Diaco, la storia in franco fortini l’io e i destini generali

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La storia in Franco Fortini: l’io e i destini generali Francesco Diaco

Si può affermare, con una formulazione apodittica ma non troppo inesatta, che ogni verso e ogni riga della imponente produzione di Franco Fortini siano nati da un confronto con la Storia: che si pongano dentro di essa o piuttosto «contro» e «di fronte» 1, le sue opere non possono prescindere da tale dimensione né chiudersi in un’altezzosa autonomia. «I ricordi di guerra diventano allegorie» 2, metafore ossessive che ricorrono nelle ra ccolte; Fortini lirico si trasforma « in uno stratega, in un soldato », in un poeta che «ha bisogno di sentirsi» sempre in battaglia «perché solo in tal caso egli esiste, e trova una necessità al proprio esistere » 3. Tutto ciò, però, è abbastanza risaputo e c erto non sorprende chi conosce le peculiarità dell’impegno politico -culturale fortiniano. È più probabile, invece, che ancora non siano stati sufficientemente valorizzati quegli scritti, in maggior parte prosastici (potremmo dire di non-fiction ), in cui l’autore affronta più direttamente il tema storico, distinti dalla saggistica propriamente detta a causa di una torsione esplicitamente soggettiva e narrativo -memoriale. Si tratta di opere ovviamente diverse tra loro, composte nell’arco di circa un ventennio, ma accomunate proprio da questo statuto ambiguo, oltre che da un notevole interesse documentario e da una innegabile carica espressiva. Il nostro proposito è di analizzare diffusamente due di esse (quelle in cui l’io è coinvolto in prima persona nelle az ioni belliche), mostrandone le caratteristiche

specifiche,

per

giungere

in

un

secondo

momento

a

individuare alcune costanti comuni e riflettere su questioni di portata più ampia. F. Fortini, Un vero veduto dalla mente (1981), in Id., Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di V. Abati, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 315. 2 A. Berardinelli, Poesia del dopoguerra, in F. Brioschi e C. Di Girolamo (a cura di), Manuale di Letteratura Italiana. Storia per Generi e Problemi, 4, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 458. 3 P.P. Pasolini, Le ossessioni di Fortini, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, p. 1192. 1

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1. La guerra a Milano Fortini si dedicò alla stesura di questo testo – che copre le vicende vissute dall’io in qualità di sottotenente dell’esercito italiano tra il 22 luglio e il 14 settembre 1943 – nell’autunno di quello stesso anno, cioè durante la propria permanenza nel campo profughi di Adliswil, vicino a Zurigo. Il manoscritto fu consegnato a Ignazio Silone che, a sua volta, lo propose all’editore Oprecht per la pubblicazione; l’ imprimatur, però, fu negato dalle autorità svizzere che – per preservare la propria neutralità – avevano vietato ai rifugiati la possibilità di d iffondere testi di carattere militante. Una parte del testo, in ogni caso, uscì a puntate nel 1945 su «Libera Stampa», quotidiano socialista ticinese, e sull’«Avanti!» nel 1953; fino alla confluenza nel volume mondadoriano del 1963, accompagnato da Sere in Valdossola . La struttura topologicamente tripartita (Firenze, dove il protagonista rivede familiari e amici durante un periodo di licenza; Milano, in cui svolge servizio d’ordine e assiste ai bombardamenti alleati; il confine lombardo elvetico, dove è am bientata la fuga in esilio in seguito all’Armistizio di Cassibile) lascia intravedere uno dei filoni principali del libro: il percorso di Bildung del soggetto, il distacco dal passato, la certezza di una cesura storica. In apertura troviamo la descrizione di una Firenze mortuaria, «invilita» e «sprofondata nel sonno», circondata da «palazzi e chiese» 4 che sembrano irreali. Una città inseparabile da un senso di vanitas, perdita e desolazione, da un’atmosfera di immobilità atemporale minacciata da una catastrofe incombente. Il ritorno temporaneo nella propria terra natale segna anzitutto il distacco dalla componente estetica della propria formazione giovanile e il presentimento di uno stile di vita che superi la ristrettezza di un’educazione improntata al «pic colo individualismo da trovatelli degli intellettuali borghesi» 5. I passi che colpiscono maggiormente 4 5

F. Fortini, Sere in Valdossola, Marsilio, Venezia 1985, p. 20. Ivi, p. 25.

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il lettore sono quelli in cui si ritrae con rapide e dure pennellate l’ambiente rarefatto dei circoli letterari (ermetici e Giubbe Rosse), « compost[o] sol o di gas nobili e leggeri » 6. Il sarcasmo tagliente del narratore colpisce questo umanesimo chiuso tra bozze e antologie, protetto nell’inerzia della turris eburnea, e raggiunge punte di aperto disprezzo per un tipo di resistenza che era meramente verbale, comportava la rimozione della cronaca e si macchiava di «complicità» 7, viltà e privilegiata separatezza. Una simile idiosincrasia indurrà Fortini a preferire il Partito socialista al Partito d’Azione, con cui pure aveva inizialmente collaborato. La guerra, quindi, è il testo di formazione di una nuova coscienza, il resoconto della costruzione di un’identità diversa, favorita da nuove letture – si scoprono i nomi di Gramsci e Marx, ma anche di Tolstoj e Gogol ’ – e dall’esperienza di un’accelerazione storica , di una lacerazione irrevocabile. Quel che viene registrato, cioè, è quanto fa maturare la conoscenza e la volontà dell’io, portandolo alla scoperta dell’odio di classe e, soprattutto, alla persuasione che la redenzione individuale sia indissolubilmente l egata ai destini generali. Le tappe di questo cammino sono segnate da dialoghi e confronti (con Ingrao, con Vittorini; ma anche con Mario, un personaggio dinamico che muta opinione nell’arco della narrazione); se talvolta si ha la sensazione di appartenere a una generazione che ormai ha perduto troppo tempo e bruciato la propria giovinezza sotto il regime, alcuni incontri decisivi, alcuni ritratti di coppie impegnate nella lotta danno la sicurezza che

una

nuova

umanità

è

possibile,

che

tutto

può

cambiare.

L’attraversamento finale della frontiera si carica, allora, di un sovrasenso allegorico: è davvero iniziata una nuova era 8. Bisogna notare, poi, come la rilevanza dell’incontro dell’io con le fanterie – con il loro semplice coraggio di persone che sanno ca ntare e amare anche in mezzo alla distruzione, con la loro umanità da un lato elementare, cioè legata ai cicli biologici e creaturali, dall’altro profetica, in quanto dotata di fratellanza e solidarietà – avvicini La guerra ad alcuni topoi Ivi, p. 103. Ivi, p. 84. 8 Anche in Valdossola l’oltrepassamento del confine, così come le due scene opposte e parallele della vestizione e della svestizione partigiana, sottolineano l’importanza di tali riti di passaggio (ivi, pp. 168 e 196). 6 7

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neorealisti 9. Tuttavia, è rintracciabile una serie di elementi che isola quest’opera dal filone più ingenuo dei taccuini postbellici e che rende più indiretto e mediato il bisogno di testimonianza tipico del tempo 10. Anzitutto, il protagonista intellettuale vuole sì correg gere l’aspetto astratto e morboso della propria educazione, ma ha anche molto da insegnare ai soldati, completamente privi di consapevolezza politica: l’io è insieme docente e discente e, per quanto con pazienza e umiltà, assume spesso una posa didattica. Se a questa altezza l’autore può ancora parlare di «plebi» 11, alcuni anni più tardi accuserà Metello proprio per il ricorso alla categoria «etnografico -sociologica» 12 di popolo. Le masse non sono unite per natura, ma solo grazie a una coscienza di classe per nulla innata. In secondo luogo, la rievocazione delle prove drammatiche condivise con le truppe non ha nulla di eroico o sublime: si indugia, anzi, sugli aspetti più prosastici, sulle difficoltà quotidiane (penuria di cibo, pulsioni erotiche, nostalgia di casa), e si indagano gli umori, i moventi psicologici delle varie reazioni a una situazione estrema. Il testo assume, in questi casi, un andamento documentario, inserendo addirittura del materiale allotrio nella diegesi (testi di proclami e di canzoni, sl ogan politici, scritte sui muri). La sensibilità anti-retorica è così acuta che si esprimono dubbi persino sul linguaggio

delle nascenti organizzazioni partitiche (l’uso di chiamarsi

reciprocamente «compagni » 13), prendendo le distanze da ogni adesione fideistica e “fusionale” al mito dell’U rss 14 e sollevando perplessità riguardo a una morale rivoluzionaria che subordina le vite umane al raggiungimento della causa 15. Inoltre, in queste pagine – così come in Valdossola

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– emerge

chiaramente la natura di guerra civile dell’antifascismo e della Resistenza; lungi dall’essere tutti uniti contro l’invasore straniero, gli italiani sono

