io
free press
Donne di carta Tabloid Quadrimestrale • Anno I • ottobre 2010
e... il giornale della gente che fa
Avere voce
Sandra Giuliani
“Pensare la differenza come una rete di solidarietà”.
Ci siamo rivolte a chi avvertiva la necessità di un’economia diversa: piccoli editori,
Il che equivale a dire, con le parole di Battiato: “tutto nell’universo obbedisce
librerie indipendenti, autori non di mercato, lettori oltre le mode, biblioteche
all’amore”. Quando abbiamo immaginato l’Associazione Donne di carta era da qui
territoriali.
che s’intonava la visionarietà di un’economia partecipativa sulla quale volevamo costruire questo modello di solidarietà tra addetti al lavoro editoriale.
Legami. Le donne non inventano mai al di fuori dei legami. La forza collettiva ha un impatto enorme se non è omologante, se si costruisce a
Addetti come noi: una editora, una libraia, una giornalista e un’agente di servizi
partire dal rispetto delle diversità. Sono le specificità che arricchiscono l’insieme.
editoriali.
La forza collettiva non dimentica il valore dell’Io.
4 donne: ecco la ragione del Nome. Una rivendicazione di maternità.
I legami con le comunità sono alla base del nostro “fare” come editori e come
Correva l’anno 2008 del mese d’autunno d’ottobre.
librai.
Un desiderio comune: fare della lettura una passione condivisa. Come? Creando
Il legame che ciascuno intesse con il testo, nella lettura, è quanto resta di un libro
una rete in cui ogni nodo acquistasse consapevolezza del proprio valore in funzione
nella nostra vita. Il legame che un autore costruisce con la sua scrittura non è con
del servizio per l’altro.
se stesso ma con quel lettore, che nemmeno immagina, con quel luogo, a cui non
Rappresentavamo il lavoro editoriale fin nella sua destinazione perché, prima di
pensa, in cui quel libro entrerà per il tempo che sarà necessario.
ogni cosa, eravamo noi stesse lettrici.
segue
->
giornale della gente che fa il giornale della gente che fa il giornale
sommario io faccio io vivo qui io altrove io sono io pubblico io leggo
3 7 8 11 13 15
->
Siamo editori itineranti per vedere i volti di chi leggerà i nostri libri.
Siamo librai indipendenti che inventano eventi di aggregazione perché la Cultura è un fare. Siamo lettori e lettrici trasformati in persone libro: impariamo a memoria i testi che amiamo e andiamo in giro, ovunque, a dirli a voce alta. In questo pellegrinaggio abbiamo conosciuto persone che fanno. Nel sociale, nei luoghi di cura, nelle scuole. Noi abbiamo portato in quei contesti la lettura e abbiamo ricevuto un dono: il senso di un’appartenenza etica alle cose, la forza di una passione. Avevamo immaginato un modello di solidarietà ecosostenibile (che non aggredisse ma s’integrasse nell’ambiente e nelle comunità), e la realtà, sempre prismatica a saperla vedere, ci ha fornito la risposta a un’inquietudine sotterranea: servirà tutto questo?
io e... • Donne di carta Tabloid Associazione culturale no profit www.donnedicarta.org email: info@donnedicarta.org Reg. Trib. di Roma n. Editore “il Caso e il Vento” iscrizione al ROC n. NUMERO ZERO copyright © 2010 Il Caso e il Vento
redazione Donne di carta Emanuela Grillo Bruna Marcantonio Stefania Molajoni Marina Pierri Luciana Scarcia copertina Nicoletta Montemaggiori foto interne Nicoletta Montemaggiori Gianna Petrucci
Se servire è fare un servizio, sì. Corre l’anno 2010 del mese d’autunno d’ottobre. Oggi Donne di carta è più voci.
Pagine come vele al vento
Monica Maggi
Oggi nasce “Ioe…”, una manifestazione cartacea e ininterrotta, un parlare senza possibilità di pausa del fare. Donne di carta, con il suo Tabloid, si scrive come fosse una storia. La racconto io, lusingata dell’incarico datomi, perché con la penna ci lavoro da anni, è
segreteria di redazione Maria Rita Guarini Alessandra Maggi Chiara Pasqualini
vero, ma mai prima d’ora ho capito quanto sia importante il fare di un lettore. Perché
di carta abbiamo partorito questo figlio: per raccontare e rivelare che chi legge non
direttore responsabile Monica Maggi
hanno collaborato Lilly Ippoliti Patrizia Palmieri Stefania Vulterini
caporedattore Sandra Giuliani
progetto grafico tree-art
chi legge fa. Fa molto di più di chi scrive. Chi legge ha potere: sceglie, decide, sfoglia, arriva alla fine o butta via dopo i primi tre capitoli (se va bene). Chi legge elegge: sentenzia la fine o l’inizio di chi è dall’altra parte del foglio. Ecco perché noi Donne sempre scrive, ma sicuramente FA. Agisce, costruisce, opera, lavora. Chi legge ed è seduto, accovacciato, sdraiato, in piedi, itinerante o stazionante FA, lavora. Il Tabloid ha scelto così, con questo criterio e come voci importanti del FARE, tutte le realtà che sono state toccate o conosciute in questi due anni e mezzo di vita, anche grazie al tour massacrante ed entusiasmante delle persone libro: la reale attività militante del nostro promuovere, ovunque e sempre, la lettura.
responsabile grafica Gianna Petrucci collaboratori regionali Lilly Ippoliti (Lazio) Francesca Palumbo (Puglia) Luciana Tartaglia (Toscana) ufficio stampa Il Menabò di Rosanna Romano
Fate finta, allora, di essere in una grande piazza: noi apriamo questo enorme telo colorato a più intarsi e raccontiamo... vi raccontiamo, foglio dopo foglio, i volti di questo Paese del fare. Sei le fermate. Si parte da “IoFaccio”, un intreccio di storie dove i profili umani si mettono al servizio del fare: “fare insieme” per stravolgere i luoghi comuni sulla disabilità, “fare sostegno” alle donne che combattono contro il cancro e a chi vive in carcere, “fare arte” con il
La riproduzione dei testi è consentita per scopi non commerciali citando correttamente la fonte previa richiesta alla redazione. Chiuso il Copie stampate: 5.000
gusto del gioco.
stampato per conto de Il Caso e il Vento Tipografia Basagni (Arezzo)
emiliana che fa della politica una missione sociale: Leda Colombini.
“IoVivoQui” è il “luogo di racconto” dedicato alle voci degli stranieri in Italia per raccogliere la ricchezza delle diversità. “IoAltrove” narra, invece, la storia delle associazioni e dei gruppi che operano per la solidarietà internazionale e, in particolare, il nostro sostegno alla Campagna per l’assegnazione del Nobel alle donne africane. “IoSono” è un’incisiva pennellata di ritratti: questa volta è la storia di una donna Inaugurano le pagine di “IoPubblico” due giovani case editrici, nostre socie, descrivendo la loro storia di “editore” tra passione e mercato. E il viaggio si chiude con “IoLeggo” che trasforma la lettura in esperienza reale, come quella, appunto, delle persone libro o del progetto di salvezza dei limoni (Fiordamalfi) o la denuncia dei luoghi comuni sull’amore (Il corpo non sbaglia).
Donne di carta è un’associazione culturale no profit che si sostiene tramite le quote dei soci. Se vuoi partecipare come articolista o sostenere la nostra iniziativa diventa SOCIO (sconti del 10% sui titoli degli editori associati e sui Corsi/Laboratori che organizziamo). Scrivici: info@donnedicarta.org
Fogli che incartano Storie e Persone verso l’unico porto possibile per l’unica salvezza auspicabile: la lettura… seguiteci.
rnale della gente che fa il giornale della gente che fa
io faccio Scrivere in carcere “La penna è un ago con cui rammendo
educazione&formazione
la mia vita”: in questo verso del poeta e pittore Tonino Milite il senso dello scrivere in carcere: una scrittura di sé, anche nella forma dell’invenzione, per ripensare al proprio passato, riappropriarsi dell’esperienza, individuare tracce di trasformazioni avvenute e indizi di trasformazione in divenire. Chi frequenta il laboratorio di lettura e scrittura, che da vari anni tengo negli Istituti Penitenziari di Rebibbia, legge, ascolta, discute, si confronta per arrivare a scrivere dei racconti. Ecco cosa pensano dell’esperienza alcuni dei detenuti frequentanti: AM: Mi sono avvicinato alla scrittura in un periodo in cui la mia vita era ingarbugliata come mai prima… Il carcere, privandomi di ciò a cui tengo veramente e lasciandomi da solo, mi ha obbligato a fare i conti con me stesso e a tirar fuori la parte migliore di me, quella che troppe volte ho celato. Scrivere di sé in carcere è imparare a conoscersi con umiltà, criticandosi e perdonandosi non solo per il male procurato agli altri, ma anche per quello inflitto a noi stessi. È abbattere quella parvenza da duri dietro alla quale per troppi anni ci siamo nascosti. È abbassare la guardia e permettere al mondo di avvicinarsi affinché si renda conto che non è solo per i nostri errori che ci deve ricordare. FA: Ho iniziato questo laboratorio di lettura e scrittura prima di tutto per raccontarmi la mia vita, per vedere i cambiamenti, le omissioni e gli abbellimenti che il tempo aveva operato, per capire chi ero io per me stesso. Poi mi sono confrontato con gli altri, per poter collocare me stesso, il mio essere uomo-detenuto-malato pieno di contraddizioni e ombre. Sono riuscito ad accettare la mia complessità perché è la complessità dell’uomo, di tutti gli uomini, e adesso la sento come una ricchezza irrinunciabile. Dunque, la scrittura che si pratica nel mio laboratorio è fondamentalmente un’esperienza di autoformazione, in coerenza con la normativa (e la Costituzione) che richiede alle attività in carcere di contribuire alla rieducazione e al reinserimento del detenuto nella società. La finalità educativa non è un elemento inquinatore dell’espressione creativa; i Greci ci hanno insegnato che l’etica e l’estetica non sono separate, ma due facce dello stesso bisogno di elevarsi. Raccontare l’esperienza e farne una storia implica la scelta di ciò che è più importante e il giudizio su ciò che è giusto o sbagliato; dunque è anche un esercizio di preparazione alla vita. Per questo la scrittura in carcere non può limitarsi a una generica “espressione di sé”, se non altro perché questo sé è da identificare e ridefinire; né al racconto di fatti, in quanto nel momento in cui questi si trasformano in parole e immagini diventano esperienze che, con il loro bagaglio di motivazioni ed emozioni, veicolano un significato e mettono di fronte al problema della verità. L’esperienza è come un iceberg: dietro la realtà visibile di azioni e comportamenti c’è una realtà invisibile molto più ampia, fatta di bisogni, desideri, paure, affetti, ambivalenze, ed è questa realtà che va esplorata, per capire quella visibile, attraverso la forma della narrazione.
Luciana Scarcia Dunque raccontare diventa uno strumento di questo percorso di ricerca, un processo di conquista di consapevolezza che nel suo farsi individuale si avvale del confronto con altri punti di vista. Nel laboratorio, che ha più o meno la durata di un anno scolastico con un incontro a settimana, ci serviamo della buona letteratura come modello di riferimento e come spunto di pensiero, perché impegnarsi a scrivere un buon racconto non è un lusso per pochi, ma l’occasione di un confronto con una porzione più ampia di umanità, che la letteratura appunto rappresenta; raccontare di sé e delle proprie personali vicende, costruendo di se stessi un personaggio inserito in una trama, significa vedersi con distacco e capire di più. Ma qual è il senso di questa esperienza per me? Certo, il confronto con gli errori, le omissioni, le distrazioni di chi sta scontando un fallimento indubbiamente risveglia un’eco, produce assonanze; ma non è qui, nell’offrire una sponda, che sta la motivazione profonda di quello che faccio. Quello che sperimento in questa attività è la ricerca di ciò che manca, ciò che non è palese, che si nasconde tra le pieghe della vita, che sta dietro le azioni, i nessi che sono sfuggiti o che non sono stati ancora cercati… La scrittura è già segno di un’assenza: si può scrivere solo ciò che non si sta vivendo, ma è nella trasformazione di questa negazione in costruzione di vita che essa trova il suo senso. Chi finisce in carcere e decide di raccontarsi si trova a trattare una materia molto complessa, fatta di trasgressione del codice sociale, di sensi di colpa, di frustrazione per il doppio fallimento. L’operazione che intraprende è assai impegnativa anche perché queste traiettorie di vita non necessariamente sono il risultato di scelte consapevoli, piuttosto l’inevitabile approdo di tante piccole azioni sbagliate, in un groviglio di casualità, necessità e intenzionalità. Quindi si tratta di un processo di conquista di consapevolezza e dignità. Far scrivere chi si trova in questa condizione significa avventurarsi su strade sospese che non si sa dove portino, alle quali manca un approdo sicuro e una direzione che può solo essere cercata insieme. Ed è proprio la ricerca della direzione nella quale mettersi per trovare frammenti di verità, verso approdi che non sono già dati, ciò che mi piace di più in quello che faccio. A cominciare dalla ricerca di letture appropriate al tema scelto per il corso o dagli spunti di scrittura, per arrivare alla revisione dei testi utilizzando le domande giuste, suggerendo proposte di miglioramento. È in fondo una sfida: riuscire a trasformare un testo che inizialmente è una sequenza magari sconnessa di azioni e ricordi, con omissioni e luoghi comuni, in un racconto in cui i personaggi siano pregni di significato, tanto da poter rispecchiare chi scrive. Camminando su questi percorsi alla ricerca di una direzione è facile trovare intoppi, intoppi della vita reale, quella sfortunata, dolente, violenta e, allora, per riuscire a toccare questa materia servirebbe mettersi le ali ai piedi come Perseo. Posso osare solo con la letteratura.
il giornale della gentedella che fagente che fa il giornale della gente che fa il giorn
io faccio Guarda in faccia la violenza
educazione&formazione
Sono seduta alla mia scrivania.
