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INCHIESTA CORONAVIRUS L’impatto dell’emergenza sul sistema logistico italiano

LE LEZIONI DEL CONTAGIO

Se da tutte le esperienze – anche quelle più negative – si può trarre un insegnamento, quello impartito al nostro Paese dal contagio del coronavirus è il riconoscimento di quanto sia essenziale la logistica non solo per il sistema economico nazionale, ma per la stessa salute degli Italiani. «Siamo una società basata sul trasporto», ha ricordato il presidente di Federtrasporti, Claudio Villa. «A nessuno viene in mente che se non si consente a un camion di trasportare medicinali, bombole di ossigeno, macchinari, oltre ovviamente ad alimentari e ad altri generi di prima necessità, la nostra capacità di affrontare la crisi si depotenzia o, peggio, tende a scomparire». Un riconoscimento tributato dalla stessa ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, che venerdì 13 marzo ha rivolto via facebook un video di ringraziamento ai camionisti italiani, senza i quali – ha detto – «il Paese si fermerebbe completamente, le persone non potrebbero avere i beni di prima necessità, non potremmo rifornire gli ospedali». Uno zuccherino – apprezzato – dopo venti giorni febbrili nei quali il governo, alla ricerca di un precario equilibrio tra tutela della saluta e difesa dell’economia, ha infilato una raffica di misure all’inizio contraddittorie, a volte incongrue, spesso confuse e comunque bisognose di chiarimenti.

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DAI PORTI IL PRIMO ALLARME Eppure, i segnali erano stati chiari fin dall’inizio, quando l’emergenza sembrava soltanto economica per il mancato arrivo delle forniture cinesi, e le aziende italiane erano costrette a cercare altrove le componenti necessarie alla produzione, ridisegnando la filiera logistica. «In dieci giorni è cambiato tutto», racconta Mario Serranti, Supply chain manager di BASF Italia. «Abbiamo capito che bisogna diversificare anche i fornitori di logistica e di trasporti: se prima si poteva puntare su un fornitore super specializzato, super efficiente e super dimensionato, adesso bisogna orientarsi verso soggetti più piccoli, dislocati in zone diverse del territorio». Inoltre, sempre nei primi giorni di febbraio già si levava distinto un altro grido d’allarme. E non poteva che provenire dai porti (Genova in quella data aveva già perso il 5% degli scambi con la Cina, con una stima di calo annuo di almeno il 20%), dove il personale sanitario – già sotto organico e in arretrato – era stato dirottato sul traffico passeggeri. «Noi abbiamo arretrati per oltre mille pratiche e sono in peggioramento», raccontava Giampaolo Botta, direttore generale di Fedespedi Genova. «I tempi medi di evasione per i nulla osta sanitari sono di 7-8 giorni, prima del coronavirus erano di due giorni. Il costo medio per

contenitore in sosta è di 100 euro in più: parliamo di 100 mila euro giorno solo per le pratiche in attesa».

LOGISTICA COLPITA AL CUORE Ma, passate le prime settimane, l’impatto maggiore sul sistema logistico italiano più che il blocco cinese lo ha avuto l’emergenza sanitaria, con le limitazioni prima (il 23 febbraio) nella «zona rossa» del lodigiano – Codogno e dintorni – dove sorge il centro logistico di Casalpusterlengo, uno dei più importanti del Nord Italia, poi dell’intera Lombardia e di altre 14 province (l’8 marzo), quindi dell’intero Paese (il giorno successivo), infine (mercoledì 11) con la sospensione di gran parte delle attività commerciali in un clima convulso di decisioni sempre più stringenti. È alla luce di questo crescendo che bisogna leggere le difficoltà della logistica nazionale le cui rappresentanze

La ministra De Micheli riconosce il ruolo degli autotrasportatori, ma sono stati necessari venti giorni di confronti serrati, chiarimenti continui e correzioni in corsa per far circolare le merci e individuare i comportamenti corretti per la salute degli operatori. Mentre la confusione si trasferisce in Europa e l’Austria è stata costretta a mitigare le misure contro i camion al Brennero

