Nuova Proposta marzo aprile 2015

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Bollettino ufficiale dell’UNEBA Unione Nazionale Istituzioni e Iniziative di Assistenza Sociale

n. 3/4 - 2015 anno XXXXI Poste Italiane SpA spediz. in abb. post. 70% - C/RM/DBC

Dolci evasioni


Alcune frasi del discorso di insediamento di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica. La Sua attenzione ai poveri è stata paragonata a quella di La Pira.

Auguri, Presidente!

Avverto pienamente la responsabilità del compito che mi è stato affidato. La responsabilità di rappresentare l’unità nazionale innanzitutto. Ma anche l’unità costituita dall’insieme delle attese e delle aspirazioni dei nostri concittadini. L’impegno di tutti deve essere rivolto a superare le difficoltà degli italiani e a realizzare le loro speranze. La democrazia non è una conquista definitiva ma va inverata continuamente.

Nel linguaggio corrente si è soliti tradurre il compito del Capo dello Stato

nel ruolo di un arbitro, del garante della Costituzione. L’arbitro deve essere - e sarà - imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza.

Per la nostra gente, il volto della Repubblica è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale, il museo.

Mi auguro che negli uffici pubblici e nelle Istituzioni

possano riflettersi, con fiducia, i volti degli italiani: il volto di chi lotta contro le ingiustizie e quello di chi cerca una via di riscatto. Foto in copertina: Detenuti del carcere di Padova impegnati nel reparto pasticceria promosso e gestito dal Consorzio sociale “Giotto”.

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SOMMARIO 3 5 8 10 12 14 15 17 20 22 24

L’economia bianca Il cerchio perfetto Chi controlla il terzo settore? Pubblica e (tuttavia) privata trasparenza Dentro la regole TerSo settore La misurazione del valore economico del volontariato Dottor Treno Norme giuridiche e Giurisprudenza Inidoneità all’esercizio della mansione Colpo d’ala


WELFARE - TERZO SETTORE

L’economia bianca di Paola Springhetti

l welfare non è una spesa ma un investimento. Se capiremo questo, innanzitutto cominceremo a non considerare il welfare come il luogo dal quale andare a prendere con facilità risorse per destinarle ad altro». Era dicembre quando Monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, diceva queste parole, purtroppo inascoltate. Che il welfare sia in crisi lo si dice da anni, affrettandosi ad aggiungere che bisogna pensare forme nuove e a volte alternative. Nel frattempo, il nostro Paese ha sempre avuto un punto di riferimento certo: la famiglia, altro istituto sicuramente in crisi, ma ancora capace di farsi carico dei membri fragili o in difficoltà – anziani, disabili, malati nel corpo e nell’anima, giovani inoccupati e adulti disoccupati… Insomma, il welfare si restringeva progressivamente, lasciando sempre più aree del bisogno scoperte, ma la famiglia teneva duro, e anzi spesso allargava il proprio carico di cura. Almeno fino a poco tempo fa, perché ora anche il welfare familiare è in crisi. Lo dicono i dati del Censis (Rapporto «Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali», in collaborazione con Unipol e “Rapporto sulla situazione sociale del paese 2014), che forniscono un paio di indicatori importanti. Il primo è che le famiglie italiane nel 2013 hanno diminuito la spesa sanitaria, cioè hanno rinunciato ad analisi e prestazioni mediche private e cure (- 5,7%) per un ammonta-

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re di quasi 7 milioni di euro. Si tratta di prestazioni non indispensabili, ma che pure possono influenzare fortemente la qualità della vita, come quelle preventive o quelle dentistiche. Ma perché le famiglie devono ricorrere alle prestazioni private? Perché il servizio pubblico non ce la fa: il 73% delle famiglie italiane ha fatto ricorso almeno una volta negli ultimi due anni a visite specialistiche o a esami diagnostici a pagamento, soprattutto perché (nel 75% dei casi) i tempi delle liste d’attesa erano talmente lunghi da vanificarne l‘utilità. Inoltre il 31% delle famiglie ha dovuto rinunciare almeno una volta negli ultimi due anni a visite specialistiche, a esami diagnostici o a cicli di riabilitazione e il 72% dichiara che si troverebbe in difficoltà se dovesse sostenere grosse spese mediche. Il secondo indicatore riguarda un settore tradizionalmente demandato al privato e in particolare alle famiglie stesse: quello della cura degli anziani. Il numero delle badanti è diminuito: 4mila in meno nel 2013, dopo anni di crescita che avevano portato il loro numero a oltre 960mila. Del resto, anche la spesa delle famiglie per la salute era andata aumentando negli ultimi anni, parallelamente ai tagli alla sanità e al welfare: tra il 2007 e il 2012 era aumentata di oltre il 9%. Poi, la contrazione, come abbiamo già detto. Sarebbe bello pensare che la contrazione della spesa sia dovuta alla contrazione dei bisogni, ma così non è. Prendiamo ad esempio il dato della disabilità: secondo il Censis la cifra di 4,1 milioni di persone che si stima siano attualmente portatrici di disabilità è destinata ad aumentare e salirà a a 4,8 milioni tra cinque anni. Analogamente, è destinata ad aumentare la domanda di assistenza per gli anziani non autosufficienti, perché la popolazione continua ad invecchiare: se la spesa complessiva per gli anziani serviti da assistenza a lungo termine è pari attualmente all’1,7% del Pil, nel 2050 l’incidenza potrebbe arrivare al 4%. Insomma, il welfare pubblico si restringe ma la domanda di servizi per la salute e di assistenza si dilata. A chi toccherà rispondere? E in quali modi? Il Censis fa notare che l‘Italia ha una quota molto bassa di assicurazioni integrative e di


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strumenti simili, sia rispetto agli Stati Uniti (oltre il 76% del totale della spesa sanitaria è coperto attraverso questi strumenti), sia rispetto ad altri Paesi europei (Francia 66%. Germania 40%): noi siamo fermi al 13,4%. Ma questo è solo un aspetto del problema, l’assicurazione integrativa è una risposta individuale per la quale abbiamo evidentemente poca propensione e che non sarà mai accessibile a tutti. La risposta va cercata in termini comunitari e politici: come dice Mons. Galantino, nel welfare occorre investire. Perché è giusto in termini di diritti e di equità sociale, e anche perché conviene sul piano economico. Quella che ormai viene definita white economy (cioé l’economia della salute, dell’assistenza e del benessere delle persone che in Italia genera oltre 186 miliardi di valore della produzione e impiega più di 2,7 milioni di addetti, tra personale medico, paramedico, addetti a servizi socio-assistenziali, ricercatori, lavoratori nelle produzioni del biomedicale e nell’industria farmaceutica ) è, insieme alla green economy, un settore in espansione che potrebbe dare ancora più frutti in termini di occupazione e di crescita, oltre che di servizi. Naturalmente a condizione che sappia intercettare i veri bisogni delle persone e di conseguenza le risposte più pertinenti e anche più “utilizzabili” dai cittadini. Prendiamo la questione delle badanti, di cui l’Italia è il Paese che fa maggiore uso tra quelli dell’area Ocse. Le famiglie le reclutano attraverso canali informali, spesso preferendo quelle che accettano di lavorare in nero (o devono farlo, perché non hanno il permesso di soggiorno), visto che le pagano di tasca propria e il risparmio è spesso un valore irrinunciabile nel bilancio familiare, senza avere la possibilità di valutarne la preparazione (leggendarie sono le aneddotiche sui piatti grondanti burro e panna cucinati con amore per anziani che dovrebbero tenere diete rigorosissime). Altri dati dicono che nel campo dei servizi alla persona il lavoro irregolare è del 40%. Cooperative e associazioni di varie parti d’Italia hanno organizzato corsi di formazione per badanti, ma sono rimaste esperienze isolate e insufficienti a ridare una vera risposta al problema. Politiche coerenti che sostengano progetti di vasto respiro potrebbero, in questo e in tanti altri campi, rispondere a bisogni oggettivi, creare lavoro e anche legalità. Investire nel welfare oggi significa investire

nella white economy, e per farlo è necessario integrare pubblico e non profit, e magari anche profit. Insieme possono mettere insieme risorse e strumenti per raggiungere due obiettivi contemporaneamente: alzare la quantità e la qualità dei servizi, ridando sicurezza e fiducia agli italiani in una settore vitale come questo e valorizzare una filiera economico-produttiva che può aiutarci a ricreare sviluppo. La situazione che oggi prevale, per quanto riguarda i rapporti tra servizio pubblico e non profit, è quella che vede quest’ultimo stretto in un rapporto di sudditanza nei confronti del primo, costretto a lavorare con progetti su tempi brevi, che non consentono investimenti e sperimentazioni a lungo termine, spesso dentro logiche di clientela tutt’altro che trasparenti o determinati da bandi che ancora puntano al massimo ribasso, senza tenere conto della qualità ed efficacia dei servizi. Con pubbliche amministrazioni che preferiscono affidare servizi alle organizzazioni di volontariato piuttosto che alle cooperative, perché così risparmiano ulteriormente, e non importa se - per definizione - un’organizzazione di volontariato non può garantire continuità e professionalità. Ciò che invece serve è una collaborazione sistematica, paritaria, trasparente tra Terzo settore e istituzioni, tra mondo del sociale e decisori pubblici, per mettere le potenzialità e le esperienze di ciascuno al servizio della comunità, individuando i modi più efficaci di utilizzare le risorse massimizzando i risultati, costruendo sistemi di servizi alla famiglia e alla persona in grado di cambiare davvero la qualità di vita – ad esempio permettendo alle donne di conciliare vita privata a vita lavorativa - ma soprattutto delineando e poi realizzando un progetto di welfare in grado di sostenere i cittadini, dando loro serenità per il futuro. Senza il Terzo settore tutto questo non si può fare, perché un’innovazione di questo genere non può essere calata dall’alto, ma deve nascere dai territori, ed è proprio nell’ambito del Terzo settore che si annidano le migliori capacità di leggere i bisogni e di individuare le risposte. In fondo, ancora una volta, ci troviamo a non fare altro che ribadire il principio di sussidiarietà, in base al quale è compito delle istituzioni promuovere le realtà associative sul territorio e creare le condizioni perché possano operare. Non solo in concorrenza con gli alti operatori – pubblici e privati – ma anche in collaborazione con loro.


TERZO SETTORE

Il cerchio perfetto Det enut i p as t i cci eri del carcere di Pado v a i ns i eme al Pres i dent e del Co ns o rz i o Gi o t t o , Ni co l a Bo s co l et t o .