Cfr. A. Baldini, Il comunista. Una storia letteraria dalla Resistenza agli anni Settanta, Utet, Torino 2008, p. XXVI. Cfr. I. Calvino, Prefazione, in Id., Il sentiero dei nidi di ragno (1947), Einaudi, Torino 1964. 11 F. Fortini, Quelle giornate (1945), in Id., Memorie per dopodomani. Tre scritti 1945 1967 e 1980, a cura di C. Fini, Quaderni di Barbablù, Siena 1984, p. 5. 12 F Fortini, Il metellismo (1955), in Id., Dieci inverni 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, Feltrinelli, Milano 1957, pp. 98-102. 13 F. Fortini, Sere in Valdossola, cit., p. 48. 14 Ivi, p. 82. 15 Ivi, p. 85. 16 Ivi, p. 189: «Poi si dorme, il fascista ed io, uno accanto l’altro, sotto un’unica coperta». 9

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divisi da una lotta fratricida. Infine, fin da questi scritti 17 fa la sua comparsa un’umanità “reietta”, quasi ignara degli eventi, re legata in un passato di miseria repellente che non viene affatto idealizzato né vagheggiato. Questa insolita attenzione dimostra da un lato la lucidità con cui si avverte la complessità della storia, formata da molteplici strati e da velocità differenti; d all’altro segnala la sensibilità di Fortini per quei «limiti oscuri» 18 (malattia,

follia,

morte)

che

troppo

sovente

l’antropologia

socialista avrebbe rinnegato. L’ansia che pervade queste annotazioni aspira a un rinnovamento totale, che si estenda persino a queste sacche cadaveriche e vinte, decadenti e spettrali. Il cuore propulsivo di tale sete di redenzione consiste in uno schema apocalittico/palingenetico, di ascendenza biblica 19. In altre parole, nel momento in cui, a causa dei violenti bombardamenti al leati, tutto brucia e crolla, nell’attimo in cui la parabola tocca il punto più basso della distruzione, proprio allora scatta un ribaltamento dicotomico che promette la risurrezione e la rinascita. Per questa ragione le macerie della città – descritte con uno stile stravolto ed espressionista, con un lessico che richiama metaforicamente un campo semantico corporale e viscerale 20, con un linguaggio crudo che non censura le atrocità raccapriccianti del conflitto 21 – si caricano di una potenza messianica. Un’attitudine ricorrente in Fortini è quella di corredare i propri scritti di prefazioni in cui, attraverso un «senno di poi» 22 che talvolta si raddoppia e triplica, si formulano giudizi sul proprio passato. Più in particolare, è

Altri esempi si troveranno in Valdossola e in Asia Maggiore (i conducenti di risciò, gli abitanti di Shanghai, l’universo di Lu Hsun). D’altronde Giovanni e le mani, oltre ad offrire alcuni capitoli da romanzo storico, affronta anche questo problema. Cfr. F. Fortini, Giovanni e le mani (1948), Einaudi, Torino 1972; Id., Asia maggiore. Viaggio nella Cina, Einaudi, Torino 1956. 18 F. Fortini, I “limiti oscuri”, in Id., Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984, Garzanti, Milano 1985, pp. 138-142. 19 Non molto distante, infatti, è la tradizione ebraica ereditata dal Benjamin delle Tesi di filosofia della storia, ovviamente non conosciuto da Fortini a questa altezza temporale. Cfr. W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte (1940), trad. it. Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997. 20 Cfr. G. Magrini, Il corpo nella poesia di Fortini, in C. Fini (a cura di), Per Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua poesia, Liviana, Padova 1980, pp. 121-132. 21 In Valdossola, per esempio, la morte di uno scoiattolo e poi quella, più cruenta, di un cane fungono da anticipazione figurale e da condensazione emblematica di tutta la violenza della Seconda Guerra Mondiale, rasentando l’ipotesi di un male cosmico. Le sospensioni idilliche e i passi ragionativi sono così sconvolti da questi zoom di potente crudeltà rappresentativa. Cfr. E. Zinato, Variazioni belliche fortiniane, «L’ospite ingrato», 1999, n. 2, pp. 178-179. 22 F. Fortini, Il senno di poi (1956-1957), in Id., Dieci inverni, cit., pp. 11-35. 17

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costante la necessità di giustificare la stesura delle scritture che stiamo qui indagando. Qual è il senso di La guerra se traguardato da un’ottica del 1963 o del 1985? […] una qualche giustificazione può venir proprio dall’insegnamento di quel che non c’è, dalle qualità negative, dalle assenze. […] per antif ascismo, il giovane sottotenente che ero […] risulta singolarmente ignorante della realtà s torica, politica, sociale che sta vivendo. 23 Gli avvenimenti raccontati da queste pagine di quarant’anni or sono non hanno in sé nulla d i eccezionale né degno di memoria; lo ha il quadro generale in cui si dispongono e che è ormai, giustamente, poche righe nei manuali di storia. […] Se queste pagine -prove presumono di aver e qualche interesse, la ragione è probabilmente in quel che non vi è detto e che, quando le scrivevo […], ignoravo di tacer e. 24

Il tema del “non-sapere”, della disinformazione in cui i vertici tenevano le truppe e, più in generale, del potere connesso al controllo delle notizie ricorre spesso ne La guerra e, trasformandos i, si prolungherà fino ai Cani. Si formano così due livelli: in alto, la spartizione del mondo decisa a Yalta; in basso, la vita del singolo individuo, trasceso sì dallo scenario globale ma abbandonato all’assolutezza delle proprie responsabilità morali. Siamo di fronte a un meccanismo che rimarrà costante in Fortini: la decisione dell’io dovrebbe essere mediata da organismi collettivi, inserita in un processo più ampio, giudicata su basi oggettive; tuttavia, nei momenti di emergenza, si è costretti all’aut -aut tragico, alla scommessa nel buio. L’evento lacerante in cui ognuno ha dovuto affrontare la verticalità della dimensione etica è stato, per eccellenza, l’8 settembre: «quando in quella sera

[…] |non ci furono più ordini, | ciascuno dovette scegliere d a sé,

|rischiare l’errore, decidere il dovere» 25. Con una precisione che è insieme psicologica e storiografica, il narratore traspone il «caos» di quei momenti in cui si consumò «la morte dell’autorità» 26, il senso di smarrimento conseguente, la perdita di p unti di riferimento. Come ribadito in Valdossola , sono state le circostanze a maturare la popolazione, ad indurre centinaia di Ivi, p. 11. F. Fortini, Sere in Valdossola, cit., p. 3. 25 F. Fortini, All’armi siam fascisti! (1961), in Id., Tre testi per film, Edizioni Avanti!, Milano 1963, p.49 . 26 F. Fortini, Quelle giornate, cit., p. 5. 23 24

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migliaia di giovani all’impegno nella Resistenza, nonostante la grande confusione delle motivazioni ideologiche data da una gravi ssima carenza di retroterra politico. Anche il ritmo narrativo varia assecondando lo svolgersi degli eventi: se la prima sezione è riflessiva e lenta, la seconda e la terza subiscono una brusca accelera zione, orchestrando un crescendo, un climax che ha il suo culmine di Spannung nell’episodio del proclama Ruggero. Qui il tempo del racconto è dilatato a scapito del tempo della storia, con un effetto di rallenty che veicola l’angoscia spasmodica di quell’attesa. Tale stato di sospensione determina sia alcune soluzioni stilistiche sia l’adozione della forma -diario. Il “sentito-dire”, infatti, di segno negativo (gli omicidi fascisti e nazisti) o positivo (la sollevazione di massa), induce all’adozione di stilemi favolistici o leggendari, in cui è diff icile distinguere la realtà dalla trasfigurazione iperbolica. Tali passaggi, a cui il narratore mostra di non aderire del tutto, coesistono con apparizioni misteriose di figure enigmatiche, con squarci lirici 27 e con scambi orali in cui si cerca di riprodurre

non

sempre

efficacemente

la

vivida

rapidità

delle

conversazioni. Il genere diaristico è adottato grazie al «suo valore drammatico e assoluto», particolarmente indicato quando «non esistono interlocutori, quando la vita non ha avvenire ma solo un atr oce presente» 28. Il diario, cioè, è il pattern più adatto a rendere mimeticamente l’incalzare concitato degli eventi, la tensione della suspense, l’insicurezza vulnerabile di un hic et nunc di cui si ignora il domani 29. La presa diretta coinvolge emotivamente il lettore, dandogli la sensazione di toccare con mano lo scorrere del tempo; il verbo al presente, piuttosto che fissare lo scialo in una

formula

cristallizzante,

si

propone

come

traccia

vibrante

del

susseguirsi dei giorni. Il diario, ancora, vale come garanzia di veridicità e antifiction 30; la sua stessa frammentarietà è consona al precipitare di una Il lirismo, il gusto pittorico, la sensibilità coloristica e figurativa sono frequenti anche in Asia Maggiore (con allusione alla calligrafia e xilografia cinesi) e Valdossola; in quest’ultimo caso, la tecnica del paesaggio-stato d’animo condensa emozioni che si suppongono condivise da molti altri partigiani. 28 F. Fortini, Diario, in Id., Ventiquattro voci per un dizionario di lettere. Breve guida a un buon uso dell’alfabeto, il Saggiatore, Milano 1968, p. 199. 29 Cfr. Ph. Lejeune, Le Journal comme antifiction, (2007), trad. ingl. The diary as “antifiction”, in Id., On diary, University of Hawai’i Press, Honolulu 2009, p. 208. 30 Cfr. ivi, pp. 201-210. 27