Pronta per partire, pronta per scrivere il discorso che farò in apertura dell’evento: “Buongiorno colleghi, buongiorno Preside, buongiorno ragazzi, la mostra GUARDA IN FACCIA LA VIOLENZA, che ospitiamo oggi qui a scuola, è un evento itinerante di sperimentazione culturale e di animazione sociale che, recuperando gli spazi pubblici delle città, mostra 15 sagome a grandezza naturale di donne lesbiche e uomini gay che raccontano le storie della violenza subita in vari ambiti e contesti. Il Progetto nasce dalla collaborazione tra ReteDonneArcigay e ArciLesbica in occasione del BolognaPride 2008 e nell’autunno 2009 arriva qui in Puglia (oltre che in Campania) in partnership con la campagna Europea For Diversity Against Discrimination (FDAD) organizzata a livello PANeUROPEO dalla Direzione Generale Occupazione, Affari Sociali e Pari Opportunità della Commissione Europea con l’obiettivo di “combattere le discriminazioni, legate all’orientamento sessuale, all’età, alla disabilità, alla razza o origine etnica, alla religione o al credo”. Perché non portare questo evento proprio nella scuola, tra i ragazzi, tra gli adolescenti? Faccenda delicata, faccenda scomoda. Tentenno, prendo tempo, ma le immagini delle sagome nelle piazze mi affascinano, mi attraggono, comincio a sentirne le voci. Scorro altre immagini e leggo tra le tante questa didascalia: - Andrea, 16 anni: La mattina entravo a scuola,(…) e poi battute, scherzi,”finocchio, sei solo un finocchio di merda”. Gli insegnanti un po’ mi difendevano, un po’ erano stufi di loro e forse pure di me (…) avevo paura che la vita sarebbe stata solo questo per me e non ce la facevo più. Dopo un anno e mezzo un giorno (…) mi sono chiuso in bagno, mi sono tagliato i polsi. Mi prende una morsa allo stomaco. Sgranocchio pensieri e dubbi. Non sarà impresa facile portare l’idea di questa mostra a scuola, farla passare. Faccio parte o no di quel gruppo di insegnanti ancora capaci di spendersi per la scuola? Impossibile non aderire a un richiamo così forte, un’urgenza quanto mai necessaria al fine di portare le giovani generazioni, oltre che tutta la cittadinanza, a riflettere sull’ingiustizia e la gravità della violenza contro le persone omosessuali, che pure, come le cronache ci mostrano, funesta la vita di molte e molti giovani che costituiscono il 10% (dato dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) della popolazione. Portare questa mostra nella mia scuola (l’I.T.C. Romanazzi di Bari) diventa allora una sfida, la sfida nei confronti di una cultura ipocrita e retrograda che alimenta l’ignoranza anziché promuovere azioni di intervento e sensibilizzazione, indispensabili soprattutto tra i giovani e nelle scuole, dove spesso il bullismo si manifesta violentemente nei confronti di giovani gay e lesbiche e dove molto si può per la formazione di giovani cittadine e cittadini che si sottraggono ai giudizi e alla condanna della diversità. Ma chi me lo fa fare? Risuona ancora una volta nelle stanze della mia incertezza. È una vignetta che resta sospesa pesantemente sulla mia testa come una nuvola di Magritte. Faccio pallottole di carta, centro il cestino e riprendo a scrivere. O-MO-FO-BIA… le domande più frequenti dei miei alunni: “Prof. ma l’omosessualità è una malattia?” E vada. Mi reco in presidenza il giorno dopo nell’ora di buco. Parlo, spiego, illustro. La preside mi fa: “Ok mi sembra interessante, ma se poi si sca-
tena un putiferio?”. “Ben venga”, rispondo secca e lancio un sorriso da gioconda… imperturbabile, imperscrutabile!... Giro i tacchi e sparisco, prima che possa ripensarci. Quando chiamo l’associazione di Arcilesbica mi dicono che sono felici che una scuola chieda di aderire all’iniziativa, nessuno lo aveva mai fatto, siamo la prima scuola a chiedere che la mostra entri in uno spazio scolastico. Dopo tre giorni la mostra è da noi; aiuto le donne dell’associazione a trasportare le sagome, che pesano davvero come corpi reali, con tutte le loro ferite ben celate, lo sguardo triste di chi subisce di continuo, una vita non a misura… L’omosessualità è una malattia? Distribuiamo le sagome nel cortile esterno, i colleghi si allungano come ombre nei corridoi, incuriositi; il giorno prima ho fatto passare nelle classi dei fogli informativi, ho proposto dei questionari, mi sono resa disponibile per chiarimenti a studenti e colleghi. Nessuno ha chiesto di me. Ho atteso. E attendo ancora adesso che tutto si compia. Le classi scendono in aula magna. Le rappresentanti dell’Arcilesbica più altri due rappresentanti dell’associazione Arcigay mi dicono che la scuola è presidiata dall’esterno dalla Digos in borghese, perché non si sa mai… Sono pronti a tutto! Si avverte una certa friction, anche i bidelli e i segretari si affacciano incuriositi in aula magna, alcune colleghe si mostrano scettiche, certe altre un po’ più collaborative esortano le proprie classi ad accomodarsi. E che lo show cominci: 3 ore di fuoco a nominare le cose per quelle che sono, senza omissioni, senza falsi pudori e reticenze. I ragazzi fanno un sacco di domande, ridacchiano, si imbarazzano, arrossiscono. Certi sembrano a disagio, altri cominciano a sciogliersi e a rispondere alle provocazioni dei relatori. Una ragazza si fa strada tra tutti e parla della propria esperienza omosessuale... vocii, bisbiglii, risatelle nervose. Cerchiamo di sviscerare l’argomento nel modo più rilassato possibile, facilitando un clima di discussione aperto alle diverse opinioni e scoraggiando gli attacchi personali e i giudizi negativi.
Francesca Palumbo L’iniziale imbarazzo viene immediatamente stemperato dalla abilità degli ospiti coinvolti nel dibattito, che si fa acceso e stimolante, pregno di forte emotività e apertura. Le ore trascorrono veloci, siamo arrivati alla fine della giornata scolastica, la campana suona e gli studenti restano ancora incollati alle sedie: vogliono ancora domandare, capire, sapere. Penso che la cosa più bella in assoluto di questa esperienza sia che, oltre che di rispetto, si sia parlato tanto di amore, di ascolto, di attenzione all’altro, di condivisione e di accoglienza. E sono fiera che questa piccola iniziativa possa aver segnato in qualche modo l’inizio di un percorso che non è iniziato e terminato con la mostra, ma che ha avuto un suo prosieguo nel corso dei mesi successivi e che ha dato spazio a una richiesta forte di attenzione e ascolto. Una richiesta spesso soffocata dall’indifferenza e dal giudizio. Parlare allora di omofobia a scuola implica la considerazione di ogni forma di discriminazione e violenza perpetrata ai danni di qualunque persona quale che sia l’alterità che incarna, offrendo spunto per sottolineare il diritto di ogni individuo a vivere in maniera sicura e accogliente l’ambiente scolastico. Continuo a chiedermi perché tale diritto, che noi come scuola - quale “luogo ideale per diffondere i valori del rispetto, della diversità e della legalità e contrastare violenza e discriminazione” - siamo chiamati a salvaguardare, rimbalzi di continuo come un boomerang contro il muro di una cultura intrisa di tradizionalismo bigotto ed eterosessista. Una cultura capace solo di restituire, soprattutto attraverso la televisione, sempre nuove e intransigenti norme, secondo cui decenza e moralità vengono codificate seguendo canoni assai discutibili, che continuano a nutrire la pericolosa e distruttiva spirale che da ignoranza si trasforma in paura e poi, inevitabilmente, in violenza.
giornale della gente che fa il giornale della gente che fa il giornal “Per Lei” Intervista alla sig.ra Daniela Come hai conosciuto l’associazione? Per caso, mi ero iscritta a un corso d’informatica nella scuola “Vincenzo Pacifici” dove attualmente ci si incontra.
Quali le motivazioni che ti hanno spinta a prendere contatto con ‘PER lei’? Perché sono una donna che combatte con un cancro al seno da quasi dieci anni.
Quali le tue aspettative? Informare il più possibile di quanto sia importante fare prevenzione: ecografie, mammografie e, soprattutto, auto palpazione.
Il contatto con altre donne che vivevano la tua stessa situazione ti ha aiutato? in che modo? Sì, c’è molta solidarietà tra noi donne che combattiamo per sconfiggere questo male.
Cosa è cambiato dopo l’incontro con l’Associazione? Ci si sente meno soli.
Hai pensato anche tu di poter essere utile ad altre donne con il tuo stesso problema? Penso che parlarne sia il modo migliore per buttare fuori tutta l’ansia e le paure che ti assalgono, perché non è semplice convivere con un cancro, ma poi pian piano e grazie alla ricerca, che ha fatto passi da gigante, si diventa forti sempre di più, e fiduciose. La vita è una battaglia e le battaglie vanno vinte.
All’inizio fu solo una curiosità professionale:
volevo approfondire alcuni aspetti del mio lavoro riguardo alla riabilitazione di pazienti oncologici. Era diverso tempo che venivo contattata da famigliari di pazienti con problemi oncologici per delle terapie a domicilio e volendo saperne di più ho iniziato a frequentare alcuni corsi specifici; poi ho deciso di fare un tirocinio volontario presso l’Istituto Tumori di Genova (IST). Sono così entrata in contatto con un mondo per me completamente nuovo. Le pazienti operate al seno venivano seguite in tutto, i colleghi di Genova erano molto propositivi e organizzavano anche incontri di medicine alternative come i gruppi di Qi Gong. La mia curiosità diventò poco a poco un “progetto” . Proposi alla clinica in cui lavoravo di ricreare, in day hospital, un ambiente simile anche per le pazienti della nostra zona, così che avessero la possibilità di fare più trattamenti e di accedere a più servizi; ma, conti alla mano, la direzione mi fece capire che non era possibile. Compresi allora che per la realizzazione del progetto la strada giusta era il volontariato. Nel 2008 iniziarono le prime riunioni per individuare quali azioni compiere e chi avrebbe donato il proprio tempo e la propria professionalità. Ci incontravamo nelle nostre case, non avevamo ancora una sede ufficiale. Prendemmo anche contatto con altre associazioni, già attive sul nostro territorio, con la speranza, rivelatasi vana, che qualcuno ci supportasse. Infine abbiamo compreso che avremmo dovuto farcela con le nostre sole forze. Scegliemmo il nome Associazione “Per Lei”, per tutte le donne che hanno percorso o stanno percorrendo un cammino così difficile. Il “Centro Servizi per il Volontariato” ci aiutò per la parte burocratica e nell’aprile del 2008 nacque legalmente l’Associazione. Battezzammo il nostro progetto “da donna a donna”, convinte che la condivisione alla pari di ansie, timori, dubbi e speranze fosse il metodo migliore per superare le difficoltà quotidiane di un percorso così arduo.
il lavoro solidale
Obiettivo del progetto era quello di creare un punto di riferimento per le donne operate al seno nella zona di Tivoli e comuni limitrofi, con offerta di servizi quali linfodrenaggio, fisioterapia, ginnastica di gruppo, psicoterapia individuale e di gruppo.
Moira Marconi, Patrizia Palmieri Ora avevamo bisogno di una sede. Entrammo in contatto con l’Ospedale, con il Comune, ma non trovammo accoglienza. Infine pensammo alla “Scuola Media Vincenzo Pacifici” di Villa Adriana, nei cui locali, nel pomeriggio, si tenevano i corsi della Libera Università. Fu la soluzione al nostro problema. Ci accolsero a braccia aperte e ci misero a disposizione un’aula e uno studio medico per un pomeriggio a settimana. Finalmente potevamo passare a programmare le attività. I primi tempi ci siamo autofinanziate, poi siamo passate al tesseramento; abbiamo anche partecipato con coraggio e ottimismo al concorso della “Komen Italia Onlus” per ottenere finanziamenti. Il numero delle volontarie è cambiato nel corso del tempo, ma non ci è mai mancato il sostegno e tutte le persone che hanno collaborato, anche se per brevi periodi, ci hanno dato un importante contributo, che ci ha permesso di proseguire nel nostro percorso. Carmela Esposito, Fortunata Scotto Di Clemente, Silvia Lombardi e Alessandra Paolacci e la dott.ssa Paola Bousquet sono le colleghe e amiche che hanno condiviso il cammino fin dall’inizio e che mi sento di ringraziare per la loro presenza e il loro impegno. Importante per farci conoscere sul territorio è stato il Seminario, fortemente voluto dalla dott.ssa Dominici, destinato alle donne operate al seno, che riguardava le terapie di supporto alla chemio: omeopatia, fitoterapia, fisioterapia. La Sig.ra Anna, operata da cinque anni, aveva bisogno di trattamenti, venne a trovarci dopo aver partecipato al Seminario: la nostra prima donna, il nostro primo intervento. Dopo di lei abbiamo incontrato altre donne, con problemi diversi, in diverse fasi della malattia; per noi è stata sempre una grande emozione. Con il tempo abbiamo cominciato a capire che ciò che ci veniva chiesto, ciò che ci si aspettava da noi, non era un semplice supporto di tipo clinico”, per quello già c’erano gli ospedali e le terapie convenzionali, ma qualcosa di più e di diverso. Chi si rivolgeva a noi stava attraversando un momento particolare della propria vita, in cui venivano a mancare i punti di riferimento. Ascolto, attenzione, comprensione, accoglienza: questo essenzialmente si voleva da noi. Dopo aver avuto una formazione attraverso i corsi della dott.ssa Di Giovanni abbiamo cominciato a organizzare gruppi di ginnastica, laboratori di espressione corporea, momenti di festa, interventi di una truccatrice per sentirsi sempre e comunque “belle”, il tutto in una piacevole atmosfera che permetteva lo scambio di sensazioni, pensieri, dubbi, timori, speranze. All’interno di queste attività particolare rilievo ha avuto l’incontro con le persone libro dell’Associazione “Donne di carta”: una sintonia che ha permesso un reciproco scambio di doni.
