Un Catalogo di Ville, A list of Villas

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Politecnico di Torino II FacoltĂ di Architettura Corso di studi in Architettura A.A. 2011/2012

Un catalogo di ville dai casi studio della Triennale di Milano del 1973 ad un progetto per San Salvario

Relatrice Prof. Arch. Silvia Malcovati

Candidato Matteo Tron


Abstract

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A quarant’anni dalla criticatissima 15^ triennale di Milano mi trovo ad analizzare se e in che modo questa ha influito sulla composizione architettonica odierna. In questa tesi ho posto particolare attenzione alla Mostra di Architettura internazionale, intitolata “Architettura Razionale”, di cui fu architetto responsabile Aldo Rossi. A questa rassegna parteciparono progettisti e gruppi di studio appartenenti a scuole di architettura spesso contraddistinte da approcci filologici e di metodo differenti. In questa tesi ho analizzato i progetti esposti ponendo molta attenzione al tema dell’abitazione. Sono stati per me fondamentali gli esempi di ville progettate dall’ Architetto giapponese Takefumi Aida e dal Gruppo Radical Fiorentino Superstudio; quest’ultimo in tale occasione, ha presentato un “catalogo di ville”, nel quale il gruppo continuava il suo discorso sul “monumento continuo” applicandolo a tutte le creazioni dell’essere umano. Cio’ mi ha dato lo spunto di pensare per il quartiere Torinese di San Salvario una strategia omogenea di utilizzo delle aree non completamente sviluppate all’interno di tale tessuto. Il quartiere ottocentesco di San Salvario segue la rigida maglia che caratterizza Torino; nel tempo esso ha condensato sia lo spirito di quartiere dormitorio che quello di quartiere produttivo e commerciale. Spesso diversi ceti sociali hanno interagito al suo interno e il risultato è di un quartiere caratterizzato da diverse sfaccettature architettoniche. Durante la ricerca ho trovato all’interno del quartiere differenti tipologie: dall’edificio a corte a quello a blocco, dalla classica villa con giardino privato ad esempi di eleganti sopraelevazioni. Il catalogo di ville da me progettato cerca di rispondere a quei vuoti urbani di piccole dimensioni come: l’interno di una grande corte, lo spazio interstiziale o le differenze di altezza tra due edifici ed uno spazio residuale vicino ad un vecchio impianto produttivo tutt’ora adibito a parcheggio. La strategia progettuale prevede la realizzazione di unità abitative uni e bifamigliari di alto livello qualitativo mantenendo in questa fase un unico disegno, manifesto di tale intervento.


Una raccolta di saggi che mi sono capitati tra le mani durante la ricerca sono stati inseriti all’interno del testo in maniera estremamente casuale.

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sommario

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LA TRIENNALE DI MILANO Cenni storici

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LA XV TRIENNALE DI MILANO Testi tratti da “Architettura Razionale” Introduzione di Aldo Rossi Eredità del Movimento Moderno Avanguardia e nuova Architettura Critiche alla triennale Con Piacentini in nome di Lenin Discussione sulla Triennale

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PROGETTI E GRUPPI STUDIO “Perchè ho fatto la mostra di architettura alla triennale” Gruppi studio Progetti di Ville

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CATALOGO DI VILLE PER IL QUARTIERE DI San Salvario “Perchè ho fatto un catalogo di ville per San Salvario” Riferimenti progettuali Il progetto e il suo inserimento nel quartiere.

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BIBLIOGRAFIA


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la triennale di milano 10


Mostra Idea e conoscenza, XVI Triennale di Milano

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Cenni Storici

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L’istituzione della Triennale di Milano nacque nel 1923, le prime edizioni si tennero alla Villa Reale di Monza a cura dell’ISIA (Istituto Superiore di Industrie Artistiche) in un primo tempo l’evento aveva cadenza biennale; successivamente è stata riconosciuta e registrata in forma permanente dal “Bureau International des Expositions” in data 27 ottobre 1932, ai sensi dell’art. 8 della convenzione riguardante le esposizioni internazionali, firmata a Parigi il 22 novembre 1928. Nel 1933 la rassegna è stata spostata a Milano, presso il Palazzo dell’Arte progettato da Giovanni Muzio e realizzato grazie al lascito testamentario di Antonio Bernocchi industriale tessile, in seguito, le edizioni successive, ebbero cadenza triennale. L’Esposizione Triennale di Milano si pose come obiettivo, sin dai suoi esordi, lo stimolo dell’interazione tra industria, mondo produttivo e arti applicate. Il ruolo di rilievo dell’esposizione vi è manifestato sin dalle prime esposizioni, tanto che parteciparono architetti come Sant’elia, Gio’ Ponti, Marcello Nizzoli, Fortunato Depero, Luigi Figini e Gino Pollini Pagano, Franco Albini Giuseppe Pagano e Edoardo Persico ed artisti come Giorgio De Chirico, Mario Sironi, Massimo Campigli e Carlo Carrà. Negli anni, la Triennale ha assunto un ruolo di amplificatore mediatico per le innovaziozioni dell’ambiente italiano, catalizzando anche il confronto tra le varie correnti artistiche e creative che negli anni andavano sviluppandosi, confronti che arrivarono ad essere in alcuni episodi addirittura scontri, si pensi all’edizione del 1968 interrotta a seguito dell’occupazione degli studenti della facoltà di architettura, appoggiati anche da alcuni professori da politecnico che rifiutavano “l’accademismo” dei quadri dirigenti e dell’impostazione di quella triennale. L’attenzione alla realtà contemporanea ha coinvolto la Triennale anche nell’opera di ricostruzione post-bellica, da cui nacque l’interesse della Triennale per la pianificazione urbanistica e le innovazioni tecnologiche applicate all’edilizia, e alla società che diventarono uno dei temi fondamentali degli anni cinquanta. La Triennale diventa negli stessi anni un punto di riferimento per il Disegno industriale, ospitando, tra le varie, le esposizioni del Premio Compasso d’oro. Dei congressi internazionali organizzati dal “Centro Studi Triennale” (istituito nel 1935), si annoverano qui solo quelli che ebbero maggiore risonanza: tra le edizioni più importanti dal punto di vista architettonico si possono ricordare l’ottava edizione del 1947 che, durante la ricostruzione del dopoguerra, indiscutibilmente legata alla figura di Piero Bottoni ebbe come tema la ricostruzione e la casa come 12


Il caledoscopio, XIII Triennale di Milano

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La triennale Occupata 1968, XiV Triennale di Milano 13


problema sociale, egli riprendendo un’idea di Giuseppe Pagano e riassumendo le idee del movimento moderno, avvio’ in Milano la costruzione del QT8 (Quartiere Triennale Ottava) primo quartiere satellite autosufficiente del dopoguerra. In seguito le triennali continuarono a concentrarsi sui bisogni sociali dell’uomo contemporaneo. Riferendosi perloppiù ai fenomeni di trasformazione in atto nella civiltà contemporanea e ai relativi problemi nel campo di educazione, informazione, lavoro, svago e distribuzioni, ad esempio nel caso dell’ XI e XII Triennale, rispettivamente sull’ “Attualità urbanistica del monumento e dell’ambiente antico” (1957) e sul “congresso intemazionale di edilizia scolastica” (1960), nella quattordicesima Triennale di Milano del 1968 famosa per essere stata occupata dal movimento studentesco, pochi giorni dopo l’inaugurazione, che aveva come tema “il grande numero”. La quindicesima Triennale del 1973 venne cinque anni dopo la precedente, i motivi della postposizione furono dovuti per problemi legati all’organizzazione e per festeggiare i cinquant’anni della triennale, anniversario che cadeva appunto nel ‘73. Gli indirizzi e il programma della manifestazione contenevano solamente proposte ed indicazioni, poichè non si volle fissare un tema per tutti i partecipanti; tra le mostre, che si possono ricordare senza dilungare troppo, vi fu l’esposizione commemorativa per il festeggiamento dei cinquant’anni della Triennale, la mostra Architettura-Città sezione di architettura internazionalendi cui era architetto responsabile Aldo Rossi, la mostra di industrial design di cui erano responsabili Ettore Sottsas Jr. e Andrea Branzi e la sezione italiana intitolata “lo spazio vuoto dell’abitat”. Questa Triennale e le successive furono accusate d’aver perso molta della vérve che avevano le prime edizioni, soprattutto quelle dell’immediato dopoguerra, le critiche nel caso della quindicesima Triennale vennero mosse soprattutto a causa della mancanza di un filo conduttore comune. La manifestazione ha continuato, non con la capacità attrattiva di una volta, a cimentarsi con argomenti di attualità, dallo sviluppo e il futoro delle metropoli e delle città del mondo (1983/88), passando per le attenzioni all’ambiente (1992) e per le differenze culturali ed etniche all’interno delle metropoli (1996) fino al ultima Triennale del 2002 con il tema “Memoria e futuro”.

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La casa nel cielo, Massimo Scolari

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“Per la Tendenza l’Architettura è un processo conoscitivo che di per sé, nel riconoscimento della sua autonomia, impone oggi una rifondazione disciplinare; che rifiuta di affrontare la proprio crisi con rimedi interdisciplinari; che non rincorre e si immerge negli eventi politici, economici sociali e tecnologici solo per mascherare la propria sterilità creativa e quindi formale, ma che li vuol conoscere per poter intervenire con chiarezza non per determinarli ma neppure per subirli.” M.Scolari

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la xv triennale di milano 18


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Testi tratti da “Architettura Razionale�

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Copertina “Architettura Razionale�, 1973

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Introduzione di Aldo Rossi

Testo di Aldo Rossi tratto da Architettura Razionale, 1973

... Per la costruzione di questo progetto ab­b iamo raccolto materiale concreto: progetti d’architettura, scritti o disegnati, formulazioni, critiche. Tutto questo materiale si presenta per quello che è; senza nessuna copertura ideologica. Puo’ essere che questa riduzione abbia in sè alcuni difetti di tecnicismo: ma l’archi­t etto di oggi ha la coscienza di dover essere indifferente ad ogni mora­l ismo, sempre equivoco, come ad ogni esuberante interesse per il lavoro. Per la brutta architettura non vi è nessuna copertura ideologica: come per un ponte che crolla. Siamo molto più interessati ad una pagina di Hans Schmidt sulla prefabbricazione in architettura che ai messaggi e agli scandali sul «modernismo» e il «monumentalismo» dei cattivi letterati. Non ci interessano le spiegazioni che sono importanti solo per l’atteggiamento che esprimono; anche se quest’atteggiamento possiede spesso un’attrattiva particolare. Le spiegazioni devono sempre per­m etterci di prevedere qualcosa; possibilmente con successo. Affer­m iamo anche noi che l’architettura è parente dell’ingegneria e quindi della fisica: il ponte non deve crollare. In realtà questi atteggiamenti sono tanti e tali che non solo non permettono previsioni, ma non mostrano nulla. Il fatto di non riferirsi a progetti, a previsioni, mostra la miseria di gran parte di queste critiche; gli architetti, come ogni buon artigia­n o, dovrebbero per prima cosa illustrare i propri progetti; l’Italia e l’Europa sono piene di progetti anonimi. È naturale che questo discorso non riguarda la critica: ma non la riguarda solo quando la critica si esprime all’interno della tecnica che ha scelto di studiare. Un critico come Siegfried Giedion non ha mai disegnato: ma il suo contributo al Movimento Moderno è tanto importante come quello dei più famosi architetti che egli, in gran parte, ha indirizzato. ... Crediamo che una linea di sviluppo progressiva oggi passi attraverso le contraddizioni purché queste siano usate con coscienza. Ab­b iamo difeso la metropolitana e l’Università di Mosca come la Karl Marx Allee di Berlino est quando questi fatti hanno avuto un profondo significato che superava qualsiasi

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questione di stile. E anche oggi guardiamo a quelle costruzioni con profondo interesse come di fronte a tutti quegli avvenimenti autentici e di ordine generale che scuotono la tecnica e permettono di dare ad essa un contenuto progressivo; ma non siamo noi a poter dare questo contenuto anche se dobbiamo essere pronti a dare la risposta necessaria ai problemi. Sappiamo che oggi si possono porre all’architettura compiti importanti solo nella misura che essa è disposta ad accettare e ad imme­d esimarsi con l’alternativa che si pone dalle cose. In questo senso di fronte alle grandi trasformazioni che avven­ gono nel mondo siamo preoccupati della questione della tecnica; della tecnica, non solo costruttiva, che sfugge dal campo dell’architettura. Questa questione vale per le città, per i centri storici, per i nuovi quartieri che richiedono soluzioni globali, razionali, di grande scala. Ma era ed è necessario combattere i discorsi facili, di piccolo commercio personale, sulla industrializzazione dell’architettura quando questa non corrisponde a nessuna base reale dello sviluppo della tecnica. Non ci si occupa di questo problema sistemando qualche traballante scuola prefabbricata e dando ad una produzione legata al profitto una veste estetica. Questo problema è interno all’architettura ed era stato impostato in modo corretto dal Movimento Moderno, dai Meyer, dagli Hilberseimer, dagli Schmidt, dai May ed è stato generalmente abbandonato per questioni di dettaglio. Crediamo ancora profondamente ad un’architettura razionale do­v e la riduzione dei compiti non è una pavida limitazione di fronte ai problemi ma il modo più concreto di lavorare; l’architettura non è «uno stile di vita»: da qualsiasi parte si stia l’architettura come «stile di vita» appartiene al falso moralismo, del tutto decorativo, di una parte del Movimento Moderno. Hans Schmidt nel parlare del problema della monotonia sban­ dierato dai sociologhi e dai dilettanti d’architettura dice una frase fondamentale per la comprensione dell’architettura 23

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«... la monotonia non è una questione estetica, ma una questione sociale». Così come «... vi è una profonda differenza tra lo spazio che l’uomo si costruisce e quello in cui egli vive ...». Chi non intende queste affermazioni continuerà a stare dall’altra parte, a pensare che il progresso in architettura avviene quando si sostituiscono alle colonne in ghisa fuse come colonne doriche, dei pilastri cilindrici. Queste questioni sono decorative; esse riguardano una ricerca personale nell’architettura e non riguardano la condizione fondamentale della funzione del pilastro, della sua produzione e della logica con cui esso è collocato nell’edifìcio. Nessuno più crede al bell’oggetto e il disegno industriale degli architetti non è più credibile nemmeno negli opuscoli pubblicitari. Una casa non la si giudica dalle tappezzerie scelte da questo o da quell’inquilino: e per l’architetto questo è assolutamente indifferente. Solo su queste basi che noi ampliamo e portiamo avanti dal Movimento Moderno si potranno costruire collettivi di lavoro, si potrà formare un autentico lavoro di gruppo; sono rimasto profondamente colpito dall’opera del collettivo di Halle Neustadt, qui sommariamente esposta, per il tipo di lavoro collettivo impostato indipendentemente dai risultati ottenuti. Ma a questi compiti l’architettura puo’ arrivare solo rinunciando ad ogni atteggiamento che non sia una spiegazione ed una previsione. Il problema del ponte è di non crollare. In cosa è consistita finora la spiegazione fornita e quali sono le nostre previsioni? Io credo che esistano già dei risultati concreti, in tutto il mondo, capaci di superare nell’architettura una fase di rista­g no e di dare nuovo impulso alla ricerca. [...] Questo lavoro è stato ed è un lavoro paziente che è partito dall’analisi storica per estendersi agli studi della città, della topografia e della tipologia. Sono le linee di sviluppo proprie dell’architettura. Siamo insensibili alle accuse di storicismo; abbiamo semplicemente strappato dalle scuole i corsi noiosi di elencazione 23


storica per riproporre la storia dell’architettura come parte viva di essa. La storia vista dal punto di vista delle lotte presenti e non come mera elencazione di fatti. La storia come comprensione della nostra architettura; e dalla storia ci siamo collegati logicamente al Movimento Moderno senza particolari e private simpatie. Semplicemente perchè i problemi posti allo­r a sono ancora problemi di oggi e che noi vediamo con maggiore chiarezza attraverso le contraddizioni della società, le affermazioni e i naufragi. Anche gli elementi apparentemente più estranei al discorso storico, e così connessi all’architettura, come la geometria, hanno nella storia un loro preciso senso: questa condizione geometrica dell’archi­t ettura che ha assunto un senso preciso nella storia e che ancora oggi si pone come matrice d’architettura; riducendone o accrescendone alternativamente le possibilità formali. Così è strettamente connessa a questa ricerca l’indagine sul tipo, come forma base dell’architettura. Ma soprattutto sul tipo come ele­m ento concreto, modo di vita, dei popoli nelle città e nelle campagne attraverso forme peculiari, specifiche, condizionate dal livello culturale e produttivo; forme tipologiche che offrono quell’insieme di con­d izioni che non sono invenzione dell’architettura ma su cui l’architetto interviene solo per perfezionare, portare avanti nella situazione di oggi. Da molti anni gli architetti moderni hanno studiato la tipologia della casa; ma questa ricerca si è perduta nel commercio, in una vi­s ione angusta e interessata dello stesso problema economico e pro­d uttivo così che oggi vediamo case e città che nascono nel chiuso dell’ufficio tecnico, pubblico o privato, e che hanno perso persino il miserabile gusto dell’invenzione o della trovata degli architetti eclettici. Certo si stanno anche compiendo grossi tentativi; in Francia, in Germania, negli USA, nei paesi socialisti. Ma questi tentativi ancora prima che nella produzione devono passare da un’attento studio della tipologia; uno studio che, proprio nell’abitazione, deve arrivare ad una condizione di assoluta libertà, al piano libero, indifferente, indeterminato dove 24

ognuno puo’ disporre la propria casa. Questo è l’obiettivo ben lontano dalla direzione sempre più meschina che anche l’edilizia pubblica in questo settore sembra aver preso. Questo è il discorso della tipologia a cui dobbiamo tendere perseguendo uno scopo preciso considerandolo all’interno della progetta­z ione; poiché questa è la progettazione. Solo così batteremo gli accademici degli elenchi tipologici privi di contenuto reale; una specie di araldica che elenca le diverse possibilità come il Klein elencava i diversi movimenti possibili. Ma l’acca­d emismo privo dei contenuti che determinano una ricerca non puo’ che allineare i propri risultati come degenti nella corsia di un ospedale. Ricerca e progetto devono essere strettamente uniti in un’unica formulazione architettonica. Ho sempre creduto all’utilità di una mostra di architettura; meglio ancora alla costruzione di edifici sperimentali, di quartieri, capaci di attuare una serie di ricerche che non è possibile diversamente sperimentare. In questo senso l’esempio della Weissenhofsiedlung di Mies van der Rohe, realizzata a Stoccarda nel 1927 ha costituito un riferi­m ento costante dell’architettura moderna; ogni casa esprime compiu­t amente un programma di architettura ed è la realizzazione più precisa degli enunciati che gli stessi architetti andavano formulando; si pensi alla casa di Le Corbusier, di Oud, di Hilberseimer, dello stesso Mies. Come ebbe a dichiarare Mies van der Rohe l’obiettivo del Weissenhof non era solo quello di mettere a punto nuovi sistemi produttivi nella edilizia e la verifica della possibilità di un nuovo regolamento ma era soprattutto il tentativo di vedere tutto questo come problema architettonico. La V, la VI e la VII Triennale hanno, in parte, realizzato questo attraverso costruzioni e padiglioni che restano tra i più significativi dell’architettura razionalista italiana. La realizzazione più significa­t iva rimane senz’altro il quartiere sperimentale della Triennale, il QT8, propugnato e realizzato da Piero Bottoni. Ma a queste realizzazioni si univano ed avevano una particolare 24


importanza le mostre di archi­t ettura; basti pensare a quella di Sant’Elia alla V Triennale. Questo aspetto della mostra e della proposta poteva costituire un elemento non solo di rinnovamento della Triennale in sè, ma una proposta costruttiva, un punto di riunione di quanto si va facendo nella architet­t ura di oggi in Europa soprattutto da parte di alcuni gruppi impegnati al di fuori dell’edilizia commerciale. Per motivi economici e organiz­z ativi non era possibile realizzare costruzioni o anche solo padiglioni nel parco: ma abbiamo pensato che forse oggi è più importante mo­s trare quei progetti che sono strettamente legati con la città, che af­f rontano progettualmente i problemi urbani. Alcuni gruppi di archi­t etti hanno affrontato questi problemi; altri hanno esposto attraverso tavole elaborate con tecniche diverse il significato e l’obiettivo della loro ricerca. Nella mostra si è cercato di dare la massima importanza al mo­m ento figurativo dell’architettura: tenendo conto anche del valore autonomo, del prodotto in sè, del progetto architettonico. [...] Crediamo che l’insieme di queste opere possa conformare, sia pure attraverso la tecnica del collage, un solo grande progetto; un progetto che non rifiuta le contraddizioni della cultura architettonica di oggi scegliendo pero’ all’interno di essa tra quelle più propositive. L’attenzione al razionalismo, le correnti surrealiste, un rigoroso tecnicismo si possono trovare dal punto di vista stilistico nei diversi progetti; ma cio’ che li riunisce è la volontà di vedere in termini d’architettura quello che oggi è possibile fare. In altri termini quale è l’alternativa reale che l’architettura è in grado di offrire; su questi elementi puo’ nascere in modo autentico un discorso tra discipline e situazioni diverse, possono procedere quelle deformazioni e quei mi­ glioramenti che solo i fatti sono in grado di realizzare. Un progetto per diventare un fatto urbano ha bisogno di questa dialettica; ma esso deve suscitarla ponendosi con una propria realtà. In questo progetto hanno notevole importanza i lavori di architettura elaborati nelle scuole, nelle facoltà; e io ritengo che questi lavori siano tanto più interessanti quanto più essi sono rigorosi, paradigmatici, persino schematici. In questa raccolta è stata data notevole importanza ai lavori elaborati nelle scuole d’architettura; essi rappresentano la realtà più importante della situazione di oggi. In pochi anni abbiamo dimo­s trato come sia possibile fare buoni progetti mediante un’insegnamento attento alle tecniche della progettazione architettonica; mediante l’applicazione di alcuni principi che gli architetti del razio­n alismo avevano impostato e che abbiamo cercato di portare avanti. 25

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XiV Triennale di Milano, Organizzazione e Contenuto delle sale


Allestimento interno, xv triennale, controspazio 1973 27


Questi progetti sono basati essenzialmente sullo studio della città e sulla logica dell’edificio: molti di essi riprendono alcuni progetti, li analizzano, li applicano in un contesto diverso. Ma proprio questa uniformità delle soluzioni, questa ripetizione costituisce l’aspetto più importante dell’esperienza della scuola: la scuola non ha bisogno di caratteri individuali, di allievi buoni e di allievi cattivi, ma deve fornire la capacità di iniziare e concludere un progetto cogliendolo nei suoi termini esatti. La scuola deve formare soprattutto una tec­n ica, anche rigida, e dei buoni artigiani; questa base permette l’ampliamento della ricerca personale. Non ci si deve meravigliare che alcuni edifici siano a volte citati realizzati in modo anche schematico; questo puo’ essere l’inizio di un’architettura che superi l’individualità fissando un mondo architettonico rigido e di pochi oggetti. D’altro canto alcuni progetti hanno in sè indicazioni sufficienti e che preludono a nuove, più ampie formulazioni. Insensibili agli scandali dei vecchi giornalisti d’architettura e alle incertezze di ogni dilettante, preoccupati solo delle difficoltà reali che la società in cui viviamo pone all’architettura come ad ogni tecnica o arte, abbiamo raccolto questi esempi come proposte che stanno all’interno dell’architettura razionale consci delle difficoltà che sorgono dal confronto e delle stesse contraddizioni che il confronto suscita.

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Eredità del movimento moderno

Testo di Rosaldo Bonicalzi tratto da Architettura Razionale, 1973

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Affermare che uno degli aspetti unificanti della attuale condizio­n e della ricerca architettonica è costituito dalla indagine sul ruolo, sulle tecniche, sugli obiettivi, sulla operatività stessa della disciplina puo’ apparire paradossale o addirittura provocatorio per chi conosca le difficoltà, le crisi, gli aperti dissensi che caratterizzano il dibattito in corso, dibattito che schematicamente vede il campo diviso tra chi afferma, attraverso gli strumenti critici e la ricerca progettuale, la precisa funzione dell’architettura sul piano della conoscenza e chi, denunciando spesso la stessa matrice ideologica, giunge a punti di vista contrapposti, a negare cioè qualsiasi validità conoscitiva al fare. Questo se si tralasciano quelle linee intermedie che, svincolate dalle problematiche più vive del dibattito disciplinare e ancorate piuttosto ai meccanismi del mercato immobiliare, sopravvivono ai mutamenti sociali e culturali mascherando dietro una ideologia pragmaticofunzionalista la propria incapacità di proporre effettivi elementi di avan­z amento. Questa sommaria divisione non reggerebbe ad una analisi meno superficiale; la pongo per ora strumentalmente indicandone i limiti oggettivi. Al di là delle ulteriori differenziazioni entrambe le posizioni sopra indicate devono in ogni caso assumere, se non altro in negativo, l’architettura, il suo mondo di significati, la specificità delle sue tecniche come riferimento costante, anche se tutto cio’ non puo’ costituire, come è evidente, un giudizio di merito. Di fatto pero’ proprio la strumentazione critica e analitica unita alla storiografia architettonica ha subito soprattutto nel dopoguerra, anche attraverso lo sforzo di storicizzare lo stesso presunto antistoricismo del movi­m ento moderno, un notevole sviluppo. Del resto l’attenzione nuova rivolta al pensiero scientifico e alla sua strumentazione sembra costi­t uire un punto di applicazione privilegiato in tutti gli ambiti culturali. Garin rileva infatti come nel processo di chiarificazione che ha luogo nel dopoguerra i punti fondamentali su cui si articola il dibattito siano costituiti da un lato dalla critica all’apparato idealista, dall’altro dalla nuova apertura al marxismo e ad una ’filosofia scientifica rigorosa in connessione con la problematica delle scienze della natura e della logica. Il nuovo interesse per i metodi e gli strumenti dell’indagine scientifica si ritrova in particolare nel campo dell’arte e dell’architet­t ura e si riflette da una parte su un ripiegamento e una verifica degli stessi strumenti operativi e concettuali in una tensione volta a individuare metodi di indagine scientificamente conseguenti, dall’altra a stabilire rapporti sempre più diretti con l’esperienza reale. 30


La problematica critica ed estetica saldata al rinnovamento delle arti mo­s trava l’urgenza non solo di metodi di indagine nuovi, ma di una storicizzazione già esclusa dal campo dell’estetica e con cio’ stesso di una attenzione ai contenuti come aderenza alla realtà e alla vita e come articolazione diversa dell’arte nei suoi confronti con le altre forme della attività umana. Ho voluto premettere tutto questo ad una riconsiderazione critica degli apporti della esperienza razionalista alla evoluzione dell’architettura perchè proprio nel dopoguerra prende le mosse quel processo critico che, talvolta miticamente, più spesso antagonisticamente, affronta il problema di una continuità o almeno di una eredità del movimento moderno. ’Casabella’ registra puntual­m ente le contraddizioni che via via appaiono più aperte ed evidenti opponendo sotto la direzione di Rogers il metodo della libera di­s cussione ad apodittiche condanne in nome dei sacri valori. La ’conti­n uità’ volutamente espressa significo’ ben più del riconoscimento di una discendenza morale che riduttivamente alcuni le attribuirono; senza ignorare le mutazioni prodotte dalla evoluzione storica la con­t inuità si manifesto’ attraverso la rilettura delle opere dei maestri, delle esperienze di un movimento che pur tra contraddizioni appariva come un fatto unitario e tese soprattutto a riconoscere l’intima ade­s ione delle’sue conquiste alla natura dello sviluppo umano e la conti­n uità quindi di questo sviluppo. Se la polemica sulla continuità appare oggi improponibile per l’esaurirsi dei termini e delle condizioni da cui prese avvio è pur vero che proprio la persistenza di alcuni nodi problematici e quindi, in qualche modo di una eredità si pone anche rispetto al dibattito attuale come un argomento discriminante. D’altra parte avviene spesso che direzioni di ricerca anche estremamente diverse assumano, quasi a giustificazione o copertura della debolezza dei risultati le testimonianze programmatiche dei maestri. Se dobbiamo concordare allora con chi riconosce nel tentativo di costruire un sistema rigorosamente logico e trasmissibile 31