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situazione che il soggetto non controlla, all’affastellarsi dei pensieri, al procedere disordinato e incoerente dei moti interiori. Tuttavia, lo stesso st ile della scrittura – non effusivo, ellittico, costituito da frasi brevi, da stacchi e spazi bianchi – sembra distanziare e relativizzare la diegesi. In effetti, siamo in presenza di un «falso diario e falso romanzo» 31, redatto vari mesi dopo gli eventi nar rati. Se il diario si definisce come improvvisazione, atto puntuale su cui è impossibile tornare 32, Fortini al contrario interviene sul manoscritto con revisioni e correzioni; se il diario è potenzialmente aperto all’infinito, La guerra invece tende a una fine e organizza deliberatamente le proprie linee dominanti. Nella conduzione del racconto, perciò, si riscontrano alcune ambiguità: abbondano gli shift temporali, con improvvise prolessi e varie analessi; anzi, alcuni repentini cambi di prospettiva tradisc ono una vera e propria «bifocalità» 33. Per esempio, i presentimenti dell’io sono sì incerti e illusori (si spera in una rapida conclusione delle ostilità e in uno sbarco alleato in Nord Italia), ma talvolta collimano con le considerazioni di un narratore che “sa come è andata a finire”. La gestione della temporalità è, dunque, articolata e spiazzante: le secche anticipazioni convivono con una memoria culturale che ammanta il presente di un vertiginoso spessore storico 34.

2. Sere in Valdossola Sere in Valdossola fu pubblicato per la prima volta – ma solo parzialmente e con un titolo diverso – da Noventa su «La Gazzetta del Nord» il 21 dicembre 1946; poi fu rielaborato e compar ve, su richiesta di Bassani, in «Botteghe Oscure» (1952, IX); infine v enne unito a La guerra per l’uscita in R. Pagnanelli, Fortini, Transeuropa, Ancona 1988, p. 19. Cfr. Ph. Lejeune, Continu et discontinu, trad. ingl. The continuous and the discontinuous, in Id., On diary, cit., pp. 181-182. 33 E. Zinato, Variazioni belliche, cit., p. 174. 34 Gli invasori tedeschi sono associati ai lanzichenecchi; il rumore dei passi sulle foglie ricorda Erodoto; il proprio esilio richiama i decasillabi di Berchet; i paesi del lago maggiore rievocano i romanzi di Fogazzaro. Spostandoci nelle opere successive, in Asia Maggiore è scontato il riferimento a Marco Polo (con alcuni spunti che anticipano Calvino); per arrivare al visionario Quelli di Grenada, dove gli assassinii americani in Vietnam o nei Caraibi sono sovrimpressi allo sfregio del corpo di Ettore nell’Iliade omerica. Cfr. F. Fortini, Quelli di Grenada (1983), in Id, Insistenze, cit., pp. 259-261. Cfr. E. Zinato, Variazioni belliche, cit., p. 176. 31 32

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volume del 1963. Salta subito agli occhi il parallelismo tra i due finali: in entrambi l’io, che faceva parte di un gruppo, rimane isolato e sopraffatto dalla stanchezza; ne La guerra, però, quello sconfinamento signi ficava salvezza

e

pace,

mentre

in

Valdossola

è

sinonimo

di

sconfitta

e

ripiegamento. Il tema di queste memorie, ambientate nell’estate -autunno del 1944, durante la breve vita della Repubblica partigiana dell’Ossola, è ovviamente quello resistenziale. Quali sono le ragioni che corroborano la loro scrittura e, più tardi, la loro ripubblicazione? Ve ne sono di due tipi. Anzitutto, il desiderio di preservare

un

ricordo

e

l’esigenza

di

continuare

a

interpretarne

l’inesauribile ricchezza: Le pagine di Sere in Valdossola […] le scr issi […] appena mi parve che il tempo potesse cominciare a confonder e la memoria. Mi proposi di dire la frazione di verità che conoscevo, non senza autoironia su quella mia breve avventur a. 35 Forse, col trascorr ere degli anni, il rico rdo perder à i contorni, come è sorte di quelli d’infanzia e d’amor e […]. E se già fin da ora non siamo sazi d’udir e la vicenda degli altri e di riandare la nostra, si è perché sappiamo […] che nessuna narrazione o cronaca può esaurire i significati di quel le giornate […]. 36

La motivazione principale, però, è un’altra: so, purtroppo, che anche molti di coloro che furono dentro gli avvenimenti stentano oggi a ricor darsene, a crederli veri. Vi fu un momento, in quei mesi, in cui par ve che dal profondo si scu otesse qualcos a, lasciando intraveder e un volto della gente dei nostri paesi fino allora sconos ciuto; e d’improvviso motivi ed espressioni, gesti e sofferenze di quella gente s i situarono ad una misur a tale, ad un livello che avevamo creduto negato loro dalla bassezza dei tempi: il livello che si vuol dir e della storia, cioè dell'azione consapevole. E ancor a oggi non sarebbe così ostinata la speranza s e non ci tornasse, di tanto in tanto, la memoria di quel volto. 37

La Resistenza va trasmessa ai nipoti perché ha dimostrato, “una volta per sempre”, che il mondo può essere cambiato e che gli uomini hanno la facoltà di scrivere attivamente il proprio destino. Nonostante l’aspetto F. Fortini, Sere in Valdossola, cit., p. 13. F. Fortini, Quelle giornate, cit., p. 5. 37 F. Fortini, Sere in Valdossola, cit., p. 184. 35 36

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«tetro» 38 e freddo del paese, il narratore vi rileva «una attività incredibile » 39: discussioni accese, commenti partecipi, comizi, giornali e conferenze. Il passo della scrittura si innalza a una rapidità cadenzata che esprime l’afflato libertario di quelle settimane, l’inveramento – sebbene incompleto ed effimero – di un’utopia, il balenare di una società fondata su valori di autenticità, altruismo e libertà. Si intravede un’umanità piena, capace di incarnare il sublime – cioè i valori per cui l’io ora è pronto a morire – in atti umili ed essenzial i. La soglia paratestuale dell’ Avvertenza – vergata nel 1985 – non può esimersi dall’ammettere la disillusione postbellica, il tradimento compiuto ai danni di quelle speranze, «spietatamente» giudicate dall’«esistenza successiva» e dalle «successive scritt ure»: «ogni scrittura memorialistica d’allora […] riceve il proprio valore o disvalore […] dal modo, dal sistema […] nel quale, dopo quel tempo, noi, individui o collettività, siamo vissuti. Atti e parole del presente impegnano i futuri; e chi sopravvive non scampa al peso, e alla interpretazione, del passato» 40. Eppure,

Fortini

non

si

arrende

e,

confidando

nei

tempi

lunghi

dell’avvenire, «fing[e] di non sapere ancora come la storia andrà a finire e di rinviare ad altri ogni pronuncia provvisoriamente conclu siva» 41. Gli appunti sulla Resistenza, per quanto ancorati a una congiuntura ormai scomparsa, possono così conservare una loro utilità, appellandosi a posteri in grado di reinterpretarne le formule: «molti […] giovani hanno una generosità […] tale da poter fare di ogni narrazione testimoniale la traduzione in termini e in lingua propria; e di poter così contribuire a predisporre, quando una emergenza si presenti, le forme […] per le esperienze che, anche ardue o tremende, possono aspettarli alle svolte della storia» 42. Il narratore, quindi, celebra qui l’unica rivoluzione della storia italiana

recente;

ciononostante,

egli

non

rinuncia

mai

alla

propria

obiettività demistificante: le colpe e i limiti dei partigiani non vengono taciuti; non si nasconde la dose di violenza che essi furono costretti a esercitare; non si edulcorano le divisioni intestine, la penuria di viveri e Ivi, p. 180. Ivi, p. 178. 40 Ivi, pp. 4-5. 41 Ivi, p. 5. 42 Ibid. 38 39

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munizioni, la debolezza disorganizzata della repubblica ossolana. Ma la cifra che contraddistingue quei combattenti è il fatto che loro lotta discende da una scelta volontaria 43. Assunzione di responsabilità in vista di un fine; mutabilità e plasmabilità della società: questa è l’eredità da tramandare. A dispetto dello scacco militare, il libro segna perciò il compimento della Bildung inaugurata con La guerra, il conseguimento di una più salda e completa maturazione. «Neanche per un attimo [...] nella Milano del 1943, quell’io [...] ha dubbi sulla scelta antifascista e solo un anno più tardi, in Valdossola, avrà capito che tale scelta aveva solo avviato ad altre, meno istintive e più tormentose» 44. Nel campo profughi, sua «vera università» 45, Fortini inizia a intuire le dimensioni dei massacri in Europa dell’Est, ode con le proprie orecchie i «gemiti incomprensibili» e i «lunghissimi lamenti funebri» 46 degli ebrei scampati alla deportazione. «Le separazioni politiche sempre più si venivano precisando. Era un corso accelerato di storia del secolo, di etica ed estetica […]. Cercavo di capire. Ma probabilmente la vera scoperta di quei giorni era il bosco del nord» 47. In quei mesi, il soggetto conosce gli esuli socialisti, legge i classici del marxismo e molti altri testi, ampliando enormemente la propria visione del mondo; ma ammira anche la grandiosità di una natura implacabile, di quelle vette alpine

che

sovrastano

la

fuga

dell’ explicit,

dominando

un’immensa

48

panoramica . Il perfezionamento dell’iniziazione, però, si lega a un’istanza etica oltre che gnoseologica. Il genere memorialistico permette di associare la narrazione della grande storia allo scavo c oscienziale; per questo, in apertura Fortini indaga i moventi psicologici e sociali che spingono altri ad unirsi alla lotta armata e confessa con sincerità la propria indecisione, le proprie paure. Con autoironia – privilegio di una visione a posteriori su cui