È noto soprattutto per l’attività che svolge nel carcere di Padova, il Consorzio sociale Giotto. E in particolar modo per quella pasticceria che si è guadagnata molti premi e riconoscimenti di eccellenza. Il consorzio però, che si propone con il brand Officina Giotto, rappresenta anche un laboratorio imprenditoriale e sociale di grande interesse. fficina Giotto raggruppa due coope-

Orative sociali di tipo B. La Cooperati-

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va Giotto è una multiservizi nata per operare nel settore del verde e del giardinaggio, e che oggi si occupa anche di pulizie industriali e civili, gestione di parcheggi, servizi di custodia, gestione di collegi universitari, raccolta di rifiuti, costruzione di biciclette, servizi digitali e call center. Specializzata nella ristorazione è invece Work Crossing, che a Padova gestisce due ristoranti (Forcellini172 e AQuattro), il Centro congressi Padova A. Luciani, una rilevante attività di ristorazione collettiva e catering, oltre alla già citata pasticceria del carcere. Le cooperative impiegano complessivamente poco più di 500 lavoratori, di cui il 40% circa in condizione di svantaggio, per un fatturato complessi-

vo di 20 milioni di euro circa nell’ultimo anno. Officina Giotto, il cui presidente è Nicola Boscoletto, è però anche frutto di un cammino in cui competenze imprenditoriali e sociali sono maturate nel corso degli anni, fino a determinare una configurazione aziendale che ha tratti di singolarità, se non di unicità. Per approfondire questi aspetti abbiamo intervistato il responsabile dell’area giuridica della cooperativa Giotto, Gianluca Chiodo. Può delineare la fisionomia del Consorzio sociale Giotto? Il consorzio nasce alla fine del 2004 con il nome Rebus, consorzio di cooperative sociali (la denominazione attuale è del 2013). Giuridicamente è a sua volta una cooperativa sociale, normata dall’articolo 8 della legge 381/91. Non un consorzio stabile quindi, né di quelli previsti dal codice civile. Infatti siamo anche iscritti nell’albo regionale della cooperazione sociale nella sezione C, riservata a queste forme giuridiche. Come è maturata l’idea di dare vita a un consorzio sociale? È nata verso la fine del 2004. Con la coo-


TERZO SETTORE

Det enut i del carcere di Pado v a, as s unt i dal l a Co o p erat i v a Gi o t t o , al l av o ro nel cal l cent er p er co nt o del p ro v i der di Il l umi na e del l ’ULSS 1 6 di Pado v a.

perativa Giotto eravamo presenti ormai da molti anni nella casa di reclusione Due Palazzi; dal ’91 con l’annuale corso di formazione sulla gestione del verde e poi dal 2001 con la prima attività lavorativa: la realizzazione di manichini artigianali in cartapesta destinati al mondo dell’alta moda. Il 2001 è anche l’anno della legge Smuraglia, che ha consentito la nascita di lavorazioni carcerarie in vari istituti italiani. Una legge benemerita, che ha permesso l’avvio non solo del laboratorio di manichini, ma dal 2005 in poi anche di attività quali l’assemblaggio di valigie per Roncato, la costruzione di biciclette Esperia, il call center e altre. Ma la nascita del consorzio è legata più direttamente a un’altra lavorazione, la gestione delle cucine del carcere. A che anno risale? Al 2004, grazie a un progetto sperimentale Pea 14 del Ministero della Giustizia, che affidava le cucine di dieci carceri italiane ad altrettante cooperative sociali con l’obiettivo di rinnovare le strutture, adeguare le procedure, elevare la qualità del servizio e formare professionalmente i detenuti.

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Com’erano gestite prima le cucine? Con i cosiddetti lavori domestici gestiti

dall’amministrazione carceraria. Un sistema che non garantiva qualità e soprattutto era profondamente diseducativo. Prova ne è l’assoluta inincidenza ai fini della recidiva. Per chi viene impiegato nei lavori intramurari infatti la recidiva è sostanzialmente pari alla media, cioè 70 per cento, anche se ci sono ottime ragioni per pensare che in media gli ex detenuti che una volta scarcerati tornano a delinquere siano ancora di più. Per i detenuti coinvolti in un lavoro vero, come quelli promossi dalla cooperazione sociale in varie carceri d’Italia, la recidiva crolla al 2-3 per cento. E la pasticceria com’è nata? Il progetto del Ministero considerava qualificante ampliare l’offerta lavorativa per i detenuti con lavorazioni rivolte all’esterno, non solo ai carcerati stessi, come le cucine. Così abbiamo invitato gli amici della cooperativa sociale Work Crossing, con un curriculum nella ristorazione che già allora era di tutto rispetto e una storia imprenditoriale per certi versi simile alla nostra, di trasferire all’interno del carcere un piccolo laboratorio di pasticceria esistente da anni. La specialità erano le colombe pasquali e i panettoni, di questi ultimi si producevano circa quattromila pezzi l’anno. E oggi? Nel 2014 ne abbiamo prodotti più di 80mila.


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Una crescita vertiginosa. Ma torniamo al consorzio. Il consorzio nasce nel 2004 anche per facilitare le relazioni con varie figure importanti per il reinserimento delle persone svantaggiate, quali direzione del carcere, educatori, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, operatori dei comuni e delle Asl per quanto riguarda le dipendenze, la psichiatria, l’invalidità e l’handicap. Il consorzio inoltre nasce per fornire servizi alle consociate, ad esempio il cosiddetto ufficio sociale, che si cura di selezione, ac-

compagnamento, counseling e formazione dei lavoratori svantaggiati, cioè tutti i detenuti e, all’esterno, i lavoratori con disabilità fisiche e psichiche con cui lavoravamo fin dall’inizio degli anni Novanta. Come si è evoluto il consorzio? Alcune potenzialità che intravvedevamo all’inizio non si sono sviluppate, altre invece sono cresciute al di là delle nostre previsioni. Ad esempio ci eravamo proposti che il consorzio non esaurisse la propria attività in carcere ma allargasse i servizi al territorio, non solo i prodotti, cosa che invece hanno continuato a fare in proprio le singole cooperative. Nel tempo invece è cresciuta la fisionomia del consorzio come referente per i rapporti istituzionali, soprattutto il Ministero della Giustizia, il provveditorato alle carceri del Triveneto e la direzione della casa di reclusione.

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Quali altre funzioni svolge il consorzio Giotto? Soprattutto la gestione dell’attività commerciale. Il consorzio può acquisire commesse che poi gira alle consorziate. Lo statuto infatti prevede che possa essere diretto contraente di servizi che reperisce sul mercato esterno e assegna alle consorziate attraverso delibere del consiglio di amministrazione, formato dai legali rappresentanti delle cooperative aderenti. Anche gran parte dell’attività di marketing e co-

municazione è svolta dal consorzio a beneficio delle consorziate, penso ad esempio ai rapporti ultimamente piuttosto intensi con le testate televisive e i giornali e alla nostra presenza sul web e i social network. Può fornirci indicazioni generali sulla struttura finanziaria dell’opera e sul sistema di finanziamento? L’anno sociale 2014 delle due cooperative si è chiuso con un volume d’affari complessivo di circa venti milioni di euro. Le cooperative sostengono la propria struttura finanziaria quasi esclusivamente attraverso le attività che svolgono, non godendo di contributi pubblici se non per la parte prevista dalla legge a sostegno degli inserimenti lavorativi di persone in condizione di svantaggio, attraverso sgravi contributivi e fiscali. Le attività nascono da commesse pubbliche e private. Gli appalti pubblici sono acquisiti tramite procedure di gara o convenzioni di inserimento lavorativo secondo la legge 381/1991; gli appalti privati derivano da rapporti commerciali o da ricerche di mercato del committente. Sembra il ritratto di un’impresa orientata al mercato. Nei rapporti con clienti, fornitori e banche, la Giotto ha sempre fatto fronte ai propri impegni grazie alla solidità finanziaria e ad adeguate risorse economiche amministrate con un attento controllo di gestione. Va detto anche che fino ad alcuni anni fa per le cooperative di tipo B come la Giotto era possibile accedere a contributi finalizzati al sostegno di progetti sociali. Oggi questi contributi si sono molto ridotti. Inoltre per accedervi è necessaria una progettazione più complessa e impegnativa rispetto al passato. Però siamo contenti di camminare con le nostre gambe. E l’aspetto sociale? Pensiamo che il sociale residuale, assistenziale, abbia ormai i giorni contati nel nostro paese e non solo. Credo che oggi la sfida della qualità e della professionalità sia uno dei più significativi banchi di prova per le imprese sociali. Intervista a cura della Redazione


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Chi controlla il terzo settore? di Sergio Zanarella na delle più grandi agevolazioni che

Uhanno avuto gli enti del terzo settore nel corso degli anni è stata l’assenza di controlli, di cui hanno potuto usufruire sia i pochi, ma non assenti, furbetti del quartiere, sia coloro che in buona fede hanno semplicemente ignorato la necessità di rispetto delle regole, giustificata dalla causa sociale portata avanti, di fronte a cui adempimenti, sanzioni e tassazioni sembrano dover fare un passo indietro. Ma tutto ciò rende effettivamente un servizio agli enti del terzo settore e ne favorisce veramente la crescita? Bisogna dire che spesso gli enti non profit hanno fatto forti campagne per l’ottenimento di agevolazioni soprattutto fiscali e hanno perso l’occasione di incentivare il rispetto di alcune regole che se applicate rendono un ritorno non indifferente in credibilità e onestà. A ciò si aggiunga che l’unico organismo che poteva avere una funzione di indirizzo e di controllo, l’Agenzia del Terzo Settore, è stata abolita dal governo Monti: quindi chi controlla e tutela il non profit?