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del fare architettura uno degli obiettivi del no­s tro impegno non possiamo nasconderci come troppo spesso i giudizi e talvolta gli stessi progetti mascherino dietro il comodo paravento di ideologie formali acquisite o di reali conquiste di alcuni ricono­s ciuti maestri la propria povertà culturale se non la pigrizia mentale tipica degli epigoni: paradossalmente si ripropone la questione dei sacri valori anche nei confronti dei contemporanei. Questo fra l’altro non significa negare validità alla storia ma soltanto sottrarla ad ogni indiscriminata prevaricazione. Il nostro legame con l’esperienza del movimento moderno non puo’ quindi essere inteso che nel suo carat­t ere problematico, come necessità di cogliere in una prospettiva storica più àmpia e in un più vasto orizzonte di riferimenti il senso delle operazioni che oggi andiamo conducendo e costruire su quelli il progresso della disciplina. Mi rendo conto di aver espresso con questo un implicito giudizio di essermi cioè già collocato all’interno di una determinata posizione culturale e di un preciso campo di esperienze. Seguendo questa strada cerchero’ quindi di individuare i possibili momenti genealogici della tendenza cercando di distinguere al più alcuni caratteri di differen­z iazione e possibilità di avanzamento e, senza sperare in così breve spazio di esaurirne i termini in modo sistematico, riconoscerne la storicità. Il discorso potrebbe prendere avvio da alcuni assunti su cui l’attenzione si è andata fissando: prime fra questi il dibattito sul razionalismo come atteggiamento di pensiero, un atteggiamento quin­d i che precede e guida le scelte umane e che fa giustizia di tutta una serie di posizioni mistificanti nella scuola e nell’esercizio professionale: ’resta comunque che solo un autentico razionalismo, come co­s truzione di una logica della architettura puo’ porre fine al vecchio impaccio funzionalista e alle nuove favole dell’architettura come questione interdisciplinare; l’architettura si è sempre presentata con un suo corpus disciplinare ben definito pratico e teorico, costituito da problemi compositivi, tipologici, 31


distributivi, di studio della città che a noi tocca portare avanti e che costituiscono il corpus della architettura insieme a tutte le opere pensate, disegnate o costruite di cui abbiamo conoscenza... Ed è questo nella sua forma più generale l’atteggiamento razionalista rispetto all’architettura e alla sua costruzione; credere nella possibilità di un insegnamento che è tutto com­ preso in un sistema e dove il mondo delle forme è tanto logico e precisato quanto ogni afeo aspetto del fatto architettonico e considerare questo come significato trasmissibile dell’architettura come di ogni altra forma di pensiero’. (A. Rossi) Sulla ricorrenza di tale atteggiamento nella storia del’architettura e sulla coincidenza di questo con il classicismo si è già fatta da parte di molti studiosi sufficiente chiarezza. Vale qui la pena piuttosto di ricordare come spesso sia stato istituito un ambiguo accostamento di due termini, razionalismo e funzionalismo, con una spiccata tendenza alla identificazione, suffra­g ando questa tesi con una deformazione evidente della verità storica. In realtà il funzionalismo non era per i razionalisti, al di là delle apodittiche dichiarazioni programmatiche giustificate dalla necessità polemica, che uno strumento convenzionale di analisi di fronte alla esperienza dell’architettura: ‘la scelta della funzione si spiega proprio nella sua caratteristica di maggiore evidenza rispetto all’architettura, ma il fatto di considerarla come parametro convenzionale ne stabilisce anche il ruolo. Il ruolo, cioè la sua utilità; non sul piano di un riferi­ mento diretto tra funzione e architettura, bensì sul piano della costruzione teorica. Quindi secondo una relazione indiretta dove il procedimento assume il ruolo principale sia sul piano conoscitivo che sul piano teoretico. In questo senso la funzione rappresenta logi­ camente una angolazione soltanto del problema della architettura, una angolazione tuttavia significativa per le sue doti di 32

sperimentabilità e quindi anche di notevole certezza’. (G. Grassi) Una angolazione quindi da cui cogliere la complessità delle forme, non una scelta ideologica di carattere generale. L’ identificazione dei due termini non è comunque portata avanti soltanto dal funzionalismo volgare, che dimostra con la propria incapacità di pervenire alla definizione di un sistema conoscitivo globalizzante anche il proprio disancora­m ento dalla struttura e in ultima analisi la propria antistoricità, ma anche, più sottilmente da tutte quelle corrènti che motivano la pale­s ata rottura con la tradizione delle forme con la mutata quantità dei fenomeni indicando spesso in un futuro per lo più inventato o almeno incontrollabile la propria collocazione. In base a queste indicazioni possiamo cercare una definizione del termine stesso che usiamo, del significato cioè che la tendenza assume per noi. Al di là delle determi­n azioni critiche e polemiche attraverso le quali si concretizza la genesi di una scelta, il senso della tendenza credo stia positivamente nel suo divenire altro da sè, qualitativamente, nel suo acquistare cioè spessore di ideologia del fare architettura nella costruzione logica di una teoria dove per teoria si intenda appunto un sistema ordinato di proposizio­n i il cui fine è la definizione di uno stile. ’Coerenza, tendenza, stile non sono sinonimi, ma tre momenti del processo storico nel quale si determina il fenomeno artistico. Coerenza è la qualità necessaria al­l ’artista per stabilire i propri rapporti con un mondo morale sopra un piano armonico sicché ogni atto prenda quota da quello; tendenza è la deliberata traduzione di quegli atti entro un ben definito solco indi­v iduale; stile è l’espressione formale della coerenza e della tenden­z a’. (E. Rogers) Come poi si concili la necessità di determinare un sistema trasmissibile con la possibilità di esprimere attraverso il pro­g etto architettonico l’individualità della propria esperienza o ancora 32


come sia possibile cogliere questi significati nel progetto architettonico senza scivolare in interpretazioni intimistiche o idealistiche appare un problema aperto e indubbiamente di grande interesse. Ogni proposta del resto che non sia pura esercitazione accademica si mani­f esta come momento di un processo, momento cioè della costruzione teorica: così solo i progetti mediocri identificano metodo compositivo e risultati confondendo il fine dell’operare con i suoi strumenti. Il progetto contiene quindi in sè anche un giudizio sul significato stesso dell’operazione artistica; esso rappresenta in ogni caso una risposta univoca al problema che si è posto tra tutte le possibili risposte a tutti i possibili problemi. È anzi vero che ogni progetto al di là delle limitazioni che coscientemente si pone sul piano delle scelte iniziali o dei moventi che contribuiscono a individuarne le direttrici, rappresenta una risposta univoca a tutti i problemi che dell’architettura sono propri, si identifica cioè con la sua natura. Riconoscere allora che è assente dall’architettura quel momento, fondamentale nella musica costituito dalla interpretazione, dalla traduzione e mediazione di elementi simbolici in immagini, non significa per questo (nonostante le lucide osservazioni di Lukàcs) negare la possibilità per l’architettura di esprimere un più vasto ordine di significati. Questo del rapporto tra esperienza autobiografica ed oggettività dei principi sembra del resto costituire, al di fuori delle facili polemiche funzionaliste, uno dei nodi di maggiore interesse. Già negli scritti di Aldo Rossi troviamo una indicazione a proposito del monumento; ma è soprattutto nei disegni, nei montaggi che si svela oltre al riferimento ad una precisa teoria della progettazione anche tutto un mondo di rimandi, di allusioni ad una realtà cosmica della architettura e si ritrovano così uniti i riferimenti alla realtà urbana ma anche i miti e i simulacri della memoria che fondendosi con le architetture pensate costituiscono una continua meditazione sulla forma urbana e cioè in ultima analisi veri e propri progetti. Il mondo delle forme non rappresenta allora un campo di possibilità aperto ad ogni indiscriminato recupero e neppure una successione di esempi suscettibili di moralistiche rivitalizzazioni, ma piuttosto un ordine di valori, di allusioni, espressione di una vo­l ontà collettiva che ci ricoinvolge nel processo creativo. Così non è assente una partecipazione in qualche misura ironica (o autoironica) rispetto alle architetture della storia. ’A questo punto vi domanderete sorpresi: come? obiettività e ironia? cosa hanno 33

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Aldo Rossi, Studio per il complesso residenziale al quartiere Gallaratese di Milano, 1973, incisione 34


a che fare insieme? l’ironia non è il contrario dell’obiettività, non è un atteggiamento più che soggettivo, l’ingrediente di un libertinismo romantico che si con­t rappone, come il suo autentico contrario, alla calma e alla concre­t ezza classiche? Verissimo. Ma io uso qui tale termine in un significato più ampio e più grande di quello attribuitogli dal soggettivismo romantico. È nella sua necessità un significato quasi immane, quello dell’arte stessa, deH’accettazione totale, che proprio per questo è anche totale rifiuto; uno sguardo che abbraccia il tutto con chiarezza e sere­n ità solari, e che è appunto lo sguardo dell’arte, vale a dire lo sguar­d o della più alta libertà, della calma suprema e di una obiettività non turbata da alcun moralismo’. (T. Mann) Ed è ancora l’affermazione di quel razionalismo esaltato che pone accanto alla chiarezza delle proposizioni la necessità della singolarità autobiografica della espe­r ienza, atteggiamento che è evidente in Boullée, e anche in Loos, nella grande colonna per il Chicago Tribune, ma anche nella citazione di elementi immutabili della architettura. Se questa non rappresenta per alcune direzioni che un momento, una angolazione per quanto importante, essa sembra costituire per altri anche se, come cerchero’ di mostrare, in termini diversi, una scelta di fondo o almeno un punto di applicazione privilegiato. Così ad esempio i ’monumenti continui’ di Natalini esibiscono con notevole evidenza, se si tralascia il grafìcismo di talune elaborazioni, il naturale collegamento con la esperienza razionalista, ma, cogliendo aspetti che nell’esperienza del movimento moderno erano solo accennati, portano al limite la specu­l azione sui significati e accogliendo come riscontro costante la dimen­s ione della città contemporanea ricercano attraverso l’istituzione di nuovi rapporti una possibile chiave interpretativa. La variazione di­m ensionale degli elementi strutturali (trave e pilastro) rischia pero’ in questo caso di richiudersi in un gioco senza apprezzabili sbocchi. Se il dato dimensionale cessa di essere 35

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visto come uno dei caratteri definitori della struttura per essere assunto invece come elemento sintetico astratto, il gioco si chiude su se stesso, si colloca in uno spazio-tempo astorico, preclude ogni reale possibilità di approfondi­m ento conoscitivo. E mi sembra si possa cogliere in questi progetti anche un atteggiamento, almeno in parte, ancora viziato da un com­p lesso di inferiorità nei confronti del. fatto urbano: l’atteggiamento cioè di chi, intuita la complessità della struttura ne dichiari intimo­r ito la inconoscibilità e cerchi in qualche modo idealisticamente di do­m inarla opponendovisi. Ben diverso il rapporto di Hilberseimer, Mies van der Rohe o Le Corbusier con il problema della grande dimensione urbana; i loro progetti pur fondati sulla sperimentazione di un nuovo rapporto di densità istituiscono con la città della storia, con la città costruita precisi momenti di continuità pur nella indicazione di pos­s ibili sviluppi alternativi. Abbiamo così toccato nel corso del discorso altri due temi carat terizzanti del rapporto che siamo andati istituendo con il movimento moderno, due temi, quello della storia, del suo significato nella progettazione architettonica e quello della città che come ho già accen­n ato in apertura subiscono nella revisione critica del dopoguerra un notevole sviluppo attraverso ricerche anche contraddittorie, ma che vanno progressivamente istituendosi come inalienabile riscontro all’impegno progettuale. E’ nel dibattito architettonico la riaffermazione del significato della storia prende le mosse, come ho già detto, proprio da una presa di posizione dell’intero campo delle forze impegnate nella ricostruzione rispetto alla asserita antistoricità del razionalismo; si consideri una esperienza definitivamente compiuta senza possibilità di evoluzione oppure si guardi all’esperienza dei maestri come ad un patrimonio vivo e necessario alla propria condizione di impegno, l’obiettivo rimane comunque quello di storicizzare il suo stesso antistoricismo sia per collocarlo in un passato definitivamente risolto, oppure per cogliere le valenze che una esperienza comunque decisiva per la cultura contemporanea ha lasciato scoperte. La polemica sulla ritirata 35


dal movimento moderno da parte della generazione più gióvane degli architetti italiani sorge in questo clima ansioso di nuove certezze. L’appassionata reazione di Rogers costituisce non solo un punto fermo per meglio comprendere il senso attribuito al concetto di continuità, ma contiene già in sè col giudizio cauto ma non moralistico sulle nuove esperienze la indicazione dei problemi rimasti aperti. ’Quel che ha realizzato in questi quindici anni la parte mi­g liore della cultura italiana, la più battagliera, la più viva è servito a favorire lo scongelamento dello ’stile moderno’, ad allargare il concetto di funzione, a recuperare il senso della storia. Cio’ corrisponde a delle operazioni che pur avendo varie implicazioni e personali in terpretazioni, si possono porre sopra un denominatore comune: la coscienza del tempo nella determinazione della concezione spaziale; tempo non come un presente autonomo in opposizione ad un passato finito, ma come continua mutazione la quale in ogni momento presente contiene tutto il passato e lo trasforma: un presente che contiene dunque anche una intenzionalità per il futuro. La nostra considerazione di tutto il passato abbandona, senza che rinneghiamo il movimento moderno, alcuni suoi postulati che erano essenzialmente di rottura con la storia e finivano con l’alienare le opere nuove dallo stesso processo che le aveva determinate e per con­s eguenza dall’ambiente reale al quale credevano di appartenere in­t eramente’. In effetti se riconsideriamo oggi con l’oggettività che il distacco storico ci consente la stessa presunta astoricità delle opere di Le Corbusier o di Mies, (ma anche di Terragni o Bottoni) ci accorgiamo facilmente dell’intimo legame che con la storia e la tradizione quelle opere stabiliscono. Le opere, ma anche le affermazioni teoriche: negli scritti di Loos tanto caratteristico ed evidente appare il continuo riferimento alla classicità da risultare ossessivo. Pur negando la eclettica ed equivoca riassunzione della storia intesa come campo di reperti adattabili con l’ausilio del mestiere alle mutate situazioni storiche e sociali (e sap­p iamo come molta della attuale produzione architettonica, soprattutto americana, sia ricaduta in questo 36

equivoco intellettualista) ripropone spesso, e non solo nella appassionata difesa della casa nella Michaeler- plaiz, il riferimento alla architettura del passato in termini positivi. Sintomatico, in una situazione che escludeva dalle scuole d’architet­t ura lo stesso insegnamento della disciplina storica come deviante rispetto alla comprensione dei problemi contingenti, il suo programma didattico: ‘Invece del genere di architettura che si insegna nelle no­s tre università e che consiste in parte nell’adattare gli stili architet­ tonici del passato alle esigenze della vita attuale, in parte nella ricerca di un nuovo stile, io voglio impostare il mio insegnamento sulla tra­d izione. All’inizio del secolo diciannovesimo abbiamo abbandonato la tradizione. È a questo punto che io voglio riallacciarmi. La nostra civiltà si fonda sul riconoscimento della insuperabile grandezza della antichità classica. Da quando l’umanità ha preso coscienza della gran­d ezza dell’antichità classica, un solo pensiero ha unito tra loro i grandi architetti. Essi pensavano: così come io costruisco avrebbero costruito anche gli antichi romani. Il presente si costruisce sul passato come il passato si è costruito sui tempi che lo hanno preceduto’. E’ la casa nella Michaelerplatz esibisce pur nella autonomia della sua definizione tipologica il legame con tutta la tradizione viennese fino al punto di provocare l’attacco dei ’modernisti’. Ed è questo con la città un rapporto di tipo dialettico; l’architettura conserva una propria autonoma capacità di approfondimento indipendente dalla concreta localizzazione, pur traendo dallo studio della città gli elementi stessi della sua costruzione. Per ritrovare il filo di questo rapporto positivo con la città, sce­ vro da moralismi e fughe antistoriche, la cultura, soprattutto in Italia, dovrà passare nel dopoguerra attraverso una serie di esperienze che, pur fallimentari nelle conseguenze immediate, indicano pero’ le nuove strade da percorrere. Per indicare solo 36


le più rilevanti sul piano delle conseguenze ricorderemo quelle che furono più tardi definite come aspirazione alla realtà, ’l’aspirazione alla realtà come storia e come tradizione, l’aspirazione alla realtà come aspetto della ideologia nazional-popolare della sinistra politica e, infine, l’aspirazione alla realtà come connessione con la preesistenza ambientale. Attraverso un rin­n ovato interesse per la tradizione e un più attento esame della realtà si indagano (anche se spesso fra equivoci di carattere interdisciplina­r e) i modi e i termini di superamento di quello che ormai non era del razionalismo che un vuoto simulacro formalista, un equivoco da cui solo l’impegno storico poteva liberare. ‘Casabella’ indica pero’, pur comprendendo le ragioni del rinnovamento, anche i limiti obiettivi di queste esperienze e riferendosi soprattutto alle prime realizzazioni della scuola romana che sembra svincolata da un problema di continuità osserva che ’questa realtà storica bisogna riconoscerla per ren­d ersene coscienti appieno... Ecco che se tali fenomeni vanno svisce­r ati nella loro completa storicità, il voler essere più comunicativi, cioè più popolari, diventa sacrosanto, perchè cio’ significa, in sostanza voler essere più vastamente attuali; pero’ se, mirando a questi fini, si cerca ispirazione nell’architettura spontanea, solo ricalcandone le for­m e, si commette un errore di logica... Non si puo’ realizzare la sem­p licità perduta che riconquistandola mediatamente, attraverso il pro­c esso selettivo della cultura’. Rogers indica insomma come per supe­r are l’equivoco formalismo razionalista si ricada in un ancor più equivoco formalismo populista con una pericolosa abdicazione rispetto all’impegno intellettuale. In questo senso il rapporto con le preesistenze ambientali (la casa di Gardella a Venezia e la Torre Velasca a Milano ne sono forse i risultati emblematici), preesistenze sia come riferimenti generali di tradizione sia come concreto riscontro per i singoli interventi, tese proprio ad una ricerca linguistica che testimoniasse forse proprio quella ’personale interpretazione dei dati og­g ettivi’ in cui Rogers vedeva la possibilità di un avanzamento e non di un puro ripiegamento contemplativo. Ed è ancora il riferimento alla tradizione, mediata questa volta da una precisa ricerca linguistica, a muovere il gruppo di giovani, formatisi intorno alla rivista, nel tentativo di istituire una relazione più individuata tra ideologia e linguaggio. Pur scostandosi dalle manie dialettali per legarsi ad una tradizione colta, l’aspetto europeo della cultura borghese dell’art nouveau, il neomedievalismo boitiano, la tradizione neoclassica lom­b arda, il cosiddetto Neoliberty ebbe comunque nel suo tentativo di rivalutazione intimista, una breve fortuna. E così il fatto senza 37

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Le corbusier, Progetto per una cittĂ di tre milioni di abitanti, 1922 Planimetria e veduta sulla piazza della stazione 38


Sala degli omaggi, XV triennale di Milano; in primo piano il diorama del Qt8

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dubbio risolutore di tutta una serie di esperienze spesso affrettate che hanno luogo nel dopoguerra puo’ essere senza dubbio visto nella pubblicazione del libro ’L’urbanistica e l’av­v enire della città’ di Giuseppe Samonà che proponendo un modo nuovo per guardare ai fenomeni urbani indica anche un preciso ruolo per l’architettura in una ritrovata dimensione disciplinare, al di là del tecnicismo e sociologismo in cui era stata costretta. Il progetto di Quaroni per il quartiere residenziale alle Barene di S. Giuliano di Venezia-Mestre sembra cogliere il senso di quella rottura per proporre un rapporto con la preesistenza sentito in modo nuovo e proprio nella volontà di collocare nella loro propria autonoma dimensione due di­v ersi momenti della costruzione della città realizza il senso del proces­s o cui appartengono. Gli autori, ’si sono convinti che è inutile studiare un ennesimo sistema per articolare architettonicamente e socialmente quartieri senza trovare un aggancio con l’articolazione della città e senza legare fra loro in qualche modo la costruzione dei quartieri sovvenzionati col processo generale di urbanizzazione dei territori in cui nascono. È quindi anche la smitizzazione di un tema, quello della casa popolare, come problema particolare, svincolato dal pro­b lema più generale dell’abitazione nei rapporti urbani, che aveva fino ad allora impedito il superamento di una concezione della città come sistema di parti funzionali. Col superamento della visione funziona- listica negli studi urbani cui si aggiunge la riconsiderazione dell’opera di studiosi come Lavedan, Poete e in generale dei trattati di analisi urbana prende consistenza soprattutto nella scuola quel processo culturale che, come ho detto, appare oggi come il più sicuro e suscet­t ibile di avanzamento. Ritrovato il significato più generale della città attraverso l’analisi dei rapporti tra tipologia edilizia e morfologia ur­b ana, stabilito il carattere conoscitivo dell’architettura attraverso un preciso sistema teorico il ripiegamento sulla considerazione delle tec­n iche non costituisce un momento alienante rispetto al processo sto­r ico se le forme di questo stesso processo entrano con la considera­ zione dei fatti urbani nella stessa definizione dei sistemi conoscitivi. Le pubblicazioni e le realizzazioni che si riconoscono in questa direzione costituiscono ormai una sicura base da cui procedere.

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R.Maier, Saltzman House,1967-69 41

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«Nelle case di Graves e di Meier e nel padiglione di Eisenman è rintracciabile il tema dell’erosione della superficie, della struttura, o della massa prismatica, o delle tre cose insieme. In alcuni di questi edifici c’è una iniziale mancanza di scala che penso sia dovuta alla questione delle dimensioni (cioè un inconscio rifiuto di accettare le loro vere dimensioni). Anche in questo caso molti di questi progetti sembrano modellini di edifici più grandi. Non credo comunque, in ultima analisi, che cio’ che sia vero per la casa di Meier a Darien, e non è certo vero per la casa di Gwathmey. Bisognerebbe riuscire a dire qualcosa sul rapporto tra queste case e la cultura edilizia in generale, ma la maggior parte delle case tranne quella di Gwathmey, sembrano indifferenti alla cultura edilizia e sono pro-forma, cioè connesse al culto della forma. Eppure James Stirling aveva già notato, con grande sconforto del suo architetto, che la casa di Meier a Darien è intimamente legata alla tradizione, tipica della Costa atlantica degli Usa, di edifici a struttura leggera (cioè, ad esempio, come le prime case statunitensi di Gropius e Breuer). Se cio’ è vero per la casa di Meier, è ancora più vero per la casa di Gwathmey, benché sembri rifarsi ad una tradizione di edilizia americana più lontana nel tempo, con i suoi richia mi allo Shingle Style. In tutti questi progetti, tranne che in quello di Hejduk, c’è una allusione alle forme concrete e al cosiddetto spazio 42

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lecorbuseriano; esistono cioè alcune preferenze sintattiche per Le Corbusier e quindi allusioni dirette all’edilizia in cemento. Eppure, la maggior parte di queste strutture erano progettate naturalmente per essere costruite in legno. Nel caso della casa di Gwathmey il fatto che i muri laterali siano stati lasciati in legno risponde alla tradizione americana di edilizia in legno (nonostante i diversi riferimenti formali). Il grado di intellettualismo presente in questi progetti varia da edificio a edificio. Il padiglione di Eisenman presenta senza dubbio il sistema intellettuale più complesso e ricercato. Ed è anche molto lontano da qualsiasi tipo di cultura edilizia americana di tradizione locale. I suoi riferimenti sono italiani, o, più esattamente, con il movimento razionalista italiano degli anni ’30». Testo tratto da “Criticism” di Kenneth Frampton, nel libro Five Architects, New York, 1972

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John Hejduk, Bye House, 1973 44


Avanguardia e Nuova architettura

Per definire l’architettura italiana contemporanea, nessun giudizio potrebbe essere più preciso di quello espresso da Camillo Boito di fronte alla bizzarria e allo smarrimento dell’architettura alla fine del ’800. «Ora - diceva Boito - ci sono edifìci ed architetti, non architettura. Ora l’architettura è salvo rari casi, un trastullo della fantasia, una in- gegnosetta combinazione di forme, uno sbizzarrimento di matite, di compassi, di righe e di squadre».

Testo di Rosaldo Bonicalzi tratto da Architettura Razionale, 1973

Nel 1973 a quasi un secolo di distanza, le considerazioni che si possono fare sulla «miseria dell’architettura recente», disegnata e rea­l izzata, sono, salvo rari casi, le medesime. La storiografia architettonica italiana è oggi del tutto insufficiente a spiegare questa miseria o a proporne il suo superamento. Le «Storie dell’architettura» di Bruno Zevi (1952) e di Leonardo Benevolo (1960) non arrivano ad illuminare il presente o, se lo fanno attraverso occasionali scritti di aggiornamento, è solo in funzione difensiva. Nel ribattere le tesi pluralistiche di Christian Norberg-Schulz, la penna di Zevi ci fornisce il paradigma di questo puntellamento difensi­v o: «L’alternativa alla dura responsabilità di restare fedeli alla tradi­z ione moderna non sta nel pluralismo, ma nel franco, coraggioso suici­d io proposto dalla pop-architettura. Rigetto di ogni modello culturale, di ogni ordine aperto o chiuso, ritorno al caos originario, alla trivialità, all’artificio. Chi ha deciso di abbandonare il movimento moderno puo’ scegliere tra Versailles e Las Vegas, tra la sclerosi o la droga». Pur riconoscendo a Zevi la coerenza e la serietà del suo continuo impegno culturale, non possiamo pero’ accogliere queste «indicazioni .operative» come le sole alternative al dogma del movimento moderno. Il patrimonio del movimento moderno è ancora denso di possibilità inesplorate, di strati profondi da indagare e le eventuali eresie che da esso possono scaturire dovranno fondarsi sul riconoscimento di quel patrimonio dottrinario o comunque sulla sua utilizzazione. Zevi ha ragione quando afferma (1965) che non è emersa alcuna nuova avanguardia architettonica e che l’anti-avanguardia (neoliberty, neorealismo,

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ambientismo, storicismo, manierismo) non aveva prodotto dei sostanziali spostamenti, ma delle opere di ripiegamento regressivo. Tuttavia bisogna dire che non è corretto precludere ogni avanzamento critico sul binario del movimento moderno con la sola alterna­t iva del deragliamento. L’interessante dibattito che sulla rivista Controspazio ha contrapposto il dogma del movimento moderno «all’ar­c hitettura pura», ha mostrato quanto sia arida la strategia difensiva e quante e quali alternative reali esistano al caos e al «suicidio pop». La chiusura di Zevi costituisce un pericoloso incoraggiamento, del resto inutile, alla «trivialità» dell’architettura. A quel disordine pittoresco che in nome della fantasia sceglie nella progettazione il solo caos «come riscatto dalla disciplina metodologica del razionalismo e come alibi nei confronti delle finalità politico sociali dell’urbanistica»; o, per equivoche esigenze di oggettività, il formalismo senza luogo e cultura delle esercitazioni geometriche. A questo rigido fronte «conservatore», che trova solidali «il brac­ cio secolare del funzionalismo» e l’«organicismo» ormai grondante di incontrollabile fantasia, si contrappongono poche ma chiare le voci dell’eresia. Queste note vogliono quindi cercare di chiarire il significato di questa eresia che investe le opere più vitali della nuova architettura italiana. Di stabilire cioè il senso di avanguardia, di progresso e di architettura nell’opacità in cui siamo immersi, nel tentativo di cogliere quei pochi centimetri di differenza che, come diceva Le Corbusier, distanziano un buon architetto da uno cattivo architetto. Si dovrà quindi rinunciare a tracciare un preciso fronte discrimi­ nante, non perchè esso si presenti arduo o troppo semplicistico, ma perchè esso risulterebbe inadatto a descrivere la condizione alessandri­n a dell’architettura contemporanea italiana. La vastità dei recuperi storistici e l’ampiezza degli interessi figu­r ativi renderebbe vano ogni tentativo di sistematizzazione utilizzando i normali strumenti della critica architettonica. Del 46

resto anche i re­c enti contributi tecnici di Manfredo Tafuri, Vittorio Gregotti e Nino Dardi non riescono a rassicurarci stabilmente sulla morte dell’archi­t ettura, piuttosto che sulla sua programmatica ambiguità e complessità, oppure sui presupposti di un rilancio desunto da penetranti letture dell’architettura internazionale. Procederemo pertanto per differenze ed in negativo, cercando di guardare il più possibile lontano, senza il conforto dei paragoni europei, americani o giapponesi. Diremo innanzi tutto che in Italia non esiste un’avanguardia, o per lo meno se esiste e così la si vuol chiamare, essa non riguarda l’architettura. È piuttosto al design ed alle sue più recenti estensioni nell’utopia urbana e territoriale che questa caratteristica puo’ essere applicata in tutta la sua ambiguità culturalistica. Il recente lancio del design italiano alla chiassosa fiera del Museum of Modern Art di New York (1972) ha certo contribuito ad una positiva e proficua propaganda dell’artigianato industriale italiano, ma non a produrre chiarezza. I «pratoni» dei designers politicamente più spietati (gruppo Strum), le fisarmoniche di Rosselli o le roulottes di Zanuso sono stati accomunati, con il tipico cinismo commerciale, alle proposte dei gruppi fiorentini (9999, Archizoom, Superstudio) che già da» tempo e con i compagni anglosassoni, avevano conquistato un loro posto nei confusi veicoli dell’avanguardia, come AD e Casabella. È quindi necessario precisare i termini di quest’avanguardia e i motivi della sua assenza nel mondo della disciplina architettonica. Solitamente tutto cio’ che regredisce, ed in questo caso l’archi­ tettura italiana, sollecita la logica del progresso ad una sosta; alla formulazione, a volte solo in negativo, di un nuovo ordine di valori e principi teorici. Questa sosta o ripensamento, che viene spesso ed impropriamente individuata come il luogo dell’avanguardia, puo’ offrire due vie di sviluppo differenti e contrastanti: l’utopia dell’avanguardia o la rifondazione disciplinare. La prima si configura con l’elaborazione di un pensiero negativo che proietta nel futuro tutto il potenziale figurativo scaturito 46


dal ri­f iuto del passato. Nella sua volontà di ricominciare da zero essa nega la storia per ritrovare un nuovo, quanto illusorio, punto di partenza; e così facendo raggiunge facilmente l’utopia ed il suo isolamento dalla realtà. In definitiva gioca un ruolo sostanzialmente reazionario poiché, con la sua autoesclusione, contribuisce al rafforzamento della condi­z ione che voleva distruggere. Così i gruppi dell’avanguardia fiorentina ci aiutano come lo possono fare i sogni, non la scienza; essi costituiscono uno stimolo, un giudizio, un affanno, ma di fatto non riescono ad «incatenare, come occorrerebbe, un’analisi ad un’estasi». Perseguendo una critica della pratica sociale con slogan e atteggiamenti sostanzialmente romantici, essi approdano ad una analisi che nella sua profondità coglie il buio più corrosivo ma rifugge dalla necessità più evidente. Un esempio tipico ci è fornito dagli «accademici» di Archigram, molto seguiti a Firenze: la «Plug In» City accatastata, in modo disor­d inalo e con vocazioni «dirompenti», le tipologie tradizionali in siste­m i organizzativi aperti, producendo nient’altro che una sorta di infe­l ice metafora delle figurazioni tradizionali già in crisi. Di fatto, ricercando verità nuove, queste esperienze figurative disperdono nell’immagine didascalica immediata e, a volte, non priva di interesse artistico, la vera ragione d’essere della ricerca scientifica: vale a dire la confutazione degli errori che richiede un tempo di ri­c erca di gran lunga superiore a quello necessario per conoscere verità nuove. Anche se l’enunciazione delle nuove verità copre un campo prettamente disciplinare, nel porsi la domanda del come sarà la nuova città e il nuovo modo di abitarla e quindi nell’avanzare ipotesi di prefigurazione formali o solo culturali, questa avanguardia aspira alla architettura senza riuscire ad esserne strutturata. Così le proposte urbane di Archizoom confluiscono, anche se da un opposto versante, nell’astrattezza delle prefigurazioni più svianti e scadenti come quelle esposte nella sezione architettura alla recente mostra di Kassel («Do- kumenta», 47

