COS’E’ IL S.A.L.E. Il S.a.L.E. nasce nell’ottobre del 2007 da un gruppo di persone provenienti dall’esperienza dei centri sociali. Decisivo, per le sorti del progetto, è stato percorso collettivo di analisi di Venezia e di alcuni processi che ne stanno determinando la trasformazione. Tra questi, il nostro interesse si è focalizzato su di un massiccio sviluppo degli investimenti che riguardano le forme dell’espressione contemporanea: l’arte, la musica, il teatro, il design, la moda, l’architettura e la formazione superiore dedicata a questi ambiti. Il crescente successo di pubblico di un’istituzione quale la Biennale, la maggiore presenza di facoltà e scuole dedicate all’arte e al design, la nascita di nuove fondazioni, l’alto numero di giovani artisti e di lavoratori precari del settore culturale, l’apertura di nuovi musei (come quelli finanziati da un magnate globale dell’industria del lusso), sono tutti segnali che negli ultimi dieci anni testimoniano di un vero e proprio investimento strategico nel settore del contemporaneo. Venezia, dunque, da città museo a creative city? Impossibile semplificare in tal modo. Si tratta, invece, di un processo in corso, di un territorio dai confini porosi in cui si intersecano il capitale simbolico collettivo di Venezia (la sua peculiarità locale) a dinamiche più marcatamente globali che fanno della creatività un fertile terreno di profitto. Dentro questo modello, peculiare e globale allo stesso tempo, il S.a.L.E. trova la propria ragione di vita. Noi abbiamo definito Venezia come una sorta di “fabbrica della cultura”, non perché vi siano somiglianze con la fabbrica in senso tradizionale, bensì per sottolineare il fatto che la trasformazione in cui siamo calati, seppure nella sua natura metropolitana, continua a essere innervata da dinamiche di estrazione di plusvalore, da persistenze di rendita e da rapporti di forza fortemente asimmetrici. Questa è una città museo su cui i tratti della città creativa sono in fase di innesto. Qui la gentrificazione è già compiuta, inutile opporvisi ottusamente. E’ necessario, invece, agire dall’interno per recuperare spazi: spazi fisici che restituiscano ossigeno all’autogestione in un luogo segnato da un mercato immobiliare “delirante”. Necessario è opporsi alla precarizzazione del lavoro culturale a partire dall’analisi e dall’inchiesta dentro la “fabbrica della cultura”. Necessario è, soprattutto nella crisi, inventare fonti di reddito per sottrarsi alla schiavitù di un precariato sempre più soffocante e per costruire nuove forme di indipendenza culturale. Necessario è sottrarre agli economisti dell’arte il mantra riguardo al potere dell’arte e della cultura di trasformare il modo in cui le persone guardano al mondo. Non perché sia falso, ma perché, nelle loro mani, questa verità spesso maschera il consolidamento di posizioni di
rendita metropolitana o accademica. Non siamo romantici, non crediamo che l’arte debba essere coltivata solo per amore d’estetica, ma sappiamo che l’arte, tanto più nell’era delle reti, è il prodotto di una cooperazione sociale diffusa e delle relazioni che la innervano. Gli economisti dell’arte sostengo che l’arte abbia il potere di cambiare ciò che noi pensiamo della vita, al S.a.L.E. lavoriamo perché l’arte cambi la nostra vita. Certo, siamo ancora distanti dal raggiungimento di molti di questi obiettivi, eppure, il catalogo che segue vuole cominciare a raccogliere i risultati concreti del nostro lavoro. Risultati che, in oltre due anni, hanno assunto forme diverse. Mostre, pubblicazioni, workshop, seminari, incontri, laboratori e spettacoli teatrali, performances in città e altro ancora. Queste attività dimostrano il grado di innovazione di un progetto come il S.a.L.E., le energie che ha saputo convogliare finora, la quantità e la qualità degli eventi realizzati, degli artisti, degli studiosi e dei collaboratori coinvolti. Nel catalogo sono raccolti quasi due anni e mezzo della nostra attività, fatta di entusiasmo, lavoro, fatica, volontà di mettersi in gioco e di sperimentare. Fatta soprattutto di una scelta: quella di adoperarsi concretamente, senza retorica, dentro l’arte, la cultura, la città e il mondo come dentro terreni materiali per la riconquista della nostra indipendenza e della nostra capacità di trasformazione della realtà.
INDICE - Lost in production
Tre giorni che segnano l’inizio dell’avventura del S.a.L.E. una mostra in cui si intrecciano installazione, video, writing e visual performance. Il tutto viene inaugurato da un incontro in cui si discutono alcuni degli argomenti che saranno alla base del lavoro del S.a.L.E. : il rapporto tra espressione artistica e critica sociale radicale e il problema della precarizzazione del lavoro cognitivo.
- Incontro con Jimmie Durham
Jimmie Durham è un artista statunitense. Le sue origini Cherokee hanno influito sulla sua vicenda di attivista nel Movimento per i diritti civili e lo hanno imposto come uno dei più interessanti artisti della “scena” postcoloniale. Durham ha esposto in tutto il mondo all’interno delle mostre più importanti (compresa la Biennale di Venezia).
- ZA!revue
Un workshop di grafica a cura di ZA!Revue, rivista indipendente di grafica in bianco e nero. ZA!Revue ha come propria “bussola” la libertà di espressione e la libera circolazione delle informazioni, anche delle immagini. Il laboratorio al S.a.L.E. porta i partecipanti alla produzione di un “Manuale di sopravvivenza postnucleare”.
- Presentazione di “Cosa Cambia” di Roberto Ferrucci
Lo scrittore Roberto Ferrucci presenta il suo romanzo “Cosa Cambia” (Marsilio, 2007) ispirato ai giorni del G8 genovese del 2001.
Il format Open# vuole mettere in luce il carattere laboratoriale del S.a.L.E. Il nostro obbiettivo è quello di porre l’accento sul fatto che questa città sia in grado di produrre progetti culturali indipendenti e non solo di ospitare o esporre grandi eventi confezionati per il mercato turistico.
- La Biennale è finita noi restiamo
Un incontro con alcuni dei principali attori istituzionali dell’arte contemporanea in città. Con loro, il S.a.L.E. discute del rapporto tra arte e metropoli, delle sue implicazioni in termini sociali ed economici, della precarietà del lavoro culturale, della visione di Venezia come centro del contemporaneo, delle possibilità e delle contraddizioni.
- Venezia crepa
La laguna al centro di questa mostra. Il S.a.L.E. declina qui uno dei suoi tratti caratteristici: un’attenzione al contesto in cui lo sviluppo culturale del territorio vada di pari passo con politiche ecologiche adeguate. Una serie di documenti, fotografie e grafici documenta le emergenze del moto ondoso, del rischio chimico e del MOSE.
- Trouble markers
Artisti di fama internazionale espongono al S.a.L.E. una serie di lavori in cui le pratiche artistiche contemporanee diventano attivismo, inchiesta e analisi critica dello spazio pubblico. Con Trouble Makers il S.a.L.E. vuole dare nuovo senso a immagini e immaginari destabilizzanti, troppo spesso “addomesticati” dalla scena istituzionale.
- Incontro con Sergio Bologna
- Open#0
La mostra del S.a.L.E. costruita a partire da un bando pubblico. Testimonia la volontà dello spazio di aprirsi agli artisti della città e oltre.
La crisi del ceto medio è uno dei grandi temi della politica nei Paesi occidentali. A lungo negato – soprattutto in Italia – e oscurato dalla grande visibilità e drammaticità del fenomeno dell’immigrazione, trova le sue radici nelle trasformazioni del lavoro e delle imprese. È la tesi di fondo di questi scritti, diversa dalle interpretazioni
correnti che tendono a spiegare tutto con il fenomeno della globalizzazione.
- Teatro: la Carmen
- Guilty at the dock
La prima mostra del S.a.L.E. interamente dedicata al writing. Curata dal collettivo Urban Code. “Guilty at the Dock” vuole rispondere ad alcuni arresti e perquisizioni che segnalano un salto di qualità repressivo in tutta la regione. L’equazione tra writing e pericolosità sociale è smontata attraverso un percorso espositivo che mette in luce la complessità e i molteplici approcci della pratica del writing.
Una produzione: Amaranteghe-Veneto Teatroindagine. Scrittura drammaturgica della vita della partigiana Carmen. La storia vera di una donna coraggiosa, capace di non rinnegare se stessa nemmeno nel mezzo della guerra e delle prove più dolorose a cui venne sottoposta. Testo di: Silvia Rainer, Dalies Donato. Con Dalies Donato. Regia e drammaturgia di: Marcela Serli. Musiche a cura di: Giovanna Berti.
- Multiversity
- Spazio e Saperi migranti
Tre giorni di laboratorio multimediale per una cartografia partecipata dello spazio europeo: l’idea è quella di costruire un archivio comune che, in futuro, possa servire come base per elaborare un mappatura multimediale capace di rappresentare i percorsi e i saperi migranti che i confini, le frontiere e le politiche di controllo del territorio e delle sue risorse non sanno disciplinare. In collaborazione con: Progetto Melting Pot Europa.
- Resistenze
Dal Chiapas, alla Palestina, al Kudistan, al Libano, fino a Vicenza. Trenta scatti per rappresentare altrettanti esempi di resistenze al femminile. Donne che si battono per la pace, per il riconoscimento dei propri diritti e per conquistarsi una vita al riparo dalla violenza. Foto di Simona Granati e Gabriella Mercadini.
- Incontro con L.E.Navarro
Presentazione del libro: “Senso Contrario. Vita e miracoli di ribelli contemporanei.” (ed. Intra Moenia). Luis Hernàndez Navarro, studioso di questioni agrarie, è giornalista, responsabile dei commenti sul quotidiano di Città del Messico, La Jornada. Ha seguito fin dall’inizio la ribellione zapatista, contribuendo con saggi e libri ad approfondirne i temi.
Un percorso seminariale, una mostra e una pubblicazione. Multiversity è un seminario internazionale organizzato dal S.a.L.E. in collaborazione con la rete di ricercatori Uni.nomade. Al centro della discussione: i rapporti tra arte contemporanea e attivismo politico. Tra i relatori: Brian Holmes, Hans Ulrich Obrist, Claire Fontaine, Maurizio Lazzarato, Antonio Negri, Massimo Cacciari e molti altri. Da Multiversity nasce il libro “L’Arte della Sovversione”; a cura di Marco Baravalle (Manifestolibri, 2009).
- Conversazioni
Evento finale del corso IUAV tenuto del prof. Nicolas Bourriaud (già direttore del Palais de Tokyo a Parigi e della Tate Britain di Londra). Un “open studio” in cui gli studenti producono e installano pubblicamente le proprie opere all’interno del S.a.L.E.
- Terra fuoco e plastica
Mostra collettiva dell’associazione Artisti SPA+A. Terra fuoco e plastica sono tema e materia affrontati da diciotto artisti provenienti da tutta Italia.
- Urban skin - Si è diffusa la voce che faremo un rave Progetto fotografico del collettivo Ogi:no Knauss dedicato alla “pelle” della città. Scatti che colgono le porosità dello spazio urbano, gli affioramenti di tensioni profonde e le tracce del tempo che si deposita. Nell’ambito dell’evento il collettivo ha inoltre tenuto una live performance costruita campionando immagini e suoni urbani e un laboratorio di “dermatologia urbana”.
Conclusione del laboratorio del CLaSAV-IUAV tenuto da Cesare Pietroiusti e Filipa Ramos: una passeggiata a tappe della durata di una notte. Ad ogni tappa corrisponde uno o più interventi artistici e ogni opera sarà visibile in un preciso lasso di tempo.
- AHA camp
- OPEN#1
Il primo incontro della storica mailing list di AHA si tiene al S.a.L.E. Artisti digitali, hacker, ricercatori, attivisti culturali e curatori d’arte elettronica si riuniscono tre giorni a Venezia per scambiare le proprie esperienze e per fare il punto sulla network culture.
Seconda edizione della mostra del S.a.L.E. costruita a partire da un bando pubblico. Testimonia la volontà dello spazio di aprirsi agli artisti della città e oltre. Il format Open# vuole mettere in luce il carattere laboratoriale del S.a.L.E. Il nostro obbiettivo è quello di porre l’accento sul fatto che questa città sia in grado di produrre progetti culturali indipendenti e non solo di ospitare o esporre grandi eventi confezionati per il mercato turistico.
4 NOVEMBRE 2008 90° anniversario della fine della Grande guerra e della morte di Wilfred Owen Guerra, trauma, memoria
giornata organizzata dalla Rete per l’autoformazione Magazzini del Sale, Dorsoduro 187 L’iniziativa svoltasi presso i magazzini del Sale il 4 novembre 2008 ha voluto ricordare l’esperienza dei combattenti della Grande guerra prendendo le mosse da Wilfred Owen (1893-1918), uno dei maggiori poeti inglesi arruolatosi come volontario nel 1915
- Gianfranco Baruchello “Sperimentazioni Desideranti”
Una mostra dedicata ad uno dei grandi innovatori dell’arte italiana a partire dagli anni Sessanta. Visionario, sovversivo e ironico, l’artista presenta al S.a.L.E. sedici film che ricoprono un lasso temporale dal 1968 al 2008. E’ esposta anche una documentazione fotografica del progetto Agricola Cornelia (1973-1983).
- Presentazione libro 7 Aprile
- I xe i tochi de venexia
Mostra finale del laboratorio di Cornelia Lauf (Facoltà di Arti e Design, Università IUAV Venezia). Gli studenti allestiscono all’interno del S.a.L.E. una sorta di museo di storia naturale di Venezia. L’opera allude, con ambiguità, al delicato equilibrio ecologico di Venezia e al suo stereotipo di “città museo”.
“Processo sette aprile. Padova trent’anni dopo. Voci della città degna.” (Manifestolibri, 2009). Una raccolta di testimonianze di chi, a partire dal 7 aprile 1979, ha vissuto in prima persona gli effetti del teorema Calogero e del suo tentativo di criminalizzazione del movimento dell’Autonomia.
- Headlines
- “Anna Politkovskaja: il sangue e la neve”
Seconda mostra interamente dedicata al writing e curata da Urban code, collettivo di writers veneziani che ha fatto del S.a.L.E. molto più di un semplice luogo di esposizione. Headlines si distingue, oltre che per un enorme successo di pubblico, anche per alcune partecipazioni internazionali di grande rilievo come i newyorkesi GRL (Graffiti Research Lab) che danno vita ad una performance notturna di laser tagging sulle facciate degli edifici veneziani.
Di fronte a oltre duecento spettatori, Ottavia Piccolo, uno dei punti di riferimento del panorama teatrale italiano, legge alcuni stralci del testo di Stefano Massini “Il sangue e la neve” (ed. Promo Music Books-Rai Trade).
- Embassy of sindrome”
- “La lunghezza dell’onda” e “Per Farla finita con l’idea di sinistra”
Piracy “Padiglione internet, Ramallah
Tre eventi in tre giorni. Gli attivisti di The Pirate Bay creano un’Ambasciata della Pirateria contro il copyright e la proprietà intellettuale. Con gli attivisti del S.a.L.E. danno vita ad una pittoresca iniziativa contro la precarietà del lavoro culturale in città. Negli stessi giorni il S.a.L.E. ospita anche Il Padiglione Internet di Miltos Manetas e la perfomance palestinese: The Ramallah Syndrome (eventi in cartellone nel programma ufficiale della Biennale di Venezia 2009).
- L’arte della sovversione
Un volume pensato a partire dal seminario Multiversity. Diciassette autori internazionali intervengono all’interno di tre macro-aree tematiche. “Arte, soggettività e attivismo”, “Arte e mercato”, “Arte e moltitudine” (Manifestolibri, 2009).
Presentazione del libro “La lunghezza dell’Onda” (Ponte delle Grazie edizioni) di Francesco Raparelli. Un’avventura che traccia una genealogia dei movimenti dal dopo Seattle fino all’Onda Anomala studentesca. Un glossario redatto con passione che mette assieme grammatiche e desideri dell’autore e della sua generazione. Augusto Illuminati presenta “Per farla finita con l’idea di sinistra” (ed. DeriveApprodi): un tentativo ambizioso di superare una categoria acquisita per guardare oltre, senza paura.
- ESP
Esperimenti scenici permanenti. Un laboratorio teatrale il cui scopo è la costruzione di uno spettacolo in tutte le sue componenti: dalla regia fino alle scenografie, alla scrittura e agli attori. Il laboratorio è prodotto attraverso un processo di produzione dal basso, per la prima volta applicato al teatro.
- OPEN#2
- Bookmarks
Otto giovani artisti “da vedere” e la possibilità per lo spettatore di segnalarne altri attraverso i propri bookmarks. Approcci differenti per tematiche che spaziano dal ritratto, alla precarietà, alla guerra, fino alla riflessione critica sul sistema dell’arte contemporanea.
Terza edizione della mostra del S.a.L.E. strutturata su bando pubblico. All’interno di Open#2 viene pensata “Dueannitremesiediecigiorni”, una mostra che descriva (attraverso opere, video e materiali d’archivio) i prima due anni e mezzo di attività del S.a.L.E.
Lost in production nasce dall’iniziativa di un gruppo di persone consolidatosi negli anni scorsi intorno al Laboratorio Morion, a questo nucleo si sono affiancati artisti, grafici, vj e musicisti. Lost in production rappresenta il momento di maturazione di un percorso intrapreso a partire dal 2005 con il “Mars Pavilion”, padiglione occupato ai Giardini della Biennale, continuato con lo spazio universitario “LAT” che ha dato un impulso significativo alla ricerca musicale ed al visual, proseguito con il “Laboratorio di cartografia partecipata” e conclusosi nel giugno del 2007 con “Challengers”, iniziativa ospitata dal Morion in cui artisti, architetti e curatori di provenienza internazionale si sono succeduti dal vivo ed in video-conferenza durante tre giorni di incontri non-stop. Lost in production vuole interrogarsi sullo stato attuale dell’arte e, più in generale, del lavoro immateriale in un momento in cui la comunicazione riveste un ruolo centrale nei processi produttivi. Come riappropriasi dei linguaggi? Come recuperare le loro potenzialità critiche? Lost in production, all’interno di una città come Venezia caratterizzata dai grandi eventi culturali formato Biennale e dalla significativa presenza di fondazioni multinazionali dell’arte, vuole aprire un percorso altro per la produzione artistica, un percorso fatto di autonomia, ricerca, e capacità di attraversamento critico delle istituzioni. Lost in production vuole proporsi come punto di partenza per le nuove forme del dissenso che scelgono come strumenti privilegiati il linguaggio e la produzione artistica.
lost in DIBATTITI giovedì 4-h.18 LOST IN PRODUCTION: produzione immateriale e lavoro creativo, nuove forme d’espressione artistica e critica sociale radicale. Ne discutono: Maurizio Lazzarato: sociologo - attivista del movimento degli “Intermittenti”. Marcello Tarì: antropologo - Uninomade Nordest. Giovanna Zapperi: Storica e critica d’arte redazione rivista “Multitudes”. Introducono: Marco Baravalle: Lost in production. Luana Zanella: assessora alla Produzione culturale del Comune di Venezia. venerdì 5- h.18 GALERA E/O MUSEO: street art meeting. Discussione, mostra fotografica, video. con: U_net, C>>, La cremeria, Mod’s, Overspin, Peeta Presentazione del volume “Urban Vision the book” Proiezione di “Voi sparate, io disegno” - collettivo Fuori dalle Mura
sabato 6- h.18 PRESENTAZIONE DI “ZA.REVUE”: rivista grafica con performance live audio-visual.
lost in VISUAL ARTS mostra permanente Yael Zaken Mario Ciaramitaro Nero Nero Nero Riccardo Giacconi Sten
lost in SUONI giovedì 4- h.22 Performance live di musica elettronica sperimentale. Aktiv Gaberrr!!! Datadhi sabato 6-h.22 “I Control Nature” - real time audio-video processing. The !S.A.D!
Yael Zaken
Sten
presenta: Jorat Koya: Strong and Brave. Una serie di fotografie che ritraggono alcune architetture popolari di Gerusalemme, quartieri costruiti negli anni 50 per ospitare famiglie di immigrati iracheni, algerini e marocchini. Lo sguardo della Zaken indaga e scopre segni di resistenza nascosti tra le architetture oppressive e ripetitive che ospitano queste comunità impoverite. Sebbene questi quartieri non siano stati progettati dai loro abitanti, continuano a testimoniare della caparbietà con cui essi sopravvivono e resistono all’alienazione e alle discriminazioni a cui sono sottoposti nella società israeliana.
stencil artist tra i più quotati a livello internazionale, opera nello spazio urbano riprendendo soggetti della cultura pop e personaggi comuni capaci di attirare la sua attenzione. Ironia e sorpresa sono gli elementi che caratterizzano il suo lavoro. A Lost in production presenta un poster ed uno stencil entrambi di grande formato, pensati rispettivamente per l’esterno e l’interno dei magazzini del sale.
Mario Ciaramitaro A Lost in production presenta due documentari fake (ovvero falsi), in cui, attraverso la riproduzione fedele degli schemi del genere ed accostamenti ironici, propone una riflessione sulla natura dell’informazione e sui processi di produzione di verità nei media. Bacteria, video 1,5 min, 2007 L’autotrofia è l’abilità di mantenersi in vita producendo da sè stessi il proprio cibo. Tra tutti gli esseri viventi solo alcuni batteri hanno questa possibilità. Negli ultimi anni molti istitui di ricerca hanno sviluppato programmi di ricerca genetica per poter studiare e quindi applicare ad altri esseri i meccanismi che rendono possibile l’autotrofia.
Nero è un collettivo che presenterà un’istallazione-resoconto della sua intensa attività durante l’anno passato. Nero non è un gruppo. Non è nessuna delle molteplici identità che lo compongono. Nero si genera come altro in base alla situazione in cui si trova; svela la complessità che vi è in un evento e chiede se questa realtà data per unica e unitaria sia realmente l’unica possibile. L’obiettivo è mantenere aperta la strada allo sviluppo del senso, non affermarne semplicemente uno.
Riccardo Giacconi (1985, San Severino Marche; vive a Venezia) Artista, compositore, videomaker. I suoi lavori comprendono spesso video e installazioni sonore. Si laurea nel 2007 allo IUAV di Venezia in “Arti visive e dello spettacolo” con una tesi su Italo Calvino. Collabora dal 2005 come compositore presso la compagnia teatrale NodoTeatro, a Venezia. Scrive nella rivista on-line “Segnal’etica”. “26 agosto 2007” Il fastidio causato da questa visione scaturisce dall’incapacità del nostro sguardo e dal nostro sistema percettivo di prescindere da una direzionalità temporale definita. Così, una esperienza spettacolare popolare diviene qualcosa di diverso, a cui si aggiunge sempre questo leggero fastidio. Si tratta di una vertigine, data dalla mancata chance di riconoscerci in questo mondo: qual è il limite di appartenenza ad una visione? Quando essa non è più nostra? L’incapacità di riconoscerci in uno spettacolo non è altro che la parte più spettacolare dell’incapacità di riconoscerci in un mondo. Il video è stato realizzato in collaborazione con Giulia Marzin.
Incontro con Jimmie Durham: Distruggere per creare. Strani oggetti e stereotipi culturali L’incontro con Jimmie Durham, intitolato: “Distruggere per creare. Strani oggetti e stereotipi culturali”, prende le mosse da alcune performances e installazioni in cui l’artista, utilizzando pietre di diverse dimensioni, si dedica alla distruzione di svariati oggetti (dalle miniature, ai frigoriferi, alle automobili). Questi gesti, in apparenza annichilenti, in realtà si aprono ad una lettura ambigua. Se intendiamo la distruzione come trasformazione, essa diventa un atto del tutto positivo: l’oggetto non si esaurisce, piuttosto muta la sua forma e il suo significato. Durham sembra voler prendere posizione rispetto alla caratteristica principe dell’artista. Questi infatti, cessa di essere colui che crea, per diventare colui che trasforma. L’idea di trasformazione, dunque, è il ponte che unisce la prima e la seconda parte della discussione, quella più strettamente dedicata alla ricerca postcoloniale dell’artista. Non è un caso, infatti, che Durham mutui spesso gli stereotipi che i bianchi hanno storicamente nutrito nei confronti dei Nativi Americani e li inserisca, non senza ironia, nel proprio lavoro scultoreo. Assemblaggi, apparentemente etnici, a volte primitivi, si ibridano con oggetti di scarto e materiali seriali. Il risultato è una serie di mappe in cui identità, cultura e tradizioni, sebbene si mostrino continuamente, non riescono mai ad essere ridotte all’unicità e all’omologazione.
SITUAZIONIST WORKSHOP con ZA!REVUE Workshop sulla libera collaborazione collettiva a cura di Za!Revue, rivista grafica indipendente e aperiodica. Ogni persona è invitata a mettere in gioco la propria creatività tramite illustazioni, foto, grafiche, testi, clip, con lo scopo di produrre un’interpretazione dell’ambiente e dell’istante stesso della creazione.
“Cosa cambia” di Roberto Ferrucci Marsilio Editore “Cos’è successo a Genova in quei giorni del 2001? Cos’ha lasciato nelle persone che camminavano per quelle strade spianate dal sole di luglio? Questo romanzo è tante cose. È un reportage con l’uso deliberato di un’intima soggettiva. È l’esperienza di un rito di iniziazione collettivo nell’orrore, nella violenza e nello sbigottimento. È un percorso di formazione fuori tempo, vissuto da un protagonista che appartiene a una generazione instabile, quella dei quarantenni. È un romanzo di abbandoni e di sentimenti. È la storia privata del protagonista che torna a Genova anni dopo, entra nella stanza 914 di un anonimo albergo e vi si sistema come nel cuore del suo racconto. In giorni di febbrile passività, si alternano a fargli visita tre fantasmi struggenti, tre figure femminili, Angela, Magdalena, Elisa. Ma questo romanzo è anche un documento di denuncia, freddo, composto, fatto di immagini parlanti, prive di didascalie. Il maggior merito di Cosa cambia – con la sua scrittura nitida, sottile, acuta – è di averci regalato una verità pronunciata a bassa voce là dove tutti gridano, di aver dato vita a una narrazione silenziosa e immobile, come sa esserlo una belva addormentata.”
LA BIENNALE E’ FINITA. NOI RESTIAMO. Progetti e spazi per la produzione artistica e culturale del contemporaneo a Venezia.