Il protagonista stesso è costretto a prendere in fretta alcune decisioni drammatiche, sia all’inizio, quando dalla Svizzera scende nelle vallate piemontesi, sia alla fine, quando – in una sequenza dialogata e introspettiva, in cui il tempo della storia rallenta nella pausa o nella scena – opta per il ritorno in territorio neutrale, chiudendo circolarmente la propria avventura: ne scaturiscono rimorsi e vergogna. 44 Ivi, p. 4. 45 F. Fortini e P. Jachia, Fortini. Leggere e scrivere, Marco Nardi Editore, Firenze 1993, p. 43. 46 F. Fortini, Sere in Valdossola, cit., p. 8. 47 Ivi, p. 9. 48 Ivi, pp. 202-203. 43

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torneremo – ammette di non «essere adatto alla vita rischiosa » 49, di amare i libri antichi e le passeggiate tranquille. La scelta di partecipare a un’azione collettiva coincide con l’autoanalisi e la quête identitaria: «pe r chi non abbia consuetudine alla vita d’azione ogni episodio che lo strappi alle proprie abitudini […] è naturalmente […] una prova; ma è prova solo se quell’episodio sia [...] voluto» 50; «non potevo fare a meno di dare alla decisione, che avrei presa, il senso di un esame di me stesso; ed anche un ridicolo significato di riscatto da tante debolezze che in segreto mi accusavano» 51. Si approfondisce, allora, la riflessione sulla dialettica tra individuo e collettività, centrale per la nostra indagine: «pensai che forse per la prima volta, accettavo di non credere al giuoco d’echi della coscienza, di fermarmi alle prime evidenze […]; e di essere in quel che facevo» 52. Alla macerazione privata si preferisce l’impegno pubblico; il carattere coincide con i gesti che si compiono; l’attrazi one per gli abissi della fede viene piegata alle esigenze del presente e della politica. Anche se occorre precisare che questo anelito metastorico non tacerà mai del tutto, la conclusione a cui perviene Sere in Valdossola è «la consapevolezza […] che la nostra verità è sulle labbra degli altri, che il vero cammino interiore è il cammino dell’esterno» 53. Il libro si inserisce, così, all’interno di un filone di «testi di formazione» in cui «sono evidenti i mutamenti politico -morali dei loro autori» 54. Le ricerche di Anna Baldini ci consentono di misurare la vicinanza e lo scarto tra Fortini e la media neorealista. Da un lato, la parentela è sicura: «molte delle storie militanti della narrativa italiana postbellica raccontano il tragitto […] di personaggi che gi ungono alla maturità in un contesto di socializzazione che privilegia un’assiologia sovraindividuale. movimento

Per

collettivo

questi […]

personaggi che

è

è

[solo]

possibile

una

all’interno piena

di

un

conquista

Ivi, p. 162. Ibid. 51 Ivi, p. 164. 52 Ivi, p. 170. 53 W. Siti, Il neorealismo nella poesia italiana: 1941-1956, Einaudi, Torino 1980, p. 176. 54 G. Falaschi, Diari, zibaldoni e taccuini, in F. Brioschi e C. Di Girolamo (a cura di), Manuale di Letteratura Italiana, cit., p. 766. 49 50

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dell’identità» 55. D’altro canto, la profonda e tormentata interrogazione fortiniana, sempre attenta alle scissioni tra diritti del singolo e necessità superiori, oltre che alle divisioni di classe e ai dislivelli di cultura, non può certo ridursi alla «rappresentazione di un rapporto armonioso e non problematico

tra

individuo

e

movimento

collettivo» 56.

L’operazione

ambivalente con cui Fortini si distacca nettamente dal Neorealismo, pur costeggiandolo ripetutamente, investe in particolare il rapporto tra cultura e prassi, cioè il proprio ruolo di scrit tore. Secondo Baldini, in molte opere neorealiste «virile-dominante diventa il proletario, o il comunista, mentre i tratti femminilizzati restano a caratterizzare l’inetto intellettuale: debole o malato, […] indiretto, contorto» 57. In Valdossola, certo, vengono messi in scena degli autentici processi interiori in cui emergono i sensi di colpa tipici dell’uomo di lettere. Nel finale, però, si enuncia una verità esattamente

contraria :

l’io

supera

i

timori

precedenti

e

dichiara

l’imprescindibilità della propri a funzione, rinvigorito in questa fiducia da una conversazione col commissario comunista (e futuro grafico del «Politecnico») Albe Steiner : ricominciai a cr eder e che anche un uomo come me, con tutte le sue fisime e con tutte le sue idee, e con la sua incertezza […] e l’inettitudine a vedere il reale, ebbene, avesse diritto di star e in mezzo agli uomini di azione. Non dovevo considerarmi un essere inutile. Anche le mie parole potevano contar e qualcosa. Da quel momento non ho avuto più paura. 58

Vorremmo, infine, chiudere il paragrafo con alcune precisazioni retorico-stilistiche e narratologiche. Il fatto che ad essere privilegiati siano, in ogni caso, la macrostoria e i destini generali comporta alcune conseguenze sul genere adottato. Sebbene la narrazione segua l’ordine cronologico, Sere in Valdossola non ha una struttura strettamente diaristica, in quanto è diviso in piccoli capitoli numerati e privi di data, spia di un’organizzazione testuale meno evenemenziale ed eterodiretta rispetto a La guerra. Tuttavia, una stesso ordine di osservazioni sulla peculiarità della A. Baldini, Il comunista, cit., p. 23. Ivi, p. 119. 57 A. Baldini, Il comunista, cit., p. 169. 58 F. Fortini, Sere in Valdossola, cit., p. 198. 55 56

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scrittura fortiniana – che preferisce i «drammi collettivi» ai «trasalimenti» dell’anima eletta – accomuna i due volumi: l’atto autoriale si esprime come fr ammento di un intero […]. Quindi l ’alveo in cui il soggetto si muove, e il racconto corre, ha confini e direzione esterni all’io ed è capace di riassorbirne le istanze etico -politiche e ideologiche nonché la vasta esperienza umana. Il diario invece ha […] la natura di una scrittura privata distesa nel tempo […]. 59

Rigettata «l’artificiale coltivazione di teneri o umbratili sentimenti» 60, questi testi ereditano semmai dal diario la sua funzione «educatrice» 61, concependo l’annotazione come «prezioso strumento di autodisciplina» 62 e di verifica della «vita spirituale dello scrivente» 63. In Valdossola, inoltre, il tempo verbale è al passato e lo sguardo è retrospettivo. La rievocazione a posteriori permette – oltre all’autoironia – l’adozione, in alcune sequenze, di una focalizzazione quasi esterna all’io, di un prospettivismo relativizzante raggiunto grazie all’uso di un’inquadratura dall’alto: La mattina dopo potei rendermi conto della nostra condizione. Eravamo finiti nella parte più alta di una piccola valle. La chiudevano alte pareti di roccia. […] per noi, insomma, era finita. Un episodio minimo nel gran cerchio della guerra. Ma questa volta non ero spettatore. […] Non c’era nulla di terr ibile o di grandioso. Un centinaio di giovanotti sporchi, stanchi e spaventati aspettavano la fine di un episodio di rastrellamento. L’esaltazione segreta [...] lasciava il posto ad una disper azione, ma tranquilla. Le mie vicende personali, facevano una sola storia con quelle di tutti e tutto finiva in quella valle senza uscita. Chi avr ebbe sap uto di noi? Sarebbe venuta la neve, fino a primavera. 64

Per quanto concerne lo stile, la prosa di Fortini è secca e franta, la sintassi è spezzata e procede per aggiunte; i connettivi sono espunti o sottintesi. Le notazioni ambientali si coordinano per as indeto al referto dei fatti, alla trascrizione asciutta dei pensieri e alla laconica mimesi delle conversazioni. L’accumulo, l’elencazione e l’iterazione non mirano a una cadenza epica, bensì a una rarefazione che è l’equivalente di una situazione G. Falaschi, Diari, zibaldoni e taccuini, cit., p. 766. F. Fortini, Diario, cit., p. 199. 61 Ivi, p. 197. 62 Ivi, p. 199. 63 Ivi, p. 196. 64 F. Fortini, Sere in Valdossola, cit., pp. 189-191. 59 60

14


in cui il significato è assente ma anche intensamente ricercato. Fortini forse vagheggiò, per qualche ora, «l’immediatezza del neorealismo, […] l’illusione di poter travasare direttamente in letteratura la realtà, di trasformare senza residui le cose in parole» 65. Ciononostante, sono sempre vive in lui la necessità delle mediazioni e dei filtri e la percezione dell’obliquità della letteratura, accompagnate da un sicuro controllo formale: «la distanza tra azione e scrittura rinuncia a ogni sogno di convergenza, il testo si fa oggetto ghiacciato […]. La consapevolezza […] della distanza rende possibile il classicismo […] Lo stile sublime è inscindibile allora dall’allegoria, dallo straniamento» 66.