Democrazia e trasparenza

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In realtà i fatti recentemente emersi a Roma, in cui una cooperativa è diventata il centro di affari malavitosi, ci fa immediatamente pensare che con l’espansione delle organizzazioni non profit e della loro importanza, maggiore è la possibilità che i vizi che affliggono il Paese si ritrovano anche in quella che dovrebbe essere la parte sana e virtuosa della società. Di fronte alle inadempienze e alle lungaggini burocratiche dello stato occorre un’autocritica del terzo settore. Troppe volte la confusione tra i tanti soggetti ha finito per tutelare soprattutto le zone d’ombra e gli stessi attori del terzo settore hanno perso svariate occasioni per rivendicare maggiore trasparenza. Considerata l’importanza del non profit in Italia, che ormai rappresenta più del 5 per cento del prodotto interno lordo, occorre rivendicare un inquadramento serio e positivo del terzo settore e occorre anche che le norme e i vincoli a carico degli enti non profit siano maggiormente conosciuti e diffusi fra le associazioni stesse. Occorre affiancare alle richieste di agevola-

zioni e facilitazioni, la promozione del rispetto delle regole e delle prassi che possono permettere all’intero settore di fare un salto di qualità, due principi da rispettare su tutti gli altri: democrazia e trasparenza. La democrazia, che è un concetto strettamente connesso prima con lo schema associativo e di conseguenza presupposto di agevolazioni fiscali, è ancora troppo spesso considerata come un ostacolo per gli enti non profit piuttosto che come fonte di ricchezza. Associazioni di promozione sociale, organizzazioni di volontariato, associazioni sportive dilettantistiche e organizzazioni non lucrative di utilità sociale sono tra le prime a dover avere un’impostazione e una struttura democratica, ma spesso sottoposte ai controlli del fisco risultano essere fuori dal rispetto della loro natura democratica. Dove maggiormente le associazioni fanno fatica ad accettare le regole democratiche è nell’ammissione di nuovi soci e nell’elezione degli organi amministrativi, tutto perché i fondatori temono che gli ultimi arrivati possano stravolgere la gestione ed i principi dell’associazione stessa: facile capire come ciò è un non senso se al centro dei principi associativi da rispettare mettiamo la democrazia. Soffrono ancora di più le realtà che nascono da una esperienza vissuta dal presidente, in tal caso la coincidenza fra associazione e individuo è pressoché sicura e la gestione del gruppo viene affidata sempre alle stesse persone. L’associazione è un contratto aperto a cui possono aderire tutti gli individui della collettività che ne condividono gli scopi; nello spirito della legge è fortemente connesso l’interesse associativo con quello della società e l’associazione è una società (intesa come gruppo sociale) intermedia. Difendere l’associazione dal possibile ingresso di sempre maggiori membri della comunità di riferimento equivale a disconoscere l’associazione come formazione sociale intermedia fra lo Stato e l’individuo in cui le persone realizzano la propria personalità. Ecco perché chi fa parte di un organismo di terzo settore non deve commettere l’errore di identificare l’ente non profit come una propria creatura, poiché ne altererebbe il signifi-


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cato e ne limiterebbe le potenzialità. Ancora di più perderebbe l’occasione di coinvolgere le persone nella gestione e nella partecipazione di pezzi di vita sociale, aspetto fondamentale per far emergere il terzo settore come modello culturale sostenibile e capace di un cambiamento della società. Le associazioni sono da questo punto di vista delle palestre di educazione civica in cui l’individuo può imparare a prendersi cura di interessi più larghi di quelli personali e avvicinarsi gradualmente ad un idea di Stato in cui tutti aderiamo, partecipiamo e decidiamo. Ed allora ecco che, per partire dalla domanda che ci siamo posti all’inizio, è più facile rispondere, senza aver paura di nessun conflitto di interessi, affermando che il terzo settore può controllarsi da solo, può aspirare ad ottenere un luogo, che sia un’agenzia, un’authority, o un organismo similare, non necessariamente di carattere pubblico, piuttosto dotato di stabilità e poteri di controllo a cui partecipano soggetti designati dagli stessi enti non profit. Tante leggi regionali e nazionali sul terzo settore prevedono osservatori di diverse tipologie: tali organismi potrebbero essere razionalizzati e dotati di poteri più concreti. Il terzo settore non deve aver paura di auto-controllarsi, né tanto meno di fare i propri interessi, perchè se si arricchisce il terzo settore si arricchisce la società intera. Non applicherei questa proprietà transitiva ad una società di capitali, né tanto meno però ad una associazione che non faccia propri quei valori di democrazia e partecipazione sopra descritti.

Venditori di donazioni

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Siamo pronti adesso ad affrontare una seconda domanda strettamente connessa al principio di trasparenza: quanti si fidano degli enti non profit? Prescindendo da dati statistici, intendo riferirmi ad alcuni comportamenti posti in essere da grandi enti non profit che a mio parere suscitano perplessità. La domanda potrebbe essere posta in questo modo: gli enti del terzo settore riescono a porre in essere prassi e strumenti che generano fiducia nella collettività? Su questo a mio parere si può fare una distinzione fra enti di piccola dimensione e quelli di grandi dimensioni: nel primo caso la fiducia è generata dal rapporto diretto con i donatori e i beneficiari e questo sopperisce anche ad alcune carenze di comunicazione della propria mission e delle attività tipiche dell’ente. Per quanto riguarda le grandi associazioni invece essendo più difficile conoscerle da vicino, è molto importante predisporre strumenti, sia all’atto della raccolta fondi sia nelle attività concrete, che non gene-

rino dubbi sulla buona causa da sostenere. Da questo punto di vista devo dire che i venditori di donazioni che spesso troviamo nelle grandi stazioni e nei centri commerciali non generano adeguata fiducia, così come un bussolotto lasciato solo presso un negozio o un bar. Così come tutto il sistema di protezione civile si sta contornando di un alone di poca chiarezza e soprattutto fa sempre più fatica a rimanere dentro i canoni del volontariato. Anche in questo campo le associazioni non hanno prodotto documenti e modelli che potessero agevolare la fiducia, e da parte sua il legislatore non si è preoccupato di normare in maniera adeguata la funzione del controllo degli enti non profit, tenendo in scarsa considerazione il fatto che la gestione delle risorse da parte degli enti senza scopo di lucro è un aspetto assai delicato, poiché tali enti perseguono spesso interessi pubblici per mezzo di contributi ed erogazioni effettuati da soggetti terzi con uno specifico fine. In effetti gli amministratori delle organizzazioni non profit sono equiparabili agli amministratori pubblici, poiché ricevono contributi da raccolte pubbliche e devono essere in grado dimostrare come utilizzano tali fondi. Su questa materia gli enti non profit hanno dovuto prendere spunto dalla dottrina aziendalistica, la quale da tempo sottolinea l’importanza di perseguire la massima trasparenza della gestione nell’interesse di tutti i vari partecipanti all’attività dell’impresa (stakeholders). Se la trasparenza è un valore per le imprese, lo è a maggior ragione per gli enti senza fini di lucro, poiché l’assenza di interessi proprietari implica la necessità di trasparenza per un migliore coinvolgimento di tutti i soggetti coinvolti nell’attività dell’ente, ai fini di un più incisivo perseguimento degli scopi dello stesso. Gli enti dipendono, ai fini del finanziamento delle loro peculiari combinazioni produttive, dai finanziamenti pubblici e degli apporti dei donatori. Tali soggetti danno, e sempre più daranno in futuro, risorse al mondo non profit, in relazione alla verifica concreta di ciò che viene fatto dagli enti, e di cui gli stessi rendono conto. La trasparenza negli enti è un dovere morale degli amministratori, ma è anche un’opportunità per favorire lo sviluppo degli stessi; nel mondo non profit questa esigenza non è da tutti percepita, anche per le lacune della normativa di settore. Seppure negli enti non profit vi è ancor oggi una tendenza alla riservatezza, tale atteggiamento non può costituirne la linea guida delle attività, pena la loro esclusione dalla comunità cui appartengono.


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Pubblica e (tuttavia) privata trasparenza di Alessio Affanni

’ennesimo scandalo di una pubblica

Lamministrazione appaltante e dei pri-

vati appaltatori ha meritato (nell’ultimo caso, quello romano) l’appellativo di vero e proprio “mondo di mezzo”, definizione che indica non semplicemente l’esistenza di un episodico o isolato modo di agire disonesto, ma una vera e propria realtà tangibile, fatta di strategie pianificate, persone, pessime abitudini clientelari, brama di soldi e potere. Una Esistono leggi per la pre- realtà che prescinde venzione e la repressio- dall’ambito geografine della corruzione e co e dall’appartenenza dell’illegalità nella pubbli- politico-istituzionale chi, con le proprie ca amministrazione e nel di mani, al di là dei pubprivato sociale. Manca- blici (propagandistici) no, quindi, leggi più ade- proclami, di volta in guate o persone con la volta, la crea e la manvolontà di non eluderle? tiene in vita. Non esiste più una distinzione (ammesso che vi sia mai stata) tra sud, centro o nord Italia (casi analoghi a quello di Roma, si sono avuti a Milano, a Venezia e in molte altre parti del nostro Paese). Non esiste perciò un fenomeno isolato ma una vera e propria modalità operativa diffusa, sistematica, con le ovvie eccezioni, questo è chiaro. In quei casi, però, si tratta di tante persone oneste che ricoprono ruoli o funzioni, non di categorie di ruoli o funzioni che possano garantire o attribuire, nelle persone, qualità di imprescindibile onestà e trasparenza. E’ evidente, tuttavia, che sembra di essere passati da una situazione in cui alcune persone delle pubbliche istituzioni scendevano a compromessi o si lasciavano coinvolgere con fenomeni di criminalità, a una situazione in cui la criminalità è collusa con le istituzioni, fino, in alcuni casi, a integrarsi con esse.

Ripartiamo dalle premesse Con la Legge n. 190 del 2012 erano state approvate le “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione“. Sono stati poi emanati decreti attuativi (D.Lgs. n. 33 del 2013, D.Lgs. n. 39 del 2013, D.P.R. n. 62 del 2013) affinché l’Italia si dotasse di un sistema organico di prevenzione della corruzione, che ha portato all’approvazione del Piano Nazionale Anticorruzione da parte della CIVIT (ora Autorità Nazionale Anticorruzione ANAC). Nel 2014, a seguito di un’istruttoria con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), è stato emanato un Atto Aggiuntivo al fine di assicurare l’applicazione della normativa anche nelle istituzioni scolastiche. Discorso analogo vale per il Ministero della Salute, per il comparto sanitario. Gli adempimenti delle Regioni e degli Enti locali sono stati stabiliti in un’intesa in sede di Conferenza unificata (nel 2013). Si è anche giunti all’approvazione di un documento tecnico che definisce gli incarichi vietati ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche. Per la formazione in materia di prevenzione della corruzione è stata anche istituita la Scuola Nazionale di Amministrazione (SNA). Secondo quanto programmato nel Piano Nazionale Anticorruzione, le pubbliche amministrazioni locali devono adottare Piani Triennali di Prevenzione della Corruzione, sottoposti a monitoraggio, anche allo scopo di rendere tali strumenti sempre più incisivi. Per l’assolvimento di tali adempimenti è stato appositamente creato il sistema informatico denominato “PERLA PA”. Il Piano Nazionale individua tre obiettivi: • ridurre le opportunità in cui si manifestino casi di corruzione;


DIRITTO E SOCIETA’ Anco ra una fo t o di det enut i al l av o ro nel cal l cent er di “Gi o t t o ”.