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1972). Louis Kahn, di cui si puo’ anche non condividere certe «contaminazioni» formalistiche, ha con notevole ironia espresso un giudizio su queste posizioni. In una conversazione con gli studenti della Rice Uni­v ersity ha messo in rilievo come certe proposte utopiche non siano altro che traslazioni di linguaggio da altre discipline scientificamente più avanzate e già in grado di risolvere tecnicamente l’immagine progettata. «Quando ci si mette a progettare il futuro - diceva Kahn - puo’ saltar fuori qualche cosa di molto ridicolo perchè sarà solo cio’ che puo’ essere fatto ora. Certuni riescono a concretare una immagine. Ma è il possibile di oggi, non l’anticipazione di come saranno le cose do­m ani...». E i termitai di Paolo Soleri nel deserto dell’Arizona ne sono una prova evidente. Il mondo delle tecnologie avanzate diventa il riferimento puntuale, anche se solo romanticamente sentito, per uno scorrevole superamento dell’utopia. È naturale quindi che i paesi tecnologicamente più avan­z ati costituiscano il riferimento continuo di questa avanguardia, che in Italia è particolarmente agguerrita a Firenze. Anche se sarebbe più semplice individuare nel provincialismo della cultura italiana, e di quella fiorentina in particolare, le ragioni di queste simpatie, è forse più utile tentare di ragionare brevemente sui presupposti storici di questo atteggiamento che si ritrova anche, con effetti più sconcertanti, nella professione attiva di certi architetti toscani. Si deve a Michelucci, fin dal 1925, il rilancio nella cultura architettonica fiorentina dell’esigenza del fantastico in una rivista che por­t ava il significativo titolo di Fantastica. Quando ancora il razionalismo non si era consolidato in Italia, Michelucci scriveva: «Ragioni di ambiente, di tradizione ci fanno sentire la necessità di movimenti ariosi, musicali... Le costruzioni moderne debbono 47


conquistare un po’ di elementi illogici, impensati... movimento è indice di vita interiore e di una conquista non caduca». Più tardi, quando il razionalismo ebbe acquistato una sua indiscutibile autorevolezza e diffusione, la «Firenze razionalista» riuscì ad assorbire e neutralizzare proprio quell’aperto rifiuto storicistico e naturalistico che il razionalismo propugnava. Così Pagano, nel 1931, parlando della mostra dei disegni alla Facoltà di Architettura di Firenze, poteva dire: «Nella storia dell’architettura moderna Firenze ha dormito all’ombra dell’eterna fabbrica della Biblioteca Nazionale o si è lambiccata nelle sapienze dei restauri, o si è rassegnata allo stilismo disinvolto della Piazza Vittorio Emanuele, S. Miniato era riservato alle osservazioni del Berenson e il porticato della Badia di Fiesole era proprio povero di «particolari» per accettare da esso una lezione di parsimonia». Le esperienze di Ricci quelle di Savioli e della sua pittoresca scuola sono gli episodi autobiografici di una cultura che attraverso la storia, le tradizioni locali, il superamento del razionalismo nel fantastico e le esperienze informali, giungerà alle «favole» dell’ultimo Michelucci nella chiesa sull’autostrada del Sole, («se sotto veste favo­l osa - si sub velamento fabuloso - si trova un significato non è super­f luo comporre favole»). In questo retroterra culturale si sviluppano le avanguardie fio­ rentine secondo il tipico modello italiano, che per usare le parole di Edoardo Persico, «si forma nell’imitazione dell’estero e che abitua a tutte le astuzie per celare l’inesistenza di una dottrina». Questi gruppi fiorentini, (escluso Superstudio per una particolare attenzione al discorso disciplinare) dopo un rapido attraversamento di quelle scienze che dovrebbero verificarli, cadono quando la nuvola tecnologica si dissolve nello «smascheramento finale»: la produzione di oggetti graziosi e dirompenti. La tecnologia esorcizzata apparente­m ente nelle urla del fumetto, si rivela allora come la cruda espressione ideologica di quel sistema che si voleva negare. Il sigillo stilistico, come presupposto della mercificazione, riduce queste prefigurazioni formali al mondo degli oggetti, al consumo, alla obsolescenza. 48

La definizione dello stile e le sue «variazioni» risolvono la ten­ sione utopica semplicemente in un tipo di design diverso dagli altri, magari più costoso, ma altrettanto petulante e banale. La chiarezza e la semplicità del meccanismo che unisce il proiettile al bersaglio, trascorre senza drammi nelle «storie» di Archizoom, Superstudio e 9999. Lo spazio della loro scena sta sopra la realtà, an­c he se alcuni dei suoi frammenti più inquietanti vi compaiono; ma nulla è drammatico: tutto puo’ scivolare nella quotidianità di un ta­v olo a quadretti di Superstudio, o rinfrescarsi con gli ortaggi di 9999, oppure incuriosirci con il candore della «No stop City» degli Archizoom. Ma di fatto non sono le immagini che ci inquietano ma le loro motivazioni; le immagini restano mute di fronte al progresso delle istanze disciplinari, poiché intendono il progresso come semplice cambiamento, mutazione, come diversità, e non come attiva ed operante chiarificazione. Se in qualche modo ci sono di stimolo o giudizio cio’ avviene, nel migliore dei casi, come per una periferia di Sironi o una piazza d’Italia di De Chirico. Più che per i contenuti, queste posizioni ci interessano quindi per la loro ragione di essere, per la condizione che implicitamente denunciano. Il loro colto infantilismo ci offre utili indicazioni per comprendere la difficoltà dell’architettura e, su un piano culturalmente più problematico, un certo modo della sua impossibilità. Di come oggi la figura dell’architetto veda sempre più allontanarsi le possibilità di salvezza collettiva, soprattutto nella sfera professionale. E ancora di come la strategia della confusione, che amalgama merce e cultura, operi continuamente e quotidianamente sulla scalarità dei valori con la tipica mobilità imitativa del talento, sempre contigua ad ogni tenta­t ivo di distanziarla; inducendo così ad identificare, man mano che il bersaglio si sottrae, cio’ che si vorrebbe combattere con lo stesso com­b attimento. È in questo colossale spreco intellettuale che l’avanguardia non riesce neppure ad essere disutile; ma solo e semplicemente inutile. 48


Cedric Price, Fun Palace, 1961

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Una inutilità che pero’ non è sottrazione, ma ideologica petizione di principio e che ritrova nella qualità dell’arte l’obiettivo autobio­g rafico più stimolante. Questa «artistica» inutilità, che pure è rintracciabile anche nella nuova architettura, sottende nell’avanguardia un rifiuto; mentre l’architettura la raggiunge attraverso la necessità che vincola l’immagine alla realtà. E proprio sul comune sentimento dei tempi, dell’inanità di fronte dell’irrazionalismo culturale e politico, che le due posizioni scelgono una diversa strada. Eupalino di Valéry evoca in modo esemplare quella che per noi è l’alternativa all’avanguardia; quella volontà costruttiva della forma che ordina logicamente la spontaneità della vita. «Avaro di sogni -dice Eupalino - concepisco come se eseguissi, e non contemplo più nello spazio informe della mia anima gli edifizi immaginari che rispetto a quelli della realtà sono quali le chimere e le gorgoni rispetto agli animali veri: cio’ che io penso puo’ essere fatto, e cio’ che faccio è intelleggibile». Cio’ che Eupalino descrive è la tautologia dell’architettura, la necessità della sua chiarezza logica, della sua semplicità e della sua operante razionalità: l’immagine che descrive se stessa. Ma naturalmente un’immagine reale, costruita con materiali reali, per un mondo comunque reale: il luogo del possibile, oggi. Ma se da una parte si nega l’evasività dell’arte, la sterile astrattezza delle esercitazioni geometriche o la progettazione «in un sol colpo» della metropoli, quale è il campo operativo che si prospetta? Ed in che modo si possono avviare realisticamente le istanze di rinnovamento disciplinare? Bisogna subito dire che una risposta precisa non c’è poiché le soluzioni non sono dominio esclusivo della nostra volontà. Esse dipendono fondamentalmente dal destino della democrazia e dal progresso civile di un paese: sono scelte collettive e non individuali. La «volontà di forma» nell’architettura è una condizione neces­s aria e autonoma, ma non costituisce essa stessa una necessità per l’azione politica migliore; e anche se lo fosse, bisognerebbe dimostrare in che modo un certo tipo di architettura si proietta su una certa società e viceversa. Comunque non si tratterebbe «di riconoscere una autonomia a lato della funzione sociale dell’architettura, ma una autonomia come corollario della funzione sociale dell’architettura». 50

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Quindi una volta esclusa la possibilità di prefigurare una nuova realtà attraverso la sola forza delle idee o delle immagini non rimane altro che rifiutare il compromesso, prendere atto della realtà sociale in cui siamo immersi e prepararci tecnicamente con strumenti e for­m e opportunamente «affilate». L’architettura italiana, quella che lorda le periferie e distrug­g e i centri storici, oggi è «stanca»; non sa rispondere ai nostri inter­ rogativi perchè il compromesso politico ed interdisciplinare ne ha già spento ogni stimolo di rinnovamento. La «rinuncia» della nuova architettura è invece piena consapevolezza storica; i molti progetti disegnati nelle università o per l’in­g anno dei concorsi, esibiscono chiaramente le istanze di rinnova­m ento disciplinare in quei luoghi alternativi che sono o erano le università e i concorsi. La sua volontà di progresso, anche se ha rare possibilità di realizzarsi nella costruzione, attua una ricerca paziente e specifica, senza compromessi ma anche senza sogni. L’attesa dei tempi e degli strumenti migliori, che negli anni ’50 ha visto la cultura italiana progressista delegare la propria azione al professionalismo e che oggi ripropone l’abbandono della disciplina per l’impegno politico o l’evasione dell’avanguardia, è l’insidia storica oggi più presente. E se ancora molta della nuova architettura è solo disegnata o scritta, la ragione va proprio cercata in quell’operante insidia che sin dalla dittatura fascista ha provocato una profonda scissione tra intellettuali e politici. Ecco perchè la così, detta ricostruzione post-bellica «non aveva ormai nessuna esperienza nel volere, nel progettare e nemmeno costruire la città fisica, proprio perchè era venuta meno quell’idea di città - città morale, città politica, città eco­n omica, sociale, umana - per la quale e sulla misura della quale sol­t anto è possibile edificare la città degli architetti, fatta di case, di strade, di porti, di fabbriche e di tante altre cose del genere». Questa condizione di profonda sfiducia e di crisi culturale im­m anente che, come abbiamo detto, divarica i destini dell’avanguardia da quelli della nuova architettura, possiede 51

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ancora delle zone di luce, quei rari casi di cui si parlava all’inizio. Oggi la cultura architettonica più sana, quella che concretamente difende l’architettura come fatto autonomo, come disciplina, opera individualmente alla ricerca di temi e tecniche congeniali o, collettivamente, in quelle aree franche che certe facoltà di architettura (come Venezia) riescono a mantenere per la speranza di molti e la fortuna di pochi. L’architettura continua così silenziosamente anche se, con tutto il dramma nella sua insolvente necessità, diventa solo volontà di progettare e «memoria» dell’architettura, e la condizione dell’architetto si riduce a quella dell’uomo di fronte al tavolo da disegno. Distrutto il luogo geometrico dove si era formata e sviluppata (l’università) la cultura architettonica progressista continua a conso­l idare un suo luogo logico attraverso gli scritti, i concorsi, le conferenze e infine l’immaginazione creativa come libera esperienza umana. Anche se la repressione governativa dopo il ’68 ha provocato la forzata diaspora dei docenti migliori, pur nella dimensione individuale sono rimasti gli intenti, i programmi, le idee e le immagini che hanno costituito il riferimento più sicuro per quel tipo di sosta e ripensamento che, all’inizio di questo scritto, era contrapposto alla magnilo­q uenza dell’avanguardia. Questo secondo tipo di atteggiamento critico, quello che cioè costruisce nella sua analisi la nuova architettura, non sceglie l’inven­z ione o la trovata ma si muove pazientemente e forse più sicuramente lungo un processo di chiarificazione. Come ogni vero atteggiamento scientifico questa posizione, che per brevità chiameremo Tendenza, non scopre nuove verità ma tende all’eliminazione degli errori in un divenire della conoscenza incentrato sull’analisi storica e formale, sullo studio della città come manufatto e sui caratteri che portano un certo tipo di architettura a proiettarsi su una certa parte di società. Per la Tendenza l’architettura è un processo conoscitivo che di per sè, nel riconoscimento della sua autonomia, impone oggi 51


una rifondazione disciplinare; che rifiuta di affrontare la propria crisi con i rimedi interdisciplinari; che non rincorre e si immerge negli eventi politici, economici, sociali e tecnologici solo per mascherare la propria sterilità creativa e quindi formale, ma che li vuol conoscere per poter intervenire con chiarezza, non per determinarli ma neppure per subirli. Questa posizione culturale che ha le proprie radici nell’eredità del movimento moderno, consegnataci da maestri come Giuseppe Samonà e Ludovico Quaroni, si definisce in negativo contrapponendosi, a quella che Nino Dardi chiama l’Internazionale del Pittoresco «che raggruppa i derivati secondi dell’espressionismo e del costrut­t ivismo, le proposte di Sacripanti I e le aggregazioni di Moshe Safdie, i plasticismi di Michelucci e le capanne di Scharoun, le architetture pop degli Archigram, le piastre intarsiate di Candilis e i geometrismi di Venturi, le strutture di Frei Otto, gli anamorfismi di Paolo Soleri, le costruzioni di Gunnar Birkerts, le capsule spaziali di St. Florian, sulla base di valutazioni ottico-percettive e riduce inevitabilmente la esperienza dell’architettura ad una serie di preconcetti formali nei quali la libertà apparente del gesto è in realtà chiusura entro scelte non motivate». Ma riconoscere pero’ una eredità del movimento moderno nella Tendenza non significa una sua assunzione meccanica: essa accetta tutta la storia come evento, come «distesa di simulacri» e avverte «la nostra cultura architettonica come un crepuscolo statico che bagna di luce uguale tutte le forme, tutti gli stili». In questo senso la Tendenza non si puo’ riconoscere nei principi generali «intorno ai quali si è venuta sviluppando l’architettura moderna, secondo il giudizio contenutistico e la interpretazione etica che ne dà Giulio Carlo Argan: 1) la priorità della pianificazione urbanistica sulla progettazione architettonica; 2) la massima economia nell’impiego del suolo e nella costruzione al fine di poter risolvere, sia pure a livello di un minimo di esistenza, il problema delle abitazioni; 3) la rigorosa razionalità delle forme architettoniche, intese come deduzioni logiche (effetti) da esigenze 52

obbiettive (cause); 4) il ricorso sistematico alla tecnologia industriale, alla standardizzazione, alla prefabbricazione in serie, cioè la progressiva industrializzazione della produzione di cose comunque attinenti alla vita quotidiana (disegno industriale); 5) la concezione dell’architettura e della produzione industriale qualificata come fattori condizionanti del progresso e dell’educazione democratica della comunità».Lo scarto, come dice Montale, «tra i ruggenti anni 30 e i raglianti anni ‘50» induce le nuove generazioni a riguardare criticamente l’eredità del movimento moderno e soprattutto alla sua scelta antistoricista. In tal modo il libro di storia della architettura accanto al tecnigrafo puo’ diventare l’immagine reale per raffigurare un nuovo atteggiamento critico e un nuovo rapporto con la storia che, per alcuni diventa addirittura un angoscioso materiale di progettazione se non progetto essa stessa. Il discorso sulla storia assume per alcuni degli architetti più rappresentativi una vera e propria unità di misura; non solo per valutare le reciproche differenze, ma anche per calcolare le singole distanze eretiche dal movimento moderno. S. Giedion riassumendo in otto punti lo sviluppo architettonico degli anni 20 ha messo, tra l’altro, in evidenza negli arcihtetti della «terza generazione» il più forte rapporto con il passato. Potrebbe quindi essere interessante valutare la misura di questo rapporto nell’opera degli architetti italiani. Ma data l’occasione di questo scritto, sarà opportuno limitarsi ad alcune prese di posizione significative esaminate sul fronte della Tendenza. Manfredo Tafuri, uno dei più vivaci storici dell’architettura in Italia, è a questo proposito categorico almeno quanto Bruno Zevi nella sua posizione difensiva. Tafuri afferma chiaramente che «anche oggi siamo obbligati a riconoscere nella storia non un grande serbatoio di valori codificati, bensì un’enorme raccolta di utopie, di fallimenti, di tradimenti». Ed a proposito di una sua strumentalizzazione il giudizio non lascia scampo:

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«Come strumento di progettazione la storia è sterile, non puo’ offrire che soluzioni scontate». Tafuri pur essendo un architetto è un bravo storico: è cioè un architetto che ha scelto la storia come campo della sua ricerca auto biografica. E lo ha fatto con accenti così drammatici e taglienti che in lui la maschera dello storico ha assunto la dignità del volto. In un certo senso Tafuri puo’ considerarsi uno dei più appassionati «progettisti» della Tendenza poiché il rapporto con la storia, pur «vieta­t o» in quella architettura disegnata che personalmente non esercita, investe un suo progetto ben definito, tutto pensato ma non meno importante e suggestivo di quelli «solo» disegnati: una sorta di metaprogetto esteso a tutta l’architettura pensata, disegnata e scritta. Paradossalmente si potrebbe dire che Tafuri è l’architetto italiano più «grondante di storia». Di fatto Tafuri, che a Venezia è riu­ scito a creare una importante e aristocratica scuola di storici, non sostiene tout-court la morte dell’architettura come comunemente gli si attribuisce. In un recente aggiornamento di un suo saggio ritira parzial­m ente quella apocalittica profezia nata dal complesso crogiuolo del ’68. Il dramma dell’architettura è oggi per Tafuri quello «di vedersi obbligata a tornare ’pura architettura’, istanza di forma priva di uto­p ia, nei casi migliori sublime inutilità. Ma ai mistificati tentativi di rivestire con panni ideologici la architettura - dice Tafuri - preferire­m o sempre la sincerità di chi ha il coraggio di parlare di quella silen­z iosa e inattuale purezza». Il riferimento all’opera progettata e scritta di Aldo Rossi è qui esplicito e puntuale. Ad Aldo Rossi va il merito di essere riuscito a formulare con chiarezza una posizione di Tendenza che, nel dibattito italiano, co­s tituisce se non l’unica, almeno la più precisa e la più carica di possibili sviluppi. Nel definire l’architettura di Aldo Rossi il rapporto con la storia ci è molto utile: 53

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«i monumenti romani - dice Rossi - i palazzi del Rinascimento, i castelli, le cattedrali gotiche, costituiscono l’architettura; sono parti della sua costruzione. Come tali ritorneranno sempre non solo e tanto come storia e memoria ma come elementi della pro­ gettazione». Con un nuovo tipo di «critica operativa», che Tafuri definisce «critica tipologica», Rossi assume la storia come un ininterrotto evento da studiare e percorrere, da disegnare e scrivere; un mondo pregno di magiche evocazioni e di corrispondenze impassibili. Nella progettazione, Rossi guarda alla storia con un atteggia­ mento che definiremo laconico. Come osservava acutamente Ezio Bonfanti nel suo bel saggio su Rossi ci troviamo «di fronte ad una architettura che sottolinea la propria componibilità e l’esistenza di un numero ristretto di elementi»; e «il fatto di usare come elementi parti finite, vere e proprie architetture, è una scelta di architettura ben precisa». Per altre vie, in un certo senso più tormentate e tortuose, si pone il rapporto con la storia nelle architetture di un professionista «illuminato» come Vittorio Gregotti. La sua stessa condizione manierista lo spinge a guardare la storia ma a non toccarla; l’affanno della contemporaneità, consumato nelle dilaceranti convulsioni del compromesso professionale, esige il nuo­v o, la mutazione; ogni imitazione è sorvegliata. «La storia - dice Gregotli - si presenta... come un curioso strumento la cui conoscenza sembra indispensabile, ma una volta raggiunta, non direttamente utilizzabile; una specie di corridoio attraverso il quale bisogna pas­s are per accedere ma che non ci insegna nulla sull’arte di camminare». A differenza di Rossi che compone parti e pezzi di storia senza preclusioni di tempo, Gregotti sembra più pronto ad assumerla cogliendone le possibili variazioni, cavandola ed erodendola nei 53


suoi strati più recenti e sedimentati; come in un raffinato collage dove i frammenti strappati sono conosciuti. La storia per Gregotti è soprattutto quella del movimento mo­d erno analizzata con l’impazienza dello sguardo più che con la calma del collezionista. Gregotti costruisce l’ambiguità e la complessità contemporanea con complicate erosioni della forma. Egli parte dal tauto­l ogico e dal cristallino, cioè dove la progettazione di Rossi finisce. La vera essenza del confronto, quella più utile per tracciare le vie della nuova architettura, avviene quindi tra semplicità e complicazione, tra evocazione e descrizione, tra le possibilità del tipo e la ripetibilità del modello. La complessità e l’ambiguità sono qualità che Gregotti descrive e Rossi evoca; agli storici spetta il compito di valutare la strada che si rivelerà più feconda. Nelle architetture di Gregotti e di Rossi, al di là di tutte le differenze autobiografiche, si ripercuotono e si misurano tutte le os­s ervazioni che Manfredo Tafuri aveva fatto sul concorso per i nuovi uffici della Camera dei Deputati (1968). «Una cosa - diceva Tafuri - è certa: fra sperimentalismo positivo o negativo che esso sia - e professionalismo non sono più possibili mediazioni». L’ordine e il disordine che caratterizzavano i progetti presentati non riuscivano, nella dialettica tra razionalità e irrazionalità, a comporre un ordine nuovo: «l’avvolgersi nel silenzio e il tuffo nel luna park si fronteggiano ermetici, disincantati, astratti... Caos e geometria: le due vie dell’arte moderna si presentano di nuovo scisse tra loro, in tensione, alla ricerca di una complementarietà. A Berlino esse si fronteggiano simbolicamente: la Philarmonie di Scharoun e il puro prisma di Mies van der Rohe sembrano chiudere, nella loro opposta assolutezza, la dialettica aperta dalle avanguardie tedesche nei primi decenni del nostro secolo». Per la cultura architettonica italiana gli anni 70 sono iniziati con una progressiva estinzione del dibattito e con un accentuato 54

ripiegamento dell’impegno collettivo. Dopo la vergognosa repressione governativa negli anni ’70, ’71 e ’72 e la paralisi delle facoltà di architettura maggiormente colpite (Milano, Pescara, Roma, Firenze, ecc.) anche il dibattito culturale, che con maggiore vivacità e tenacia vi si era radicato, sta subendo una lunga e pericolosa apnea. Nè basta a tenerlo in vita l’ambulatoria coalizione di architetture rare o esaurite. Le rarità messe in opera o progettate dalla nuova generazione di architetti non bastano a confi­g urare una nuova logica o a produrre un fronte sufficientemente com­p atto e consistente per operare uno scontro. Ma anche se questo fosse possibile ci si domanderebbe allora: contro chi? La vecchia guardia formata dagli Albini, BPR, Gardella, Ridolfi, Quaroni e Samonà non ha prodotto negli ultimi anni opere «traenti» e il rispetto che oggi le nuove generazioni non esitano a riconoscergli dimostra una volta di più la loro progressiva «perdita del centro». Non è un caso quindi che le voci più chiare risuonino oggi nell’avanguardia, con tutti gli equivoci che abbiamo visto, od esalino dalle superstiti formazioni a quadrato che la cultura progressista rie­s ce ancora a mantenere nella Facoltà di Venezia (Aymonino, Tafuri) Palermo (Gregotti, Benevolo, A. Samonà) e intorno a singole personalità escluse dall’università dopo la repressione (Aldo Rossi a Milano). Molto giustamente Vittorio Gregotti ha dedicato l’ultimo para­ grafo del suo pamphlet sull’architettura italiana alla «rivolta delle facoltà di architettura»: ancora nel 1969, Gregotti poteva dire che «non più le riviste, le associazioni di tendenza, la produzione professionale, ma le Facoltà sono i luoghi dove avanza, pur fatico­ samente, quel poco che avanza la discussione e persino la progetta­ zione dell’architettura italiana». Milano soprattutto, nella geografia delle facoltà di architettura, ha dato nella seconda metà degli anni sessanta un fondamentale contributo all’avanzamento del dibattito e alla realizzazione di una scuola con caratteristiche di autonomia disciplinare. Sarà quindi utile soffermarsi sull’esperienza ‘della Sperimenta­ 54


zione milanese poiché in essa, e con maggior precisione che nelle altre sedi, la docenza democratica e l’impegno studentesco sono riu­s citi a realizzare, anche se per pochi anni, un singolare e forse unico punto d’incontro. A Milano a partire dal 1967/68 si chiariscono e si fronteggiano una serie di posizioni politico-culturali ben individuate e che per la loro esemplare tipicità riescono a riverberare all’interno della facol­t à la parte più cospicua del dibattito nazionale. Ernesto N. Rogers, Guido Canella, Aldo Rossi, Vittorio Gregotti, Franco Albini, Lodovico Belgiojoso, Piero Bottoni rappresen­t ano le pillile culturali attorno alle quali si attestano le forze più vi­t ali del Movimento Studentesco. In particolare attorno al corso policattedra E. Rogers, A. Rossi, G. Canella, incentrato sul tema progettuale del «Teatro nella città», si articola un confronto di idee che per la prima volta riesce a coinvolgere il discorso disciplinare nell’impegno politico, l’analisi del sistema produttivo in una profonda critica delle istituzioni universitarie; ed infine riesce a chiarire nei fatti della progettazione le sin­g ole posizioni, superando le ambiguità programmatiche, e, gettando i presupposti per la costituzione di una facoltà di tendenza. Cio’ che emerge chiaramente è innanzi tutto una visione critica complessiva. Ci si rende conto che nelle facoltà di architettura, da un lato per la oggettiva marginalità del loro ruolo istituzionale ed economico e per il conseguente mancato sviluppo di una domanda esplicita di ricerca ad esse rivolta, dall’altro per l’arretratezza culturale delle sistemazioni disciplinari, non si è mai sviluppato un la­v oro di ricerca complessivamente organizzato e sistematico, configuratesi nello insieme come proposta di avanzamento degli assetti disciplinari. Nel 1967/68 la Facoltà di Milano individua così per prima, nello smantellamento del piano di studi, lo strumento essenziale per pervenire al capovolgimento dei rapporti istituzionali di potere ed aprire con cio’ lo spazio politico per impostare un lavoro nuovo di produzione culturale e scientifica. 55

