notizie dalla crisi (1993), ha denunciato lo stato di disorientamento di molta dell’attività critica attuale, cercando nel contempo di salvare il salvabile della grande stagione della critica di orientamento strutturalistico e semiotico, e al tempo stesso provando prudentemente ad aprirsi verso più recenti proposte metodologiche, come la critica della ricezione e le varie fenomenologie dell’interpretazione. Lavagetto, con visione anche più decisamente pessimistica, ha denunciato con forza lo stato di grave difficoltà in cui versa l’intero establishment critico italiano, in particolare quello accademico, ma anche quello che interviene su riviste e giornali. Difficile dargli torto. Se si guarda alla produzione media della critica italiana, soprattutto dei giovani, quello che si nota, accanto agli effetti poco entusiasmanti del sistema accademico ed editoriale para-universitario (scelta dei temi di studio spesso ripetitiva e scontata, persistente presenza di metodi di ricerca ormai stanchi e ipersfruttati, mancanza di un serio sistema di filtraggio che sarebbe richiesto dalla trasformazione di un lavoro di tesi in un vero libro di critica), c’è un forte calo di tensione teorica e consapevolezza critica. In molti studi della giovane critica italiana si avverte un generale disorientamento, una tendenza, nonostante le evidenti aperture al mondo e la disponibilità di una quantità di dati, modelli, suggestioni, a seguire da una parte le ultime mode che vengono dall’Europa e d’oltre oceano, e dall’altra parte a scegliersi alcuni padriispiratori senza esercitare una qualche capacità discriminatoria (accanto ai residui dello strutturalismo e del poststrutturalismo, un ritorno di interesse per la mimesi di Auerbach; accanto alle idee molto originali di Bachtin o alla sociologia critica di Bourdieu, le posizioni severe e fortemente engagé di Said; accanto alla nostalgia per un mondo di grandi valori di critici come George Steiner e Harold Bloom, il neopositivismo darwiniano di Moretti, e così via). Quello che sembra mancare è una capacità di assorbire criticamente le varie istanze teoriche e di metterle a frutto, magari anche combinandole intelligentemente fra loro, tentando strade nuove. Fra gli esempi degli effetti deleteri che possono avere anche grandi maestri, se assunti acriticamente, mi soffermo su Steiner e Bloom. Nelle proposte di entrambi i critici, pur nella diversità dei loro orientamenti, avverto infatti dei forti limiti e la presenza di idee e proposte non convincenti, che meriterebbero di essere discusse o confutate. In questo contesto, accenno solo (e con in mente le possibili reazioni italiane) a uno dei limiti più grossi, che pur nella diversità accomuna i due critici. Essi sono entrambi forniti di una carica polemica molto forte verso le teorie letterarie di moda, entrambi si schierano a difesa di valori «alti» e di tradizioni prestigiose e sublimi. Bloom
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anzi è il maggior rappresentante di una tradizione critica che si è fortemente impegnata nella ricostruzione di un canone della letteratura sublime, alle cui origini egli pone la Jahvista della Bibbia e Omero, e alle estreme propaggini la lirica di Wallace Stevens. Ebbene, c’è un rischio molto forte nella ricerca continuata e un po’ angosciosa della dimensione letteraria del sublime. È il rischio che si accompagna sempre all’esperienza delle atmosfere rarefatte e delle vertigini: chi frequenta solo i picchi più alti e aspira alle cime delle montagne circondate da nubi e da brume, corre continuamente il pericolo di farsi venire le traveggole; chi ambisce a parlare a lungo, da solo a solo con Jahveh, come Mosè sul monte Sinai, corre a sua volta e continuamente il pericolo di ridursi a voce rintronante sull’abisso, di trasformarsi in profeta, di perdere troppi altri aspetti e troppe altre modalità della comunicazione umana di tipo letterario. Quanto a Steiner, i