– dall’autotrasporto agli spedizionieri, dai corrieri ai costruttori di veicoli industriali – hanno chiesto fin dall’inizio al governo soprattutto un’azione coordinata, norme univoche e risorse per fronteggiare l’inevitabile crisi. Che ha colpito per primo proprio il cuore della logistica italiana: la «zona rossa» comprendeva il nodo di Casalpusterlungo (con il magazzino del grande gruppo caseario Lactalis) e la piattaforma di Somaglia della Lidl, al centro del quadrilatero logistico Pavia-Lodi-Cremona-Piacenza, dove hanno i loro poli di smistamento Amazon, Ikea, Oviesse e Unieuro, ma anche operatori come Havi Logisticis che lavora per McDonald’s, oltre a Carrefour, Eurodifarm, DHL, Stef Italia che stoccano i loro prodotti proprio ai confini dell’area isolata. Bloccare in quella zona tutte le attività «a esclusione di quelle che erogano servizi essenziali» e affidare ai Comuni la decisione se chiudere o limitare «i

servizi del trasporto merci e di persone terrestre, aereo, ferroviario e marittimo» ha gettato l’intero sistema logistico italiano nella confusione. «Perché sospendere anche i servizi di trasporto merci, se le merci non sono veicolo di diffusione del virus?», ha chiesto (retoricamente) il direttore generale di Confetra, Ivano Russo, mentre il presidente, Guido Nicolini, definendo la situazione «una follia», chiedeva al governo una task force e, parallelamente, Conftrasporto sollecitava un coordinamento unico della filiera.

LE MERCI POSSONO CIRCOLARE… Un appello che il governo ha raccolto dopo dieci giorni e solo per «per corrispondere alle richieste», come recita la convocazione della ministra De Micheli, che lunedì 2 marzo, ha ricevuto non le singole associazioni, ma le Confederazioni che le raccolgono – Confindustria,

Confetra, Assoporti, Assaeroporti, Confcommercio, Confartigianato, Cna e Confitarma – alle quali ha promesso l’emanazione di Linee guida da parte del Comitato Tecnico Scientifico del ministero della Salute sul tema del contagio tramite le merci; un vademecum sui comportamenti nei posti di lavoro, il miglioramento delle regole sull’ingresso e uscita delle merci dalle zone isolate e la semplificazione delle relative procedure. Una riunione immediatamente seguita dall’istituzione di un tavolo operativo con il Dipartimento della Protezione civile per monitorare la situazione e individuare le linee guida nazionali per il settore. Ma c’è voluta un’altra settimana per chiarire, prima (il 5 marzo), che le merci

CRONACHE DI POVERI AUTISTI

HISTOIRE D’O.

potevano attraversare la «zona rossa», poi – quando questa è stata abolita e inserita nella «zona protetta» della Lombardia (dove la maggior parte dei negozi potevano ancora restare aperti) – solo i pressanti richiami delle associazioni hanno ricordato che non serve tenere aperti i punti vendita se non si fanno arrivare le merci, ottenendo alla fine un chiarimento formale dalla Protezione civile: il trasporto delle merci rientra nelle «comprovate esigenze lavorative» previste dal decreto del presidente del Consiglio. Finalmente. Era l’8 marzo: dall’inizio dell’emergenza erano già passate due settimane.

… MA GLI AUTISTI? Chiarito questo punto, però, c’era la questione della sicurezza degli autisti e dei comportamenti al carico e scarico delle merci, anche per fissare i comportamenti leciti e quelli obbligati e sciogliere i dubbi che inceppavano il flusso delle merci: autisti respinti per mancanza delle (introvabili) mascherine protettive, ingressi nelle strutture portuali limitate a un singolo autista,