Il progetto S.A.L.E. nasce a partire da una riflessione sulla natura dello sviluppo che sta interessando Venezia. Certo sfruttando un segmento particolarmente qualificato della sua potenziale offerta turistica, ma cercando di guardare oltre la quotidiana violenza dell’invasione turistica, la città nel suo insieme sembra intenzionata a puntare con sempre maggior convinzione sull’arte contemporanea, su un’attività espositiva di altissimo livello, e anche sulla formazione e la ricerca legate a tale ambito. La Biennale rimane sicuramente l’evento “di cartellone”, ma al suo fianco si registrano l’operazione Pinault prima a Palazzo Grassi e poi a Punta della Dogana, la nascita della facoltà di Design e Arti dello IUAV, l’impegno della V.I.U, a San Servolo proprio sul tema della creatività e del disegno industriale, la prossima apertura dello spazio della Fondazione Vedova e l’idea, rilanciata dalla stessa Amministrazione comunale, di una “stecca” del contemporaneo che corre idealmente tra San Basilio e l’Arsenale. Senza dover menzionare, naturalmente, l’Accademia di Belle Arti con i suoi spazi didattici agli Incurabili, il TARS di Ca’ Foscari e la presenza “storica” di Fondazioni quali la Guggenheim, la Bevilaqua la Masa e la Querini Stampalia, tutti luoghi connotati, seppur in maniera differente, dall’offerta del contemporaneo. Il progetto S.A.L.E. (Signs And Lyrics Emporium) nasce dunque in questo contesto con l’intenzione di portare dal basso il proprio contributo a questa trasformazione in atto nella città, a partire da una prospettiva peculiare. Il S.A.L.E. si pone l’obiettivo di aprire uno spazio che, come Gilles Deleuze e Felix Guattari auspicavano a proposito dell’inconscio, sia fabbrica e non teatro di una contemporaneità costruita altrove. Sembrerebbe una formula vuota e scontata: basti pensare a quanti musei preferiscano oggi definirsi laboratori, spesso finendo per verificare l’ipotesi di Rosalind Krauss quando affermava che la caratterizzazione del museo come luogo di produzione lo avrebbe infine spinto tra le braccia dell’industria culturale. Formula vuota, dunque, a meno che la trasformazione di un luogo dell’arte in fabbrica (e qui non intendiamo certo ricostruire un immaginario dominato dalla manifattura fordista, quanto riferirci all’incessante interazione di cervelli che caratterizza l’odierna factory metropolitana) non avvenga attraverso un percorso di presa di posizione aperta, di assunzione piena della contraddizione, attraverso un movimento “dal basso” che abbia come protagonisti quanti faticano a sentirsi rappresentati all’interno delle istituzioni, sia artistiche che politiche. Un movimento, che sia la risultante di una serie di spinte agite da una moltitudine di giovani, studenti, artisti, attivisti, da una parte importante del tessuto sociale vivo e propulsivo di questa città, quella che in ogni parte del mondo è costantemente impegnata a far divenire altro il luogo in cui vive. In questo movimento, allora, è già in parte realizzata l’idea di un’arte, o di un discorso sull’arte, che sia immediatamente produzione di realtà, motore di cambiamento e mutazione del tessuto urbano e non mera rappresentazione. Nel nostro piccolo, con la nostra stessa esistenza, abbiamo già affermato la potenzialità dell’arte di investire il campo economico, sociale e politico, la possibilità di fare dell’arte un veicolo di desiderio. Troppo semplice? Forse sì, al S.A.L.E. siamo consapevoli del fatto che non basti appellarsi al primato della produzione immateriale e della comunicazione, per eleggere l’arte contemporanea ad ariete della sovversione dei linguaggi neoliberisti, eppure riconosciamo la sua efficacia nel confondere il confine tra fiction e realtà e, facendo ciò, a minare la narrazione ufficiale, il discorso del potere. Al S.A.L.E. non siamo nostalgici, né legati ad un ideale romantico avanguardista, sappiamo che arte e vita non coincidono, ma piuttosto che l’arte non debba smettere di attraversare e problematizzare l’intervallo tra sé e la vita stessa. Spostando l’attenzione verso un’altro livello, quello dell’attività concreta del S.A.L.E., vorremmo lavorare su due piani complementari: il primo riguarda un rapporto continuativo e flessibile con il tessuto di giovani artisti di questa città, in particolare con gli studenti delle facoltà d’arte, rapporto fatto di mostre, eventi, incontri e, soprattutto, di reciproca frequentazione. Il secondo piano è quello invece legato ad un percorso di mostre e seminari che sia il frutto della nostra attenzione verso la situazione artistica e teorica internazionale e che esprima appieno la nostra progettualità. Il primo passo in questa direzione è previsto per gennaio 2008 e si concretizzerà con una mostra sul tema dei rapporti tra arte contemporanea e attivismo. In questi nostri primi due mesi di attività siamo stati costretti a perdere troppo tempo con le sabbie mobili della burocrazia, con la rigidità di regole spesso incomprensibili, con le polemiche strumentali e inutili del teatrino della Politica ufficiale. Ora, con la promozione di questo incontro intitolato “La Biennale è finita. Noi restiamo.”, il S.A.L.E. vuole invitare ad un confronto, fuori dagli schemi e dalle appartenenze precostituite, i più importanti attori istituzionali che si occupano di arte contemporanea in città allo scopo di “fare il punto” sullo stato delle cose e sui progetti in corso, capire come queste istituzioni stiano lavorando e come esse interpretino i ruoli dell’arte e della ricerca ad essa legata nella costruzione della Venezia del presente, come infine la dimensione informale espressa dalla nostra esperienza possa misurarsi con questo scenario in evoluzione.
Mercoledì 12 dicembre h.17 Magazzini del Sale - Venezia
TROUBLE MAKERS Arte, inchiesta, spazio pubblico e movimenti sociali. Ci sono alcune parole chiave utili a collegare i lavori in mostra: spazio pubblico, movimenti sociali, inchiesta, documentario, lavoro. E’un diagramma che descrive un “fuori artistico” e rimanda, inevitabilmente, ad una costellazione postmediale che solo un piccolo amo immaginario potrebbe tenere ancorata alla storia dell’arte. Ma l’amo è immaginario, appunto, superflua la sua funzione d’appiglio. Infatti, il superamento della specificità mediale è un processo avviato a partire dagli anni Sessanta per merito del Minimalismo attraverso la sua caratterizzazione dell’opera come esperienza percettiva, vale a dire calata all’interno dello spazio degli oggetti e dei corpi piuttosto che in quello trascendentale proprio della pittura tardo-modernista. Spazio che per alcuni artisti degli anni Settanta diventa sociale, istituzionale e come tale indagato in tutte le relazioni di potere ed i rapporti di forza che lo attraversano. E’ in questa decade che il contenitore diventa contenuto, in quella traslazione che un critico ha definito come l’ultima forma dell’ accademismo modernista. La specificità del sito sostituisce la specificità mediale, trasformando lo spazio museale da luogo di storicizzazione a luogo di produzione, spingendo l’arte, secondo un altro punto di vista piuttosto critico, tra le braccia dell’industria culturale. Questo movimento di deterritorializzazione dell’opera che inghiotte la cornice e le peculiarità del medium non è, naturalmente, un processo lineare e progressivo. Dopo l’accelerazione impressa dal ventennio Sessanta-Settanta, si registrano spinte di reazione, correnti che, in particolare negli anni Ottanta, grazie al sostegno del mercato, lavorano per un ritorno alla pittura, alla figurazione, ai media tradizionali. Dunque, nonostante il sospetto d’accademismo e l’odore di industria culturale (critiche che è certamente giusto non sottovalutare) questo movimento di deterritorializzazione dell’opera, questo mutamento ontologico si dà come uno dei fondamentali momenti di rottura con il tardo modernismo di matrice greenbergiana, con il suo anelito alla purezza, all’eliminazione di tutti quegli elementi non immediatamente incolonnabili sulla linea della tradizione artistica e, perciò, percepiti come kitchs. Da questa sommaria genealogia si evince il percorso che ha condotto ad una modificazione sostanziale dei criteri del giudizio
artistico; se l’opera eccede la cornice per indagare lo spazio sociale ed istituzionale, allora ciò che importa sarà l’analisi della sua funzione, ovvero del suo effetto sociale. In questo senso l’arte legata ai movimenti sociali può essere vista come una prosecuzione di tale traiettoria di allargamento dei confini dell’opera. Se l’oggetto minimalista aveva in qualche modo incrinato la convinzione nell’autonomia dell’opera d’arte, offrendole invece una linea di fuga verso lo spazio sociale attraverso la sua attenzione alle caratteristiche materiali del contesto espositivo ed alla sua necessità di essere esperito piuttosto che letto, oggi, l’arte legata all’attivismo può permettersi di dare per acquisito questo passaggio, di abbandonare il riferimento diretto allo spazio galleristico per prendere in considerazione le contraddizioni di spazi politici, economici e sociali sia locali che globali. Essa può, ad esempio, rivolgersi alla forma documentario, non tanto per affrontare attraverso di esso l’ analisi delle peculiarità tecniche del video digitale, quanto, piuttosto, per sfruttarne le caratteristiche di flessibilità di impiego ed economicità allo scopo di farne un mezzo di inchiesta, uno strumento conoscitivo rispetto al nostro tempo ed ai movimenti sociali contemporanei. La forma documentario, inoltre, potrebbe venire facilmente indicata come uno dei principali strumenti di auto-rappresentazione, elemento vitale per sfuggire alle distorsioni dei media ufficiali, eppure c’è qualcosa di più. In questa mostra, infatti, la quasi totalità degli artisti è formata da attivisti o, perlomeno, da persone che in passato hanno intrapreso un percorso di militanza. Nelle loro mani il documentario perde la sua caratteristica di apparente imparzialità per diventare un vero e proprio atto di partecipazione nella definizione di una soggettività in lotta. Certo non possiamo giungere a conclusioni risapute e scontate, non si tratta qui di far coincidere l’arte con l’attivismo politico, di far sparire la prima nel secondo, di fonderli. Si tratta piuttosto di accettare che l’arte faccia rizoma, ovvero che proceda all’interno di un’infinità di processi di deterritorializzazione e riterritorializzazione, che essa si faccia veicolo di desiderio capace di innestarsi sulla dimensione politica, sociale, economica, per poi tornare a riferirsi alle vicende della storia dell’arte, a citarla, criticarla, legittimarla, in poche parole, a farne parte. Non si tratta della vecchia questione di far coincidere arte e vita, artista e produttore, ma si tratta piuttosto di accettare la
loro differenza come elemento non esclusivo, come un ponte utile a collegarli piuttosto che un baratro che li divide. Si tratta, inoltre, di accettare una sfida del nostro tempo, del nostro modello di produzione postfordista basato sulla centralità del lavoro immateriale, della conoscenza e degli affetti. In tale contesto l’arte assume certamente nuove potenzialità, si trova a guadagnare efficacia in quanto strumento adatto alla decostruzione della narrazione ufficiale, dei linguaggi del potere, come mezzo in grado di problematizzare il confine apparentemente netto tra fiction e realtà. A proposito di contesti, credo valga la pena segnalare, in conclusione, la particolarità del S.a.L.E., spazio artistico no profit e, contemporaneamente, spazio di movimento. Il gruppo che anima il S.a.L.E. è composto da attivisti, studenti, artisti e lavoratori immateriali. Il progetto nasce dalla nostra riflessione intorno alla natura dello sviluppo che sta interessando una città come Venezia, la quale, già caratterizzata da più di un secolo di Biennale, sta, negli ultimi anni, investendo in maniera sempre più decisa nel settore dell’arte contemporanea. Ne sono prova l’operazione legata al miliardario francese Pinault che entra nella gestione di Palazzo Grassi e nella prossima apertura dei nuovi spazi espositivi di Punta della Dogana proprio a pochi metri dal S.a.L.E., la creazione di una nuova facoltà di Arti e Design, l’assegnazione alla Fondazione Vedova del magazzino adiacente al S.a.L.E. e, infine, l’idea di Comune di promuovere una stecca del contemporaneo che si dipani idealmente attraverso una porzione importante del centro storico. Tutte operazioni che denotano una progettualità lungimirante rispetto all’arte contemporanea, ma che corrono il rischio di esaurirsi in una strategia di mercato diretta al cosiddetto turismo d’ élite. Da parte nostra, come attivisti, artisti e ricercatori crediamo che l’arte e la produzione culturale facciano parte di quel comune che dobbiamo conquistare e costruire e che possano, perciò, divenire uno strumento importante di critica rispetto al nostro tempo e, magari, forme efficaci di intervento e di mutamento del tessuto urbano. E’ chiaro che tale compito spetta a noi in quanto attivisti, alle soggettività informali e di movimento; è per la loro natura stessa che le istituzioni, sia artistiche che politiche, letteralmente non possono rispondere a questa urgenza, ciononostante, possono cogliere il carattere di opportunità rappresentato da un’esperienza come, ad esempio, quella del S.a.L.E. e tentare di non ostacolarla. In questo senso, i pochi mesi di vita del S.a.L.E. hanno sollevato essenzialmente un problema; quello della natura di una città come Venezia che sembra aver scelto di dare in affitto il proprio destino, una città ricca di potenzialità, ma avara, per spazi e mentalità, nei confronti di quel tessuto sociale di studenti, attivisti e precari decisi a trasformare la città in “fabbrica”, anziché in teatro prestigioso di una contemporaneità costruita altrove. Il percorso del S.a.L.E. ha incontrato un grosso consenso ed è stato reso possibi-
le dal nostro lavoro “dal basso” teso ad infilarsi in quegli stretti spiragli aperti dai modelli di governance impiegati dall’amministrazione. Ma oltre al consenso, com’era prevedibile, il S.a.L.E deve fare i conti con le resistenze di una parte importante della politica istituzionale cittadina, sia di destra che di sinistra, preoccupata di tenere sotto controllo l’immagine di una città in cui il decoro fornisca il make up alla degradante, questa sì in termini culturali, invasione del turismo di massa. Parti politiche felici di sostenere progetti artistici di grande richiamo, ma incapaci di relazionarsi quando l’arte tenta di prendere posizione, di partecipare, come nel caso del S.a.L.E. ai processi reali che definiscono il presente e forse il futuro, di una città.
Matei Bejenaru “Carne” – Video – 2008 Carne è il video di una performance avvenuta a Venezia, l’opera è stata pensata su misura per Trouble Makers e prodotta dal S.a.L.E. In uno spazio pubblico di Venezia, l’artista ha posizionato sul terreno cinquanta piatti di alluminio in modo a formare la parola CARNE, poi ha liberato un gruppo ci cani che si è avventato sulla vera carne che riempiva i piatti. L’opera intende riflettere sull’attuale concezione dello spazio pubblico e sul suo carattere di aggressività brutale che emerge dal trattamento mediatico di molti fatti di cronaca. L’opera può essere inoltre letta come un aggiornamento ironico del Bel Paese di Cattelan prodotto negli anni 90. “Carne” – Video – 2008 Carne is the video of a performance happened in Venice, the piece was thought especially for Trouble Makers and produced by S.a.L.E. In a public space in Venice the artist used fifty aluminium plates to form the word CARNE (meat) on the ground, then he released a group of dogs allowing them to eat the meat which filled the plates. The work deals with the problem of public space and the concept of brutal aggressiveness which media often attach to it. The piece could also be seen as an ironical updating of Maurizio Cattelan “Bel Paese” from the 90s.
Serpica Naro
So we decided that the hosts of the opening deserved something different.
“Cacca Cookie” – Action Video – 2007
“The only Thing Missing is You” Mirror – 2008
Ogni mattina prendevamo la metropolitana e non poteva sfuggirci la pubblicità della mostra che celebrava i 35 anni di creatività di Vivienne Westwood. E guarda un po’ (in uno dei nostri luoghi di lavoro) arriva un invito per l’inaugurazione della mostra a Palazzo Reale. Un bel pezzettone di cartone patinato. L’occhio ci cade però soprattutto sugli sponsor dell’iniziativa. Oltre alla Regione Lombardia c’è una società, la Quientessentially: “In una società in cui il tempo rappresenta sempre più la vera risorsa scarsa per eccellenza, esso diventa di conseguenza anche il più ambito dei lussi. Quintessentially e’ in grado non solo di condurla nel mondo del lusso più sofisticato, ma anche di risolvere alcuni dei vostri piccoli problemi (dove trovare un regalo all’ultimo minuto, una brava tata, la migliore palestra in città...etc) aiutandola a impiegare al meglio il suo tempo libero...” A questo punto abbiamo deciso che gli ospiti dell’inaugurazione si meritavano ben altro… “Cacca Cookie” - Action Video – 2007 Every morning we took the underground and we couldn’t miss the advertising of the exhibition celebrating 35 years of Vivienne Westwood creativity. And... what a surprise! One of our working places receives the invitation to the opening of the show at Palazzo Reale. A nice big peace of glossy cardboard. What really attracts our attention are the sponsors of the event. Apart from Regione Lombardia there is a company, Quintessentially: “ In a society where time represents more and more the true insufficient resource, consequently it becomes the most desired luxury. Quitessentially can not only lead you into the world of the most sophisticated luxury, but it can also solve some of your little problems (were to find a last minute gift, a good baby-sitter, the best gym in town. etc.) helping you to spend your time at best.”
“The Only Thing Missing is You” Specchio - 2008
Carlos Motta
Marcelo Exposito
“Memory of a Protest” – Video – 2007 Memory of a Protest, 2007, è un documentario girato durante la protesta pubblica di Kamarikun, un’organizzazione cilena che si batte per i diritti umani. La manifestazione, risalente al 2006, tenutasi a Santiago del Cile, protestava contro la Scuola delle Americhe. Questa istituzione è stata un’importante risorsa per la politica estera statunitense in America Latina durante tutta la Guerra Fredda. Fondata nel 1946 a Fort Gulig, nella regione del Canale di Panama è stata ridislocata a Fort Bening, GA, nel 1984. Nel 2001 la scuola ha cambiato il nome in Hemisphere Institute for Security Cooperation, ma i suoi metodi e le sue ideologie rimangono le stesse. Gli oppositori della Scuola affermano che essa ha addestrato più di 61.000 soldati latino americani a perpetuare la tortura e la violenza, continuando a fomentare il disprezzo per i diritti umani. Piece “Memory of a Protest” – Video - 2007 Memory of a protest, is a documentary shot during a public protest by a Chilean human rights’ organization, Kamarikun, against the School of the Americas in Santiago, Chile, in late 2006. The institution has been an important asset for US foreign policy in Latin America throughout and after the Cold War. It was established in 1946 in Fort Gulig, in the Panama Canal region and relocated to Fort Bening, GA, in 1984. The school changed its name to Western Hemisphere Institute for Security Cooperation in 2001, but its methods and ideologies remain the same. Opponents of the school claim that it has trained more than 61,000 Latin American soldiers to perpetuate torture and violence and to continue fomenting a disregard for human rights.
Claire Fontaine “A fire is a fire is not a fire” - Video - 2005
“L’anno in cui io futuro finì (cominciò)” – video – 2007 Edited by Nuria Vila. Realizzato in collaborazione con: Asociación para la Recuperación de la Memoria Histórica de Cuenca. L’anno in cui il futuro finì (cominciò) ( 2007) prende spunto dalla commemorazione del tredicesimo anniversario delle prime elezioni generali democratiche della Spagna post-franchista. Il video mette in discussione il racconto ufficiale del processo di democratizzazione spagnolo, teoricamente culminato in queste elezioni del giugno 1977 che, di conseguenza, potrebbero essere indicate come il momento rituale fondamentale nell’affermazione di un sistema democratico basato sul graduale soffocamento di ogni attività democratica estranea o critica nei confronti della centralità assoluta ed esclusiva che il nostro sistema politico assegna al rito delegante del voto e all’imperativo del “consensus”. Il video è strutturato attorno ad un’ipotesi e ad un esperimento. L’ipotesi è che i racconti della transizione democratica siano in larga parte resi veritieri attraverso una forma di rappresentazione visuale basata su immagini sovra-codificate che, paradossalmente, mostrano sempre meno e, allo stesso tempo, ostacolano la possibilità della comprensione degli eventi storici che teoricamente rappresentano. L’esperimento pone una domanda: cosa succede se la rappresentazione di trent’anni di storia non si interrompe al 1975 (morte del Generale Franco), ma si estende all’indietro per settant’anni, compressa in un conto alla rovescia visuale lungo appena dieci minuti? Il risultato è un artefatto non verbale basato su di un uso fortemente antinaturalistico del documentario e delle immagini d’archivio che, attraverso “rappresentazioni involontarie” e meccanismi discorsivi più vicini alla logica del sogno che ad un resoconto discorsivo o narrativo ( condensazioni, rimozioni, associazioni, riverberi), rivela alcune delle contraddizioni, dei problemi, dei subdoli silenzi e persino delle evocazioni terrificanti dei processi politici e sociali del XX°secolo. La fine del conto alla rovescia inaspettatamente ci conduce al presente e ad uno dei movimenti sociali che più radicalmente problematizza la convinzione che il resoconto ufficiale della transizione democratica chiuda adeguatamente la relazione del presente con il passato. Tale messa in discussione avviene attraverso la condivisione di una quantità oceanica di lavoro,
conoscenza, capacità, memoria ed affetti allo scopo di recuperare coloro i quali morirono durante la Guerra Civile o che soffrirono rappresaglie per mano del regime franchista nel primo dopoguerra e che ancora sono sepolti a centinaia, in tutta la Spagna, anonimamente, disumanamente e senza dignità Nell’introduzione al video, una riflessione brechtiana di Heiner Müller suggerisce che solo a condizione che si “lavori” sulle immagini esse possono diventare uno strumento di memoria, poiché non possiamo aspettarci che la memoria emerga da queste attraverso la mera contemplazione. A questo punto, il loop storico si chiude con l’ammonimento che apre il libro del 1900 attraverso cui Sigmund Freud espose il meccanismo di funzionamento del sogno: per capire i nostri incubi, dobbiamo “frugare il mondo sotterraneo”. “The year in which the future ended (began)” – video - 2007 Edited by Nuria Vila. Made in collaboration with the Asociación para la Recuperación de la Memoria Histórica de Cuenca. The year in which the future ended (began) (2007) responds to the thirtieth anniversary commemoration of the first democratic general elections held in Spain after the end of Franco’s regime. It does so by questioning the official account of Spain’s process of democratisation, supposedly culminating in these June 1977 elections, which could thus be seen as a key ritual moment in the establishment of a democratic system built on the basis of the gradual stifling of all democratic activity outside or critical of the absolute, exclusive centrality that our political regime gives to the representative rite of the vote and the imperative of “consensus”. The video is structured around a hypothesis and an experiment. The hypothesis: that official accounts of the transition to democracy are largely naturalised through a form of visual representation based on over-codified images that, paradoxically, increasingly show less and at the same time increasingly hinder the possibility of understanding the historical events that they supposedly represent. The experiment: what happens if the representation of 30 years of history doesn’t stop in 1975 (General Franco’s death) but extends back 70 years, compressed into a barely 10-minute long visual countdown? The result is a non-verbal artefact based on a strongly anti-naturalistic use of documentary and archival images, which, through “involuntary representations” and non-discursive mechanisms that are closer to dream logic than to a discursive or narrative account (condensations, displacements, associations, reverberations), reveals some of the contradictions, problems, subtle silencing and even terrifying evocations of our political and social processes of the 20th century.
The end of the countdown unexpectedly brings us to the present and to one of the social movements that is most hard-hitting in the way it questions the belief that the official account of the transition to democracy adequately brings closure to the present’s relation to the past: by sharing an oceanic wealth of work, knowledge, skills, memories and affections in order to recover those who died during the Civil War or who suffered reprisals at the hands of Franco’s regime in the early post-war period, and who are still buried in their hundreds, anonymously, inhumanely and without dignity, throughout the Spanish territory. In the introduction to the video, a Brechtian reflection by Heiner Müller suggests that only on the condition that we “work” on images can they be an instrument of memory, since memory cannot be expected to arise from them through mere contemplation. Having reached this point, the historical loop that this video puts forth closes with the admonishment that opens the 1900 book through which Sigmund Freud exposed the mechanisms of dream work: to understand our nightmares, we must “stir up the underworld”. “La imaginaciòn radical”- Video – 2004 This video is the second episode of “Entre Suenos” series. Here the author focuses on the experience of the collective Reclaim the Streets, one of the protagonists of the construction of the new forms of the activism during the 90s. Reclaim the streets affirmed his effectiveness trough radical and creative occupations of the “public” space in London and other cities in the UK. In particular this video shows the occupation and the block of the City, the financial core of London, during one of the main actions of the Global Action against Capital Day on June 18th 1999. “La imaginaciòn radical” – Video - 2004 Questa video rappresenta la seconda puntata della serie “Entre Suenos”. In questa occasione l’autore recupera l’esperienza del collettivo Reclaim the Streets, uno dei protagonisti della costruzione delle nuove forme di fare politica negli anni Novanta. Reclaim the Streets ha affermato la sua efficacia attraverso occupazioni radicali e creative dello spazio “pubblico” di Londra e di altre città britanniche. In particolare, il video riguarda l’occupazione e la paralisi della City, il centro finanziario di Londra, in una delle azioni principali della giornata dell’Azione Globale contro il Capitale che ebbe luogo il 18 giugno del 1999.
Andreas Siekmann
“Trickle Down: Public Space in the age of its privatization”
“Trickle Down: lo spazio pubblico nell’epoca della sua privatizzazione”
This glossary pertains to the drawings that are partially recognisable on the sphere made of destroyed figures, to the signs on the container (these are the destroyed figures), to the printouts that have been affixed to the wall of the Erbdrostenhof, and to the plaques in the foyer. Collectively, these drawings and signs present a narrative – an analysis of the current privatisation of the public sphere and the role that the fibreglass-reinforced plastic figures play in this process, which we have been witnessing for some years now. Part of the so-called ‘urban art’ of the various metropolitan departments of city marketing, these figures are usually in the form of animals and appear in city centres after having been painted by artists and funded by sponsors, entrepreneurs, or business people. By now, around 600 cities and municipalities have been furnished with these event sculptures, which are promoted at parades, events, gala evenings, and charity auctions. They can be put to use anywhere – not to narrate a city’s present history and historical past, but to make a brand out of them. The following figures were selected for the project: an elephant from Hamm, a cyclist from Pforzheim, a swan from Neumünster, a bear from Berlin, another bear from Freising, a water carrier from Hamburg, a golden rider from Dresden, a rat from Hameln, a horse from Aachen (and Niedersachsen), a lion from Munich (and Leipzig), a rhinoceros with wings from Dortmund, a pig from Bühl (and Seattle), and, lastly, a cow from Zurich (this was the prototype for the entire urban beautification movement and has since appeared in several cities worldwide). The figures were painted with scenes related to their form of organisation: to theevent marketing operations that installed them the city, and to the social procedures, repression techniques, and images of a new society that are associated with each event. The figures also appear on the ties and lapel pins worn by the representatives who negotiate the most important deals when selling off cities and their public institutions. They are, in effect,the mute audience of an economic transformation that began in the 1980s, evolved into a polemical ideological campaign of the neoliberal movement during the 1990s, and reached its present form over the past ten years. Discussions of art in the public sphere have run parallel to this development and are now being monopolised by these figures. The following glossary will serve to define some of the key terms in the visual narratives that are devoted to this process of transformation.
Questo glossario riguarda I disegni che sono parzialmente riconoscibili sulla sfera fatta di figure distrutte, le immagini sul container (queste sono le figure distrutte), le stampe che sono state affisse al muro dell’Erbdrostenhof e le placche nell’ingresso. Collettivamente, questi disegni e queste immagini presentano una narrativa – un’analisi sulla privatizzazione in atto della sfera pubblica e del ruolo che le figure in plastica e vetroresina rinforzato ricoprono in questo processo di cui siamo testimoni da un certo numero di anni. Parte della cosiddetta “arte urbana” dei diversi dipartimenti metropolitani di city-marketing, queste figure spesso rappresentano animali e appaiono nei centri cittadini dopo essere state dipinte da artisti e finanziate a sponsor, imprenditori o gente del mondo degli affari. Ad oggi, circa seicento tra città e municipalità sono state fornite di queste sculture evento, spesso promosse in occasione di parate, eventi, serate di gala, aste di beneficenza. Possono essere utilizzate ovunque – non per narrare la storia presente di una città e il suo passato storico, bensì, per trasformarla in un marchio. Per il progetto sono state scelte le seguenti figure, un elefante da Hamm, un ciclista da Pforzheim, un cigno da Neumunster, un orso da Berlino, un altro orso da Freising, un uomo che trasporta acqua da Amburgo, un cavaliere dorato da Dresden, un topo da Hameln, un cavallo da Aachen e ( Niedersachsen), un leone da Monaco (e da Leipzig), un rinoceronte alato da Dortmund, un maiale da Buhl (e da Seattle), e, per ultima, una mucca da Zurigo ( questa è stata il prototipo per l’intero movimento di abbellimento urbano e da allora è apparsa in diverse città in tutto il mondo). Queste figure sono state inserite in scene relative alla loro forma d’organizzazione: a partire dalle operazioni di marketing/evento che le hanno installate nelle città , fino alle procedure sociali, alle tecniche di repressione e alle immagini di una nuova società che sono associate a ciascun evento. Le figure appaiono anche sulle cravatte e sulle spille indossate dalle rappresentative che negoziano gli affari più importanti quando di tratta di vendere le città e le loro istituzioni pubbliche. Queste figure sono, in effetti, il pubblico muto di una trasformazione economica iniziata negli anni Ottanta, evolutasi in una campagna ideologica polemica del movimento liberale durante gli anni Novanta che ha raggiunto la sua forma attuale negli ultimi dieci anni. La discussione intorno all’arte nella sfera pubblica hanno corso parallelamente a questo sviluppo e stanno per essere monopolizzate da queste figure. Il glossario che segue servirà per definire alcuni dei termini chiave nelle narrative visuali che interessano questo processo di trasformazione.