rischi che egli corre sono forse meno gravi ma tuttavia incombenti. Quando egli si impegna, con discorsi solenni ma anche generici, a difendere a oltranza la «grande tradizione», la letteratura «alta» dai contenuti forti e problematici, la tragicità letteraria (oppure a infilare geremiadi sulla morte della tragedia e della letteratura), il rischio che egli corre è quello di una possibile caduta nella banalità, nella seriosità un po’ noiosa: parlare direttamente e soltanto con Dio, saltando tutte le mediazioni e i commenti, avvicina di certo alle grandi verità, ma può avere l’effetto di farci sentire quanto Dio sia a sua volta limitato, coglierlo nel ruolo di vecchio brontolone, di sapientone logorroico. Il rischio, dal punto di vista della pratica critica, è quello di scrivere, in tono alto e sentenzioso, delle verità esistenziali che hanno una loro consistenza assai più banale e quotidiana. FB: Tornando al tuo libro, direi che l’aspetto che colpisce maggiormente è la ricognizione nell’ambito delle scienze naturali. Quello delle «due culture» è dunque un mito ormai tramontato, un idolo al crepuscolo, oppure c’è ancora molta strada da fare? Per esempio mi viene da pensare, in un momento così drammatico per l’università italiana, alle persistenti diffidenze e incomprensioni tra l’area umanistica e quella scientificotecnologica, spesso accompagnate da speculari complessi di superiorità e inferiorità (uno dei canonici terreni di scontro è la valutazione della ricerca). Ma alla fine, chi ci guadagna? Forse la terza categoria di discipline di cui parli nella Conclusione, quelle tradizionalmente escluse dalla vecchia università humboldtiana e oggi vincenti?
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RC: Mi è capitato in più di un’occasione di criticare la facile contrapposizione, molto diffusa nei discorsi sull’università, tra le facoltà scientifiche e quelle umanistiche. L’università humboldtiana era costituita solamente dalle principali facoltà umanistiche e scientifiche. Esse offrivano una formazione di grande qualità culturale e una preparazione di base e metodologica in funzione della cosiddetta «università di ricerca»: la formazione avveniva in forma integrata e collaborativa, preferibilmente per studenti che andavano a abitare in collegi e residenze nelle città universitarie (Heidelberg, Oxford, Parigi, Bologna, Padova, Salamanca, Coimbra, Praga, ecc.), il che serviva a rinsaldare lo spirito di corpo e a favorire lo scambio intellettuale (spesso anche la partecipazione politica) in modi possibilmente non competitivi. Questa impostazione giustificava anche il fatto che a farsi carico del costo generale dell’istituzione fosse lo Stato: i risultati della formazione e della ricerca ricadevano sull’intera comunità, accrescevano il generale livello culturale, distribuivano socialmente i frutti e incrementavano la consapevolezza democratica delle classi dirigenti. (Molti ricorderanno la vicenda, nei Buddenbrooks di Thomas Mann, dello studente Morten, il primo amore di Tony). A questo tipo di università (l’unica che ne giustificasse il nome, appunto, di universitas) se ne affiancò, già nei tempi antichi (anche molto prima di Humboldt), un secondo tipo, orientato alla formazione professionale, spesso su basi più decisamente competitive e legate individualmente al merito, in certi casi all’acquisizione di brevetti da parte di singoli ricercatori o gruppi di ricercatori: sono le scuole di medicina, di legge, di ingegneria e altre scuole di formazione tecnica (i Politecnici). In molti casi non si chiamavano neppure Università, ma Hochschulen in Germania e Svizzera, Medical Schools, Law Schools e Institutes of Technologies negli Stati Uniti: erano orientate alla formazione delle professioni «alte», anche se spesso erano ovviamente collegate con i centri di ricerca del primo tipo (le scienze di base, lo sviluppo delle nuove scienze, spesso stimolato dalle ricadute