3. Considerazioni generali Si svolgeranno ora alcune considerazio ni di carattere generale, tenendo conto non solo dei due esempi presi in esame, bensì di tutte quelle opere consimili che non possono essere approfondite in questa sede. Iniziamo ripercorrendo la pluralità di forme ibride e sperimentali cui perviene l’auto re ed evidenziando le giustificazioni date via via a tali esiti liminari, invischiati in perenni “questioni di frontiera”. Va notata subito «la difficoltà di rubricare materiale eterogeneo, e privato, sotto un’etichetta» 67 univoca. Abbiamo detto che La guerra e Valdossola appartengono al genere della memorialistica, dato che gli eventi bellici hanno la preminenza assoluta sulla gestione della narrazione. La guerra appare come un diario, eppure tradisce una “extralocalità” retrospettiva; Valdossola è scritto al passato ma conserva il passo dell’annotazione giornaliera. Diario tedesco (1949-1953), invece, rievoca il viaggio nella Germania occidentale dell’immediato dopoguerra. Anche qui non mancano i dubbi sul genere prescelto: noia dei luoghi comuni. Ma, più di tutto, la ripugnanza alla inevitabile amministr azione delle esperienze di viaggio; alla contabilità premeditata che ogni diar io porta con sé e che tanto facilmente lo inchina al vizio A. Baldini, Il comunista, cit., p. 115. Cfr. M. Corti, Il viaggio testuale, Einaudi, Torino 1978. W. Siti, Il neorealismo, cit., pp. 176-179. 67 G. Falaschi, Diari, zibaldoni e taccuini, cit., p. 765. 65 66

15


dell’anima squisita; il senso che il r ecuper o delle esperienze, il corpo organico dell’espr essione, può esser e tentato solo a partir e da una rinuncia al nuovo e al diverso; dalla accettazione di un er gastolo. Ripugnanza alla legger ezza e alla sete della vista che accompagna il viaggiatore in terra stranier a (e insieme voglia di misurarmi su nuovi spazi, voci diverse). 68 “Che cosa r acconter à in Italia?” mi chiede S., il capitano ingles e. […] Sto per rispondergli: “Nel nostro mondo, ormai, i fatti non significano nulla, o solo i più rumorosi. Bi sognerebbe solo non dare nemmeno un argomento a chi, sulla stampa di […] tutti i paesi si lava la coscienza con la so wjetische Barbarei; né agli altri, ai miei amici politici. Ma non bisogna neppur lasciar parlar e solo i giornalisti di professione. Dirò…” Ma il fr agor e […] mi toglie […] la parola. 69

Dello stesso ordine, anzi ancor più gravi, sono le perplessità avanzate in Asia Maggiore (1956), opera che, custodendo l’esperienza del viaggio compiuto nel 1955 con una delegazione ufficiale di artisti e intel lettuali (Cassola, Bobbio, Calamandrei, Trombadori, Musatti, Treccani), presentava per la prima volta al pubblico italiano la realtà della giovane Repubblica Popolare Cinese. Scetticismo e stanchezza. Persua sione che non sia possibile trarr e da queste visite ufficiali se non impr essioni, note di color e, giornalismo o autobiograf ia (e che altro sto facendo?), che sia impossibile toccare la realtà dell’uomo della strada, la condizione umana del cinese odierno, abitante della città o del villaggio […]; e q uesto […] per mancanza di tempo, per difficoltà di lingua, diversità di costumi, ignoranza, larga nostra ignoranza. 70

Lo scrivente è dunque destinato a soccombere al «super -ego […] cogente» 71 dei generi, finendo per vergare «belle memorie» 72 e per proporre «immagini, paesaggi e persone fissati per sempre, falsi come istantanee» ? 73 Per prima cosa, questi due reportage di viaggio non si riducono a commenti impressionistici e superficiali, né a curiosità esotiche e orientalistiche. Accanto a rico rdi personali, infatti, troviamo ritratti di singoli individui, visite informali a famiglie qualunque, o passi dall’andamento giornalistico, F. Fortini, Diario tedesco 1949 (1949-1953), Piero Manni, Lecce 1991, p. 13. Ivi, p. 41. 70 F. Fortini, Asia maggiore, cit., pp. 174-175. 71 A. Battistini, L’«io» autobiografico tra professione di veridicità e menzogne della scrittura, «Revue des Études Italiennes», 1995, nn. 1-4, p. 42. 72 F. Fortini, Asia maggiore, cit., p. 177. 73 Ivi, p. 16. 68 69

16


con interviste e discorsi diretti introdotti da brevi didascalie (« Perché sono scappati? Rispondono voci alterne: “ Miniere, fame, Volkspolizei, fame”» 74; «Johanna Kiser, 19 anni, contadina: “Lavoravo ”» 75). Alla visione in prima persona si affianca la ricerca di documenti, il reperimento di informazioni e dati, di cifre precise. Fortini è consapevole sia del filtro distor cente costituito dal sistema delle delegazioni, delle visite guidate, delle fonti ufficiali, sia del margine di inaffidabilità delle testimonianze dei singoli. Queste ultime vanno setacciate e tarate; bisogna sempre leggere tra le righe e valutare il punto di vista da cui parte il locutore (influenzato, a seconda dei

casi,

da

censura,

indottrinamento

catechistico,

convenienza,

risentimento). Grazie a queste precauzioni, Fortini riesce ad avvicinarsi alla vita quotidiana della popolazione e a

infrangere lo s chermo della

propaganda: a proposito della Germania, egli denuncia le colpe del capitalismo e quelle di un socialismo reale che si comporta da invasore totalitario; per quanto concerne la Cina, è menzionato il costo umano preteso dalle grandi trasformazion i in corso. La

cifra

che

unisce

questa

sfuggente

produzione

fortiniana,

appartandola come un unicum originale, è però un’altra: la tendenza al saggismo, cioè alla prosa di ragionamento ideologico -culturale piegata in direzione del presente. In una stessa pagina, dunque, si dà un uso contestuale di generi di scrittura e strategie comunicative differenti, con un risultato che disattende gli orizzonti d’att esa consueti, costringendo il fruitore

a

muoversi

su

un

terreno

instabile

e

poli -prospettico,

costantemente in bilico tra un contratto di lettura e l’altro. A questo punto è lecito ricordare l’esperimento riuscito de I Cani del Sinai (1967), composto in occasione della Guerra dei Sei giorni. In questo testo l’autobiografia propriamente detta (rapporto con la famiglia, infanzia, crisi religiosa) si mescola, per mezzo di uno sfuggente andirivieni cronologico, al pamphlet polemico, a dichiarazioni politiche mi litanti e, soprattutto, alla ricostruzione della storia dell’antisemitismo e della borghesia europea, con citazioni da Sartre e Horkheimer -Adorno. Nei Cani, in Diario tedesco e Asia 74 75

F. Fortini, Diario tedesco, cit., p. 42. Ivi, p. 45.

17


Maggiore, la critica letteraria (Kafka, Lu Hsun, Büchner e von Solomon) si sovrappone all’apologo allegorico 76, l’ekfrasis di manifesti, opere grafiche o pittoriche, al confronto dialogico con interlocutori e alter ego particolare, espongono

Bobbio

e

ricerche

Cassola

in

Asia

sociologiche

e

Maggiore).