TROUBLE MAKERS Art, enquiry, public space and social movements There are some key words that connect pieces within the exhibition. Those are public spaces, social movements, enquiry, documentary and work. This diagram designs an “artistic outside” and it inevitably refers to a postmediatic constellation, that just an imaginary hook could tighten to history of arts. The hook is imaginary and there it comes its useless grip. The process of overcoming the medium specificity started back in the Sixties thanks to Minimalism, which characterizes works as perceptive experiences. This is to say that objects and bodies are set within space, a space that is other from the trascendent of late modern art. In the Seventies the same space becomes social to many artists. Social leads to institutional and therefore to all power and strength relations that cross it. In the Seventies containers become contents in a way that some critics call it the last form of modern academia. The site specificity substitutes the one of the medium, producing what another quite critical voice calls a transformation of museums from a historical to a productive place, pushing art, by consequence, into the arms of cultural industry. This movement of de-territorialization of the artwork which swallows its frame and the medium specificity is not a linear nor a progressive process. Sixties and Seventies speeded up changes, after such decades in the Eighties it was the time of reaction and thanks to market some moved back to figurative painting and traditional media. In spite of the suspicion of academism and the hint of cultural industry (we are not undertaking critics) this de-territorialization movement, this ontological mutation comes as fundamental rupture moment against Greenberg’s modernism that searches purity and cancellation of elements that cannot be set into the line of artistic tradition ( and for this reason are considered kitsch). This quick genealogy helps pointing out the path that led to a substantial change in artistic criticism. If the work exceeds its frame to investigate social and institutional space, then what does matter is its function and the analysis of its social effect. In this sense art linked to social movements can be read as the prosecution of this trajectory of enlargement of the artwork borders. Minimal object had somehow bent the idea that art is autonomous and as a consequence it offered the possibility of leading to social spaces through out the attention to the material characteristics of exhibition space itself and through out its need of being experienced instead of being read. To-
day art linked to activism can consider this passage as already stated. It can abandon the immediate reference to gallery spaces for the study of contradictions within local and global political-economical-social spaces. For instance documentaries become a widespread mean. Documentaries though are not used to focus upon the analysis of digital video peculiarities but it is their flexibility and economy that is used to organise enquiry: documentaries are a cognitive mean of contemporary times and of contemporary social movements as well. Documentaries could also be easily pointed as a principal mean of self-representation, which is a vital element against mainstream media distortions. There’s anyway more. In Trouble Makers, for example, the most of artists are actually movement activists or people that in the past had some connection to movements. In their hands documentaries loose its apparent impartiality and they take part into the definition of subjectivities in struggle. We of course cannot rush to banal conclusions; we do not wish to state that art is political activism. Nor we say that art disappears in activism, that they are the same thing. We more than that wish to accept that art produces rhizome, which is to state that art proceeds through de-territorialization and re-territorialization processes, that it becomes vehicle to desire, being able to engage with political, social, economical dimensions and then it circles back to history of art, whose happenings can become quoted, criticized or legitimized. In other words, it can be part of history of art. We are not referring to the old issue of unifying art and life, producers and artists. We are meaning to accept that their difference is not an exclusive element; it rather is a bridge that links them up. It is also a question of taking up today’s challenge, the challenge of postfordist production that is mainly based on immaterial labour, knowledge and affections. In such a frame, art has new potentials and it earns in efficiency. Its being a mean that deconstructs official history telling and powers’ languages is explained with its being able of deepening the apparently fixed border between fiction and reality. We many times quoted the question of contexts, frames and museum. Just a few words, in the end, are dedicated to S.A.L.E. S.A.L.E. is a no profit artistic space and a movements’ space as well. Activists, students, artists and immaterial workers form the group that animates S.A.L.E. The project comes from a reflection on the nature of the development of Venice where the Biennale was born a century ago. In the last years Venice has started investing in contemporary art. Punta Della Dogana with the French multibillionaire Francois Pinault (who is already in charge of Palazzo Grassi), the opening of university of Art and Design, the assignation to Fondazione Vedova of the warehouse next to S.A.L.E. are just few examples of the Council’s goals and objectives. These operations prove to be foreseeing projects in contemporary art. But the risk is that everything ends up in a strategy to attract an élite cultural tourism.
From our specific point of view of activists, artists and researchers we believe that art and cultural production are part of the so-called “commonwealth” that we need to conquer and build. Art can therefore become an important mean of critic of our times and it may as well become a mean of intervention and change within urban grounds. We are the ones that need to take action in this sense. Activists, informal subjects and movements can by nature urge an answer that institutions are not able to give. But, on their side, these can see the great opportunity (instead of hindering them) that experiences like S.A.L.E. do represent. In few months S.A.L.E. raised a problem in a town like Venice, which seems to lead to the rental of its future fate. Venice is rich in potentials but it also is mean in spaces and mentality towards students, activists, flexible workers whose aim is to transform the city into a “factory” rather than a prestigious theatre that shows contemporary ideas created elsewhere. S.A.L.E. found great consensus and it has been made possible through a great job “from below” among administration’s governance knots. Anyway S.A.L.E. (and this was predictable) clashes with an important part of local politicians (both from right and left wings) that are worried about keeping under control the image of a city in which decorum works as the make up for the really degrading (at list in cultural terms) touristic invasion. Some politicians are more concerned in promoting “well known and famous” artistic projects, which are not able to relate (as S.A.L.E. does) to real processes that define present and maybe future times of a town.
“Guilty At The Dock”. Ovvero, i colpevoli sul banco degli imputati. Di cosa? La provocazione sta tutta qui, i graffiti, il writing vivono sotto la continua minaccia di una repressione sempre più incalzante ed esplicita; ormai all’ ordine del giorno sono gli arresti e le perquisizioni, i processi. Nello specifico della nostra città, Venezia durante lo scorso anno sono state compiute perquisizioni nelle case di writers locali ed aperta un indagine della quale non sono ancora resi noti i capi d’ accusa. Questa direzione politica verso la tolleranza zero, questo continuo inasprimento delle retoriche di sicurezza è, secondo noi, il reale danno alla cultura ed è da combattere: dietro una propaganda ignorante si cerca di creare la legittimità per ampliare i meccanismi di controllo sociale. Utilizzando lo spauracchio del criminale, quindi del writer, dell’ ultras o dell’immigrato clandestino si accetta di vivere osservati continuamente da occhi digitali di telecamere puntate su luoghi pubblici, angoli di città dove tutto è raccolto, tutto è registrato, dove la spontaneità talvolta è punita. “Guilty At The Dock” si presenta come il secondo capitolo di un progetto di mostre dedicate al writing da parte del S.A.L.E. “Guilty At The Dock” intende indagare a fondo ed esporre quale sia la reale natura di questa forma d’arte, di cui un carattere essenziale è l’espressione spontanea sui supporti che offre la città, quindi si manifesta nell’ illegalità. Da questa spontaneità si creano quegli elementi che fanno del writing, e dell’arte di strada in generale, una reale forma di attivismo sociale e forse artistico: dipingere le superfici dei treni o dei muri anonimi di città e periferie è un chiaro tentativo di evasione dall’alienazione che caratterizza la modernità, di ribellione rispetto all’omologazione dei segni e delle espressioni. Si tratta di un “arte” povera che lotta per rimanere tale, che ruota intorno alla creatività spontanea, trasforma di fatto l’alienazione in riflessione e rompe l’orizzonte di segni e linguaggi standardizzati e ripetuti.
Urban-Code.
Laboratorio multimediale “SPAZIO E SAPERI MIGRANTI” Laboratorio multimediale per una cartografia partecipata dello spazio europeo. Tre giornate di laboratorio multimediale caratterizzate dallo scambio di dati, supporti media e materiali frutto della produzione delle reti europee che vi partecipano. Il soggetto è quello delle migrazioni, dei movimenti di persone che trasformano i territori, negoziano i confini, ridisegnano gli spazi. Un’iniziativa aperta che rappresenta la seconda tappa (la prima avvenuta a Parigi – Ottobre 2007) di un percorso in costruzione e in continua elaborazione che ha l’obiettivo di realizzare una cartografia partecipata dello spazio europeo che non sia una mera rappresentazione dei confini geografici convenzionalmente sanciti ma rappresenti uno spazio segnato dalle lotte, dalle soggettività e dai condizionamenti, dalle rivendicazione di un diritto alla mobilità e alla scelta che negozia i confini della propria libertà nel confronto con i dispositivi che cercano di imbrigliarla. In queste giornate verranno approfondite tematiche legate ai confini, alle frontiere e alle attuali politiche di sicurezza e controllo europee imposte all’immigrazione con un particolare approfondimento sui centri di permanenza temporanea in Italia e in Europa. Il tutto con la presenza di diverse realtà coinvolte attivamente nella lotta e nei percorsi di difesa dei diritti dei migranti e con chi (studenti, ricercatori, artisti...) volesse contribuire grazie a materiali liberi da diritti d’autore (foto, testi, materiale iconografico, audio, video, suono/musica) alla creazione di una mappatura multimedia che rappresenti i contenuti sopracitati. Il laboratorio media permetterà di acquisire le competenze necessarie a comunicare in videoconferenza streaming infatti durante la giornata verranno realizzate delle viedeo-conferenze con collettivi presenti in zone di confine o impossibilitate a muoversi (Spagna, collettivi Rom e dei sans-papier di Parigi).
R/ESISTENZE Presentazione a Venezia Giovedì 3 aprile 2008 ore 18.00 Chiapas Italia Kurdistan Afganistan Percorsi di donne nelle esperienze di autonomia Intervengono: Gabriella Mercadini Fotografa Vilma Mazza Associazione Ya Basta Martina Vultaggio Presidio Permanente No Dal Molin In tutto il mondo le donne sono protagoniste quotidiane di storie di resistenza a volte invisibili e sconosciute. R/ESISTENZE vuole essere l’occasione per conoscere e raccontare con immagini queste donne, la loro tenacia, la loro creatività, il loro coraggio. Le immagini raccontano l’impegno delle donne nella lotta per la pace, per la propria terra, per la casa, la giustizia e per il riconoscimento stesso, all’interno della società, della dignità di donna. Un ponte inedito di immagini che dalla nostra terra, dalla lotta per la pace che si sviluppa nel cuore del Veneto, a Vicenza, ci porta ad altri luoghi, lontani ma vicini per l’impegno quotidiano delle donne. R/ESISTENZE ci racconta anche una esperienza particolare. La storia di un Erbolario, in cui produrre e far circolare le conoscenze delle erbe naturali, costruito nel villaggio zapatista de La Realidad, in Chiapas Messico. L’Erbolario, costruito con il sostegno delle associazioni di Venezia e Mestre, rappresenta una particolare esperienza attraverso la quale le donne indigene zapatiste hanno raccolto i saperi ancestrali e li hanno messi a disposizione delle comunità.
MOSTRA FOTOGRAFICA Donne in movimento per la pace. Immagini, dialoghi e racconti. Le storie delle resistenze al femminile presenti nell’esposizione ci raccontano con circa 30 scatti storie di donne nel mondo. Le donne in Palestina, le rifugiate in Giordania e Libano, la lotta quotidiana per resistere all’occupazione o all’esilio forzato, la capacità di autoorganizzarsi in associazioni e cooperative per respingere chi le vuole costrette ad una vita di sofferenze e violenza. Le donne kurde che contribuiscono all’affermazione dell’autodeterminazione e dell’autonomia del proprio popolo. Le indigene zapatiste del Chiapas viste nell’arco di 13 anni di lotta per il proprio riconoscimento come indigene e come donne, i loro lavori collettivi sulla salute, l’educazione e la produzione, il percorso di autonomia e la presenza nell’esercito zapatista di liberazione nazionale. In particolare la storia dell’Erbolario a La Realidad. Le donne di Vicenza e il loro impegno nel movimento per la pace e contro la costruzione della nuova base militare americana Foto di Simona Granati e Gabriella Mercadini. Organizzato dall’associazione Yabasta, Donne in movimento
Gabriella Mercadini Nata a Venezia, si divide tra la città lagunare e Roma dove svolge la sua attività di fotogiornalista dal 1968. Per alcuni anni si è dedicata al reportage antropologico, viaggiando per i continenti, specializzandosi poi in problematiche sociali, soprattutto in Italia. Predilige il bianco e nero. Ha collaborato con varie testate nazionali ed estere: Paese Sera, l´Unità, Rassegna, Il Messaggero, La Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Noi Donne, L´Espresso, Panorama, Amica, Il Gambero Rosso, Skema, Esquire, Atlante De Agostini, Liberetà, Progetto, Archivio storico del Movimento Operaio, Diario, Internazionale, Hachette Parigi, reti televisive; Terza Rete RAI TV; e case editrici: Giulio Einaudi Editore Torino, Editori Riuniti, Edizioni Quotidiano Donna, Edizioni Utopia, Edizioni Datanews, Editore Peruzzi, Edizioni del Grifo, Meta Edizioni, Mazzotta Editore, Intra Moenia Napoli e Marsilio Editore. Ha esposto in Italia e all´estero in mostre personali e collettive: “L´Europa degli emigrati”, organizzata dall´Associazione Italiana Reporters Fotografi, AIRF, con il patrocinio del Comune di Roma. Roma, Palazzo delle Esposizioni, 1975. “Continente infanzia”, per l´Anno internazionale del bambino, patrocinata dall´UNICEF. Ha partecipato alle mostre “Lavoro minorile in Italia e nel mondo” e “La giornata di un bambino zíngaro rom”. Roma, Palazzo dei Congressi, 1979-1980. “Piccole grandi donne. Dieci anni di vita e cultura al femminile”, con il patrocinio della Provincia di Roma. Roma, 1982. “Della belleza”, patrocinata dalla Provincia di Roma. Calcografía Nazionale, Roma,1984. “I luoghi del silenzio”, patrocinata dalla Provincia di Foggia. Palazzetto dell´Arte, 1985. “Infanzia smarrita”, patrocinata dal Comune di Modena, 1989. “L´arte è chi la guarda”. Mostra personale alla Galleria Nadar di Roma, 1990 e alla Galleria Picto Bastille di Parigi nel 1992, in occasione della Biennale di Fotografia 1992. “Immaginare la Costituzione”, patrocinata del Comune di Modena in occasione del Cinquantenario della Costituzione, 1998. “Homeless, i diritti degli ultimi”, patrocinata dal Comune di Roma. Roma, 2000-2001. “Un certo sguardo”. Mostra personale in occasione del Centenario della Camera del Lavoro di Modena, 2001. “Afghanistan, trent´anni fa. Viaggio nel paese dei deserti e dei melograni”, con il patrocinio del Comune di Venezia. Istituto Corner, Venezia, 2002. “Dal Governo Vecchio al Buon Pastore.
Simona Granati Dal 1990 lavora come fotogiornalista freelance. Racconto soprattutto quella parte di societa’ invisibile,che in ogni parte del mondo esige il diritto ad una vita degna. Uomini e donne che non hanno potere e nemmeno lo vogliono, che non hanno spazi e li occupano, non hanno lavoro e reclamano reddito, che sono sempre stat@ esclus@ e allora creano spazi di partecipazione, che ripudiano la guerra e la vogliono fermare, che non hanno voce e allora spesso gridano. Pubblico sui maggiori quotidiani e periodici nazionali ed esteri .Ho partecipato a mostre collettive e personali e alla pubblicazione di libri fotografici. Tra questi : Immaginare la costituzione 1998 (24 fotogiornalisti raccontano con immagini la costituzione su progetto della provincia di Modena) con pubblicazione Leonardo Arte La mia patria il mondo(fotografia e diritti umani) con pubblicazione editori del grifo 1995 Volontari e volontariato, con pubblicazione Petruzzi editore 1995 Messico Chiapas,varie mostre fotografiche in tutta Italia,con pubblicazioni:”Chiapas perché?”, “La settima chiave”. Con la Palestina negli occhi,mostra fotografica sui territori palestinesi durante la seconda intifada. Genova/luglio 2001-cronache (radio popolare). Un altro mondo e’ possibile ( intramoenia 2001). Porto Alegre (intramoenia 2002). Diario palestinese (manifesto libri 2002). Donne del mediterraneo mostra fotografica 2003 comune di Mogliano Veneto. El fuego y la Palabra ( mostra e libro edito da “ la jornada”e “rebeldia“ messico 2003 ). La riva sinistra del tevere (ed. transform-regione lazio 2004). Wojtyla (ed Bruno Mondadori 2006). Donne di mais mostra fotografica 2005. Donde esta el corazon 2006 mostra finanziata dalla provincia di Roma. Storia fotografica di Roma 1986-2000 (ed.intramoenia 2006). Dal 1996 collabora con la Caritas fornendo materiale fotografico per campagne e pubblicazioni. Dal 1996 progetta e gestisce laboratori fotografici in collaborazione con cooperative, scuole, enti locali.
LA CARMEN Storia di una partigiana Una produzione di AMARANTEGHE VENETOTEATROINDAGINE Testo di: Silvia Rainer, Dalies Donato La Carmen Dalies Donato Regia e drammaturgia di: Marcela Serli Musiche a cura di: Giovanna Berti All’interno del percorso e delle scelte artistiche che costituiscono la propria identità, Amaranteghe VTI ha preso la figura di Carmen – nome di battaglia di Noris Guizzo, partigiana di Selva del Montello - per iniziare un progetto riguardante figure di donne “importanti” del nostro tempo. Importanti per il significato che il loro agire, il loro pensare, il loro distinguersi, rappresenta – o dovrebbe rappresentare - per noi tutti “società civile”. La scelta di Carmen è la prima tappa di una trilogia sulla Resistenza Partigiana nel nostro territorio. Non è retorica per noi voler ricordare, al di là dei troppo frequenti revisionismi, e dare voce (perché questo è il nostro mestiere) a chi ha lottato per una libertà oggi forse “scontata”, ma che ha invece necessitato del sacrificio di tanti per affermarsi. Pare oscenamente facile dimenticare, ma è così difficile ricordare? Per noi rimane necessario. Il 28 dicembre 1944 in carcere a Treviso (subirà le peggiori sevizie), Carmen scrive: “Ovunque sia, sono e sarò sempre una compagna”. Come scrive Federico Maistrello, in Carmen. Una donna nella Resistenza, “in questa frase semplice e piana sono racchiuse l’essenza e la ricchezza della giovane che riuscì a non rinnegare se stessa né la propria umanità in un contesto nel quale di umano non vi era più nulla. Nessuna rinuncia, infatti, alla coerenza, alla dignità, al coraggio, all’abnegazione, alla generosità. E persino nessun protagonismo”. Questo nostro prossimo impegno è teso al continuo costruirsi della nostra identità di gruppo. Gruppo femminile, per un pensiero che comunque nasce diverso, perché se è vero che tanti passi avanti e conquiste se ne sono fatte, è ancora drammaticamente vero tutto il resto: poche donne a decidere, troppe donne ancora sfruttate (dall’essere le meno pagate nel mondo del lavoro, allo sfruttamento sessuale), troppe donne ad essere violentate(è l’unico reato che costantemente continua ad aumentare)... Ritornare continuamente al nostro punto di partenza, un gruppo femminile che indaga sul femminile nella storia e nella società costituisce la nostra linea poetica, riconoscibile nelle nostre produzioni-indagini: Io viaggio Italia, Mi Cibo d’Amore, Le Serve, La Carmen.
Note di regia Il giardino delle verità L’Associazione Amaranteghe VenetoTeatroIndagine mi ha chiesto di curare la regia di un lavoro dedicato a Noris Guizzo. Ovviamente per me sia la regia, sia qualsiasi altro compito legato ad uno spettacolo non può non coinvolgere, compromettere la drammaturgia stessa. Quindi la prima stesura che mi hanno presentato le autrici Silvia Rainer e Dalies Donato, è stata da me adattata all’attrice in scena, allo spazio che occupa la storia, alla mia sensibilità e alle mie visioni rispetto alla vita di una donna che oggi non ha niente in comune con me. Abbiamo deciso di raccontare il processo, la prigionia e le torture, brevemente i suoi anni in Argentina, e in un soffio la sua morte. Di Noris Guizzo, la Carmen partigiana, mi ha colpito soprattutto il coraggio. Ho capito anche che non c’è un modo per raccontare né per rappresentare il coraggio. E non c’è modo neanche per raccontare né per rappresentare fino in fondo una vita così intensa. Ecco, un fiore, forse… Ho pensato a cosa potesse assomigliare la devastante verità di Carmen. Niente è più vero di un essere vivente. Carmen e un fiore hanno in comune la semplice verità della loro esistenza. Ho provato a costruire uno spazio e un tempo che potessero contenere la storia di Carmen. Questa è la storia di un giardino che viene costruito davanti a noi in tempo reale, perché ognuna di queste piante ha un nome, ognuna una verità. Mi aveva colpito quella verità detta ad un processo e poi taciuta per sempre. Una verità da dire una volta sola. Perché detta troppo fa male. Mi aveva colpito quella verità perché vengo da un paese dove “dimenticare” è stato lo stupido punto di partenza per tornare a vivere. Tacere per non ricordare. E così, nel silenzio, hanno vissuto molti argentini per paura. Così oggi vivono molte persone in tanti paesi, per paura. Sulla scena, oltre alle metafore dell’orrore, ho cercato di lavorare con l’attrice per raccontare questa partigiana, facendosi solo attraversare dalla storia. Accompagnare Carmen è già un onore, sarebbe troppo calarsi nel personaggio. Una corsa, un arrivo, un vestito, un giardino, una rosa, un ricordo. Vivo costante. Come una pianta. Viva. Costante. Noris Carmen ha lasciato in dono un giardino, da sistemare ogni giorno, da bagnare ogni giorno. Per ricordare, per mai dimenticare l’accaduto. Perché la sua vita non sia stata vana. Marcela Serli
MULTIVERSITY, ovvero l’arte della sovversione. L’evento “Multiversity, ovvero l’arte della sovversione” nasce da un lavoro congiunto di Uni.Nomade e S.a.L.E. (Signs and Lyrics Emporium), tra una rete transterritoriale di militanti e ricercatori impegnati nell’analisi critica dei temi della contemporaneità e uno spazio autogestito, S.a.L.E. docks, nato alcuni mesi fa a Venezia con lo scopo di intervenire praticamente sul terreno della produzione culturale. Terreno che, non solo a Venezia, si è ormai affermato quale ambito privilegiato per gli attuali processi di valorizzazione del capitale. Se infatti ci si concentra sull’arte contemporanea, tale indiscutibile importanza è riscontrabile su almeno tre livelli. Il primo è quello del ruolo centrale che beni immateriali e saperi, creatività e affetti, attitudini relazionali e comunicative vengono ad assumere per le forme contemporanee del modo di produrre: la produzione artistica non può sfuggire a questa centralità. Il secondo è quello del rapporto tra produzione culturale e metropoli, dove l’intreccio tra urbanistica e architettura, moda e design, arte e letteratura, in quello spazio produttivo sociale per eccellenza che sono i bacini urbani, diviene da un lato elemento cruciale nei processi di soggettivazione attraverso i quali si costituisce la molteplicità di forme di vita che li abitano, dall’altro fattore decisivo per definire il posizionamento strategico di ciascuna area metropolitana nella competizione economica tra città globali. Il terzo è quello del rapporto tra mercato dell’arte e capitale finanziario: a livello globale, banche e multinazionali sono tra i principali investitori in un settore che appare oggi come l’unico a non essere neppure sfiorato dalla crisi che investe il sistema mondiale della circolazione di denaro. Ciò che vediamo all’opera è un complesso apparato di cattura, che il capitale ha messo in campo nei confronti dei flussi plurali di produzione culturale informale, a partire dall’appropriazione della capacità cooperante di singole intelligenze e singoli modi di vita, per assicurarsi la messa a valore di quello che è stato definito il “capitale simbolico collettivo”. La complessità di queste dinamiche dipende da un duplice meccanismo di sfruttamento, il cui primo aspetto è costituito dalle gabbie della proprietà intellettuale e da ogni ulteriore momento di privata appropriazione del sapere sociale generale, mentre il secondo è quello del rapporto parassitario che viene a stabilirsi nei confronti della produzione creativa da parte di quegli interventi speculativi, che si determinano nel corpo della metropoli là dove si costruiscono istituzioni statali e private, grandi eventi e fiere legati all’arte, distretti e metadistretti culturali. Ciò in cui l’esperienza del S.a.L.E. vuole immergersi criticamente, ciò che l’evento Multiversity ha deciso di affrontare problematicamente, si chiama “fabbrica della cultura”, ovvero il luogo della valorizzazione del capitalismo cognitivo, ma che tale è solo nella misura in cui è, prima di ogni altra cosa, il luogo della potenza
della soggettività creativa, dell’espressione delle moltitudini, e, di conseguenza, lo spazio di un quotidiano corpo a corpo tra libertà della creazione e autonomia della cooperazione, da un lato, e dispositivi del dominio e dello sfruttamento di questa potenza produttiva, dall’altro. E’ alla luce di ciò che, all’interno di Multiversity, verranno presentati, discussi e confrontati con le più avanzate esperienze europee e globali i primi risultati, seppur parziali, di un’inchiesta sul precariato cittadino legato all’arte contemporanea e al lavoro immateriale. Qui, la questione principale è quella della comprensione dei comportamenti diffusi e delle modalità d’intervento che possono trasformare una composizione sociale, già centrale nelle forme di produzione contemporanee, in una composizione politica. Verrà inoltre affrontato il nodo del ruolo che la formazione universitaria, per un verso, e le reti della comunicazione, per un altro, svolgono all’interno della più complessiva organizzazione del lavoro nella “fabbrica della cultura”. Premessa indispensabile a questa discussione è il confronto intorno all’arte contemporanea intesa come “istituzione sociale allargata”: dalla vicenda storicoartistica che ha spinto l’arte del Dopoguerra dallo spazio trascendentale della specificità mediale allo spazio sociale con i suoi rapporti di forza, alle relazioni che si stabiliscono tra arte, movimenti sociali e attivismo culturale al di fuori di ogni retorica avanguardistica, ai modi della cattura da parte del sistema artistico istituzionale e dei circuiti della finanziarizzazione nei confronti di un vasto patrimonio di pensiero critico e di modi di vita conflittuali. Per queste ragioni, l’evento Multiversity sarà articolato in tre sessioni seminariali: 1. Arte e attivismo Si intendono qui problematizzare la vicenda storica e le forme contemporanee dell’intreccio tra arte e attivismo. Alcune delle domande da cui partire saranno le seguenti. Attraverso quale percorso si è passati da una concezione dell’opera come trascendenza ad una concezione della stessa come oggetto, processo o dinamica in grado di intervenire all’interno dello spazio-tempo dell’uomo e, successivamente, all’interno dei processi sociali? Come si è passati da un criterio di giudizio dell’opera basato su di una topografia delle sue caratteristiche materiali ad uno fondato, invece, sull’analisi della sua funzione, ovvero della sua efficacia in termini sociali? Come funziona oggi, in epoca postfordista, l’arte attivista? Qual’è, una volta abbandonata ogni retorica avanguardista, la posizione dell’arte e degli artisti rispetto ai movimenti?