applicative). Questo tipo di università giustificava un po’ meno il finanziamento pubblico, anche se spesso esse combinavano formazione professionale e artistica (le facoltà di architettura, i DAMS) e altrettanto spesso mantenevano fede al principio dell’utilità e del servizio sociale (la salute pubblica, l’economia, la formazione politica, il sistema scolastico, il sistema giudiziario, con distinzione non troppo netta fra le carriere degli avvocati e dei magistrati, e così via) e stabilivano che i brevetti non potevano essere appannaggio dei singoli ricercatori o gruppi di ricercatori ma dell’istituzione che aveva fornito il supporto e l’ambiente adatto alla ricerca. Le cose sono cambiate nettamente quando nelle università sono state inserite facoltà che hanno pochissimi rapporti con la ricerca e molti di più con le professioni: le business schools, le schools of management e
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simili, nelle quali si insegna come avere successo negli affari e nell’imprenditoria. Le grandi università di ricerca (come Cambridge, Harvard, Tübingen) hanno a lungo resistito alla pressione di inserire queste scuole nel sistema delle loro facoltà, ma hanno dovuto cedere. A Harvard, per esempio, la scuola di Business administration fu introdotta contro il parere di Thorstein Veblen e in nome delle ragioni sostenute dal presidente Charles Eliot nel 1908: «Il business nelle sue forme più elevate è divenuta una professione altamente intellettuale». Pian piano quelle presenze, e i loro valori, si sono imposti anche alle altre facoltà (come ha spiegato molto bene Bill Readings nel libro The University in Ruins, Cambridge, Harvard University Press, 1996), trasformando le università in aziende, great corporations, che obbediscono ai criteri della competizione e dell’eccellenza (parole d’ordine sulla bocca di tutti i ministri e rettori ormai da molto tempo). Ad esempio, il progetto elaborato in Francia da Claude Allègre, consigliere speciale di Lionel Jospin quando questi era ministro della pubblica istruzione, dal 1988 al 1992, ed esposto nel rapporto intitolato L’Âge des Savoirs. Pour une renaissance de l’Université (Paris, Gallimard,1993), si muoveva precocemente in questa direzione e si basava su parole d’ordine che sono divenute comuni in tutta Europa negli anni seguenti: «Abbiamo cercato di operare la riforma aprendo l’Università che era chiusa su se stessa e mettendola in più stretto contatto con la città […]. L’apertura dell’Università verso la città è conforme alle esigenze delle attività professionali […]. L’apertura dell’Università verso la conoscenza: è lo sforzo di rinnovare la ricerca e riconoscere l’eccellenza[…] L’integrazione dell’Università francese nel sistema europeo: è questo il significato di una valutazione di tipo europeo […]». La trasformazione dell’università in prevalente scuola professionale rende naturalmente meno difendibile l’investimento finanziario pubblico: non ha molto senso che lo Stato finanzi la formazione di un manager che, senza nulla dare in cambio alla comunità, andrà poi a fare lautissimi guadagni privati nel settore imprenditoriale con un forte spirito competitivo (le statistiche sul crescente scarto fra gli emolumenti dei grandi manager e quelli di chi opera negli altri settori sono impressionanti). Lo squilibrio derivante da queste trasformazioni fa sì che sia i settori tradizionali della ricerca umanistica sia quelli della ricerca scientifica pura soffrano in pari misura e in modo convergente di scarse risorse e vengano, per di più, omologati ai settori professionalizzanti e sottoposti a procedimenti interni di valutazione ricavati dai modelli aziendali: come si fa a misurare il rendimento di uno studioso di letteratura? Come si fa a stabilire l’utilità immediata di un prodotto artistico, di un pensiero filosofico, di una ricostruzione storica, o anche di un elemento nuovo della conoscenza scientifica?