L’associazione ‘Per Lei’ fornisce sostegno, supporto fisico e psicologico a tutte le donne che si trovano ad affrontare la diagnosi di tumore (del seno, dell’utero…) e il suo trattamento. È aperta tutti i lunedì dalle 17 alle 19 presso la Scuola Media Statale “V. Pacifici”, Strada Leonina-Villa Adriana (RM). tel 0774534204 cell: 3334195127 perlei@volontariato.lazio.it
io faccio L’intelligenza comincia dalle mani
Eraldo Berti
Una mattina di febbraio di quattro anni fa, in tuta blu e
stivali, guardavo ansioso e perplesso un campo appena arato. “E adesso come faccio?”. Un’amicizia ultratrentennale, un’insana passione per le cose difficili e un ramo di congenita follia ci aveva portato a decidere di avviare da zero non solo una fattoria, ma addirittura una fattoria che formasse e occupasse un gruppo di giovani disabili mentali. Nulla sapevamo di agricoltura, io avevo solo ricordi infantili della fattoria di mio nonno adagiata fra le nebbie, le acque e le zanzare del delta del Po. Però c’erano due convinzioni. Volevamo che “Conca d’oro”, questo il nome della nostra fattoria, diventasse un luogo vero: di lavoro e di accoglienza. Un luogo dove un giovane disabile non fosse oggetto di cure perpetue, una macchina sempre in riparazione ma potesse diventare un cittadino responsabile, capace di produrre cose buone, apprezzate, ricercate e acquistate proprio per questo.
Sono trascorsi quattro anni e qualche mese, e Cristina, su cui nessuno scommetteva, è diventata una macchina da guerra nella raccolta, nei trapianti e nella zappatura. Antonio e Marco sono ormai ortolani a pieno titolo; Paola, che piangeva solo a guardarla, serve in bottega e al mercato con accuratezza e sorriso professionale. Chiara, Sonia e Valentina si giostrano fra marmellate, padelle, pasticci e torte nella cucina del ristorante. Gessica, Monica e Loredana gestiscono in sala cinquanta clienti e… Allora, lieto fine? No, ancora fatica, e dubbi e problemi. Ma che gusto c’è a fare le cose facili e precotte? Secondo le leggi della fisica il bombo non potrebbe volare, ma lui non lo sa e vola lo stesso. Secondo le ferree leggi del mercato e della disabilità, “Conca d’oro”, come altre fattorie sociali in Italia, non potrebbe funzionare. Ma noi siamo ignoranti e andiamo avanti lo stesso. Come un trattore. Associazione “CONCA D’ORO O.N.L.U.S.” Il progetto Conca d’Oro è un’occasione finalizzata a sperimentare una modalità di interazione con il tessuto sociale da parte di persone in situazioni d’handicap, basata non sull’assistenzialismo ma sullo sviluppo delle caratteristiche di ciascuno, che così divengono competenze. Via Rivoltella Bassa, 4 36061 Bassano del Grappa (VI) Tel. 0424 504040 - e-mail: info@concadoro.org
Marina Pierri
Arteingioco è stato un sogno sognato che è diven-
tato una realtà vissuta. Quel sogno lo hanno fatto tre donne, più precisamente tre mamme. I loro figli andavano a scuola insieme, erano piccoli, frequentavano la terza elementare: non troppo spesso la loro scuola organizzava una gita scolastica in qualcuno dei mille luoghi archeologici che si trovano nella nostra città, Roma. I bambini aspettavano quei momenti con grande attesa e allegria e le madri li spingevano a stare attenti alle spiegazioni che sarebbero state date loro, raccontando che la vita degli antichi romani era piena di storie affascinanti, personaggi singolari e intrecci quasi da film. Ma i tre bambini, figli di quelle tre donne, bambini vivaci come tutti, normali come tutti e come tutti un po’ distratti e un po’ curiosi, tornavano da quelle giornate bofonchiando: “che pizza, che noia!”. L’idea, come una lampadina, si accese. Non si poteva tollerare di disperdere la preziosa capacità di assorbimento dei bambini nell’apprendere divertendosi. Bisognava inventare una metodologia che, basandosi sulla corretta scientifica informazione dei dati, fosse in grado di parlare ai bambini in modo tale che le informazioni rimanessero impresse nella loro mente: lo strumento poteva essere il gioco.
l’arte come lavoro
il lavoro solidale
L’altra convinzione era che l’intelligenza comincia dalle mani. Mani che sanno prendere e dare, tagliare, tracciare, scavare, piantare… Abbiamo il cervello che abbiamo perché ci sono le mani. Che cosa i disabili mentali non sanno fare, lo sapevamo già. È scritto in centinaia di libri. Leggere, scrivere, far di conto, narrare, dialogare, astrarre: per loro è terreno infido quando non sabbie mobili o buco senza fondo. Noi volevamo capire cosa sono capaci di fare con le mani perché il lavoro che produce cose utili richiede ancora le mani. C’era un solo modo per capire: fare e fare assieme. Per dirla con una parolona di moda nei progetti di formazione: learning by doing. Come dice Antoine de Saint-Exupery in “Terre des hommes”, si impara solo quando si incontra una resistenza e la fatica. La resistenza delle cose e dei limiti. E tutti gli artigiani, dal falegname al meccanico al restauratore, lo sanno. Così non abbiamo facilitato il compito ai disabili. Non siamo stati carini e compassionevoli. Al massimo una pacca sulla spalla o una battuta come fra compagni di lavoro. Ma siamo stati molto attenti, quello sì, e non abbiamo fatto gli istruttori o i controllori. Abbiamo lavorato fianco a fianco, e quando qualcuno di loro diceva “sono stanco”, si rispondeva “anch’io” e si continuava. E loro non hanno facilitato il compito a noi. Abbiamo incontrato i nostri limiti nel non capire perché qualcuno non riuscisse a eseguire un compito per noi facile come raccogliere piselli. Abbiamo perso il senso di onnipotenza e di accanimento pedagogico di chi crede che basti insistere nelle domande e nelle spiegazioni per ottenere. Abbiamo imparato che è necessario perdere tempo, che i percorsi tortuosi fanno capire di più e meglio della linea retta.
ARTEINGIOCO
Le tre donne fondarono allora una cooperativa - in quel momento la forma societaria più economica che ci fosse. Investirono un piccolo capitale iniziale, trovarono un piccolo ufficio e cominciarono a inventare: inventarono piccole valigie colorate - erano le vecchie valigie dei propri figli - riempite di oggetti da associare alla basilica di San Pietro; zainetti con le ali pieni di suggestioni per visitare Castel Sant’Angelo; borse ripiene dell’occorrente per simulare i giochi dei bambini antichi romani negli scavi di Ostia antica o al Foro romano; grandi contenitori per simulare uno scavo archeologico e trovare reperti da ricostruire e catalogare nel Museo Etrusco di Villa Giulia; quadrucci di pasta all’uovo dipinti di tanti colori per fare un mosaico come gli antichi mosaicisti. E poi: passeggiate tra le fontane canterine di Roma, tra le storie buffe e a volte crudeli che abitano i vicoli della città, tra le statue parlanti e i ponti sul Tevere, tra le tante chiese barocche e i grandi palazzi del potere. Questo sogno dura da tredici anni. Tredici anni nei quali il contagio ha coinvolto migliaia di bambini delle scuole elementari, tante insegnanti, tanti operatori didattici - tutti archeologi o storici dell’arte - innamorati del loro lavoro e dei bambini. Perché i bambini sanno trattenere le informazioni che vengono loro date se sono comunicate attraverso un linguaggio che conoscono e capiscono e con una leggerezza che tanti pensano non possa avere a che fare con la cultura. Arteingioco resiste. Resiste alla devastante crisi che colpisce tutto; resiste ai mille vincoli di una impostazione governativa che vorrebbe dialogare solo con grandi imprese e sterminare le piccole; resiste a una idea di investimento culturale che nel nostro Paese è deficitaria e insignificante; resiste alla fatica quotidiana di reggere le spese correnti e vedere sempre più diluiti nel tempo gli incassi dovuti. Perché Arteingioco è un sogno che bisognava sognare. Arteingioco - Società Cooperativa Sociale Femminile a r.l. Viale Regina Margherita 217 00198 Roma tel. 0644239949 - 0644261289 www.arteingioco.com - arteingioco@libero.it
il giornale della gente che f
io vivo qui Io sono una donna iraniana
Leila Karami, Stefania Vulterini
La religione non mi è mai interessata. Sono
identità multiculturali in Italia
cresciuta in una famiglia benestante, laica e cosmopolita; per i miei genitori la religione non occupava un posto rilevante. Sono cresciuta in città; mio padre è medico - come da tradizione di famiglia, divisa fra avvocati e medici - mia madre è una donna emancipata, anche lei lavorava in ospedale. In Iran, essere musulmani sciiti è una condizione naturale, che senza essere ingombrante segna l’appartenenza a quella che si considera essere l’élite dei musulmani. Per questo mi ha tanto colpito un piccolo fatto successo a Torino, appena arrivata in Italia. Due ragazze libanesi con le quali studiavo all’università, un giorno che si parlava della religione, mi apostrofano: - Sciita? - Sì, voi no? Poi commentano fra di loro “Sciiti! aspettano il Messia…” Qualcosa di me si è strappato in quel momento. Fino ad allora mi avevano detto che la nostra era la religione migliore del mondo; io ero arrivata a 18 anni con questa convinzione senza contraddizioni, convinzione, come dicevo, accettata nella mia famiglia con un atteggiamento laico. È difficile spiegare la società iraniana a chi non ha vissuto sotto un governo moralizzante come la Repubblica Islamica dell’Iran dall’80 all’88; è difficile persino spiegarlo a un iraniano che non abbia vissuto la stessa esperienza. Quell’episodio, apparentemente insignificante, mi ha strappato il velo di accondiscendenza e mi è venuta voglia di approfondire la conoscenza della religione. Dovevo, tra l’altro, proprio alla mia impreparazione religiosa la partenza dall’Iran per iscrivermi a un’università italiana. Al momento di sostenere gli esami d’ingresso all’università di Isfahan, dopo aver risposto positivamente a una serie di domande scientifiche - dovevo fare anche io medicina come da tradizione familiare - ero caduta in un trabocchetto, tesomi forse volontariamente, sui dogmi religiosi. Il concorso annuale per entrare all’università prevede domande sulla preparazione scientifica, storica e religiosa. Vent’anni fa nella parte di storia avevano inserito la domanda: “chi ha nazionalizzato il petrolio iraniano?” e io ho risposto: “Mossadeq” mentre bisognava rispondere “l’ayatollah Kashani, un religioso”. La mia risposta sbagliata è valsa un biglietto per l’Italia. Da quel momento la mia vita ha seguito un percorso del tutto imprevedibile. Se in un primo tempo avevo cercato una mediazione con le professioni di famiglia iniziando architettura, dopo l’incontro di Torino mi era nata l’esigenza di trovare una risposta alla domanda che non mi ero mai fatta: “che cos’è la religione?”. In realtà io non volevo studiare all’università ma solo leggere... leggere... Ho iniziato a leggere tutto quello che era stato tradotto dal persiano all’italiano. Libri sulle glorie dei persiani, le con-
quiste arabe e musulmane, racconti degli scrittori iraniani tradotti. Una mia amica sociologa mi aveva suggerito di leggere alcuni articoli sull’islam e le donne, che trovai molto stimolanti e intriganti tanto da far nascere in me il desidero di conoscere chi li aveva scritti. Scoprii che era una docente che insegnava all’università di Roma e così mi iscrissi all’università. Già durante gli anni dell’università avevo iniziato a interessarmi alle lotte delle donne iraniane per ottenere i propri diritti. Cercavo di studiare le dinamiche laiche e religiose delle varie tipologie di lotta. Vedi, in Iran, esiste una società spaccata in due dimensioni. Una dimensione visibile e una dimensione sommersa. La vita degli iraniani è divisa tra le due dimensioni. È così per la lingua, per l’abbigliamento, per i pensieri e la “Campagna di un milione di firme”, per la prima volta, ha fatto emergere la lotta sommersa delle donne sia sul piano giuridico sia sul piano delle problematiche della società civile. All’inizio, nel 2006 - non era iniziata la repressione - le attiviste della Campagna per promuovere un referendum sulla parità e contro le discriminazioni si muovevano nella società alla luce del giorno contattando le donne porta a porta e nelle piazze. Io ho saputo dell’ esistenza della “Campagna per un milione di firme” durante il Convegno internazionale del femminismo islamico a Barcellona, nel 2006, quando una relatrice iraniana del Convegno, Nayereh Tohidi, ne parlò. Oggi penso che le iraniane e gli iraniani che lottano per i principali diritti: libertà di stampa, libertà di parola e di pensieri, si esprimano soprattutto attraverso il web e la rete di rapporti internazionali. La cultura è una leva grandissima di cambiamento e conoscenza. A esempio l’iniziativa “Percorsi annodati fra Iran e Italia”, nata dalla collaborazione con la Casa Internazionale delle Donne di Roma e le persone libro dell’Associazione Donne di carta, che prevede incontri mensili di politica, letteratura, poesia, dà molta forza agli iraniani e aiuta anche gli italiani a conoscere l’Iran fuori dai pregiudizi e dalle semplificazioni. A proposito di quello che dicevo prima sulla dimensione sommersa e visibile dell’Iran, questa doppia dimensione esiste anche nella lingua persiana. In Iran c’è un modo gentile anche per litigare, esistono parole miti per denunciare una disgrazia sociale e questo si vede molto nei lavori dei poeti e scrittori iraniani. Penso che Forough Farrokhzad, grande voce della poesia contemporanea persiana - talmente grande che basta il suo nome, Forough, per evocarla - abbia saputo rompere questa doppia dimensione: lei usa parole schiette sia nell’amore che nel dolore e forse l’Iran, mai come oggi, ha bisogno della trasparenza e di far emergere la sua parte sommersa.