Numerose

filosofic he,

(in

pagine

arrivando

ad

approfondimenti economici che sfiorano il tecnicismo. Il metodo oscilla tra macrostoria e microstoria, grandi conflitti e arti minori, “lungo periodo” dell’immaginario culturale e brucianti cortocircuiti benjaminiani; il fine è quello di fornire un’interpretazione unitaria che connetta i principali caratteri di una società, visti nelle loro ricadute sulla vita concreta. Non si trascurano teatro e musica, folklore e costumi, culti e religioni, urbanistica e arredamento, istituzioni scolastic he e giuridiche, riforme agrarie e industriali. Il primum , il nucleo interpretativo dello scrittore fiorentino, permane sempre in una visione classista del mondo, in una provocatoria semplificazione che smaschera le ragioni economiche soggiacenti a intrica ti conflitti di nazionalità o religione. Malgrado ciò, il suo marxismo non si isterilisce in riduzionismo meccanicistico: struttura e sovrastruttura sono correlate ma dotate di autonomia, di una propria rilevanza insostituibile. Facciamo un esempio. Fascis mo e nazismo sono interpretati come fasi supreme del capitalismo e dell’imperialismo: «dietro questi uomini in camicia nera | ci sono gli industriali, ancora in camicia bianca» 77 e i latifondisti; dietro le SS stanno «i giganteschi complessi della Ruhr» 78 (All’armi siam fascisti! ). L’«Orrore» nazista non è il Male assoluto da sacralizzare, bensì un’aberrazione da collocare in una lunga lista di «orrori» perpetrati dalla civiltà occidentale («Grecia, Corea, Algeria, Guatemala, Vietnam, Angola, […], Budapest, M odena, Los Angeles, […]. Non è una guerra?» 79), in un elenco di massacri che la spiegano ma non la assolvono. Nondimeno, in Diario tedesco il problema della Schuldfrage porta a schizzare una

storia

comparata

dell’Europa

e

dell’involuzione

della

mentalità

Facciamo riferimento a «Pietre preziose», incentrato su un lavoratore di Giada. Cfr. F. Fortini, Asia maggiore, cit., pp. 194-195. 77 F. Fortini, All’armi siam fascisti!, cit., p. 25. 78 Ivi, p. 32. 79 F. Fortini (a cura di), Profezie e realtà del nostro secolo. Testi e documenti per la storia di domani, Laterza, Roma-Bari 1965, p. VIII. 76

18


borghese dalla Rivoluzione francese all’avvento di Hitler a partire dalle decorazioni di una cattedrale o dalla ricezione di un’opera teatrale. Per capire

certi

tipi umani e

certi

fenomeni collettivi

si

compie

una

ricostruzione delle cause, un’archeologia del sapere che tenta di attingere lo Zeitgeist o l’episteme che lega pratiche discorsive, moventi psicologici e codici di comportamento. Spostiamoci per un attimo sulle giustificazioni di Asia Maggiore, in modo da compiere un passo ulteriore: quel che si è andati a cercare in Cina e quel che alcuni di noi vi hanno trovato er a in verità qualcosa che non si poteva trovar e «sotto i piedi»: era una novità di r apporti fra gli uomini. […] Cominciano a disegnarsi colà, nel corpo sociale, rapporti che sono diversi e migliori di quelli vigenti tra noi. Ed è proprio per ché tu, come molti altr i tuoi amici, lo sapevi, che lo hai trovato. […] Non è cosi: la possibilità di quel mutamento era […] una convinzione teorica sempre pronta a tramutarsi […] in una fede, in un dover essere, in un fine astr atto e lontano […]. Noi abbiamo bisogno non solo di saper e se e come la so cietà, cioè noi stessi, possa esser e diver sa, ma abbiamo bisogno che la società, cioè noi stessi, sia divers a, nella storia; e possibil mente in quella a noi contempor anea. 80

Se, allegoricamente, si uniscono in un unico reportage la Cina maoista e l’URSS, ciò accade perché il movente principale della scrittura è la manifestazione pratica e lampante che il salto rivoluzionario è già avvenuto per centinaia di milioni di persone, che i rapporti fra gli uomini possono mutare ora, che il socialismo non è un obiettivo astratto da rimandare indefinitamente. «Il viaggio, insomma, vale solo se è un viaggio di Telemaco, se al ritorno ci si senta veramente eredi del re di Itaca» 81, cioè se si impugnano «vecchie armi e nuovi doveri» 82, se si lavora affinché «non sia rimandato ai nostri nipoti il giorno in cui non già le delegazioni nostre si recheranno a visitare le rivoluzioni altrui, ma quelle degli altri paesi a visitare la nostra» 83. Attraverso l’esperienza diretta, l’utopia di una società liberata dalla proprietà privata – cioè dall’arrivismo, dalla competizione e dall’alienazione – contemporaneamente si incarna e si dissolve: «arrivando

F. Fortini, Asia maggiore, cit., pp. 18-19. Ivi, p. 24. 82 F. Fortini, All’armi siam fascisti!, cit., p. 51. 83 F. Fortini, Asia maggiore, cit., p. 21. 80 81

19


in Urss, […] l’uomo nuovo del la propaganda comunista, o lo schiavo del Cremlino della propaganda fascista e americana, è quel ferroviere che porta il tè, quella contadina» 84. Il mito si invera in una realtà qualitativamente superiore ma segnata da durezza, povertà, ristrettezze. La med iazione verso l’altro, la riformulazione delle proprie categorie al contatto col diverso, porta alla «certezza della verità contenuta nella rivoluzione cinese, della sua ragione assoluta» 85 e, di conseguenza, alla volontà di «cambiar[e]» 86 radicalmente l’Ita lia. Da ciò possiamo dedurre che Fortini si propone di illustrare e comprendere gli avvenimenti, ma insieme di giudicarli; egli intende unire un’istanza razionale e cognitiva a una scala di valori, a una torsione finalistica. Il suo racconto storico non as pira a un’ipotetica neutralità, anzi è parziale e orientato verso una meta futura, verso un «dove» capace di trasformare il «donde». Le grandi campate che egli delinea sono sorrette da una filosofia della storia che contempla un terminus ad quem da realizzare ma che rinnega recisamente l’idea socialdemocratica di una teleologia delle ere, l’illusione per cui il socialismo sarebbe inevitabile e

prescritto

da

una

necessità

provvidenziale.

Il

suo

pessimismo

antropologico conduce sì a una visione tragica ma non all’agnosticismo disincantato di chi crede che i cicli si ripetano all’infinito, insensati e sempre uguali: «la realtà della violenza non significa eternità della violenza o indifferenza alla violenza; […] [essa] ci costringe a risalire ad una dottrina, a d una teoria, ad un pensiero; […] la storia non è una galleria di pazzie, ma una lotta fra idee, classi e popoli » 87. Il corollario di questi assiomi è il rifiuto di un’utilizzazione deterministica delle pur amate scienze sociali: sociologia e psicologia non devono confermare lo status quo né fornire alibi all’inazione. Citando Sartre, Fortini ripete spesso: «non mi interessa che cosa è stato fatto all’uomo ma che cosa egli fa di quel che è stato fatto di lui» 88. Come dimostrato dall’antologia Profezie e realtà, l’interpretazione del sé non può prescindere dallo studio del contesto globale da cui esso è Ivi, p. 207. Ivi, p. 68. 86 Ivi, p. 289. 87 F. Fortini, Diario tedesco, cit., p. 62. 88 F. Fortini, I cani del Sinai (1967), in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2003, pp. 443-444. 84 85

20


trasceso; l’unica trascrizione attendibile dello scacchiere internazionale è quella che assume la prospettiva della storia mondiale. Noi stessi siamo per metà marines americani, per metà vietcong guerriglieri 89; l’Asia, l’Africa della decolonizzazione e l’America Latina non sono il nostro passato (come credeva certo operaismo che valutava solo il grado di industrializzazione), ma nostri contemporanei o, addirittu ra, nostri precursori 90. Non si tratta del pathos nostalgico di un terzomondismo arcaico, bensì della « riscoperta dell’ipotesi comunista a misura del mondo intero » 91, cioè dell’impegno affinché si generi

una

rottura

nell’unità

instaurata

dal

mercato

planetar io.

In

opposizione ai «frammenti avariati del sapere» 92 con cui i mass media distruggono

l’opinione

pubblica,

contro

l’oblio

indotto

da

un’«informazione inutile» 93 perché livellante, dispersiva e priva di sintesi, contro i «servizi televisivi: arma totale», lo scrittore schiera una ideologia unitaria, attingendo alla forza coesiva di «visioni del mondo», «strutture interpretative» e «formule di progetto in cui […] g li uomini testimoniano d’una totalità tendenziale e possibile del loro esistere» 94. Per far questo, occorre anzitutto demistificare la stampa avversaria, attaccare «la falsa comunicazione “esistenziale” […] dei corrispondenti dei giornali borghesi che inseriscono perfettamente nell’orchestra dell’ideologia dominante la loro

prosa

solitaria» 95,

combattere

la

strumentalizzazione

elettorale

perpetrata ai danni delle vittime prive di parola, dei «dannati della terra» 96 di ogni nazionalità. In secondo luogo – sulla scorta dell’insegnamento di Ejzenštejn, ma ancor più di Brecht – nei testi e nei film vige il principio del montaggio, in grado di spezzare quanto è falsamente unito e, viceversa, connettere elementi lontani nello spazio e nel tempo. La scrittura diventa paratattica e percussiva, difficile non per i vocaboli usati ma per i nessi logici espunti al fine di indurre il lettore alla fatica del ragionamento.

Cfr. F. Fortini, Un comizio per il Vietnam (1967), in Id., Memorie per dopodomani, cit., pp. 9-24. F. Fortini, Le mani di Radek, in Id., Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Einaudi, Torino 1989, p. 97. 91 F. Fortini, Profezie e realtà, cit., p. XV. 92 Ivi, p. VII. 93 F. Fortini, L’informazione inutile (1976), in Id., Insistenze, cit., pp. 180-183. 94 F. Fortini, Profezie e realtà, cit., p. XII. 95 F. Fortini, Asia maggiore, cit., p. 178. 96 La citazione da L’internazionale è in F. Fortini, Diario tedesco, cit., p. 50. 89 90

21


Grazie allo straniamento e all’accostamento tendenzioso si svelano i non detti delle versioni ufficiali, si desublima la tronfia retorica del potere, si fa saltare il continuum reificato di una narrazione scritta sempre dai vincitori, di un patrimonio culturale segnato dalla barbarie. Fortini, sotto questo riguardo, è lontano dallo storicismo progressista e vicinissimo a Benjamin: la conoscibilità del passato non è garantita per sempre, anzi è solo nel momento del pericolo (i “fatti di luglio” 1960, nel caso di All’armi!), nell’attimalità dello Jetztzeit, che si può costruire quella costellazione allegorica

capace

di

«passare

la

storia

a

contropelo » 97.