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La situazione è molto preoccupante e non vedo facili vie d’uscita. Non la vedeva facile neppure Bill Readings, il quale, fra l’altro, è morto in un incidente aereo, senza mai vedere pubblicato il suo libro. Egli era stato, non a caso, il divulgatore in inglese della Condition postmoderne di Lyotard. Il suo punto di osservazione era quello di una persona familiare con il sistema universitario inglese e francese, che si trovava a operare in una società dalla doppia appartenenza linguistica e culturale come quella canadese e che assisteva, attraverso i contatti frequenti con le università americane, ai cambiamenti in corso in quel sistema accademico potente e influente, oltre che in forte sviluppo e trasformazione. Mi permetto di parlarne in modo abbastanza dettagliato e con citazioni precise, in questo momento di crisi molto grave dell’università italiana, perché curiosamente (o no?) il libro non è mai stato tradotto in italiano e credo che possa aiutarci a sbrogliare alcune delle questioni che sono state accesamente dibattute negli ultimi tempi (penso a interventi come quelli di Pierluigi Pellini, La riforma Moratti non esiste, Milano, Il Saggiatore, 2006, e di Raul Mordenti, L’Università struccata, Milano, Punto rosso, 2010). Readings propone di partire dall’accettazione del fatto che l’università moderna (potremmo dire, usando la terminologia di Bauman, l’università della modernità solida) è ormai un’istituzione «in rovina»: «Quelle rovine non devono essere l’oggetto di una nostalgia romantica per una compiutezza perduta ma il luogo dove si può tentare di trarre un vantaggio dal fatto che l’università non abita più una storia continua di progresso, o di disvelamento di un’idea unificante». Abitare le rovine dell’università vuol dire quindi prestare una seria attenzione alla complessità presente del suo spazio, intraprendere il lavoro infinito del détournement degli spazi che ci sono imposti da una temporalità in cui non abitiamo più, costruire una comunità del non-consenso (dissensual community). Su quali elementi,allora, può puntare l’università concepita come dissensual community? Readings si sofferma a lungo, con ragionamenti spesso originali, su quattro fattori: 1) Il fattore tempo. L’insegnamento universitario va sottratto alla logica burocratica e ragionieristica delle «ore-credito» e, aggiungo io, dell’impianto teorico (e ancora più dell’attuazione pratica) del modello 3+2. L’educazione non può essere misurata in porzioni fisse di tempo. «Già Freud, in Analisi terminabile e interminabile, ha fatto notare che la professione dell’educatore, così come quelle dello psicoanalista e del governante, è una professione impossibile, sistematicamente refrattaria a una conclusione. Ciononostante la concezione del tempo pedagogico come tempo pienamente calcolabile è uno degli elementi caratterizzanti della spinta verso l’eccellenza. Il calcolo del tempo per concludere un ciclo educativo è presentato come il criterio universale di
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qualità ed efficienza nell’educazione». Readings cita in proposito numerose esperienze statunitensi e canadesi, proponendo allora di mantenere la questione del tempo e del valore dell’esperienza educativa aperti, non accettando né la logica ragionieristica dei burocrati né ignorandola in nome dei valori assoluti e trascendenti del processo educativo. 2) Il fattore valutazione. Readings dichiara che le sue critiche molto aspre alla nozione di eccellenza non significano da parte sua una rinuncia ai compiti della valutazione, sia del lavoro degli studenti sia di quello degli insegnanti, se non altro perché la valutazione comparativa, collegata a criteri di produttività, sta diventando uno strumento fondamentale per la distribuzione delle risorse, gli avanzamenti di carriera dei professori, il calcolo dei loro stipendi. La valutazione che gli studenti a loro volta sono chiamati a dare, sempre più frequentemente, della qualità dell’insegnamento che ricevono risponde a una loro generale trasformazione in consumatori di servizi. Sono tendenze ormai irreversibili contro le quali Readings propone, di nuovo, una strategia di accettazione della valutazione ma al tempo stesso di rifiuto del principio che la qualità nell’educazione sia suscettibile di calcolo statistico: «Si tratta di rifiutare ogni equazione fra responsabilità (accountability) e contabilità (accounting)». Readings fa l’esempio di una domanda inserita in un questionario distribuito agli studenti, nel quale veniva chiesto se il professore avesse rispettato nelle sue lezioni il programma annunciato all’inizio del corso: una risposta positiva avrebbe comportato un certo punteggio nella valutazione e quindi benefici per la carriera del professore. La domanda presumeva che un tale comportamento, ottemperando al rispetto di quanto previsto dal contratto, fosse automaticamente encomiabile; ma ci sono dalle buone ragioni per pensare che un professore abbia il diritto di strappare il programma e rifarlo completamente nel caso si accorgesse che il livello culturale della classe non è adatto a svolgerlo. 