Si è firmato Pasquale O. nella mail che ha inviato alla nostra redazione per segnalare che, arrivato mercoledì 4 marzo in Germania per caricare merci da portare in Italia, si è sentito chiedere dal produttore se era italiano e se proveniva dalle zone del coronavirus. Poi gli ha fatto compilare e sottoscrivere un modulo e, solo allora, ha autorizzato il carico, lasciando il conducente nel dubbio di doversi fare carico di eventuali conseguenze. Storie di camionisti. Se ne contano a decine in tutta Europa: sono loro il terminale ultimo del coronavirus, vittime e protagonisti spesso più del panico che del virus stesso, per la vita che fanno, a contatto con tanta gente e in giro per tutto il continente. Ecco alcune di queste storie di autisti. E non solo. Il primo caso Il primo conducente colpito dal coronavirus è un uomo di 58 anni, di Garlasco, dipendente di un’azienda produttrice di idropulitrici industriali. L’autista, ricoverato il 24 febbraio presso l’ospedale San Matteo di Pavia, aveva effettuato nel corso della settimana precedente alcune consegne a Codogno, prima che scattasse la «zona rossa». Lascia il carico al Brennero e se ne va È, probabilmente, il caso più clamoroso: il 4 marzo un autotrasportatore tedesco che doveva consegnare materiale edilizio a una scuola di Gorizia, senza neppure valicare il confine del Brennero ha abbandonato il carico ed è rientrato in Germania, per paura di contrarre il virus o, molto più probabilmente, nel timore di essere messo in quarantena al suo rientro. Quarantena in Romania… Tutte le persone, compresi gli autisti di camion, che arrivano in Romania dalle località colpite dal coronavirus nella regione Veneto e nella provincia di Lodi o che vi hanno viaggiato nelle ultime due settimane vanno messe in quarantena per 14 giorni. Lo ha deciso il 22 febbraio il ministero della Salute di Bucarest. La misura poi è stata estesa all’intera Italia. … e i Rumeni dicono no Sempre più frequenti i rifiuti dei conducenti romeni (la più nutrita comunità di autisti stranieri in Italia) al servizio in Italia. Segnalazioni in tal senso sono giunte dal mercato ortofrutticolo di Padova, il cui vicepresidente, Giancarlo Daniele, ha motivato il rifiuto con il timore di essere bloccati, in quarantena, al rientro in Romania. Dovuti invece al timore del contagio i dinieghi – riferiti da Piero Albini, presidente dell’azienda pratese di logistica Albini & Pitigliani – di operare nel distretto tessile di Prato, a causa della grande presenza di operatori cinesi. Quarantena a Grottaminarda Un autista 45enne di origini bulgare, residente a Carife (Avellino) è stato messo in quarantena il 24 febbraio dopo aver dichiarato agli agenti di polizia che lo avevano fermato per un controllo al casello di Grottaminarda, di essere di ritorno da Lodi. Gli agenti hanno informato della circostanza il sindaco, Antonio Manzi, che ha deciso l’isolamento per 14 giorni per autista, moglie e figli.

rifiuto di far usare ai trasportatori i servizi igienici da parte dei committenti, ma anche richieste di informazioni (su apposito modulo prestampato) circa la salute dei conducenti da parte di datori di lavoro o committenti. Le Linee guida, appunto, attese subito dopo l’incontro con la Protezione civile, poi rinviate al 9 marzo con una nota pubblicata sul sito del ministero dei Trasporti, infine promesse per sabato 14 dalla stessa ministra, sono scivola

te ancora in avanti. Nel frattempo, le uniche indicazioni arrivavano dal Garante per la privacy (martedì 3 marzo), a precisare che informazioni sullo stato di salute possono essere richieste solo dai «soggetti che svolgono istituzionalmente questo compito», e da un Protocollo siglato lo stesso 14 marzo da governo con le parti sociali che, fra le altre disposizioni, regola le «modalità d’accesso dei fornitori esterni»: procedure di «ingresso, transito e uscita, mediante modalità, percorsi e tempistiche predefinite» per «ridurre le occasioni di contatto»; invito agli autisti a «rimanere a bordo dei propri mezzi» e, se proprio ne devono scendere, ad «attenersi alla rigorosa distanza di un metro»; individuazione o installazione di «servizi igienici dedicati, prevedere il divieto di utilizzo di quelli del personale dipendente e garantire una adeguata pulizia giornaliera». Quello dei bagni è stato a lungo un nodo controverso: oltre al diniego dei committenti, con la chiusura di bar e ristoranti alle 18 – decretata il 9 marzo – spariva anche la possibilità di usare i servizi igienici (e di mangiare) negli esercizi pubblici. Nuove proteste delle associazioni (il vicepresidente vicario di FAI-Conftrasporto, Paolo Uggé, ha subito colto la contraddizione: «Significa obbligare i conducenti a non rispettare la norma basilare relativa al suggerimento di lavare le mani») e divieto fortunatamente corretto con il decreto dell’11 marzo, lasciando aperte le aree di servizio stradali e autostradali. Salvo la chiusura entro le 18 e salvo un controdecreto del presidente della Campania, Vincenzo De Luca, che il giorno dopo ne ha ridisposto la chiusura in tutta la Regione.