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• aumentare la capacità di scoprire casi di corruzione; • creare un contesto sfavorevole alla corruzione. Quindi le norme esistono: come mai, allora, ancora questo dilagare di fenomeni di illegalità? Alcuni sostengono che le norme anticorruzione determinano un eccesso di procedure, che vessano gli amministratori onesti mentre rischiano di offrire coperture a chi ha bisogno di opacità. Da un lato è vero. Esiste una carenza di risorse umane nella P.A. ma in altri casi una certa inefficienza, ad esempio laddove i Comuni anziché predisporre il Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione si limitano a riprenderlo, senza elaborazione specifica, da altri Comuni (prassi operativa sanzionata dall’ANAC). Qualcuno rileva anche che ci possono essere norme non del tutto efficaci, anche in virtù di successivi aggiornamenti. Ad esempio il Decreto n. 33/2013 ha abrogato un articolo del Decreto Legge n. 83/2012: la nuova normativa, studiata per rendere il più possibile tracciabili le spese della P.A., ha di fatto ridotto i dati a disposizione dei cittadini, in quanto non è più obbligatorio pubblicare i contratti stipulati con i fornito-

ri di prestazioni o servizi (è prescritto solo l’obbligo di pubblicare le informazioni in tabelle riassuntive). Vi sono quindi norme che possono rimanere inattuate, oppure inefficaci o efficaci ma aggirabili. Esiste infatti una volontà elusiva delle leggi da parte dei cosiddetti “furbetti”… che sarebbe meglio definire “farabutti” (che ricoprano ruoli istituzionali o meno), anche per ripristinare una giusta scala di valori e non esaltare sempre la scaltrezza, che spesso si traduce in capacità di agire disonestamente restando impuniti (come se si trattasse di una virtù anziché di un disvalore). Un esempio di vincoli eludibili, a vantaggio di chi vuole trarne ingiusto profitto, a danno della collettività? Le S.p.A. private partecipate da amministrazioni pubbliche possono ottenere l’affidamento in gestione, da parte di un ente pubblico, della realizzazione di un grande evento (fiere o eventi sportivi internazionali, ecc.) o della costruzione di un’opera, una struttura o un’infrastruttura. Per tali S.p.A. partecipate c’è la possibilità di fruire di ordinanze (e risorse) straordinarie in deroga alle leggi vigenti, normalmente previste in caso di calamità naturali. Inoltre l’affidamento dei lavori può avvenire in certi casi senza osservare le norme di dirit-


DIRITTO E SOCIETA’

to pubblico che prescrivono la selezione mediante gara d’appalto. In ogni caso può sempre esserci una gara d’appalto che si conclude con l’assegnazione ad amici, in cambio di ricompense in favori o denaro. Rintracciare, poi, i soldi dispersi o trafugati dai bilanci pubblici è pressoché impossibile. Un’insidia analoga per la trasparenza della P.A. è anche quella dei dirigenti assunti senza concorso pubblico, possibile in deroga alle norme vigenti ma divenuta poi prassi consolidata. Alcuni di questi, non occorre nemmeno precisarlo, scelti non sempre per competenza ma per “preceden-

te promessa” o “recuperati” a seguito di mancate elezioni politiche. Quindi al di là delle leggi contro la corruzione, occorrono misure e strategie di prevenzione e di contrapposizione.

Responsabilità degli enti privati Analogamente, per gli enti privati, nell’ordinamento italiano, esiste la responsabilità penale derivante da illecito amministrativo, introdotta dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001 e dalla Legge n. 146 del 2006. All’ente può venir imputata la responsabilità per fatti illeciti commessi dai propri amministratori, effet-

DENTRO LE REGOLE di Giulia Forino

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Cosa sono le regole? Chi le fa? Chi le fa rispettare? Quando si inizia a conoscere le regole? Queste sono domande sempre all’ordine del giorno tra genitori e insegnanti. Quali sono le differenze tra obbedienza, buona educazione, rispetto delle regole che poi, da grandi, diventeranno anche rispetto della legalità? Da sempre il primo soggetto che ha avuto il compito di educare alle regole, anche per la propria sopravvivenza, è stata la famiglia. Alla famiglia si è poi affiancata la scuola. Ci sono stati e ci sono anche altri “attori educativi”, che in taluni casi sono molto importanti (la Chiesa, le organizzazioni sociali, politiche e sindacali che si sono occupate di dare opportunità di aggregazione e formazione per i giovani). Oggi il ruolo della Chiesa è, almeno in parte, scemato, mentre è divenuto quasi irrilevante il ruolo educativo di altre forme organizzative. Inoltre oggi “educare alle regole” è molto difficile per diversi ordini di motivi: sono tempi di grande caos sociale e politico, in cui i riferimenti democratici e istituzionali sono messi a dura prova (abbiamo ancora nell’anima gli eventi della la tragica vicenda degli attentatori di Parigi). In più se guardiamo alle istituzioni, punto di riferimento naturale in ogni Paese e in ogni tempo, si fa molta fatica a trovare degli esempi da seguire e da indicare ai più giovani. E quindi i genitori e gli insegnanti sono chiamati a riempire un vuoto, che sembra diventare una vera e propria voragine. E’ quindi una sfida epocale, ma la sconfitta non è un’opzione ammissibile.

Ma educare vuol dire far rispettare le regole? La scuola deve avere fra le sue priorità il rispetto delle regole? Credo che lo Stato sia lo scheletro della società: è lo Stato che attraverso le sue leggi e i suoi regolamenti tiene in piedi il corpo sociale e permette il vivere collettivo. Il corpo sociale ha bisogno di un’ossatura molto forte per permettere a ogni individuo di mettere a frutto la proprie capacità, cercando di realizzare le proprie aspirazioni, senza pregiudicare la libertà degli altri, e garantendo a tutti di vivere una vita dignitosa e sicura. Per questo lo Stato deve avere leggi e procedure prestabilite, per assicurarsi che queste leggi siano rispettate. Le sanzioni, tra cui il carcere, sono alcuni dei principali strumenti che lo Stato utilizza per evitare che le sue regole non siano rispettate. Per evitare che le ossa siano colpite… e rotte. Ma nessuna legge viene rispettata di per sé e, peggio, nessuna sanzione può evitarne la trasgressione. Il rispetto delle leggi è innanzitutto rispetto del vivere civile e questo è uno dei frutti del lavoro delle famiglie e della scuola. Ed ecco come scuola e famiglia educano al vivere civile. In famiglia la testimonianza dei genitori: sono fondamentali il loro rispetto reciproco e il rispetto delle regole e delle promesse fatte col bambino stesso (le leggi alla fine sono patti), rispetto dei suoi spazi e dei suoi tempi. Poi la vita di tutti i giorni ci dà una serie di opportunità educative straordinarie: rispettare le regole del Codice della strada (soprattutto quando non corriamo il rischio di incor-


DIRITTO E SOCIETA’

tuati anche a illecito vantaggio dell’ente stesso. Pertanto viene richiesta l’adozione di organismi e procedure interne di controllo. Queste disposizioni hanno funzione sia preventiva che attenuante, in caso di fatto illecito accertato. La normativa si rivolge ad associazioni con o senza personalità giuridica, fondazioni, società di persone o di capitali ed enti pubblici economici. E anche su queste disposizioni vi sono alcune perplessità: la predisposizione di tali strumenti interni, atti ad evitare commissioni di reato, può comportare notevoli costi che, a volte, possono anche superare l’entità della sanzione. Per cui determinati

rere in una multa), ma anche soccorrere chi ha bisogno, mettersi il casco, la cintura di sicurezza, far sedere una persona anziana, un bambino, pagare il biglietto dell’autobus, lasciare il proprio nome se si riga una macchina in una manovra di uscita dal parcheggio… Questa testimonianza continua crea una mentalità in cui è chiaro il senso delle regole. La scuola insegna educazione civica fin dalla materna, anche se magari non lo si sa, non essendo ancora un orientamento di insegnamento definito e diretto: ma l’educazione civica inizia già alla scuola materna, nel rispettare se stessi e rispettare le cose degli altri, dividersi in compiti e svolgerli, ascoltare chi parla, aspettare il proprio turno, non essere maneschi. Nelle classi successive il percorso educativo prosegue attraverso lavori di gruppo, con la possibilità di vivere un micro-universo che è proprio la classe, con persone in difficoltà, persone che mentono, persone che non sanno mentire, con chi vuole fare una cosa, chi un’altra: ed allora che si fa? Ottime sono quelle realtà dove le regole vengono decise insieme da bambini ed insegnanti e si stabiliscono anche le conseguenze per chi non rispetta le regole che ci si è dati Darsi delle regole a scuola e in famiglia non deve essere il fine, ma il mezzo per costruire un pensiero, un esercizio nell’uscire da se stessi e dai propri bisogni, per capire che per vivere insieme bisogna perdere un po’ se stessi e accordarsi su principi comuni. Non può finire qui, perché una società in cui si rispettano le regole e basta è una società morta. Ma non può finire qui perché è fondamentale anche saper superare le regole: ci si pongono domande, si ascoltano le domande, ci si pen-

enti, soprattutto di grandi dimensioni, potrebbero preferire il rischio di commettere il reato piuttosto che adattarsi (si perde quindi l’intento deterrente della norma). La legge non specifica quali modelli vadano attuati, stante anche la notevole differenza dei soggetti a cui si rivolge: si ritiene, comunque, che sia l’organo assembleare (o quello amministrativo, nel caso delle fondazioni) a dover decidere le modalità di autocontrollo. Nel caso in cui vengano accertati comportamenti illeciti sono previste sanzioni pecuniarie o interdittive (che, sebbene più efficaci, offrono scappatoie, in quanto si può effettuare una scissione parziale dell’ente, isolando il ramo d’attività nel quale è stato commesso il reato). Previsto sa, ci si confronta, si costruisce un pensiero anche il commissariamento, critico. Tutto questo affinché non si facciano malgrado sia discutibile che il accettare le regole in modo coercitivo o per commissario, nominato dal terrore, ma nella lenta comprensione dei suoi tribunale, possa trovarsi ad significati più profondi e così quelli del miagire affiancato dalla dirigenglior vivere per tutti. za che ha commesso il reato o Quindi lo Stato deve mettere i paletti affinsotto la quale il medesimo è ché chiunque sappia che esistono delle regostato commesso. le che tutelano la vita comune e che chi non le rispetta verrà allontanato: violando un diEsistono rimedi ritto, ne pagherà le conseguenze. efficaci? La famiglia e la scuola insegnano a pensare Come ovviare a tutto questo (tirare fuori) e decidere come è giusto comrischio di corruzione, sia portarsi, quindi accettare le regole che ci sianell’ambito pubblico che in mo dati anche se può essere impegnativo, faquello privato? In ambito ticoso o limita la nostra libertà. pubblico si sta pensando Se la scuola o la famiglia perdono il loro ruoai “whistleblowers”, termine lo e si orientano verso un comportamento inglese che si può tradurre sanzionatorio e punitivo non ci sarà nessuno con dipendenti che rivelano che compia il faticoso dovere di insegnare fatti di corruzione di cui siano come si sta al mondo e perché. venuti a conoscenza nei loro Rischiamo di avere generazioni future che uffici. In alcuni paesi ha funnon comprendendo il senso del rispetto delle zionato: ben lungi dall’essere regole le osserveranno fino a quando non “spioni” si tratta di “osservatroveranno la possibilità di evaderle, senza tori delle regole” (non delaessere visti. Accoglienza, condivisione, rizione ma assunzione di respetto per il bene comune e per gli altri posponsabilità). Certo va cautetrebbero non essere mai compresi ed assorbilata sia la persona segnalata, ti, impedendo così alla nostra società di evolaffinché non rimanga vittima vere e di sviluppare comunità sempre più di segnalazioni strumentalizcooperative e collaborative, dove il bene cozate e mendaci, così come va mune diventa più importante del bene e del garantita la riservatezza di bisogno personale. coloro che rivelano fatti di efPer evitare questo rischio occorre fare un salfettiva corruzione. Già to di qualità: occorre anche insegnare a tral’Agenzia delle Entrate aveva sgredire. Se non si è d’accordo con delle reutilizzato questa misugole inique o illegittime, occorre avere il ra attivando una e-mail per coraggio di trasgredirle e testimoniare il raccogliere le denunce dei nostro disaccordo, con l’accettazione delle propri dipendenti. conseguenze, affinché vi sia un mondo più Un altro elemento, pensato giusto.