Luigi Sacco, Marko Stamenkovic, Angela Vettese. 2. Arte e mercato: tra libertà creativa e cattura finanziaria Questo secondo punto deve necessariamente muovere da una raccolta di dati sulle dimensioni del mercato dell’arte e dal suo rapporto con il capitale finanziario. L’arte viene qui assunta come esempio di valore paradigmatico a causa di un paradosso estremo che la interessa: se il lavoro artistico esprime un livello massimo di libertà creativa, allo stesso tempo esso subisce la massima fissazione all’interno del capitale finanziario. 3. Arte e moltitudine: per l’inchiesta su composizione sociale, conflitti e organizzazione del lavoro vivo dentro la “fabbrica della cultura” In questa sezione andrà affrontato il nodo dei rapporti tra singolarità e moltitudine, e tra produzione individuale e costruzione del comune. Due sono i piani di ricerca su cui procedere parallelamente. Il primo è storico-artistico e riguarda i tentativi che, a partire dagli anni Sessanta, sono stati sviluppati dagli artisti in risposta alla retorica del genio individuale, fino alle attuali piattaforme di produzione collettiva legate alla affermazione e alla diffusione dell’hacking sociale. Il secondo piano riguarda l’inchiesta rispetto alla composizione sociale del precariato cresciuto attorno all’indotto dell’industria culturale. Dagli studenti nei circuiti della formazione ai precari delle cooperative che si occupano di logistica e allestimento, agli stagisti, ai networkers, ai consulenti a progetto e a partita Iva fino a quel ceto globale di artisti e di figure professionali intenzionate a divenire parte integrante del sistema internazionale dell’arte. Di tutta questa ampia galassia sociale dovremo indagare condizioni materiali di vita e di lavoro, bisogni e aspirazioni, desideri e possibili rivendicazioni. Tutto questo per arrivare al punto chiave: come trasformare questa composizione sociale in una composizione politica? PROGRAMMA 1) VENERDÌ 16 Arte e Attivismo. Marco Baravalle, Claire Fontaine, José Pérez de Lama (Osfa), Brian Holmes. Ore 21 Performance: Margine Operativo. 2) SABATO 17 Arte e Attivismo (seconda sessione) Marco Scotini, Giovanna Zapperi, Judith Revel, Maurizio Lazzarato. Ore 14 Arte e Mercato. Adam Arvidsson, Chiara Bersi Serlini, Anna Daneri, Matteo Pasquinelli, Pier
Arte e Moltitudine. Antonella Corsani, Antonio Negri, Hans Ulrich Obrist, Pascal Nicolas le Strat. Ore 21 Performances VS Music 3) DOMENICA 18 Arte e moltitudine.(seconda sessione) Alberto de Nicola, Javier Toret Medina, Gigi Roggero, Devi Sacchetto.
CONVERSAZIONI
Settimana di open studio a conclusione del laboratorio diretto da Nicolas Bourriaud. CONVERSAZIONI tratta: dialoghi, micro eventi, creazioni in sito, progetti per uno scambio di idee, di informazioni, di pareri, di critiche e di proposte tra noi studenti del laboratorio, docenti e visitatori. L’evento al S.A.L.E. un esperimento condiviso secondo una modalità permeabile, in grado di assorbire criticamente le istanze dell’interculturalità, della finzione e del documentario nel contesto delle arti visive, tematiche proposte da Nicolas Bourriaud per il corso. Questa settimana di lavoro, aperta al pubblico, vuole essere uno strumento per raccogliere, inglobare e comprendere stimoli ed esperienze che provengono dall’esterno, dalla periferia, dall’eccentrico e da territori contaminati, con l’intento di rileggere le nostre ricerche e produzioni artistiche abitando le idee dell’altro. Seguendo una prospettiva antropologica, usando le alterità dell’interculturalismo come caleidoscopi attraverso cui guardare il nostro lavoro. Ci auguriamo di fare di CONVERSAZIONI un’occasione per moltiplicare i punti di vista, destabilizzare le nostre identità e negoziare plausibili soluzioni di equilibrio. CONVERSAZIONI si conclude con una riflessione collettiva sui lavori prodotti al S.A.L.E. Interverranno per l’occasione Nicolas Bourriaud, Angela Vettese e Marco De Michelis. http://laboratoriofinale.wordpress.com/
Associazione Artisti SPA + A In collaborazione con Associazione AKA presentano TERRA, FUOCO & PLASTICA Mostra collettiva dell’Associazione Artisti SPA + A Interverranno: Matteo Lo Greco Presidente Associazione SPA +A e il Prof. Grigore Arbore Popescu. Dal 10 luglio al 10 agosto 2008 Venezia, Dorsoduro 265 Magazzini del Sale S.ignsA.ndL.yricE.mporium Docks 187-188 Punta della Dogana Venezia
Urban Skin Saggio di dermatologia urbana. Progetto installativo di Ogino Knauss Sulla pelle della città. Una maniera superficiale di guardare alla complessità urbana, non in senso riduttivo, ma propriamente fenomenologico: la pellecome successione di superfici significanti, come elemento sensibile, come membrana filtrante, una grammatica della separazione, un sistema di censura, una stratificazione di segni, percorrere, leggere, tastare, annusare, scorticare, incidere, stimolare la pelle della città. un approccio epidemico all’ ambiente urbano; l’approccio che Ogino:Knauss ha addotto per affrontare il paesaggio globale in trasformazione, impiegando una attenzione superficiale e divagante ai microfenomeni che costellano gli interstizzi e le periferie dell’ organismo urbano. la superficie sensibile della città viene indagata come indice di tensioni sotterranee, sintomo di profonde trasformazioni che avvengono al suo interno, l’ attenzione va al dettaglio trascurato, ai segni dissonanti, alle crepe e alle screpolature del tessuto, al desunto, all’opaco al rimosso, al transitorio. Un corpo a corpo istintivo, teso all’ ascolto, alla risonanza, all’ analisi del ritmo; a catturare la pulsazione ed il respiro della città. Urban Skin è un processo di indagine compiuto attraverso esplorazioni puntigliose e programmatica flanerie, catturando segni e tracce, e riproponendole in forma molteplice, in continua evoluzione e ridifinizione. La città viene accarezzata, suonata e remixata. Ricognizioni fotografiche e registrazioni ambientali sono il punto di partenza di un processo che utilizza la modalità live come verifica istintiva e simbolo improvvisativo per reinterpretare le impressioni catturate. Dopo le tappe performative di Brusselles, Berlino e Trento, il progetto approda al S.a.l.e. di Venezia per sedimentarsi come installazione installazione fotografica ed audiovisiva. Essa è integrata come pratica abituale di Ogino Knauss, da un intervento locale, attraverso una deriva aperta al pubblico, che cercherà di integrare l’ esplorazione sino a qui condotta con una riflessione contestuale alle istanze di Venezia, confrontandosi con temi ruvidi e grumosi come la crisi dell’ abitare, la riconversione dell’ economia culturale, lo snaturamento dello spazio pubblico. Ogino Knauss, collettivo attivo dal 1995, opera nel corso degli anni una deiva costante tra i linguaggi e le pratiche della comunicazione. Nato come laboratorio di cinema mutante in uno spazio autogestito di Firenze, ha oggi la sua sede operativa a Berlino. IN tempi più recenti l’attenzione del gruppo si concentra sugli influssi della globalizzazione sul paesaggio urbano, sviluppando tecniche innovative di ascolto e descrizione dei processi culturali della città, e sull’esplorazioni di reti innovative, spazi eterogenei e alternative alle fofme dominanti di produzione. Tra i progetti più recenti del gruppo, Triplicity è una riflessione multiforme e multipiattaforma sulla relazione intrecciata tra produzione ed immagine e produzione spaziale nel contemporaneo, ed è
su un sobborgo de la Habana costruito negli anni settanta; un lavoro che costituisce il pilota per il progetto Re: centering Periphery, serie di reportage sulla produzione di periferie, sull’ ideologia modernista che ha determinato l’ ambiente fisico in cui una enorme parte della popolazione globale vive tuttora, e sulle pratiche quotidiane che abitano, trasformano e rinventano tale ambiente. www.oginoknauss.org Concezione e sviluppo, Lorenzo Tripodi, Manuela Conti. Fotografia ed editing, Manuela Conti. Produzione sonora, Michele Lancuba. Sviluppo applicazioni e trattamento immagine, Sergio Segoloni.
AHA Camping 2008 HYPERLINK “mailto:aha@ecn.org” aha@ecn.org , HYPERLINK “http://www.ecn.org/aha” \o “http://www.ecn.org/ aha” \t “_blank” AHA:Activism-Hacking-Artivism e S.a.l.e.Docks. L’ahaCamping è il primo incontro collettivo degli iscritti alla mailinglist aha@ HYPERLINK “http://ecn.org/” \t “_blank” ecn.org, una delle mailing-list ospitate dallo storico server indipendente HYPERLINK “http://www.ecn.org/” \o “http://www.ecn.org” \t “_blank” Isole Nella Rete e nodo del progetto di networking HYPERLINK “http://www.ecn.org/aha” \o “http://www.ecn.org/aha” \t “_ blank” AHA:Activism-Hacking-Artivism. L’idea dell’ahaCamping è nata dall’esigenza dei circa 600 iscritti ad HYPERLINK “http://www.ecn.org/mailman/listinfo/aha” \o “http://www.ecn.org/mailman/listinfo/aha” \t “_blank” aha@ecn. org di incontrarsi per la prima volta dopo la nascita della mailing-list (30 dicembre 2002) e di riflettere su tematiche come attivismo artistico, politico e tecnologico, considerando che la situazione attuale è molto diversa rispetto al momento di partenza. L’incontro si propone di creare rete, mettere in condivisione progetti e costruire nuove oper-azioni per il futuro. Adottando la stessa strategia degli HYPERLINK “http://www.hackmeeting.org/” \o “http://www.hackmeeting.org” \t “_blank” Hackmeeting, l’ahaCamping viene organizzato e gestito direttamente dai partecipanti che possono proporre nella lista aha@ HYPERLINK “http://ecn.org/” \t “_blank” ecn.org seminari o progetti che intendono condividere. L’ahaCamping nasce come uno spazio di dialogo e di condivisione di conoscenze, con l’obiettivo di apprendere e diffondere pratiche e saperi in un ambiente libero e senza censure. La piattaforma di condivisione ahaCamper è il mezzo nomade e in movimento che tutti possono guidare :) per raggiungere l’ahaCamping. L’ahaCamper nasce come un “diario intermediale collettivo”, che non sostituisce la mailing-list aha@ HYPERLINK “http://ecn. org/” \t “_blank” ecn.org, ma offrire una possibilita’ aggiuntiva per gli iscritti, che possono unire alle riflessioni sviluppate nella lista, uno spazio condiviso di presentazione di progetti, idee, file, video, documenti, musica, ecc. Un po’ di storia HYPERLINK “http://www.ecn.org/aha” \o “http://www.ecn.
org/aha” \t “_blank” AHA:Activism-Hacking-Artivism è un progetto di networking artistico fondato nel 2001 da HYPERLINK “http:// www.tatianabazzichelli.online.de/” \o “http://www.tatianabazzichelli. online.de” \t “_blank” Tatiana Bazzichelli aka T_Bazz. AHA e’ un’opera di networking realizzata da soggetti sempre diversi e attivata dalla contaminazione/integrazione di molteplici media ed eventi, in cui il filo conduttore è l’hacktivism e l’attivismo artistico e politico. AHA: Activism-Hacking-Artivism si focalizza sulle collettività attiviste in Italia e all’estero che usano i media in forma indipendente, attraverso mostre, eventi, incontri organizzati da T_Bazz insieme a curatori sempre diversi. Nodo fondamentale del progetto AHA è la comunità che si sviluppa nella mailing-list aha@ HYPERLINK “http://ecn.org/” \t “_blank” ecn. org, da cui nasce la proposta di organizzare il primo ahaCamping. La mailing-list aha@ HYPERLINK “http://ecn.org/” \t “_blank” ecn.org è moderata da T_Bazz (Tatiana Bazzichelli), Eo_Call (Eleonora Calvelli) e Lo_Bo, conta ad oggi quasi 600 iscritti ed è sorella della mailing-list internazionale HYPERLINK “http://www.nettime.org/” \o “http:// www.nettime.org” \t “_blank” Nettime. Il progetto AHA: Activism-Hacking-Artivism è stato premiato nel Settembre 2007 nell’ambito dell’ARS Electronica Festival di Linz (AU) ricevendo una Honorary Mention nella categoria Digital Communities del HYPERLINK “http://www.aec.at/ en/prix/winners_honorary.asp” \o “http://www.aec.at/en/prix/winners_honorary.asp” \t “_blank” Prix Ars Electronica. PROGRAMMA Venerdì 3 Ottobre 15:00-18:00 HYPERLINK “http://isole.ecn.org/aha/camper/doku. php?id=allestimento_mostra” \o “allestimento_mostra” \t “_blank” Allestimento mostra 18:00-20:00 HYPERLINK “http://isole.ecn.org/aha/camper/doku. php?id=the_body_is_a_tool” \o “the_body_is_a_tool” \t “_blank” The body is a tool Alex (Aliosha) 21:00-22:30 HYPERLINK “http://isole.ecn.org/aha/camper/doku. php?id=grande_fratello_vs_attivismo_dentro_e_fuori_dalla_rete” \o “grande_fratello_vs_attivismo_dentro_e_fuori_dalla_rete” \t “_blank” Grande Fratello VS Attivismo dentro e fuori dalla rete EPTO (A) & Co.. 22:30 HYPERLINK “http://isole.ecn.org/aha/camper/doku. php?id=rassegna_video” \o “rassegna_video” \t “_blank” Rassegna Video
HTMLCONTROL Forms.HTML:Hidden.1 HTMLCONTROL Forms.HTML:Hidden.1 HTMLCONTROL Forms.HTML:Hidden.1 HTMLCONTROL Forms.HTML:Hidden.1 Sabato 4 Ottobre 10:30-11:20 HYPERLINK “http://isole.ecn.org/aha/camper/doku. php?id=la_tele_a_ri-vista_tra_iptv_e_webtv” \o “la_tele_a_ri-vista_ tra_iptv_e_webtv” \t “_blank” la Tele/a ri-Vista tra iptv e webtv 11:30-13:20 HYPERLINK “http://isole.ecn.org/aha/camper/doku. php?id=storia_critica_e_sociale_del_web_2.0” \o “storia_critica_e_sociale_del_web_2.0” \t “_blank” Storia critica e sociale del web 2.0 Gadda e T_bazz 15:00-16:50 HYPERLINK “http://isole.ecn.org/aha/camper/doku. php?id=being_beppe_grillo_-_ever_wanted_to_be_someone_else_ now_you_can” \o “being_beppe_grillo_-_ever_wanted_to_be_someone_else_now_you_can” \t “_blank” Being Beppe Grillo - Ever wanted to be someone else? Now you can Les liens invisibles 17:00-18:20 HYPERLINK “http://isole.ecn.org/aha/camper/doku. php?id=rapporti_tra_arte_economia_immateriale_e_modello_postfordista” \o “rapporti_tra_arte_economia_immateriale_e_modello_ postfordista” \t “_blank” Rapporti tra arte, economia immateriale e modello postfordista S.A.L.E. 18:30-19:30 HYPERLINK “http://isole.ecn.org/aha/camper/doku. php?id=flussi_nodi_e_conoscenza_-_diaspore_digitali_e_zone_dell_ arte” \o “flussi_nodi_e_conoscenza_-_diaspore_digitali_e_zone_dell_ arte” \t “_blank” Flussi, nodi e conoscenza - diaspore digitali e zone dell’arte Francesco Monico, Massimo Canevacci e Stefano Coletto 19:40-20:40 Aperitivo-incontro: HYPERLINK “http://isole.ecn.org/ aha/camper/doku.php?id=network_tra_realta_esistenti_festival_conferenze_luoghi” \o “network_tra_realta_esistenti_festival_conferenze_luoghi” \t “_blank” network tra realtà esistenti (festival, conferenze, luoghi) Simona Lodi 22:00-23:00 HYPERLINK “http://isole.ecn.org/aha/camper/ doku.php?id=s1_s2_-_approccio_ecosistemico_sensoriale_emozionale_alla_realizzazione_di_una_storia_dell_arte_collaborativa” \o “s1_s2_-_approccio_ecosistemico_sensoriale_emozionale_alla_realizzazione_di_una_storia_dell_arte_collaborativa” \t “_blank” S1/S2 - approccio ecosistemico/sensoriale/emozionale alla realizzazione di una storia dell’arte collaborativa xDxD 23:00 HYPERLINK “http://isole.ecn.org/aha/camper/doku.
php?id=proto_vjing_eutopico” \o “proto_vjing_eutopico” \t “_blank” Proto Vjing Eutopico Performance di Vjing di Giacomo Verde HTMLCONTROL Forms.HTML:Hidden.1 HTMLCONTROL Forms.HTML:Hidden.1 HTMLCONTROL Forms.HTML:Hidden.1 HTMLCONTROL Forms.HTML:Hidden.1 Domenica 5 Ottobre 10:50-11:50 HYPERLINK “http://isole.ecn.org/aha/camper/doku. php?id=aha_camping_comunicare_-_chi_che_cosa_perche_come_ quando” \o “aha_camping_comunicare_-_chi_che_cosa_perche_ come_quando” \t “_blank” AHA_camping_comunicare - Chi? Che cosa? Perché? Come? Quando? Domenico Olivero 12:00-13:20 HYPERLINK “http://isole.ecn.org/aha/camper/ doku.php?id=wikiartpedia.org_e_tommasotozzi.it:una_memoria_ pubblica_e_una_memoria_privata” \o “wikiartpedia.org_e_tommasotozzi.it:una_memoria_pubblica_e_una_memoria_privata” \t “_blank” Una memoria pubblica e una memoria privata Tommaso Tozzi 15:00-16:30
Incontro
finale
-
social[AHA]
network
4 NOVEMBRE 2008 90° anniversario della fine della Grande guerra e della morte di Wilfred Owen Guerra, trauma, memoria giornata organizzata dalla Rete per l’autoformazione Magazzini del Sale, Dorsoduro 187 L’iniziativa svoltasi presso i magazzini del Sale il 4 novembre 2008 ha voluto ricordare l’esperienza dei combattenti della Grande guerra prendendo le mosse da Wilfred Owen (1893-1918), uno dei maggiori poeti inglesi arruolatosi come volontario nel 1915. Durante la battaglia della Somme fu colpito da “shell-shock”, ovvero da trauma psichico, e fu ricoverato al Craiglockhart War Hospital presso Edimburgo. Tornato al fronte per condividere la sorte dei compagni e descrivere gli orrori delle trincee, scrisse le sue poesie più belle e intense. La creazione poetica diviene un mezzo per esprimere l’inesprimibile, per dare voce ai semplici soldati, alla rivolta contro la guerra. Wilfred Owen rimase ucciso durante un’azione il 4 novembre 1918, una settimana prima della fine della guerra. La madre ricevette il telegramma che la informava della morte del figlio il giorno dell’armistizio. La serata si è aperta con la proiezione di dipinti di artisti che parteciparono alla guerra: Dix, Grosz e Lienz. Dopo la relazione introduttiva di Bruna Bianchi sul vissuto di guerra così come è stato narrato dai combattenti nelle loro memorie e l’acuto contrasto tra le loro parole e quelle della celebrazione e della commemorazione pubblica, ha preso la parola Roberta Cimarosti. La studiosa di letteratura inglese si è soffermata sulla vita e l’opera poetica di Wilfred Owen, e il drammaturgo Carlo Tolazzi ha letto alcune poesie, tra cui quelle inserite nel War Requiem, opera del musicista Benjamin Britten composta nel 1962. Alla lettura delle poesie è seguito l’ascolto del War Requiem. Il tema dell’esperienza bellica nella prima guerra tecnologica e delle conseguenze sulla mente di decine di migliaia di soldati in ogni paese è stato proposto nel corso della serata dal documentario del regista Enrico Verra dal titolo Scemi di guerra. Filmati inediti, tratti dagli archivi francesi e britannici, documentano la crudeltà delle terapie, riprendono i soldati all’interno dei manicomi e delle cliniche, con le loro espressioni sofferenti e i loro corpi straziati. L’ultima parte della serata è stata dedicata al caso italiano, alla repressione feroce del suo esercito. Lo spettacolo Cercivento del regista Carlo Tolazzi ha ricordato i quattro alpini passati per le armi il 1° luglio 1916 per aver chiesto rinforzi nell’imminenza di un’azione bellica che consideravano disperata. La questione dei fucilati nel corso della Grande guerra è ancora aperta con tutto il suo carico di ingiustizia. A tutt’oggi, infatti, non disponiamo di dati ufficiali sul numero dei soldati pas-
sati per le armi. In base a statistiche redatte nel dopoguerra, mai rese ufficialmente note e dichiaratamente incomplete, le condanne a morte eseguite sarebbero state 750 e le esecuzioni sommarie 152. Contrariamente a quanto avvenuto nel 1999 in Francia e Gran Bretagna, in seguito alle dichiarazioni di Lionel Jospin a Craonne, in Italia non si è ancora avviato un dibattito sulla necessità di riabilitare i fucilati. Un cippo lapideo, eretto dal comune di Cercivento nel 1996, è l’unico segno pubblico della volontà di tenere viva la memoria dell’ingiustizia.
I XE I TOCHI DE VENEXIA 5 – 15, December, 2008 Opening: Friday, 5 December, 6pm Magazzini del Sale, 187 del Sestiere di Dorsoduro, Zattere, Venice Artists/Curators:Ilaria Boldrin, Oriella Esposito, Charles Heranval, Minervina Lenassi The show I XE I TOCHI DE VENEXIA is an archaeology of the present consisting of specific Venetian materials: types of soils, stones, different waters, varieties of wood, seaweed and other natural materials that compose the city. This project is strengthened by the venue whish hosts it - Magazzini del Sale – thus confirming the will to conserve the authenticity of Venice. The exhibition intends to show, as in a museum, the fragile pieces d the city, in order to point the attention towards the elements worthy of attention. I XE I TOCHI DE VENEXIA is a critique towards those who perceive Venice as a kind of Disneyland, toward those who believe the city’s destiny should be in the hands of mass tourism.
A conclusione del laboratorio del CLaSAV-IUAV tenuto da Cesare Pietroiusti e Filipa Ramos, proponiamo il progetto:
SI E’ DIFFUSA LA VOCE CHE FAREMO UN RAVE... Una passeggiata a tappe che si svolgera’ nella notte fra il 19 e il 20 dicembre 2008. Ad ogni tappa corrisponderanno uno o più interventi artistici e ogni opera sarà visibile in un preciso lasso di tempo. I luoghi che saranno toccati dal percorso sono: Magazzini del Sale, Ristorante Corte dell’Orso, Fondazione Claudio Buziol, Stazione Ferroviaria Santa Lucia, Porto Marghera, e altri, sia pubblici che privati. La scelta d’intraprendere un percorso in notturna risponde alla volontà di ribaltare i tempi e i luoghi canonici di fruizione dei circuiti artistici e inoltre di sfruttare la condizione atemporale caratteristica della notte veneziana. La tematica affrontata dal laboratorio e quindi anche quella dei lavori di SI E’ DIFFUSA LA VOCE CHE FAREMO UN RAVE... verte sulla dialettica capire/non capire. La natura sperimentale dell’approccio, l’unica possibile, ha permesso di licenziare dei tentativi, che tuttavia non si sottraggono alla pretesa di proporsi come opere d’arte. Questa e’ la traccia di massima del percorso: > 15:00 Porto Marghera > 17:00 Piazzale Roma > 18:00 Stazione Venezia Santa Lucia > 19:00 Negozio > 20:00 Canareggio (casa privata) > 21:00 Fondazione Claudio Buziol
> 22:00 Metri Cubi > 23:00 Ristorante la tana dell’orso > 1:00 Bar Genovesi > 2:00 Magazzini del Sale > 6:00 Mercato Ortofrutticolo
Gruppo Prost (Rosario Sorbello, Luca Pucci, Marco Di Giuseppe) Parcheggio Pincio azione
Lavori presenti al S.a.L.E.
Utilizzando le modalità della progettazione urbanistica e le strategie di presentazione dei grandi lavori urbani, i tre membri del gruppo lanciano ai veneziani e ai visitatori una provocazione: «Avrebbe senso fare un parcheggio per automobili in Piazza San Marco?» L’intento è quello di stimolare una riflessione sul modo in cui piazze e spazi pubblici vengono usati e abusati? Le risposte, forse, su www. parcheggiopincio.com
Valentina Carollo End in’Fieri schedario, cartoncini
Marija Jovanovich Un momento è importante, molti momenti non sono importanti video-animazione
End in’Fieri consiste nella creazione di un archivio degli artisti che hanno partecipato al Laboratorio. Valentina Carollo ha messo insieme le informazioni fornite dagli artisti stessi sul loro lavoro e su elementi personali, con la sua visione critica su tali elementi. L’insieme, tra la sfera pubblica e quella privata, crea una proposta di archivio che riflette sulle modalità di critici, curatori e altri agenti dell’arte nel loro approccio di sistematizzazione del sapere.
Delicati disegni che non si capiscono, forse ispirati a delle stoffe indiane, diventano la base di un’animazione. L’occhio ci si muove lentamente sopra, slittando un po’. A tratti, il mistero delle forme lascia spazio a delle micro-storie, e allora i tratteggi diventano percorsi, i triangoli persone, gli ovali animali, i cerchietti fiori. I disegni che vediamo, e i movimenti di macchina che li animano, sono talmente semplici, che è inevitabile pensare che armonia delle forme, variazioni e sviluppi narrativi sono, più che sul foglio, dentro di noi. E forse per questo sono incomprensibili.
Andrea Stomeo Stufetta performance
Nicola Buzzolan Ciclopi Strabici testi, olio su tela
Immaginiamo un grande salvadanaio che, invece di accogliere monete, sputa fuori dalla sua fessura disegni, frasi, pensieri, piccoli oggetti, opere d’arte… L’artista, dentro, è nella posizione (invero scomoda) del creatore di valore. “Voglio che l’azione duri molto tempo, in modo che uno ad un certo punto se lo dimentica, che io ci sono”.
Ciclopi Strabici consiste in una serie di scritti che si riferiscono al tema del capire/non capire, mimetizzati all’interno dei comunicati di “Si è sparsa la voce che faremo un rave”. Invece di tentare di spiegare l’incomprensibile, Nicola prova a comporre un’ “ideale infinità” di possibili interpretazioni delle tematiche del laboratorio e dei lavori in mostra, incluse citazioni letterarie o poetiche, forse inerenti, forse no. Un olio su tela, inoltre, cerca di esibire in forma visiva il nonsense del “ciclope strabico”.
L’invito e’ aperto al pubblico e l’aggregazione libera ad ogni momento e in ogni tappa del percorso.
Francisco Rojas Miramontes Messico, più di quanto immagini installazione con video Prendere da youtube alcuni filmati di promozione turistica (del Messico) e altri di documentazione di azioni criminali (sempre in Messico); invertire l’audio degli uni col video degli altri, e viceversa. Un dispositivo molto semplice che dimostra quanto lo spettacolo contemporaneo funzioni grazie a meccanismi di isolamento e di scissione, una chirurgia che separa il tragico dal comico, la notizia dall’evasione, l’eccitazione dalla narcosi.