Coronavirus combinato Secondo quanto riferisce Malta Today, la mattina del 24 febbraio, i portuali della Valletta si sono rifiutati di salire nei garage delle navi ro-ro Maria Grazia Onorato di Tirrenia ed Eurocargo Malta di Grimaldi per scaricare i semirimorchi, chiedendo un’autorizzazione formale da parte di un’autorità sanitaria locale. Dietro il rifiuto, tuttavia, secondo fonti di stampa, ci sarebbe il conflitto fra autotrasportatori maltesi e italiani su chi debba trasportare nell’isola le merci provenienti dall’Italia. I vettori maltesi chiedono da tempo maggiori controlli sui veicoli italiani in ingresso. Io non c’entro Subito dopo l’istituzione delle zone rosse di Cologno e di Vo’ Euganeo, il colosso dell’autotrasporto ungherese Waberer’s ha comunicato che i suoi mezzi non viaggiano né ricevono ordini dalle aree colpite. Voglio il timbro Subito dopo le prime segnalazioni di persone colpite da coronavirus in Italia sono emersi casi di merci italiane rifiutate all’estero per il timore di contaminazione. Un importatore brasiliano ha chiesto a un’azienda che produce pasta di mettere su ogni pacco un timbro che attesti che è stata prodotta prima della scoperta dei focolai italiani. In altri Paesi si segnalano richieste di una sorta di certificazione antivirus, che non esiste formalmente, per le spedizioni provenienti dall’Italia, bloccando le merci alle frontiere.

IL BRENNERO Ma le linee guida, anche se tardive, sono valide solo in Italia. I rapporti con i Paesi stranieri, per la paura del contagio, si fanno sempre più difficili. Non contenta delle continue limitazioni unilaterali imposte agli autotrasportatori italiani (e tedeschi), l’Austria ha attivato un nuovo sistema di verifiche al confine del Brennero: controlli sanitari mirati secondo l’area di provenienza e obbligo di un certificato medico di assenza dell’infezione. Il tutto non poteva che avere una conseguenza: lunedì 11 marzo, dopo che anche la provincia di Bolzano aveva chiuso tout court il Passo Gardena e il Passo Sella, si sono create file di 50-80 chilometri al Brennero, in pratica da prima del casello del ca

poluogo fino al confine. Contro la misura sono insorti subito Uggè, per sollecitare l’adozione delle «medesime misure» nei confronti degli ingressi dall’Austria, e il presidente di Anita, Thomas Baumgartner, per chiedere al governo di «impedire questa ennesima discriminazione dei vettori italiani». Ma stavolta la risposta del governo è stata immediata: la mini

INTERVISTA A MASSIMO MARCIANI, PRESIDENTE DEL FREIGHT LEADERS COUNCIL

LA METAFORA DELLA LUCE CHE VA VIA

Dopo lo spaesamento iniziale, se l’interruzione dura troppo a lungo, le imprese cominceranno a muoversi al buio e a riportare parte della produzione vicino ai mercati di riferimento. E per l’Italia si apre un’occasione: lavorare su burocrazia e innovazione, per farsi trovare, quando si riaccenderà la luce, più bella di prima