Una Marcia della Poesia
Le persone libro
Una studiosa, docente universitaria all’Università di Bologna, Faezeh Mardani, traduce in una raccolta “È solo la voce che resta” le più recenti poesie di Forough Farrokhzad, una poeta morta nel 1967. Non è un libro, è una testimonianza etica ed estetica di ciò che può la poesia. La poesia riesce a rendere disperatamente liberi. Di questa libertà, noi persone libro, siamo diventate l’eco portando la poesia di Forough ovunque, a memoria – come normalmente accade in Iran, la cui gente ama scambiarsi, a tavola, tra vecchi e giovani, versi dei poeti più amati. A voce alta, la nostra, in italiano, a cui si è accordata la voce in farsi di Fereidon, titolare di “Nima”, una libreria di culture orientali qui a Roma, e le voci di uomini e donne che, durante le tappe, sono saliti accanto a noi e hanno costruito con noi il dono dell’ascolto: Leila Karami, Faezeh Mardani, Parisa Nazari. La lingua farsi e la lingua italiana. Tutto inizia l’8 gennaio 2010 al Tuma’s Book Bar nel quartiere San Lorenzo di Roma. È la nostra risposta alla strategia di sopraffazione dei diritti delle donne iraniane. Siamo in tanti. All’appello non mancano Giuliana Sgrena, Maria Palazzesi, Nadia Pizzuti, giornalisti e intellettuali che conoscono l’Iran, e tanti tanti iraniani. E noi camminiamo, accordandoci con musicisti iraniani (Navà Ensemble) o intrecciando le strade della Campagna Nastri verdi ROBANHAYE SABZ, indetta dalla Casa internazionale delle Donne di Roma. La voce di Forough valica il Lazio e raggiunge l’Abruzzo: questa Marcia non ha confini. Una giornalista ci porta un video: Teheran sotto la neve, un cimitero. E il corteo, che si ripete ogni anno, dal 1967, di giovani che sulla tomba di Forough recitano, uno dopo l’altro, i suoi versi. Una veglia lunga trent’anni, in Iran. Ma la poesia che abita nelle voci dei lettori spalanca la finestra sulla vita di tutti i popoli. “La poesia è, per me, come una finestra. Ogni volta che mi avvicino, questa finestra si apre da sola. […] So che al di là di questa finestra c’è uno spazio e una persona che ascolta, una persona che potrebbe vivere fra duecento anni oppure essere vissuta trecento anni fa, non importa. […] Ci si potrebbe fermare per anni in una poesia e trovare ancora qualcosa di nuovo e non visto.” Da Interviste, in “È solo la voce che resta”, F. Farrokhzad, Aliberti. La Marcia su: www.youtube.com/user/donnedicarta
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iornale nte che fadella gente che fa il giornale della gente che fa il giornale
io... altrove L’Africa in cammino merita un Nobel Salve a tutti, mi presento.
Sono una che sostiene il Noppaw, una sigla che in inglese significa Nobel Peace Prize for African Women, cioè Premio Nobel per la Pace alle donne africane. Il mio nome non è importante, ma è importante quello che vi voglio trasmettere: sensibilità e informazione. Non è semplice trasferire la sensibilità, la sensibilità si prova, si avverte ma questa è la scommessa. Forse rinasco infatti insieme a lei, la Campagna, nel dicembre del 2008, durante un seminario internazionale che si è svolto in Senegal, da un’idea di Solidarietà e Cooperazione CIPSI e di ChiAma l’Africa. La mia proposta è quella di assegnare il Premio Nobel per la Pace 2011 alle donne africane, dunque non un Nobel a una singola persona o a un’associazione, ma una sorta di Nobel collettivo da attribuire alle donne africane nel loro insieme. A questo punto vi domanderete il perché di un’idea così particolare. Semplice: perché l’Africa cammina con i piedi delle donne. Donne che portano con coraggio e dignità sulle loro spalle i pesi, i sogni, le lotte e le speranze di un intero continente. Perché ogni giorno centinaia di migliaia di donne africane percorrono le strade del continente alla ricerca della pace e di una vita dignitosa, nonostante le tante difficoltà quotidiane di una terra spesso difficile. Molte di loro fanno fino a 10-20 chilometri per portare l’acqua alla famiglia. Poi vanno, sempre a piedi, al mercato, dove, per tutta la giornata vendono quel po’ che hanno, per portare la sera a casa il necessario per nutrire i propri figli. Riproducendo così ogni giorno il miracolo della sopravvivenza.
solidarietà internazionale
Portano spesso sulle loro spalle i figli che ancora non camminano, le donne d’Africa. Si prendono
cura di loro, a volte anche se non sono loro figli. Perché nell’Africa delle guerre e delle malattie, le donne sanno accogliere, nella propria famiglia, i piccoli rimasti orfani. Sono tante le donne che lavorano nei campi, in una terra che quasi mai appartiene loro solo perché donne. E tante sono le piccole imprese organizzate da donne africane attraverso il microcredito, in tutti i settori dell’economia: dall’agricoltura al commercio, alla piccola industria. Sono poi migliaia, forse decine di migliaia, le organizzazioni di donne impegnate nella politica, nelle problematiche sociali, nella salute, nella costruzione della pace. E sono sempre queste donne che lottano contro le mutilazioni genitali, curano i più piccoli e gli indifesi, si alzano in piedi per difendere i diritti spesso calpestati. Le donne sono la spina dorsale che sorregge l’Africa. In tutti i settori della vita: dalla cura della casa e dell’infanzia, all’economia, alla politica, all’arte, alla cultura, all’impegno ambientale. Per questo meritano un riconoscimento simbolico come il Premio Nobel per la Pace, perché in Africa non è pensabile alcun futuro senza la loro partecipazione attiva e responsabile. Senza l’oggi delle donne non ci sarebbe nessun domani per l’Africa. Per questo io, come la Campagna internazionale che sostengo, mi sto impegnando affinché sia riconosciuto questo loro ruolo da protagoniste in tanti ambiti della società, troppo spesso dimenticato. È necessaria una grossa mobilitazione della società civile, ma anche delle istituzioni, delle associazioni, del mondo della cultura, dello sport e dello spettacolo. Ho bisogno dell’aiuto e del contributo di tutti voi.
Paola Berbeglia
Tante sono state le iniziative, i banchetti, per promuoverla e diffonderla. La mia prossima tappa sarà il Senegal, dal 26 al 31 ottobre 2010, con il Seminario di studio e confronto sulla Campagna “Portano sulle spalle i pesi e le speranze dell’Africa”, che rappresenterà un’immersione nella vita africana e sarà occasione di analizzare diversi ambiti in cui le donne sono protagoniste attive: L’ECONOMIA: il loro ruolo fondamentale nell’agricoltura, nel piccolo commercio, nel microcredito. LA CULTURA. LA FORMAZIONE E L’ISTRUZIONE. LA SALUTE: tocca in tanti modi la vita delle donne africane, spesso impegnate con coraggio e ostinazione a difenderne il diritto. I PROCESSI DI TRASFORMAZIONE SOCIALE: il ruolo delle donne anche nella risoluzione dei conflitti, nei processi di democratizzazione, nella costruzione della pace. L’AMBIENTE: sono ancora le donne africane impegnate nella sostenibilità ambientale, nel garantire a loro e ai propri figli un futuro diverso. L’idea è di provarci, ma solo tutte insieme. Per questo raggiungetemi nel sito del Noppaw, www.noppaw.org dove org sta per organizziamoci.
NOPPAW Nobel Peace Prize for African Women La Campagna mira a mobilitare la comunità accademica e scientifica, la società civile nazionale e internazionale, gli uomini e le donne di tutti i paesi. Via Colossi, 53 00146 – Roma tel 06 5414894 - fax 06 59600533 info@noppaw.org - segreteria@noppaw.org
Rawya, la ceramista Sono Rawya.
Sono nata nell’oasi di alFayoum, 200 km a Sud del Cairo, capitale d’Egitto. Ho il volto segnato da un vissuto che non dimenticherò mai, un’esperienza che porta dentro di sé i segni di una realtà controversa e difficile, che lede la dignità e i diritti delle donne, in particolare quelle che vivono in contesti rurali predominati da una cultura tradizionale e da norme di costume. Iniziai a frequentare una scuola di ceramica, quando ero ancora adolescente, nei pressi del mio villaggio, un laboratorio messo in piedi da “Madame Evelyn”, una ceramista svizzera trasferitasi ad alFayoum qualche anno prima. C’erano altre tre ragazze con me che frequentavano la scuola. Nessuna di loro proseguì gli studi perché si sposarono. Nel nostro villaggio quando una ragazza decide di sposarsi, o se la propria famiglia impone di farlo scegliendo per lei il futuro marito, è costretta a rinunciare a qualsiasi attività lavorativa per dedicarsi totalmente alla cura della famiglia e alla crescita dei figli. Io sono stata l’unica a continuare la mia formazione artigianale tra le ragazze del mio gruppo, rifiutandomi di abbandonare questo lavoro per iniziare una vita che non sarebbe stata dettata dalla mia volontà. All’età di 16 anni mio padre, infatti, aveva combinato per me un matrimonio con un mio cugino. Io sarei stata disposta ad accettare, ma solo a condizione di poter continuare la mia attività di cerami-
sta. Ovviamente, mio cugino si rifiutò di sposarmi. Fui la prima persona nel villaggio a rifiutare un matrimonio. E mio padre si sentì in diritto di bruciarmi il volto con il kerosene. Quello fu il punto di svolta. Lasciai la mia casa paterna per iniziare una nuova vita, ribellandomi ai costumi e alle tradizioni locali. E solo la passione per la ceramica mi ha aiutato. Ho dovuto lottare tanto per imporre la mia decisione, ma era una passione molto forte e non volevo rinunciarvi per nessun motivo. Ho avuto l’opportunità di specializzarmi nella produzione di diversi tipi di prodotti in ceramica sviluppando un mio stile personale. Mi sono ispirata alla natura e ai colori della mia oasi. I disegni riprendono scene rurali e campestri, popolate da uccelli, gatti, alberi e contadini a lavoro. Durante i miei anni alla scuola di Evelyn ho iniziato a vendere alcuni prodotti e ci sono state due occasioni in cui ho partecipato a mostre d’arte, una ad Alessandria d’Egitto e l’altra in Francia, dove ho potuto esibire le creazioni tradizionali del mio paese. Sono stata molto apprezzata per la mia arte, e anche grazie a queste mostre sono riuscita a farmi conoscere e a incrementare la vendita. All’età di 21 anni ho incontrato Muhammad, il mio attuale marito. Non si trattava di un matrimonio combinato. Lui era innamorato di me e mi chiese di sposarmi. Io, anche perché segnata dalla mia esperienza, gli risposi che avrei accettato solo
a patto di poter continuare a fare la ceramista. Fu d’accordo e ci sposammo. Alcuni anni fa ha iniziato ad aiutarmi nel processo di produzione; gli ho insegnato e trasferito tecniche e passione. All’inizio, nella nostra prima casa, avevamo posizionato il forno per terracotta in cucina e avevamo adibito a laboratorio parte della nostra stanza da letto, attrezzandolo con tornio e utensili del mestiere. Dopo circa sei anni, grazie anche a prestiti offerti dalle nostre famiglie, siamo riusciti a comprarci un piccolo pezzo di terra e abbiamo allargato gli ambienti. Siamo riusciti, così, ad avere uno spazio separato per il laboratorio e addirittura uno per l’esposizione dei cocci. In questo modo è incrementata la produzione e, con questa, la vendita. Abbiamo due figlie a cui stiamo insegnando le tecniche base di produzione artigianale. Per noi l’istruzione scolastica è prioritaria per la loro crescita, ma crediamo anche che la formazione tecnica di un mestiere possa esser altrettanto importante per il loro futuro, per renderle un giorno donne indipendenti e forti. Credo che non sia facile per una donna che vive in una campagna egiziana affermare la propria indipendenza e far valere il diritto di scegliere la propria vita, di seguire le proprie passioni e di imporre la dignità che spetta a ogni essere umano. Io ce l’ho fatta. Posso dire di essere una di quelle che c’è riuscita.
nale della gente che fa il giornale della gente che fa il giornale dell Io racconto Mi chiamo Warsan Shire,
sono nata in Kenya nel 1988. I miei genitori fuggirono dalla Somalia negli anni ’80 durante la guerra civile. Poi si trasferirono in Inghilterra, a Londra, quando avevo sei mesi. Sin da piccola ho iniziato a comunicare la mia passione per la scrittura di poesie e racconti e, all’età di 15 anni, un mio insegnante di liceo, che aveva notato la mia creatività letteraria, mi incoraggiò a coltivare questa passione e a impegnarmi seriamente.
Warsan Shire l’essenza dell’amore e della vita. Scrivo perché altrimenti non saprei cos’altro fare con le mani. Ma se ci penso bene, scrivo perché la condizione umana non è semplice, e a volte neppure bella. E il più delle volte non la vogliamo neppure guardare…
Tutta la mia famiglia possiede una vocazione artistica. Mio zio e soprattutto mio nonno sono poeti molto famosi in Somalia. Parte di questa eredità culturale ha influenzato la mia creatività, anche se io mi esprimo in inglese, mentre loro in somalo.
Ho vissuto solo indirettamente la guerra civile in Somalia. Mi sono informata in parte attraverso i media e in parte ascoltando testimonianze dirette di rifugiati e fuoriusciti somali fuggiti in Inghilterra. Questi contatti sono stati importanti perché mi hanno fatto capire cosa stesse realmente accadendo nel mio paese e alla sua gente. Sprazzi di questi racconti li ritrovi tra le righe dei miei versi, in quelle parole crude e vere che rappresentano l’essenza dei miei componimenti.
Sto imparando a scrivere nella mia lingua madre, e mio padre è un bravissimo insegnante. Sono stata sempre sostenuta dalla mia famiglia ad andare avanti nella mia carriera artistica. Ritengo, infatti, un luogo comune quello che sostiene che le donne musulmane non sono libere di poter scegliere la propria strada: io lo faccio da sempre.
E così oggi, che ho ormai venti anni, giro il mondo con il desiderio di dare voce con i miei testi e le mie performance ai diseredati e agli incompresi. Nei miei versi esprimo gli stati d’animo che provai in alcuni momenti significativi della mia vita: durante la lunga ricerca di asilo, la guerra, l’attraversamento dei confini, la perdita, la follia.