DIRITTO E SOCIETA’

per le pubbliche amministrazioni ma che può offrire spunti anche al privato sociale, è l’iniziativa dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, che renderà disponibile sul proprio sito internet una raccolta ed analisi di buone pratiche in materia di trasparenza. Una prima buona innovazione per tentare di arginare il fenomeno di asservimento della funzione pubblica a interessi illeciti, dovrebbe essere quella di separare le funzioni di indirizzo politico-amministrativo (in cui si annida la corruzione) dalle funzioni di controllo. Come può un responsabile della prevenzione della corruzione prevenire e contrastare efficacemente l’eventuale condotta illecita dell’organo di indirizzo politico se è nominato da quello stesso organo e a quello risponde del suo operato? Un’altra utile misura di prevenzione, che non può prescindere da modifiche di legge, è quella di impedire processi

lunghi, prescrizioni e pene esigue (si vedano anche i recenti casi di prescrizione per reati in materia ambientale, dalle discariche abusive all’inquinamento degli ambienti con l’amianto). Infine, leggi efficaci che snelliscano le procedure amministrative, affinché non siano vessati inutilmente gli operatori onesti, a vantaggio di coloro che eludono le regole. Non mancano le leggi: vanno recuperati, forse, alcuni princìpi e, comunque, vanno valorizzati quegli operatori pubblici o privati che dimostrano di svolgere la loro attività secondo le regole e che non si limitano a dichiarare di condividerle. Recuperare la premialità dei comportamenti virtuosi, quindi, ancor prima che sanzionare quelli illeciti. Evitando che il nostro diventi un Paese che si regge sull’illecito... e prima che diventi tutta “terra bruciata”, dove non c’è più niente da rubare o su cui speculare.

terSo settore

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i “terzo settore” o “settore non profit” (il “primo” è quello dell’economia pubblica, di marchio statale, il “secondo” quello dell’economia di impresa legata al profitto) si parla molto, soprattutto per attribuirgli la chiave del traghetto in grado di aiutarci a superare il guado della crisi. Di fronte alla frantumazione di antichi protagonisti svuotati di credibilità, la “società impaurita” sembra voler offrire al non profit luoghi di approdo ideali, con il rischio di grosse illusioni soprattutto se pretende di affidargli il ruolo promotore di un nuovo miracolo italiano. Ruolo difficile, peraltro offuscato dalle ombre lunghe della corruzione proiettate dal falso non profit sul non profit vero. Questa realtà ci rende evidenti almeno due necessità. La prima riguarda l’esercizio dei controlli che vanno accettati, anzi promossi, fuori da ogni presunzione di “verginità” in nome dell’assenza del fine di lucro; controlli – peraltro previsti dalle leggi e dagli statuti - da mettere in atto in primo luogo là dove le iniziative vengono decise e attuate: a partire dai soci, dai collegi sindacali e dagli stessi cittadini abilitati a tale funzione da norme partecipative. La seconda è quella della testimonianza di moralità, atteso che occorrono atteggiamenti profetici, da intendere non come annuncio del futuro ma come denuncia del presente.

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In questa prospettiva il terzo settore deve dare contenuto ai propri slogan e diventare coscienza critica del sistema per contribuire a proporre modelli di comportamento nel segno della solidarietà senza ricorrere a furbizie e mimetismi. TerSo settore, appunto. Settore pulito. GP.M.


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La misurazione del valore economico del volontariato di Renato Frisanco n un recente libro Giovanni Moro1 ha evi-

Idenziato come il settore delle organizza-

zioni non profit (ONP) sia stato inventato tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 dagli accademici della Johns Hopkins University, invenzione suffragata dai risultati di una ricerca sul fenomeno in 13 paesi tra cui l’Italia. La tipologia di ONP proposta dagli accademici americani è divenuta la Classificazione Internazionale ed è utilizzata dagli Istituti nazionali di statistica. La definizione di ONP è quella di organizzazione di natura giuridica privata che non persegue il profitto per i loro proprietari o gestori. Il punto di criticità della rilevazione della J. Hopkins è quello di privilegiare la dimensione economica di questo variegato mondo e quindi il fatto che producano beni e servizi, favoriscano l’occupazione e contribuiscano alla formazione del PIL. Il loro valore, dunque, è essenzialmente economico e tutto rivolto all’offerta, con almeno due conseguenze negative. La prima è che non vi è alcuna distinzione tra i diversi tipi di ONP - in relazione al perché i cittadini si mettono insieme per fare un’attività - e vengono marginalizzate le organizzazioni che operano per tutelare i diritti dei cittadini, per prendersi cura dei beni comuni o per promuovere o sostenere l’empowerment dei soggetti più deboli. La seconda conseguenza è che l’assunzione del valore di mercato non è accompagnata da misure di valutazione del benessere prodotto sulla comunità, di come l’attività viene realizzata (vi è democraticità interna? E’ espressione di democrazia partecipativa?) e di quali effetti produca e quindi del suo impatto sociale, tutti indicatori di risultato che vanno oltre il PIL. La concezione di un universo rilevante in termini economici, a fronte della debolezza del welfare pubblico, tende altresì ad avvalorare la deriva verso uno Stato “dimissionario”, residuale sia come produttore di servizi che come garante del

benessere e dei diritti dei cittadini. E’ evidente in questa concezione di “Stato minimo“ il richiamo al welfare americano. La Johns Hopkins è tornata alla ribalta nel nuovo secolo con la proposta, subito accettata in Europa, della misurazione del valore economico del “lavoro volontario”, sia quello dei cittadini solidali organizzati che quello di singole persone che operano informalmente. Tale proposta ha, prima, ispirato l’elaborazione del “Manuale di misurazione del lavoro volontario“, realizzato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) per stabilire l’equivalenza tra il lavoro volontario e quello professionale e, poi, le prime ricerche ISTAT che hanno stimato il valore economico del lavoro delle ONP - e ora dei volontari tout court - e la relativa incidenza sul PIL. Tale misurazione è in fase di perfezionamento e permetterà comparazioni a livello internazionale. Non è un caso che questi studi valorizzino il contributo economico delle ONP in un frangente in cui il sistema di welfare è in crisi di sostenibilità e in una prospettiva di riforma del Terzo settore che si annuncia favorevole in termini di risorse liberate a suo favore (dal 5 per mille istituzionalizzato, all’ulteriore incentivazione delle donazioni, ai minori oneri fiscali). Andrebbe tutto bene se non fosse che il Terzo settore viene visto nell’ottica angusta - rispetto al “paradigma morale” che lo caratterizza - di miniera occupazionale, da una parte, e di pilastro fondamentale del welfare (il “primo settore” come enfaticamente rilevato dal premier in carica), con rischi di “delega“ senza nel contempo far avanzare processi di concertazione e di programmazione condivisa delle politiche sociali. In tale situazione si prospetta il rischio di risposte ancora più disomogenee ai bisogni-diritti dei cittadini sul territorio nazionale. Nel paradigma morale vi è invece l’autentico e peculiare contributo del volontariato e del Terzo settore come sog-

1 Moro G.,“Contro il non profit”, Roma-Bari, Editori Laterza, 2014.


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getti che operano in ragione di valori quali la centralità della persona, la relazione e la condivisione, la giustizia sociale e il riconoscimento dei diritti, l’azione profetica e innovativa, la responsabilità nella cura dei “beni comuni”, la partecipazione alla costruzione di comunità. Non semplicemente strumenti erogatori ma soggetti partner delle istituzioni che a partire dai bisogni ne codificano la domanda, creano nuovi servizi che gestiscono in termini di qualità e coinvolgono la cittadinanza. Nel “paradigma economico”, invece, vi è il rischio di favorire un Welfare del Terzo settore piuttosto che una sua sussidiaria e incisiva presenza in termini di innovazione, di gestione interna virtuosa delle ONP, di partecipazione alla governance del sistema. Vi sono poi tre aspetti di criticità in questo impianto, in riferimento al volontariato. Il primo riguarda la focalizzazione sul “lavoro volontario“ che è un ossimoro, un paradosso, una contraddizione in termini, che non a caso la legge 266 del 1991 ha affrontato distinguendo con chiarezza l’azione volontaria dal lavoro. L’uso di questa locuzione sembra dar conto della debolezza odierna di entrambi gli “oggetti”: da una parte, la crisi del lavoro, sempre più rarefatto, atipico e precario, dall’altra, l’appannamento del volontariato, visto come attività di “utilità sociale” piuttosto che come dono e gratuità, secondo recenti ricerche. D’altra parte nel 2011 si è avuta la proclamazione dell’«Anno europeo delle attività di volontariato che promuovono una cittadinanza attiva», non del “lavoro volontario”. Tuttavia la UE, che ha fatto proprio il manuale OIL, non brilla per coerenza perché in altri importanti documenti è contaminata dall’approccio “occupazionomico”, mettendo insieme volontariato e imprese sociali, facendo corto circuito tra lavoro e volontariato e chiedendo di «stabilire il valore pecuniario del volontariato»2. Vi è poi il problema della definizione di volontario adottata dalle rilevazioni degli Istituti di Statistica, inteso come soggetto della gratuità, ma non necessariamente della solidarietà, mentre per la nostra legge sul volontariato sono peculiari e necessarie entrambe le caratteristiche per la sua identità. Tra i 6,3 milioni di “volontari”, pari al 12,6% della popolazione nazionale ultra13enne, censiti nella rilevazione Multiscopo ISTAT del 2013, vi sono sia coloro che perseguono l’«interesse comune» degli

associati (bocciofile, associazioni sportive e ricreative, partiti politici e sindacali, organizzazioni religiose), sia coloro che si fanno carico dell’«interesse generale» (i volontari della protezione civile, dei servizi alla persona, dell’attivismo civico). E’ evidente che se faccio parte di un‘associazione bocciofila o di neocatecumenali più che donare il mio tempo e le mie competenze agli altri le condivido con gli associati. Attribuire valore economico al contributo che i “volontari” così definiti offrono alla società comporta il rischio di livellare tutto, le attività altruistiche dei cittadini solidali e quelle pro-associative degli altri e di non considerare il “valore aggiunto” delle prime che alimentano il principio costituzionale della solidarietà producendo beni relazionali, fiducia e benessere generale, aspetti non misurabili su scala economica né monetizzabili per contratto o convenzione. Un altro aspetto importante da considerare è quello che enfatizzando il valore economico dell’azione volontaria in termini di ore di “lavoro” equivalente si perde di vista la valutazione del risultato e l’impatto dell’azione volontaria, sia nell’attività ordinaria che a seguito di progettualità innovative o sperimentali che aprono nuovi scenari di servizio e di cura dei beni comuni. Quale cambiamento genera l‘azione solidale rispetto al problema o al bisogno assunto? L’indagine multiscopo ISTAT citata si sofferma esclusivamente sulla positività delle ricadute che connotano l’esperienza del volontario. Emergono note positive, già riscontrate in precedenti ricerche, che testimoniano quanto il volontario benefici in termini relazionali, di accrescimento della propria coscienza civica, di benessere personale («si sentono meglio con se stessi»). Ma è sufficiente a valutare l’esperienza del singolo volontario o della sua associazione? Non è un po’ autoreferenziale? Non sarebbero necessarie anche serie e puntuali verifiche circa l’operato, i risultati acquisiti e documentabili al fine di per migliorare quello che viene fatto al di là dell‘autogratificazione dei protagonisti? L’accentuazione sulle ricadute positive in termini di benessere personale e di vita relazionale vanno sicuramente bene ai fini di una campagna di promozione del volontariato ma non per dare un’idea precisa dell’obiettivo a cui mira il volontariato, ovvero il cambiamento sociale.