«È come se ci trovassimo in una stanza, a fare le cose di tutti i giorni, e all’improvviso – paf – andasse via la luce». È solo apparentemente paradossale la metafora scelta da Massimo Marciani, presidente del Freight Leaders Council, fondatore di FIT Consulting e premio Logistico dell’anno 2019, per spiegare l’impatto del coronavirus sulla logistica. Ma il ricorso a un evento non insolito nelle nostre case ha un motivo ben preciso: «Secondo me, in questo momento», spiega, «di fronte a un evento totalmente inatteso e per certi versi incomprensibile, dobbiamo parlare con il linguaggio di tutti i giorni, riportandoci a esperienze che già conosciamo e che ci spaventano di meno…». Come un’interruzione improvvisa della corrente… A chi non è capitato… In questi casi si susseguono tre tipi di reazione. La prima, nell’immediato, è di spaesamento: per un attimo ci si sente a disagio, perché si perdono le dimensioni nelle quali si agisce abitualmente. Chiaro che questo succede a tutti, tranne ai non vedenti, abituati a muoversi al buio, poco e con cautela. Il che, fuor di metafora, vuol dire che un evento improvviso come il coronavirus impatta maggiormente sui Paesi logisticamente più attivi, con scambi enormi e continui, che non su quelli – chiamiamoli così – «sovranisti» con un’attività logistica molto ridotta: i non vedenti della metafora. Poi - dopo lo spaesamento iniziale , che succede? Il secondo pensiero è che ci sarà stato un corto circuito da qualche parte e che la luce tornerà al più presto. Dunque, l’opzione che prevale in questa fase è di non fare niente, di restare in attesa. Ma se l’attesa diventasse un po’ lunga ci si comincia a muovere nella stanza, a toccare a memoria i vari mobili, a riprendere la misura degli spazi, per proseguire l’attività nonostante il buio. Poi – terzo pensiero – se la luce torna dopo un po’, ci si limita a tenere una torcia a portata di mano per l’eventualità che, in futuro, capiti ancora che la luce vada via; ma se si rimane al buio più a lungo – molto a lungo – quando si riaccende la luce, viene anche il dubbio che i mobili siano stati sposati, che qualcuno possa essere entrato in casa, magari con gli occhiali a infrarossi, e mosso o portato via qualcosa. Fuor di metafora? Se il virus si rivelerà come una momentanea interruzione di corrente e i suoi effetti saranno contenuti in qualche mese – entro l’estate – in tempi cioè industrialmente poco compromissivi a livello logistico, ci sarà una fase iniziale di stordimento – come quando la luce ritorna all’improvviso – ma l’esperienza varrà di lezione e la torcia da tenere a portata di mano sarà una risk analysis del proprio modello di business. Ma se la luce va via per più tempo? In questo caso, già quando è buio, magari con l’aiuto della torcia, ci si comincia a muovere a tentoni per trovare soluzioni. E le aziende, le grandi aziende che producono beni di largo consumo – automotive, elettronica, telefonia cellulare – e fanno logistica a grandi livelli perché devono garantirsi la continuità produttiva, cominceranno a cambiare in corsa, a luce ancora spenta. A cominciare da quelle che hanno esternalizzato in Cina, perché lì il costo del lavoro è (sarebbe meglio dire: era) molto basso e quello della logistica irrilevante e quindi riuscivano a produrre grandi quantità a basso costo e con margini elevati. Ma se la luce resta spenta troppo a lungo, non possono correre il rischio – per fare un esempio – di non vendere più i telefoni cellulari perché mancano gli schermi. Quindi, se gli effetti del virus si prolungheranno ci troveremo di fronte a una ricostruzione dell’ecosistema della fabbrica. Voglio dire che quelle grandi aziende produttrici di beni di largo consumo manterranno ancora gran parte della produzione in Cina, ma cominceranno a richiamare un 30% nelle vicinanze del loro mercato di riferimento. In modo che se la luce va via di nuovo a lungo, possono comunque continuare a produrre e a vendere.