Canto soprattutto delle donne somale che vivono in Inghilterra, delle donne della mia famiglia, della loro straordinaria forza e saggezza. Sono le donne che ispirano la maggior parte dei miei componimenti, perché in loro si riflette
La mia esigenza è quella di cantare di guerra, violenze, rifugiati, di cuori e vite spezzate, della Somalia che continua a pulsare nel mio cuore nonostante sia quasi una terra mitica, dell’Africa che ho conosciuto per la prima volta soltan-
to l’anno scorso, durante un viaggio in Sudafrica. Ho avuto la fortuna di vincere numerosi premi alle “Slam Competitions”, le competizioni letterarie in cui i poeti recitano o leggono i loro lavori. Vengo considerata una “spoken word artist”, perché sono solita recitare i miei versi attraverso la “parola parlata”, ovvero una cadenza linguistica che si avvicina ai toni di una comunissima conversazione. Faccio parte del movimento letterario dei “Black British Poets”, siamo immigrati di diverse nazionalità e paesi e usiamo la poesia come espressione identitaria e mezzo di continuità della nostra cultura, per non dimenticare la nostra lingua e le nostre origini. I temi trattati riguardano la nostra contemporaneità e ripercorrono le storie della nostra condizione di rifugiati e immigrati. Ho scelto di scrivere in inglese, la mia seconda lingua madre, accompagnando le parole con un’alzata di sopracciglio. La mia condizione appartiene alle seconde generazioni, quelle generazioni “ponte” tra il mondo delle madri e dei padri e quello che ci accoglie, la quotidianità. Ho aperto un blog su internet [http:// warsanshire.blogspot.com] dove pubblico bozze dei miei lavori. Sono felice del fatto che il mio blog sia visitato da migliaia di persone, compresa mia nonna, una delle mie fan più fedeli.
Io ho incontrato le donne africane
Donatella Donato (Presidente COOPI Lazio)
Ho conosciuto le donne africane,
ho incontrato i loro sguardi fieri, ho visto le loro mani callose, le schiene chine; le ho conosciute e ho deciso di lavorare con loro. Ho incontrato le donne africane in Senegal durante un viaggio di conoscenza con COOPI-COOPERAZIONE INTERNAZIONALE, la ONG con la quale attualmente collaboro. COOPI è un’organizzazione non governativa che realizza progetti di sviluppo e interventi di emergenza in Africa, America Latina, Asia e Balcani, occupandosi di salute, istruzione, politiche di genere, assistenza umanitaria, migrazione, diritti umani. Attualmente COOPI è presente in 24 paesi con più di 180 progetti; tra questi paesi c’è il Senegal. Il Senegal è un paese importante per chi decide di occuparsi di cooperazione, perché è un vero laboratorio a cielo aperto sulla collaborazione delle diverse realtà associative. In Senegal il concetto di solidarietà è cardine dei valori condivisi: nessun senegalese si sente solo né in patria né fuori, sa di poter contare su una importante capillare, attiva, rete di associazioni. In Senegal il ruolo della donna è fondamentale e riconosciuto, sono le donne responsabili della famiglia sia nella gestione della vita quotidiana sia dal punto di vista economico.
Nell’estate del 2006 mi trovavo a Sant Louis, nella parte nord del paese, per conoscere le donne che in cooperative si occupano dell’essiccazione e della vendita del pesce: ricchezza assoluta di quella parte d’Africa. Un lavoro duro, fatto in condizioni difficili, le donne - con i loro bambini legati sulla schiena, a consolidare quel particolare rapporto tutto africano tra madre e bambino - affumicano il pesce nelle grandi vasche di cemento che vengono completamente ricoperte di carbone nero. Il fumo impregna tutto, i loro vestiti, la pelle, la vita. Non è solo un luogo di lavoro, è innanzi tutto un luogo di scambio tra donne che passano lì la maggior parte della loro giornata, è un luogo per piangere, scherzare, prepararsi al matrimonio e alla vita. Donne che parlano, donne che suonano, che allattano, donne, donne, donne africane. Non si può parlare di donne in Africa riferendosi a un universo omogeneo: il destino di ognuna è in gran parte segnato dall’origine, dalla posizione sociale, dalla possibilità di studiare. Ma è condivisa ormai la certezza che ci si trovi di fronte a una nuova sensibilità sociale nei confronti della donna africana, che riveste un ruolo fondamentale non solo all’interno delle società di origine ma anche all’interno delle società occidentali.
L’intera società si degrada o si eleva come si eleva e si degrada la donna. Con questa consapevolezza ho deciso di lavorare insieme alle donne senegalesi, trovando finanziamenti per i loro progetti e facendo conoscere la loro realtà attraverso mostre, dibattiti, video. Per questo appoggio la candidatura al Premio Nobel per le donne africane: per dare un riconoscimento al loro lavoro, alla loro forza, al loro essere donna.
COOPI www.coopi.org È un’organizzazione non governativa italiana laica e indipendente che lotta contro ogni forma di povertà per migliorare il mondo. È stata fondata nel 1965. In 40 anni di lavoro sono stati realizzati 700 progetti in 50 paesi coinvolgendo 50 mila operatori locali e assicurando un beneficio diretto a 60 milioni di persone. Via De Lemene 50 - 20151 Milano tel 023085057 coopi@coopi.org Via Nizza 154 - 00198 Roma tel 068841537 lazio@coopi.org
Da poco ho iniziato a leggere i miei testi in lingua originale, accompagnata nella traduzione in italiano da Igiaba Scego, una scrittrice somala che vive in Italia. Sono convinta che attraverso la poesia si possa riuscire a dare loro voce e si possa far sapere al paese che li ospita che ci sono degli esseri umani con cui si può creare un dialogo, e che si possa riuscire a donare un’immagine più positiva dello straniero. La poesia può esprimere i sentimenti e le esperienze della condizione di ogni immigrato. Vorrei dedicarvi alcuni versi…
Ho insegnato a mia madre a partorire I gatti gemevano la notte in cui ti ho partorito. Le ostetriche avevano la fronte schizzata di sangue, qualcuno incendiava gomme davanti all’ospedale un uomo in fiamme correva per i corridoi l’odore della carne bruciata rese più facile l’ultima spinta le coriste erano intorno al letto per mesi figlia mia sei stata un esserino sepolto sotto l’ombelico come una corona, i fianchi spostati angeli si coprivano le orecchie. Nel villaggio in cui sono nata gettavamo pietre a chi era fuori di testa le donne rinchiuse non potevano lasciar crescere i capelli oltre lo scalpo, il primo corpo morto che ho visto era una donna calva con i seni bruciati fino alle costole accanto al letto del fiume. In guerra queste donne avevano salvato vite saltando addosso ai soldati per affondargli i denti sulle spalle lacerando la pelle sotto l’uniforme spesso i fucili esplodevano sulle loro facce e non c’era nessuno a piangerle. Finalmente ho capito queste donne la notte in cui sei venuta al mondo figlia mia, mi ero strappata i capelli dalla testa, le costole arcuate verso il soffitto chiedevano a dio di tirarti fuori, tu mi hai insegnato a partorire figlia tu mi hai insegnato come perdere la testa e come ritrovarla.
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io... altrove
Una storia di solidarietà
Silvia Bazzocchi
“La biblioteca pubblica, via di accesso locale alla conoscenza, costituisce una condizione essenziale per l’apprendimento permanente, l’indipendenza nelle decisioni, lo sviluppo culturale dell’individuo e dei gruppi sociali” Manifesto UNESCO 1994 “La comunità internazionale bibliotecaria e informativa forma una rete che connette i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo, supporta lo sviluppo dei servizi bibliotecari e informativi a livello mondiale …”. Dichiarazione IFLA 2002
Biblioteche Solidali è un esperimento e una sfida.
Siamo partiti con più domande che risposte e con una consapevole mancanza di esperienza. Parlo almeno per me, che mi sono addentrata nel vasto mondo della cooperazione internazionale come Alice nel Paese delle Meraviglie... Ringrazierò sempre il destino che mi ha affiancato alcune persone capaci di trasmettermi qualche conoscenza in più. Se la Campagna Biblioteche Solidali (che ancora non si chiamava così) è potuta partire, lo si deve soprattutto a Maurizio Caminito, Patrizia Luzzatto, Paola Montecorboli e Igino Poggiali. La Campagna è nata in realtà quasi da sola: nel 2006 l’Unesco, che tutti gli anni nomina una “capitale mondiale del libro”, aveva riservato questo onore a “Torino con Roma”. Era chiaro che per noi quella era una bella chance di visibilità mondiale, particolarmente sentita per i bibliotecari pubblici di una città talmente ricca di grandi biblioteche storiche di conservazione, da sentirsi sempre un po’ come Cucciolo nella Biancaneve disneyana. In realtà, alla fine, la partecipazione di Biblioteche di Roma alla “Capitale mondiale del libro 2006” fu importante, ma fu anche l’occasione per aprire una riflessione sul nostro ruolo internazionale. Ma che “ruolo internazionale” ci può essere per le biblioteche comunali? Fu dato proprio a me l’incarico di occuparmi dei progetti “internazionali” delle Biblioteche di Roma: si trattava non solo di seguirli e curarli, ma di “inventarli”. Sulle prime pensammo a qualche forma di gemellaggio (scambi, visite reciproche, eventi da preparare insieme). Ma non eravamo del tutto soddisfatti. Cominciammo a girare per uffici, comunali e non, per vedere se l’idea che avevamo in mente poteva o meno trovare rispondenze. Poi un giorno il Direttore ci mise in contatto con la Onlus “La Memoria” che operava e opera in Guatemala.
solidarietà internazionale
Alle discussioni con “La Memoria”, dobbiamo il fatto di aver “quagliato”, in questa prima fase, l’idea guida del lavoro che stavamo iniziando: aiutare, sostenere, finanziare, non direttamente progetti per la costruzione di biblioteche nei paesi più svantaggiati - cosa che non saremmo stati in grado di fare - ma l’associazionismo che di tale impegno si era fatto carico. Partì una ricerca a tappeto, benedicendo il web, fra tutte le associazioni che facevano “cooperazione allo sviluppo” (anche su questo termine ho imparato nel tempo che ci sono discussioni e interpretazioni diverse), per vedere quali e quante prevedevano nei loro progetti anche la nascita o almeno il sostegno a una biblioteca, nel Sud del Mondo. Sottolineo “nel Sud del Mondo” perché, a questo punto, era sempre più chiaro che a quell’ambito volevamo rivolgerci. Nel frattempo qualche voce doveva essersi sparsa, perché alcune associazioni vennero spontaneamente a presentarci i loro progetti e le loro proposte. Altre ne cercammo noi, e altre arrivarono dalle fonti più disparate. Alla fine partimmo con 10 progetti. Biblioteche Solidali nacque il 23 aprile 2006, l’anno di Torino capitale mondiale del libro con Roma. Una prima difficoltà fu quella di capire, e poi di coordinare, uno stile di lavoro profondamente differente fra il mondo (privato) delle Onlus e quello della Pubblica Amministrazione. Ricordo discussioni feroci per arrivare alla definizione del primo documento comune. Ci trovammo, invece, subito d’accordo su alcuni “paletti” fondamentali: a esempio che si trattasse di una “Campagna” unitaria, ossia che la raccolta di fondi fosse unica e che i fondi raccolti fossero poi periodicamente suddivisi in parti uguali fra tutte le associazioni, senza distinzioni fra grandi e piccole, fra chi poteva dare un contributo maggiore o minore, fra progetti più o meno sostanziosi. Ricordo che a proporlo furono proprio le associazioni più grandi e famose (Emergency, AMREF), quelle che avrebbero avuto più da perdere da questa decisione. E ricordo ciò che disse Marco, allora rappresentante di “Un Ponte Per…”: “Se nasce una biblioteca in un qualsiasi Paese del Sud del Mondo, che mi importa se non è legata a uno dei nostri progetti, ma a quello di un’altra organizzazione? Lo scopo è comunque raggiunto”. (continua)
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io sono Intervista a Leda Colombini Presidente dell’Associazione “A Roma Insieme”
La tua vita è un pezzo di storia italiana: bracciante della bassa Emilia, dirigente sindacale prima e poi del Partito Comunista, parlamentare per due legislature dal 1983 al 1991, ora presidente dell’Associazione di volontariato in carcere “A Roma Insieme”. Qual è il filo rosso che lega il tuo impegno politico e istituzionale con quello in carcere?
narrare la propria vita
Fin dalla giovane età due cose sono rimaste ferme nella mia vita: la prima, la politica staccata dai bisogni e dalla partecipazione della gente per me è inconcepibile; la seconda è la lotta contro l’ingiustizia e per la cultura. Io ho sofferto tanto di non aver potuto studiare che il sapere, la cultura, lo studio sono diventati una costante della mia attività, nel sindacato o nella politica o nel volontariato. Sono la prima di quattro sorelle, nate: io da un’“avventura” giovanile di mia madre, le altre dalla sua lunga relazione con il padrone della terra in cui lavorava come bracciante. Quindi ho vissuto sulla mia pelle il pregiudizio sociale e l’esclusione. Qui sono le premesse della mia rivolta, prima morale poi politica, contro l’ingiustizia in tutte le forme sociali e culturali che colpiscono la dignità e l’identità stessa della persona. Ecco, questo è il filo che si ritrova nella mia vita, da quando a 1314 anni sono entrata nei Gruppi di Difesa della Donna (gruppi clandestini di supporto alla lotta partigiana) e ho partecipato alle lotte contadine per condizioni più umane di vita e lavoro, a quelle delle donne per l’emancipazione e contro il carovita, a quando sono entrata nel Parlamento e oggi in carcere. Qui, il fatto che dei bambini da 0 a 3 anni, i figli delle detenute, siano reclusi è un’ingiustizia talmente grande e palese che non si può accettare senza far nulla, bisogna almeno cercare di ridurla per poi cancellarla. Hai scelto l’impegno nel mondo del volontariato anche perché la tua concezione della politica a contatto con la gente non trova rispecchiamento nelle modalità della vita politica oggi nel nostro Paese? È indubbio che oggi non riesco più a trovare quella passione, quel tipo di impegno che appartenevano ai primi tempi. Ma c’è anche la mia personale visione dell’impegno politico: io sono andata in Parlamento per portare i problemi della gente e contribuire a risolverli; ho fatto due legislature – nella prima ho cercato di capire e costruire alleanze, nella seconda di realizzare e consolidare risultati –, poi sono andata dal mio partito a dire che per me quella esperienza era conclusa, importante per la mia formazione e sufficiente per raggiungere alcuni obiettivi. Il mio lavoro in Parlamento è stato quello di cercare le soluzioni alle ingiustizie, con la convinzione che, se guardi alla realtà e ai problemi reali e se non hai interessi personali di altra natura, prima o poi il punto di incontro per risolvere quei problemi lo trovi. Tutte le leggi che ho proposto (a favore dei portatori di handicap e dell’infanzia, contro le discriminazioni delle donne nel lavoro e nella società) le ho sempre discusse, prima e dopo, con tutti i soggetti interessati.