2 Cfr., Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema strumenti statistici per misurare il volontariato, Bruxelles, 10 dicembre 2013.


SANITA’

Dottor Treno di Franco Iurlaro

Dopo aver parlato (N.P. 1-2/2015) della cura primaria sul territorio, proponiamo un viaggio in treno come possibile percorso terapeutico

fronte della stimata crescita della popo-

Alazione anziana gli studi sulle terapie

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non farmacologiche acquisiscono un ruolo centrale e un’importanza strategica nei confronti delle politiche sociali per i prossimi decenni. I limiti e le controindicazioni degli interventi farmacologici prolungati hanno fatto emergere l’esigenza di esplorare e sperimentare nuovi tipi di interventi riabilitativi di natura non farmacologica. Una cura originale proviene dall’Olanda: è la “terapia del viaggio“, studiata in particolare per le persone, ospiti di residenze protette, che manifestano un desiderio di fuga, ansia e irritabilità che li porta a camminare avanti e indietro. In questi casi si offrono degli scenari virtuali che ricreano l’idea di un immaginario viaggio verso casa, creando una specie di spazio ferroviario, con stimolazioni visive e uditive, per far riaffiorare emozioni sepolte e per riattivare i processi della memoria. In Sassonia, nell’ex Germania dell’Est, si è analogamente lavorato sulla “terapia del treno”, anche attraverso la dimensione di gioco che accumuna grandi e piccini nei plastici ferroviari, realizzati e “vissuti” nei giardini delle residenze protette. Il treno come simbolo del viaggio, come strumento della memoria, come momento di aggregazione con gli altri residenti della struttura, con i familiari, con gli alunni delle scuole e con il volontariato. Tale strumento è stato recentemente preso in carico da alcune residenze protette per anziani non autosufficienti del panorama italiano.

Train-therapy viaggiatori nel tempo Attraverso questo esperimento, attuato a Ronchi dei Legionari (GO) dalla Residenza Protetta “Corradini”, si è capito come anche il gioco con il “treno da giardino” possa rappresentare una terapia non farmacologica – se adeguatamente seguita – riprendendo in sé i temi e la metafora del viaggio, la memoria, lo scambio generazionale quando curiosità, sorpresa e divertimento sono patrimonio comune di nonni e nipoti. Il percorso è stato intrapreso con gli obiettivi di mantenimento degli aspetti relazionali, creativi e di espressione del sé già contemplati e raggiunti attraverso la valutazione degli standard di qualità interni (Sistema Q&B). Gli obiettivi del progetto stanno nel favorire gli aspetti motivazionali dell’espressione di sé, promuovere la socializzazione, stimolare la creatività, favorire nuovi aspetti identificativi, garantire un benessere psico-fisico del qui e ora, creare una memoria storica da condividere con il territorio e le scuole. Il segreto del successo di questa attività, che è un gioco, sta nel fascino che il treno è capace di trasmettere. Voglia di evasione, emozione di un viaggio verso l’ignoto e desiderio di conoscenza si fondono catalizzandosi in un solo oggetto, protagonista incontrastato della fantasia. Si concretizza così il contatto con il treno, attraverso la fruizione di un viaggio reale, con una destinazione significativa per gli ospiti. A lungo termine s’intende “far entrare” le componenti del territorio in struttura attraverso la collaborazione con le scuole, le associazioni ferroviarie e di modellismo e con la realizzazione di un progetto di scambio intergenerazionale tra nipoti e nonni. E’ previsto l’utilizzo di una serie di indicatori di processo e di risultato, attraverso idonee schede di valutazione, e la loro raccolta ed analisi periodica. Riguardano le persone in cura e la loro partecipazione, l’autonomia di fruizione della postazione da


SANITA’

parte di ospiti ed esterni, i viaggi programmati ed eseguiti, le attività programmate all’esterno. L’estensione del progetto prevede anche attività con altre associazioni di riferimento del settore modellistico e storico (https://www.treni.dagiardino.it; http://www.ferclub.eu; http://www.museoferroviario.triestecampo marzio.it). Periodicamente l’animatore raccoglie a sé il gruppo e raggiunge la postazione, facilita una persona a turno a prendere possesso del quadro comandi e avvia il treno; promuove l’interazione sociale attraverso l’oggettostimolo “treno”, nonché il confronto sul tragitto che il treno dovrà seguire simulando il viaggio reale che si andrà successivamente ad immaginare e fare. L’animatore stimola gli aspetti mnemonici attraverso la rievocazione di viaggi e ricordi attinenti l’oggetto stimolo, coinvolge gli ospiti nell’esprimere le proprie preferenze, idee, progetti per l’evoluzione dell’impianto e coordina la corretta fruizione dell’impianto da parte di tutti i partecipanti. Sono previsti tra i 40 e i 50 minuti complessivi ad incontro settimanale, fatto salvo il gioco “in autonomia”. Il successivo viaggio “reale” in treno, a piccoli gruppi, è programmato attraverso il confronto con la creatività e i desideri dell’ospite, emersi nelle fasi di relazione promosse dall’animatore durante gli incontri di gioco. E’ in corso anche la sperimentazione con ospiti affetti da demenza, in modalità di gruppo, prevedendo anche la creazione di gruppi eterogenei formati da utenza con deficit cognitivo e residenti già autonomi nell’utilizzo dello strumento. La sperimentazione ha coinvolto sinora 15 anziani selezionati tra i residenti in relazione al grado di autonomia cognitiva ( da 0 a 3 della Scala CPS), capacità relazionale, stato di depressione (punteggio medio 5 della Scala DRS). I primi dati rilevati hanno confermato l’efficacia della terapia proposta con un miglioramento evidente dello stato depressivo e un potenziamento delle capacità mnemoniche/cognitive.

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Residenza protetta per anziani “Corradini” - 34077 Ronchi dei Legionari (GO), via D’Annunzio 14 - tel. +39 0481 474577, mail: direzione@casanzianironchi.191.it, facebook: Train Therapy, referenti: Maura Marangon, Esteban Marchetto, Daniela Bergamasco.

Destinazione benessere L’altro esperimento terapeutico si svolge in Lombardia. Il treno virtuale è l’imprescindibile strumento per attuare tale terapia non farmacologica indicata per la prevenzione e cura di alcune problematiche generate dai disturbi comportamentali che si manifestano in anziani con demenza senile. Ispirandosi ai valori del carisma guanelliano (la centralità della persona, il circondare d’affetto e il clima di famiglia), l’équipe direttiva è arrivata alla considerazione che tale approccio risponde in modo adeguato ai bisogni-desideri delle persone anziane accolte nella casa di riposo. Al secondo piano della Casa di Riposo san Gaetano è stata ricreata una sala d’aspetto di una stazione e uno scompartimento di un vagone ferroviario da utilizzare come spazio terapeutico. Il setting comprende: poltrone, una parete laterale con un monitor che assume il ruolo di finestrino virtuale, cappelliera con valigie di cartone, quadretti con stampe d’epoca e riviste di viaggi. Grazie a un sistema computerizzato scorrono filmati ad hoc di ambienti esterni ripresi da treni in movimento e sono riprodotti i suoni reali del viaggio. La posizione frontale delle poltrone favorisce il contatto visivo e l’attivazione di dinamiche dialogiche tra i “passeggeri” con condivisione del rituale e stimolazione dei ricordi. La valutazione dell’efficacia della terapia avviene attraverso l’osservazione e la compilazione da parte dell’operatore di schede d’indagine che aiutano l’équipe a raccogliere preziosi dati (è possibile consultare il primo report sul sito www. casadirispososangaetano.it). Oltre al vagone ferroviario si è creato un ambiente preparatorio: suoni, tabellone con orari, foto e valigie diventano accorgimenti utili per ricreare la banchina di una stazione ferroviaria. L’équipe multidisciplinare ha selezionato un gruppo di anziani. La totalità degli anziani coinvolti presenta un MMSE non somministrabile, con indici della scala NPI UCLA eterogenei in evidenze multiple di disturbi del comportamento; inoltre la maggior parte dei soggetti presenta un deficit motorio che li assoggetta all’uso di carrozzina. Ogni anziano inserito nella programmazione ha un numero mensile di viaggi variabile a seconda della necessità di una somministrazione al bisogno e della calendarizzazione usuale. Dopo il rito della timbratura del biglietto l’anziano è invitato a salire sul vagone e a godere dell’esperienza. Gli obiettivi che ci si pone


SANITA’ 19

di raggiungere sono molteplici e rispondono a due aree: il rilassamento (o attenuazione dei disturbi comportamentali) e la rievocazione. Il distacco dell’anziano dalla realtà, associato alla difficoltà di stare in ambienti chiusi e rinforzato dal desiderio di fuga, può portare all’inasprimento dei disturbi comportamentali. Il viaggio virtuale diventa in questo senso preziosa risorsa ed esperienza di vita, una rievocazione dei ricordi. Porta a risultati provati e documentati, riducendo in alcuni casi l’uso di farmaci per contenere i disturbi comportamentali. Gli indicatori di processo e di risultato utilizzati sono: l’accettazione del contesto virtuale, il completamento del viaggio proposto, la presenza di spontaneità nella relazione con l’operatore, il grado di rilassamento, l’assenza del disturbo comportamentale manifestato prima del viaggio, la rievocazione dell’esperienza vissuta, la richiesta di poter effettuare ulteriori viaggi, il volere custodire il biglietto ferroviario consegnato alla partenza ed infine la riduzione o il mantenimento del carico farmacologico. Nonostante il progetto sia attivo da meno di un anno, i primi risultati sono significativi e incoraggianti. La quasi totalità degli anziani coin-

volti ha accettato la realtà virtuale (93%) e completato il tragitto proposto (85%). Svariati sono i disturbi comportamentali rilevati: in molti presentano disorientamento (80%) e un’importante attività motoria (60%). In percentuale minore sono presenti: deliri, allucinazioni, apatia, irritabilità, disinibizione e disturbi dell’alimentazione e del sonno. Da parte degli anziani coinvolti il sorriso e i ringraziamenti non sono mancati; segni significativi della percezione di benessere. I viaggi positivi, ovvero le terapie che hanno avuto un alto grado d’efficacia nello stemperare i disturbi comportamentali e/o nel favorire la reminiscenza si attestano all’80%. Parte degli esiti negativi (soprattutto in fase iniziale) può essere imputata alla poca confidenza degli operatori con un nuovo strumento quale il treno virtuale.