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Il confronto dialettico delle forze, secondo ruoli diversificati, produsse l’esplicitazione di una serie di posizioni politicoculturali, fatto questo che si configuro’ come un indirizzo di ricerca entro cui articolare la nuova organizzazione del lavoro universitario. Questa nuova articolazione ha configurato tre orientamenti ge­ nerali, fortemente differenziati, che ancora oggi sono riscontrabili del dibattito architettonico. Il primo nega il discorso disciplinare nel senso specifico per ricondursi ad una problematica politica più generale. Il secondo è quello che si puo’ definire del professionalismo. Il terzo quello che tenta di impostare la costruzione di una scuola di architettura resti­t uendo dignità e specificità al problema disciplinare dell’architettura. Del primo orientamento si puo’ dire che è positivo là dove de­ nuncia il carattere accademico delle discipline e riporta nelle uni­ versità temi della nostra società. Ma fatalmente esso presuppone una genericità di intenti poiché nel momento stesso in cui si precisa deve operare una scelta. Quindi al di là di una serie di motivi basati sul «sentimento dei tempi» questa corrente finisce per essere inconsistente. Il professionalismo rappresenta invece la mercificazione della cultura e pone i suoi obiettivi nel campo del profitto personale all’interno della società borghese tradizionale, considerata come il mo­d ello in cui inserirsi acriticamente. Ne derivano i processi di razio nalizzazione del sistema (pianificazione, industrializzazione etc. considerati in se stessi come risolutori assoluti dell’architettura) da una parte e la codificazione in chiave didattica della routine professionale dall’altra. Infine la terza corrente, in cui si muoveva il gruppo diretto da Aldo Rossi, propone una rifondazione globale dell’architettura nei termini della Tendenza; essa vuole dar pieno spazio all’architettura senza soggezioni o tutele politiche, sociologiche, tecnologiche. La Tendenza si articolava all’interno della Sperimentazione se­ condo posizioni riverberate dal dibattito architettonico nazionale. 55


La posizione di coloro che avevano riportato nella scuola, co­m e sede propria, l’esigenza di rifondazione disciplinare dell’archi­ tettura, si scontrava e si contrapponeva in modo programmatico con le altre due posizioni presenti nella sperimentazione. Su queste posizioni che abbiamo descritto, si articola alla fine degli anni sessanta e ai primi del ’70 la linea di ricerca più consisten­t e all’interno dell’università. Analogamente in altre facoltà, anche se con tagli più «urbanistici» o con attenzioni maggiori per il disegno del territorio, il discorso della rifondazione disciplinare assume una portata sempre più vasta. In un numero speciale della rivista Controspazio (5/6, 1972) si è tentato per la prima volta di fornire un quadro di queste ricerche che, pur con le dovute cautele, possono esser considerate come l’asse portante di un rinnovamento della disciplina. Abbiamo tentato fino a questo punto di svolgere una serie di argomentazioni che mettessero in luce quello che riteniamo essere il filo rosso dell’architettura contemporanea in Italia: La tendenza. Abbiamo parlato del carattere reazionario sia dell’avanguardia che del dogmatismo del movimento moderno. E su queste critiche, per differenza, è stato portato il discorso sul concetto di architettura inteso come disciplina e di progresso come volontà di chiarificazione e non di semplice cambiamento. Il discorso sulla storia è stato positivamente introdotto a caratterizzare non solo la necessità di ripensamento fondativo delle nuove forze progressiste ma anche come misura di un rapporto autobiografico con l’architettura. Siamo così pervenuti a parlare di quel luogo geometrico che tanta parte ed importanza ha avuto nel dibattito alla fine degli anni 60: le facoltà di architettura. Potrebbe sembrare logico a questo punto un tentativo di com pletare e comporre in un vasto panorama di opere e di pensieri il quadro dell’architettura italiana contemporanea. Ma questo non avverrà per due ragioni. Prima di tutto perchè l’esigenza di chiarezza sarebbe illusoriamente soddisfatta dalla 56

dilatazione descrittiva; e si correrebbe quindi il rischio di vedere le poche teorie in formazione svilite da tante ridicole applicazioni. In secondo luogo perchè, per usare le parole di Francesco Mi­l izia, in ogni arte la ragione detta poche regole mentre la pedanteria le ha moltiplicate. Regole e modelli devono avere quindi il massimo della tipicità per poter essere comprensibili, per poter assumere quel valore didattico e trasmissibile che si rende necessario nel progresso scientifico. Questa conclusione sarà allora estremamente parziale e «tendenziosa» nel senso indicato da Baudelaire, tale cioè da essere «partiale, passionnée, politique, c’est à dire un point de vue qui ouvre les plus d’horizons». Tratteremo ora di quella che è la Tendenza nella nuova archi­ tettura. Nell’affrontare questo diffìcile compito utilizzeremo pochi esempi ed alcuni riferimenti storici. Tenteremo inoltre di indicare in che modo la Tendenza si muova sul fronte progressista di quella Nuova Architettura che Nino Dardi ha recentemente riunito e defi­ nito nel suo interessante libro. Dardi si sofferma pero’ in modo prevalente sul panorama inter­ nazionale perdendo l’occasione di concretizzare alcune risonanze ita­l iane che meritavano una trattazione forse più centrale. E’ quindi utile delineare brevemente, pur con tutte le ingiustizie che la brevità comporta, la configurazione del fronte progressista che, in un certo senso, puo’ far riferimento alla Nuova architettura. Nel 1963 Francesco Tentori (capo redattore di Casabella continuità diretta da E.N. Rogers) presentava un gruppo di architetti di Milano, Udine e Trieste che si erano riuniti in associazione con il nome di «Incontri del Biliardo». Il gruppo, in verità molto eterogeneo, (A. Rossi, N. Dardi, V. Gregotti, C. Pellegrini, P.L. Crosta, G.U. Polesello, F. Tentori, G. Canella, E. Mattioni etc.) ruotava intorno alla Casabella di Rogers e si proponeva nel dibattito italiano con un atteggiamento di profonda critica verso quegli anni 50 che erano stati «una desolante esempli­f icazione per gli architetti della via italiana all’arrivismo». 56


Negli anni successivi molti di loro diedero contributi significativi come docenti (a Milano e a Venezia) e come protagonisti dei concorsi di architettura più importanti (Centro direzionale di Tori­n o, Ricostruzione del Teatro Paganini a Parma ecc.). Cio’ che costituiva una loro comune caratteristica era l’impegno critico militante, teso a rimettere in discussione nella prassi progettuale, come nell’insegnamento universitario, tutta la «dottrina» del movimento mo­d erno; un impegno che riusciva a portare la disciplina, attraverso la misura politica, in un più vasto confronto con la realtà del paese, utilizzando «la pagina scritta non come attività staccata occasionale o altro, ma come espressione pienamente coerente e commensurabile con l’opera progettata, quasi continuazione di uno stesso processo conoscitivo». In occasione di quella rassegna Nino Dardi sottolineava, nella prospettiva del rinnovamento, la necessità di una «reinvenzione degli organismi architettonici», proponendo il recupero di alcuni passaggi fondamentali dell’architettura moderna. Guido Canella, come Vitto­r io Gregotti già attivo professionalmente, poneva l’esigenza di

e le ricerche sulla morfologia urbana e la tipologia edilizia a Milano) appariva come la più lineare, scarna, inflessibilmente tesa a un processo di essenzializzazione. «Nei miei progetti diceva Rossi - o in quello che scrivo cerco di fissarmi un mondo rigido e di pochi oggetti; un mondo già stabilito nei suoi dati... una posizione di questo tipo nega, e ignora, tutto il processo di attribuzione redentrice che si è vo­l uto conferire all’architettura o all’arte, dal movimento moderno sia come attitudine che come risultato formale. Per questo personalmente - e non per polemica, ma perchè ho una dimensione diversa del problema - non ho mai distinto tra architettura moderna e no; intendendo che si tratta semplicemente di operare una scelta tra certi tipi di modelli». E a proposito dell’urbanistica e della città, Rossi proseguiva: «Io mi chiedo, dal principio, che cosa sia l’urbanistica; per ora non riesco a vederla altro che come problema morfologico il cui campo di studio sono le città e, in parte, altri territori. La descrizione delle forme della città e quindi l’invenzione di queste forme - nel senso di una nuova formulazione - ci puo’ far conoscere qualche cosa di estremamente utile».

«ro­v esciare il rapporto convenzionale tra astrazione e realtà: dove in nome della realtà si è usi accettare il brutale condizionamento di una società imprevidente e rapace, tacciando di astrazione ogni al­t ernativa radicale e dove viceversa astratte risultano quelle proposte... in cui si opera una effettiva presa di visione dei sostanziali temi po­l itico-culturali del nostro tempo che attendono decisive rivoluzioni».

Ma, al di là delle singole dichiarazioni che qui abbiamo ri­p ortato, quali sono i «segni» e il «ceppo» che precedono la maggior parte di questi architetti?

Più o meno esplicitamente l’angolazione comune era quella di una architettura come problema conoscitivo, sia essa specifica come «vocazione cosciente alla città da parte della più recente architettura moderna» (Canella) o come questione autobiografica e personale (Rossi). Già in quell’occasione la ricerca compiuta da Aldo Rossi (studi sul neoclassico lombardo, su Antonelli, Ledoux, Loos, Le Corbusier, 57

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Per molti di loro Ernesto N. Rogers costituiva un riferimento prezioso. Rogers, direttore di una delle più prestigiose riviste di ar­c hitettura internazionale, (Casabella-Continuità dal 1953 al 1963) è l’unico architetto italiano che in quel momento avesse una dimen­s ione internazionale. Amico di Gropius, Wright, Le Corbusier, attivo membro dei Ciam, porta nella rivista e poi nella Facoltà di Architettura di Milano (1953) il metodo e la maeutica di Gropius. Il suo profondo impegno civile e democratico, non disgiunto da una spiccata intelligenza sin­c rética, trova nella attività didattica un campo d’azione particolar­m ente congeniale. I suoi editoriali e le sue 57


lezioni costituiscono l’argomento di discussione per la parte più avanzata della cultura ar­c hitettonica italiana. Nella scuola, in particolare, Rogers ha forgiato la parte migliore dell’ultima generazione. Rimangono esemplari i suoi discorsi sui problemi del movimento moderno, su Wright, Behrens, Van de Velde, su Pagano e Terragni, sull’impegno democratico nella scuola e il suo slogan: l’utopia della realtà; utopia come «carica teleologica che proietta il presente nel futuro possibile», e realtà come superamento ragionevole dei confini contingenti. Altrettanto importante è il secondo riferimento rappresentato dalla «cultura» e dalla prorompente azione di Giuseppe Samonà. Autore di un libro fondamentale per la cultura architettonica italiana egli è stato l’eccezionale preside, professore e maestro di quella miracolosa invenzione che a partire dal 1945 è l’istituto Universita­r io di Architettura di Venezia. A lato di questi due maestri, un ruolo singolare e per certi versi unico è quello dell’«urbanista» Ludovico Quaroni che, insieme agli studi tipologici di Saverio Muratori, alla perentorietà formale di Luigi Moretti e al solitario impegno civile di Mario Ridolfi, costi­t uisce il riferimento più incisivo offerto dalla scuola romana agli «Incontri del Biliardo». Si potrebbe qui approfondire il quadro genealogico di questo gruppo parlando della raffinatezza di Ignazio Gardella, della sottile poetica di Franco Albini piuttosto che del razionalismo di Piero Bot­t oni, ma rinunceremo a questa pur allettante prospettiva per fissare questo breve inquadramento all’essenziale. Sarà sufficiente aggiungere che gli «Incontri del Biliardo» han­n o avuto occasioni sempre più difficili per verificarsi e che il pas­s are del tempo e le vicende personali hanno a poco a poco appartato gli uni, retrocesso altri, ed evidenziato alcuni. Le lotte interne a Casabella e poi la liquidazione della «dire­z ione Rogers» ha in seguito spezzato quel sincretismo che già si era incrinato con la polemica sul neoliberty e l’uscita di Gregotti dalla redazione (1953). E’ opportuno a questo punto fare una osservazione. La diaspora 58

del gruppo nelle diverse sedi universitarie (Rossi prima a Venezia poi a Milano, Canella a Milano, Aymonino a Venezia, Gregotti a Palermo) hanno costruito lentamente l’eclisse dei loro riferimenti ge­n ealogici attraverso l’accentuazione di diversi indirizzi di ricerca. In tal modo parlando oggi della Tendenza non potremo più includere le ricerche sull’ambiente di Gregotti, gli studi di Canella sul «con­s olidamento e la integrazione di più funzioni», e a fatica e solo per comuni basi teoriche potremo accomunare le ricerche di Carlo Ay­m onino e Aldo Rossi, ormai pero’ nettamente differenziati sul piano progettuale. Il seguito che le diverse posizioni hanno oggi nel tortuoso mon­d o dell’università è forse la misura più valida per valutare all’arrivo la fortuna che quelle posizioni hanno avuto e continuano ad avere. Esse ci appaiono allora più chiaramente se lette nel contesto delle scuole che sono riuscite a creare e nel patrimonio di discepoli e cul­t ure che hanno prodotto e sollecitato. La scuola di Aldo Rossi a Milano, ad esempio, ha fatto «scuola». Si puo’ dire che i numerosi progetti di laurea a partire dal 1967 testimoniano, sulle riviste di architettura e sui cataloghi di mostre, una inconsueta consistenza ed una omogeneità che molte volte acquista la dignità del «contributo», svincolandosi dalla mimesi for­m ale dell’epigono. Del resto nella schiera dei suoi assistenti sono emersi contributi teorici e progettuali di grande valore: basterà ci­t are il libro di Giorgio Grassi e il suo ruolo didattico prima come assistente di Rossi a Milano e poi come professore nella Facoltà di architettura di Pescara. E’ necessario quindi prendere atto che la Tendenza ha ormai acquistato una sua indiscutibile presenza e autorevolezza grazie alla precisione delle sue forme e alla chiarezza dei suoi principi. Dal libro di Aldo Rossi ai contributi di Giorgio Grassi e Carlo Aymonino o attraverso l’opera di diffusione operata a partire dal 1969 da un operazione milanese nel maggio 1973), la Tendenza è riuscita a dare una alternativa reale alle facili utopie, all’astrattezza del discorso «rivolu­z ionario» o della ricerca geometrica fine a se stessa; e a fronteggiare infine la sovranità del 58


professionalismo italiano più accreditato (Gio Ponti, P.L. Nervi). Un primo tentativo di storicizzare la Tendenza è stato fatto nel libro di Vittorio Gregotti. Nel definire i tre orientamenti nuovi del­l a architettura italiana, Gregotti individua la Tendenza in quell’orientamento presente a Milano e Venezia, che «ha il proprio centro di attenzione nel rapporto tra tipologia e morfologia urbana ed in particolare in quell’aspetto che definisce l’idea di architettura» come testimonianza e persistenza, secondo una linea che tende a legare attraverso la nozione di monumento gli architetti neoclassici della rivoluzione francese, l’esempio di Loos, un certo Le Corbusier e (attraverso i razionalisti tedeschi più rigorosamente obbiettivi come Hannes Mayer e Klein) giunge a comprendere un aspetto della personalità di Kahn». Questo atteggiamento, che Tafuri ha definito più precisamente «di critica tipologica», contrasta con gli altri due segnalati da Gre­g otti (quello che fa riferimento alla nozione di «ambiente» e quello dei «metodi» di progettazione). Dalla sintetica descrizione di Gregotti emergono degli elementi che costituiscono, se non tutti, almeno alcuni dei principi a cui è corretto legare il concetto di Tendenza: lo stretto rapporto con la storia, la priorità degli studi urbani e del rapporto tra tipologia edi­l izia e morfologia urbana, il monumentale, l’importanza della forma. In effetti da questo sistema di connotazioni ne restano escluse alcune di particolare importanza e comunque esse risulterebbero insufficienti se non le spiegassimo più a fondo. Il concetto di monumento, contro cui si è accanita la critica italiana più ingenua, ha una precisa tradizione nello schieramento progressista del movimento moderno. Già S. Giedion, che a ragione potrebbe essere considerato come l’«inventore» del movimento moderno, aveva individuato in una «nuova monumentalità» l’esigenza ed il carattere della parte più a- vanzata di certa architettura progressista. E si potrebbe risalire al­l ’opera critica e progettata (Salone d’onore alla VI Triennale) di Edoardo Persico per comprendere in che senso si ponesse il «problema della monumentalità» per l’architettura razionalista 59

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italiana negli anni 30. Lo stesso Persico, in un suo articolo del 1934, metteva in guardia il dilettantismo della critica contenutistica che, di fronte allo stile monumentale del Palazzo dei Soviet e del consimile Palazzo del Governo di Taranto, si trovava costretta ad esprimere un paradosso: «una casa del fascismo che ha lo stesso «contenuto» di una casa per Soviet?». Questo paradosso trova ancora oggi tardivi sostenitori che contrappongono i «contenuti reazionari» del «monumento» alla democrazia del vuoto formale; che in modo semplicistico e banale distinguono tra pianta libera e bloccata (centrale), tra il monolitismo e lo spappolamento formale, attestandoli su opposti versanti ideolo­g ici e in modo quasi manicheo. Non ci soffermeremo qui a confutare queste posizioni parados­s ali poiché il buon senso ce lo impedisce. Ci sono pero’ delle precisa­ zioni che forse è utile fare. La monumentalità si basa innanzi tutto su un’esigenza che emerge da un esame non superficiale del fenomeno urbano. Infatti il destino della collettività sembra esprimersi «con caratteri di perma­n enza» in quei punti di cerniera fisici e psicologici che sono i mo­n umenti urbani. L’aver individuato all’interno della città come ma­n ufatto la dialettica tra elementi primari (monumenti) e aree-resi­d enza costituisce forse uno dei contributi teorici più interessanti forniti dalla «scuola di Rossi» alla fondazione di una scienza ur­b ana. In particolare, afferma Rossi, «I monumenti, segni della vo­l ontà collettiva espressi attraverso i principi dell’architettura, sem­b rano porsi come elementi primari, punti fissi della dinamica ur­b ana». Questa concezione della città come opera d’arte trova dei precisi riferimenti nelle ricerche di Levi-Strauss e più ancora nelle tesi di Maurice Halbwachs dove il carattere tipico dei fatti urbani è individuato nelle caratteristiche dell’immaginazione e della memo­ ria collettiva. 59


In questa concezione della città, il monumentale individua in­ nanzi tutto le emergenze (dimensionali e qualitative) attorno alle quali ruota la topografia urbana. Ma il suo ruolo, che potrebbe ri­g uardare solo gli esiti di una analisi storica e formale, si propone per la Tendenza anche e soprattutto nella progettazione come indi­ cazione di semplicità e rarefazione formale. La scelta monumentalista si fa così portatrice di una nuova visione della città. Essa critica l’espansione indifferenziata e la mi­s eria della quantità iIlusoriamente guidata dagli strumenti dello zoning, per una città in cui si possano invece riconoscere e progettare delle parli organicamente correlate alla sua struttura. Delle parti di città entro cui il rapporto tra morfologia urbana e tipologia edilizia evidenzi e individui quei punti fissi collettivi attorno ai quali la città privata si costruisce e si trasforma. Cio’ che oggi la città rischia di perdere per sempre è la sua stessa conoscenza, la sua individualità, il suo carattere di civiltà. Essa sta per perdere (come a Milano) i suoi centri storici, devastati dall’invadenza della terziarizzazione; distruggendo in essi quei preziosi segni che ne ancoravano culturalmente le trasformazioni e lo sviluppo alla consapevolezza della sua storia. La nuova monumentalità significa quindi esigenza di unità e semplicità; è una risposta che si vuole opporre al disordine della cit­t à moderna con la chiarezza di regole poche e decisive. Che vuole in definitiva ricuperare un carattere alla città partendo dalla semplicità nei bisogni dello spirito collettivo e dal sentimento dell ’unità nei mezzi per soddisfarli. Il concetto di monumentalità tende altresì al recupero di una nuova dignità dell’arte, sia essa identificabile nel piano della città, nella sua consistenza di manufatto (la città di pietra) o nel singolo edificio. Inoltre «il monumento» evidenzia la dominante collettiva nella struttura stessa della città e la regola, per così dire, «democraticamente». Su un piano di più vasto atteggiamento sociale, la scel­t a monumentale si oppone al consumismo della città privata, alla artificiosa domanda del nuovo. Poiché, col crescere delle necessità e dei bisogni nella società capitalistica, i privati 60

interessi tendono verso la ricerca delle minute combinazioni, inadatte a soddisfare i reali bisogni ma efficaci nel crearne continuamente di nuovi, sia nell’ordine fisico che nell’ordine morale. E la soddisfazione del de­s iderio della novità sembra alla fine costituire quelle circostanze che pochi configurano a danno dei molti. Ma, come abbiamo detto all’inizio, il progresso non è novità e mutazione, o per lo meno esso non le presuppone necessariamente; semmai progresso è chiarificazione, passaggio dal complicato al semplice. Nell’architettura significa semplicità, unità, simmetria e giuste proporzioni, chiarezza tipologica, omogeneità tra pianta e alzati, e negazione del disordine, sia pur esso giustificato a riprodurre simbolicamente la crisi di una cultura. Abbiamo tentato qui di proporre una nuova accezione di mo­ numento; quel concetto che in architettura ha sempre espresso, nella solidità e nella grandezza dell’edificio, il carattere col­l ettivo come proprietà dimostrativa della destinazione, attraverso i mezzi dell’espansione formale. Una definizione particolarmente convincente della monumenta­ lità come sistema compositivo e teorico è formulata dal libro di N.Dardi: «L’uso sistematico della geometria, il ricorso frequente alla manipolazione scalare e alla deformazione dimensionale, l’attenzione rinnovata all’orchestrazione dei diversi materiali entro l’ambito disciplinare della composizione, costituiscono i tratti distintivi della tendenza monumentalista, ma sono anche, contemporaneamente, gli elementi che connotano la ricerca delle correnti più interessanti della produzione architettonica di questi anni: ecco perchè l’unica manie­r a per motivare il recupero monumentalista, se vogliamo evitare gli scogli di un aberrante ideologismo... non puo’ che fondarsi sulla con­v inzione, per citare ancora Aldo Rossi, che l’architettura è un fatto permanente, universale e necessario».

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Bisogna pero’ notare che Dardi fornisce una definizione dedotta da letture di oggetti architettonici, per altro non suoi; i «tratti distintivi» che egli individua sono eminentemente formali e molto poco teorici. Vorremmo invece mettere in evidenza il fatto che la Tendenza, con i suoi «caratteri distintivi» non si risolve e si esaurisce in una ricerca di stile, metodologicamente ricercato. La Tendenza nega del metodo il determinismo tra funzione e forma basato sulle fede di una «positiva» oggettività dei dati. Essa si costituisce come sistema, con una sua propria geografia di scelte e di principi teorici che lo stile misura e porta alla forma. E’ quindi utile proseguire nell’analisi di quei principi che ave­v amo individuato più sopra. Abbiamo visto la città come manufatto, il rapporto tra aree re­ sidenza e monumenti, definire il campo di interesse della Tendenza. Abbiamo cercato di approfondire il concetto di monumento. Ora parleremo di un secondo aspetto che emerge da questa concezione urbana: quello cioè che mette in evidenza l’importanza delle que­s tioni tipologiche. In questa seconda prospettiva la tipologia viene individuata come il fondamento dell’architettura. E il tipo si definisce come «qualcosa di permanente e di complesso, un enunciato logico che sta prima della forma e che la costituisce». L’idea di tipo rappresenta per la Tendenza uno dei principi dell’architettura, una regola che serve assai più a ordinare le immagini che non a crearle; e comunque aiuta a mantenere le «violazioni» nel solco della disciplina. Quatremère de Quincy ha dato del Tipo una definizione esem­p lare che vale la pena di riportare a chiarimento del nostro discorso. «...La parola tipo non rappresenta tanto l’immagine di una co­ sa da copiarsi o da imitarsi perfettamente quanto l’idea di un ele­m ento che deve egli stesso servire di regola al modello... Il modello inteso secondo l’esecuzione pratica dell’arte, è un oggetto che si deve ripetere tal qual’è; il tipo è per il contrario, 61

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un oggetto secondo il quale ognuno puo’ concepire delle opere che non si rassomiglieranno punto tra loro. Tutto è preciso e dato nel modello; tutto è più o meno vago nel tipo. Così noi veggiamo che l’imitazione dei tipi non ha nulla, che il sentimento o lo spirito non possano riconoscere... In ogni paese l’arte del fabbricare regolarmente è nata da un germe preesistente. E’ necessario in tutto un antecedente; nulla in nessun genere viene dal nulla; e cio’ non puo’ non applicarsi a tutte le invenzioni degli uomini. Così noi vediamo che tutte, a dispetto dei cambiamenti posteriori, hanno conservato sempre chiaro, sempre manifesto al sentimento e alla ragione il loro principio elementare. E’ come una specie di nucleo intorno al quale si sono agglomerati e coordinati in seguito gli sviluppi e variazioni di forme, di cui era suscettibile l’oggetto. Percio’ sono a noi pervenute mille cose in ogni genere e una delle principali occupazioni della scienza e della filosofia per afferrare le ragioni, è di ricercarne l’origine e la causa primitiva. Ecco cio’ che deve chiamarsi tipo in architettura, come in ogni altro ramo delle invenzioni e delle istituzioni umane...». L’idea di architettura che scaturisce da questa definizione è inequivocabile e la sua chiarezza ci puo’ essere di grande aiuto per sviluppare da un lato il discorso storico-analitico e dall’altro quello che in questo momento ci interessa, cioè quello progettuale. Nell’affrontare il problema della progettazione dobbiamo quindi rinunciare a trattare il problema della storia, del tipo e del monu­ mento con i metodi dell’analisi storica e formale; quelli cioè che si riferiscono alla conoscenza scientifica e al metodo sperimentale (os­s ervazione, classificazione, e comparazione). La permanenza della pianta centrale o del lotto allungato (edi­ lizia gotica mercantile) piuttosto che le diverse forme di città (ra­d iocentrica, lineare, etc.) costituiscono nel progetto delle possibilità su cui operare delle scelte e non degli oggetti da classificare, com­p arare e osservare. Cio’ che riguarda la progettazione è quindi una teoria della ar­ chitettura nella quale i principi teorici guidano le scelte formali 61


in una genealogia di riferimento attraverso la tipicità della storia, dei suoi materiali progettati, scritti e pensati. Questa genealogia rag­g iunge il progetto attraverso le tecniche che distanziano, senza esclu­d erlo, il momento autobiografico. In questo complesso arco di elaborazione si articola la dialettica tra la generalità che il pensiero pratico tende a mantenere e la scomposizione dei principi che l’arte stimola, avvicinandosi all’oggetto. Il rapporto con la storia viene risolto come scenario in cui l’og­ getto si percepisce sullo sfondo di altri oggetti ed in relazione ad essi. Rispetto al tipo le variazioni registrano l’ampiezza delle tecniche così come le interferenze tra le tecniche deformano le vocazioni for­m ali del modello. Il tipo è invece razionalizzabile e definibile nelle sue regole; più esso evoca la forma e maggiormente tende a sfuggire la cristal­ lizzazione del modello, arricchendosi di esperienze ed attribuzioni impreviste. E se è vero che il contenuto fondamentale della forma è formale e che il bello è il miglior adattamento all’utile, si puo’ an­c he affermare che una forma bella ha un contenuto formale per così dire funzionale; e, rovesciando i termini di un noto assioma, la Nuova Architettura potrà dimostrare che la funzione segue la for­ ma. Infatti la forma in quanto manifestazione tangibile del tipo, della norma, o è essa stessa (pur nelle sue variazioni) funzionale alla norma recuperando nel bello la sua utilità; oppure la forma ti­p ologica accoglie la dimensione utilitaria attraverso la sua disponi­b ilità alle trasformazioni d’uso, cioè funzionale. A conclusione di questo scritto tenteremo di approfondire al­ cune regole compositive «accertate» su cui potremo sviluppare delle ricerche ulteriori. In definitiva scopo di queste ultime considerazioni dovrebbe essere l’impostazione di un trattato di composizione, ma data l’economia di questo scritto avanzeremo solo delle asserzioni. Abbiamo visto come si possa riguardare la storia da diverse angolazioni (Tafuri, Gregotti e Rossi) ed in particolare, una volta stabilita la sua necessità, come la Tendenza abbia scelto 62

il rapporto con tutta la storia intesa come storia dei tipi e degli elementi costi­t utivi, e non come palestra di mimesi stilistica e formale (contami­n ano) o come dimostrazione della sua inutilità. Da questa angolazione si puo’ rilevare una caratteristica intrinseca al concetto di tipo; ci riferiamo qui alle sue possibilità migratorie nel tempo e nello spa­z io e quindi alla sua disponibilità per le trasformazioni d’uso. E’ noto infatti come, scavalcando certe aree sacre e privilegiate, (come il movimento moderno) la storia tenda a riproporre dei tipi il cui uso appartiene a condizioni sociali remote e a funzioni diverse o decadute. Basterebbe pensare all’impianto centrale della classicità che in modo più o meno felice ritrova sul fronte della Nuova Architettura una fortuna impensabile per il dogma del movimento moderno. Oppure a quei procedimenti compositivi che tendono ad inserire in nuovi contesti logici e funzionali elementi ed intere architetture sto­r icamente individuate. Aldo Rossi ha in molti dei suoi progetti mostrato la proprietà di questo procedimento che egli chiama indifferenza distributiva contrapponendola all’indifferenza tipologica, cioè al disordine. «L’indifferenza distributiva - spiega Rossi - è propria dell’ar­ chitettura; la trasformazione degli antichi edifici... è la prova nei fatti. Essa ha il valore di una legge; gli esempi delle trasformazioni degli anfiteatri (Arles, Colosseo; Lucca ecc.) prima ancora che trasforma­z ioni urbane significano che la massima precisazione architettonica in questo caso il monumento - offre potenzialmente la massima li­b ertà distributiva, in senso più generale la massima libertà funzio­n ale. Per molte strade è dimostrata la indifferenza dell’architettura dalla funzione». Appare chiaro come il punto di travaso tra storia e progetta­ zione possa essere riassunto dal concetto di tipo come principio di architettura e anche di come l’invenzione progettuale si possa eser­c itare attraverso un’ottica indifferente alle funzioni e ai riferimenti di tempo e di luogo, cioè per analogie. Sul carattere migratorio del tipo attraverso la storia si puo’ fare una successiva osservazione. Nell’arco progettuale il tipo è colto come regola fino a quando, dovendosi operare una scelta formale, 62