Le tue parole rivelano una visione alta della politica. La coerenza e la saldezza di principi rintracciabili nella tua attività pubblica non si riscontrano facilmente nei nostri uomini politici… … io vengo dal mondo contadino ed è là che si trovano le radici delle mie convinzioni, del mio modo di essere: da mio nonno, da mia madre e dalla vita dura che si faceva allora. Lì ho imparato un modo di essere al mondo in cui lo stare insieme agli altri, l’aver cura dei rapporti umani nel rispetto di tutti erano cose importanti; lì ho imparato che tu puoi contare se anche gli altri contano. Quindi relazione e identità sono due concetti per me strettamente legati. Quando da adolescente andavo a lavorare nei campi, le mie compagne mi facevano raccontare i libri che leggevo, perché a me è sempre piaciuto leggere, mi facevano mettere in mezzo alla squadra di zappatrici e mi dicevano: tu pensa a raccontare, lavoriamo noi per te. Ecco, questo è stato il mio modello di relazione sociale e umana: ognuno ha un ruolo all’interno di un gruppo. È lo stesso modello del “fare squadra” che ho seguito nella mia attività sindacale, politica e ora di volontariato in carcere. All’inizio del nostro progetto con i bambini di Rebibbia, “Conoscere e giocare per crescere”, che dal 1994 si occupa di portare i bambini fuori da Rebibbia, ogni sabato, eravamo un gruppetto di 6-7 persone, quindi era necessario che tutte facessimo tutto quello che serviva, compreso il pulire i loro culetti; ora che siamo una squadra di oltre 30 volontari, ci possiamo dividere i compiti. Io mi occupo dei rapporti con i volontari, con chi ci ospita insieme ai bambini, con le istituzioni: un tessuto di rapporti che va governato per garantire alle uscite dei bambini un clima sereno e gioioso. In questo modo ci siamo conquistati la fiducia delle madri, della Direzione del carcere e il riconoscimento della validità del nostro lavoro. Quali sono le altre attività che via via l’Associazione ha introdotto nella sua sfera? Oltre a quella con i bambini del nido, che resta la principale, alla quale io stessa partecipo ogni sabato, organizziamo feste di compleanno di ogni bambino insieme alle madri; animazione nelle aree verdi per gli altri bambini più grandi che vengono a trovare i loro genitori reclusi; cicli di conversazioni con le madri e le altre donne; piccoli eventi di tipo ricreativo, come la festa dell’8 marzo, o spettacoli con cantanti. Poi abbiamo introdotto anche nell’Istituto Femminile il laboratorio di scrittura, già presente da anni nella Casa Circondariale maschile. Inoltre da tempo siamo impegnati anche sul fronte legislativo e istituzionale per l’introduzione di una legge che vieti di tenere i bambini in carcere, a favore di altre forme di espiazione della pena, e oggi il Parlamento sembra intenzionato a risolvere questo problema.
Luciana Scarcia Quindi nelle attività dell’Associazione ritorna il filo rosso che attraversa la tua vita. Penso che la tua coerenza sia d’esempio per i giovani volontari che lavorano con te e che essi facciano una vera esperienza formativa che va ben oltre il servizio che svolgono. È così? Sicuramente loro hanno una predisposizione a stare con i bambini, ma imparano anche a tener conto delle istituzioni e delle loro regole, ad assumersi le responsabilità della cura dei bambini, ai quali va insegnato a stare a tavola, a tener conto dei turni senza prevaricare gli altri, ecc., rispettando e stimolando al tempo stesso la loro libertà espressiva. Il messaggio che viene dato ai volontari, in effetti, è quello di impegnarsi con serietà per cambiare le situazioni di ingiustizia, nel rispetto però della legalità e delle istituzioni, e che vale la pena fare questo anche per se stessi, perché c’è sempre uno scambio, un dare-avere. Io sono convinta di aver ricevuto e di ricevere dall’esperienza con i bambini di Rebibbia molto di più di quello che ho dato e do. Ti faccio l’esempio della piccola Edera che, vedendo per la prima volta la neve, se la voleva mettere in tasca per portarla alla mamma. Lo stupore incantato di quella bambina, la tenerezza di quel gesto è qualcosa che resta dentro di me, mi arricchisce; è un’emozione che mi ritorna alla mente quando vedo la bellezza della natura: anni fa ero nella Valle dei Templi ad Agrigento, ecco, l’incanto di quella visione, di quel paesaggio è uguale all’emozione per Edera.
Quali sono le cose più negative del mondo di oggi, quelle che ti danno più amarezza? L’indifferenza verso gli altri, il guardare oltre, il non tenere conto che ognuno di noi ha valore sempre in rapporto agli altri. Sentirsi utile agli altri fa bene anche a se stessi. Poi non sopporto la prepotenza, la violenza, anche nel modo di intendere il potere: questo è utile se è usato per il benessere generale e per tenere salda la comunità sociale, altrimenti è danno, perché induce alla sfiducia e al disinteresse. È chiaro che dipende dal contesto storico in cui ci troviamo, ma bisogna essere capaci di mantenere questa bussola morale. Tu, con la tua vita, rappresenti il valore della cultura del fare. Pensi che sia questo il modo per combattere gli aspetti negativi di cui parlavi? Io credo che sia un dovere di ogni singola persona impegnarsi e combattere per ciò che si ritiene giusto, e credo di trasmettere e condividere con i volontari questo significato. Però, certo, la nostra è una piccola isola, per questo la mia preoccupazione costante è di estendere e far conoscere l’associazione, di coinvolgere altri volontari. In ogni modo penso che questo sia un modo giusto di intendere l’impegno sociale e politico oggi.
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Prima hai accennato al tuo grande desiderio di leggere e di cultura…
narrare la propria vita
… sì mi piaceva, leggevo la sera dopo il lavoro, con il lume a petrolio e di nascosto da mia madre che non voleva se ne consumasse troppo. Andavo nella biblioteca del mio paese, Fabrico, e prendevo tutto quello che c’era. Ho fatto grandi scorpacciate dei grandi polpettoni popolari, rilegati in fascicoli, le telenovelas di allora: “Sangue siciliano”, “Maria, la fata della foresta”, io ho girato tutto il mondo con questa Maria; poi i libri di Delly, Liala... E li dovevo leggere con attenzione perché poi li dovevo raccontare alle mie compagne, infatti ricordo ancora le trame. Ragazzina lessi anche “L’utopia del socialismo”, ma dovetti capire ben poco. Quando ho cominciato l’attività sindacale, ho letto la buona letteratura: i classici, Calvino, Pavese…, anche saggistica e siccome andavo in giro per l’Italia in treno – 14 ore da Roma ad Agrigento – avevo finalmente tanto tempo per leggere. È così anche che ho imparato a scrivere. La prima circolare che scrissi come responsabile della Commissione Femminile della Federbraccianti nazionale, Romagnoli (allora segretario generale della Federbraccianti) me la fece riscrivere sette volte; quindi non si sostituì ma mi insegnò a fare meglio.
Io ricordo con gratitudine l’attività pedagogica e formativa del Partito Comunista negli anni ‘50. Grieco, responsabile della Commissione agraria della Direzione nazionale del PCI, con me ha fatto anche l’insegnante, perché allora i dirigenti si ponevano il problema di come allevare i quadri, anche con durezza. Una volta mi disse: «tu sei una contadina ignorante, devi imparare a tenere il culo sulla sedia e studiare». Ed era proprio quello che io volevo. Allora per due volte alla settimana fece venire un professore universitario a farmi lezione nelle materie scolastiche; nelle scuole di partito non c’erano solo lezioni di politica ma anche di storia italiana, economia, letteratura, insomma si aveva una cura della cultura e della formazione che oggi non c’è più. C’erano anche gli aspetti negativi. Nel 1948 frequentavo un corso di formazione per dirigenti di sezione alla scuola di partito di Milano. Una volta andai al cinema con una amica, ma, prese dal film, non controllammo l’ora e ritornammo in ritardo di 10 minuti. La reazione fu durissima, io cercai di spiegare, ma mi furono dette parole terribili che ricordo ancora: «Zitta tu, se continui così, finirai per passare dall’altra parte della barricata!», e per punizione dovemmo stare per due mesi di servizio alla porta a vedere le altre uscire e rientrare. Però, ripeto, quello che mi ha dato il partito io non potrò mai disconoscerlo.
“A Roma Insieme” è un’associazione di volontariato impegnata, dal 1994, in attività volte a limitare i danni del carcere sui bambini, in progetti a favore delle donne detenute e di promozione della scrittura in carcere. I volontari e le volontarie, ogni sabato, trascorrono un’intera giornata fuori dal carcere con i bambini del Nido di Rebibbia in spazi aperti (al mare, in case di campagna, nei parchi cittadini…), per offrire loro momenti di gioco e di scoperta. All’interno del carcere l’Associazione organizza feste per i piccoli ospiti e iniziative di animazione per i bambini più grandi, che vengono a visitare le loro madri. Per queste ultime e per le altre detenute promuove cicli di conversazioni su temi di loro interesse e corsi di scrittura di sé. Analoghi corsi di scrittura organizza nel carcere maschile di Rebibbia N.C., per offrire uno spazio in cui esercitare immaginazione, consapevolezza e dignità in funzione del reinserimento sociale. Organizza incontri e dibattiti per sollecitare l’attenzione degli interlocutori politici e dell’opinione pubblica alle condizioni di vita in carcere. Dal 2005 è promotrice di una proposta di legge affinché “nessun bambino varchi più la soglia di un carcere”. “A Roma Insieme” via Sant’Angelo in Pescheria 35 00186 Roma tel/fax 0668136052 aromainsieme@libero.it
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io pubblico
… Nasceva così la GB EditoriA
Pensate all’azienda come a una cattedrale. Imprenditori, riempitela di significato. Tutto cominciò
Le Corbusier
nel periodo immediatamente successivo alla Laurea in Storia dell’Arte. Fu allora che, spinta dal desiderio di arricchire la competenza culturale acquisita nelle aule universitarie con un bagaglio che fosse anche pratico e ‘spendibile’ sul mercato del lavoro (nell’ambito dei Beni Culturali), decisi di partecipare al “Progetto Impredonna”. Si trattava della seconda edizione di un corso di formazione professionale organizzato dalla Regione Lazio – dedicato esclusivamente a donne laureate in materie umanistiche – con l’obiettivo di incentivare lo sviluppo imprenditoriale al femminile. Fu, quella, una palestra fondamentale che mi permise di acquisire strumenti e competenze utili allo sviluppo di un’impresa, facendomi conoscere tematiche nuove rispetto alla mia formazione umanistica e dandomi infine la possibilità di formulare un Business Plan, terminologia e concetto a me ignoti fino ad allora. Non senza l’ausilio di esperti nel settore, iniziò così a prendere corpo la mia personale idea: notando come la mia formazione, la passione per i libri e, non per ultimo, l’ambiente familiare avessero creato in me una naturale propensione per le Humanae Litterae (nonché una certa ‘attitudine’), decisi che la mia impresa sarebbe stata una casa editrice. Nasceva così la GB EditoriA. Per ‘costruirne’ il nome, scelsi le mie iniziali e vi unii la parola ‘editoria’, intesa oltre che come concetto generale, col significato specifico di ‘Editori di A’: dove A stava per Arte, Archeologia, Architettura, e Anastatica (ristampe in fac-simile di volumi dal valore simbolico e culturale, ormai fuori commercio). Da allora sono trascorsi più di cinque anni, periodo nel quale l’idea originaria si è sviluppata arricchendosi di nuovi stimoli e prospettive.
Le ‘A’ sono rimaste, ma (volendo rimanere nell’ambito del gioco di parole che diede corpo al mio nome ‘aziendale’) vi si è aggiunta anche qualche altra ‘lettera’: come ad esempio la ‘S’ di Storia, la ‘P’ di Poesia o la ‘F’ di Fotografia. Crescono gli argomenti, ma il tema resta sempre quello dei Beni Culturali. E così ai libri si è aggiunta l’organizzazione di mostre e altri eventi di matrice culturale, così come attorno alla mia idea si sono ritrovati partecipi nuovi collaboratori. Oggi la GB EditoriA è una piccola realtà, presente nelle più importanti fiere nazionali e internazionali del libro e apprezzata da molti, anche grazie alla vetrina datale da una delle sue pubblicazioni ‘di punta’: la rivista “InStoria”. Una pubblicazione periodica dalla doppia veste: una cartacea (a carattere bimestrale) e una digitale (a carattere mensile). Nata nel 2005 e acquisita nel 2008 dalla mia casa editrice, oggi “InStoria” (rivista di storia e informazione che spazia dalla Storia all’Arte, dalla Filosofia all’Ambiente, dal Cinema all’Attualità) è una delle più lette nel web, mentre la sua versione cartacea (quaderni di percorsi storici), af-
frontando in ogni numero una particolare regione o città italiana, permette di valorizzare sempre più anche le caratteristiche culturali locali. In breve, quell’idea nata durante il “Progetto Impredonna” è divenuta realtà, ha coinvolto altre persone e prodotto nuove idee: la realtà concreta di una casa editrice portatrice del valore della ‘bibliodiversità’, concetto difeso dall’UNESCO al fine di valorizzare e supportare l’editoria indipendente, soffocata dai meccanismi della industria culturale odierna e l’alleanza con “Donne di carta”, per quello che l’associazione si propone, che considero essere la ‘quadratura del cerchio’. Al centro di tutto è rimasta la passione per il mondo dell’Arte e della Storia, per i libri e per la cultura: la stessa passione che mi ha condotto nel percorso universitario, mi guida oggi nel mio lavoro, teso ogni giorno a valorizzare quegli ambiti dei Beni Culturali a me più cari.