3) Il fattore studenti. Gli studenti delle nostre università (Reading pensa naturalmente alle generazioni posteriori al ’68) possono offrire, per le loro stesse caratteristiche e i loro atteggiamenti culturali, un elemento di resistenza. Readings punta sul loro rapporto problematico con la modernità (solida). Essi non sono un «soggetto moderno» perché hanno un rapporto difficile e provvisorio con la sfera pubblica, con il mondo del lavoro, con la cittadinanza. Avendo una indefinita collocazione sociale per la strana condizione di temporaneità che è insita nel loro ruolo, gli studenti sono nella posizione di poter elaborare una critica alla possibilità che la società si autorappresenti a se stessa, si auto-definisca attraverso l’esercizio autonomo della propria volontà (questa la presupposizione sulla base della quale la democrazia moderna fonda la sua pretesa di autorità). La condizione
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sociale della modernità che gli studenti disvelano è fatta di differenza (la constatazione che esistono gli altri) e di non-equivalenza temporale (il differimento, termine derridiano). Nati al tempo stesso troppo presto e troppo tardi, gli studenti devono ancora imparare a parlare il linguaggio della cultura nella quale sono nati e che, giustappunto, li precede. Né la nostalgia né l’educazione possono risolvere il loro malessere: compiangere la cultura perduta vorrebbe dire cadere in un atteggiamento conservatore, dimenticare la tradizione e slanciarsi verso uno splendido mondo nuovo aprirebbe alle derive di un atteggiamento modernistico-progressista. La relazione pedagogica non è fatta di trasparenza, comunque questa venga intesa, come svelamento dei significati del linguaggio (gli idealisti tedeschi), di pura trasmissione di informazioni (i tecnocrati) o di ricerca di un consenso professionale (Stanley Fish e Habermas). 4) Il fattore etico nel dialogo pedagogico. Le attività dell’insegnamento e dell’apprendimento vanno intese non come mezzi per la trasmissione di conoscenza scientifica ma come luoghi dell’impegno (obligation), spazi di pratiche dalla dimensione etica. La scena educativa va sentita come forma radicale di dialogo: in senso bachtiniano più che habermasiano (aggiungerei anche un rinvio alla teoria del dialogo di Martin Buber). Il dialogo di Bachtin non è semplicemente la capacità di monologhi alternati o seriali, lo scambio di ruoli che permette agli interlocutori di divenire a turno dei produttori di monologhi (come lo era per Socrate). La testa del destinatario è piena di linguaggio e per questo la favola della trasmissione comunicativa non può descrivere adeguatamente ciò che accade nell’interazione linguistica. Interdiscorsivo anziché intersoggettivo, il ricevente non è un punto virtuale di coscienza (la tabula rasa della ghiandola pineale in ascolto, come avrebbe voluto Cartesio). Qualsiasi coscienza è coscienza del linguaggio nella sua molteplicità eterogenea. «Insisto nel dire sottolinea Readings che la pedagogia, al di là dell’attrazione per l’autonomia e l’indipendenza da qualsiasi impegno, è un rapporto, una rete di impegni». In questo senso possiamo forse parlare dell’insegnante come retore piuttosto che maestro, una persona che parla in un contesto retorico e non una il cui discorso trova in se stesso la propria autorità. Readings insiste a lungo su questo punto: insegnare non è semplice comunicazione; l’insegnante non deve né persuadere gli studenti né fondersi con essi. L’apprendimento è un processo interminabile che ha come referente interno un impegno etico e come referente esterno il Pensiero (scritto con la maiuscola, inteso come domanda anziché come una serie di risposte, come ricerca di aporie e contraddizioni). La scena didattica è basata su una asimmetria e un rapporto fra disuguali, e come tale va affrontata con delicata coscienza e impegno etico. Meglio il seminario della lezione, meglio l’analisi delle incertezze che l’imposizione di certezze.