Casa di Riposo San Gaetano - Opera don Guanella, 21040 Caidate di Sumirago (VA), Via Mazzini, 14. caidate.amministrazione @guanelliani.it www.casadiripososangaetano.it referenti: Luca Lodi, Cristina Faraco, Damiano Pitzalis, Rosalia Arcolese, Orlando Prete.


* a cura di Alessio Affanni e Sergio Zanarella

Norme giuridiche e Giurisprudenza n.161 STATO LEGGE DI STABILITA’ 2015 Supplemento ordinario n. 99 alla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 300 del 29 dicembre 2014

Pubblicata la Legge n. 190 del 23 dicembre 2014 (legge di stabilità per il 2015). Per quanto riguarda le misure relative al lavoro è stato mantenuto per tutto il 2015 il bonus IRPEF di 80 euro in busta paga per i lavoratori dipendenti con redditi al di sotto dei 24.000 euro annui. La dotazione del fondo per il diritto al lavoro dei disabili viene incrementata di 20 milioni di euro annui. Istituito il fondo “La buona scuola”, con la dotazione di 1.000 milioni di euro per il 2015 e di 3.000 milioni di euro annui a decorrere dal 2016, per il personale docente. Al fine di incentivare la natalità e contribuire alle spese per il suo sostegno, per ogni figlio nato o adottato tra il 1º gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017 viene riconosciuto un assegno mensile (960 euro annui) erogato a decorrere dal mese di nascita o adozione, a condizione che il nucleo familiare di appartenenza abbia un valore ISEE non superiore a 25.000 euro annui. L’assegno verrà corrisposto, su richiesta, dall’INPS. L’importo mensile raddoppia (cioè 160 euro al mese) in caso di famiglia in condizioni di povertà assoluta (valore ISEE inferiore a 7.000 euro annui). Con successivo decreto verranno stabilite le disposizioni attuative. A decorrere dal 1º gennaio 2015 vengono trasferite alcune risorse in un fondo per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati. Previsto anche uno stanziamento di 250 milioni di euro dedicato al mantenimento della social card. Viene inoltre istituito un fondo con una dotazione di 112 milioni di euro per il 2015, da destinare a interventi in favore della famiglia, includendo lo sviluppo dei servizi socio-educativi per la prima infanzia. Il fondo per le politiche della famiglia viene incrementato di 5 milioni di euro dal 2015 al fine di sostenere le adozioni internazionali. Mantenute per il 2015 le detrazioni fiscali IRPEF su ristrutturazioni edilizie (il 50% dei costi sostenuti) e per interventi di riqualificazione energetica degli edifici (il 65%). Una quota delle risorse destinate al finanziamento del Servizio sanitario nazionale (50 milioni di euro), a decorrere dal 2015 sarà destinata alla prevenzione e alla cura delle patologie connesse alla dipendenza da gioco d’azzardo. Si prevede la sperimentazione di modalità di controllo dei soggetti a rischio, mediante l’adozione di software che durante il gioco comunichino al giocatore

messaggi di allerta. L‘Osservatorio appositamente istituito per queste problematiche, trasferito al Ministero della Salute, sarà rideterminato nella sua composizione (con successivo decreto), assicurando la presenza di esperti anche delle associazioni operanti nel settore. Per quanto concerne gli aiuti umanitari e le organizzazioni impegnate in tale attività, viene stabilito che le cessioni di beni, destinati ad essere trasportati o spediti fuori dell’Unione Europea in attuazione di finalità umanitarie, non saranno imponibili agli effetti dell’IVA. Lo stanziamento del fondo nazionale per le politiche sociali viene incrementato di 300 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2015. Analogamente viene incrementato lo stanziamento del fondo per le non autosufficienze, anche per sostenere interventi in favore delle persone affette da sclerosi laterale amiotrofica (SLA), con 400 milioni di euro per l’anno 2015 e di 250 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2016. Il 5 per mille viene confermato e reso stabile, sia per il 2015 che per gli anni successivi. Al fine di assicurare trasparenza ed efficacia nell’utilizzazione di tali risorse, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri saranno definite le modalità di redazione e pubblicazione del rendiconto da parte dell’ente beneficiario. Previste sanzioni in caso di violazioni. Per la liquidazione della quota del 5 per mille del 2015 viene autorizzata la spesa di 500 milioni di euro. Per la riforma del terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale viene autorizzata la spesa di 50 milioni di euro per l’anno 2015, di 140 milioni di euro per l’anno 2016 e di 190 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2017.

REGOLAMENTO SUL MICROCREDITO Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 279 del 1° dicembre 2014

Pubblicato il Decreto del Ministro dell’Economia e Finanze n. 176 del 17 ottobre 2014, Regolamento di disciplina del microcredito (cioè un credito di piccolo importo destinato ad imprenditori che non possono ottenere prestiti dalle istituzioni bancarie tradizionali), in attuazione dell’art. 111 del Decreto Legislativo n. 385 del ‘93. Il Regolamento disciplina le modalità con le quali il microcredito potrà supportare l’avvio o lo sviluppo di iniziative imprenditoriali. I destinatari di tali finanziamenti saranno le attività di lavoro autonomo o di microimpresa, purché non in possesso della partita IVA da più di 5 anni, con un numero di dipendenti non superiore alle 5 unità nel caso di imprese e non superiore a 10 nel caso di società. L’ammontare mas-

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simo del prestito è di 25.000 euro (aumentabile, in certi casi, di 10.000 euro), con una durata massima di 7 o 10 anni, a seconda della finalità del prestito stesso. Previsti anche finanziamenti destinati a promuovere progetti di inclusione sociale in favore di persone fisiche che si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità economica e sociale. Il limite d’importo di questi finanziamenti è fissato a 10.000 euro (per massimo 5 anni). Gli enti erogatori dei finanziamenti devono essere iscritti nell’apposito elenco degli operatori del microcredito, disciplinato nel Testo Unico Bancario, e dovranno erogare anche i servizi accessori e strumentali, come l’assistenza ed il monitoraggio dei soggetti finanziati.

te, oppure avvalersi del supporto della Regione Lombardia per la donazione oppure, infine, procedere all’indizione di una gara pubblica; • se il bene non è riutilizzabile, l’ente si impegna a classificarlo per una sua corretta valorizzazione. Possono richiedere i beni sia enti pubblici che privati (inclusi enti ecclesiastici riconosciuti ed organizzazioni del terzo settore iscritte nei registri regionali). Le domande possono essere presentate in qualsiasi momento dell’anno. L’assegnazione segue l’ordine cronologico di richiesta. Gli enti assegnatari dovranno trasmettere alla Regione una relazione attestante l’avvenuto utilizzo del bene assegnato e la Regione potrà effettuare controlli, anche a campione.

REGIONI SICILIA BASILICATA RETE REGIONALE PER LA GESTIONE CLINICA DEI SOGGETTI AFFETTI DA SCLEROSI MULTIPLA

SERVIZIO DI ODONTOIATRIA SPECIALE PER DISABILI E PAZIENTI A RISCHIO

Supplemento ordinario n. 29 alla Gazzetta Ufficiale Regione Sicilia n. 45 del 24 ottobre 2014

Bollettino Ufficiale Regione Basilicata n. 41 del 28 ottobre 2014

Con Decreto dell’Assessore alla Salute del 15 settembre 2014 viene creata la Rete regionale (suddivisa in 4 aree territoriali) per la gestione clinica dei soggetti affetti da sclerosi multipla. Viene approvato il documento tecnico “Percorso diagnostico terapeutico assistenziale integrato per la gestione della sclerosi multipla”, parte integrante del presente Decreto. Viene inoltre istituita la Commissione regionale per la Sclerosi Multipla, con il compito di: • proporre aggiornamenti tecnici del presente documento e dei percorsi diagnostico-terapeutici; • verificare e monitorare il corretto funzionamento dei Centri regionali della Rete e vigilare sulla puntuale applicazione di quanto disposto nel presente provvedimento.

Con la Legge Regionale n. 31 del 27 ottobre 2014 si è provveduto all’istituzione del Servizio di odontoiatria speciale per disabili e pazienti a rischio. La Regione garantisce l’assistenza di odontoiatria nell’ambito del Servizio Sanitario Regionale. L’attività di odontoiatria per disabili e pazienti a rischio è svolta, a partire dall’anno 2015, presso un presidio ospedaliero per acuti individuato da ciascuna Azienda sanitaria locale (ASL) nel territorio di competenza. Le ASL possono individuare forme di collaborazione con le associazioni di volontariato finalizzate all’assistenza di tali persone.

LOMBARDIA UTILIZZO DEL PATRIMONIO MOBILIARE DISMESSO DALLE STRUTTURE SANITARIE E SOCIOSANITARIE

UMBRIA REGOLAMENTO PER I SERVIZI SOCIOASSISTENZIALI A CARATTERE RESIDENZIALE

Bollettino Ufficiale Regione Lombardia n. 47 del 18 novembre 2014

Con Deliberazione di Giunta regionale n. 10/2637 del 14 novembre 2014 sono state fornite indicazioni operative in meriato alla promozione e coordinamento dell’utilizzo del patrimonio mobiliare dismesso dalle aziende e strutture sanitarie e sociosanitarie (individuate dalla Legge regionale n. 33/2009). Viene definita la procedura: dopo aver dismesso formalmente un bene secondo le procedure vigenti, l’ufficio aziendale preposto ne valuta e certifica lo stato conservativo, in particolare per quanto riguarda arredi, apparecchiature biomedicali e beni informatici. Saranno possibili diversi percorsi: • se il bene è riutilizzabile, l’ente può donarlo direttamen-

Bollettino Ufficiale Regione Umbria n. 52 del 12 novembre 2014

Approvato il Regolamento regionale n. 4 del 10 novembre 2014 relativo all’autorizzazione al funzionamento dei servizi socioassistenziali a carattere residenziale per le persone adulte in situazione di disagio e marginalità sociale. Il Regolamento stabilisce i requisiti strutturali ed organizzativi richiesti alle strutture che intendano svolgere tali attività. Le tipologie delle strutture individuate e disciplinate sono: • la comunità di accoglienza sociale; • le strutture di pronta accoglienza.