Kisho Kurokawa, Nakagincapsule tower,1972

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esso precipita necessariamente in un modello. E’ a questo punto che si riproduce un processo di rarefazione simile a quella che aveva presieduto la formazione di un universo logico di principi (teoria dell’architettura). La progettazione agisce allora sul modello ipotizzato tentando di riportarlo il più vicino possibile al tipo. Con il tipico procedimen­ to dell’arte essa tenta, per usare le parole di Paul Klee di liberare il cristallino dalla fangosità del reale. Nei casi migliori cio’ che il progetto restituisce è una nuova descrizione del tipo; ma proprio in questa nuova descrizione ci si accorge del ruolo analogico svolto dall’individualità creativa. Senza addentrarci nei diffìcili territori della creazione potremo osservare, guardando ancora una volta le architetture di Aldo Rossi, come l’indifferenza distributiva non sia solo un modo diverso di usare il tipo ma comporti anche una selezione graduata sugli ele­m enti costitutivi dell’architettura. Accade cioè che nelle architetture di Rossi il procedimento addittivo, per pezzi e parti, esibisca tecni­c he differenziate nella descrizione di elementi uguali o contingui. Il fuori scala, la ripetizione di elementi uguali, l’accostamento dell’ordine gigante a quello nano o l’uso di oggetti uguali in con­t esti logici diversi, opera sugli oggetti della storia con laconico stu­p ore, come se fossero conosciuti per la prima volta. Chiameremo questo metodo straniamento; riferendoci a quel procedimento letterario, proprio della scuola formalista russa (Sklovski), che consisteva nel descrivere un oggetto o una situazione nota come se fosse stata vista per la prima volta, senza riconoscerlo o nominarlo. Riassumendo potremo allora proporre degli elementi su cui procedere nella ricerca progettuale. Elaborata una teoria dell’architettura, fondata su dei principi tra loro logicamente connessi (il monumento, il tipo, la città come manufatto, ed i loro reciproci rapporti etc.) si potrà procedere alla definizione di un trattato di composizione di cui, per ora, abbiamo individuato alcune regole: l’indifferenza distributiva rispetto al tipo come principio di architettura; le caratteristiche migratorie dei tipi intesi 64

come temi ricorrenti; lo straniamento dei modelli o di loro parti. Un’ultima considerazione si impone. Vogliamo qui sottolineare l’importanza attribuita all’architettura in quanto forma e riprendere dal punto di vista compositivo le implicazioni sottese al concetto di monumento. Il concetto di monumento che qui interessa non è quel­l o che si potrebbe individuare nell’estensione della pianta, nell’ele­v azione delle masse, nella solidarietà della costruzione, nella sim­m etria e nelle belle proporzioni, o almeno non è solo e esclusivamente questo. Abbiamo già rilevato le sue implicazioni a livello urbano (monumenti e aree residenza), ora vorremmo definirlo in quel carattere programmatico che il monumento naturalmente sottende. L’immagine del monumento è forse quella che tutti più facil­m ente riescono a cogliere, e proprio per questo suo realismo lo use­r emo qui come indicazione di semplicità. Dal punto di vista compositivo il monumento richiama subito una esigenza di semplicità e di compattezza della forma: quello che potremmo definire la laconicità della bellezza. I.Leonidov, che un giorno troverà una sua giusta collocazione accanto a Le Corbusier o a Mies van der Rohe, ha detto: «Se nonostante tutto la forma è necessaria (il contenuto deve avere una forma) allora anche la forma deve essere perfetta». In questa ricerca della perfezione che in architettura è classicità, risiede la scelta monumentalista. Ma sarebbe troppo facile abbandonare queste affermazioni all’accusa di neoclassicismo e neo-illusionismo. Diremo solo che cio’ che di classico il monumentale esprime è la semplicità e la dignità dei volumi o meglio ancora è «l’assunzione di una determinata struttura logica, la considerazione razionale delle regole fondamentali dell’architettura». L’architettura di Oud, Behrens o Tessenow sarà quindi riferibile ad una «semplificazione monumentale... che le deriva dal suo essere essenziale, cioè tutta rivolta ad esprimere se stessa in quanto intellegibile e razionale... come stimolo di un’idea fondamentale». 64


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Critiche alla Triennale

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Interno teatro, xv triennale, 1973

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Con Piacentini in Nome di Lenin

testo di Bruno Zevi tratto da Cronache di Architettura, n°17 1979

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Dopo aver esaminato i lugubri meandri e le insipide sale straniere di questa malinconica Triennale (n. 992), sof­f ermiamoci sulle tre mostre che dovrebbero costituire gli eventi più qualificati della manifestazione: Architettura-città, Industriai design internazionale e Lo spazio vuoto dell’habitat. Ne va subito rilevata la discontinuità: manca qualsiasi tenta­t ivo di un discorso coerente, mentre abbondano i soliloqui che interessano ben poco gli specialisti e tediano il pubblico. Si afferma che la Triennale non mira a « documentare »: ha una « missione provocatoria ». Ma la disarmante incapacità comunicativa degli allestimenti provoca soltanto un leggero senso di nausea. L’esposizione architettonica, incasellata in una serie di cubicoli soffocanti, adatti forse ad un convento o meglio ad una prigione, è un capolavoro di doppio gioco culturale. Sventolando la bandiera dell’« architettura razionale », esalta la tendenza più gratuita, dogmatica, reazionaria e oscuran­t ista: un neoneoclassicismo basato su assi, simmetrie, itera­z ione di partiti assonanti, rigurgiti piacentiniani, rancide cita­z ioni novecentesche. Nessuno contesta ad Aldo Rossi il diritto di esprimere le proprie preferenze o idiosincrasie; inaccetta­b ile appare invece la pretesa di riportarci al sistema Beaux- Arts mediante contorti richiami alla tradizione del movimento moderno. Il trucco è troppo scoperto per non rivelare la sua inconsistenza. All’ingresso, troviamo una rassegna fotografica in 51 pan­n elli. Ebbene, dall’l al 46, contiene opere dell’avanguardia, da Loos a Gropius, da Le Corbusier a Mies van der Rohe; poi, improvvisamente, dal 47 al 51, illustra la balorda univwer­s ità Lomonosov di Mosca ed altre sconcezze staliniste. Proce­d iamo: ecco un omaggio ad Ernesto Rogers e Piero Bottoni, che serve pero’ come alibi per propugnare tesi e metodi accademici contro i quali essi combatterono con tenacia e passione. Così, di seguito: alcuni progetti significativi, inse­r iti per dare l’impressione dell’obiettività, dovrebbero legit­t imare una sequela di insulsi elaborati redatti da studenti svizzeri o da neolaureati che ignorano l’a, b, c del codice linguistico contemporaneo. In tal modo, si va a braccetto con la destra ma strizzando l’occhio alla sinistra, si escludono quasi tutti gli architetti validi in nome dei formalismi più anacronistici e vieti. La gente non impara niente e resta profondamente sconcertata. Gli altri, gli addetti ai lavori, scrollano le spalle: « Perché arrabbiarsi? La Triennale non conta più nulla ». Invero, un bel risultato per celebrarne il cinquantenario della fondazione. La sezione del design, curata da Ettore Sottsass jr., segna il trionfo 68


Interno scalone d’ingresso, xv triennale, 1973

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dell’ermetismo; ambienti non solo verniciati in nero, ma totalmente bui, dove sono dislocati con capricciosa raffinatezza 19 apparecchi televisivi. Oggetti e prodotti del disegno industriale? Nemmeno l’ombra. Lo scopo, spiega il catalogo, non è di selezionare quanto si fa nel campo, ma quanto « i più avanzati protagonisti del design internazionale pensano ci sia da fare ». E cosa pensano? Forse, trattenen­d oci due o tre settimane nelle tenebre per vedere le decine e decine di filmini proiettati nei videoschermi, riusciremmo a captarlo. Ma poiché molti di essi trattano dei più vari argo­m enti meno che di design, barcollando fuggiamo da questa tetra, angosciosa atmosfera. Gli arcani pensamenti dei « più avanzati protagonisti » rimarranno un enigma finché non verranno trasmessi in maniera più agevole. La sezione italiana: un’eccezione alla regola. Eduardo Vittoria l’ha orchestrata con ingegno partenopeo, offrendo « un panorama delle cose possibili, dei processi empirici che suggeriscono modi diversi, cioè interpersonali, di strut­t urare il contesto abitabile. Proposte che implicano sempre una possibilità di cambiamento, e non pretendono di risol­v ere definitivamente problemi complessi, troppo a lungo rinviati ». Si parte non dalla cellula abitativa, e neppure dalla città, ma dallo spazio vuoto: « cose, nomi, immagini che si intersecano e si estrinsecano in processi costruttivi reali, contraddittori, sostenuti dal senso creativo della comunità, che li rimette continuamente in discussione, superando pre­g iudizi, convenzioni, abitudini. Un’architettura che è il con­t rario di quella pietrificata, dove l’oggettivo (tecnologico) e il soggettivo (la qualità della vita) si affrontano per armo­n izzarsi in un equilibrio ad ogni istante minacciato ». Manu­f atti sperimentali, pareti, scocche, tende, oggetti trasportati su un nastro mobile, gesti di pittori, scultori e grafici sono scelti « non come simbolo di una società che istituzionalizza infiniti bisogni, ma come elementi dinamici atti a soddisfare una pluralità di esigenze ». Siamo insomma nell’ambito dei compiti precipui della Triennale, in una dialettica di fatti e ipotesi, metà fieristica e metà ideologica. Una casa senza pareti era il tema drammatico del padiglione americano 70

all’Expo di Montreal del ’67 (n. 678); qui ne abbiamo una versione italica, domestica, arricchita da una buona dose di ottimismo. Vittoria si è divertito e comunica la sua verve. Usciamo dal palazzo. Nel parco, Giulio Macchi ha ideato il programma « contatto arte-città » col proposito di rista­b ilire un dialogo permanente « fra gli artisti che creano le opere e i cittadini loro naturali fruitori, al di fuori della mediazione e della strumentalizzazione che ormai viziano quello che dovrebbe essere ed era in origine un rapporto diretto ». L’intento di Macchi, narrato in un magnifico volume, appare assai più convincente della realizzazione. I « pezzi » all’aperto, dalla parodia dei « bagni misteriosi » di De Chirico al teatrino di Burri, dal « fossile » di Arman all’abitacolo di Matta e alle panchine-zoo in perspex trasparente rosa cara­m ella di Marotta, deturpano il parco Sempione, che non chiede di essere arredato. Ma, dietro questa iniziativa, c’è un’urgenza che meriterebbe una verifica a scala urbana.

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Discussione sulla Triennale

Carlo Aymonino Come diceva giustamente mio zio, Marcello Piacentini, non bisogna fidarsi degli architetti cristiani: conoscono la parrocchia ma ignorano la città. Cio’ vale anche per coloro che conoscono solo la sinagoga. Salvatore Bisogni

testo dei partecipanti alla mostra tratto da Controspazio, dicembre 1973 Questo passo tratto dalla monografia dedicata alla Triennale contiene i commenti degli espositori partecipanti alla triennale. Una palese risposta alle critiche di B. Zevi e un ottimo spunto chiarificatore del dibattito critico tra i protagonisti dell’architettura italiana e internazionale degli anni 70

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La partecipazione alla XV Triennale ha significato prendere posizione rispetto ad un determinato punto di partenza, cioè proporsi di mettersi in collimazione con « un certo movimento moderno» europeo ed italiano, selezionato rispetto ad una posizione che agisce oggi; e che intravede in alcuni «momenti eroici» dell’itinerario di scelte del movimento moderno la possibilità di progettare un nuovo percorso, sulla base di un’attenta riflessione della sua tale costruzione e non tanto in relazione ad una riproposizione linguistica e stilistica. Si è cercato di tracciare un filo conduttore di idee, di proposizioni e di proge­t ti; che nell’arco di un periodo determinato contradistingue la continua riproposizione di un atteggiamento realistico della architettura. Attraverso il tale di volta in volta emerge un modo conoscere e di giudicare la realtà, le grandi trasformazioni ed il loro coinvolgimento più o meno diretto alla disciplina architettonica del ruolo dell’architetto, del modo di porsi dei progetti nella città. Il progetto complessivo proposto da Aldo R ossi è teso a comporre rispetto a questo filo conduttore e mira ad un accessibile ritrovamento di omogeneità posizioni apparentemente diverse, insentate nei loro molteplici aspetti, qui l’imbarazzo di chi, aspettandosi un lancio di slogans o di un nuovo cognome linguistico (atteso ed intravisto) osannare, è costretto al luogo co­m une o alla caccia alle streghe, senza stare a scoprire identità o divergenze reali: che pure agiscono e che a volte si presentano anche attraverso ambigua e ossessionata ricerca di ivi lidi, mostrando pero’ solo i segmenti esemplari di un itinerario inquietante fitto a volte di interruzioni, di deviazioni o di allucinazioni. Accanto a questi potenziali ritrovamenti sono presenti progetti e studi analitici nuovi in cui la costruzione ordinaria, l’ostentazione del procedimento Concorre ad assicurare la chiarezza della previsione progettuale e lo sforzo di proposizioni teoriche orga­n izzate. Sono i progetti e gli studi ur­b ani organizzati nella scuola o apposi­t amente preparati per la Triennale. Essi manifestano la loro natura nel porsi 71


il problema analitico nel suo si­g nificato e nella possibilità di poter esprimere attraverso il progetto il ca­r attere permanente e positivo dell’ar­c hitettura. L’architettura si costituisce sulla base di generalizzazioni che emergono dalle analisi delle singole situazioni urbane percio’ questi progetti si esibiscono nel­l a loro esemplarità e non come modelli di sviluppo ripetibili: la loro colloca­z ione si identifica in una teoria che trova nella città e nel tempo la sua continua verifica, il continuo confronto. Conseguentemente, l’ipotesi è che il progetto architettonico per la città è volto a definire un’architettura finita per una città finita e che le articolazioni funzionali pur costituendo imprescin­d ibili angolazioni si presentano come dati esterni alla sua costruzione. Il progetto si misura percio’ singolar­m ente con l’immagine e con la strut­t ura morfologica della città che tra­s forma. Esso esprime valori e signifi­c ati suoi propri in centro come in pe­r iferia ed in qualunque punto del ter­r itorio. In questa accezione l’architettura si propone come un fatto notevolmente definibile e razionale ed in quanto tale conoscibile, trasmissibile e percio’ tale da essere costruita mediante un preciso campo di analisi: la città, le sue forme, la sua storia; assunta quest’ultima co­m e materia stessa della architettura che come tale non si dà in una parti­c olare accezione da «centro storico». Il progetto per Montecalvario interve­n endo in un quartiere seicentesco e nel centro della città vuole collegarsi ad un preciso indirizzo della architettura nella scelta dei riferimenti, staccandosi quasi didascalicamente da ogni possi­b ile equivoco ambientalistico, affidan­d o alla scelta tipologica la sua preva­l ente caratteristica. Senza rinunziare al ruolo di nuovo luogo civile che tenta di esaltare attraverso particolari sottolineature stilistiche ed attraverso una lettura critica del rapporto fra l’architettura e il paesaggio delle colline napoletane, anzi rifiutando e contropponendodosi, al tempo stesso, ad un vec­c hio luogo comune che vede dissolversi nel paesaggio napoletano principi e razionalità dell’architettura. 72

Il tipo e gli elementi stilistici costitui­s cono motivo di rifessione particolare rispetto al rapporto che il progetto vuo­l e stabilire in questo particolare mo­m ento delle lotte per l’acquisizione e per la nuova possibile gestione urbana delle masse popolari e del movimento operaio. Sicché questa scelta nasce per rendere evidente che la complessità del­l a città, dei suoi problemi e dell’archi­t ettura sono riducibili ad elementi sem­p lici e chiari: le case, le piazze, gli edifici comuni, i quali possono concor­r ere ad un cambiamento del proprio ambiente di vita, evitando scorciatoie, tentazioni, rinunzie che nel caso di Napoli potrebbero fare pensare di « ri­f are la città come ai tempi dei borboni » (e non si vede perché una casa a lotto lungo di Bologna o di Venezia sia meglio adattabile di una casa del seicento napoletano). Ma la scelta del rigore tipologico che pure vuole essere una ripresa ed una svolta di ordine, ri­s petto anche ai riferimenti canonici del­l ’architettura nel tempo, è possibile so­l o a condizione che essa non presup­p onga o restituisca un mero gioco di forme, semplici o complesse che siano. Cio’ è evidente in alcuni aspetti (forse secondari) che questa Treinnàle esibi­s ce (o che sono comunque latenti fuori di essa): l’analiticità dell’architettura è già altro rispetto al suo presunto ca­r attere tautologico, che per suo conto puo’ attingere a luoghi ed a figure im­p ensabili. Ed allora, in tal caso, all’« ar­c hitettura dei piani inclinati » offrirem­m o volontariamente un appoggio. Ai bilanci che periodicamente Casabella-continuità proponeva si aggiunge questo offerto dalla XV Triennale. Ne avevamo perso l’abitudine, perdendo al tempo stesso le occasioni di possibili riflessioni e riproposizioni. Questa mo­s tra si colloca in un momento partico­l are di svolta nell’azione e nella ricerca del ruolo, nella società, dell’architetto che non si definisce più con la divulgazione di temi culturali, la battaglia per l’architettura moderna; né con un contenutismo ingenuo anche se a volte indispensabile: ma attraverso una ri­p roposizione politica del senso del pro­p rio intervento, attribuendo «forza di trasformazione reale» al contributo del sapere.

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Costantino Dardi Risposta breve, quasi telegrafica, a tre problemi variamente interrelati ma so­s tanzialmente distinti: bilancio e giu­d izio sulla sezione internazionale di ar­c hitettura alla XV Triennale di Milano; opportunità di promuovere un raggrup­p amento di tendenza; linee e caratteri comuni alle ricerche promosse da questo. Primo: la sezione organizzata da Aldo Rossi alla Triennale, così come il vo­l umetto recentemente pubblicato da Bruno Zevi sul linguaggio anticlassico dell’architettura moderna sono due tra le poche uscite coraggiose, documenta­t e e firmate delle quali credo che vada riconosciuta la legittimità, apprezzata la faziosità ed auspicata la diffusione se cio’ puo’ concorrere ad aumentare la chiarezza e ad approfondire un po’ i termini del dibattito. Entrambe, inol­t re, si pongono il problema di codifi­c are lo sviluppo dell’architettura, sia pure percorrendo strade assai diverse: da un lato l’elaborazione di una teoria generale dell’architettura come premes­s a ad un moderno trattato della com­p osizione, dall’altro la ricerca delle in­v arianti del linguaggio che possono orientare con sicurezza la ricerca con­t emporanea. Cio’ che a mio giudizio va invece discusso, all’interno della sezione di Aldo Rossi, è la immotivata pre­s enza di alcune opere e di alcuni ar­c hitetti: le auspicabili aperture ad un arco più ampio di esperienze e ad una gamma più articolata di posizioni non spiegano la cattura entro la sezione del lavoro di Canella e di Portoghesi, così lontani e per metodologia e per risultati. Lo sperimentalismo assai fiacco di Gregotti non mi pare coincidere con le teorizzazioni di alcuni protago­n isti della tendenza; la presenza di Stirling andava analizzata e spiegata non confusa affiancandola ai facili escamotages dei Krier; la linea radicale di Superstudio coesisteva con assai dif­f icoltà con l’attenzione metodologica di Grassi. Secondo: opportunità di un maggior coordinamento e di più approfondito confronto tra operazioni la­t amente riconducibili a comuni linee di tendenza: a parte il fatto che a mio giudizio tali posizioni oggi non appaio­n o affatto minoritarie, ma hanno anzi 73

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registrato, sopratutto su una serie di riviste e nella scuola, un successo ed un’affermazione mondana che forse pre­c edentemente soltanto il manierismo wrightiano e quello kahniano avevano conseguito in Italia, ritengo che senza la preventiva definizione di una chiara finalità politica e la descrizione degli esiti che ci si attendono da cio’ l’ope­r azione rischi un vago revival ciellenistico e la conta che ne uscirebbe risul­t erebbe assai generica. Vi sono oggi occasioni concrete assai precise, nel lavoro all’interno della scuola, nella partecipazione ai concorsi di architettura e nell’attività editoriale per veri­f icare nei fatti, -secondo una disponi­b ilità aperta e convergenze non riduttivamente programmate l’attualità e la validità di talune impostazioni. Terzo: linee e caratteri della ricerca di tendenza. Finché non sarà messa a punto una serie di strumenti fondamentali per la comunicazione, il con­f ronto, il giudizio sulle opere di archi­t ettura; fiinché non sarà affrontato nei progetti e non a parole il problema nodale del passaggio dall’analisi alla progettazione, tali linee e gli eventuali caratteri comuni rischiano di essere assai superficiali. L’analisi urbana at­t raverso il modificarsi del rapporto tra morfologia urbana e tipologia edilizia e la progettazione della città per parti cormalmente compiute devono necessa­r iamente misurarsi con il problema dell’invenzione architettonica attraver­s o anche la ricchezza di strumenti che la presente condizione manieristica ci offre: l’unica risposta inadeguata è rappresentata a mio giudizio dalla sem­p licistica uscita di sicurezza nei co­m odi rifugi della cifra stilistica. L’istanza di ritrovare un ruolo all’og­g etto architettonico nella costruzione della città e la tesi di un arricchimento della struttura spaziale del manufatto attraverso una lettura « urbana » delle sue relazioni possono costituire validi stimoli a tale ricerca: purché non sia­n o, come troppo spesso avviene da parte di discepoli e di scolari, mecca­n icamente assunti e fideisticamente intesi.

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Vittorio Gregotti L’opinione diffusa intorno alla sezione di architettura della XV Triennale è es­s enzialmente fondata su due giudizi generali: il rappresentare questi pro­g etti nell’insieme una tendenza all’interno del contesto generale della cul­t ura architettonica intemazionale e l’essere tale sezione staccata da ogni im­p egno di comunicazione con il pubblico e con i suoi bisogni reali. Cio’ è, io cre­ do, abbastanza vero nel fatto, anche se quei giudizi hanno un sostanziale con­t enuto di falsità. La partecipazione ad una esposizione impone, in negativo o in positivo l’ac­c ettazione di alcune regole del gioco e di alcuni rischi: puo’ essere che la mostra una volta realizzata, accentui i significati che si sperava di evitare, ma tutti noi che abbiamo partecipato, e che quindi dobbiamo esprimere giu­d izi che in qualche modo ci coinvol­g ono in prima persona, conoscevamo abbastanza bene le opinioni dei respon­s abili della sezione per sapere all’incirca cosa potevamo aspettarci: il nuo­v o era, per me, tutto affidato ai tra­d imenti. Non mi preoccupano quindi i limiti esterni prefissati, in quanto credo alla legittimità di condurre un discorso da un punto tutto interno al margine di­s ciplinare, anche se puo’ essere abba­s tanza preoccupante che cio’ si verifichi in un contesto così pieno di scricchiolìi sinistri per qualsiasi autonomia disci­p linare; anche se di fatto la difesa del­l ’integrità del ruolo (e dei suoi van­t aggi) puo’ aver giocato una parte trop­p o rilevante. Tuttavia era chiaro fin dall’inizio che non si trattava di una mostra destinata a denunciare il peso della rendita fondiaria o a contribuire alla soluzione del problema della casa a basso costo, ma tentare di ridare alla sezione di architettura un peso che nella Triennale non aveva più da circa trentacinque anni. Un primo giudizio è quindi quello le­g ato alla mancanza di capacità comu­n icativa della mostra, o meglio alla sua cripticità un po’ sdegnosa soprattutto nei confronti degli « addetti ai lavori ». In effetti, quando si voglia sottrarre ogni sostegno pedagogico, 74

la comunica­z ione resta tutta affidata alla tensione qualitativa dell’oggetto piuttosto che alla sua spiegazione; ma perché cio’ si verifichi occorre che questa tensione qualitativa non venga mai meno: e questo non si puo’ dire certo per la sezione internazionale di architettura della XV Triennale. Né la parte intro­d uttiva contribuisce molto al chiari­m ento. Solo chi conosca ed abbia opi­ nioni chiare sui vari significati di ar­c hitettura razionale potrebbe trarre qualche vantaggio critico dal bizzarro accostamento tra Piero Bottoni, Hans Schmidt ed una figura di natura total­m ente opposta come Ernesto Nathan Rogers. Per cio’ che concerne l’altro giudizio, quello della tendenza, bisogna comin­c iare col dire che non sarebbe molto interessante fermarsi troppo sulle in­c oerenti stranezze di alcune scelte, come quelle di Paolo Portoghesi o di Marco Dezzi Bardeschi. in nessun modo, neanche amplissimo, interpretabili dal punto di vista dichiarato dai re­s ponsabili della mostra: oppure dare troppo peso ad alcune esclusioni visto­s amente ingiustificate come quella di Gino Valle o di Alvaro Sisa y Vieira. In questi casi, si sa, giocano molti fat­t ori occasionali (disguidi come quelli che hanno causato per esempio l’assen­z a di Leo Ludwig), ed alcuni persona­l ismi difficilmente controllabili. Più in­t eressante è invece considerare come la costellazione delle partecipazioni de­f inisca di fatto un’area di oscillazione, un terreno, la cui riconoscibilità è qual­ cosa di più che semplicemente gene- razionale o qualitativa, si definisce se non altro in modo oppositivo rispetto ad altre aree, da quella tecnico-sistematica come dalla urbanistico-amministrativa da quella gestuale come quella tutta oppoggiata alla voracità della grande scala. Quale filo ingarbugliato ma positivamente riconoscibile lega Stirling ed Aymonino, Gowan, i « Five Architects » americani, me, Venturi, ed alcuni dei non presenti che ho già nominato, primo fra tutti proprio Aldo Rossi che, con un atto di modestia piuttosto or­g oglioso, ha spostato il confronto con il proprio livello di generazione e di maturità, per far parlare in sua vece allievi e pitture? L’evocazione fantasmatica ha i suoi vantaggi ma epigoni 74


ed imitatori mettono in luce spesso, (ed in particolare nel caso di questo rapporto specifico di dipendenza peda­g ogica) i limiti e le lacune dei principi piuttosto che le contraddizioni creative in essi contenute. Questo «filo ingarbugliato» non è certo rintracciabile nei principi espliciti della «tendenza», enunciati in varie occasio­n i dagli organizzatori della sezione e ribaditi sul libro «L’architettura razionale », vero vademecum della mostra, anche se non va dimenticato che Con­t rospazio (sino qualche mese fa la ri­v ista di Bonfanti e Scolari assai più che di Portoghesi) aveva già sviluppato positivamente nei fatti una politica di articolazione di quei principi. Certo il centro più serio di tutta la que­s tione posta dalla cosiddetta « tenden­z a », resta secondo me, proprio il tema della razionalità. Ma non è solo la tec­n ologia sofisticata che ci ha insegnato come la razionalità sia un sistema mol­t o complesso di approssimazioni, è l’in­s ieme del mondo della vita che ci spin­g e, anche se non lo vogliamo, a riflet­t ere intorno alla pretesa positività li­n eare dell’idea di razionalità: come un oggetto in pieno sole. La messa in que­s tione è ancor più radicale e profonda e coinvolge un binomio sempre tacita­m ente presente ed apparentemente inestricabile: quello di razionalità e pro­g resso: io direi invece quello di liberazione e difesa razionale. Di fronte a cio’ le accuse di «rappel a l’ordre» sono in parte giustificate anche se la tentazione di chiudere ogni difficoltà dentro al rigore responsabile dell’opera è molto forte di fronte a tante falsificazioni di coscienze irre­q uiete, di utopie autopromozionali, di potere mascherato da rivoluzione so­c iale: solo che qualche volta ci dimen­t ichiamo quanto la contraddizione co­s tituisca il vero materiale portante di questo rigore responsabile, quanto esso debba cercare lo scontro concreto ma senza illusioni, quanto sia arbitraria ogni semplificazione, astratta ogni calma perfezione. I conti oggi non tor­n ano, né possono tornare, altrimenti si compiono operazioni inutilmente « antimoderne » per utilizzare il termi­n e di Persico così antiquato ed attuale. 75