GbEditoriA www.gbeditoria.it info@gbeditoria.it
IN VIAGGIO CON INSTORIA LETTERA PER UN’IDEA
Forse la storia universale è la storia della diversa intonazione di alcune metafore.
J. L. Borges
Scrivere la storia è un modo di sbarazzarsi del passato.
J. W. Goethe
Nato sulla pietra ed evolutosi nel digitale, il racconto storico ha sempre avuto una compagna prediletta: la carta. Questo supporto antico, figlio della natura e spesso mal utilizzato, rappresenta la tappa ultima, ma non definitiva, del nostro percorso, il cui racconto è l’oggetto delle parole che seguono.
Si tratta della storia di un viaggio, iniziato qualche anno fa e ancora oggi in pieno svolgimento. Un viaggio i cui protagonisti sono aumentati lungo la via, e la cui meta, chiara al principio, è divenuta sempre più ignota e, allo stesso tempo, affascinante. Quella che segue è la storia di InStoria, si perdoni l’assonanza.
C’è sempre un inizio
ritratti
Ginevra Bentivoglio
Tutto cominciò... Suona bene come attacco, forse un po’ scontato ma fa sempre il suo effetto. Tutto cominciò nel Giugno del 2005, anche se ogni inizio ne nasconde un altro, e un altro, e un altro… Partire dai primi germi di un’idea sarebbe però un’operazione forse troppo lunga; in fondo le date, nella Storia, servono proprio a questo: a fornirsi di punti di riferimento. Il nostro è fissato a quel giugno di qualche anno fa. Fu allora che InStoria, una sconosciuta rivista di storia e informazione, fece il suo ingresso ufficiale nel web.
Matteo Liberti
L’obiettivo iniziale di chi la ideò era quello di poter creare un luogo d’incontro, un piccolo riferimento nella rete, per ricercatori, studenti e appassionati della materia storica: offrire informazione storica, o storicizzata, in un luogo, Internet, in cui questo tipo di argomento appariva relegato a piccole finestre accademiche, oppure risultava, almeno a noi, mal utilizzato (e con buone dosi di approssimazione e superficialità) da qualche sporadico sito. Quel che noi invece avevamo in mente era l’idea di offrire una panoramica ampia su tutto il divenire storico e i suoi protagonisti di ogni giorno. Uno strumento pienamente digitale, il web, per il racconto della Storia, della vita di tutti i giorni e di quei momenti che, più di altri, vengono ricordati nel tempo. Le passioni, le paure e le speranze degli uomini, il cambiamento dell’ambiente in cui viviamo, il mondo analogico: questo sarebbe stato il nostro racconto.
C’è sempre un nome da scegliere Venne quindi scelto un nome che potesse riassumere tutte le nostre intenzioni: InStoria: dove In stava per Informazione, per Internet e per Internamente, dentro la Storia. Per esser certi di riuscire ad abbracciare ogni aspetto dei processi storici, si decise di inserire nella rivista un buon numero di rubriche, utili a esulare le solite, semplicistiche e limitative, periodizzazioni da manuale. E così venne dato spazio all’Ambiente, alla Cultura, all’Arte, alla Filosofia, alla Religione, allo Sport, alla Storia locale e al Viaggio, cercando di coprire tutti i contesti in cui la vita si sviluppa e si fa Storia.
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L’uomo è un animale sociale Un ultimo, fondamentale, elemento venne inserito nel progetto. Si trattava di una pagina, ancora presente sulla rivista, in cui si invitavano i lettori a partecipare all’arricchimento dei contenuti di InStoria. Semplice, detta così. La vera sorpresa, poi, è venuta proprio da qui, come accade con le cose semplici. Tante persone, tanti di voi, si sono lentamente avvicinate alla nostra rivista e vi hanno lasciato il loro contributo. Dallo studente al docente universitario, la nostra redazione virtuale si è, mese dopo mese, arricchita come nessuno di noi poteva immaginare. Dopo le parole, sono arrivati i complimenti e le soddisfazioni. Quel che si può dire è che, mentre la rete dei nostri collaboratori si faceva sempre più vasta, InStoria continuava a essere gestita, e migliorata, da poche mani. Poche persone, pochissime, che in questi tre anni si sono sforzate, spinte unicamente dalla passione per l’informazione storica, di portare avanti quell’idea originaria.
Ogni idea nasconde un’idea. Nel gennaio 2008 tutto il progetto InStoria è passato sotto un altro editore, ma la redazione, i responsabili e i collaboratori sono rimasti gli stessi. Senza che nulla cambiasse, tutto è però cambiato. E così è successo che abbiamo deciso di cogliere quell’occasione per un piccolo restauro grafico e per un aggiornamento dei contenuti. Poi ci ha preso un po’ la mano e, in poco tempo, è nata una nuova idea, che forse covava dentro ognuno di noi fin dal primo giorno: regalare a InStoria anche una vita su carta.
Dal digitale all’analogico Giugno 2008. La bellezza delle date sta nel fatto che ci si può giocare, andando a cercare coincidenze, ricorsi e simbolismi. Giugno 2005, Giugno 2008. Tre anni esatti e, nella casuale coincidenza del tempo, le poche mani che hanno guidato InStoria tentano un nuovo progetto: una rivista cartacea. Il nome che abbiamo scelto, mantenendo l’intestazione InStoria, è quello di quaderni bimestrali, ognuno dei quali contiene una rivisitazione, ar-
ricchita in molti casi, di alcuni articoli già apparsi online, ai quali si aggiungono nuove parole, scritte ad hoc, e qualche nuova rubrica, dalle opinioni di personaggi di spicco alle recensioni cinematografiche. Soprattutto, però, ogni numero contiene una parte monografica, dedicata nei primi numeri, alla storia delle nostre Regioni e poi, primo passo fuori dall’Italia, la magica Istanbul, la Scozia e ora l’affascinante Persia. A deciderlo saranno gli stimoli che riceveremo da ogni luogo. Dal digitale all’analogico: un passo indietro per poter, con nuovo entusiasmo, cercare nuove vie.
www.instoria.it Rivista online di storia & informazione
Sempre per caso e nel vento Un libro è una rarità perché non tutti i
discorsi servono. Non abbiamo bisogno di troppe parole, ma di quelle “giuste”: attese o sorprendenti. Non abbiamo bisogno di accumulare, ma di scegliere. Anche leggere è un’operazione di limatura, di scrematura, una capacità di setaccio. Ma soprattutto un tempo dedicato. Sto parlando di potere. Il Potere di chi cerca.
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Cercare: un verbo intransitivo, se è sotto il segno del desiderio, che non chiede la soddisfazione di un complemento oggetto. Anzi, costruisce una tensione. Senza un oggetto che lo de-finisca. Il libro a volte diventa catturabile da questa tensione del cercare: il libro che cade al momento giusto nei desideri di quella parte di vita che stiamo vivendo. Ed è sacrosanto che sia così: leggere, come tutte le forme di piacere, necessita di chiaroscuri. Di tempi del non-leggere. Immaginare la medesima intensità per sempre è solo un bisogno di eternità che ci impedisce di accogliere la bellezza dell’istante e di farla durare. Noi abbiamo sempre paura di morire. La passività a cui ci siamo arresi in questa civiltà dell’immagine e del virtuale ha immiserito il potere dei sensi. Quanti di noi apprezzano ancora con il tatto la superficie delle copertine, la grana delle pagine? Quanti di noi respirano i libri? Ogni lavoro artigianale che cerca la bellezza del libro rischia di essere un’avventura superflua. E ne so qualcosa con la mia velleità di carta ecologica e di grafica d’autore. La mia vita è con i libri. Io sono già abbastanza su questo pianeta per ricordarmi che andare all’Edicola era un evento che l’attesa della paghetta settimanale trasformava in un rito e la mia fame eucaristica veniva soddisfatta dentro il regime dell’uguaglianza: fumetti e libri erano pari oggetti di lettura. I libri non erano
“più” dei fumetti: una saggezza infantile che la cultura accademica con la quale sono poi cresciuta non è riuscita a stroncare. Poi c’erano i libri regalati ai diversi compleanni che sovrastavano nella mia casa gli oggetti di divertimento e, nonostante abbia coltivato uno struggente vano desiderio di un trenino elettrico – quello con i binari da montare e la stazione con gli alberi e il tetto rosso –, quei libri seri seri, dalle copertine rigide, alla fine risolsero nel tempo dell’immaginazione tutto il tempo infantile del rincrescimento. Se avessi avuto in dono un trenino avrei messo su, a cinquant’anni, una casa editrice? Io cerco un’idea, da condividere e da vivere, per salvare i libri e la lettura. Non c’è bisogno di roghi o tribunali per far cadere nell’oblio gli uni e l’altra. Le vere cancellazioni le facciamo noi quando seguiamo la corrente e cerchiamo le scorciatoie illudendoci che la facilità sia felicità. Io cerco una scrittura che appartenga al mondo della Letteratura. Un mondo il cui arredo segue dei canoni precisi, dove il “preciso” però è come tutti i fatti umani: storico e, quindi, relativo e mutevole. Cerco il valore di un libro. Propagandare come libertà creativa e democrazia culturale il fatto che ogni scrittura possa diventare un libro, che chiunque scriva sia “per forza transitiva” uno scrittore, è un’OFFESA. Perché la Letteratura è dolore e sapienza, artificio e ingenuità, cultura e storie, come se potesse e dovesse essere il compito di una frase grammaticale reggere l’immenso. È un’offesa leggere brutti libri. Ma è un’offesa scrivere brutti libri. Farli da soli, pagando. Stamparli online. E poi venderli.
Sandra Giuliani Sappiate essere coraggiosi e beccarvi un NO se la vostra scrittura non vale un libro. Non decidetelo da soli. Non rendetevi complici di una macchina che fabbrica il conformismo delle menti e la cecità dell’obbedienza. Io non vi leggerò. E spero che non lo facciano neanche i vostri amici, se sono davvero amici. Sappiate tornare sulla strada del rispetto delle competenze, vi tornerà indietro come rispetto della vostra. Per sentirvi importanti ci sono modi diversi, quotidiani. Lasciate invece che la Letteratura sia sempre sul vostro comodino a ricordarvi che il cercare è una tensione che non si esaurisce con il trovare qualcosa. Perché mai vi coincide. Pubblico saggistica, poesia, narrativa, e non c’è un libro che io non ami. Profondamente. Ho una Collana, Strumenti, di libri che nascono “dopo” un’esperienza: come i corsi sulla lettura, come il viaggio delle persone libro. Libri di vita. E costruisco con le carte ecologiche le… carte dei tarocchi, perché la sapienza dei simboli mi affascina. Ho difficoltà di promozione e di distribuzione come tutti gli artigiani. Per questo sono tra le Madri di Donne di carta: volevo un libro scritto a più mani da tutti quelli che amano i libri. Pubblico al 99% le scritture femminili perché sono qui su questo pianeta con un vissuto che non dimentico: il valore di una donna, in qualunque campo, è un’impresa difficile da sostenere. Io lo sostengo. Questo è il mio essere editora.
www.ilcasoeilvento.it sandra.giuliani@ilcasoeilvento.it
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io leggo Memoria e oralità: il caso delle persone libro Esiste un libro sulla storia delle persone li-
bro, pubblicato da Il Caso e il Vento. Una scrittura collettiva di tanti “io” che raccontano un’avventura e un’antologia, anche fotografica, delle tappe più originali. Attraverso le nostre voci emerge il metodo che noi stesse abbiamo compreso vivendo dal di dentro il recupero della memoria (imparare a ricordare) e dell’oralità (imparare a dire agli altri a voce alta) a cui si è aggiunta la consapevolezza, mai più abbandonata, del valore-forza di essere un gruppo. Chi siamo? lettrici comuni (per la maggior parte) che fanno di questa memoria un dono. Dove andiamo? ovunque: sartorie, birrerie, piazze, biblioteche, parchi, case private. Perché i libri devono stare dove vive la gente. La massima parte delle persone, di fronte ai nostri eventi pubblici, reagisce dicendo: “Ah, chissà come fate… io proprio non potrei… non ho memoria!” Viviamo nell’era delle memorie artificiali: dalla rubrica elettronica del cellulare all’hard disk dei nostri Pc portatili. Un mondo in cui non avere memoria sembrerebbe non costituire un problema. E, invece, lo è. Per imparare a memoria si scandisce una frase, parola per parola, a voce alta; ci si sofferma sulla appropriatezza di quel termine ingaggiando una lotta segreta contro la nostra mente, abituata a prevedere, che farebbe emergere in un batter di ciglia e sulle labbra, il sinonimo, la parola altra che non c’è. C’è scritto “antico” non “vecchio”. E si riscopre così, nella lentezza, la verità linguistica di un pensiero che ha scelto “quelle” parole.
Le voci dei libri
Quando impariamo a memoria guardiamo un soprammobile o il gatto di casa per non chiudere gli occhi nel rapporto con la pagina, così siamo costrette ad ascoltare la nostra voce nell’aria che pronuncia lentamente le parole - o che inventa pause d’espressione per la punteggiatura - e l’unica memoria che conta è quella auditiva che “blocca” l’altra - la fotografica - che chiuderebbe, dopo, nel momento del dire, tutte le parole in una pagina mentale. Una stanza chiusa. Ci si allena invece a cercare le parole nell’aria e a trovarle poi sul volto di chi ascolta. S’inaugura già una relazione. Quando ci vediamo nel gruppo e ciascuna, guardando negli occhi tutte le altre, ridice a memoria quanto ha imparato, le parole di un libro diventano un incontro. Ciò che “passa” è anche l’emozione che ha suscitato quella frase in me che la ripeto. E io che dico e tu che ascolti abitiamo per un istante una possibilità. Che le parole siano un legame. Quando la memoria si fa persona ha una voce speciale che cambia secondo gli stati d’animo, l’intensità delle parole appena dette, la paura di stare di fronte a degli sconosciuti, l’attesa di chi ascolta. E ciò che sorregge la memoria è un atto semplice: quel libro è stato scelto, è il libro che possiede le parole che io avrei voluto dire o che qualcuno mi dicesse. Per questo posso impararle a memoria. In quel momento condiviso ciò che la voce rappresenta è il desiderio di comunicare. Nessuna memoria artificiale può fare questo.