Laura de Nicolantonio Aporia prima video e performance “Il dispositivo dell’asino che tende invano alla sua carota rappresenta per me tutte le certezze intese come mere convenzioni culturali, pronte a collassare in un qualsiasi momento nonché, in senso più personale, le infinite esitazioni nel raggiungere i miei scopi. In primis mi riferisco all’esitazione a vivere con libertà il bisogno di esprimere il mio pensiero, le mie idee. Per questo motivo è sorta l’idea di parteci-
pare fisicamente agli inutili sforzi del piccolo asino, cercando di vivere questa azione come atto propiziatorio”. (L.D.) Maria Elena Fantoni Empatia videoinstallazione e performance “Con quest’opera voglio mettere in scena una… mia volontà di unione che è effettiva ma anche irrealizzabile: la luna verrà proiettata sulla mia testa, che starà dentro una sfera pesante e materica. Sarà la mia possibilità di ‘farmi luna’ e contemporaneamente di essere cosciente che non posso essere luna. Dentro la sfera non potrò vedere nulla. L’unione con la luna sarà sofferta ed astraente da ciò che mi circonda, ma allo stesso tempo esaltante perché in un qualche modo concreta. È quello che mi accade quando instauro una relazione empatica con una persona” (M.E.F.) VIDEO DI: Yang Jian Wen / Li Zhen Juan Non capire la lingua italiana video Le due artiste girano a Venezia per mercati, negozi, uffici e, si direbbe scherzando, evidenziano il banale, ma realissimo dramma del non riuscire a capire la lingua delle persone tutt’intorno, e del non riuscire a farsi capire da loro. Francesca Belia Proprietà di linguaggio video Un testo, più evocazione che lettera d’amore, più preghiera che poesia, è scritto su un muro di mattoni con lo scotch (e in un punto anche con l’acqua). Le lettere appaiono poi si disfano, e restano per terra così come la nostra pretesa di capire il cosa, il come e il perché. L’artista parla di “scrittura semi-automatica a caratteri mobili, visibile all’esaurirsi del proprio movimento”; di “muro ermetico” e di “quattromila seicentocinquantacinque fotogrammi”, che sono “un omaggio a casa Martini e a molte altre case”. Valeria Mancinelli Dove è l’arte? Installazione video Questa installazione cerca di fornire un meccanismo di indagine sul modo in cui l’arte contemporanea viene accolta e percepita dalle persone non esperte. Diversi video realizzati da artisti noti (come Bas Jan Ader, Bruce Nauman o
Marina Abramovic) vengono esibiti in un televisore dentro un bar di Venezia, offrendo la possibilità a quelli che frequentano questo luogo di avere un contatto con materiali artistici che difficilmente si trovano in città. Nello stesso momento una raccolta di divertenti video scovati su youtube, realizzati da persone comuni che ricordano nei movimenti quelli degli artisti sopra elencati, vengono proiettati, come fossero performance artistiche, nello spazio espositivo. Manuela Romanato Pensiero espresso video Un sogno (poi un video) in cui due mani scrivono qualcosa su una tastiera che non c’è. “Una forma - come dice l’artista – in cui tutto il percorso di pensiero è già espresso”. Le mani in effetti, compiono il quasi-incomprensibile tentativo di scrivere, battendo tasti immaginari la cui posizione è soltanto ricordata, un testo che parla di quel sogno (e che, fra l’altro, dice qualcosa come: “Solo nel sogno combaciamo con la realtà”). Nel tempo sovraccarico di informazioni, qui c’è un testo che è affidato, letteralmente, all’aria. Francesco Scarpa Il volto dello spettacolo video Una maschera concepita per rituali sadomasochistici viene usata per un inquietante esperimento sui meccanismi della società dello spettacolo. Cosa succede se, in un concerto, c’è qualcuno che è messo nella totale impossibilità di vedere e udire? Come cambia la posizione dello spettatore? Fin dove si estenderà il “buco nero” percettivo dell’uomo sensorialmente deprivato? E lui, sarà ancora uno spettatore, magari dei suoi processi interni? Mauro Corti AU-TOP-SIA - «osservare con i propri occhi» video In questo lavoro auto-referenziale, Mauro Corti indaga le possibilità cognitive dei due emisferi cerebrali, quello sinistro (legato alla razionalità) e quello destro (legato all’emotività) tramite il linguaggio del video. Sperimentando diverse tecniche e situazioni, l’artista crea un’opera in cui molteplici punti di vista contribuiscono alla percezione di uno stesso luogo e delle azioni di una stessa persona in questo spazio.
OPEN# Open# è la mostra aperta del S.a.L.E.. Rispetto alle moltissime mostre “su bando”, questa non si prefigge lo scopo esclusivo (seppur importante)di mettere lo spazio a disposizione di giovani artisti. L’apertura verso le forme emergenti del contemporaneo non sta rinchiusa nella parentesi temporale di una mostra, ma è uno dei dati fondanti del S.a.L.E. che è uno spazio completamente autogestito. Open# vuole mettere in luce il carattere laboratoriale del S.a.L.E. Il nostro obbiettivo è quello di porre l’accento sul fatto che questa città sia in grado di produrre progetti culturali indipendenti e non solo di ospitare o esporre grandi eventi confezionati per il mercato turistico. Alle selezioni delle prime due edizioni di Open# hanno partecipato più di 200 giovani artisti.
GIANFRANCO BARUCHELLO SPERIMENTAZIONI DESIDERANTI E’ difficile trovare un titolo per Gianfranco Baruchello. Lo è perché la sua opera, ormai pluri-decennale, è priva di un centro, di una vicenda consequenziale e progressiva. Al contrario, appena ti sembra di aver colto il punto, lei scarta di lato, procede per fughe, strappi, accelerazioni, brusche frenate. La sensazione, messi di fronte alla necessità di nominare il lavoro di Baruchello, è quella di dover definire un panorama troppo vasto. Cosa c’è oltre l’orizzonte? Inoltre è un problema di scala. Da giorni ho l’impressione di essere troppo vicino o troppo lontano da Baruchello. La visione di insieme sacrifica le specificità, le specificità sacrificano qualcosa di un più di una panoramica generale. Ma cos’è questo qualcosa in più? Esattamente l’essere non nominabile dell’opera di Baruchello, carattere che travalica il suo compiuto eclettismo e che discende dall’adozione del pensiero del molteplice. Scrivere a proposito di questo artista, significa scrivere il nome molteplice, ma esso, nella sua dimensione testuale, nel supporto materiale (cartaceo o digitale), nella gabbia del significante, è come una cisterna che non regge più il peso del liquido interno, che preme per uscire, che fa saltare i bulloni, che inevitabilmente tracima. Essa rifiuta la sintesi, rifiuta l’uno, rifiuta la definizione. Perciò il dispositivo critico è in crisi. Perciò Carla Subrizi, in un saggio magistrale sul cinema di Baruchello, insiste sulla necessità di una contestualizzazione storica, piuttosto che sull’esame iconologico del complesso universo filmico dell’artista. In un passo particolarmente significativo, la studiosa sostiene che la riflessione sul medium, nel cinema di Baruchello, non possa esaurirsi in quanto semplice recupero di una pratica modernista e afferma: “alcune opere si sono poste dunque non all’interno di un storia del mezzo usato, ma al di fuori di essa, come ipotesi di un diverso modo di costituzione del linguaggio”. E’in questo ambito post-mediale, in questo fuori, cioè dentro ad un esodo dalla disciplina istituzionale che può essere letta la vicenda storica dell’opera di Baruchello, in questa scelta decostruttiva dei linguaggi dominanti che è contemporanea costruzione di linguaggi altri. E’nell’essere estremamente privato e radicalmente politico, nell’attenzione verso il quotidiano, nella comprensione del lavoro artistico come creazione di nuove forme di vita che Baruchello diventa un interprete intelligente di alcune delle istanze più radicali che
hanno caratterizzato i movimenti dei tardi anni Sessanta e di quasi tutti gli anni Settanta. Gli anni delle lotte autonome e del rifiuto del lavoro di fabbrica, delle occupazioni e del femminismo. Gli anni della scoperta del valore politico delle forme di vita. Gli anni della sperimentazione, gli anni che (oltre la tragicità del terrorismo e della strategia della tensione) hanno restituito al desiderio la sua dimensione politica, sociale ed economica. Questo è, senza alcun dubbio, Baruchello: uno sperimentatore desiderante, un ingegnere (o un agricoltore) del rizoma. Un artista poliedrico e pioniere (come nel caso del precoce utilizzo del video) che ha sempre evitato l’estetizzazione della politica ed ha trasceso l’ambito della politica della rappresentazione. Baruchello è l’artista dei “mille piani”, è l’artista che libera il potenziale sovversivo del desiderio, il quale, una volta rassicurato della capacità del raggiungimento del proprio oggetto, si fa film, si fa pittura, happening, operazione concettuale, fotografia, processo, creando topografie di immagini, di testo, di linee, di movimento, di suoni, di ritmi e di tempi. Baruchello, parafrasando il titolo di un famoso romanzo degli anni Settanta è l’artista che “vuole tutto”, essendo il desiderio la materia che intesse la trama del molteplice. Non è un caso, del resto, che il riconoscimento istituzionale a questo artista (pur apprezzato da personalità del calibro di Marcel Duchamp e John Cage) stia tardivamente giungendo solo in questi ultimi anni. Come non è un caso che l’operazione Agricola Cornelia S.p.a. (19731981), un processo artistico legato alla creazione e alla gestione di una vera e propria azienda agricola, tragga spunto, mascherato da ingenuo “ritorno alla terra”, dalla diffusione del rifiuto del lavoro come forma di lotta operaia. “ L’agricoltura come arte magica riservata ad un sempre minor numero di individui che resistono alla seduzione del lavoro di fabbrica?” si chiede Baruchello nel’introduzione a “Agricola Cornelia S.p.a. 1973‘81”, libro stampato in occasione di una mostra nel 1981 e elemento organico, sotto ogni aspetto, al complesso progetto artistico. Di questa opera, di cui al S.a.L.E sarà presentata solo qualche documentazione (un frammento sotto forma di una serie di fotografie) deve essere ancora costruito il display definitivo. Del lungo racconto di Agricola Cornelia S.p.a. che è stato descritto nel libro How to imagine, pubblicato nella sua versione americana (ancora inedito in Italia), Sperimentazioni desideranti vuole affermare che “intanto se ne può parlare, far vedere qualche oggetto”. Agricola Cornelia è difficilmente riassumibile, se non nella sua logica di dispositivo rizomatico, di macchina tesa alla concatenazione dei differenti
aspetti della vita dell’artista. Il tentativo di Baruchello è stato quello di creare una continua sintesi disgiuntiva tra il proprio lavoro di artista e quello di agricoltore in cui potessero co-implicarsi (senza uniformarsi) la pittura e il parto di un vitello, l’apicoltura e l’arte concettuale, il lavoro agricolo e il ready made. Agricola Cornelia si può descrivere solo come un filo conduttore (durato sette anni) di una produzione eterogenea in cui la posta in palio è proprio il tentativo della riarticolazione dell’eterogeneo nel molteplice, oltre alla ricerca di nessi tra valore d’uso e valore di scambio, delle produzioni dell’artista e dell’agricoltore. Dentro a quest’opera è possibile isolare una serie sorprendente di temi di interesse artistico. Il tema dell’abbietto, ad esempio, rintracciabile nella fascinazione di Baruchello rispetto alla terra che si trasforma in fango-brodo primordiale, oppure il tema dell’agricoltura come attività regolata dal caso (dalla meteorologia, dai capricci della natura), dunque il lavoro agricolo come anti-lavoro, al pari della casualità dadaista come anti-arte. Infine, il tema dell’interdisciplinarietà, del limite, rintracciabile nella descrizione dell’agricoltore come “fabbro-elettricista-falegname-idraulico-muratore”. Insomma, Agricola Cornelia è preziosa poiché, come afferma l’artista stesso, “è un calco imperfetto del lavoro di Baruchello dal 1973 all’81”. E’ il tentativo, naturalmente a-sistematico, di comunicare la dimensione del rizoma, quella dimensione che è la cifra della sua inafferrabilità e, in fondo, di un desiderio.
Presentazione libro 7 Aprile “Processo sette aprile. Padova trent’anni dopo. Voci della città degna.” (Manifestolibri, 2009). Una raccolta di testimonianze di chi, a partire dal 7 aprile 1979, ha vissuto in prima persona gli effetti del teorema Calogero e del suo tentativo di criminalizzazione del movimento dell’Autonomia.
UNA PREMESSA CHE PARTE DA GUILTY AT THE DOCK: Ovvero, tavolo degli imputati colpevoli. Di cosa? La provocazione sta tutta qui, nel mondo contemporaneo, il fare graffiti, il writing vive sotto la continua minaccia di una repressione sempre più incalzante ed esplicita; ormai all’ ordine del giorno sono gli arresti e le perquisizioni, i processi. Nello specifico della nostra città,Venezia durante lo scorso anno sono state compiute perquisizioni nelle case di writers locali ed aperta un indagine di cui non sono ancora noti i capi d’ accusa. Questa direzione politica verso la tolleranza zero, questo continuo inasprimento delle retoriche di sicurezza, è secondo noi la reale anti cultura da combattere, dietro una propaganda ignorante si cerca di creare la legittimità per ampliare i meccanismi di controllo sociale. Sotto lo spauracchio del criminale, quindi del writer, dell’ ultras, o dell’ immigrato clandestino si accetta di vivere osservati continuamente da occhi digitali di telecamere puntate su luoghi pubblici, angoli di città dove tutto è raccolto, tutto è registrato, dove la spontaneità talvolta è punita. L’ intento è un’ indagine su quale sia la reale natura di questa forma d’’arte”, di cui un carattere essenziale è l’ espressione spontanea sui supporti che offre la metropoli o la città, quindi agisce anche nell’ illegalità. Da questa spontaneità si creano quegli elementi che fanno dell’ writing e dell’ arte di strada in generale una reale forma di attivismo sociale e forse artistico, dipingere le superfici dei treni o dei muri anonimi di città o periferie è un chiaro tentativo di evasione dall’ alienazione che caratterizza la modernità, di ribellione rispetto all’ omologazione dei segni e delle espressioni. Si tratta di un “arte” povera che lotta per rimanere tale, che ruota intorno alla spontaneità, trasforma di fatto l’ alienazione in riflessione e rompe l’ orizzonte dei segni standardizzati e ripetuti.
HEAD LINES, COME DAL BASSO DIVIENE POSSIBILE CONTAMINARE GLI ORIZZONTI. Analizziamo, una spontaneità non conforme ad attitudini di legalità e passività di fronte alla standardizazione, che spesso non intende solamente decorare ma, piuttosto rompere. Interrompere un veloce scorrere di moduli nuovi, quasi una costrizione per chi osserva, a riflettere su quanto l’ orizzonte dei segni possa in qualche modo influire sulle esperienze emotive della quotidianità nella metropoli. Di conseguenza, l’ intervento sul vagone di un treno, di una metro, un autobus, un muro, una periferia opprimente, etcetera.... ha l’ intento spesso inconscio di creare una rottura visiva, un attacco di vernice volto a colpire l’ intoccabile. Tale spontaneità, parte dal basso con pochi e poveri mezzi, irrita i nervi scoperti
della città ed evidenzia il fallimento di un orizzonte alienante e ripetitivo. Talvolta diventa quasi una necessità intervenire per riqualificare, attuare percorsi di reale decoro in quei luoghi dove i vecchi moduli sono evidentemente falliti e appaiono come contenitori incapaci di rispecchiare la dignità della vita che li attraversa. Con l’ intento di porre in evidenza dal basso ci proponiamo di attaccare le superfici urbane per riqualificare ed interrompere l’ orizzonte dei segni imposti; un titolo di testa (head line) che analizza i primi passi di uno spontaneo attivismo che inizia a muoversi verso un cosciente attacco alle superfici metropolitane. Un agire attivo e programmato di una piccola resistenza, che oltre a sottolineare e migliorare, mette di fronte agli occhi di tutti, parte dei suoi lineamenti e racconta le proprie pratiche ed esperienze caratterizzanti. In queste produzioni i protagonisti attivi volgono uno sguardo dentro e fuori i propri luoghi d’ azione, i propri ambiti di passione.
HEADLINES IL LIBRO WRITING E SENSO (DEL) COMUNE Scrivere di writing, oggi, significa scrivere, allo stesso tempo, di pacchetto sicurezza e di vestiti per adolescenti, significa scrivere di illegalità e di Mtv, di treni “fatti” a rischio di galera e di critici che hanno già inciso la pietra tombale del graffito con l’epitaffio: “Qui giace l’archeologia della contemporaneità”. Significa, insomma, scrivere di un fenomeno di costume che ha pienamente assunto la dimensione di arredo urbano globale. Chi ha meno di sessant’anni difficilmente potrebbe pensare ad una città (ad una vita) senza il writing: sui muri, sulle architetture, sui mezzi di trasporto, sulle felpe, sui cappellini, in televisione, nelle insegne, sulle saracinesche, nelle vetrine, nelle gallerie d’arte, nelle aste. Il writing, come pratica diffusa ha realizzato, più di ogni singolarità artistica che abbia affrontato il problema, la sfida di costruire quell’opera d’arte totale che rende incerti i confini tra i generi, tra l’alto e il basso, tra l’arte e la vita. Allora come approcciare l’argomento? Non mi arrogo qui la pretesa di indicare che cos’è il writing oggi o quale sia il suo futuro. Né intendo porre al centro di queste poche righe il tema dello stile, o degli stili. Vorrei invece sottolineare un elemento. Proprio a causa del suo carattere spurio, il writing è oggi un medium dalle potenzialità comunicative non paragonabili rispetto ad ogni altra pratica che possa essere annessa, a torto o ragione, all’ambito delle arti visive. Non si tratta qui, di avere una visione meramente strumentale del writing, però bisogna evitare ogni ingenuità. Il carattere di autonomia (in senso artistico) assunto da questa pratica, cioè l’ipotetica frase: “questo pezzo non significa altro che se stesso, non esprime altro che il proprio stile, non vuole che testimoniare il fatto che il writer abbia sentito la necessità di farlo”, tale frase (come è storicamente accaduto per l’arte “alta”) consegna questa pratica ad un suo uso meramente strumentale dal punto di vista mercantile. Insistere sul carattere di spontaneità e informalità del writing significa darlo in pasto, nudo e crudo, alla sua sussunzione mainstream. Con questo cosa voglio dire? Che un writer non dovrebbe ricavare reddito dalla sua attività? Assolutamente no, ma dovrebbe farlo operando una scelta, magari evitando di recitare la parte di Cappuccetto Rosso in grembo alla nonna-lupo. Mi riferisco ad una scelta di produzione di senso dentro e contro quella che è la produzione di senso del capitale legata al writing. Quest’ultima non può limitarsi a risarcire in minima parte il singolo writer (rendendogli l’onoreficenza simbolica, spesso neanche richiesta, del titolo di artista) attraverso il mercato, spingendolo nelle mani di questo per mezzo della sua criminalizzazione e la conseguente restrizione di spazi di praticabilità urbana. Dentro a questo processo l’etichetta del ribelle si trasforma in un logo appetibile. A Urban Code, invece, va certamente dato il merito di aver operato questa scelta, di aver individuato la propria necessità di fare writing nella necessità della costruzione di un conflitto di senso dentro alle contraddizioni di cui sopra.
Urban Code ci dice che per rinnovare il gesto sovversivo dei primi writers (senza proporne una mera parodia), per tornare a mordere i muri e le coscienze, è necessario articolare la propria pratica dentro ad un discorso generale di costruzione del comune, dentro ad una dinamica di conflitto aperto che si ponga il problema di rovesciare i dispositivi di cattura contemporanea. Non si tratta qui, di indicare formule pratiche premature, si tratta, con realismo, di organizzare una guerra contro il senso comune sul writing, per imporne invece (metropoli per metropoli, spazio sociale per spazio sociale, metro per metro) un senso del comune. Si tratta, come in altri ambiti, di riprenderci ciò che è nostro, di tornare a esercitare in libertà la trasformazione dell’immaginario della metropoli, di costruire istituzioni del comune in grado di autogestire e di organizzare momenti di densificazione di tale immaginario, di bypassare il circuito di connivenza tra luoghi espositivi e mercato, di farci noi stessi mercato per finanziare i nostri spazi e le nostre iniziative. E qui torniamo al punto di partenza, alla necessità di lavorare ad un livello profondo di produzione di senso, inserendo questo lavoro dentro ad un rapporto di forza tra noi (il comune) e il capitale. Ancora una volta, in definitiva, si tratta di accettare una sfida.
F.A.T. Lab, S.a.L.E. e Urban Code presentano: Tagging Pinault. Un’azione nell’ambito della mostra Headlines. Attraverso l’utilizzo di laser e proiettori, la facciata di Palazzo Grassi e quella di Punta della Dogana verranno ricoperte di graffiti di luce. Certo, l’idea di fondo è quella di procedere ad una performance in cui venga effettuata e suggerita la riappropriazione di due luoghi concreti in cui, attraverso l’investimento di Francois Pinault, si palesi la messa a valore del tessuto urbano dentro i processi dell’economia culturale. Tutto ciò senza ingenuità, riconosciamo infatti che l’industria culturale e l’arte contemporanea in particolare, rappresentano oggi due ambiti di governance assolutamente avanzati. Due dispositivi che sono andati affinandosi dentro al paradigma finanziario-postfordista, costituendo un apparato di cattura che si nutre della produzione di differenze, di eccedenze, di singolarità e dunque, anche di resistenze. Tradotto significa che avrebbe poco senso taggare (in maniera temporanea e con processi tecnici innovativi) Palazzo Grassi e pensare di aver compiuto un sabotaggio efficace. Al contrario, se la performance rimanesse all’interno della dimensione episodica dell’evento, il museo stesso ne ricaverebbe semplicemente un po’ di pubblicità gratuita. Punta della Dogana e Palazzo Grassi sono due manifestazioni concrete del logo Pinault, un logo fortemente intrecciato all’arte contemporanea e al fascino, dunque allo status a cui essa allude. Si tratta di due edifici-marchio, i quali, come ogni brand che si rispetti, funzionano come significanti in attesa di essere riempiti dai significati apportati dal consumatore. Si tratta dunque di meccanismi di cattura capitalistica della singolarità. Meglio ancora se questa singolarità è conflittuale. Nel nostro caso specifico, riferendoci a due edifici, sarebbe forse opportuno parlare di un efficace sistema di antifurto. Nel momento in cui viene taggata la facciata, il sistema di difesa dell’edificio non è quello di erigere una barriera, ma di tramutarsi in carta assorbente, espropriando dunque i writers-attivisti dei propri segni e del loro senso conflittuale, espropriando, di fatto, gli espropriatori. Allora, meglio rivolgere il laser altrove? Meglio concentrarsi sulla costruzione di cultura in luoghi altri, lasciando Pinault tutto solo? Crediamo di no, prima di tutto poiché crediamo che sia difficile trovare oggi un altrove rispetto alle dinamiche del capitalismo globale (sarà forse la crisi attuale a procurarcene uno nuovamente?) e poi, perché la sottrazione del sé, l’autoemarginazione, la produzione etica e la fuga sono oggi elementi anch’essi in gran parte sussunti dal capitalismo che si nutre della vita e che parassita la sua capacità creativa. Dunque scegliamo di correre il rischio, poiché non vi è strada semplice, lineare e senza rischi nel processo di liberazione dagli apparati di cattura in cui è imbrigliata la vita di tutti, non solo quella degli artisti. Scegliamo, con le nostre tag, di segnalare quelle istituzioni che organizzano questa cattura su uno dei livelli più avanzati ed ambigui, quello dell’arte contemporanea. Scegliamo di farlo poiché esse sono dispositivi di amplificazione e di attuazione della trasformazione in profitto (e in
rendita) della creatività a cui, solo artificialmente, si può imporre una logica proprietaria. Scegliamo di farlo poiché esse, seppure su un piano differente da quello del classico turismo di massa veneziano, rinforzano logiche della rendita immobiliare e, infine, poiché queste istituzioni sono strumenti violenti di precarizzazione del lavoro vivo cognitivo. Per tutte queste ragioni le nostre tag vogliono essere la proposta di un evento costituente, ovvero, paradossalmente, di un momento che non può essere catturato totalmente, visto il suo inserimento all’interno di un processo, quello del S.a.L.E. che si pone l’obiettivo di articolare nel tempo una progettualità che sappia restituire autonomia e indipendenza alle pratiche artistiche, recuperandole ad una dimensione continua di trasformazione della nostra vita e dei rapporti sociali all’interno dei quali si trova stretta.
OUT SIDE PROJECT WITH OBEY THE GIANT
THE EMBASSY OF PIRACY Premessa Il momento è epico, l’ecosistema d internet è messo alla prova e noi siamo chiamati a difenderlo. Vecchi regimi approvano nuove leggi e nuovi regolamenti per sostenere sistemi fallimentari che nessuno vuole davvero. Internet, oggi, non è solamente una realtà virtuale, ma un network che può materializzarsi in forme diverse: nei tribunali, nei parlamenti, nelle reti telefoniche, ma anche nei memi, nella musica e nell’arte. Internet è una metodologia, non è un luogo. L’idea della Embassy of Piracy prese forma quando The Pirate Bay venne invitata alla Biennale di Venezia nel contesto dell’Internet Pavilion. Come ambasciata, il nostro compito è quello di rappresentare la libertà dell’Internet e dei suoi pirati e di promuovere lo stile di vita Kopimi. L’ambasciata L’ambasciata assume la forma moltiplicabile e modificabile della piramide. Attraverso il download del modello in carta, presente sul nostro sito, puoi materializzare l’ambasciata ovunque: negli spazi pubblici, nella foresta, al lavoro, a scuola, sul tuo tavolo da pranzo… Ricordati, quando fondi un’ambasciata, sei legale all’interno del territorio di internet. Insieme moltiplicheremo le ambasciate in tutto il mondo. Condividi le tue foto dell’ambasciata su http://embassyofpiracy.org. Tutti siamo l’Ambasciata e tutti siamo ambasciatori della libertà di internet nel mondo. Sta a noi diffondere, modificare e condividere questa avventura. FREE YOUR DOWNLOADS, UPLOAD YOUR CONFLICTS Alcune note sull’incontro tra the Embassy of Piracy e il S.a.L.E. Di Marco Baravalle* Non hanno la benda sull’occhio, il pappagallo sulla spalla, né, tanto meno, assaltano le navi mercantili armati di Kalashnikov e bazooka, eppure, quelli di the Pirate Bay non si definiscono pirati per vezzo. Chi avesse voluto, durante i giorni dell’opening dell’ultima Biennale veneziana, incontrare questi nuovi pirati della conoscenza, avrebbe potuto farlo al S.a.L.E., sede della Embassy of Piracy (Ambasciata della pirateria), emanazione diretta del portale svedese The Pirate Bay. E’ noto che The Pirate Bay rappresenta uno dei maggiori siti per volume di scambio di torrent, uno dei santuari della logica peer to peer e, in definitiva, uno dei simboli contemporanei del libero scambio dell’arte e della conoscenza in Internet.