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Personalmente credo comunque che la questione di definire quel «filo ingarbugliato» sia stata posta ai critici come a noi architetti proprio da questa mostra. Non è una questione secon­d aria, ad essa, sono convinto, è legato il significato di una parte piccola ed importante dell’architettura degli anni ‘70. Leon e Robert Krier Sappiamo che qualsiasi contributo alla teoria della città e, cioè, ad un’archi­t ettura razionale oggi, non puo’ essere che frammentario. Allo stesso modo resterà frammentario anche il tentativo di salvare il centro storico della città da una totale distruzione finché alla nuova cultura urbana mancherà una base sociale ed economica. In una civiltà urbanistica tecnicamen­t e avanzata, l’esigenza di un’architet­t ura urbana dovrebbe apparire ovvia, se non suonare addirittura quasi iro­n ica. Le Corbusier aveva visto nelle possibilità di sviluppo uniche e, dal punto di vista produttivo e di proget­t azione, quasi illimitate di questa ci­v iltà la premessa incondizionata ad una nuova cultura. Oggi, tuttavia, la sua proclamazione del nuovo «spirito del tempo» cartesiano dell’«Epoche machiniste» suona, al cospetto dell’inde­s crivibile tragedia umana, e delle di­s truzioni cui sinora non si era mai as­ sistito come un bluff, una trovata gior­n alistica. Il modello di Le Corbusier della « Vil­l e radieuse » ha concepito le contraddi­z ioni della società di classe unicamente in forma lucida ed artistica. La sua città descrive con seducente e per questo minacciosa chiarezza il declino del­l a città tradizionale quale complesso sistema di ambienti differenziati, pub­b lici e privati, che si trasforma in un sistema astratto di unità funzionali. Se, tuttavia, il modello di Le Corbu­s ier appare oggi, per la sua forma e per la sua colossale tendenza culturale, tanto diverso dall’attuale realtà, cio’ non dipende tanto da una differenza ideologica, ma piuttosto dal fatto che l’avanzante monopolizzazione del mer­c ato edilizio trova, a causa di speculazioni edilizie ed ideologie di risparmio piccolo-borghesi, 75


la sua unica motiva­z ione nel profitto massimale; essa si è allontanata, con eccezione di pochi sempi, risalenti al più tardi alla prima uerra mondiale, dalle varie esigenze culturali. I tentativi di edilizia sociale della Re­p ubblica di Weimar, a Francoforte, Berlino, o anche Vienna, rappresentano un autentico tentativo di sottrarsi al­l ’imposizione del mercato edilizio. Essi tuttavia sono, nel loro distacco dalla città, una manifestazione della società classista anche se hanno rappresentato un progresso relativo nel campo delle abitazioni della classe operaia. I ten­t ativi urbanistici del sistema fascista, per procurarsi una facciata civile-elegante con esempi da parata, non sono stati l’espressione di una specifica cultura fascista (che è un mito), ma rap­p resentano l’abuso di ricette culturali borghesi per la propaganda politica. Benché a questi tentativi si vuole at­t ribuire un’apparenza urbanistica essi non sono altro che un artefatto, un si­p ario. L’unica preoccupazione effettiva nella politica dei quartieri consisteva nel tentare di distruggere la complessa struttura urbana. Sembra che, oggi, le costruzioni per le Olimpiadi e le esposizioni mondiali ab­b iano assunto una funzione simile a quella che avevano le costruzioni di prestigio del sistema fascista. I paesi si rappresentano con delle co­s truzioni pretenziose, strane, persino ridicole che, per breve tempo, dovreb­b ero dare l’illusione di una certa con­d izione culturale, mentre costruzioni quali le Favelas per il Brasile, I’hlm per la Francia, o un bed-sitter per l’In­g hilterra esprimerebbero in modo as­s ai più preciso la condizione culturale dei diversi popoli. I pezzi di bravura tecnologica non sono che una forma di instupidimento, del costoso materiale di propaganda. La delusione circa la possibilità effet­t iva dell’edilizia ha fatto nascere, in vista delle possibilità tecniche, corren­t i di evasione utopiche, i Metabolisti in Giappone, Archigram in Inghilterra e numerose altre. Esse, tuttavia rappre­s entano unicamente un tentativo di sconfiggere il carattere di merce (Weg- werfIdeologie). La critica di architet­t ura tardo-borghese saprà anche in se­g uito occuparsi di questi fenomeni ap­p arenti, e come Wu Huanjia (Janzhu Xuebao, n. 8, 1964, citato da Contro­s pazio n.12,1971) 76

già ironizza, la teoria architettonica nell’occidente sembra essere diventata un affare privato. C. Jencks tenta di ri­s pondere a questa reale necessità con una domanda: ... « but who cares about architecture ». L’architettura, oggi, non fa scalpore per quello che si ripromet­t e, ma per quello che rifiuta. Lo scoraggiamento e la paralisi che hanno colpito le scuole di architettura dopo l’agonia trentennale delle scuole accademiche appare senza via d’uscita a causa della mancanza di teorie. La perdita delle discipline di progetta­z ione accademiche su vasta scala ha trasformato l’architetto nell’esecutore incosciente degli interessi delle impre­s e edilizie. L’indirizzo delle scuole raf­f orza questo suo ruolo ed esclude ogni possibilità di cambiamento. Noi credia­m o, tuttavia, che proprio queste scuole debbano essere luogo di meditazione sui problemi riguardanti la città. I mezzi per una trasformazione possono essere creati su larga base, solo in que­s to luogo. Nei nostri progetti partiamo dal pre­s upposto che i concetti di spazio del­l ’urbanistica tradizionale, come sono stati formulati da Camillo Sitte, non hanno perso la loro funzione di luogo di comunicazione. Questi concetti han­n o perso d’importanza con l’avvento della circolazione di mezzi meccanici, problemi del traffico, sorti per la suddivisione della città in unità di funzione, potranno essere risolti solo riorganizzando la città in zone urbane integrate. La precisa progettazione di forme ur­b ane liberate dalla circolazione di mez­z i meccanici, la combinazione con i vecchi tipi di spazi (strade, piazze, chie­s e, atri, portici, gallerie) e la liberazio­n e radicale da destinazioni d’uso supe­r ate o non adeguate condurrà al nasce­r e ed al fiorire di una nuova cultura urbanistica. L’architettura razionale non troverà la motivazione alla sua forma in stati di animo, in nostalgie, o nella disperata dimostrazione di progressi tecnici fit­t izi, ma nella riflessione sulla storia della città, sulla destinazione e sui con­t enuti sociali. Il fatto rivoluzionario non consisterà nell’ostentazione di for­m e nuove ed impressionanti, ma nel modello della sua utilizzazione sociale. Se l’elaborazione 76


di una teoria razio­n ale della città e la sua architettura non potranno contribuire al rivoluzio­n amento dei rapporti di produzione, per la sua realizzazione la premessa resterà la rivoluzione sociale. Bruno Reichlin, Fabio Reinhart, Heinrich Helfenstein I progetti, lo studio della architettura della città, la analisi delle opere del movimento moderno costituiscono per noi altrettanti approcci, strutturalmen­t e correlati, per indagare l’architettura in quanto segno. Per impostare cioè, almeno prospetticamente, un discorso possibilmente tecnico sul rapporto, e la natura di quel rapporto che lega un og­g etto empirico, l’architettura, all’espe­ rienza conoscitiva svolta nei suoi con­f ronti. Cio’ vuol dire considerare questo oggetto empirico come il significante di un segno che incoiltra il suo significato tanto nel più generale contesto della vita civile, delle istituzioni della società in cui si manifesta, quanto autoriflessi- vamente, nella conoscenza della sua stessa « natura ». Il significato dell’ar­c hitettura è quindi un conferimento di senso: senso inerente a un suo uso so­c iale complessivo dove alla pratica pro­g ettuale e storico-critica spetta un ruo­l o categorialmente privilegiato in quan­t o coglie il senso temporale dell’evo­l uzione dell’architettura e quindi il si­g nificato specifico e individualizzante del suo oggetto Questo significato attinge a un sapere tipologico, morfo­l ogico, tecnologicocostruttivo, funzio­n ale, iconografico nonché ideologico sull’architettura e, a un altro livello, a una epistemologia dell’architettura intesa come teoria della produzione specifica dei concetti e della formazio­n e delle teorie architettoniche. Sa­r ebbe compito di una semantica ar­c hitettonica sviluppare gli strumenti concettuali idonei a descrivere, discretizzare, classificare i significati archi­t ettonici, dai più semplici alle connota­z ioni ideologiche più complesse. In quanto architetti noi poniamo al centro delle nostre preoccupazioni l’at­t ività progettuale sforzandoci di spie­ gare in termini tecnici come insieme all’opera architettonica 77

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venga fabbrica­t o anche il suo significato. Il momento unificante dell’analisi è costituito dal­l ’opera, dal progetto, mentre la ricerca stessa si vale di un eclettico impiego di modi d’approccio differenti. Il me­t odo, immanente alla ricerca, si modi­f ica e perfeziona ogniqualvolta i fatti presi in esame oppongono fenomeni irriducibili alle leggi formulate in pre­c edenza. Quando una parte cospicua dell’attuale letteratura specialistica, se­g ua essa una impostazione sociologica o ideologico-critica, sotto una apparen­t e esuberanza dissimula a mala pena la effettiva scarsezza di informazioni che le riesce di fornire sulla qualità intrinseca dell’architettura, un approc­c io interessato a definire 1’« architettonicità » ci appare proponibile, nono­s tante i limiti metodologici che gli sono congeniti. Questa ricerca, ben lontana quindi da una sistemazione coe­r ente e compiuta di proposizioni teo­r iche, fa capo piuttosto a un nucleo di convinzioni provvisorie sulla « natura » della significazione architettoni­c a, acquisite rifondendo le ricerche por­t ate avanti dalla tendenza formatasi insieme e attorno a « L’architettura del­l a città » di Aldo Rossi con alcuni al­m eno degli interessi perseguiti dagli studi semiotici (più precisamente quel­l i che fanno capo al formalismo russo e allo strutturalismo francese). Queste convinzioni si riassumono nella ammissione che la dimensione fondamentale della significazione architetto­n ica consiste nella autoriflessività del linguaggio architettonico. L’architettu­r a, crescendo su sé stessa, significa la propria costituzione-costruzione logica. Se « le opere della storia dell’architet­t ura... i monumenti romani, i palazzi del rinascimento, i castelli, le catte­d rali gotiche, costituiscono l’architettu­r a... (e) come tali ritorneranno sempre non tanto e solo come storia e memo­r ia ma come elementi della progetta­z ione » , la storia dell’architettura, non­c hé immenso ‘deposito di esperienze, di esiti e indicazioni progettuali è il luogo dove si definisce il significato dell’architettura. Ogni opera rinvia alla storia del proprio tipo, al rapporto con la tecnologia, con la natura, con altre esperienze figurative, ecc. Com­p rendere il significato di 77


un’opera ar­c hitettonica vuol dire situarla entro questa fitta rete di relazioni, assegnar­l e un posto entro un sistema di valori. La significazione architettonica, nel suo funzionamento, è concepita come non del tutto dissimile da un linguaggio: essa è un sistema, un tutto solidale di parti -seppure in continua evoluzio­n e- di cui apprendiamo faticosamen­t e le regole generative nell’uso. Noi lo parliamo e ne siamo parlati. As­s ume quindi un senso preciso una ri­c erca che si propone di censire le nor­m e tipologiche, morfologiche, tecnologico-costruttive, funzionali, ecc. istituzionalizzate da un uso collettivo stori­c amente databile. In sede progettuale èssa permette l’articolazione di un di­s corso preciso e intelleggibile, piegan­d o i codici a un atto di parola unico e irripetibile perché legato alle con­t ingenze, sempre particolari queste, dal­l a loro attualizzazione e dalla volontà espressiva. Ammesso il carattere auto- riflessivo del linguaggio architettonico si dovranno indagare i modi secondo i quali la autoriflessività si manifesta. Cio’ vale a postulare il progetto di una « poetica architettonica », come teoria interna alla architettura, che si propo­n e l’elaborazione di categorie atte a cogliere ad un tempo sia l’unità che la varietà di tutte le opere d’architettura, quindi i procedimenti poetici ivi repe­r ibili . L’analisi sistematica delle archi­t etture dovrebbe permettere l’indivi­d uazione delle strutture poetiche e in­s ieme verificare l’adeguatezza di con­ cetti quali omologia fra sistemi (tipo­l ogico, distributivo, statico, costruttivo, ecc.), comparazione, norma e digressione dalla norma estraneamento, ecc. a descrivere il funzionamento del discorso architettonico. Di fronte a un programma di ricerca così formulato l’attività progettuale assume un ruolo particolare in quanto le caute ipotesi di studio tendono prepotentemente a diventare modello operativo; comun­q ue hanno posto noi in condizioni di sensibilizzata consapevolezza di fronte al problema del significato.

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progetti e gruppi studio 80


La cittĂ analoga, Arduino Cantafora, olio su tela e litografia 1973

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All’inizio degli anni settanta, la prima crisi petrolifera mise in crisi il sistema economico e produttivo mondiale. Aprendo un dibattito critico in tutti i campi artistici in Italia, avvenne che per la prima volta nel dopoguerra la produzione e l’economica ebbero un momento di stallo. Ci si accorse che le città, a seguito dell’esplosione demografica, erano esplose esse stesse, soffocate da edifici e quartieri dormitorio non solo anonimi ma anche poveri di valori e di qualità architettonica. Oggi come allora a causa della crisi economica si è aperto un momento di “respiro” nella speculazione edilizia. Il dibattito critico ha riscoperto quindi i temi e le idee degli anni settanta. Sono in atto in europa dibattiti sulle idee Radicali e sul processo progettuale critico proposto dall’architettura di tendenza. Prima di presentare i progetti esposti durante la manifestazione ho voluto inserire l’articolo: “Perché ho fatto la mostra di Architettura alla triennale” di Aldo Rossi pubblicato su Controspazio, come introduzione della monografia dedicata alla quindicesima triennale di Milano, all’interno del quale egli introduce chiaramente i suoi intenti divulgatori.

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Foto di gruppo, xv triennale, 1973

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Perchè ho fatto la Triennale di Architettura

Testo di Aldo Rossi tratto da Controspazio, dicembre 1973

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La Sezione Internazionale di Architettura della XV Triennale ha offerto il quadro di una nuova situazione che da tempo andava maturando in Europa e nel mondo permettendo di cogliere con maggiore precisione alcuni caratteri alternativi, di fissare delle scelte, di permettere delle valutazioni di scuola, personali, di gruppo. La mostra ha indicato sopratutto le principali direzioni di sviluppo odierne; e particolarmente quelle dove il rapporto con la città e i problemi urbani sono intesi come fondamento dell’architettura. Il tentativo quindi di un confronto dialettico tra posizioni che in Italia e nel mondo, da alcuni anni, si confrontano, crescono insieme o sempre più si differenziano. Esclusi i professionalisti, gli accademici, i ripetitori: purtroppo dimenticata, nella fretta e nella difficoltà obiettiva in cui si è lavorato, qualche ricerca che era degna di figurare. Sono i limiti di ogni rassegna, soprattutto di una mostra che voleva presentare spaccato di una situazione piuttosto che compiere un’analisi filologica. La mia ostinazione nel voler presentare progetti, intendendo questo nel modo più ampio e indipendentemente dalle tecniche usate, ha avuto il vantaggio di fornire un quadro di riferimento spesso più chiaro di quanto gli stessi progettisti vanno scrivendo. In questo senso sono spesso esemplari i progetti per le città. Negli ultimi mesi, in diverse città d’Italia e d’Europa, ho colto direttamente il valore positivo e l’interesse che questa mostra ha suscitato e che i miei amici ed io abbiamo portato avanti nonostante le difficoltà obiettive a cui ci siamo trovati di fronte. I temi e le architetture presentate alla XV Triennale hanno suscitato un nuovo interesse sopratutto tra i giovani, nelle scuole d’architettura, tra gli architetti impegnati da sempre. Il nostro merito è di aver accettato di essere interpreti di queste forze di rinnovamento senza cedere alle lusinghe ed ai ricatti dell’immobilismo culturale, del luogo comune, della stupidità accademica vecchia e nuova. Da qui la reazione rabbiosa di un settore ben riconoscibile dell’architettura italiana: striscianti carriere universitarie e riviste di moda e di arredamento si sono in­c ontrate nella difesa dei valori ritrovando nell’insulto e nella mistificazione il clima delle polemiche di strapaese.Allora, così come abbiamo fatto all’interno dell’Università rispondendo con la coerenza dei gesti al verbalismo e alla provocazione, noi portiamo avanti con sicurezza la nostra idea d’architettura; sviluppandone l’aspetto culturale progressivo su cui si cresce il nostro impegno e la nostra forza. 84


Ma una risposta è doverosa per Bruno Zevi i cui attacchi alla Mostra Internazionale d’Architettura hanno aperto la strada alle critiche di cui parlavo sopra facendone il capo, spero, suo malgrado, della posizione di “strapaese”. Al primo anno della scuola d’architettura ho letto la Storia dell’architettura moderna di Bruno Zevi come un libro profondamente importante; ancora oggi lo consiglio agli studenti come un testo insuperato, anche nella sua passione e nei difetti. Ma purtroppo, dopo quel libro, la parabola culturale di Bruno Zevi ha seguito la sorte tradizionale degli accademici italiani ed oggi egli ha rifiutato un impegno autentico con la cultura architettonica appagandosi dall’indubbio successo giornalistico dei suoi pezzi. Per tornare alla polemica della Triennale ritengo che Bruno Zevi possa benissimo considerare sconcezze staliniane quelle che per noi rappresentano il momento più eroico e formalmente interessante dell’architettura sovietica; puo’ anche portare avanti le sue campagne o crociate contro la simmetria come io posso affermare che tali crociate sono comiche poiché da lungo tempo l’architettura ha dimenticato gli ordini classici e gli schemi formali, pro e contro, che ne sono derivati. Bene o male questo appartiene alla critica. Quello che non puo’ fare è applicare un’analisi non vera della situazione di oggi e del significato delle forze culturali in gioco. La battaglia delle idee tanto più è aspra tanto più deve analizzare il concreto della situazione storica. Una domanda a cui bisogna rispondere è quella relativa alla opportunità di aver accettato di fare la Mostra Internazionale di Architettura della Triennale nella situazione, non certo chiara, di questo Ente. Critica avanzata dal Movimento Studentesco, dai comunisti, da altre forze politi e culturali in modo serio e concreto. Posso accettare personalmente una critica a quel tanto di astratto neoilluminismo della nostra posizione; il credere cioè che una mostra seria e impegnata potesse riscattare limiti obiettivi della situazione. E che essa potesse convivere assieme ad una mostra magniloquente come quella intitolata ‘I problemi 85

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del territorio’ che, a parte la valutazione politica, rappresentava sopratutto la antiquata sottocultura dell’architettura italiana, e convivere con la stessa mostra storica, che, nella fran­t umazione delle cose, negava proprio quella ricerca di continuità con il razionalismo come forza progressiva che noi ponevamo. L’aver accettato ha significato tuttavia il porre ima prima alternativa alla evasione, porre i termini del confronto; e in questa luce ha particolare importanza che nella mostra assumessero un valore di primo piano i progetti di numerosi architetti co­ munisti italiani; nelle proposte per Roma, per Napoli, per Venezia, per Bologna. E in questa direzione il significato del progetto di Luciano Semerani e dei suoi collaboratori che rappresenta non un’invenzione per la Triennale ma il frutto di una lunga serie di proposte che i socialisti triestini portano avanti per la trasformazione della loro città. Tutto questo era nella mostra e, a mio parere, superava la contraddizione di fondo; la contraddizione e la diifìcoltà che emergono dall’azione, dalla partecipazione ad ogni istituzione del nostro paese. Infine devo affermare che la Mostra Internazionale d’Architettura è nata e si è svol­t a come un lavoro collettivo; ho risposto personalmente ad alcune critiche perché ritenevo giusto farlo. Un lavoro collettivo a partire dall’incarico e dall’impegno comune con Carlo de Carli e Ignazio Gardella, fino al lavoro comune con tutti coloro che hanno partecipato alla mostra. Questo lavoro, in particolare di Massimo Scolari, Franco Raggi, Rosaldo Bonicalzi, Gianni Braghieri, Daniele Vitale e tanti altri non ha rappresentato la costituzione di un gruppo, grande o piccolo che sia, ma un impegno che ha ampliato il signifi­c ato di una ricerca, togliendola da ogni carattere personalistico, per stabilire un si­g nificato più generale e una più ampia capacità di diffusione. Mostrando come ra­z ionalismo e realismo non siano distinzioni accademiche, ma la forma concreta della architettura progressiva, si è fornito un materiale di riferimento per la co­s truzione della città moderna, un materiale di riferimento per un vasto dibat­t ito costruttivo. 85


Copertina di Rational Architecture


Copertina del catalogo, xv triennale, 1973


gruppi studio

Mi sono limitato a selezionare i progetti, degli architetti e dei gruppi di studio, presentati alla mostra.Dei dieci lavori provenienti dal panorama internazionale, alcuni hanno condizionato fortemente il discorso critico attuale, altri, a mio parere ugualmente importanti, sembrano essere caduti nell‘oblio. I gruppi di studio,che presentarono i loro progetti, teorici e costruiti, alla Triennale e che si cimentarono nel tema della casa furono: . Five Architects . Robert Krier . Robert Venturi . Takefumi Aida . Bruno Reichlin, Fabio Reinhart . Rosaldo Bonicalzi, Gianni Braghieri . Superstudio I progetti presentati formano un istantanea degli anni settanta. Non li muove un comune senso estetico ne il medesimo programma, essi pero’ rispondono in maniera naturale ai problemi della progettazione. Sono tutti progetti Razionali in quanto pur avendo una formulazione logica molto complessa sono caratterizzate da sistemi costruttivi semplici e si astengono da invenzioni creative futili. Le loro radici affondano nel movimento moderno è facile ritrovare nei loro progetti tracce degli insegnamenti dei Maestri del Novecento. Dei progetti di seguito presentati mi hanno colpito particolarmente quelli di Takefumi Aida (architetto pressochè sconoscito da me fino all’inizio della mia ricerca) e quelli dei Superstudio soggetti recentemente a un ritorno d’immagine da parte della critica odierna.

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House I, Peter Eisenman 1967

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five architects

Peter Eisenman

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Dei Five, Eisenman è in qualche modo l’anima teorica, e, indubbiamente,la figura più singolare; cio’ che rappresenta uno degli aspetti più interessanti della sua ricerca è di aver scoperto la possibilità dl una modifica partendo da un cambio d’importanza nel sistema architettonico: paralizzando la dimensione semantica, la dimensione sintattica assume un peso inusitato. In questo modo, uno del meccanismi logici del sistema architettonico rimane allo scoperto e permette non solo l’accesso all’analisi, ma anche un potenziale punto di partenza per lo sviluppo di una teoria non ideologica, lega inoltre tale ricerca al consumo delle utopie ipertecnologiche, dell’intellettualismo populista, della tecnocrazia imperante nell’architettura anni‘60. Nelle sue architetture cio’ che rimane è solo uno spazio virtuale : esattamente come nelle architetture dì Hejduk, non a caso violentemente attaccate, come le ricerche di Eisenman, in quanto astrazioni antiarchitettoniche. La House I del 1967, tratta di una sola ricerca, tesa a neutralizzare ogni percezione realistica degli edifici. Il puro prisma entra in conflitto con l’intersezione dei piani e con la disposizione puntiforme dei pilastri. I tre elementi vengono fatti mutualmente reagire, come in un composto chimico e con l’atteggiamento di un analista distaccato dal suo esperimento. In tal modo, all’esterno come all’interno, i piani, i pilastri, le superfici di copertura danno il via a un contrappunto di Intersezioni multiple, dove effetti di trasparenza, di svuotamento spaziale fanno di queste due architetture degli oggetti perfettamente autonomi chiusi in, un’esplorazione delle possibilità di trasformazione di figure geometriche elementari. Eisenman incatena le forme dopo averle liberate in quanto tali. In realtà, la teoricità di simili opere non puo’ essere facilmente liquidata parlando di neo-stilismo o di lifeless architecture, è anzitutto certo, che Eisenman raggiunge nella House I e nelle successive Houses IV, V e VI, una perfetta virtualità dell’oggetto. Egli pone, cioè, l’osservatore in uno stato di perfetta alienazione rispetto al reale, corrispondente all’assoluta estraneazione imposta alle forme. Nessuna identificazione di forma e vita, in cio’. La lettera Immaginaria di Loos avrebbe potuto essere sottoscritta da Wittgenstein. La spietata operazione di Eisenman consiste nel riconoscere che non si dà lingua architettonica se non al di fuori della prassi, che iI laboratorio sintattico evocato da oggetti perfettamente circoscritti nel colloquio dei segni fra loro non ammette intrusi. La presenza dell’uomo dà scandalo: una volta penetrato in quel laboratorio, questi non potrà che distruggere la tonalità sospesa, dando materia all’immateriale. 90


piano terra

piano primo

pianta copertura

prospetto

sez 1

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Disegni House I, Peter Eisenman 1967

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House I, Peter Eisenman 1967 92


Schemi Evolutivi, House VI, Peter Eisenman 1972-75

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House VI, Peter Eisenman 1967 94


Hanselman House, dipinto scenografico, Micheal Grave 1967

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five architects

Micheal Grave

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Graves immerge le sue architetture nello spazio della finzione. Precise come le macchine ermetiche di Eisenman o Meier, le opere di Graves accolgono pero’ in sé lo stupore: lo spazio si sdoppia, proiettando la propria realtà in superfici dipinte, che contribuiscono a far lievitare immagini senza corpo e senza radici. Cio’ è già evidente in una delle sue prime realizzazioni, la Hanselmann House del 1967: un puro prisma lacerato da tagli accidentali. Il Tentativo è quello di definire con esattezza le relazioni dell’edificio con l’ambiente circostante, tramite una serie di artifici formali: l’accesso al primo piano assicurato da una scala esterna che introduce a un lungo percorso sospeso, lo schermo trasparente che si frappone fra la scala e la passerella, il rapporto fra area costruita e area scoperta, commentata, planimetricamente, dalla rotazione a 90° rispetto al volume della casa, della pavimentazione esterna. Importante è l’importanza dell’elemento della scala che crea una solenne ascesa e rivela una interrelazione dinamica di forme geometriche discontinue: l’asse di penetrazione nell’edificio diviene il perno di coordinamento visivo intorno a cui ruota il pluralismo formale. In tale contesto, le superfici dipinte che Graves dispone nei: suoi interni non sono strumenti di un anacronistico tentativo di creare un opera d’arte totale; esse servono ad accentuare la virtualità dello spazio. La plttura di Graves ha certo fra le su fonti il Cubismo e il Purismo, ma è anche il risultato di una sorta di conflitto ideale fra forma artificiale e natura. La Benacerraf Residence (1970) si trova in una condizione eccezionale: essa non è che una aggiunta a un nucleo residenziale preesistente. Questo puo’ spiegare, in parte, il particolare sapore magico che in essa è assunto da elementi legati fra loro solo da rapporti di opposizione e contrasto: Il gioco di transenne. che caratterizza la piccola casa, ostenta un irrealismo carico di allusiva ironia, cosi come il curvilineo squarciarsi della cornice che conclude la terrazza superiore: un elemento tradizionale viene deformato, impostando una sottile dialettica fra il necessario e l’arbitrario. Lo sdoppiamento dell’esperienza diviene cosi protagonista indiscussa. Il dominio degli strumenti linguistici conduce alla massima ambiguità del linguaggio.