Detto

più

semplicemente, nel processo ermeneutico sono inscindibili due movimenti opposti e complementari: uno di storicizzazione, di indagine sulla genesi di un fenomeno; l’altro di attualizzazione e citazione, di ricerca del contenuto di verità valido ancora oggi. Piano noetico e piano della prassi, pur non fondendosi

nel

misticismo

avventato

dell’immediatezza,

sono

perennemente in comunicazione.

4. Conclusioni «Te lo concedo, eppure quella esigenza di universalità e di eternità sussiste. […] Se non sapessi che la mia vita ha un valor e che si proietta al di là della storia, allora non potr ei lavorar e per quel che più mi importa». […] «Per noi, vedi – r iprende Pi etro – l’unica salvezza è quella degli altri. Liberando gli altri liber iamo noi stessi». 98

Rimane, in ultimo, da recuperare e risolvere una delle questioni fondamentali

sin

qui

incontrate:

la

dialettica

particolare/universale,

individuo/collettività, privato/pubblico. Riportiamo e compariamo alcuni luoghi significativi. Nei Cani leggiamo di una «biografia che non aspetta da se stessa [...] se non verità indirette» 99; il libro viene definito «di apparente polemica immediata e di apparente autobiografia» 100; finché lo scrivente non ammette esplicitamente che «la forma autobiografica […] non è che Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit. F. Fortini, Sere in Valdossola, cit., p. 51. 99 F. Fortini, I cani del Sinai, cit., p. 453. 100 Ibid. 97 98

22


modesta astuzia retorica. Parlo anche dei casi miei perché certo che solo miei non sono. Della mia “vita” non me ne importa quasi nulla» 101. Del commento fuori-campo che accompagna il documentario All’armi!, si rivendica specialmente il tentativo «di saldare una tensione esistenziale (è, infatti,

anche

una

autobiografia)

ad

uno

schema

storico» 102.

Come

103

evidenziato da Benvenuti , in Asia Maggiore la società cinese viene ammirata proprio per la decisione con cui rifonda la nozione stessa di persona, per la «profonda esigenza di unità immediata fra vita privata e pubblica» 104, per la ricerca di «un linguaggio unitario dove scompaia la distinzione» 105 tra interiorità ed esteriorità. Le asserzioni più categoriche, però, ci vengono da un progetto incompiuto estremamente rilev ante: Un giorno o l’altro 106. Si tratta di un collettore di materiale eterogeneo e preesistente 107 che alcuni hanno avvicinato al Vittorini di Diario in pubblico 108, altri alle raccolte aforismatiche di Adorno o a un blog dei giorni nostri 109. Non ce la faccio più a cer car e di sapere se sono una persona o due o cinque. Non so chi sono e devo confessar e che non me ne importa più. Non so chi sono ma cerco di saper e chi sono stato, ossia in quale rete di storia e di società mi s ono trovato a viver e. 110 Non ho una verità privata ed una pubblica. Il senso ultimo del mio lavoro è proprio que sto: non volere che gli altri, nessun altro […], abbiano una doppia ver ità. 111

La «scissione tutta “mondana”, quella del cittadino dal bourgeois» 112 è, per Fortini, l’essenza stessa d ella società capitalistica, divisa tra una Ivi, p. 421. F. Fortini, Una dichiarazione di Fortini, «Quaderni piacentini», 1962, nn. 2-3, p. 12. 103 G. Benvenuti, Il diarismo in «Asia Maggiore» di Franco Fortini, in A. Dolfi, N. Turi, R. Sacchettini (a cura di), Memorie, autobiografie e diari nella letteratura italiana dell'Ottocento e del Novecento, Ets, Pisa 2008, pp. 497-505. 104 F. Fortini, Asia maggiore, cit., p. 27. 105 Ivi, p. 177. È, in parte, il problema del brain washing e della confessione pubblica. 106 F. Fortini, Un giorno o l’altro, a cura di M. Marrucci e V. Tinacci, Quodlibet, Macerata 2006. 107 Vi si trovano articoli, annotazioni volanti e soprattutto lettere, a testimonianza dell’inclusività del genere diaristico e della vicinanza tra diario ed epistolografia. Cfr. F. Fortini, Diario, cit., p. 195; A. Battistini, Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia, il Mulino, Bologna 1990, pp. 186-187. 108 R. Luperini, Introduzione, in F. Fortini, Un giorno o l’altro, cit., p. XII. 109 L. Lenzini, Fortini-blog: «Un giorno o l’altro» (2006), in Id., Un’antica promessa. Studi su Fortini, Quodlibet, Macerata 2013, pp. 193-207. 110 F. Fortini, Un giorno o l’altro, cit., p. 513. 111 Ivi, p. 447. 101 102

23


supposta

autenticità

interiore

e

l’obbligo della

recita

esteriore, tra

sentimenti e prestazione alienata. Sebbene non si intenda ipostatizzare un genere che ovviamente si evolve a seconda del periodo, si può soste nere, a grandi linee, che l’autobiografia moderna – cioè successiva al «crollo dell’Ancien Régime» 113 – si regga proprio sulla «tirannia dell’intimità» 114 e sulla scomparsa di «sistemi di valori trascendenti» 115: il senso dell’esistenza si

sposta

dalla

dimension e

pubblica,

dall’azione

sulla

piazza,

alle

insondabili profondità interiori. L’isolamento e la molecolarizzazione contemporanei, uniti all’assenza di tradizioni e gerarchie assiologiche riconosciute da una collettività, fanno sì che nasca «il mito della “personalità”. Si apre in questo modo la strada alla ricerca psicologica, ad un io che si ritira nei meandri delle intenzioni e delle possibilità» 116. A causa di questi a priori rappresi nella Gestalt del genere, Fortini diffida delle scritture autobiografiche e, quando le pratica, dispiega sempre una serie di scrupoli

metanarrativi,

svolge

un’«autoriflessione

che

sfocia

nella

esibizione al lettore dei propri […] interrogativi» 117. Come già detto, è indubbio che la priorità sia accordata ai destini generali, all’ analisi della posizione oggettivamente occupata dall’io all’interno di un campo di forze che lo trascende e lo determina. Per queste ragioni, nei testi memorialistici, Fortini tende a guardarsi dall’esterno quasi fosse un biografo, a distaccarsi da sé, a inserire la propria parabola in una couche sociologica e storico ideologica 118. «storiografica»

I 119

suoi

scritti,

perciò,

adempiono

a

una

funzione

e documentaria, soddisfano un intento conoscitivo e

un’utilità didattica, esponendo il sé «non per compiacimento decadente ma per un estremo atto di autocontrollo, per esigenza di sottoporsi […] al giudizio collettivo e al rigore della storia» 120. Ecco alcune formule preg nanti F. Fortini, Fare diversa questa realtà, non farne un’altra (1989), in Id., Un dialogo ininterrotto, cit., p. 564. F. D’Intino, L’autobiografia moderna. Storia, forme, problemi, Bulzoni, Roma 1998, p. 51. 114 Ibid. L’autore fa riferimento a Richard Sennett, The Fall of Public Man, Knopf, New York 1977. 115 Ivi, p. 52. 116 Ibid. 117 G. Benvenuti, Il diarismo in «Asia Maggiore», cit., p. 499. 118 Cfr. F. D’Intino, L’autobiografia moderna, cit., p. 80: «il linguaggio e il tono sono proprio quelli di uno studio; […] l’autore si considera un mero oggetto di indagine». 119 F. Fortini, Autobiografia, in Id., Ventiquattro voci, cit., p. 87. 120 R. Luperini, Introduzione, in F. Fortini, Un giorno o l’altro, cit., p. XVI. Il fatto che le scritture autobiografiche siano un «genere misto di “storia” e di “discorso”» (A. Battistini, Lo specchio di Dedalo, cit., p. 146) ha una 112 113

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con cui l’io rifugge dalla pienezza vitale della memoria involontaria e dell’introspezione so lipsistica: «in realtà non ricordo, interpreto» 121; «non so ancora […] quale sia stata negli ultimi cinquant’anni la storia della piccola borghesia europea e italiana; e di me in essa […]. Se sono, io, cambiato, è a questo che lo debbo: a come i grandi event i mondiali mi hanno costretto a interpretarmi sempre diversamente» 122. Persino in Un giorno o l’altro «prevale la discussione teorica e politica» 123, la reinterpretazione contestualizzante del proprio passato, la «controversia con se stesso» 124 lungo «un itinera rio di verità e di errori, di ripetizioni e di correzioni non private» 125. La dispersione dell’effimero viene così inserita in un progetto che ne garantisce il senso e la durata; in tal modo, ci si avvicina all’«autoritratto», genere «prossimo al saggio», si mile a «una summa enciclopedica», a una «compilazione di repertori autoesegetici […] dove la memoria del singolo confluisce in quella collettiva» 126. Ma perché, se nutre così tante riserve verso l’io, Fortini non riesce a rinunciarvi del tutto? In primo luo go, è sempre presente in lui l’esaltazione – cristiana, kierkegaardiana e manzoniana – della responsabilità personale, la messa in rilievo della scelta compiuta dal singolo di fronte all’assoluto, del

peso

tragico

del

libero

arbitrio.

