Intervista a Giovanni Mazzarino - All About Jazz 2009

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Article Courtesy AllAboutJazz.com

Intervista a Giovanni Mazzarino By Angelo Leonardi Giovanni Mazzarino è uno dei pianisti italiani più noti e richiesti in ambito internazionale. Dopo un silenzio discografico di sei anni dovuto ad impegni didattici, torna sotto i riflettori a capo del quintetto con cui ha inciso il disco Light, per l'etichetta Philology. Negli ultimi mesi la sua attività è stata a dir poco frenetica: oltre che alla guida del suo gruppo, lo si è visto in tour con Flavio Boltro e partecipare, in veste di compositore e arrangiatore, alla nuova produzione di Francesco Cafiso ed ai lavori discografici di Cinzia Roncelli e Flora Faja. In una pausa del tour lo abbiamo intervistato per i nostri lettori. All About Jazz: Nel tuo nuovo disco, Light, guidi un quintetto comprendente il batterista Adam Nussbaum e un nucleo di giovani talenti. Ce ne vuoi parlare? Giovanni Mazzarino: La mia nuova formazione nasce anche dal desiderio di presentare alla critica nazionale e internazionale due straordinari musicisti siciliani: Giuseppe Mirabella e Dino Rubino. Sono cresciuti con me, insieme abbiamo condiviso tante cose; al nostro rapporto di profonda e reciproca stima mancava un'esperienza discografica. La loro maturità artistica e musicale mi ha convinto a coinvolgerli in questo progetto e, a posteriori, si è rivelata una scelta indovinata. Ho invece riscoperto un grande contrabbassista, Marco Panascia, anche lui siciliano ma ormai americano d'adozione. Alla batteria, infine, c'è poi il mio grande amico, oltre che magistrale musicista, Adam Nussbaum con il quale da tempo condivido progetti. Il disco è stato registrato a Cavalicco nello studio di Stefano Amerio, ingegnere del suono di straordinaria professionalità il quale ci ha molto aiutato a trovare le sonorità che ricercavamo. Il titolo del disco doveva inizialmente essere Colours in quanto ogni brano rimanda a un colore, ma prevalendo le tonalità solari alla fine ho scelto di intitolarlo Light. Nel repertorio, oltre alle mie composizioni - da cui traspare l'amore per la musica popolare sudamericana - c'è uno standard poco battuto, “Never Let Me Go” e un brano di Steve Swallow dal titolo “Feet First”. AAJ: L'ambito espressivo resta quello