E’altrettanto noto che, in Svezia, a fine aprile, i quattro gestori del sito siano stati condannati, per violazione della legge sul copyright, ad un anno e mezzo di reclusione, più il pagamento di una multa di quasi tre milioni di euro. Attendiamo l’appello. E’ meno noto che, anche in Italia, esiste un’inchiesta in corso su The Pirate Bay presso il tribunale di Bergamo. Un’inchiesta fortemente appoggiata dalla FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana) e, come vedremo, assai benvista dalla SIAE. La Embassy of Piracy considera la rete come qualcosa che si sviluppa ben oltre i limiti di un semplice territorio virtuale. Essa è, invece, un campo di battaglia per l’affermazione della libera circolazione dei saperi, fuori da logiche proprietarie. E’ un luogo in cui il conflitto in atto sta entrando nella sua fase decisiva. Internet è, insomma, uno spazio carico di relazioni sociali che si materializza in forme diverse: nelle majors dell’industria culturale, nelle compagnie telefoniche, nei tribunali, ma anche nei movimenti sociali, negli attivismi, nella musica e nell’arte. Ma non parliamo solo di copyright. Questo dispositivo, antiquato e ingiusto (poiché cattura i prodotti dell’ingegno umano, mai come oggi risultanti da una diffusione capillare della comunicazione e dunque caratterizzati da una produzione compiutamente sociale) è solo un aspetto del problema della libera circolazione del sapere, dell’arte, dei linguaggi e della loro messa a valore dentro logiche di cattura capitalistica. Il secondo aspetto è quello che sta alla base del progetto del S.a.L.E., uno spazio di movimento, uno spazio dalla natura inedita che, all’interno del contesto veneziano, si batte per l’indipendenza della produzione culturale, ovvero per l’affermazione dei linguaggi artistici come bene comune e contro la precarizzazione del lavoro vivo impiegato nella varie istituzioni culturali della città. A tale proposito, è interessante notare come la crisi in atto, lungi dal produrre un ridimensionamento dell’idea di Venezia quale nodo protagonista nella rete delle “città del contemporaneo”, abbia, se possibile, rafforzato il marketing di una Venezia sempre più inserita nella creatività del presente e proiettata verso quella del futuro. Eppure non è tutto oro quel che luccica, la Venezia scintillante di questa Biennale e del nuovo museo di Francois Pinault è, in verità, sorretta da una crescente precarizzazione e dal ricorso massiccio al lavoro gratuito di stagisti: studenti e non. Ecco, sul doppio terreno della lotta al copyright e alla precarietà “artistica”, L’Embassy of Piracy e il S.a.L.E. si sono incontrati. Non poteva essere altrimenti. Oggi i confini devono essere superati in nuove forme di conflitto. Oggi, reti virtuali e metropoli danno vita ad un iperterritorio su cui si accumulano contraddizioni e sfruttamento, ma allo stesso tempo, corpi, desideri e percorsi costituenti. Le nostre battaglie si combattono in rete e in città, in questo modo il conflitto stabilisce i suoi territori instabili, rizomatici, i suoi incontri e le sue articolazioni. Così, sabato 6 giugno, un gruppo di pirati, di attivisti del S.a.L.E. e di precari hanno dato vita ad un’azione itinerante che ha attraversato i nodi della precarizzazione “artistica” della città: La Biennale (con il suo ricorso alle agenzie interi-
nali), i Musei Civici di Venezia (dove le cooperative continuano a tenere i lavoratori col fiato sospeso) e il nuovo museo di Pinault (dove, presto, molti studenti cominceranno a lavorare gratuitamente come mediatori culturali). Proprio qui, al nuovo spazio di Punta della Dogana, i pirati sono stati costretti a scontrarsi con la sicurezza privata dispiegata in occasione dell’inaugurazione. Quest’ultima circostanza, in particolare, sottolinea tutta l’ipocrisia del discorso artistico istituzionale che, sempre più spesso, insiste sulla natura dell’opera d’arte quale generatore di spazio pubblico e di confronto. Un discorso che sembra affievolirsi non poco quando le contraddizioni reali reclamano di entrare in scena senza la mediazione di artisti, fondazioni, sponsor, curatori e musei (dunque in modo indipendente). Ma le “emozioni” dei giorni dell’opening non si sono concluse con questa iniziativa. Infatti, in un momento in cui registriamo la nascita di un interesse del capitalismo avanzato per alcune forme di superamento della proprietà privata dei beni immateriali, vecchi regimi ed organizzazioni fuori dal tempo, cercano, invano, di arginare il processo, oggi irreversibile, della libera circolazione delle idee. Mi riferisco al gravissimo fatto accaduto, al S.a.L.E., domenica 7 giugno, quando un nucleo della Guardia di Finanza, capitanato da un agente della SIAE, ha fatto irruzione perquisendo il nostro spazio e chiudendo temporaneamente l’ingresso alla mostra in corsa. Cercavano i computers da cui fosse possibile praticare il libero download. Ovviamente non hanno trovato nulla. I pirati sono ovunque e tutte le macchine erano già al sicuro sull’Isola della Tortuga.
Cop. Arte Sovversione def.
22-05-2009
16:56
a cura di Marco Baravalle L’arte della sovversione
Gli autori Marco Baravalle (curatore) Chiara Bersi Serlini, Tommaso Cacciari, Anna Daneri, José Pérez de Lama, Alberto De Nicola, Claire Fontaine, Andrea Fumagalli, Brian Holmes, Maurizio Lazzarato, Vincent Meessen, Antonio Negri, Hans Ulrich Obrist, Matteo Pasquinelli, Judith Revel, Gigi Roggero, Marco Scotini, Marko Stamenkoviç, Angela Vettese, Giovanna Zapperi.
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progetto grafico: Massimo De Orazi grafica di copertina e dtp: Dino Orsini
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ESPLORAZIONI a cura di Marco Baravalle
E T R A ’ L co le i r d a a M r l a v E a cu a r a N B O I A S L DEL SOVVER
L’arte della sovversione uninomade
In questo volume artisti, critici e attivisti politici si interrogano sul mondo dell’arte contemporanea e sulle contraddizioni che lo attraversano tra libertà e profitto, creatività e mercato. La creazione artistica è ancora in grado di sovvertire linguaggi e forme di vita? Di scardinare regole e gerarchie? E come? Frutto di un lavoro seminariale cui hanno partecipato intellettuali, critici e militanti provenienti da diversi paesi, questo libro affronta le condizioni del lavoro creativo in un’epoca di generale mercificazione in cui la massima libertà di espressione si scontra con il tentativo di mettere a profitto ogni creatività individuale e collettiva. Alla discussione di questa tematica si accompagna un’attenta ricognizione delle soggettività che abitano la “fabbrica della cultura”.
INTRODUZIONE Marco Baravalle Alcune domande avevano convinto, nel maggio 2008, UniNomade e S.a.L.E. della necessità di organizzare Multiversity, il seminario internazionale su arte e attivismo da cui, proponendo un’articolazione dei discorsi prodotti in quell’occasione, nasce questo libro. Che rapporto intercorre tra componente cognitiva del lavoro e arte contemporanea? Esiste un potere sovversivo della creatività? Chi detiene la potenza di creare? Quali sono i dispositivi capitalistici della cattura della produzione culturale? Quali modalità mettere in atto per ribaltare questa cattura? Quali movimenti hanno saputo individuare e mettere in crisi i meccanismi istituzionali della sussunzione? Come si coniugano, nel mercato artistico, libertà espressiva e cristallizzazione all’interno di logiche finanziarie? Come funziona la messa a valore della metropoli nei processi dell’economia culturale? Cosa significa parlare di arte contemporanea come governance? Che rapporto si costituisce tra politica e creatività? Come si fa inchiesta nella fabbrica della cultura? Questi interrogativi, in varia misura e con approcci differenti, hanno ispirato gli interventi di Antonio Negri, Antonella Corsani, Maurizio Lazzarato, Judith Revel, Brian Holmes, Matteo Pasquinelli, Andrea Fumagalli, Tommaso Cacciari, Giuseppe Caccia, Alberto de Nicola, Gigi Roggero, Angela Vettese, Chiara Bersi Serlini, Anna Daneri. Parallelamente, un altro filone di discorso è apparso in filigrana sia nei giorni del seminario che nelle pagine del libro. Ricorriamo, come sopra, ad una serie di domande per tentare di esemplificarlo. Che rapporto intercorre tra opera d’arte e produzione di soggettività? Cosa si intende per arte femminista e cosa significa articolare un discorso di genere in questo ambito? Come si risponde alla crisi di singolarità che trasforma l’artista stesso in ready-made? Come si intreccia e si trasforma l’arte a contatto con le lotte dei Sans-Papier per i diritti di cittadinanza? Che significato hanno le parole laboratorio, piattaforma e rete rispetto ad influenti pratiche curatoriali degli ultimi anni e alla loro contestualizzazione dentro all’attuale modello della produzione? Cosa emerge quando l’arte si fa macchina, concatenandosi alle nuove tecnologie e divenendo strumento di produzione di soggettività? Cosa significa mettere in mostra il dissenso? A queste domande tentano di dare risposta gli interventi di Claire Fonatine, Marko Stamenkovic e Vincent Meessen, Giovanna Zapperi, José Pérez de Lama, Hans Ulrich Obrist, Marco Scotini e ancora, i già citati Holmes, Lazzarato, Vettese, Bersi Serlini. L’attenzione che UniNomade e S.a.L.E. (come altre realtà attiviste) riservano al dibattito sull’arte contemporanea, sulle industrie creative e sulla “culturalizzazione” delle economie metropolitane, rispecchia, coerentemente con la loro
ragione d’esistenza, la necessità di individuare strumenti teorici e pratici atti alla trasformazione radicale del presente e dei rapporti sociali che lo animano, ovviamente tenendo ben presenti le specificità dei contesti in cui si trovano ad operare. In questa ottica, poiché non esistono territori fuori dalla globalizzazione, abbiamo maturato la convinzione che azione locale e analisi globale debbano compenetrarsi. Come sempre, dunque, tendiamo a negare il carattere di universalità del termine cultura. Con questo libro abbiamo voluto procedere forse anche solo di pochi passi, nell’analisi materialistica dell’arte contemporanea, ovvero nell’analisi della sua collocazione all’interno del paradigma di produzione postfordista. In effetti, oggi, non mancano i sostenitori di quella tesi che indica l’arte quale uno dei più formidabili modelli di analisi, di problematizzazione e di decostruzione delle condizioni economico-politiche del presente . Il piano su cui, forse, scontiamo un certo ritardo, è quello dell’analisi della funzione dell’arte (in quanto istituzione) dentro alle stesse condizioni economico-politiche. Non si tratta, però, di rinverdire i fasti della Critica Istituzionale, non si tratta, come negli anni Settanta, di smascherare le connivenze tra le multinazionali dell’arte e quelle che hanno tratto vantaggio dall’omicidio di Salvador Allende in Cile o tra i finanziatori dei più importanti musei e le rendite immobiliari metropolitane . Nemmeno vorremmo tornare alla decostruzione teorica del white cube come spazio rituale, in cui le élite borghesi si riuniscono per celebrare la compiuta trasformazione dell’opera d’arte in investimento . Non è questo che oggi, in quanto attivisti, ci preme. Ci preme invece guardare all’arte contemporanea come ad un’istituzione in cui emergono, quasi con sfacciataggine, gli elementi di quel governo biopolitico che è la cifra del Postfordismo, il carattere profondo del biocapitalismo. Ci preme posizionarci su quell’asse etico-culturale che oggi rappresenta uno dei vettori principali dell’accumulazione capitalistica, dunque anche della cattura che essa opera sul comune. Intendiamoci, prima di procedere, ciò che accade al mondo rende necessaria una momentanea digressione. Mi riferisco, naturalmente, alla crisi in atto. È chiaro che questa parola, nel suo drammatico (o stimolante) manifestarsi degli ultimi mesi, rompe la linearità del ragionamento che ho appena abbozzato e pone, probabilmente, una nuova urgenza intorno a cui sarà bene aprire, al più presto, un dibattito che focalizzi l’attenzione sul nesso arte-cultura e crisi del biocapitalismo. Dovremmo, a partire da subito, interrogarci sulle ricadute strutturali (se ve ne saranno) che questa crisi avrà sulle economie artistiche e culturali. Quella che ci troviamo di fronte è una crisi della pervasività finanziaria (nel consumo, nella produzione materiale, nella valorizzazione della vita fuori dal tempo e dal luogo di lavoro) e quindi del “tentativo di regolazione sociale e distributiva che implicitamente si era dato il novello paradigma del capitalismo cognitivo” . Da questo punto di vista, le conseguenze più drammatiche che, nel caso di un loro verificarsi, andranno analizzate e tempestivamente affrontate, saranno quelle dell’ulteriore precarizzazione e della dismissione del lavoro vivo culturale (in Italia stiamo assistendo ad alcuni segnali che vanno in questa direzione). L’intensità di questo
attacco avverrà in conseguenza del grado di gravità dei contraccolpi che subiranno il mercato dell’arte, le industrie creative e la valorizzazione culturale dei territori. Certo, la portata della crisi ci spinge ad insistere su un punto, il termine cognitivo, proprio in virtù della pervasività della finanziarizzazione, va oggi inteso non come attributo categoriale, ovvero applicabile ad alcune specifiche tipologie di lavoratori altamente qualificati, ma a tutto il lavoro in generale, sia esso legato alla produzione immateriale o a quella materiale. Fin qui siamo nell’ambito delle pure ipotesi di lavoro, seppur drammaticamente urgenti. Rispetto al nesso che lega crisi e arte contemporanea è, in ogni caso, utile una precisazione. Non solo è necessario rispondere alla dismissione del lavoro vivo (un lavoro vivo già strutturalmente precarizzato e ricattato attraverso il baluginare di un, peraltro incerto, riconoscimento sociale). Non solo è necessario rendersi conto delle reazioni del mercato. Sarà altrettanto importante focalizzare l’attenzione sui modi attraverso cui le pratiche artistiche e curatoriali interagiranno con la crisi di un modello di produzione in cui esse non solamente si riflettono, ma di cui hanno interpretato, a volte incarnandolo, lo spirito più profondo. Sì, perché di questo, almeno, possiamo ormai essere relativamente certi, anche grazie al lavoro di alcuni studiosi che hanno contribuito a questo libro. Questa certezza, dal canto suo, non può poggiare su una lettura semplicistica, anzi, le dinamiche di cattura capitalistica nell’arte contemporanea si danno su un terreno di ambiguità, o almeno di ambiguità apparente. Ciò che nell’istituzione arte illumina il funzionamento del biopotere è il fatto che la sua azione di valorizzazione capitalistica del comune non si dia sul piano della bruta appropriazione di forme, contenuti e linguaggi o sulla imposizione gretta di alcuni di questi a scapito di altri. Si dà, invece, sul piano della gestione continua di coefficienti di libertà, di discorsi conflittuali, di differenze. Questo processo produce, come Lazzarato sottolinea nel suo intervento, la convivenza, all’interno delle pratiche artistiche, tra produzione di soggettività e cattura capitalistica, una cattura che opera attraverso la distribuzione di ruoli, la costruzione di dispositivi e l’imposizione del regime patrimoniale. Eppure, come sostiene Judith Revel nel libro, sebbene si affianchino libertà espressiva e finanziarizzazione, sebbene cattura e soggettività convivano, ciò non significa che tra i due termini vi sia simmetria, anzi, la capacità di creare, ovvero di creare eccedenze, libertà e linguaggi, è tutta nelle mani del comune, nei confronti del quale il capitale si comporta come un parassita. È interessante, ad esempio, esaminando la pratica curatoriale di Hans Ulrich Obrist, notare come questa sia stata, negli anni, caratterizzata dall’impiego costante di termini quali laboratorio, performatività, piattaforma, rete e autorganizzazione. Concetti che, come afferma Obrist stesso, vengono mutuati dal lavoro di urbanisti e architetti quali Cedric Price e Jona Friedman, ma che, contemporaneamente, vanno a condensare una retorica che ricorda la lezione post-strutturalista e la sua critica della funzione autore. La concretizzazione di questo discorso è provata da diversi elementi riscontrabili nella pratica profes-
sionale di Obrist: l’adozione dell’intervista (due sono i tomi in cui il curatore ha, fino ad oggi, raccolto le sue conversazioni) quale mezzo d’espressione privilegiato e la velocità di percorrenza (simile a quella del manager multinazionale) della rete artistica globale. L’idea che Obrist ha del lavoro curatoriale non è tanto quella del curatore come autore (di mostre o di statements), quanto piuttosto come gestore dell’informazione, come incarnazione corporea e mobile di un nodo della rete globale dell’arte contemporanea. Questa tendenza, spinta all’estremo, produce una figura che preferisce la gestione della connessione tra i parlanti alla presa di parola in prima persona, all’espressione del sé. questa scelta sembra basarsi, lo desumiamo anche dall’intervista contenuta nel libro, sulla volontà di implementare i processi di auto-organizzazione, di performatività, e di orizzontalizzazione. L’adozione di queste parole chiave mira all’”apertura” di campi, tradizionalmente soggetti alla funzione autore, quali la produzione del discorso artistico istituzionale e la progettazione della forma mostra. A margine, vale la pena sottolineare come, dall’intervista, sembri emergere un progressivo disinteresse di Obrist per il format della mostra che gli appare ormai giunto al definitivo grado di saturazione. Ad ogni modo, la pratica del curatore svizzero dimostra, esattamente, attraverso l’adozione retorica dei concetti sopra elencati, la capacità tipica del capitalismo cognitivo di catturare ciò che è comune e di metterlo a valore, non solo da un punto di vista superficiale, ma integrandolo direttamente nel proprio modello produttivo. Totalmente immersi dentro ad una produzione reticolare, in cui la gestione delle informazioni, la capacità di selezionarle e dirigerle diventa fondamentale, il discorso di Obrist sulla curatela rivela, più che una seria riflessione sul tema dell’auto-organizzazione delle pratiche artistiche, un intelligente capacità di lettura del sistema e un’idea molto chiara su come raggiungere una posizione egemonica al suo interno. Anche il discorso delle Estetiche Relazionali, sviluppato da Nicolas Bourriaud per descrivere un insieme di pratiche artistiche che hanno caratterizzato la decade degli anni Novanta, è significativo in questo senso . La definizione di Estetiche Relazionali indica una serie di pratiche artistiche che scelgono come campo d’applicazione l’insieme delle relazioni umane ed il contesto sociale in cui avvengono. Uno degli elementi essenziali di queste pratiche è la negoziazione del significato dell’opera che non discende direttamente dall’artista, ma che è elaborato collettivamente dal pubblico chiamato ad interagire con l’opera. Spesso, nel lavoro degli artisti presi in considerazione da Bourriaud, il pubblico non è definito come spettatore, ma stimolato in quanto comunità. Nelle Estetiche Relazionali l’accento è posto sul qui ed ora, dall’utopia si passa alla visione dell’arte come dispositivo generatore di microtopie. Sostanzialmente, esse vorrebbero mettere in pratica micro-modelli alternativi di socialità. Così, le Estetiche Relazionali rappresentano una delle modalità attraverso cui l’arte si fa interprete di quella dimensione molecolare (come la definisce Lazzarato, nel suo intervento per Multiversity) fatta di produzione di micro-differenze e di singolarità, senza, per questo, arrivare a minare i meccanismi di cattura bio-
capitalistica, anzi, esemplificandone quella dinamica di captazione che poggia sulla necessità dell’implementazione di differenziali di libertà. Inoltre, la sensazione che si ha di fronte al discorso e alle pratiche delle Estetiche Relazionali è che il loro modo di concepire la comunità sia quello di una comunità liscia, senza striature, una comunità che abita quel Junkspace descritto da Rem Koolhaas in termini di spazio continuo e artificialmente tenuto assieme dall’aria condizionata: quella dei centri commerciali, ma anche quella dei musei, delle gallerie, delle fiere d’arte . Le comunità riunite, evocate e sperimentate dagli artisti delle Estetiche Relazionali non sono attraversate da rapporti di forza. Semplicemente, non prevedono il conflitto. Pierre Huyghe, ad esempio, uno degli artisti simbolo nel gruppo dei “relazionali”, incarna in maniera chiara la predilezione nei confronti della molecolarità e di quelle narrazioni minori che sembrano minare i discorsi dominanti. In Third Memory (1999), Huyghe prende spunto da “Quel pomeriggio di un giorno da cani” di Sidney Lumet. Una proiezione a doppio canale affianca al film originale il video dell’artista, dove, all’interno di un set che riproduce la scena della rapina in banca, John Wojtowicz, il protagonista reale della vicenda che ha ispirato Lumet, è libero di re-interpretare l’accaduto, recuperando così la possibilità di narrare quella storia espropriatagli dall’industria cinematografica. Blanche-Neige Lucie (1997) è un documentario su Lucie Dolene, storica doppiatrice francese della Biancaneve disneyana che portò la Disney in tribunale per rientrare in possesso dei diritti di utilizzo della propria voce. Nel video, Lucie canta la Canzone del Principe Azzurro, mentre i sottotitoli narrano la storia del famoso caso giudiziario. Infine, in No Ghost Just a Shell (1999), Huyghe acquista i diritti di un avatar giapponese, un personaggio manga, libera questo avatar dal copyright consegnandolo nelle mani di un gruppo di artisti e chiedendo ad ognuno di essi si utilizzarlo per narrare una storia. Evidentemente, il tentativo di questa opera è quello di liberare un segno dal proprio destino commerciale e di renderlo protagonista di una vicenda plurale, molteplice e discontinua. Allo stesso tempo, Ann Lee (questo il nome dell’avatar) diventa il legame comune attorno a cui si forma una nuova comunità di artisti. In questi esempi si palesa la natura molecolare delle pratiche relazionali. Questa attenzione alle microtopie, questa insistenza sulla singolarità chiarisce una delle punte avanzate della governance capitalistica. Nelle Estetiche Relazionali deve, dunque, leggersi un avanzato (e allo stesso tempo palese) dispositivo di cattura del Bios, della vita in comune fatta di relazioni, linguaggi, e comunicazione. Inoltre, la governance artistica si evidenzia sul piano, più generale, della proliferazione di discorsi conflittuali, di mostre a tema direttamente politico e di pratiche “artiviste” che caratterizza il panorama istituzionale attuale. Chiariamoci, di per sé, questi non sono assolutamente fattori negativi. E nessuno è
così ingenuo da sostenere che l’indipendenza delle pratiche culturali possa essere coltivata al di fuori delle attuali contraddizioni capitalistiche (il tempo della crisi rimane un tempo storico, dunque sarebbe illusorio aspettarsi, entro pochi giorni, di assistere alla fine di un’epoca). Allo stesso tempo, è vitale sottolineare la necessità di rapportarsi con consapevolezza agli spazi che molti studiosi di movimento e artisti-attivisti trovano, oggi, nel mondo dell’arte. In fondo, questo fenomeno di proliferazione, sembra ricalcare, almeno nella sua logica di base, il dispositivo della sessualità in epoca Vittoriana, così come analizzato da Michel Foucault. Qui emergeva chiaramente come il biopotere agisse nel rovesciamento della logica repressiva, attuando, all’opposto, la moltiplicazione dei discorsi sulla sessualità attraverso varie declinazioni dello strumento della confessione, aumentando così i punti di applicazione del controllo e producendo nuove relazioni di forza che investivano i comportamenti, il corpo e il desiderio dell’individuo . Allo stesso modo, l’invito pressante all’espressione di discorsi conflittuali, potrebbe far apparire l’arte come il “confessionale del comune”. Da nessuna altra parte contenuti militanti e biocapitalismo sembrano arrivare ad un simile grado di compatibilità e di reciproca cordialità. In particolare, questo aspetto risulta evidente nelle cosiddette large scale exhibitions, le biennali e le grandi mostre temporanee, a cui il discorso istituzionale ha confezionato il ruolo di elementi potenzialmente destabilizzanti del sistema. Ciò deriverebbe dalla loro maggiore indipendenza rispetto a finanziamenti privati (dunque al conflitto di interessi tra esposizione e mercato) e dalla maggiore difficoltà che stampa e critica ufficiali dimostrano nel darne una lettura condivisa, dunque nel cristallizzarle all’interno di un discorso stabile . Il problema di questa teoria è che non viene sufficientemente problematizzato l’aspetto di libertà incarnato dalle large scale exhibitions. A noi appare, soprattutto, una grande libertà di governance. Ciò non significa, ripeto, che, come attivisti, dovremmo rifiutare gli spazi che l’arte ci apre. Ma questi spazi devono sempre essere praticati con l’intenzione di rovesciare il dispositivo e non, al contrario, ignorando il rischio di rimanervi imbrigliati, apportandovi l’ennesimo differenziale di libertà. Rovesciare il dispositivo dunque. Produrre indipendenza da esso, ma come e che tipo di indipendenza? Questo termine, infatti, porta in sé l’idea di libertà, di rottura della soggezione ai vincoli, ma anche, tradizionalmente, l’idea di affrancarsi da un dominio, da una sovranità (in particolare da quella nazionale). Qui, già sul piano puramente teorico-linguistico, incontriamo un primo problema: se accettiamo l’analisi dell’arte contemporanea come strumento di governance, allora appare chiaro che la cattura operata dall’arte contemporanea e, in generale, da tutta la cosiddetta industria culturale, è una cattura governamentale. Per dirla con Foucault (riprendendo ancora l’intervento di Revel), ciò che ci troviamo di fronte è il potere (dunque l’esercizio dell’azione sull’azione) e non il dominio (dunque il prelievo immediato, operato da un sovrano che esercita, come entità trascendente, il diritto di dare la morte al suddito). Ci troviamo di fronte ad un potere, o meglio, a delle linee di potere che attraversano orizzontalmente la nostra vita e che si nutrono, oggi, delle micro-libertà e delle micro-indipendenze che produciamo.
Anche su questo punto dobbiamo essere chiari e provare a contestualizzare il discorso all’interno del quadro generale. Innanzi tutto, è evidente che, socialmente, le politiche repressive non scompaiono, anzi, nella cornice della crisi attuale tendono ad inasprirsi. Se esaminiamo il panorama italiano, ci troviamo di fronte un pacchetto sicurezza che rafforza il controllo e tenta di istituzionalizzare i pruriti sociali più razzisti, parallelamente abbiamo assistito ad un violento attacco al diritto di sciopero che è da situarsi nella strategia capitalistica della socializzazione dei costi di questa crisi. Eppure, siamo ancora, in pieno, dentro ai meccanismi del biopotere, lo dimostrano due elementi. Il primo riguarda proprio il pacchetto sicurezza, un insieme di norme che va nella direzione di una diffusione sociale degli strumenti di controllo e dell’attività repressiva, delegando funzioni di polizia ai cittadini: alle ronde, ai medici, agli insegnanti. Il secondo elemento è quello del caso Eluana Englaro, in cui la nuda vita di questa persona ha fornito un campo di battaglia, un paradossale “corpo senza organi”, aperto alle incursioni dei poteri politici e religiosi. Inoltre, è bene sottolineare quanto le strategie della governance, pur insistendo sulla produzione di libertà, ne attuino una vera e propria espropriazione. Si tratta di un meccanismo di imposizione di enclosures nei confronti del carattere cognitivo del lavoro. Un lavoro che, come spesso ricorda Toni Negri, a scapito dell’attributo immateriale, è fatto di una fatica tremenda, aggravata dalla violenza della precarizzazione che, crisi o no, investe in pieno il lavoro vivo. Dunque, cosa dobbiamo attenderci dall’arte contemporanea in tempo di crisi? Non credo che ci troveremo di fronte un nuovo rappel à l’ordre, piuttosto, immagino che assisteremo all’inasprimento del suo carattere di governance, ad un’apertura a forme e discorsi militanti che dovremo essere pronti a praticare come terreno di forzatura, di smascheramento e di messa in crisi del dispositivo. Da questa possibile radicalizzazione delle dinamiche governamentali legate alla produzione culturale, inevitabilmente, discenderà un affinamento delle loro capacità di cattura. Anche questa evenienza, ci impone di problematizzare il termine indipendenza. Prima di tutto facciamo tesoro di quelle esperienze di movimento, mi riferisco agli Intermittenti francesi che, come racconta l’articolo di Antonella Corsani, hanno saputo rifiutare l’imposizione dall’alto del ruolo e dell’etichetta di artisti, continuamente reimpostagli (e continuamente rifiutata) dal potere per escludere il discorso sui diritti sociali. Ma non basta, puntare all’indipendenza della produzione culturale significa fare i conti con il rapporto tra molecolarità, carattere proprio delle pratiche artistiche, e organizzazione del conflitto. Teoricamente, il concetto di moltitudine porta con sé, nella sua definizione stessa, la risoluzione del problema, infatti, esso si definisce come una polarità che prevede la coesistenza del polo singolare e di quello collettivo, una sorta di concatenamento tra singolarità e comune.