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Federico Bertoni
FB: C’è un’altra domanda che mi pongo spesso a proposito dell’interdisciplinarietà e in particolare del rapporto tra scienza e letteratura, questa volta in forma di perplessità. Non c’è il rischio che questi sconfinamenti disciplinari sfocino in risultati un po’ generici e superficiali? Da un lato, certi richiami alla letteratura da parte delle altre discipline appaiono piuttosto ingenui, e d’altro canto l’uso di una strumentazione scientifica da parte dei critici letterari rischia talvolta di limitarsi a un dignitoso dilettantismo, soprattutto quando le competenze sono estremamente tecniche e specializzate (penso ad esempio ai recenti sviluppi della narratologia cognitiva e ai tentativi di far dialogare critica letteraria e neuroscienze). È possibile un trasferimento effettivo di paradigmi e di metodi di ricerca, o si resta sempre nell’ambito del pensiero analogico, come quando Giacomo Debenedetti utilizzava le scoperte della fisica subatomica per descrivere il romanzo novecentesco? RC: Effettivamente, il pericolo di un rapporto superficiale tra alcune discipline scientifiche, i loro obbiettivi e i loro linguaggi e il mondo dell’immaginario e i linguaggi della letteratura è frequente, a volte abbastanza innocuo, certamente non di grande significato culturale. Quando alcuni praticanti della medicina invocano una formazione anche letteraria e una capacità di impostazione retorica e narrativa dei loro discorsi, probabilmente non vanno molto oltre la richiesta di un atteggiamento di umana comprensione e attenzione psicologica nel rapporto fra medico e paziente e un rifiuto di specializzazioni troppo accentuate e di cure molto settoriali e tecnologiche delle varie parti del corpo umano colpite da una malattia. Quando, d’altra parte, alcuni critici letterari (tu ricordi De Benedetti, ma andrebbe citato almeno anche Gianfranco Contini) si compiacciono di utilizzare, nei loro discorsi di analisi critica, metafore e terminologie prese a prestito dai mondi della scienza, non si va spesso al di là di un vezzo intellettuale o di una ricerca di eleganza ed efficacia retorica nel loro linguaggio e nel loro stile. Più interessanti mi paiono altre forme di collaborazione fra le discipline e fra i due mondi culturali. Abbiamo citato Calvino: certamente il suo rapporto con le scienze, sia quelle naturali (vedi le Cosmicomiche e il frequente rinvio ai problemi della cibernetica e dell’entropia) sia quelle umane (in particolare l’antropologia), è stato tutt’altro che dilettantesco e occasionale e ha inciso profondamente sui suoi discorsi. E potrei ricordare molti altri casi di proficuo rapporto fra mondo scientifico e mondo letterario, da Primo Levi a Thomas Pynchon a Michel Houellebecq: tutti casi che smentiscono la tesi di C. P. Snow delle due culture separate da reciproca ignoranza.
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Nel mio libro ho anche dato abbastanza spazio alle proposte di vari studiosi (biologi, neuroscienziati, teorici della letteratura) sia americani sia francesi sia israeliani, di convergenza fra studi letterari e neuroscienze e di proposta di fondazione di una «poetica cognitiva». Siamo a tentativi ancora abbastanza acerbi, ma le considerazioni di uno stimato studioso di letteratura come Paul Hernadi, di cui riferisco nel libro, sono indicative se non altro di una nuova e possibile direzione di ricerca. Hernadi, fra l’altro, ha preso a prestito una metafora a cui hanno fatto ricorso due suoi colleghi a Santa Barbara, la psicologa Leda Cosmides e l’antropologo John Tooby, quella del coltellino multifunzioni in uso nell’esercito svizzero, per spiegare il concetto di «mente modulare», cioè la capacità del cervello umano di adattarsi alle circostanze più diverse e di operare contemporaneamente diversi compiti mentali. Possiamo utilizzare questa metafora per giustificare, anche nell’esercizio della critica letteraria, funzioni diverse come descrizione e immaginazione, osservazione e interpretazione. Mi pare interessante, a questo proposito, ricordare un caso recente di rapporto fra due discipline diverse, sullo sfondo di una evidente conoscenza dei temi e problemi della letteratura. Le considerazioni con cui il sociologo Giuseppe De Rita ha accompagnato il Rapporto Censis 2010 Sulla situazione sociale del paese (Roma, Fondazione CensisFranco Angeli) hanno fatto ampio uso dei concetti e delle analisi di uno psicanalista lacaniano come Massimo Recalcati, uno studioso che si occupa dei problemi dell’anoressia e della depressione di cui ho parlato abbastanza a lungo nel mio libro. Nel suo recente lavoro L’uomo senza inconscio (Milano, Cortina, 2010), Recalcati ha elaborato, sulla base della sua pratica analitica ma anche di ampie letture filosofiche e letterarie, i concetti della «fluidità», dell’«evaporazione del padre», del narcisismo, dell’improvviso blocco delle pulsioni in seguito alla pratica caotica e ripetitiva del godimento a tutti i costi. Queste, secondo lui, le caratteristiche dominanti del soggetto contemporaneo che vive una situazione di grave disagio. De Rita, spostando la sua normale analisi dai temi sociologici a quelli psicologici, ha per l’occasione utilizzato concetti molto simili a quelli di Recalcati. Se n’è accorta la giornalista del «Manifesto» Ida Dominijanni, che ha scritto un articolo sull’argomento, cui sono seguiti vivaci dialoghi, sia sul giornale sia nelle trasmissioni di RadioTre, fra De Rita e Recalcati, nei quali sono stati ribaditi da una parte la difesa della distinzione fra i due campi di riflessione, sociologico e psicologico, sia la possibile convergenza su alcuni temi importanti dei due punti di vista.