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del mainstream? G.M.: Suonare in struttura, le note esatte, con il ritmo giusto non è poi una brutta cosa! Anzi, vorrei che accadesse sempre... Sembra quasi che la parola mainstream significhi poco spessore, vecchiezza nell'espressione, musica retorica, sentita e risentita. Un vocabolo di cui si fa abuso in maniera esagerata e gratuita. Il mio disco è un disco di jazz. Può piacere o meno... ma parliamo sempre di musica colta. È un disco variegato per quanto riguarda il repertorio; ad esempio, la suite “Mother” riprende le mie esperienze legate all'estetica classica, è un piano solo dedicato a Chopin e ai notturni d'epoca tardo-romantica. La seconda parte del brano si sviluppa poi con aperture ancora diverse, concentrandosi su ostinati ritmici su tempi dispari con contaminazioni provenienti dalla musica araba. AAJ: Negli ultimi anni eri un po' assente dalla scena dei club e dei concerti, come mai? G.M.: Diciamo che ho preso un periodo di pausa piuttosto lungo, durante il quale ho diretto l'Accademia Musicale Siciliana. Un impegno davvero notevole che ha inevitabilmente ridotto la mia attività concertistica, compositiva e relativa produzione discografica. È stata un'esperienza molto bella, interessante, che mi ha arricchito soprattutto dal punto di vista umano. AAJ: Nel nuovo disco c'è un intenso brano in piano solo. È forse l'anticipazione per un lavoro dedicato a questa formula? G.M.: Sì, è possibile! Mi piacerebbe ripetere l'esperienza che ho fatto in occasione della trasmissione radiofonica “Invenzione a due voci” di Radio 3 Suite. In quel programma si invitava un musicista ad esibirsi immediatamente dopo l'ascolto di un brano scelto da un critico musicale - che era anche il conduttore della trasmissione - ad esempio un tema di Berlioz o di qualsiasi altro musicista, genere e/o stile. Capitava così di suonare della musica fortemente influenzata dall'ascolto precedente. Il risultato era davvero imprevedibile. Nel mio caso emersero cose assolutamente inaspettate, al punto che ebbi quasi difficoltà a riconoscermi musicalmente pur rimanendone piacevolmente sorpreso. Mi piacerebbe entrare in uno studio di registrazione con un buon “conduttore” e ripetere l'esperimento. AAJ: Mi sembra una situazione che ripropone in musica ciò che la psicoanalisi chiama “libere associazioni,” uno strumento chiave per far emergere i motivi dell'inconscio in modo inaspettato. G.M.: Sì, probabilmente è così. Di certo questo era l'obiettivo della trasmissione radiofonica. AAJ: Quali sono i pianisti che ti hanno ispirato maggiormente? G.M.: Ho scoperto i pianisti molto tempo dopo avere appreso e assimilato in termini esclusivamente mentali il linguaggio del Jazz. Quando avevo circa 8/9 anni facevo una cosa

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piuttosto bizzarra: mi posizionavo davanti all'impianto stereo e “consumavo” una vera e propria performance. Ascoltavo uno dei tanti dischi di mio padre, poteva essere l'orchestra di Count Basie o Frank Sinatra piuttosto che Michel Legrand e cantavo la melodia del brano, poi le parti solistiche immedesimandomi nel ruolo del trombettista, del sassofonista e talvolta del batterista. A dire il vero il ruolo del pianista non mi interessava e le parti strumentali che preferivo erano queste tre. In questo modo ho involontariamente appreso un linguaggio pur non conoscendo ovviamente nulla della sua grammatica. È come quando un bambino impara a parlare una lingua perché nella sua famiglia si parla quell'idioma precipuo. Questo linguaggio l'ho poi trasferito sul pianoforte perché era l'unico strumento che era disponibile in casa. AAJ: Però non sei autodidatta, hai frequentato il conservatorio se non sbaglio. G.M.: Sì, ho frequentato il conservatorio per alcuni anni, molto pochi e non ho raggiunto il diploma. Ho studiato anche musica liturgica, in particolare l'organo, presso i gesuiti, ma in quel periodo avevo scoperto Jimmy Smith e volevo riprodurre il suo stile sullo strumento...

“Nel jazz le note possono anche essere perfette ma se non si suonano con la giusta concezione ritmica la differenza e' evidente e quindi non funziona” AAJ: Com'è andata? G.M.: Ovviamente non mi è stato affatto permesso. Tuttavia il linguaggio del jazz è sempre stato la mia grande passione, soprattutto dal punto di vista ritmico. Agli inizi non conoscevo bene l'armonia e cercavo sempre la nota “efficace,” nella maggior parte dei casi con scarso successo, ma il ritmo era quello giusto. AAJ: Una cosa fondamentale... G.M.: Certo, perché nel jazz le note possono anche essere perfette ma se non si suonano con la giusta concezione ritmica la differenza è evidente e quindi non funziona. È come se parlassi in maniera sconnessa usando dei vocaboli o intere frasi giuste in termini lessicali ma totalmente fuori contesto. AAJ: Quali sono stati i pianisti da cui sei partito? G.M.: Ho fatto un percorso perfettamente inverso. Uno dei primi pianisti jazz che ho ascoltato fu Chick Corea con il suo progetto elettrico; ero affascinato anche dai pianisti cubani... Solo