Nella pratica dell’organizzazione dei conflitti, soprattutto sul piano della produzione culturale, la creazione di una macchina efficace, capace di articolare con successo questo nesso, sembra ancora un punto problematico. Viviamo un paradossale rovesciamento: i linguaggi e le pratiche artistiche cedono alla lusinga della cattura nella misura in cui la loro libertà singolare d’espressione è, nella maggior parte dei casi, totalmente garantita dal dispositivo artistico istituzionale. D’altro canto, spesso, le stesse pratiche avvertono i percorsi di organizzazione del comune come l’imposizione di un discorso sovradeterminante. La risposta a questo problema non può essere l’illusione che la miriade di forme ed espressioni culturali spontanee portino ad un crollo definitivo dell’industria culturale, questo per le ragioni fin qui discusse e, perché, come evidenzia Brian Holmes nell’articolo che apre il volume, ogni resistenza molecolare è semplicemente negata, anzi viene declinata, nei processi di valorizzazione del brand, come elemento cool, in grado di indirizzare il capitale sulle orme del desiderio sociale. D’altro canto non possiamo nemmeno permetterci di abbandonare il dato culturale. Se quegli elementi, tradizionalmente considerati sovrastrutturali in termini marxisti, oggi rappresentano, invece, un terreno di valorizzazione capitalistica che ci parla di libertà, eccedenze e forme di vita, allora dobbiamo scegliere di abitare le contraddizioni aperte da questo processo. Eppure, proprio per la compatibilità, o meglio per l’organicità tra produzione di molecolarità e istituzioni capitalistiche dell’arte e della cultura, il problema dell’organizzazione del conflitto e della declinazione dell’indipendenza culturale, diventa ineludibile. È necessario soffermarci ancora su quegli istituti del comune a cui UniNomade ha dedicato tanta attenzione negli anni recenti, sgombrando il campo da ogni omologia tra questi e il funzionamento organizzativo delle attuali forme della produzione . Forme che, si è arrivato a sostenere, prefigurerebbero l’avvento di un presunto comunismo del capitale, di un capitale senza proprietà . Forse, almeno con riferimento alla cultura, sarebbe importante ridiscutere i termini istituzione o istituto, sottolineando, invece, il loro carattere macchinico di dispositivi che debbono garantire la molecolarità e, allo stesso tempo, un livello di organizzazione collettiva che appare, oggi, l’unico carattere in grado di rovesciare la cattura capitalista. Forse dovremo cominciare a parlare di macchine del comune culturale, capaci di operare sul terreno di una sovversione reale. In questo senso, le analisi teoriche di uno studioso come Gerald Raunig (oltre ai contributi di Brian Holmes e José Pérez de Lama) possono rivelarsi preziose . Oggi, diventa ineludibile impegnarsi nella rottura di un paradosso. Quello per cui le istituzioni del capitale appaiono alle pratiche artistiche come strumenti flessibili, aperti, liberali, leggeri, mentre, in un rovesciamento perverso, il discorso sul comune appare come un agente di molarizzazione, un freno alla libertà creativa. La posta in palio di questa sfida non è secondaria, ci parla della necessità di restituire la sperimentazione linguistica al terreno del comune, di porre fine al furto operato al capitale. Nella specificità della città di Venezia, questa sfida è quella che abbiamo rac-
colto attraverso l’esperienza del S.a.L.E.: un progetto di movimento, nato nel 2007, che si pone il problema del superamento dello spazio sociale in quanto mero luogo di servizio alle istanze culturali e che, contemporaneamente, cerca di agire l’inchiesta e il conflitto (all’interno di quella che abbiamo definito la “fabbrica della cultura”) direttamente sul piano avanzato della governance culturale. Un piano che comprende sia la lotta di quei movimenti a venire che, come gli Intermittenti francesi, rifiutano l’imposizione molare della funzione artista, sia la produzione di nuove lingue comuni. Entrambe sono condizioni della nostra indipendenza.
Ad esempio Jacques Ranciére e Christian Höller: “ It means that its form of efficiency [of contemporary art, ndr] consists in the blurring of the borders, in the redistribution of the relations between spaces and times, between the real and fictional, etc. In this respect it can play a role against the logic of consensus”; J. RANCIERE, C. HOLLER, The Abandonment of Democracy, in “Documenta Magazine” n°1-3, 2007, Reader, Documenta e Museum Fridericianum, Kassel, 2007. Mi riferisco a due famose opere di Hans Haacke: la prima è Solomon R. Guggenheim Board of Trustees, (1974) in cui l’artista espone, freddamente, secondo la logica concettuale, gli interessi economici di alcuni Trustees della Guggheneim, legati ad una multinazionale operante in Cile e nazionalizzata dopo l’elezione di Allende. Shapolsky et al. Manhattan Real Estate Holdings, A Real Time Social System, as of May 1, 1971, (1971). Quest’opera convinse la direzione del Guggheneim Museum a cancellare la mostra di Haacke, a sei settimane dall’apertura. Cfr. B. O’DOHERTY, Inside the White Cube: the Ideology of the Gallery Space, University of California Press, Berkeley, Los Angeles and London, 1986. Riguardo alla pervasività della finanza vd. C. MARAZZI, La violenza del capitale finanziario, in Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, a cura di A. FUMAGALLI e S. MEZZADRA, Ombre Corte, Verona, 2009. A. FUMAGALLI, Crisi economica globale e governance economico-
sociale, in Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, a cura di A. FUMAGALLI e S. MEZZADRA, Ombre Corte, Verona, 2009, (pag. 51). Cfr. N. BOURRIAUD, Relational Aesthetics, Les Presses du Reel, Dijion, 2002. Cfr. R. KOOLHAAS, Junkspace, in Mutations, ACTAR, Bordeaux, 2001, (pag. 743). Cfr. M. FOUCAULT, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1996. Questa teoria, completata dall’inserimento del ragionamento all’interno di una prospettiva postcoloniale, è sostenuta con forza da Carlos Basualdo in: C. BASUALDO, The Unstable Institution,in What Makes a Great Exhibition?, a cura di P. MARINCOLA, Philadelphia Exhibition Initiative, Philadephia, 2006, (pag 52). Per un approfondimento sul dibattito attorno al tema delle istituzioni del comune, vedi: Posse. Istituzioni del comune, giugno 2008. Versione on line http://www.posseweb.net/spip.php?rubrique33. Cfr. Y. BENKLER, La ricchezza della rete. La produzione sociale trasforma il mercato e aumenta le libertà, Università Bocconi Editore, Milano, 2007. G. RAUNIG, Art and Revolution. Transversal Activism in the Long Twentieth Century, Semiotexte, Los Angeles,
VENEZIA: L’INVESTIMENTO NELL’ARTE CONTEMPORANEA E IL LAVORO PRECARIO NELLA FABBRICA DELLA CULTURA Tommaso Cacciari Il 28 ottobre 2008, il movimento veneziano, quell’ “Onda Anomala” che ha preso corpo a partire da scuole e università e si è fin da subito riversata per le strade, cominciando ad agire la crisi come un’opportunità di cambiamento a partire dal desiderio di non volerla pagare, ha deciso di visitare gratuitamente la mostra d’arte contemporanea Italics. Arte italiana tra tradizione e rivoluzione 1968-2008, curata da Francesco Maria Bonami e ospitata nella prestigiosa sede di Palazzo Grassi. Seicento studenti delle due università cittadine e dell’Accademia hanno invaso il museo e, prima di gustarsi la mostra, hanno seguito una lezione sul concetto di crisi tenuta da Judith Revel. La scelta di riappropriarsi della mostra di Palazzo Grassi (tanto per intendersi, lo scherzetto è costato alla sua gestione oltre 75mila euro di mancati introiti!) è dovuta all’esemplarità del percorso di questa istituzione culturale. Il Palazzo era, fino a quattro anni fa, di proprietà della FIAT, che lo utilizzava come teca dorata di rappresentanza della vecchia industria dell’auto, nazionale e fordista, già allora avviatasi sul viale del Tramonto ed oggi impegnata, nella crisi, in un gigantesco processo di fusioni e ristrutturazioni su scala globale. Il palazzo settecentesco affacciato sul Canal Grande viene incamerato nel patrimonio dalla casa automobilistica torinese nel 1984, grazie all’assunzione del controllo di Snia Viscosa, tra le cui proprietà compariva anche il prestigioso immobile, vincolato sin dagli anni Cinquanta nei piani di comparto comunali come spazio per attività culturali. Non era la prima né l’ultima delle iniziative culturale della FIAT, basti pensare al riutilizzo dello stabilimento torinese del Lingotto, ma l’operazione veneziana Palazzo Grassi SPA rappresentava una novità. Nata come intervento mirato all’interno della propria strategia complessiva di immagine, il progetto degli Agnelli su Palazzo Grassi si fondava sul tentativo di coniugare il fatto economico con quello culturale, gestendo l’istituzione culturale con criteri aziendalistici. La società, il cui proposito era quello di promuovere, organizzare e commercializzare eventi culturali, si faceva carico integralmente delle condizioni di utilizzo della struttura (dal restauro all’organizzazione delle singole manifestazioni) e la gestiva affiancando management di formazione aziendale a studiosi–consulenti di arte esterni, presentandosi poi sul mercato come un “palazzo delle esposizioni” e non con un museo in senso tradizionale. Una filosofia, quella alla base della gestione torinese di Palazzo Grassi, quindi, di “cultura come industria”, più che da industria della cultura, concretizzatasi nelle mostre dedicate alle grandi civiltà. Una filosofia gestionale che entra in crisi contemporaneamente all’azienda cui fa riferimento ed il “gio-
iello” Palazzo Grassi inizia, all’inizio del Ventunesimo secolo, a perdere tra i 4 e i 5 milioni di euro l’anno. La linea strategica dell’azienda in crisi diviene quella di alleggerirsi di ciò che non frutta e che non rientra nel core business. Che la sede espositiva non rientri più nel perimetro delle società sul cui futuro la FIAT investe, del resto, diviene chiaro fin dal 2003, durante l’interregno di Gabriele Galatei, al timone della casa torinese dopo la morte di Giovanni Agnelli. Tutti segnali che provocano allora la preoccupazione del Comune di Venezia che si allarma e si attiva. Dichiarava allora l’assessore alla Cultura Armando Peres: “se la FIAT lascia chiuso Palazzo Grassi per più di un anno il brand si impoverisce, il turismo ne soffre, il danno d’immagine è certo: per Venezia e per la FIAT. Chiudono per risparmiare sui costi fissi? Posso capire, ma il danno resta. E il Comune è impegnato ad evitarlo.” Sarà proprio il Comune di Venezia, infatti, negli ultimi mesi della giunta guidata da Paolo Costa, a farsi da garante e da mediatore del passaggio della Palazzo Grassi SPA dalle mani della famiglia Agnelli a quelle della famiglia Pinault, che compra l’80% delle azioni (il rimanente 20% lo acquisterà il Casinò di Venezia, azienda controllata per il 98% dalla Pubblica Amministrazione). L’offerta francese (30 milioni di euro, più l’impegno ad accollarsi le spese di gestione ed eventuale deficit) è stata presa in considerazione dopo il nulla di fatto con Angelo Terruzzi, il “re del nichel” che portava in dote una ricca pinacoteca settecentesca con tele di Canaletto e Tiepolo. La corsa per il controllo di una tra le maggiori istituzioni culturali cittadine è stata quindi vinta da un soggetto radicalmente postfordista, profondamente caratterizzato dall’investimento sull’industria del lusso, della grande distribuzione e dell’entertainment, in sostanza dalla valorizzazione degli “stili di vita”. Basta dare uno sguardo al miliardario impero del trentaquattresimo uomo più ricco del mondo per farsi un’idea. Pinault è proprietario dei marchi Gucci, Yves Saint Laurent, Sergio Rossi, Bottega Veneta, Boucheron, Bédat & Co., Alexander Mc Queen, Stella Mc Cartney, Balenciaga. Possiede catene di negozi negli USA e in Europa del calibro di Printemps, Redoute, FNAC, Kingsize, Metrostyle, Redcats (solo per citare i più noti), ha da poco comprato la marca di abbigliamento sportivo Puma e, tramite la CFAO, distribuisce medicinali ed automezzi in Africa. Il magnate francese è inoltre proprietario della prestigiosa casa d’asta Christie’s ed è egli stesso il più grande collezionista di arte contemporanea del mondo, secondo le stime 2006 della rivista Art Review, cioè di un mercato di opere delle quali egli stesso decide in buona misura le quotazioni. Il passaggio di Palazzo Grassi da un assetto proprietario fordista ad uno postfordista, ci sembra emblematico di ciò che sta avvenendo negli ultimi anni in città, di quel “salto” ad un modello produttivo che ha nella messa a valore e nello sfruttamento dell’intelligenza, dei linguaggi, degli affetti e delle relazioni, cioè della vita stessa, i suoi tratti caratteristici. D’altra parte è così che funziona l’applicazione del
biopotere alle forme contemporanee della cooperazione produttiva, giocando sulle differenze soggettive, generando da esse il surplus, tentando di catturarle in differenti dispositivi e di metterle a valore, e questo è anche il motivo per cui arte e cultura sono diventati campi centrali della produzione di valore. Stiamo quindi assistendo ad una strategia del capitale finanziario globale alla ricerca di piattaforme, spazi virtuali ma anche luoghi fisici, su cui insediare le proprie attività, in questo caso in un luogo come Venezia, che è un brand di successo da almeno millecinquecento anni, anzi un “multi-brand”, vista la molteplicità di valenze che le si possono attribuire. Una strategia che, in generale, incontra il favore di amministrazioni locali assetate di risorse finanziarie sempre più scarse, e che, nel nostro caso, si combina anche con il tentativo della governance locale di controbilanciare in questo modo la monocoltura turistica o, quantomeno, di qualificarne positivamente un segmento tramite le attività legate all’arte contemporanea. Non va dimenticato infatti che resiste in città, ed in termini quantitativi è – oltre alle attività del porto commerciale – certamente dominante, un’economia di tipo “tradizionale” legata al turismo di massa, di cui è protagonista un blocco sociale (pur non in senso gramsciano) dal forte peso politico della rendita di posizione, un mix di soggetti sociali attivi nel turismo, nel commercio e nel pubblico impiego che vuol morire senza cambiare, come il simulacro di Venezia. Infatti pur di fronte alla prospettiva della morte, della fine, della perdita di residenza, questo ceto immobile non fa uno scatto per vivere, per investire sul futuro. Agendo sugli idola del ricordo e dell’appagamento, sta contribuendo a trasformare Venezia in un non-luogo, ed una città che diviene un non-luogo rischia di avere solo nella nostalgia la tonalità emotiva dominante. Non a caso il processo di valorizzazione del turismo di massa ha la necessità di fissare la città in uno stato permanente di morte apparente, re-inscenando costantemente il suo ultimo giorno di vita, inebetendo milioni di turisti con l’odore di morte emanato dalle rovine della prossima Atlantide. Due idee di città, quindi, che seppure l’una appare decisamente alternativa all’altra, coesistono e si intrecciano in un’esistenza sincronica, anche se all’interno delle trasformazioni del paradigma produttivo postfordista: Venezia, coerentemente con la sua storia, sembra stia scommettendo il suo futuro proprio sull’arte e le forme più avanzate della produzione e della fruizione culturale contemporanee. E’ un processo interessante, perché siamo al suo inizio, e possiamo vedere sulla scala di un microcosmo lo svilupparsi di quelle tendenze comuni a tutti i processi che disegnano il formarsi di una composizione sociale nuova: non è infatti una questione che riguardi solo Pinault, ma questa trasformazione sta coinvolgendo tutti, soggetti pubblici e privati, autorità locali e nazionali, fondazioni, scuole private, musei civici e istituzioni della formazione. E’ in tale contesto che si colloca il lavoro di inchiesta avviato dal collettivo di S.a.L.E. Docks e cercheremo di introdurlo, utilizzando la griglia concettuale molare/molecolare, esposta nel suo contributo da Maurizio Lazzarato.
Da un punto di vista molare, assistiamo in particolare ad una riqualificazione dell’offerta formativa universitaria, i cui effetti maggiormente visibili sono stati la creazione della nuova facoltà di Arti e Design dello IUAV (l’Istituto Universitario di Architettura), la nascita di inediti corsi di gestione e management dei beni culturali di Ca’ Foscari, il progetto della creazione di una sorta di DAMS interfacoltà e interuniversità, che coinvolgesse anche l’Accademia di Belle Arti. A questa riqualificazione ha corrisposto anche un superamento delle modalità tradizionali di organizzazione della docenza, dal momento che queste istituzioni universitarie pubbliche hanno esplicitato il problema del proprio posizionamento su un mercato globale della formazione, caratterizzato da forme estreme di nomadismo. Il caso più evidente è proprio quello della facoltà di Arti e Design dello IUAV. Questa facoltà ha infatti scelto di dotarsi di un corpo docente con un numero di figure strutturate assai ridotto, espandendo invece a dismisura la docenza a contratto, attraverso l’ingaggio temporaneo, a suon di decine di migliaia di euro, di artisti e curatori di fama mondiale, circondati da numerosi “assistenti all’insegnamento”, giovani, precari e sottopagati. L’università è riuscita in tal modo a garantire che l’offerta formativa sia posizionata in un mercato molto veloce e sintonizzata con una domanda in permanente evoluzione, attirando una particolare composizione nomade di studenti, che richiedono un rapporto in tempo reale con le tendenze più avanzate e gli elementi di continua innovazione che si registrano sul mercato dell’arte, della comunicazione e del disegno industriale. A fianco di questa riorganizzazione delle istituzioni universitarie pubbliche, abbiamo assistito ad un fiorire di strutture private della formazione, come la Scuola Internazionale di Arti Grafiche, o l’apertura nell’isola della Certosa della sede veneziana dell’Istituto Europeo di Design, che sono del resto quelle che più di altre garantiscono, per alcuni ruoli e figure professionali, l’accesso al mercato del lavoro. Un peso significativo, anche per il numero annuo di visitatori e la rilevanza del patrimonio che si trovano a gestire, lo assumono le istituzioni della conservazione museale: il polo più consistente è rappresentato dai musei civici (tra questi Palazzo Ducale, Ca’ Rezzonico e Ca’ Pesaro), recentemente trasformati in Fondazione. Possono contare su di un fatturato di oltre 60 milioni di euro l’anno e sono un grande bacino di lavoro precario con più di 450 lavoratori, formalmente inquadrati nella figura del “socio-lavoratore” e così sfruttati grazie al ricorso allo strumento delle cooperative. Tra le strutture espositive a controllo pubblico, gioca un ruolo decisivo la Biennale, istituzione governativa “di preminente interesse nazionale”, che negli ultimi anni ha cercato di compiere un vero e proprio salto da macchina esclusivamente espositiva a produttiva. Anch’essa funziona con un nucleo molto ridotto di lavoratori garantiti da contratti a tempo indeterminato, che assicurano la continuità operativa dell’organizzazione, e con un amplissimo polmone di lavoro precario, non solo per allestimenti e guardiania, ma anche per funzioni qualificate di lavoro cognitivo: non a caso, quattro anni fa, per la realizzazione dei grandi eventi quali la Mostra del Cinema o Arti Visive, passò dal tradizionale rapporto contrattuale
stagionale a chiamata presso l’Ufficio di collocamento ad un mix tra meccanismo delle cooperative e ricorso alle agenzie del lavoro interinale. La Biennale, così come tutti gli altri soggetti, agisce come importante player sul terreno del mercato immobiliare e, attraverso l’occupazione e la gestione degli spazi fisici in città, pure sul terreno urbanistico. Tutto questo investimento sul contemporaneo è infatti un formidabile veicolo di trasformazione dello spazio urbano, si pensi all’operazione di restauro e riuso di Punta della Dogana o alla riqualificazione della zona di San Basilio dopo il trasferimento del polo universitario. Questi movimenti hanno una duplice valenza: ogni volta che si realizza un’iniziativa produttiva in questo ambito del contemporaneo, spazi e luoghi della città vengono riplasmati, sia attraverso la valorizzazione di alcune aree e la contestuale svalorizzazione di altre, sia attraverso lo spostamento dei poli di attrazione nello spazio urbano e dei flussi conseguenti. Infine, e proprio da qui eravamo partiti, vi sono gli attori del capitale finanziario internazionale, gli operatori del lusso, dell’entertainment, quelle articolazioni del capitale globale che, per usare un’immagine di Adam Ardvisson, “atterrano come astronavi” in un determinato territorio. Pensiamo, oltre al già citato Pinault, a strutture storicamente presenti come la Fondazione Guggenheim, che con la casa-museo di Peggy iniziò proprio da Venezia la sua avventura globale. Oltre a Palazzo Grassi, la fondazione di Monsieur Pinault è riuscita, in sinergia con l’amministrazione comunale, ad assicurarsi i 2.550 metri quadrati di Punta della Dogana, la storica “porta da mar” della città collocata di fronte a Piazza San Marco, per novantanove anni. Non vi è più dubbio che l’interesse degli investitori ad intervenire su Venezia sta nel prendere i suoi spazi vuoti, abbandonati, e riempirli di attività, non solo di pura immagine (come nelle operazioni di marketing urbano di spettacolarizzazione della città), né di pura rendita (il valore in sé del bene fermo e immutabile), ma attraverso la manutenzione e il riuso degli spazi con funzioni adeguate alle nuove frontiere della valorizzazione, ai nuovi bisogni, al nuovo lavoro e alla sua composizione sociale. Così come la governance locale ha la necessità di individuare interlocutori in grado di mettere in forma un’idea progettuale avanzata, di garantire il suo finanziamento e poi di arrivare fino alla progettazione e alla realizzazione con competenze tecnico-specialistiche e finanziarie adeguate. E non vi è dubbio che il Comune di Venezia abbia trovato uno di questi interlocutori nel multimiliardario del lusso. L’apertura del suo personale centro espositivo permanente è prevista per giugno 2009, in contemporanea con la vernice della 53.a edizione della Biennale di Venezia. I lavori (affidati all’aristocrazia delle imprese di restauro, la Dottor Group, che fornisce ai suoi dipendenti trainer e diete personalizzate) sono stimati in trenta milioni di euro, tutti a carico dei francesi. Il progetto di ristrutturazione porta la firma della star dell’architettura globale, il giapponese Tadao Ando, che abbiamo già visto impegnato nel territorio veneto in operazioni simili, come quando ha ristrutturato “Fabrica”,
il centro ricerche sulle arti applicate della Fondazione Benetton a Treviso. Non è un caso. Un aspetto significativo nella sua novità, infatti, di questo forte investimento sul contemporaneo è la riqualificazione in chiave metropolitana che sta determinando nel rapporto tra la Città Storica e le reti produttive, i sistemi produttivi localizzati (gli ex distretti industriali, per intenderci) del Nordest. Dopo la crisi di metà anni Novanta, i piccoli e medi imprenditori del territorio hanno sostanzialmente scelto due strade: da un lato, persistono quanti hanno continuato a scommettere esclusivamente sulla compressione verso il basso del costo della forza lavoro e che, quindi, hanno mantenuto sul territorio il cervello produttivo e delocalizzato la produzione materiale, prima nell’Est europeo, poi nel Far East asiatico; dall’altro, sono emersi imprenditori che hanno invece puntato su di una forte spinta all’innovazione e alla qualità dei prodotti. Questi ultimi hanno dato forte slancio allo sviluppo di competenze ad alto contenuto creativo, quella complessità di funzioni, dal design, alla comunicazione, al marketing, oggi presenti all’interno di piccole e medie imprese che non vi avevano mai fatto ricorso. Esiste quindi uno spazio di reale interazione tra gli investimenti sul contemporaneo a Venezia ed il tessuto produttivo diffuso del Nord Est, che forse per la prima volta nella sua millenaria storia, ridisegna il ruolo di Venezia come funzione di uno spazio sociale metropolitano che la oltrepassa. Dal punto di vista molecolare, il lavoro di inchiesta del S.a.L.E. è sostanzialmente un inizio di ricostruzione dei percorsi della soggettività. Ci teniamo a premettere una questione: abbiamo affrontato per primo il piano molare solo per esigenze descrittive, per far capire che cosa stia succedendo in città e quali forze e strutture di parte capitalistica siano in movimento, ma non pensiamo assolutamente che sia la dimensione molare a creare quella molecolare, non teorizziamo qui alcun primato della dimensione molare. Anzi, è proprio per la disponibilità qui, nella nostra città e nel nostro territorio, di una composizione sociale competente, creativa e qualificata, a consentire poi lo strutturarsi di questa serie di istituzioni della formazione, espositive, produttive, che si configurano come apparato di cattura parassitario della cooperazione produttiva, creativa e libera, espressa da questa composizione. Non è casuale infatti che, fin dai primi passaggi della nostra inchiesta sulla ricostruzione dei percorsi soggettivi, il primo dato con cui ci siamo dovuti confrontare sia una massa enorme di lavoro non retribuito, di lavoro non salariato, che viene appropriato gratuitamente dalle istituzioni culturali. È significativo che tutti gli intervistati abbiano alle spalle anni di stage totalmente volontari, che sicuramente sono anche delle esperienze formative e autoformative, ma che spesso vedono studenti ultra qualificati provenienti dalle università cittadine ma anche dall’estero, impegnati in compiti assolutamente dequalificati: la Guggenheim, ad esempio, funziona per i suoi servizi di guardaroba, book shop, guardiasala esclusivamente utilizzando questo tipo di manodopera gratuita. Una simile spaventosa appropriazione di lavoro gratuito è fondata sullo scambio ineguale dell’internità
e accessibilità ai circuiti del mercato, oltre che sul tema motivazionale, nodo ancora aperto e tutto da approfondire. Questi stage sono ritenuti infatti la chiave d’accesso all’inserimento progressivo nella “fabbrica della cultura”, la porta che conduce a questo specifico mercato del lavoro. Il secondo dato, che emerge dal lavoro di inchiesta fin qui condotto, è il moltiplicarsi del numero di lavori svolti simultaneamente per arrivare ad un livello di reddito adeguato. Molto spesso si fa un lavoro gratuito o sottopagato in questo settore elettivo (“quello che mi piace fare”) nei musei, nelle gallerie, e si sopravvive grazie ad un lavoro dequalificato nell’industria turistica, dimostrando come, al di là delle buone intenzioni della governance cittadina, vi sia un rapporto di vasi comunicanti tra questo nuovo settore creativo e l’economia turistica anonimizzante e massificata. Il terzo aspetto emerso dalle interviste è la casualità. E’ l’elemento del caso a definire molto spesso la collocazione ed il ruolo in questo mercato. Incontri fortuiti, relazioni che si costruiscono sul caso e sull’occasione colta o lasciata possono orientare in un senso o nell’altro un percorso individuale. Puoi diventare un artista quotato sul mercato o scaricare casse da una barca per tutta la vita in base alla casualità. Questo introduce secondo noi un tema molto importante, ossia il rifiuto non soltanto etico e ideologico della gabbia identitaria dell’ “artista” e dell’attribuzione di un qualsiasi valore in sé alle gerarchie che strutturano questo mercato del lavoro. Fin dalla prima assemblea del S.a.L.E., ci siamo definiti “artisti e artigiani” allo stesso tempo, facendo nostro uno dei punti qualificanti delle lotte degli intermittenti dello spettacolo francesi. Il rifiuto, per noi militanti e attivisti in qualche modo “ontologico”, che il punto di vista dell’artista sia più importante di quello del manovale, del tecnico o del facchino, si dimostra corretto anche dal punto di vista della lettura della composizione sociale che è messa al lavoro in questo settore, proprio perché è molto spesso il caso degli incontri e delle relazioni, oltre alla selezione arbitrariamente gerarchizzante del mercato, a definire la collocazione tra scaricatore e artista, così come la distribuzione in tutto il ventaglio di ruoli sulla scala gerarchica che c’è in mezzo. Infine, come questi mesi dell’Onda ci hanno insegnato, è proprio nella condivisione di una cooperazione sociale sempre più matura, nella comune esperienza di sfruttamento e delle nostre braccia e dei nostri cervelli, nella consapevolezza della messa a valore delle nostre fatiche fisiche e creative, in tutto questo comune sentire e comune patire, che affonda le sue radici la ricerca aperta di quel linguaggio comune e di quelle comuni forme di lotta che ci consentano di iniziare a riprenderci tutto ciò che ci è stato tolto.