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Federico Bertoni
FB: Ovviamente, l’altra faccia del dilettantismo è lo specialismo un po’ asfittico. Tu dici giustamente che, tra gli studiosi di letteratura, «quelli che se la passano peggio sono quelli che hanno scelto di chiudersi nella dimensione ristretta di una specializzazione». È appunto la sfida all’apertura dei saperi, a praticare un metodo comparatistico di cui sei stato pioniere in Italia. Ma come valuti il rischio contrario di guardare la letteratura troppo «da lontano», secondo quella pratica del distant reading suggerita in modo provocatorio da Franco Moretti? Romano Luperini, in un saggio di qualche anno fa, lamentava una nefasta divaricazione tra il critico come specialista e il critico come «intrattenitore e tuttologo che svolge percorsi tematici fra arti e discipline diverse assumendo la letteratura tutt’al più come documento di qualcosa d’altro». Esiste una possibile via di mezzo? RC: Forse non esiste, e comunque è da evitare, la via di mezzo o di compromesso. I compromessi sono forse utili in diplomazia, ma non nella riflessione filosofica, dove comportano rinunce e un abbassamento della tensione conoscitiva. Cosa diversa è l’eclettismo, ben rappresentato secondo me dalla metafora del coltellino multifunzioni dell’esercito svizzero. Il possibile rimedio alla questione posta da Moretti, che riguarda non tanto i metodi di ricerca quanto l’apertura dei suoi orizzonti su un piano mondiale, è suggerito, con una buona dose di saggezza, sia dalle critiche (anche molto severe) mossegli da un noto francesista inglese, Christopher Prendergast (Evolution in Literary History, in «New Left Review», 2005), sia da quelle di un giovane comparatista americano, David Damrosch (What is World Literature?, Princeton, Princeton University Press, 2003). Damrosch ricorda come Moretti, in un saggio apparso anch’esso nella «New Left» (Conjectures on World Literature, 2000), avesse utilizzato a sua volta due metafore, quella dell’albero e quella dell’onda, per proporre una netta distinzione fra lo studio di singoli testi condotto da specialisti, portati a considerarli ramificazioni di un unico albero genealogico nel quadro di un sistema nazionale, e lo studio di modelli di trasformazioni a ondate, su un’ampia base mondiale, condotto da comparatisti di impostazione globale. Damrosch obiettava: «Quelli di noi che non se la sentono di abbandonare in modo così risoluto i piaceri del godimento di singoli testi, probabilmente non possono essere d’accordo con Moretti. Uno studio della letteratura sulla base del sistema-mondo ha gli stessi problemi che a suo tempo ha incontrato chi ha cercato di applicare i principi dello strutturalismo linguistico a testi letterari complessi. Essi riuscivano a identificare alcune strutture profonde, ma gli effetti letterari spesso sono raggiunti con mezzi altamente individuali, e la grammatica generativa dei testi narrativi incontra grosse difficoltà a penetrare in testi
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un po’ più elaborati di un racconto folclorico o di una trama poliziesca. Quel che vale per i testi, vale anche per le culture: le singole culture si prestano solo parzialmente a un’analisi di modelli comuni di tipo globale. Come ha detto anche Wallerstein (il teorico dei sistemi mondiali a cui si è ispirato Moretti, autore di The National and the Universal: Can There Be Such a Thing as World Culture?, in A. King (a cura di), Culture, Globalization and the World System, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997, pp. 97-105), «la storia del mondo si è sviluppata in netta controtendenza rispetto all’omogeneizzazione culturale; la tendenza piuttosto è stata verso la differenziazione culturale, l’elaborazione culturale, o la complessità culturale. La conseguenza è che ogni approccio sistemico nei nostri studi deve essere controbilanciato con un’attenzione ravvicinata ai linguaggi particolari, alle specificità del testo: dobbiamo essere capaci di vedere contemporaneamente la foresta e i singoli alberi». FB: Per chiudere, torno