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Hanselman House, Micheal Grave 1967 98


prospetto est

prospetto ovest

piano terra

prospetto nord

piano primo

prospetto sud Hanselman House, Micheal Grave 1967

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Hanselman House, Micheal Grave 1967 100


Benacerraff House, Micheal Grave 1969

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prospetto

sezione

piano terra

piano primo

Benacerraff House, Micheal Grave 1969 102


Bernstein, John Hejduk 1968

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John Hejduk

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Nel 1966, Hejduk, il più empirico e il meno intelettualistico dei Five, progetta la sua House 10, la sua opera forse più programmatica. Sbaglierebbe, comunque, chi volesse leggere nella House 10 temi affini a quelli espressi nei percorsi magici di Graves o nelle sequenze strutturali di Meier. Né è convincente il richiamo alla dislocazione orizzontale delle forme-oggetto di Wright, fatto da Frampton; nella House 10, il cerchio, il quadrato, e il rombo, figure planimetriche semplicemente accostate ven- gono ritagliate per 1/4 e, cio’ che più conta, aggregate alle estremità del lungo paradossale percorso, su cui si attestano, come escrescenze immesse a confermare la legge dell’asse, due ambienti a contorno organico. Hejduk compie due operazioni complementari: sceglie forme assolutamente banali e le deforma secondo regole arbitrarie ma ugualmente elementari. L’arbitrarietà dei segni, come in tutta la tradizione cubista, è sostegno a un’azione deformante; ma la deformazione si limita a confermare la struttura geometrica di partenza. Tale metodo appare affine alla tecnica del montaggio: ma Hejduk si spinge ancora più in là. Lo spazio è per lui un campo neutro: le relazioni fra gli oggetti, resi muti nonostante la loro manipolazione, ubbidiscono all’indeterminatezza della pura topologia. Il percorso, fra le due testate della House 10 potrebbe allungarsi all’infinito: non è lui il protagonista della composizione. Quel percorso, piuttosto ha il valore che, nel cinema, ha la tela dello schermo; esso è solo il supporto su cui si proietta una crudele sequenza di eventi interrotti. Una rifondazione di un codice sintattico in piena regola dunque: il riferimento al movimento De Stili ha senso solo se si tiene conto che di tutto ilbagaglio ideologico delle avanguardie elementariste, in questo, Helduk è, fra i Five il più vicino alle ricerche di Eisenman.


piano terra

piano primo

piano secondo

pianta copertura Bernstein, John Hejduk 1968

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House 10, John Hejduk 1969 106


Recidence Studio, Charles Gwathmey e Robert Siegel, 1965

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Charles Gwathmey (e Robert Siegel)

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Rispetto ai tre architetti considerati,le personalità di Gwathmev & Siegel e di Richard Meier risultano decisamente eccentriche a meno di alcune esperienze particolari. Gwathmey e Siegel distillano composizioni basate sulla purezza dei solidi geometrici, su una dialettica di percorsi, su trasparenze su volumi bloccati. L’astrazione, in tali esempi si cala in spazi socialmente fruibili. L’interdetto che pesa sulla libera fruizione delle opere di HejduK e Eisenman è dissolto. Il rigore purista si stempera in articolazioni formali cadenzate da caratteri sin troppo gradevolmente disposti. Nella Gwathmey Residence and Studio, del 1966, i tre blocchi, situati sul southern shore di Long Island, adottano, planimetricamente, la tecnica del solido geometrico sezionato, cara a Hejduk. Il tracciato regolatore che guida la disposizione del tre volumi è assicurato da un irregolare disegno dei viali e degli spazi aperti: ne risulta una specie di esplosione ideale, di cui i tre piccoli edifici posati sul piatto terreno di Long Island non sono che i residui frammenti. Del frammento essi infatti hanno l’irregolarità e la casualità; per non parlare della loro disposizione reciproca, studiata attentamente per evitare ogni relazione fra i tre scheggiati corpi volumetrici. Non più Cardboard Architecture, in questo caso, bensì recupero di una matericità che ha portato Frampton a inserire la Gwathmey House nella American wood building tradition. Con queste opere, siamo al polo opposto del concettualismo di Eisenman. Eppure, anche esse si risolvono in segni stupefatti del loro essere al mondo, Il banale, in cui Hejduk incarcera la geometria, è superato solo in apparenza: dove Hejduk pone un segno di addizione Gwathmey pone un segno di moltiplicazione, il risultato finale cambia solo in superficie.

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Recidence Studio, Charles Gwathmey e Robert Siegel, 1965

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Recidence Studio, Charles Gwathmey e Robert Siegel, 1965 110


Steel House, Charles Gwathmey e Robert Siegel, 1970

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Steel House, Charles Gwathmey e Robert Siegel, 1970 112


Smith House, Richard Meier 1965-67

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Richard Meier

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L’opera di Richard Meier si allontana dall’assolutismo linguistico in cui si immergono Hejduk, Eisenman e Graves. La Smith House, del 1965, e la Saltzman House, del 1967 sono due ville a struttura stratificata, dove le relazioni fra consistenza volumetrica ed effetti di trasparenza, permettono di avanzare analogie con il purismo sintattico di Eisenman e persino con le ambigue metafore di Graves; è indubbio, infatti, che le due ville evochino un’atmosfera incantata nel loro assoluto isolamento dal contesto. Le ville non sono esenti da un tono Ironico: si veda, nella Smith House, il contrasto fra l’immaterialità della scatola vetrata e la materialità del camino o del coronamento; e ancora: è addirittura il Loos della casa Tzara che sembra reincarnarsi nello squarcio che mette a nudo la struttura interna della Saltzman House, come a voler contestare l’ambigua geometria del prisma ad angolo superiore arrotondato, che si costruisce su una direttrice diagonale. Come avverte lo stesso Meier i principi organizzativi della Smith House e della Saltzman House si inseriscono su una dorsale che li innerva e dà loro configurazioni, come l’articolazione delle unità intorno allo spazio centrale che recupera in pieno una dimensione nel rapporto spazio pubblico-spazio privato. In altre parole, Meier sembra ripercorrere, con un processo profondamente critico, alcune tappe già percorse dai maestri classici del movimento moderno: dalla configurazione in sé perfetta di oggetti ricchi di riferimenti metaforici, ai valori Istituzionali dell’universo tecnologico, al loro ricomporsi nell’unità urbana. Le sue invenzioni, tendono ad un controllo esasperato dell’immaginario architettonico, ed è difficile riconoscere dove finisca il pudore della forma e dove inizi un’ancestrale angoscia puritana.

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planimetria

piano terra

Smith House, Richard Meier 1965-67

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piano primo

piano secondo

Smith House, Richard Meier 1965-67 116


Saltzman House, Richard Meier 1969

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prospetto nord

piano primo

prospetto ovest

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prospetto sud Saltzman House, Richard Meier 1969

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prospetto est


Casa Siemer, Robert Krier, Stoccarda 1968

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robert krier

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Architetto lussemburghese (n. Grevenmacher, Lussemburgo, 1938), fratello di Léon. Dopo aver studiato a Monaco (1959-64), ha lavorato con O. M. Ungers e con F. Otto; nel 1975 ha iniziato a insegnare all’università di Vienna. Interessato all’indagine teorica sulla ricostruzione dei centri storici, attraverso una rigorosa ricerca tipologica dello spazio urbano preesistente (come ha esposto in varî articoli e saggi), ne ha verificata la validità con la realizzazione di blocchi di abitazione nella Rittenstrasse (1977-80), nella Schinkelplatz (1977-83) e nella Rauchstrasse (1980-85) a Berlino, con gli interventi nella Breitenfurter Strasse (1981) e Hirschstettenerstrasse (1982) a Vienna. Nel 1996 è stato chiamato alla Yale University come guest professor; ha lavorato poi con N. Lebunetel, insieme al quale ha progettato a Montpellier il residence Consuls de mer (dal 1989). Dal 1993 in collab. con C. Kohl ha lavorato ai progetti Babelsberg, Media City, Potsdam (1995); Bataafse Kamp a Hengelo, Olanda (1998); Batavia Harbour a Lelystad, Olanda (dal 2002); Alter Hof a Monaco di Baviera (2002-03); Hamburger Straat a Utrecht (2004); Noorderhof-Zuid ad Amsterdam (dal 2005); Buckenberg-Areal a Pforzheim, Germania (progetto del 2006). Questa casa è stata la prima importante realizzazione di Rob Krier dopo il compimanto dei suoi studi. In pianta la casa è divisa simmetricamente da un asse longitudinale illuminato dall’alto che contiene il sistema della circolazione verticale. La casa, sorgendo su un terreno in pendenza, ne sottolinea l’andamento attraverso la forte inclinazione della copertura. La distribuzione interna segue il principio dell’inclinazione riducendo progressivamente la superficie dei piani. La facciata verso l’ingresso, molto aperta, mostra con evidenza la struttura simmetrica della casa. Al piano terra vi sono due piccoli appartamenti, al primo piano la zona giorno e una camera da letto, al secondo piano due camere da letto.

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Casa Siemer, Robert Krier, Stoccarda 1968

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Casa Siemer, Robert Krier, Stoccarda 1968 122


Vanna Venturi House, Robert Venturi 1961

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Robert Venturi

Dopo la laurea conseguita all’Università di Princeton nel 1947, vi ottenne un master (M.F.A.). Dal 1950 al 1954 collaboro’ nello studio di Philadelphia di Oskar Stonorov. Venturi vinse poi una borsa di studio dell’Accademia Americana di Roma dove soggiorno’ dal 1954 al 1956. Collaboro’ con Eero Saarinen e Louis Kahn prima di aprire il proprio studio nel 1958. Nel 1964 si associo’ con John Rauch e qualche anno dopo sua moglie, Denise Scott Brown anch’essa architetto, entro’ nello studio. Dopo che John Rauch abbandono’ lo studio nel 1989, questo prende il nome di Venturi, Scott Brown & Associates. Ha ottenuto il prestigioso Premio Pritzker nel 1991. Ha insegnato in numerose università come Yale, Princeton, Harvard, UCLA ed è accademico d’onore dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze. Ha costruito numerosi edifici ma è soprattutto la sua opera teorica che ha avuto grande influenza. Nel 1966 Venturi pubblico’ il suo manifesto, Complexity and Contradiction in Architecture, che Vincent Scully nell’introduzione giudica come “probabilmente il più importante testo di architettura dal Vers une architecture di Le Corbusier, del 1923”. Il testo prende le mosse da una dichiarazione categorica: l’autore ama ed è fautore di una architettura complessa e contraddittoria. La cultura contemporanea ha ormai accettato la contraddizione come condizione esistenziale, in ogni settore si manifesta l’impossibilità di giungere ad una sintesi omnicomprensiva e perfetta della realtà, persino la matematica sembra aver perso le proprie fondamenta razionali, come emerge dal teorema di incompletezza di Gödel. Nel contrapporsi alle esemplificazioni cui è giunto il Movimento Moderno (inteso ormai come pratica accettata e diffusa) il testo, se pur critico, si pone in una condizione di complementarità e di dialogo nei confronti dei maestri. Venturi pur rifiutando l’esemplificazione (less is more) va alla ricerca di elementi complessi e contraddittori anche all’interno delle opere prodotte dal Movimento Moderno, riconoscendo in tali contraddizioni il veicolo portatore di un sentimento poetico ed espressivo universale. Tale sentimento si manifesta da sempre, in ogni epoca, anche in architetture minori o spontanee, ed è l’espressione tipica di ogni fase di manierismo. Dal Cinquecento italiano, a Palladio o Borromini, fino a Sullivan e più recentemente ad Aalto, Le Corbusier e Kahn, l’autore cerca attraverso molti esempi di mostrare la propria idea di complessità e contraddizione in architettura.

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Vanna Venturi House, Robert Venturi 1961

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Vanna Venturi House, Robert Venturi 1961 126


Annihilation House , Takefumi Aida 1970-71

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Takefumi Aida

Non trovando testi che descrivessero la sua opera ho pensato di inserire un testo dell’architetto tratto da Controspazio, dicembre 1973

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Speculazione al buio. L’immagine della mia architettura. Qual’è la funzione dell’architettura? Benché questa questione possa sembrare di facile soluzione, è uno dei problemi di base per un architetto. Di solito si risponde che l’architettura ha come fine quello di soddisfare i bisogni dell’utente o, più in generale, di rispondere alle esigenze della società. Anche se puo’ sembrare superfluo l’affermarlo, io sono convinto che l’architetto debba sempre esprimere dei giudizi assolutamente oggettivi in rapporto all’immagine architettonica che vuole creare. Si tratta per me quindi di esprimere dei giudizi nel modo più autonomo possibile. La necessità di liberare la forma dalla funzione. Penso che l’argomento della liberazione della consapevolezza creativa dai vincoli funzionali meriti attenzione in quanto costituisce la vera immagine dell’architettura. Portero’ l’esempio, per meglio spiegarmi, della forma della piramide. Oggi la forma piramidale, apparentemente, non è legata a nessuna funzione, puo’ adattarsi infatti egualmente bene ad una casa privata o ad un edificio pubblico. Comprendendo che la forma puo’ trascendere la funzione, io tento attraverso l’architettura di liberare coscientemente il mio pensiero dalle restrizioni imposte da considerazioni funzionali, cercando una immagine prototipo. Faccio cio’ perché desidero identificare forma architettonica e funzione. Oggi l’architettura funzionale è morta. Esaminando le varie correnti architettoniche degli ultimi anni si ritrova un’architettura dominata dall’assillo funzionale ad un punto tale che quest’ultimo sopraffà le capacità creative del progettista. L’architettura che ricerca deliberatamente la sola rispondenza funzionale sarà sempre meno comune. Nell’attuale condizione storica io sono stimolato a liberarmi da questi vincoli. Il pensiero architettonico deve basarsi su poli pluralistici. A parte pochi esempi di soluzioni progressive, mi sembra che le case progettate oggi abbandonino la loro natura semplicemente abitativa. Non che io straveda per la solita casetta bianca col tetto rosso, ma trovo comunque più penose le case moderne costruite con varie forme distorte; esse hanno perso la loro natura originale di casa. 128


Nirvana House,Takefumi Aida 1972

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Per evitare equivoci aggiungero’ che non credo affatto che tutta l’architettura debba ritornare alle forme prime, esistono infinite forme architettoniche, dalle piramidi alle rampe di lancio dei missili. Pensare l’architettura esclusivamente nei termini del futuribile è molto pericoloso. E’ necessario polarizzare oggi il pensiero architettonico tenendo come estremi, ad esempio, l’industrializzazione e il lavoro artigianale. Tra questi due poli puo’ svilupparsi il pensiero con un processo dialettico che li connette. Cio’ permette all’architetto di verificare la propria capacità creativa senza rinunciare alla sua individualità. L’architettura come formalizzazione di una idea. Semplificare il pensiero in architettura significa portare l’architettura ad essere la forma di un’idea. Se vogliamo preservare il carattere immanente pelle forme architettoniche è indispensabile liberarsi dal condizionamento funzionalista. Gli elementi base dei miei progetti sia nella Nirvana House che nella Annihilatio House, sono la pianta quadrata, la distribuzione simmetrica e le pareti bianche che nell’insieme ricordano cose già viste e comunque esistenti da sempre. In questi due progetti ho tentato di verificare fino a che punto era possibile identificare la funzione con la forma (non la forma come conseguenza della funzione). Le forme e le funzioni che scaturiscono da questo procedimento si giustificano vicendevolmente rafforzando l’espressione architettonica. Questo metodo costituisce una verifica della sostanza immanente dell’architettura. Inoltre ho progettato queste due case, come ho già dichiarato, tentando di liberare l’architettura dal determinismo funzionalista. Ho eliminato volutamente ogni ridondanza formale per arrivare all’immagine dell’idea innata di architettura. Ho tralasciato molte cose e forse le idee che ho espresso costituiscono solo il mio brancolare nel buio. Spero pero’ che nel mio processo creativo queste idee mi aiutino a trovare un punto fermo.

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Casa Tonini, Bruno Reichlin e Fabio Reinhart, 1972-74

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Bruno reichlin e fabio reinhart

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La casa Tonini si riferisce in modo evidente agli schemi geometrici sottesi alle ville palladiane, così come sono stati dedotti e mostrati da Wittkover al termine della sua sistematica indagine. Determinante per il progetto è stata la ricerca della qualità formale dello spazio centrale, coperto con una struttura pensata come una parafrasi attuale della cupola palladiana. L’unità spaziale di base è un cubo di 2,70 m. di lato che viene ripetuto seguendo uno schema geometrico rigoroso e privo di eccezioni. Al centro dello spazio il tavolo, considerato come «ara sacra della famiglia»; intorno a questo, al piano terreno il soggiorno, la cucina, uno studio e una camera; al primo piano tre camere da letto. Esternamente la casa, con la copertura a tetto a quattro falde e il corpo centrale emergente, ricorda i modelli classici.

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Casa Tonini, Bruno Reichlin e Fabio Reinhart, 1972-74

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Casa Tonini, Bruno Reichlin e Fabio Reinhart, 1972-74 134


Villa a Fagnano Olona, Rosaldo Bonicalzi e Gianni Braghieri 1971

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Rosaldo bonicalzi, gianni braghieri

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Opera giovanile dove l’attenzione ai riferimenti razionalisti, chiaramente evidenti, ne fanno come un atto di fede, una scelta di «tendenza». La casa si sviluppa su un lotto di terreno molto compromesso dalle edificazioni circostanti. L’ingresso-soggiorno-pranzo con la grande vetrata sul giardino vuole essere l’unico elemento in rapporto con l’esterno.

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Villa a Fagnano Olona, Rosaldo Bonicalzi e Gianni Braghieri 1971 137

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Villa a Fagnano Olona, Rosaldo Bonicalzi e Gianni Braghieri 1971 138


Catalogo di Ville, progetti 1968-73

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Superstudio

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“...Il più grande progetto è sempre progettarsi una vita intera sotto il segno della ragione, una vita con coordinate precise, e serenamente accettate. Costruire noi stessi con una serie di gesti primari, di gesti magici calibrati e lucidi, per mezzo di un’architettura delia chiarezza e della lucidità, non della crudele intelligenza ma della comprensione di tutte le ragioni... Progettare una villa è un problema inesistente: l’architettura moderna ha già risolto tutti i problemi relativi e d’altronde ne è già stata ampliamente dimostrata l’assurdità economica, sociale e funzionale. Comunque rimane una delle rare occasioni di ‘fare architettura’. Così, rifiutandoci di pensare ai problemi particolari dei clienti o alla salvazione dell’anima, e cercando di pensare solo a una vita serena e ad una felice costruzione intesa come minuscola parte del ‘sistema dell’architettura’,abbiamo compilato un ‘Catalogo di Ville’ “. Il Catalogo comprende quattro serie di sei ville l’una: A. Ville Suburbane B. Ville al Mare C. Ville in Montagna D. Grandi Ville Italiane Tutte le ville sono strutturate come un involucro semplice con un nucleo centrale prefabbricato di servizi. I rivestimenti esterni sono in piastrelle di Ceramica bianca, o di gres bianco, con zoccolatura di granito grigio dell’Elba, gl’infissi sono in metallo zincato a caldo di tipo industriale. Egualmente in metallo zincato sono tutte le finiture esterne, scossaline, porte piene, tubolari per pergole, scale. Tende in fibra di vetro celeste. Tutti gl’interni sono a stucco bianco con pavimenti in gres grigio. Superstudio inventa il catalogo di ville dove riunisce gli studi sulle ville del 1968-69, aggiungendovi due nuo-vi progetti ispirati alle Tombstones for architecture e al Monumento continuo, uno dei quali è denominato Cubic villa (ha la forma di una campata del Viadotto d’Archiitettura). Il criterio di classificazione del nuovo Catalogo è la localizzazione ( Ville suburbane, Ville al mare, Villla in montagna) e il tipo: Grandi ville italiane. Con questo catalogo, Superstudio intende proporre modelli universali, validi per qualsiasi committente; descrive le ville suburbane costituite da un core prefabbricato per i servizi e da un simple wrapping.

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Catalogo di Ville, progetti 1968-73

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Catalogo di Ville, progetti 1968-73

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CATALOGO DI VILLE PER IL QUARTIERE DI San Salvario 146


Happy Island, Superstudio

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“ Per chi come noi sia convinto che l’architettura è uno dei pochi mez­z i per rendere visibile in terra l’ordine cosmico, per porre ordine tra le cose e soprattutto per affermare la capacità umana di agire secondo ra­g ione, è “moderata utopia” ipotizzare un futuro prossimo in cui tutta la architettura sia prodotta da un unico atto, da un solo ‘disegno” capace di chiarire, una volta per tutte, i motivi che hanno spinto l’uomo a innalzare dolmen, menhir, piramidi, e a tracciare città quadrate, circolari, stellari e infine a segnare (ultima ratio) una linea bianca nel deserto. La grande muraglia cinese, il vallo d’Adriano, le autostrade, come i paralleli e i meridiani, sono i segni tangibili della nostra comprensione della terra. Crediamo in un futuro di “architettura ritrovata”, in un futuro in cui l’architettura riprenda i suoi pieni poteri abbandonando ogni sua ambigua designazione e ponendosi come unica alternativa alla natura. Nel binomio natura naturans e natura naturata scegliamo il secondo termine.” Adolfo natalini, superstudio



Perchè ho fatto un catalogo di ville per san salvario

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Il catalogo nasce dalla volontà di affrontare in modo pragmatico e sistematico quelle aree cittadine ancora disgiunte, slegate dal contesto. Torino è la città più pianificata d’Italia. E’ l’unica che sin dal ‘600 è cresciuta seguendo un piano regolatore, un disegno totale che la regolava sotto gli aspetti funzionali e formali, nella sua immagine di città fortemente pianificata ha prosperato fino ad oggi. Al castrum della città romana si sono aggiunti i quartieri “Castellamontiani” seicenteschi; nell’ottocento la maglia ortogonale, all’apertura e distruzione delle mura, venne ampliata e applicata alle successive estensioni e acquisizioni cittadine. San Salvario già esistente sottoforma di piccolo borgo nelle immediate vicinanze del convento di San Salvatore(C.so Marconi) e del Castello del Valentino, venne plasmato con l’orditura ortogonale che lo caratterizza tutt’ora. La sua crescita è avvenuta in maniera discontinua, in tempi diversi. Cio’ si vede benissimo osservando il profilo edilizio. Vicino a C.so Vittorio a nord infatti la densità edilizia è più alta, gli isolati di dimensioni minori e i manufatti sono prevalentemente ottocenteschi. Procedendo verso sud l’edificato si fa via via più recente. Nell’area sud invece nei primi del novecento di stabilirono varie industrie attorno alle quali si svilupparono isolati destinati ai lavoratori. Troviamo quindi grandi edifici operai a volte sostituiti da “palazzoni” durante la seconda metà del ‘900; a San Salvario e anche in alcune aree cittadine, prevalentemente quelle periferiche e adiacentti alla cinta daziaria del 1910 furono caratterizzate da un urbanistica dedicata alla tipologia delle villette uni e bifamiliari con giardino. Ovunque nel tessuto si possono notare “anomalie”, difetti, infatti la parcellizzazione molto frammentata del quartiere ha fatto si che pur rispettando tutti gli edifici in fronte strada uniforme essi abbino caratteristiche molto diverse tra di loro, ad esempio differenze di altezza dei fabbricati o vuoti di piccole dimensioni tra di essi. Durante la mia ricerca una serie di esempi più o meno recenti, Torinesi e non hanno influenzato il mio progetto. Il programma è quello di inserire ville urbane all’interno di queste aree non completamente sfruttate nei primi del novecento e alla fine dell’ottocento.

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Riferimenti progettuali

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Slip house 2012 London, U.K. Carl Turner Architects La Slip House, che occupa uno di quattro appezzamenti formanti un vuoto urbano all’interno di una tipica lottizzazione a schiera di Brixton, costituisce un nuovo prototipo di casa terrazzata flessibile. Tree semplici scatole ortogonali sono fatte “slittare” per scomporre la massa dell’edificio e conferirgli una qualità fortemente scultorea. Il piano alto è tamponato con lastre verticali di vetro opalino, che si estendono oltre il solaio per dare forma a uno sky garden. Progettata per soddisfare i requisiti del Code for Sustainable Home Level 5, la casa si eleva su “pilastri energetici” – un sistema sostenibile di raccolta, immagazzinamento e distribuzione di energia geotermica. I pannelli fotovoltaici, il tetto verde, il sistema di raccolta dell’acqua piovana, il ridotto consumo idrico e la ventilazione meccanizzata con recupero di caloreall’interno di un involucro ermetico massivamente isolato, rendono la Slip House uno degli edifici più efficienti dal punto di vista energetico del Regno Unito. Prototipo per la riqualificazione di brownfields capace di offrire un tipo di vita urbana denso e flessibile, la Slip House si presenta come un esempio di ricerca interna sulla progettazione sostenibile, integrando coerentemente i spesso contrastanti requisiti estetici dell’architettura con sistemi alternativi di produzione energetica. La nostra intenzione, ora, è sviluppare ulteriormente questo modello, adattandolo a differenti dimensioni e tipi di edilizia residenziale a basso costo. La sovrapposizione di funzioni abitative e lavorative (“Living over the shop”) è un tema che realmente ci interessa. In questo senso, vediamo una possibile via nella produzione di un nuovo prototipo di casa “terrazzata” che possa essere inserita all’interno di lotti urbani sottoutilizzati – brownfields. Questo tipo flessibile 154

di residenza permette al proprietario artigiano o home-worker di subaffittarne una parte, o di diminuirne la dimensione. Questo processo puo’ infondere nuova energia alle comunità urbane e produrre “case” che creano opportunità, invece di case-dormitorio o case-investimento. La Slip House è flessibile e puo’ essere utilizzata come un’unica residenza, come un mix di appartamento e spazio di lavoro, o come due appartamenti indipendenti. I muri perimetrali portanti permettono di liberare gli ambienti interni dalla presenza di pilastri e setti strutturali. In questo modo, le pareti divisorie interne possono essere realizzate semplicemente e con un minimo sforzo costruttivo. Questo aspetto rende la Slip House sostenibile non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello ambientale, dato che assicura la longevità della struttura primaria mentre consente, contemporaneamente, la realizzazione di piccole modifiche atte a conformare gli spazi domestici a mutate esigenze abitative e lavorative. Avendo modellato l’edificio come una serie di semplici forme scatolari che occupano tutta la larghezza del sito, future costruzioni adiacenti potranno agevolmente sorgere in adiacenza ai muri laterali. La casa lavora attorno all’idea dei blocchi slittati. I tre volumi sono disposti attentamente in modo da massimizzare l’irraggiamento solare e le viste verso l’esterno, senza pero’ invadere lo spazio visivo dei vicini.

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W-window House 2012 Kyoto, Japan Alphaville Architects Guardando questo edificio dal fronte strada nessuno penserebbe ad un’abitazione; in realtà è proprio questa la funzione del palazzo progettato dallo studio Alphaville Architects a Kyoto in Giappone. L’illuminazione degli ambiente è tutta risolta attraverso due tagli sui prospetti laterali che illuminano gli spazi interni della casa verticalmente andando a creare anche due piccoli patii a forma di V; il fronte stradale resta invece compatto e cieco, ad eccezione dell’apertura che denuncia l’ingresso alla casa. All’interno la distribuzione dei piani non è uniforme, infatti sul fronte stradale sono presenti due livelli mentre sul fronte opposto sono tre, questa articolazione fa giocare un ruolo chiave, dal punto di vista distributivo alle scale; queste sono state studiate nel dettaglio anche per quanto riguarda il loro aspetto formale, trasformandole in un semplice foglio metallico piegato su se stesso. La differenza di altezza degli ambienti interni favorisce anche un effetto camino che ha il ruolo di portare aria fresca all’interno dell’abitazione sfruttando il ricircolo naturale.

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House N Oita, Japan 2008 Sou Fujimoto Architects Il progetto nasce dalla combinazione di una serie di volumi che si annidano l’uno nell’altro dando forma ad una singolare architettura che celebra la trasparenza degli spazi in una elegante stratificazione assicurando al tempo stesso l’assoluta privacy dove necessario. L’abitazione si compone di tre involucri di dimensioni differenti che risultano incastrati l’uno nell’altro. La vita dei residenti si svolge all’interno di questa “sequenza” di spazi. È interessante notare come, se in una visione occidentale gli spazi cui affidare una maggiore intimità sono generalmente “nascosti” nel cuore della struttura, questo progetto rivela un approccio evidentemente diverso: la zona notte non è stata infatti immaginata nel volume più interno, bensì in corrispondenza della seconda scatola. “In questa casa - spiega Sou Fujimoto – si ha la sensazione di vivere tra le nuvole. Non è possibile trovare all’interno alcun limite definito; c’è solo un graduale cambiamento degli spazi. Si potrebbe definire una architettura ideale uno spazio all’aperto che ricorda un interno e viceversa. In una struttura fatta a scatole annidate l’una nell’altra l’interno è l’esterno, e viceversa. Il mio obiettivo è consistito nel creare una architettura che non avesse a che fare con lo spazio, né con la forma, ma semplicemente che fosse in grado di esprimere la ricchezza di cio’ che vive tra le case e le strade”. “Ho immaginato – continua l’autore del progetto – che la città e la casa non fossero differenti nell’essenza, ma che fossero semplicemente differenti approcci al continuum di un singolo soggetto, o differenti espressioni di una stessa cosa – un movimento ondulatorio di uno spazio primordiale abitato dagli uomini”.

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Casa Navi 1968-1973 Via Bricherasio 12, Torino Sergio Hutter In faccia alle eleganti palazzate del piano Promis, che chiudevano la cittä ottocentesca su corso Vittorio Emanuele e compresa tra questo e il corso Stati Uniti, aulico spazio per parate militari, si estendono sulle aree lasciate libere dalle successive piazze d’Armi, prestigiose abitazioni circondate da ampi parchi e giardini; residenze della nascente societä imprenditoriale e industriale torinese tra ‘800 e ‘900. Tutto contribuisce a dare ancora a questa zona un sapore tardo ottocentesco: dagli eclettici edifici, alle recinzioni, ai parchi e ai folti giardini che si affacciano al di là delle preziose cancellate dagli zoccoli in pietra, al cöntroviale di corso Stati Uni­t i ancora pavimentato in tondi ciottoli di fiume. Non e alieno a questa leziosa mollezza il duro edificio costruito per una delle piü note famiglie dell’aristocrazia imprenditoriale torinese, con un ambiguo linguaggio desunto dall’International Style. Nell’opera, apparentemente tecnologica, il progettista risolve invece con eleganti soluzioni l’attacco a terra della vi­b rante pannellatura in lamiera smaltata che definisce nell’esattezza del­ le proporzioni i nitidi prospetti di un parallelepipedo a superfici prevalentemente chiuse.