Bookmarks Otto giovani artisti “da vedere” e la possibilità per lo spettatore di segnalarne altri attraverso i propri bookmarks. Approcci differenti per tematiche che spaziano dal ritratto, alla precarietà, alla guerra, fino alla riflessione critica sul sistema dell’arte contemporanea.
Francesco Raparelli La lunghezza dell’ Onda. a cura di Gigi Roggero. Che strani quegli studenti che, in assemblee sempre più affollate, a partire dal settembre 2008 parevano talora dar voce a quell’odiosa mormorazione giustizialista che da sempre accompagna l’avanzare della crisi, e che assumeva nelle loro parole il volto inquietante della meritocrazia. Che irritante spiazzamento quando, giunti in corteo davanti al senato, si levavano i cori “siete tutti pregiudicati”. Noi, che pregiudicati lo siamo per ben altri motivi, sappiamo alla perfezione che invocare la forca per i corrotti è il modo migliore per salvare un sistema che produce esso stesso corruzione. Eppure, è dentro questa composizione spuria ed eterogenea, post-ideologica e ambivalente che il vento della protesta stava diventando onda di movimento. Così, per scavare dentro la sua genealogia, per surfare sulla sua cresta, per navigare al suo ritmo, bisogna dotarsi di nuove bussole. Non per vacui entusiasmi innovativi, ma semplicemente perché quelle vecchie sono definitivamente impazzite e inservibili. Allora, il libro di Francesco Raparelli esce al momento giusto, non solo per ricostruire i passaggi dell’onda anomala, ma soprattutto per interrogarne la continuità. Tenere il punto per rilanciare il discorso. Per misurare, appunto, la lunghezza dell’onda. L’autore usa una famosa espressione di Wittgenstein per marcare il luogo di partenza della sua analisi: la scala è gettata. La nuova composizione del lavoro cognitivo, infatti, è salita a un livello di compiuta socializzazione delle proprie forme di produzione e di vita sul piano metropolitano, di assorbimento nel suo corpo vivo delle capacità di organizzazione della cooperazione sociale e di autonomizzazione dell’intelligenza collettiva dal capitale. Per questo motivo i tagli all’università, a partire da cui l’onda ha cominciato a montare, sono il tentativo di “affamare la bestia”, cioè questa nuova composizione soggettiva che nel movimento è divenuta “animale politico”. Si tratta di una meritocrazia capovolta e a costo zero, tesa cioè a giustificare lo storico disinvestimento e la dismissione finale del sistema formativo. L’anti-intellettualismo governativo non mira dunque a un indistinto attacco a una peraltro inesistente “comunità accademica”, fratturata al proprio interno da opachi ma affatto reali rapporti di potere e di produzione; né è liquidabile come residuo anti-moderno ascrivibile alla rozza impresentabilità degli esponenti della maggioranza berlusconiana. È invece, a tutti gli effetti, una tecnologia di governo della contemporaneità, atta a costruire linee di segmentazione e divisione che bloccano l’esercizio di autonomia della cooperazione sociale. Saliti a questo livello, la vecchia scala della sinistra non solo è inutile, ma è estranea alla nuova soggettività formatasi nella dissoluzione del fordismo. Raparelli fissa con precisione le recenti tappe della crisi della sinistra italiana, che negli ultimi anni è passata attraverso l’opportunistico voltafaccia bertinottiano al movimento globale ed è culminata nella scomparsa della sinistra cosiddetta radicale, fagocitata dalla propria presuntuosa stupidità nell’esperienza del governo Prodi. Consumata la tragedia, non resta che farsa. Le radici di tale crisi, tuttavia, sono ben più profonde: af-
fondano esattamente nell’irrappresentabilità delle nuove figure del lavoro vivo. In modo chiaro ed efficace, nella seconda parte del libro, l’autore ripercorre alcune delle principali ipotesi teoriche e interpretative del post-operaismo, ossia di un movimento di pensiero che si fa carne nell’organizzazione del conflitto. Qui la crisi globale, lungi dal rappresentare la trasfigurazione dell’economia finanziaria rispetto a una supposta economia finanziaria, o essere semplicemente imputabile alla corruzione dei mascalzoni e dei furbetti, trova la propria spiegazione nella materialità dei nuovi rapporti di produzione. La crisi, dunque, è elemento permanente del capitale nella sua fase “comunista”, per riprendere la provocatoria perspicuità dell’Economist, ovvero di un meccanismo di accumulazione che è costretto a inseguire l’auto-organizzazione della moltitudine, a produrre valore catturandola a valle anziché organizzandola a monte. In questo contesto, come trasformare quel geniale slogan dell’onda, “noi la crisi non la paghiamo”, in programma politico e terreno di generalizzazione del conflitto? Raparelli sintetizza due nodi di programma e un tema di orizzonte strategico, innervati dalle discussioni e dalle pratiche militanti e di conflitto degli ultimi anni. I primi due sono facilmente riassumibili: reddito e libero accesso ai saperi. Non si tratta di semplici parole d’ordine: nell’onda questi strani studenti, attraverso quella straordinaria velocità dei processi di soggettivazione che avviene solo nell’insorgenza del conflitto, hanno dato carne e sangue alle rivendicazioni e pratiche di nuovo welfare. Anche molti di coloro che facevano appello alla moralità contro i corrotti, nel giro di poche settimane si sono confrontati con determinazione contro quei poliziotti che difendono il sistema che genera corruzione. Il velo è stato squarciato. Qui la retorica della meritocrazia, afferrando il suo nocciolo materiale, può rovesciarsi in lotta contro il declassamento e in pratica costituente. Non perché vada difesa l’università pubblica, ma perché ne va costruita un’altra. Un’università comune, o meglio un’università del comune. Un’università per la qualità dei saperi, dunque contro la meritocrazia: perché l’eccellenza non è una questione di misura, ma di esercizio della decisione collettiva sulla ricchezza sociale che autonomamente produciamo. In questa direzione, il superamento – finalmente definitivo – della forma-partito non significa l’ingenua fiducia nella forma-movimento, e soprattutto mette in guardia dalla sua declinazione debole. Non fosse altro perchè, come traspare dal libro, questo termine assume significati parecchio diversi sul piano transnazionale. In varie parti del mondo, per intenderci, è una categoria più utile alla teoria sociologica che alla pratica politica. Si tratta allora di ripensarlo e riattraversarlo imparando una nuova lingua dell’organizzazione. Una lingua della moltitudine. Risuona qui la domanda, cruciale, che Toni Negri colloca nel cuore della sua prefazione: “sarà trasferibile questa esperienza in una definitiva scelta di vita, in un nuovo radicamento ribelle dell’esistenza?”. Come, in altri termini, l’onda può divenire istituzione del comune, per riprendere quel tema strategico cui allude l’autore? Per rispondere, la scala è gettata anche per forme di movimento che oggi sono inadeguate ai compiti che la nuova composizione moltitudinaria del sapere
vivo pone. E la ricerca delle nuove forme di organizzazione, come Raparelli giustamente premette, non può che essere una ricerca collettiva e di parte. Recensione a cura di Gigi Roggero del libro “La lunghezza dell’onda. Fine della sinistra e nuovi movimenti” di Francesco Raparelli.
ESPERIMENTI SCENICI PERMANENTI (prodotti dal basso) Con la collaborazione di S.a.L.E. docks, Laboratorio occupato Morion e Rebiennale proponiamo un laboratorio di teatro da effettuarsi da novembre 2009 a maggio 2010 che porti alla messa in scena di uno spettacolo curato dai partecipanti al laboratorio in ogni suo aspetto (tecnico, attoriale, scenografico, costumistico ecc.), costruendo così un vero e proprio team di lavoro. Ogni fase di lavorazione avrà come supervisore un professionista del settore ( Pierpaolo Comini per la regia; Enrico Fabris per luci, scenografia e tecnica; Francesca Sara Toich per il training attoriale). Gli esperimenti non riguarderanno solo la scena, ma anche l’ambito produttivo-gestionale curato da Alessia Zabatino: saremo infatti i primi ad applicare al teatro un metodo di produzione autonoma chiamato “produzione dal basso”. CONTENUTI CULTURALI “può lo scrittore tralasciare ciò che preferisce non capire?” J. Ballard, “Crash” Tralasciare ciò che si preferisce non capire vuol dire evitare accuratamente di analizzare tutti i fenomeni che ci circondano, le loro dinamiche e le influenze che hanno su di noi così come vuol dire evitare anche l’analisi di come le nostre dinamiche personali vadano ad interagire e a modificare il mondo esterno. Di conseguenza noi vogliamo prendere di petto la contemporaneità, non intesa come maniera estetico ideologica di fare cultura, ma come viscerale interrogazione sul senso del presente, mettendo da parte ideologie e soluzioni modaiole di fare teatro, mettendo tutto in discussione: stilemi, linguaggi, tematiche. Vogliamo applicare alla contemporaneità i concetti chiave del teatro: rito, gioco e narrazione. Non pensiamo ad un teatro basato sul passato e sulla memoria, ma nemmeno, in realtà, ad un teatro basato sul presente. Ciò che vediamo è un teatro basato sul futuro prossimo, su come potremmo essere un domani molto vicino. Venezia è la sede ideale per questo laboratorio di esperimenti scenici permanenti. Storica città di mercanti che hanno saputo nella storia vendere di tutto (la loro città compresa), oggi Venezia combatte furiosamente contro se stessa. Da una parte gli ultimi refoli di una comunità civile, dall’altra un immenso centro commerciale a cielo aperto, un parco a tema di se stesso, una piattaforma bizantina appaltata da tutto il mondo globalizzato. Una situazione generale nel mondo, ma che a Venezia diviene quasi una metafora del domani. IL LABORATORIO Il laboratorio si struttura in 84 ore, divise in sette mesi con quattro appuntamenti mensili di tre ore cadauno. Il gruppo è a sua volta diviso per competenze: attori, costumisti, scenografi e tecnici per un totale di 14 partecipanti. Tre sono i testi dai quali trarremo le suggestioni per la creazione della dramma-
turgia per l’evento finale che mai sono stati portati in scena: “ La mostra delle atrocità” di J. Ballard “ Le tre stimmati di Palmer Eldrich” di P. Dick “ La possibilità di un’isola” di M. Houellebecq PRODUZIONE DAL BASSO Il laboratorio e la messinscena della spettacolo verranno prodotti con il metodo di produzione dal basso che consiste nel suddividere il capitale necessario per la produzione culturale in tanti “micro-capitali”, i quali non verranno conferiti da un unico soggetto finanziatore , ma dai futuri spettatori dello spettacolo. Si sovvertono così le logiche economico-gestionali normalmente vigenti: coloro che conferiranno il “micro-capitale” non vorranno un ritorno economico dal loro “micro investimento”, ma entreranno nel progetto in corso di produzione e ne saranno parte integrante, così lo spettacolo non sarà per loro solo un prodotto finito. Più specificatamente la quota di co-produzione comprenderà il biglietto d’ingresso allo spettacolo, l’accesso a tre prove aperte/dibattito ( nei giorni 18 dicembre 2009, 18 marzo e 29 aprile 2010 ), un seminario sulla drammaturgia contemporanea tenuto da docenti di Ca’ Foscari e drammaturghi, facilitazioni d’accesso alla programmazione culturale di S.a.L.E. docks ( in particolare la personale di Yona Friedman e la mostra fotografica Ombre||Schatten) LE COLLABORAZIONI S.a.L.E. docks e il Laboratorio occupato Morion metteranno a disposizione gli spazi nei quali si svolgerà il laboratorio: al Morion si terranno le lezioni, ai Magazzini del Sale gli appuntamenti ufficiali ( prima dello spettacolo, incontri con i co-produttori, seminario) e le altre attività culturali alle quali avranno privilegiato accesso i nostri co-produttori. Con la collaborazione di Rebiennale, attraverso il riutilizzo dei materiali utilizzati per gli allestimenti della Biennale, nasceranno le scenografie dello spettacolo che verrà messo in scena alla fine degli Esperimenti scenici permanenti. La collaborazione riguarderà anche la condivisione di contatti per la creazione della rete di co-produttori con l’intento che questi possano così avvicinarsi non solo alla nostra produzione teatrale, ma alla realtà di produzione culturale autonoma che caratterizza e ci accomuna con S.a.L.E. docks e Laboratorio occupato Morion.. Alessia Zabatino Pierpaolo Comini
Il S.a.L.E. nasce nellʼottobre del 2007 da un gruppo di persone provenienti dallʼesperienza dei centri sociali. Decisivo, per le sorti del progetto, è stato percorso collettivo di analisi di Venezia e di alcuni processi che ne stanno determinando la trasformazione. Tra questi, il nostro interesse si è focalizzato su di un massiccio sviluppo degli investimenti che riguardano le forme dellʼespressione contemporanea: lʼarte, la musica, il teatro, il design, la moda, lʼarchitettura e la formazione superiore dedicata a questi ambiti. Non siamo romantici, non crediamo che lʼarte debba essere coltivata solo per amore dʼestetica, ma sappiamo che lʼarte, tanto più nellʼera delle reti, è il prodotto di una cooperazione sociale diffusa e delle relazioni che la innervano. Gli economisti dellʼarte sostengo che lʼarte abbia il potere di cambiare ciò che noi pensiamo della vita, al S.a.L.E. lavoriamo perché lʼarte cambi effettivamente la nostra vita. Certo, siamo ancora distanti dal raggiungimento di molti di questi obiettivi, eppure, questa mostra vuole cominciare a raccogliere i risultati concreti del nostro lavoro. Risultati che, in oltre due anni, hanno assunto forme diverse. Mostre, pubblicazioni, workshop, seminari, incontri, laboratori e spettacoli teatrali, performances in città e altro ancora. Queste attività dimostrano il grado di innovazione di un progetto come il S.a.L.E., le energie che ha saputo convogliare finora, la quantità e la qualità degli eventi realizzati, degli artisti, degli studiosi e dei collaboratori coinvolti. In mostra sono raccolti quasi due anni e mezzo della nostra attività, fatta di entusiasmo, lavoro, fatica, volontà di mettersi in gioco e di sperimentare. Fatta soprattutto di una scelta: quella di adoperarsi concretamente, senza retorica, dentro lʼarte, la cultura, la città e il mondo come dentro terreni materiali per la riconquista della nostra indipendenza e della nostra capacità di trasformazione della realtà.
S.a.L.E. ON STAGE RASSEGNA TEATRALE
12 GENNAIO ore 21.00
compagnia Asilo Pubblico presenta
LEEF LEAF
LABORATORI DELLʼ INDIPENDENZA
LE NOTTI BIANCHE - di Dostoevskij 22 GENNAIO di e con Giuseppe Amato ore 21.00 e con Chiara Benedetti una produzione ARIA TEATRO
APPUNTI PER LA RIVOLUZIONE di e con Beppe Casales
28 GENNAIO e Sergio Marchesini ore 21.00
una produzione Compagnia VIA e RADIO SHERWOOD
Il S.a.L.E. è uno spazio autogestito dedicato alla produzione culturale indipendente. Il nostro lavoro si basa sulla produzione di mostre, eventi e pubblicazioni. Centrale è l'inchiesta rispetto alle forme della precarietà in una città > come Venezia: una vera e prorpia "fabbrica della cultura".
DUEANNI TREMESI EDIECIGIORNI
S.a.L.E. is a self-manged space dedicated to indipendent cultural production. Our work is based on the production of exhibitions, events and publications. A key aspect of our activity is to inquire into the forms of precariousness in Venice: in a city which we could define as a real "culture factory".
S.a.L.E. Docks
Magazzini del Sale - Punta della Dogana - Venezia www.saledocks.org per iscriversi alla newsletter e ricevere informazioni
sui prossimi eventi / If you want to join newsletter and be updated on the next events: saledocks@gmail.com per raggiungere il S.a.L.E. : fermata Zattere (linea 51, linea 2) o Salute (linea 1)
14 GENNAIO - 4 FEBBRAIO apertura: da mercoledì a domenica dalle ore 15.00 alle ore 20.00
DUEANNITREMESIEDIECIGIORNI 1 LUCA TOMMASI “Via Fratelli Bandiera. Marghera” 2007 - da Open#0 2 ZA!REVUE “Il Zazzettino” 2007 - da Za!Revue. Situazionist Workshop 3 GIORDANO RIZZARDI “Senza Titolo” 2008 - da Open#1 4 LORENZO PINNA “Senza Titolo” 2008 5 CHARLES HERANVAL “Sale, sale” 2007 - da Open#0
11 13 10
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7 LABORATORIO DI CARTOGRAFIA PARTECIPATA “mappa biopolitica di Venezia”, “mondoMose” 2008 - da Multiversity
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8 ANDREA MORUCCHIO “We, the Chinese nation,...” 1997/99 - da Multiversity
10 SERPICA NARO “Attacco a Westwood” 2008 - da Trouble Makers 11 GIULIANA RACCO “I miei anni invisibili” 2008 - da Bookmarks 12 GIANFRANCO BARUCHELLO “Agricola Cornelia S.p.A.” 1973/81 - da Sperimentazioni desideranti 13 OGI:NO KNAUSS “Urban skin” 2008 - da Urban Skin.Saggio di dermatologia urbana 14 CLAIRE FONTAINE “Arbeit Macht Kapital” 2008 - da Multiversity 15 UGO CARMENI “Le mani sulla città” 2008 - da Open#1 16 UGO CARMENI “Arte: trovato lʼantidoto” 2010 - da Open#2 17 FRANCESCO BURLANDO “Senza Titolo” 2008 - da Open#1 18 MARCELO EXPOSITO “El Año en que el Futuro Acabó” 2007 - da Multiversity
9
9
6 MAURIZIO DI ZIO “Case” 2005 - da Open#1
9 HATE, KAYA, KAZE, RAMBO, OSTE, CAPO, WONS, LUCA VASCON, JOYS 2007/2008/2009 - da Lost in Production, Guilty at the Dock, Headlines
OPEN# 2007 - 2009 - 2010
12
Multiversity 16 -17-18 maggio 2008
9
14 7 18
6
15 16
5 17
4
3 2 1
Open# è la mostra aperta del S.a.L.E. Rispetto alle moltissime mostre “su bando”, questa non si prefigge lo scopo esclusivo (seppur importante)di mettere lo spazio a disposizione di giovani artisti. Lʼapertura verso le forme emergenti del contemporaneo non sta rinchiusa nella parentesi temporale di una mostra, ma è uno dei dati fondanti del S.a.L.E. Open# vuole mettere in luce il carattere laboratoriale del S.a.L.E. Il nostro obbiettivo è quello di porre lʼaccento sul fatto che questa città sia in grado di produrre progetti culturali indipendenti e non solo di ospitare o esporre grandi eventi confezionati per il mercato turistico. Alle selezioni delle prime due edizioni di Open# hanno partecipato più di 200 giovani artisti. Un percorso seminariale, una pubblicazione, l'elaborazione di pratiche di intervento sulla città. Multiversity è un seminario internazionale organizzato dal S.a.L.E. in collaborazione con la rete di ricercatori Uni.nomade. Nellʼarco delle tre giornate, tre sessioni hanno animato la discussione: arte e attivismo, arte e mercato, arte e moltitudine. Molti i temi affrontati. Lʼambiguo rapporto tra arte, pensiero critico e immaginari sovversivi, nuovi femminismi e arte contemporanea, lʼartista come ready-made sociale, i rapporti tra movimenti artistici e modelli produttivi, gentrificazione, sabotaggio e creatività come fattore economico, Venezia come “fabbrica della cultura” e molto altro... A partire da Multiversity è nato il volume: “Lʼarte della sovversione”, pubblicato dalla Manifestolibri nel luglio 2009.
Headlines 23 aprile – 30 maggio 2009
Headlines è la terza mostra del S.a.L.E. dedicata al writing. A cura del collettivo Urban Code, testimonia di unʼattenzione costante del S.a.L.E. verso lʼuniverso della Street Art, certamente uno dei fenomeni più interessanti e diffusi di questo territorio. Urban Code è un collettivo di writers provenienti da Venezia e dalla sua terra ferma. All'interno del S.a.L.E cura una serie di eventi legati alla street art invitando numerosi ospiti internazionali. Gli eventi organizzati sono caratterizzati non solo dalla volontà espositiva, ma anche da una riflessione profonda sulle pratiche del writing nello spazio pubblico, sulla loro criminalizzazione o mercificazione, sia in galleria che nei media. Hedlineas non è solo una mostra, ma anche il titolo di un volume fotografico contenente immagini del lavoro di Urban Code e molti altri materiali originali.
OTHER PROJECTS
THE EMBASSY OF PIRACY / 6 - 7 - 8 giugno 2009 GIANFRANCO BARUCHELLO ” SPERIMENTAZIONI DESIDERANTI” 12 marzo-18 aprile 2009 OGI:NO KNAUSS: “URBAN SKIN” 11 settembre - 3 ottobre 2008 “TROUBLE MAKERS: ARTE, INCHIESTA, SPAZIO PUBBLICO E MOVIMENTI SOCIALI” / 17 gennaio-17 febbraio 2008 “BOOKMARKS: OTTO ARTISTI, OTTO PROPOSTE, UN PERCORSO” 28 ottobre-14 dicembre 2009 ZA!REVUE. SITUAZIONIST WORKSHOP dal 15 al 22 novembre 2007
S.a.L.E. Docks - dueannitremesiedieci-giorni OPEN#2 presenta: la mostra del S.a.L.E. 10 / 1 / 2010 Dueannitremesiedieci-giorni, ecco da quanto esiste il S.a.L.E. Il S.a.L.E. nasce nell’ottobre del 2007 da un gruppo di persone provenienti dall’esperienza dei centri sociali. Decisivo, per le sorti del progetto, è stato un percorso collettivo di analisi di Venezia e di alcuni processi che ne stanno determinando la trasformazione. Tra questi, il nostro interesse si è focalizzato su di un massiccio sviluppo degli investimenti che riguardano le forme dell’espressione contemporanea: l’arte, la musica, il teatro, il design, la moda, l’architettura e la formazione superiore dedicata a questi ambiti. Il crescente successo di pubblico di un’istituzione quale la Biennale, la maggiore presenza di facoltà e scuole dedicate all’arte e al design, la nascita di nuove fondazioni, l’alto numero di giovani artisti e di lavoratori precari del settore culturale, l’apertura di nuovi musei (come quelli finanziati da un magnate globale dell’industria del lusso), sono tutti segnali che negli ultimi dieci anni testimoniano di un vero e proprio investimento strategico nel settore del contemporaneo. Venezia, dunque, da città museo a creative city? Impossibile semplificare in tal modo. Si tratta, invece, di un processo in corso, di un territorio dai confini porosi in cui si intersecano il capitale simbolico collettivo di Venezia (la sua peculiarità locale) a dinamiche più marcatamente globali che fanno della creatività un fertile terreno di profitto. Dentro questo modello, peculiare e globale allo stesso tempo, il S.a.L.E. trova la propria ragione di vita. Noi abbiamo definito Venezia come una sorta di “fabbrica della cultura”, non perché vi siano somiglianze con la fabbrica in senso tradizionale, bensì per sottolineare il fatto che la trasformazione in cui siamo calati, seppure nella sua natura metropolitana, continua a essere innervata da dinamiche di estrazione di plusvalore, da persistenze di rendita e da rapporti di forza fortemente asimmetrici. Questa è una città museo su cui i tratti della città creativa sono in fase di innesto. Qui la gentrificazione è già compiuta, inutile opporvisi ottusamente. E’ necessario, invece, agire dall’interno per recuperare spazi: spazi fisici che restituiscano ossigeno all’autogestione in un luogo segnato da un mercato immobiliare “delirante”. Necessario è opporsi alla precarizzazione del lavoro culturale a partire dall’analisi e dall’inchiesta dentro la “fabbrica della cultura”. Necessario è, soprattutto nella crisi, inventare fonti di reddito per sottrarsi alla schiavitù di un precariato sempre più soffocante e per costruire nuove forme di indipendenza culturale. Necessario è sottrarre agli economisti dell’arte il mantra sul potere dell’arte e della cultura di trasformare il modo in cui le persone guardano al mondo. Non perché sia falso, ma perché, nelle loro mani, questa verità spesso maschera il consolidamento di posizioni di rendita metropolitana o accademica.
Non siamo romantici, non crediamo che l’arte debba essere coltivata solo per amore d’estetica, ma sappiamo che l’arte, tanto più nell’era delle reti, è il prodotto di una cooperazione sociale diffusa e delle relazioni che la innervano. Gli economisti dell’arte sostengo che l’arte abbia il potere di cambiare ciò che noi pensiamo della vita, al S.a.L.E. lavoriamo perché l’arte cambi effettivamente la nostra vita. Certo, siamo ancora distanti dal raggiungimento di molti di questi obiettivi, eppure, questa mostra vuole cominciare a raccogliere i risultati concreti del nostro lavoro. Risultati che, in oltre due anni, hanno assunto forme diverse. Mostre, pubblicazioni, workshop, seminari, incontri, laboratori e spettacoli teatrali, performances in città e altro ancora. Queste attività dimostrano il grado di innovazione di un progetto come il S.a.L.E., le energie che ha saputo convogliare finora, la quantità e la qualità degli eventi realizzati, degli artisti, degli studiosi e dei collaboratori coinvolti. In mostra sono raccolti quasi due anni e mezzo della nostra attività, fatta di entusiasmo, lavoro, fatica, volontà di mettersi in gioco e di sperimentare. Fatta soprattutto di una scelta: quella di adoperarsi concretamente, senza retorica, dentro l’arte, la cultura, la città e il mondo come dentro terreni materiali per la riconquista della nostra indipendenza e della nostra capacità di trasformazione della realtà. Artisti: Claire Fontaine, Gianfranco Baruchello, Marcelo Exposito, Ogi:no Knauss, The Embassy of Piracy, Andrea Morucchio, Serpica Naro, Giuliana Racco, Maurizio Di Zio, Giordano Rizzardi, Ugo Carmeni, Francesco Burlando, Laboratorio di Cartografia Partecipata, Za!Revue, Hate, Kaya, Kaze, Rambo, Oste, Capo, Wons Luca vascon, Joy, Luca Tommasi, Lorenzo Pinna, Charles Heranval. Dueannitremesiedieci-giorni - dal 14 gennaio al 4 febbraio 2010 da mercoledì a domenica dalle 14 alle 19 opening - giovedì 14 gennaio ore 19.00 - Ugo Carmeni presenterà l’opera: “Senza titolo 1 + Senza titolo 0.3. Ovvero: Arte: trovato l’antidoto”. Inoltre sarà ospite il narratore Davide Picatto che introdurrà una discussione su: La scritura e il web. Autopubblicazione e nuove forme d’espressione”. a seguire - Dj set con DJ FRIKEZ
Graphic work by Cyro’s
http//cyrosigns.blogspot.com