stra De Micheli ha telefonato alla sua omologa austriaca, Leonore Gewessler, chiedendo il ripristino della normalità e ha scritto alla Commissaria europea ai Trasporti, Adina Valean, la quale ha ribadito che «l’economia deve andare avanti e per questo c’è bisogno che sia permesso il trasporto di beni in Europa. Se cominciamo a costruire frontiere nel mercato unico, l’impatto per l’economia sarà enorme. Bisogna cooperare». Una tirata d’orecchie rivolta all’Austria, ma anche a Slovenia e Croazia, che hanno deciso misure analoghe a quelle di Vienna. Ma una prima reazione positiva le pressioni di De Micheli e Valean (con l’accordo della Germania) l’hanno ottenuta: la sospensione, almeno per 15 giorni, del divieto di transito dei tir sull’asse del Brennero durante il week-end e del contingentamento a Kufstein, già programmato per il 16 marzo. Sono, comunque, notizie preoccupanti, proprio quando dal Far East arrivano i primi segni di ripresa. «I traffici marittimi con l’Asia», ha segnalato Luigi Merlo, presidente di Federlogistica-Conftrasporto, «stanno ricominciando a ritmi significativi» e, se non siamo pronti, rischiamo «contraccolpi dal punto di vista operativo». Invece negli scali agli operatori «mancano anche i dispositivi indispensabili per proseguire il lavoro, dai guanti alle mascherine» e «ogni porto sta procedendo in modo autonomo», ha concluso rinnovando a 15 giorni di distanza la richiesta di un coordinamento della logistica nazionale. Anche perché, ha aggiunto, «ora dobbiamo prepararci alla crisi dei trasporti su scala europea». L’allarme continua. E riparte da dove era cominciato: dai porti.

Insomma, si tratta del reshoring, il rientro delle attività produttive esternalizzate… Non solo e non semplicemente. Se gli effetti del virus si protrarranno oltre l’estate, estendendosi, come appare scontato, a Stati Uniti, Germania, Francia e così via, posso immaginare che, per esempio, Apple deciderà di non produrre più soltanto in Cina e il baricentro dei flussi che in questo momento si trova nel Pacifico, si sposterà verso l’oceano Indiano, a un passo da Suez. E se passano per Suez offrono – anche a noi, soprattutto a noi – una grande opportunità. Quale? Oggi il sistema logistico italiano è stato messo praticamente in quarantena dalle conseguenze del coronavirus. Siamo noi a trovarci ora in una stanza nella quale tutt’a un tratto è calato il buio, ma non è che nelle altre stanze (paesi) la luce funzioni perfettamente. Per questo dobbiamo avere la freddezza e la lucidità di farci trovare, nel momento in cui la luce tornerà, diversi da quelli che eravamo quando si è spenta, perché se ci ritrovano uguali a prima è la fine. Faccio un esempio banale: se i grandi armatori spostano le loro mega container dal porto di Genova a quello, per esempio, di Algeciras non è detto che quando si riaccenderà la luce, poi ritornino a Genova; più tempo stanno nel nuovo scalo e più hanno la possibilità di ottenere servizi diversi e magari migliori. Quindi, se restiamo come eravamo prima, rischiamo brutto. Ma se quando si riaccende la luce ci facciamo trovare non la befana che eravamo prima, logisticamente parlando, ma una bellissima ragazza, allora la partita cambia completamente.

E come possiamo diventare una bella ragazza, logisticamente parlando? Lavorando su due tavoli. Il primo è la sburocratizzazione: dobbiamo sfruttare il dialogo che si è aperto sul coronavirus tra governo e associazioni come un’occasione eccezionale per togliere lacci, laccioli, orpelli inutili e rendere il nostro sistema logistico molto più semplice, immediato e diretto. Il secondo è utilizzare i finanziamenti che il governo metterà a disposizione per un piano Marshall di digitalizzazione del settore. Dobbiamo tornare a essere i protagonisti dell’innovazione nella logistica. Ne ho già parlato con tutte le associazioni di categoria. Anzi, qualcuno mi ha obiettato che forse non ne siamo capaci. Gli ho risposto che invece ce la possiamo fare e ho portato come esempio il ponte Morandi. È la cartina di tornasole di quanta potenzialità inespressa abbia questo paese. Progettisti, manovali, imprese, enti locali sono tutti gli stessi, eppure ce l’hanno fatta. Cos’è cambiato? Semplicemente il modo di fare le cose.

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