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Villa Caudano 1936 Viale XXV Aprile 75, Torino Gino Levi Montalcini La villa sulla collina torinese, chiude quel ciclo di architetture di Levi Montalcini in cui l’autore sembra essersi preoccupato di umanizzare il lessico espressivo del razionalismo. L’architetto progetta per una committenza alto borghese una villa dai caratteri chiaramente razionalisti; l’edificio denuncia in facciata il fulcro compositivo dell’intera opera, una scala a chiocciola. Questa genera una serie di fasce orizzontali che scandiscono ritmicamente l’involucro esterno e, senza piani intermedi, attraversa in un foro il piano terrazzato del primo livello per raggiungere il solarium sul tetto, agganciandosi alla sua pensilina. Di fronte alla villa, un giardino è trattato secondo uno schema geometrico a terrazze.

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Casa unifamiliare 1976 via Biamonti 15, Torino Andrea Bruno Un piccolo intervento isolato hel- l’edificazione urbana delle prime pendici della collina; una casa studio per un artista di fama, produttore di dagherrotipi, sensibili imprimiture su preziose carte, non poteva che es- sere un volume semplice le cui fac- ciate erano occasione per preziose tessiture di superficie; e nessun’altro materiale se non il cemento colato in lavorati casseri poteva trasmettere lo stesso metodo a impressione sulle ampie superfici che chiudono lo spa- zio intemo. II progetto nasce per successive ger- minazioni rese ancora piü evidenti dai giunti che dividono i singoli blocchi e dalle nettissime superfici vetrate usate in modo del tutto simi­l e alle pareti in cemento. I modelli culturali piü avanzati del- l’International Style vengono richia- mati in tutti i particolari costruttivi con estrema freschezza e disinvoltura.

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Sopraelevazione 1957 Via Baretti 46, Torino Gino Becker Nella Torino del dopoguerra l’intervento sul costruito costituisce una fetta importante dell’attività edilizia: tra il 1945 e il 1953, infatti, su 481 licenze per edifici destinati a civile abitazione, 155 (cioè il 32%) riguardano soprelevazioni e varianti. La sopraelevazione di tre piani di un edificio ottocentesco che Gino Becker realizza tra il 1955 e il 1962 costituisce uno degli esempi più interessanti. Un complesso quadro normativo caratterizza la definizione dell’intervento: tra la prima richiesta avanzata nel 1955 e l’ottenimento della concessione nel 1957 Becker presenta il progetto ben undici volte. Costretto a rispettare due diversi vincoli in altezza a causa delle diverse larghezze del corso D’Azeglio e della via Baretti, Becker gioca con volumi, vuoti e rientranze, componendo la facciata della sopraelevazione secondo un ordine svincolato dalla scansione della preesistenza. L’ultimo piano, arretrato rispetto ai piani sottostanti per rientrare nell’ingombro imposto dai regolamenti, viene destinato a studio dell’architetto. Sull’estradosso degli archi alla sommità della preesistenza, si imposta il rivestimento in paramano della sopraelevazione. Il risultato è un raffinato insieme di citazioni che fa della sopraelevazione la testimonianza di una cultura architettonica colta ma talvolta marginale rispetto ai grandi numeri della Ricostruzione.

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Casa Navone 1909 Largo Moncalvo, 23 R.Burzio Villa unifamiliare presente in Borgo Po, costruzione tipica dei primi del novecento, destinata ad una bassa borghesia. Questo progetto rientra nel disegno delle aree limitrofe alla cinta daziaria del 1910 facendone un esempio tipico delle villette unifamiliari del liberty torinese del primo novecento. Superficie Lotto: mq 390 Superficie Copertura: mq 125 Volume fuori terra: mc 1250 Superficie utile esclusa scala: mq 149

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“ L’attuale sconcertante svolta nell’architettura milanese e torinese forse appare tanto più sconcertante agli occhi di chi, come noi, la osserva dal lato sbagliato delle Alpi, a causa delle speranze irrilevanti, delle aspirazioni non italiane che abbiamo proiettato sull’architettura italiana dalla guerra in avanti. Senza accorgercene, abbiamo costruito un’architettura mitica che vorremmo vedere nei nostri paesi, un’architettura di responsabilità sociale germogliata, così credevamo, da martiri politici come Persico, Banfi, il giova­ ne Labò - e di purezza architettonica formale - nata da Lingeri, Figini, Terragni. Questa architettura, accettabile socialmente e architettonicamente dagli uomini di buona volontà, l’abbiamo vista particolarmente incarnata nello studio milanese BBPR, dove la B era il martirizzato Banfi e la R finale Ernesto Rogers, figura eroica dell’architettura europea di fine anni quaran­t a-inizio cinquanta. La prova degli occhi spesso contraddiceva il mito: molte volte le qualità architettoniche da noi cercate emergevano nelle opere della scuola romana, specialmente (e sorprendentemente) in quelle di Moretti, liquidato dai mila­n esi come “socialmente poco serio”, mentre le imbarazzanti domande sul­l ’eclettismo moderno sollevate dall’opera di Luigi Vagnetti erano impropo­n ibili se non in termini che mettessero anche Milano sotto esame. Le nostre speranze, tuttavia, continuarono a essere puntate su Milano, sulla Triennale, il QT8, il Compasso d’Oro, su Comunità, su «Domus» e ancor di più su «Casa­b ella Continuità», la famosa rivista anni trenta di Persico riportata in auge sotto la direzione di Rogers. Ma quando «Casabella» cominciò a pubblicare, con evidente approvazio­n e della direzione, edifici che quanto a eclettismo storicista superavano di gran lunga quelli di Vagnetti, quando lo studio BBPR allestì per la London Furniture Exhibition del 1958 una sezione italiana che sembrava poco più di un inno in elogio del gusto borghese milanese nella sua versione più schizzi­n osa e codarda, e quando, infine, si vide la mostra italiana all’Esposizione 164


di Bruxelles, allora alla perplessità si sostituì un forte senso di delusione. Al di là delle nostre reazioni personali, comunque, rimangono gli edifici che le hanno prodotte e l’atteggiamento che ha prodotto gli edifici, un atteggiamento che persino altri italiani, come Bruno Zevi, considerano chiaramente erroneo e improvvido. Le opere recenti di Gae Aulenti, Gregotti, Meneghetti, Stoppino, Gabetti, i loro associati e seguaci e le polemiche avanzate in loro difesa da Aldo Rossi e altri - tutto questo rimette addirittura in discus­s ione l’intero status del movimento moderno in Italia. Storicamente, il movimento moderno non ha mai attecchito molto salda­m ente sulla penisola, a causa dalle bizze della committenza. Prima della guerra l’architettura moderna esisteva a stento al di fuori della fascia lungo la linea ferroviaria Milano-Como, una zona dove era più probabile sentire l’influenza sotterranea di Marinetti (citato una volta da Sartoris tra i patroni del movimento) e di altri modernisti fascisti. All’interno di quella zona ristretta, il «moderno» era praticato come stile, dato che non era possibile praticarlo come disciplina totale - come dimostra magnificamente il vacuo formalismo della Casa del Fascio di Terragni a Como. Dalla guerra in poi, il moderno ha potuto contare principalmente su un umore post partigiano di responsabilità sociale e di avanguardia consapevole nelle città settentriona­l i, sui programmi di sussidio esteri e -come ci siamo potuti rendere conto grazie a una geniale campagna di relazioni pubbliche- su Olivetti. Ma una volta appassito quell’umore, passati quei programmi in mani romane, ormai vacillante la determinazione stilistica di Olivetti... il grosso della committen­z a architettonica viene ancora dal governo e dalle classi borghesi, nessuno dei quali sa cosa farsene di un modernismo assoluto, soprattutto nelle opere domestiche, che sono state il punto di partenza della ritirata dal moderno. Ricordate i tristi casermoni fascisti di Ladri di Biciclette, gli interni bui e sovraccarichi dei primi racconti di Moravia. Pensate 165


poi ai complessi popolari realizzati oggi da Società Generale Immobiliare o persino dall’INA-Casa, o agli interni in cui le nascenti stelle del cinema italiano si fanno fotografare in casa propria: è deprimente quanto poco è cambiato, al di là dei dettagli e di alcuni miglioramenti negli standard spaziali. Ricordate anche la coppia di senza tetto morti di fame in Miracolo a Milano, il cui primo desiderio è un lampadario di cristallo, e avrete fatto un’amara scoperta sui processi mentali dei milanesi. Chiunque oggi in Italia acquisti o affitti abitazioni vuole forme e struttu­r e che diano un miglior rapporto qualità-prezzo di quanto non possa garan­t ire un perfetto moderno; dimore che siano una prova iconograficamente immediata e rassicurante della natura domestica dell’edificio-sia essa signo­r ile a un’estremità della scala sociale, oppure casalinga all’altro. Tali requisiti non escludono necessariamente la buona architettura, come ampiamente dimostrato dall’opera di Quaroni a La Martella, alla faccia delta disperazione economica, o dalla casa “Il Girasole” di Moretti, uno schiaffo al benessere economico. Soprattutto, esiste in entrambi questi esempi e in alcune altre opere a essi comparabili, una certa aspirazione progressista, un’estetica pun­t ata verso il futuro, anche quando le tecniche strutturali e gli ordinamenti sociali sembrano indietro di mille anni rispetto a quelli per cui fu creato il movimento moderno. Ma la ritirata richiama, consapevolmente e dichiaratamente, ciò che Aldo Rossi definisce «le forme del passato borghese», i Tempi Felici, i vecchi tempi in cui le città del nord prosperavano sui proventi dell’espansione industriale del primo Novecento, quando si era appena perforato trionfalmente il Sempione, quando (‘Esposizione Internazionale di Milano del 1906 era sulla boc­c a di tutta Europa e quando lo stile liberty, l’art nouveau italiana, domina­v a ancora, anche se i suoi allegri svolazzi cominciavano a cedere per effetto degli influssi d’oltralpe. A quanto pare, fu Paolo Portoghesi a chiamare lo stile della ritirata 166


con il consono appellativo di “neoliberty”, alla fine del 1958, ma il contenuto liberty dello stile era evidente fin dall’inizio, a sottolineare il fatto che non siamo di fronte a un’opera giovanile isolata (i neolibertari sono tutti gio­v ani), ma a qualcosa la cui responsabilità va divisa tra l’intero corpus del modernismo italiano. Da oltre tre anni le principali riviste di architettura romane e milanesi si occupano dei monumenti superstiti dell’art nouveau con un grado di attenzione per i dettagli che tradisce un interesse non meramente storico. Opere di Gaudi, Sullivan, D’Aronco, Horta e della scuo­l a viennese, in particolare, sono state descritte e illustrate ricorrendo persi­n o ai disegni originali e alle tavole acquerellate degli esterni, con il soste­g no di testi meno espositivi e esplicativi di quanto non fossero elogiativi e retorici. Interrogato sul suo atteggiamento nei confronti sia del neoliberty sia del suo precursore, Dorfles ha replicato (in una lettera da cui traggo le citazioni seguenti): «Oggi... ho una posizione critica nei confronti delle eccessive con­c essioni stilistiche e decadenti di alcuni gruppi milanesi e torinesi (compresi alcuni degli esperimenti di Aulenti, BBPR ecc.) ma senza per questo conside­r arli espressioni di puro provincialismo come fa Zevi». Detto da Dorfles, ciò dovrebbe metterci in guardia: per gli italiani l’art nouveau o le sue varianti locali conservano una validità perduta altrove. Dorfles prosegue con un’af­f ermazione che apre un dibattito di portata non solo italiana: «Ma sono tut­t ora convinto che il futuro, in architettura e nel design in generale, consista più in una continuazione stilistica dell’art nouveau che non dello stile Bauhaus». Ora, il problema delle alternative allo “stile Bauhaus” occupa le menti dei giovani architetti in molte parti del mondo, anche laddove non viga, come in Inghilterra, un’esplicita ostilità nei confronti dell’”architettura bianca degli anni trenta”. Si ha la sensazione che gran parte di ciò che aveva valore per l’architettura e la critica vigenti prima del 1914 sia andato perduto o sepolto sotto 167


le formulazioni stilistiche affrettate dei primi anni venti, e poi dimenticato durante la fase accademica del decennio successivo - da cui la preoccupazione degli architetti più giovani, sottolineata da Henry-Russell Hitchcock, nei confronti di problemi architettonici in voga più o meno negli anni della loro nascita. Anche se gii uomini degli anni venti avevano torto, tuttavia, e gli uomi­n i degli anni trenta perseverarono nell’errore, non è un motivo sufficiente per ritornare al principio e ricominciare tutto da capo. Gli eventi si sono succeduti troppo in fretta, persino negli anni quaranta, e l’architettura non ha il tempo di tornare indietro e riaprire vecchie questioni. Inoltre, ci sono precise ragioni per non ritornare all’art nouveau, e ciò è ancora più impor­t ante. Un revival artistico è concepibile e giustificabile unicamente quando il “rivitalizzatore” si trova culturalmente in una posizione analoga a quella del periodo che intende ravvivare - un ritorno a qualcosa di simile alla sofi- sticatezza classica e al benessere dell’Italia del quattordicesimo secolo giu­s tifica l’architettura rinascimentale del quindicesimo; il raggiungimento di un sentire democratico simile a quello ateniese nei primi anni dell’Otto- cento giustifica le style neo-grec. Ciò che mina simili giustificazioni è la pre­s enza di fattori decisamente assenti nello stile ripreso - il cristianesimo nell’architettura rinascimentale, l’industrializzazione nel neo-grec - e laddove tali fattori intrusivi siano troppo vistosi per poterli ignorare, la giustifica­z ione è destinata a fallire. Ora, una giustificazione del neoliberty basata sulla considerazione che la vita borghese a Milano è la stessa del 1900 è effettivamente insita nella pole­m ica di Aldo Rossi. Ma non regge, perché quella vita non è affatto ciò che era a inizio secolo, come Marinetti con il suo fanatico automobilismo aveva già riconosciuto a Milano nel 1909. L’art nouveau morì di una rivoluzione culturale che sembra assolutamente irreversibile: la rivoluzione domestica innescata da cucine economiche, aspirapolvere, telefoni, grammofoni e da tutti 168


quegli altri sussidi meccanizzati al bel vivere alterarono la natura della vita domestica e il significato dell’architettura domestica. Parallelamente a questa rivoluzione domestica si verificò un ripensamen­t o di idee e metodi nelle arti plastiche in generale, segnato da avvenimenti quali il Manifesto Futurista, la scoperta europea di Frank Lloyd Wright, Orna­m ento e delitto di Adolf Loos, la relazione di Hermann Muthesius al con­g resso del Werkbund del 1911, il traguardo di una pittura pienamente cubi­s ta, e così via. Tali avvenimenti sono uno spartiacque nello sviluppo dell’ar­c hitettura moderna; c’è una certa coerenza in tutto ciò che si è verificato da allora in poi, e uno scisma rispetto a quello che era successo prima. E l’art nouveau, lo stile liberty, erano successi prima. [...] .

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Il progetto e il suo inserimento nel quartiere

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I vuoti di San Salvario e le loro caratteristiche Immaginando isolati a corte le cui parti mancanti sono da colmare tramite l’inserimento di volumi, la mia ricerca è giunta alla definizione di cinque tipologie di vuoti. Il vuoto dato da un lotto tipico della tradizione medioevale, l’area data dalla differenza in altezza tra edifici, lo spazio interno ad una grande corte, spazi residuali come parcheggi o isolati a corte non terminati. Le case sono state progettate come elementi indipendenti, veri e prorpi pezzi inseriti in modo da colmare i vuoti del tessuto urbano. Non sono “invenzioni” tipologiche bensì applicazioni di modelli, tipi edilizi con spazi ed elementi standard che facilmente si plasmano a seconda delle diverse condizioni.


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Schema delle tipologie dei vuoti urbani e degli interventi 174


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Villa n째1

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Villa n째1 Villa su cortina con annessa bottega Via Principe Tommaso 30b Realizzazione Villa unifamiliare di cui i primi due piani a destinazione commerciale.

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Planimetria generale, Villa n째1 178

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Pianta piano terra con inserimento nel contesto, Villa n째1 179

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copertura

Piante, Villa n째1 180

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copertura

Piante con arredo, Villa n째1 181

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Sezione AA’, Villa n°1 182

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Sezione BB’, Villa n°1 183

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Sezione CC’, Villa n°1 184

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Prospetto su strada, Villa n째1 185


Prospetto su corte, Villa n째1 186

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Vista, Villa n째1 187


Vista, Villa n째1 188


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Villa n째2

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Villa n째2 Villa su cortina con sviluppo orizzontale Via Belfiore 59b Realizzazione Villa unifamiliare con patio.

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Planimetria generale, Villa n째2 192

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Pianta piano terra con inserimento nel contesto, Villa n째2 193

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Pianta piano terra con arredo, Villa n째2 194

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Sezione AA’, Villa n°2 195

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Sezione BB’, Villa n°2 196

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Prospetto su strada, Villa n째2 197

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Viste, Villa n째2



Villa n째3

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Villa n째3 Villa in corte Via Principe Tommaso 46 Realizzazione Villa unifamiliare interna ad una corte.

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Planimetria generale, Villa n째3 202

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Pianta piano terra con inserimento nel contesto e piano primo, Villa n째3 203

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Pianta piano terra e piano primo con arredo, Villa n째3 204

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Sezione AA’, Villa n°3 205

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Sezione BB’, Villa n°3 206

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Vista panoramica dal cortile retrostante allav Villa n째3


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Villa n째4

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Villa n째4 Villa sopraelevata C.so Dante 57 Realizzazione Villa unifamiliare duplex con accesso dal ballatoio

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Pianta piano terra con inserimento nel contesto e piano primo, con e senza arredi, Villa n°4 213

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Sezione AA’, Villa n°4 214

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Sezione BB’, Villa n°4 215

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Sezione CC’, Villa n°4 216

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Prospetto su strada, Villa n째4 217

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Prospetto su corte, Villa n째4 218

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Vista, Villa n째3 219

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Vista ad “occhio di pesce” dalla corte dellavv Villa n°3 220

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Villa n째5

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Villa n째5 Villa indipendente su area ex-industriale, lotto incompleto Via E.Lugaro 3 Realizzazione Villa bifamiliare con giardino e depandance.

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Planimetria generale, Villa n째5 224

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Pianta piano terra con inserimento nel contesto, Villa n째5 225

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Pianta piano terra con arredo, Villa n째5 226

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Pianta piano primo, Villa n째5 227

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Pianta piano primo con arredo, Villa n째5 228

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Sezione AA’, Villa n°5 229

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Sezione BB’, Villa n°5 230

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Sezione CC’, Villa n°5 231

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Prospetto Nord, Villa n째5

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Prospetto sud, Villa n째5 233

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Prospetto su strada, Villa n째5 234

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Vista, Villa n째4 235

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Vista, Villa n째4 236

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Vista, Villa n째4 237

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A ULK Caro Ulk! E io ti dico che verrà il giorno in cui l’arredamento di una cella carceraria ad opera del tappezziere di corte Schulze o del professor Van de Velde sarà con­s iderato un inasprimento della pena. Testo tratto da Ornamento e Delitto, Adolf Loos, 1910

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La scelta dei materiali e delle tecniche di costruzione La ricerca di materiali e tecnologie che garantiscano una buona sostenibilità ambientale all’intera operazione è andata in parallelo con la progettazione. In questo senso, oltre a ridurre il più possibile la copertura del suolo ho inteso creare involucro molto isolato che risparmiasse il più possibile l’impiego di energie. Ho ritenuto interessante analizzare a grandi linee il ciclo di vita di ciascun prodotto scelto, dalle materie prime utilizzate, alla preparazione, alla produzione, al trasporto ed utilizzo, stilandone, quindi, il “bilancio ecologico”. A fronte delle ricerche e delle scelte materiche effettuate durante l’iter progettuale ho ipotizzato una suddivisione basata sulla sostenibilità o meno del materiale: totalmente sostenibile/ minimo impatto ecologico altamente sostenibile/ basso impatto ecologico moderatamente sostenibile/ medio impatto ecologico non sostenibile/ massimo impatto ecologico PANNELLI IN LEGNO : nella Conferenza di Copenhagen del 2009 è emerso come sia fondamentale includere l’impiego di materiali costruttivi in legno nei futuri accordi internazionali riguardo ai cambiamenti climatici. Gli studi sull’immagazzinamento di carbonio nei prodotti in legno hanno infatti dimostrato come un incremento della produzione di legno e del suo impiego anche nel settore delle costruzioni sia auspicabile: “Wood is an important and growing European resource. Using more wood offers a simple way to reduce CO2 emissions and to encourage the further growth of Europe’s forests.” In questa ottica è da leggere la volontà di ricorrere al legno come materiale da costruzione, dal momento che per la sua produzione è richiesto un impiego sicuramente inferiore di combustibili fossili

rispetto ai materiali normalmente utilizzati in edilizia. Questi elementi permettono di classificarlo, quindi, come altamente sostenibile. VETRO CELLULARE: nonostante la materia prima possa essere ritenuta disponibile in quantità illimitata, la produzione richiede molta energia per i processi termici di fusione ed espansione, incidendo notevolmente sull’emissione di CO2 nell’atmosfera. Lo possiamo considerare un materiare non sostenibile. LANA DI ROCCIA : i minerali granulari espansi (argilla, perlite, vermiculite), la calcecemento cellulare, le fibre minerali (di roccia e di vetro) e la fibra di poliestere da riciclo (materiale derivante dal riutilizzo di bottiglie in PET) possono essere considerati moderatamente sostenibile. CLS: nella produzione del calcestruzzo, il cemento, gli aggregati e altri materiali selezionati vengono miscelati con l’acqua. Il cemento reagisce con l’acqua e indurisce legandosi alle materie inerti e inglobando tutti gli altri componenti del calcestruzzo. Sia il cemento che il CLS possono essere considerati materiali solo moderatamente sostenibili. Complessivamente si puo’ dire che il nostro edificio ha un basso impatto ambientale, essendo il materiale principale della costruzione altamente sostenibile mentre quelli moderatamente sostenibili sono utilizzati in percentuali ridotte. Km 0 Utilizzare materiali a km 0, ossia provenienti dal territorio locale (con un raggio max di 60 km), significa ridurre le emissioni di CO2 causate dai mezzi di trasporto. Si tratta di un criterio progettuale nato per ridurre ulteriormente l’impatto ambientale degli edifici. L’edilizia a Km 0, valorizzando i materiali del luogo e le tecniche costruttive locali, puo’ avere anche un importante valore sociale e culturale. Con positive conseguenze sull’aspetto paesaggistico. Ventilazione naturale Le abitazioni usufruiscono tutte da un ricircolo naturale d’aria garantito da differenze di piani all’interno dell’abitazione, da 239


doppia esposizione strada-corte e da opportuni effetti camino. L’involucro Opaco L’approccio che sin da subito ha caratterizzato le scelte progettuali è stata la volontà di rendere il più seriale, veloce ed efficiente la costruzione delle unità abitative minimizzando i costi di costruzione e, al contempo, l’impatto ambientale. Per questo si è optato per una struttura prefabbricata e modulare in pannelli in legno X-LAM, una tecnologia innovativa e altamente performante. I pannelli X-LAM vedono la luce sul mercato austriaco e tedesco per la prima volta negli anni ’90 e costituiscono il coronamento di una ricerca che mira a sovvertire, mediante elementi strutturali piani e di grandi dimensioni, la costruzione standard in legno basata sull’impiego di elementi strutturali lineari creando, così, strutture basate sulla combinazione di travi e montanti. La tecnologia X-LAM si configura nella forma di pannelli in legno massiccio a strati incrociati; il numero di strati è variabile da un minimo di tre fino a sette e questi sono incollati l’uno sull’altro in modo che le fibre siano ruotate reciprocamente di 90°. Dal momento che il nostro edificio ha luci ridotte e sempre regolari abbiamo potuto utilizzare i pannelli ad assi incrociati in senso strutturale. La tecnologia dei pannelli in legno è stata impiegata in tutto l’involucro edilizio per le pareti esterne, la copertura, il solaio ed i tramezzi interni, scegliendo per ogni tipologia pacchetti diversi in base alle esigenze ed ai requisiti. Solo il solaio controterra è realizzato con tecniche tradizionale, in calcestruzzo armato, per questioni di sicurezza statica e di comportamento termoigrometrico. Dopo un’attenta analisi di mercato abbiamo scelto i pannelli BBS della ditta Binderholz, i quali garantiscono elevate prestazioni ed i seguenti vantaggi: _ Elevato isolamento termico L’intero elemento in BBS contribuisce in tutto il suo spessore all’isolamento termico. Visto che entrambe le superfici sono 240


sempre piane, continue e chiuse, l’aria calda non riesce ad introdursi velocemente nelle giunzioni e raggiungere così l’anima dell’elemento (e quindi gli strati più freddi). _ Elevato isolamento acustico E’ impossibile che si producano dei fenomeni acustici longitudinali all’interno dell’elemento mediante fughe aperte o cavità (effetto di canale). _ Elevata protezione antincendio In caso di incendio di pannelli composti da 5 strati, per esempio, due potrebbero venire completamente distrutti dal fuoco. In tal caso, rimarrebbero tre strati di BBS con delle superfici chiuse su ambedue le facce. Cio’ garanti¬rebbe un’elevata resistenza al fuoco ed al fumo. Inoltre, si escludono a priori effetti camino, che possono prodursi in presenza di fughe aperte o di cavità. - Permeabilità al vapore acqueo Il compensato BBS, con una permeabilità media di 70 μ, frena l’entrata di vapore, senza pero’ bloccarla. Cio’ è reso possibile dal fatto che le giunzioni tra gli elementi sono state realizzate in modo professionale su tutte le superfici, visto che ogni strato longitudinale è costituito da un pannello monostrato incollato. Ecco perché normalmente si puo’ rinunciare totalmente all’utilizzo di fogli che frenano o bloccano l’entrata di vapore (con conseguenti vantaggi di prezzo, ambientali e la scomparsa di continui problemi tra le giunzioni). _ Elevata resistenza al vento _ Elevata sicurezza La scelta di questo tipo di elemento è stata valutata sia a fronte dell’alto grado di sostenibilità ambientale garantito da questi materiali sia dai buoni risultati ottenuti con i calcoli tecnici che valutano le performances dell’involucro, sia per il limitato spessore dei diversi componenti che permette di massimizzare la superficie calpestabile. Per quanto riguarda, invece, i diversi isolanti la scelta in fase di progettazione è stata fatta in primo luogo guardando all’applicazione specifica, successivamente scegliendo quelli

che meglio rispondono alle necessità ed infine veicolando la preferenza verso un prodotto poco impattante a livello ambientale. I prodotti utilizzati sono stati di due diverse tipologie: lana di roccia e vetro cellulare. La lana di roccia, oltre ad essere un materiale naturale ed avere una capacità di isolamento termico elevata, grazie alla sua struttura a celle aperte, è anche un ottimo materiale fonoassorbente. E’ incombustibile, particolare importante vista la retrostante struttura in legno, e se esposto a fiamme libere non genera né fumo, né gocce infuocate, aiutando così a prevenire la propagazione del fuoco. La resistenza alla diffusione del vapore pari a 1 μ consente di realizzare pacchetti di chiusura traspiranti. Il vetro cellulare è composto per il 60 % da sabbia di quarzo e vetro riciclato (attualmente più del 60% della massa del prodotto è derivato da tubi Neon e parabrezza di macchine e altri tipi di vetro) mentre solo per il 40% da vetro puro. Infine ho scelto di rivestire l’intero edificio con lastre in fibrocemento, migliora il comportamento termico dell’edificio e che permette di uniformare e proteggere la facciata in quanto presenta ottime caratteristiche di resistenza al fuoco e agli agenti atmosferici, inoltre è facilmente pulibile grazie a speciali trattamenti superficiali. L’involucro trasparente Le aperture costituiscono il punto debole dell’involucro quindi è stato necessario studiare attentamente l’involucro trasparente scegliendo elementi diversi a seconda dei requisiti di comfort termico e acustico richiesti. Per quanto riguarda le finestre a nord ho scelto dei vetri camera bassoemissivi stratificati in modo da adempiere sia alla funzione di isolamento termico (vetro camera basso emissivo) che di isolamento acustico (lastra stratificata con film isolante tipo PVB). Il vetro ha la doppia funzione di bassa emissività e controllo solare in inverno e di protezione solare d’estate. 241


In inverno garantisce quindi una riduzione dei costi per il riscaldamento, maggior comfort in prossimità della parete vetrata, minori rischi di formazione di condensa sulla faccia interna. D’estate vi è un miglioramento del comfort attraverso il mantenimento di una temperatura gradevole all’interno, una limitazione delle spese per l’uso dell’aria condizionata ed una riduzione della trasmissione delle radiazioni ultraviolette. Per quanto riguarda i vetri a sud abbiamo optato per un vetro camera stratificato ma non bassoemissivo in quanto le prestazioni termiche erano sufficienti per la disposizione favorevole a sud. Tutti i vetri un fattore di trasmissione luminosa molto elevato in modo che la luce penetri bene all’interno dell’ambiente. Per quanto riguarda il serramento la nostra scelta è ricaduta sul legno per continuare ad essere coerenti con i nostri input progettuali di sostenibilità e basso impatto ambientale.

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