Essere privi di memoria è perdere una possibilità di capire quanto sia importante la lettura nelle nostre vite. Quanto sia importante usare i libri per incontrare il pensiero di un altro, di chi scrive ma anche di chi, come noi, legge. A me è accaduto di essere un testo “detto” da una persona libro. Intollerabili le mie parole nella voce di un’altra che mi costringe ad ascoltare veramente ciò che ho scritto accettando che ogni scrittura inaugura il regime del tradimento. Si dice che i libri appartengano ai lettori. Una metafora che noi prendiamo alla lettera. La nostra avventura ha come obiettivo il contagio e la diffusione; il riportare questa metodologia, per esempio, nelle scuole, potrebbe essere un modo per costruire il rispetto per la lettura ma anche cittadini che domani non diranno: non ho memoria.
Sandra Giuliani
Perché avranno sempre le parole per dirsi. Non siamo attori né una banda stravagante da invitare per fare spettacolo; andiamo in giro perché crediamo davvero che la memoria e l’oralità siano un bene da non perdere. Anzi, da non dimenticare. Le persone libro dell’Associazione Donne di carta sono 27 a Roma; 10 ad Arezzo. Una nuova cellula sta nascendo in Puglia. Noi siamo portavoce del Proyecto Fahrenheit 451 “las personas libro” di Madrid fondato da Antonio Rodriguez Menendez .
“Io sono… una persona libro” Donne di carta, Il Caso e il Vento (su ordinazione).
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io leggo
Il corpo non sbaglia, Lidia Castellani, Salani Editore.
“Il corpo non sbagliaâ€?‌ e il cuore?
I limoni di‌ Fiordamalfi
Sandra Giuliani
Intervista a Flavia Amabile di Monica Maggi
Questa donna di cui la protagonista non sa quasi nulla, Emma – inquilina qualunque del medesimo condominio – che, un giorno, carica sulle spalle del peso di un albero di Natale, confessa: “Sono disposta a tutto pur di tenere insieme la famigliaâ€?, muore, anzi, viene uccisa dal marito depresso. Come accade a tante donne, protette falsamente dalle mura di casa, da quel silenzio e da quella reticenza con cui filano la propria vita, penelopi in attesa di un miracolo che non verrĂ . Ma nemmeno l’altra donna, l’io narrante, che si fa carico di dare voce a questo immenso silenzio, è salva: ha scoperto il tradimento del marito, proprio sul letto di nozze, proprio tra le mura di casa. “Il corpo non sbagliaâ€? è un libro murato: un libro che racconta le mura dentro le quali le donne disegnano un profilo impossibile di felicitĂ trascinate dall’illusione dell’amore. Ma quale amore? Questa storia personale è anche una partitura corale di disillusioni, di impegni sconfitti, di piccole e grandi menzogne, di compromessi e sopravvivenze del cuore. Spesso le pagine sono una cronaca – lentissima – del Presente: un tempo impossibile fatto di materialitĂ quotidiana e ingorghi emotivi ripetuti e intrecciati in un arazzo che le donne hanno cominciato a tessere da quando, bambine, sognavano il principe azzurro che, da grandi, spesso, scoprono essere un cavaliere nero. Cos’è che riduce lo spazio dell’immaginazione a una triste realtĂ di violenze e di tradimenti? Due donne sconfitte: una irraccontabile perchĂŠ chiusa nella morte assassina e l’altra che si snoda al microscopio nell’assurda necessitĂ di una lente che riveli le colpe, le mancanze per arrivare a un’assoluzione. Che non è perdonare, ma liberarsi. “PerchĂŠ l’hai fatto?â€? è la domanda che la protagonista pone al marito continuamente cercando in se stessa le ragioni di un fallimento: in ciò che non è stata, in ciò che non ha dato‌ una rassegna del proprio non essere, mai, all’altezza. Ma è anche la domanda che non ha potuto fare Emma, una delle tante vittime della violenza domestica. Succede a tutte le coppie, prima o poi, di avere un momento difficile: sembra questa la ragionevole difesa che molte donne oppongono all’infelicitĂ pur di non perdere quel sogno di bambine. C’è una violenza che uccide e una violenza che interrompe l’identitĂ , quella di prima, che non si riesce piĂš a sostenere. A volte si vorrebbe nel taglio di capelli o nella scelta giusta di un vestito la ragione stessa della propria esistenza. “Ci voleva una strage per farti entrare in casa miaâ€? dice Lara, la vicina di quello stesso condominio indifferente. Si convive nel medesimo spazio restando separati. IdentitĂ davvero disperse. Se la colpa delle vicine di casa è l’indifferenza, qual è la parola che esprime la colpa della felicitĂ tradita? Forse paura. Paura della solitudine, che spinge a sopportare “microcosmi malatiâ€?, a creare dipendenze affettive, psicologiche pur di non restare da sole. In nome dell’amore, quello con la A maiuscola, per il quale le donne muoiono. Soprattutto a se stesse. “Bisognerebbe vaccinare le bambine contro la paura della solitudineâ€?e, come in “Una donna spezzataâ€? di Simone de Beauvoir, la scrittura della Castellani diventa un diario impietoso e penoso di questa frattura d’amore che interrompe l’identitĂ di una donna legata al luogo comune che felicitĂ e amore siano la stessa cosa. E che “Luiâ€? le incarni. Nascono ovunque bambine che sognano il principe azzurro “in nome dell’amore e altre assurditĂ â€?. Nascono ovunque donne che non sanno stare da sole con se stesse. Dal tema della maternitĂ nel suo farsi (“Mamma senza paracaduteâ€?) a questo discorso sulla felicitĂ nel suo disfarsi, lo sguardo della Castellani non si accontenta di quello che ci fanno credere, attraversa e sfalda le presunzioni dei ruoli e ci costringe a guardare il volto che abbiamo dietro la maschera. Un romanzo centrato su noi donne ma che dovrebbero leggere gli uomini.
“Quando ti trovi ogni anno con 40 quintali di limoni preziosi da trasformare in qualcosa, e ti trovi in Costiera Amalfitana, ti poni una domanda che non ti verrebbe in mente in nessun altro luogo al mondo provvisto di tali ricchezze. La domanda è: come non perderci troppo?, cioè la condizione delle decine e decine di contadini che si sono dedicati alla coltivazione dei limoni. In una parola: come far vivere una terra ormai arrivata allo sfinimento, per incuria e ignoranza di chi avrebbe potuto fare qualcosa?â€?.
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Dicono di noi
Qui, a scuola: le persone libro Le persone libro hanno partecipato alla “Settimana dello Studenteâ€? del Liceo classico e linguistico Aristofane di Roma. La Settimana dello Studente è uno spazio annuale organizzato e gestito interamente dagli alunni con corsi, eventi culturali (musica, arte, fotografia, letteratura e sport). Vittoria Borelli Una stretta di mano ha dato inizio a tutto. Poche sedie e una semplice cattedra hanno creato quell’atmosfera quasi surreale, definita da pochi fatti ma tante parole. Sorrisi cordiali, voci squillanti o incerte, ma soprattutto occhi quasi alla ricerca di un immaginario irraggiungibile, erano lo scenario che ci si presentava davanti. Noi, distanti ma non troppo, eravamo solo orecchie attente e sguardi quasi indagatori. Chi sono loro, e cosa fanno? Loro sono la voce di ciò che già è stato scritto, sono il suono di mille parole, parole scelte con senno ma anche con passione. Il cuore li ha spinti a optare per ciò che sentivano di piĂš, per ciò che meglio poteva rifletterli. E per questo c’era chi esaltava i valori dell’amicizia, chi delle istituzioni; c’era chi condannava la guerra, chi incitava gli adolescenti a godersi la vita nei suoi molteplici aspetti. E di conseguenza diverse sono state le reazioni dall’altra parte del “palcoâ€?‌ ognuno incamerava ciò che piĂš lo rappresentava, e si immedesimava nei soggetti delle storie. Questo perchĂŠ ogni esperienza di vita vuole essere in qualche modo rivissuta per quanto positiva o non possa essere stata. Ogni episodio segna in qualche modo la nostra esistenza e dimostra la straordinaria varietĂ e complessitĂ del vivere. Ci hanno dato la possibilitĂ di poter apprendere qualcosa in piĂš, di venire a conoscenza che i libri non sono l’unica forma di diffusione del sapere, ma che a volte la voce, nelle sue caleidoscopiche forme, carica ancor piĂš di sentimento gli scritti.
Camilla Di Giorgio Affascinare, riscoprire, insegnare, comunicare, sentire, condividere. Sono queste, e per qualcun altro forse anche di piĂš, di meno o di diverso, le sensazioni che le “persone libroâ€? ci hanno trasmesso attraverso il piacere dell’esposizione, al fine di rendere partecipi gli ascoltatori di determinate emozioni o condizioni che emergono dalle parole dei frammenti citati. Non solo per riscoprire il piacere della lettura, ma anche per tenere viva una grande potenzialitĂ della nostra mente: la memoria, ormai sempre piĂš in disuso. Sottolineerei inoltre la capacitĂ di risvegliare il “sentireâ€? nelle persone; non solo per la forza espressiva delle parole, ma in particolar modo per il messaggio assolutamente soggettivo che gli sguardi lasciano trapelare con sottile fascino. Dal sito della scuola: “Far crescere le persone in un contesto di insegnamento-apprendimento che privilegia la serietĂ e l’impegno nello studio, al fine di un’autentica formazione intellettuale e morale libera e laica, che è il fine essenziale della scuola pubblica, nel quadro tracciato dalla Costituzione repubblicanaâ€?. Liceo Classico e Linguistico “Aristofaneâ€? Via Monte Resegone, 3 00139 - Roma tel 068181809 www.liceoaristofane.it
nel prossimo numero
Fiordamalfi, Flavia Amabile, La Lepre Edizioni.
Flavia Amabile ripercorre la storia del suo “Fiordamalfiâ€?, storia di una battaglia per la memoria della Costiera Amalfitana e delle sue gemme gialle: i limoni, famosi in tutto il mondo. “Anche se concreta – e persino venale – questa domanda è stata alla base di tutto, perchĂŠ è nel momento in cui provi ad allontanarti dal ruolo passivo e perdente del contadino che vive in Costiera, che ti rendi conto di avere le mani legate, e che non esistono speranze di sviluppo. E quindi ecco perchĂŠ la mia denuncia: tra venti anni la Costiera, cosĂŹ come la conosciamo – con il suo paesaggio di terrazze di limoni – sarĂ morta. E se muoiono le terrazze aumentano le probabilitĂ di incendi e frane e quindi di vedere distrutta una terra che ha fatto sognare gli uomini per secoliâ€?. “Fiordamalfiâ€? nasce cosĂŹ. Torniamo all’inizio. C’era una volta una giornalista che viene dalla Costiera Amalfitana (come radici) e che vive per anni nelle metropoli italiane. Il destino e la vita la riportano nei suoi luoghi d’origine. Vede una casa, i limoni, un pezzo della sua storia e della sua gente. Flavia si innamora di questo fazzoletto di terra, di questo lancio di sguardo al di lĂ delle terrazze di limoni, della luce di un posto quasi fuori dal mondo: “un luogo che anche Omero celebra nell’Odissea. Ulisse si perde dietro il canto delle sirene. E siamo in Costiera: vorrĂ pur dire qualcosaâ€?. Siamo nel 2000. Flavia vive per due anni immersa tra limoni e terrazzamenti, e alla fine decide: scriverĂ un romanzo per raccontare com’è davvero la Costiera amalfitana. Lo sfinimento dei contadini. Il pericolo reale della distruzione di quella terra. La sparizione dei limoni che sono non solo un frutto. Sono memoria. “PerchĂŠ in due anni passati a interrogarmi su quel tesoro della terra ho pensato di fare di tutto. Ho pensato di vendere tutti quei limoni, ma il pensiero è durato un attimo. Il limone di Amalfi costa moltissimo nei negozi e nei supermercati ma rende un niente a chi lo coltiva. Poi sono passata al progetto di un laboratorio di marmellata o di latte di limone, ma ho ricevuto un secco no da chi mi doveva dare il permesso. Allora mi sono chiesta: che cosa posso fare io? Io sono giornalista, ho deciso di scrivere per la Costiera e la sua storia. Di raccontarla e di denunciare quello che accadeâ€?. Niente di romantico o turistico: la Costiera vera è tutta un’altra cosa. “Le parole sono l’arma che ho, l’unica. E l’ho usataâ€?. Nel 2009 esce “Fiordamalfiâ€?. Dopo un anno ancora le persone libro si impossessano di alcuni brani del libro che portano alla seconda presentazione del romanzo. Maggio 2010, libreria Altroquando di Roma. â€œĂˆ stato come scrivere un’altra volta il libro, o meglio, rendere una volta in piĂš – e una volta ancora – omaggio a una terra cosĂŹ travagliata, conosciuta per lo piĂš per le sue botteghe di Positano, per il suo traffico sulle curve della Costiera, per i suoi paesaggi mozzafiato. Con le persone libro ho raddoppiato e amplificato l’effetto che volevo sortisse il mio romanzo. Una denuncia attraverso la memoria. Ricordare per tenere vivo il problema. Non dimenticare per continuare a combattereâ€?. Sei donne sono salite sul piccolo palco di Altroquando e hanno regalato al pubblico alcuni passi di “Fiordamalfiâ€?. â€œĂˆ stato emozionante. Ăˆ solo attraverso il raccontare cosa accade (senza mai smettere) che possiamo fare qualcosa per la Costiera. E vedere davanti a me qualcun altro che faceva della memoria una pacifica e potentissima arma è stata una conferma: anche con le parole si costruisceâ€?.
Il teatro in‌ carcere
La solidarietĂ non ha confini
Per una Scuola multiculturale e creativa Hanno diritti gli animali?
Le voci dei libri‌ nei luoghi di cura Fotografare: quando il lavoro è arte
Hanna e Mary: un’amicizia speciale