In

parte,

poi,

si

tra tta

di

un’impossibilità epocale: quando non esiste un vero movimento collettivo in cui far confluire il proprio lavoro, lo scrittore è relegato alla ricaduta degna di attenzione, applicabile probabilmente a varie opere fortiniane. Se l’io si sdoppia in un protagonista che agisce nel passato e in narratore-autore che scrive in un secondo momento, allora «il peccato e il vizio veng[o]no a ricadere sul personaggio e non sul narratore» (Id., L’«io» autobiografico, cit., p. 44). L’autoironia o l’ammissione dei propri errori passati, perciò, può trasformarsi paradossalmente in un’«ingiunzione sociale con cui l’autore fornisce ai lettori un modello di comportamento» (Id., Lo specchio di Dedalo, cit., p. 144), può veicolare un contenuto edificante ed esemplare, un messaggio didascalico e parenetico (seppure non volgarmente autocelebrativo). In altre parole, «l’autobiografia, in termini retorici, rientra nel genere giudiziario, in quanto chi la scrive ricostruisce il proprio passato con il proposito di giudicarlo anche, se occorre, impietosamente»; tuttavia, l’io scrivente finisce inevitabilmente per scivolare nel «genere epidittico, ossia a una strategia tendente […] al monumento di sé» (Id., L’«io» autobiografico, cit., p. 42). Fortini stesso, tra l’altro, ha messo in guardia contro l’ambiguità statutaria di tali scritture: «il grado della cosiddetta “sincerità” di chi parla o scrive di sé va misurato sulla ipotesi che l’autocoscienza sia quasi sempre una costruzione difensiva ed apologetica. [Un’autobiografia] dovrebbe quindi essere letta, per principio, senza candore alcuno, come lo storico fa dei documenti» (F. Fortini, Autobiografia, cit., pp. 83-84). 121 F. Fortini, I cani del Sinai, cit., p. 432. 122 Ivi, p. 421. 123 F. Fortini, Un giorno o l’altro, cit., p. 3. 124 Ivi, p. 535. 125 Ivi, p. 3. 126 A. Battistini, Lo specchio di Dedalo, cit., p. 180.

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«testimonianza» 127, alla petizione di principio, alla professione di fede, alla profezia utopica. Infine, è grazie alla lezione esistenzialista e a quella religiosa che Fortini non dimentica mai il valore della vita individuale e sviluppa

un

marxismo

critico

lucidissimo

nel

denunciare

le

violenze

staliniane. Il socialismo di Fortini non è quello degli «stomaci h egeliani» 128 che

digeriscono

senza

esitazioni

repressioni

sanguinarie

e

purghe

spaventose. Le derive dello stato etico, i crimini compiuti in nome di un’imprecisata e impersonale necessità storica vengono stigmatizzati con durezza. L’uomo, anche quando è usa to come mezzo, deve rimanere il fine ultimo; inoltre, bisogna continuamente soppesare i sacrifici offerti nel presente sull’altare del domani e verificare nell’oggi la giustezza della strategia complessiva. La forma dell’espressione e il metodo euristico d i Fortini si legano strettamente a quanto accennato. Il suo stile saggistico, infatti, è scontroso e discontinuo, attraversato da fratture e salti; le sue note sono concise, fremono di un’impazienza che fugge le argomentazioni ordinate, precipitando spesso in chiuse inaspettate. Inoltre, sebbene abbracci le categorie lukácsiane di prospettiva e di totalità, sebbene ricerchi sempre la regolarità generale in grado di spiegare la pluralità fenomenica, Fortini non sacrifica mai il dettaglio, lo zoom indispensabile

teoria

complessiva 129.

Come

in

puntuale, alla pur

Benjamin,

più

che

a

un’esposizione metodica, lineare e graduale, si punta sulla giustapposizione fulminante di monade e totalità, di particolare minuto e di grandiosa campata storica. Tale procedimento è riassunto perfettamente da Adorno 130: Anche dove la non - ingenuità è concepita come r esponsabilità teoretica, continuo allargamento, rifiuto di arrestarsi al fenomeno isolato, pensiero costante della totalità, c’è un alone funesto che la sovrasta. È appunto quell’andar oltre e non indugiare mai, quel tacito riconos cimento di un privilegio all’universale nei confronti del particolare, in cui consis te non F Fortini, Lo stato-guida (1957), in Id., Dieci inverni, cit., p. 256. F. Fortini, I piccoli azionisti dell’imperialismo (1972), in Id., Disobbedienze I. Gli anni dei movimenti. Scritti sul manifesto 1972-1985, manifestolibri, Roma 1997, p. 28. 129 Cfr. R. Luperini, Introduzione, in F. Fortini, Diario tedesco, cit., pp. 7-10; Id., Su Fortini critico e teorico della letteratura, «allegoria», 1996, nn. 21-22, pp. 134-141; F. Menci, Fortini tra Lukács e Benjamin, «allegoria», 2001, n. 38, , pp. 70-87. 130 È interessante notare che lo stesso Adorno, con un’ambivalenza che troviamo anche in Fortini, aveva attaccato Benjamin proprio per il suo «incrocio di magia e positivismo». G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino 1978, p. 118. 127 128

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solo l’inganno dell’idealismo, che ipostatizza i concetti, ma anche la sua inumanità che […] viene troppo presto a compromesso col dolore e con la morte in nome della conciliazione pr esente solo nel pensiero […]. La conoscenza ver amente allar gante è quella che indugia presso il singolo fenomeno finché, sotto l’ins istenza, il suo isolamento si spezza. 131

Concludiamo con una confessione autoriale che ci pare riassuma bene il nostro percorso: stanchezza e […] turbamento […] dopo una giornata […] trascors[a] a fare quel che non dovrei fare, cioè a tentar e una formulazione astr atta di pensier i che dovrei invece espo rre, come or a sto facendo, nella forma più soggettiva, diaristica, letter aria. […] Si tratta della contr addizione fr a il mio modo naturale di espr essione […] e la volontà di scr iver e qualcosa che abbia una sua consistenza oggettiva, che serva di modello: v erso quella prosa media che è forse una nostalgia di saggezza. Che cos a intendo dire, parlando di saggezza? Prima di tutto, un sapere che non coincide con la scienza, con la sua par ticolarità e discorsività. Il sapere che per un verso è prossimo al fare, a lla tecnica e alla sens ibilità e per un altro verso è separazione dall’evento, attenzione e contemplazione. 132

Sono qui raccolti i poli estremi di una fertile oscillazione tra testimonianza soggettiva e astrazione generalizzante, tra verticalità etica e orizzontalità politica; sono qui presenti le ragioni per cui Fortini, pur parlando in prima persona, non intende fornire al pubblico la storia di un’anima, né semplici effusioni intime, impressioni turistiche, appunti cronachistici. Al contrario, egli si p refigge di partire da un episodio per giungere a una verità collettiva, a un sapere complessivo che «nella ricerca e serietà specialistica ama la serietà della ricerca senza credere all’ideologia dello specialismo» 133. L’aspirazione dell’intellettuale fioren tino è la proposta di una prosa ideologica ma non dogmatica, orientata verso la prassi ma non totalmente risolta in essa; di una conoscenza che, certo, si distingue dalla certezza concepita come positivistica inconfutabilità (anzi, «quel che puoi e quel che non puoi “avere inteso” sono speculari e non sovrapponibili, come le nostre due mani» 134), ma che non va affatto confusa con la riduzione postmoderna di ogni scrittura a fiction romanzesca. Se si dà, oggi, Th. W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben (1951); trad. it., Minima Moralia. Meditazioni sulla vita offesa, Einaudi, Torino 1994, pp. 77-78. 132 F. Fortini, Un giorno o l’altro, cit., p. 387. 133 F. Fortini, Profezie e realtà, cit., p. VII. 134 F. Fortini, Un vero veduto dalla mente, cit., p. 315. 131

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la possibilità di una «percezione simbolica e fant asmatica» di opere saggistico-memoriali, con la conseguenza che «sempre più frequentemente si od[e] impiegato l’aggettivo “bello” dove dovrebb’essere detto “vero”», ciò accade a causa del «profondo cinismo politico» 135 di chi ha rinunciato a elaborare una visione del mondo alternativa a quella dominante. Rinuncia disillusa a cui Fortini non si rassegnò mai.

F. Fortini, Prosa scientifica come narrativa, in Breve secondo Novecento, a cura di R. Luperini, Manni, Lecce 1998; le citazioni sono tratte da Id., Saggi ed epigrammi, cit., pp. 1192-1193. 135

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