a una questione cruciale che ha inaugurato la teoria letteraria novecentesca ma che non mi sembra affatto tramontata: il carattere specifico della letteratura. Ovviamente non penso affatto, come i formalisti di un secolo fa, e probabilmente come Bloom e Steiner che citavi prima, a una qualità intrinseca, a una sorta di quintessenza del discorso letterario, ma a una precisa funzione storica e culturale, al ruolo contingente della letteratura (cioè qui e ora) nel sistema delle arti e dei saperi. Credo che il tema di fondo del tuo libro sia proprio questo, come emerge peraltro in modo esplicito, sempre in forma di paradosso, nelle ultime pagine. Sempre Calvino, che ha visto restringersi gradualmente gli spazi per una «letteratura come presenza attiva nella storia», non ha mai rinunciato a questo sapere forse residuale ma insostituibile, sempre in cerca di «quella particolare intelligenza del mondo che la letteratura e solo la letteratura può dare». Anch’io, come te, sono ottimista per natura e non amo i catastrofisti per partito preso. Ma secondo te possiamo ancora crederci? Soprattutto quando scriviamo saggi che saranno letti da una manciata di persone, o quando entriamo in un’aula e ci rivolgiamo a studenti che dovranno lottare per costruirsi un futuro? RC: Per quanto riguarda la parte della tua domanda che si riferisce al nostro lavoro di insegnanti e al rapporto con gli studenti, rinvio a quanto ci siamo detti più indietro e in particolare alla strategia di resistenza suggerita da Readings. È evidente che, per poter credere in una simile strategia e per impegnarsi ad applicarla, bisogna essere convinti dell’utilità, per qualsiasi progetto educativo e anche per qualsiasi battaglia culturale, degli studi umanistici e anche di quelli dedicati ai testi che siamo abituati a considerare «letteratura».
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Federico Bertoni
È anche evidente che non possiamo più dare per scontate le idee che hanno a lungo dominato nel mondo della modernità sulle qualità intrinseche e assolute delle opere letterarie, dotate di valore estetico imperituro. Un sano relativismo (che ha ispirato molte delle mie pagine nella Guida allo studio della letteratura, Roma-Bari, Laterza, 1999) ci porta a ritenere che la letteratura abbia molte caratteristiche in comune con altre forme di comunicazione e discorsi in uso presso le comunità umane e abbia anche importanti affinità con altri modi di simbolizzazione e trascrizione culturale della realtà. È tuttavia possibile, di volta in volta, a seconda delle situazioni storiche e dell’atteggiamento di chi si avvicina a essi, identificare testi che hanno una particolare complessità formale e densità tematica, e una potenzialità (non eterna, ma che può persistere a lungo nel tempo) di parlare a successive generazioni umane, ispirare sentimenti e pensieri di grande spessore, suggerire comportamenti di alto valore etico. Nel mio libro riporto, su questo argomento, riflessioni significative di Martha Nussbaum. Ciò che mi preoccupa è la forte persistenza, nel nostro mondo letterario, anche fra esponenti molto colti e raffinati, di concezioni residuali, tutte improntate alla contemplazione quasi mistica del testo letterario. Quando leggo la risposta che un giovane scrittore (classe 1978) ha dato su una rivista alla domanda «Perché scrivi?» così concepita: «Per parlare di Dio», o quella che ha dato alla domanda sugli ingredienti necessari per creare il capolavoro di domani: «La percezione sensoriale del mistero» – quando leggo queste cose mi cascano le braccia. E ancor più mi cascano quando leggo la risposta data sulla stessa rivista da una giovane scrittrice (classe 1979) sempre alla prima domanda: «Perché mi rende felice». Non credo che la letteratura abbia il compito di rendere felice né chi scrive né chi legge. I praticanti della letteratura tendono, purtroppo, a essere tutti chiusi su se stessi, non sentono il bisogno di uscire nel mondo, di porsi i problemi duri della conoscenza, del conflitto delle idee, delle scelte oggi sempre più ardue della rappresentazione letteraria.