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LAVORO

Inidoneità all’esercizio della mansione Alcune considerazioni e suggerimenti operativi

1. Come appare evidente dalla legislazione esaminata, non è previsto che sia il datore a poter richiedere una visita di accertamento dell’idoneità alla mansione. Questa può aver luogo solo autonomamente (visite periodiche attuate dal medico competente) o su richiesta del lavoratore. Pertanto il datore di lavoro resta tagliato fuori dal sistema fino a quando non verrà rimesso in gioco ai fini del “repechage”. Trattasi di un ulteriore esempio della diffidenza e dell’ostilità del legislatore nei confronti dell’impresa, per comprendere la quale occorrerebbe addentrarsi nei contorti meandri della psico-patologia di massa. Salvo, ovviamente, Sulla base del quadro nor- appellarsi alla fine stessa impresa mativo e giurisprudenziale alla per mantenere o presentato nel precedente accrescere numero di Nuova Proposta l’occupazione (un “repe(pp. 18-20), suggeriamo al- collettivo chage”), come se cune soluzioni operative. il mantenimento o l’accrescimento dell’occupazione fossero opzioni volontaristiche rimesse alla discrezionalità delle imprese. Non si può invece affatto escludere che sia lo stesso il datore di lavoro a ravvisare la necessità di una verifica medica, magari constatando comportamenti anomali sul lavoro. Non dimentichiamo, infatti, che aleggia sempre sull’Ente il rischio di responsabilità oggettiva per danno all’ospite, laddove emergesse ad esempio che l’amministrazione abbia constatato o ricevuto segnalazione di anomalie sul lavoro pur non supportate da alcun riscontro medico (ovvero non ancora riscontrate), ma riconducibili a possibile assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope senza intossicazione né conclamata dipendenza. In questi casi, specie nei più conclamati, sarà sempre opportuno allontanare il dipendente dal servizio (sospensione in attesa di accertamenti di idoneità, da coprire con ferie, RoL, permessi a debito in Banca ore, ecc.). In simili frangenti l’Ente datore di lavoro potrà appellarsi alla Conferenza Unificata Stato - Regioni, seduta del 30 ottobre 2007, ove ai sensi dell’art. 8, comma 6 della legge 5 giugno 2003 n. 131, sono state tra l’altro adottate metodologie di accertamento da parte del medico competente circa la assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope. Al comma 3 del punto “Modalità di attivazione ed esecuzione degli accertamenti sanita-

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ri” viene prevista, con tutte le cautele e le delicatezze del caso, una certa iniziativa del datore di lavoro. Comma 3: Accertamento per ragionevole dubbio: in adeguamento alle direttive comunitarie in materia, il lavoratore viene sottoposto ad accertamento di idoneità alla mansione anche (oltre al controllo sanitario periodico) quando sussistano indizi o prove sufficienti di una sua possibile assunzione di sostanze illecite. Le segnalazioni di ragionevole dubbio, in via cautelativa e riservata, vengono fatte dal datore di lavoro o suo delegato, al medico competente che provvederà a verificare la fondatezza del ragionevole dubbio e, se del caso, ad attivare gli accertamenti clinici previsti di sua competenza. 2. Non facciamoci illusioni: in pratica, nel settore socio-assistenziale, fatta eccezione per alcune grandi Istituzioni, il “repechage” è una soluzione improbabile. Dobbiamo, al riguardo, tenere a mente l’affermazione del Tribunale di Firenze del 2003, più sopra citata, secondo cui il rinvenimento di idonee mansioni non deve comportare una modifica dell’assetto organizzativo aziendale. Inoltre, il CCNL Uneba esclude che il repechage avvenga assoggettando l’Ente a maggiori oneri. In definitiva, non è richiesto che il datore di lavoro eserciti la fantasia nell’inventare soluzioni. Gli standard di organico, sia che derivino dalla convenzione con l’Ente pubblico, sia che siano stabiliti in autonomia, sono sempre commisurati al volume del servizio: X operatori su Y ospiti. Tutti i posti debbono essere coperti, tutte le assenze debbono essere sostituite. In un simile contesto, da considerarsi generalizzato nel nostro settore (sempre salvo i mega – Istituti) non vi sono mansioni alternative né di pari livello né di livello inferiore. 3. Allo stesso modo, per caratteristiche intrinseche del servizio, non vi è differenza tra una inabilità permanente totale ed una inabilità permanente parziale (eufemisticamente ma anche furbescamente definita “idoneità con limitazioni”). Risponde ai valori culturali del nostro settore che l’assistenza “alla persona” richieda un’attività personalizzata, non massificata, non del tutto standardizzabile e non parcellizzabile. Salvo casi eccezionali, non è possibile che un operatore sostituisca un altro operatore solo per alcune incombenze. Gli Enti pertanto, al sopravvenire di una inidoneità permanente parziale, fatti gli opportuni tentativi di “repechage” in mansioni diverse, la assumeranno come se si trattasse di una inabilità totale ai fini dei conseguenti adempimenti.


LAVORO 23

4. Da quanto precede, discende quasi con automatismo che le inidoneità permanenti alla mansione diano luogo, purtroppo, ad una risoluzione del rapporto di lavoro. Saranno al riguardo da tener presenti i seguenti accorgimenti: • L’impossibilità del ”repechage” dovrà essere “dimostrata” dal datore di lavoro in sede prima amministrativa e poi eventualmente giudiziale. Le amministrazioni degli Enti dovranno pertanto attrezzarsi con tutte le attestazioni documentali atte a supportare il provvedimento (convenzioni, standards, libro unico ecc.). • Al di sopra dei 15 dipendenti, la risoluzione per sopravvenuta inidoneità alle mansioni costituisce licenziamento per giustificato motivo oggettivo (cfr. Tribunale del lavoro Perugia 7.03.2013), pertanto soggetto ad obbligatorio tentativo di conciliazione ai sensi della L.92/2012 (“Riforma Fornero”). La procedura da rispettare è la seguente: L.28.6.2012 n.92 -Art. 7. 1. Ferma l’applicabilità, per il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, dell’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all’articolo 3, seconda parte, della presente legge, qualora disposto da un datore di lavoro avente i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18, ottavo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro del luogo dove il lavoratore presta la sua opera, e trasmessa per conoscenza al lavoratore. 2. Nella comunicazione di cui al comma 1, il datore di lavoro deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento medesimo nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato. 3. La Direzione territoriale del lavoro trasmette la convocazione al datore di lavoro e al lavoratore nel termine perentorio di sette giorni dalla ricezione della richiesta: l’incontro si svolge dinanzi alla commissione provinciale di conciliazione di cui all’articolo 410 del codice di procedura civile. 4. La comunicazione contenente l’invito si considera validamente effettuata quando è recapitata al domicilio del lavoratore indicato nel contratto di lavoro o ad altro domicilio formalmente comunicato dal lavoratore al datore di lavoro, ovvero è consegnata al lavoratore che ne sottoscrive copia per ricevuta. 5. Le parti possono essere assistite dalle organizzazioni di rappresentanza cui sono iscritte o conferiscono mandato oppure da un componente della rappresentanza sindacale dei lavoratori, ovvero da un avvocato o un consulente del lavoro.

6. La procedura di cui al presente articolo, durante la quale le parti, con la partecipazione attiva della commissione di cui al comma 3, procedono ad esaminare anche soluzioni alternative al recesso, si conclude entro venti giorni dal momento in cui la Direzione territoriale del lavoro ha trasmesso la convocazione per l’incontro, fatta salva l’ipotesi in cui le parti, di comune avviso, non ritengano di proseguire la discussione finalizzata al raggiungimento di un accordo. Se fallisce il tentativo di conciliazione e, comunque, decorso il termine di cui al comma 3, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore. 7. Se la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, si applicano le disposizioni in materia di Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI) e può essere previsto, al fine di favorirne la ricollocazione professionale, l’affidamento del lavoratore ad un’agenzia di cui all’articolo 4, comma 1, lettere a) e b), del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. 8. Il comportamento complessivo delle parti, desumibile anche da verbale redatto in sede di commissione provinciale di conciliazione e dalla proposta conciliativa avanzata dalla stessa, è valutato dal giudice per la determinazione dell’indennità risarcitoria di cui all’articolo 18, settimo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, e per l’applicazione degli articoli 91 e 92 del codice di procedura civile. 5. E’ dunque in questa fase conciliatoria davanti alla Commissione provinciale che il datore di lavoro potrà giocare tutte le sue chances. Se impossibilitato al repechage, rappresenterà la propria situazione di impossibilità supportandola con idonea documentazione. Supponiamo tuttavia che l’Ente abbia una alternativa occupazionale da proporre compatibile (si dovrà inevitabilmente trattare di una mansione di livello inferiore, altrimenti il datore di lavoro, a mansioni equivalenti e senza alcun declassamento né decurtazione economica avrebbe adottato subito il provvedimento senza manifestare alcuna intenzione di licenziamento). Sarà in tale fase conciliatoria che dovrà essere formalizzata una clausola esplicita di demansionamento, in deroga all’art. 2103 C.Civ. La soluzione consigliabile, dopo il verbale di conciliazione, è una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro corrente, con reciproca liberatoria rispetto al pregresso, liquidazione del TFR maturato e riassunzione con nuove mansioni e qualifica. Si potrà riconoscere convenzionalmente la portabilità della pregressa anzianità ai fini del TEP, ma non ai fini economici: il precedente importo scatti verrà liquidato ed azzerato, con partenza ex-novo del nuovo scatto corrispondente al nuovo livello di inquadramento. L.C.


COLPO D’ALA

Questa pagina vuole essere un “colpo d’ala”, cioè una proposta per un momento di riflessione.

Le stelle e il mare … Chiedevo solo chi metteva i giocattoli nella calza, ora mi chiedo Chi mette la calza accanto al letto, e il letto nella stanza, e la stanza nella casa, e la casa nel pianeta, e il grande pianeta nel vuoto. Una volta mi limitavo a ringraziare Babbo Natale per pochi dollari e qualche biscotto. Ora, lo ringrazio per le stelle e le facce in strada, e il vino e il grande mare. G. K. Chesterton

Bollettino ufficiale dell’UNEBA - Unione Nazionale Istituzioni e Iniziative di Assistenza Sociale Direttore Responsabile: MAURIZIO GIORDANO Redazione ed Amministrazione: 00185 Roma - Via Gioberti, 60 - Tel. 065943091 - Fax 0659602303 e - mail: info@uneba.it - sito internet: www.uneba.org Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 88 del 21/2/1991 Progetto e realizzazione grafica: www.fabiodesimone.it Stampa: Arti Grafiche Pomezia (Roma)

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Il giornale è inviato gratuitamente agli associati dell’UNEBA Finito di stampare nel febbraio 2015


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