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qualche anno dopo un caro amico del jazz club di Messina mi fece notare che esistevano tanti pianisti nella tradizione e che il loro ascolto sarebbe risultato fondamentale per la profonda conoscenza del linguaggio jazz. Così ho iniziato il percorso a ritroso: Oscar Peterson e Art Tatum che erano - e sono tutt'ora - inarrivabili dal punto di vista tecnico e altri pianisti quali Wynton Kelly, Red Garland, Herbie Hancock fino alla folgorazione per Thelonious Monk, un artista che ho adorato immediatamente. Lì ho capito che era un musicista che, sebbene “avvicinabile” dal punto di vista tecnico, era assolutamente inarrivabile sul versante compositivo. Infine sono venuti Bill Evans, che è ancora una fonte d'ispirazione, e Keith Jarrett in trio, la mia formazione preferita. AAJ: E tra i non pianisti? G.M.: Il più importante negli anni della mia formazione, tra i 18 e 21 anni, è stato John Coltrane. Per comprare i suoi dischi spendevo tutti i soldi della mia paghetta settimanale, dischi che sono ormai inascoltabili in quanto vittime dell'usura per tutte le volte che alzavo la puntina e riascoltavo gli stessi brani o gli stessi assoli. Quella è stata la mia più grande scuola. AAJ: Tra i musicisti con cui hai collaborato chi ha rappresentato un momento davvero significativo? G.M.: Ho collaborato con diversi musicisti che hanno fatto la storia del jazz, ma l'artista più significativo per la mia carriera è stato Steve Swallow. Non è solo un artista grandioso ma un vero e proprio gentleman che non ti fa pesare il suo spessore artistico esprimendo nel contempo una genuina disponibilità. Lo stesso posso dire per Adam Nussbaum. Il primo concerto che feci con loro fu nel 2001 in un locale ad Avesa, località vicino Verona. Mi ricordo che tutti mi dissero: “Stai attento perché Nussbaum ha un cattivo carattere” e cose simili. Il giorno in cui ci trovammo all'appuntamento appresi che aveva pure perso i piatti all'aeroporto e pensai: “Oddio, l'ho pure incontrato nella sua giornata più brutta”. Invece, al contario delle stupide dicerie, si dimostrò una persona fantastica e da allora suoniamo insieme regolarmente ogni anno. AAJ: Tu hai collaborato a lungo sia con Mark Murphy che con Tom Harrell. Cosa ricordi di loro? G.M.: Mark è il cantante di jazz per eccellenza, un artista straordinario. Con lui ho davvero capito come si accompagna un solista. Ci siamo conosciuti nel 1998 e quando veniva in Europa accettava anche ritmiche locali, ma poneva la condizione che fossi io ad accompagnarlo. Ormai ha 76 anni e sente la fatica dei ritmi di un tour. Gli ultimi concerti che abbiamo fatto sono stati al Jazz Centre di Istanbul. Insieme abbiamo inciso un disco live al Blue Note di Milano ed è inaudito che non ci sia un'etichetta discografica interessata a produrlo. Un disco davvero riuscito, che anche Mark vorrebbe vedere pubblicato. AAJ: E per quanto riguarda Tom Harrell? G.M.: Con lui siamo di fronte alla genialità assoluta, un musicista sempre originale, in continuo

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rinnovamento. Con lui ho partecipato a sette od otto tour e mi sono così reso conto che la sua musica è perfetta, ogni nota è essenziale e il risultato è talmente intenso e coinvolgente che si entra nel suo mondo, anche senza volerlo. Vorrei però parlare di un altro musicista che mi ha dato molto e a cui sarò per sempre grato: Gianni Basso. Era una persona splendida e con la sua morte ho perso un grande amico nonché un maestro che mi ha trasmesso tantissimo in modo naturale, senza alcuna velleità di voler fare l'insegnante. AAJ: Nel tuo ruolo di leader cosa ti aspetti dai tuoi partner? G.M.: Una delle cose per me fondamentali, forse la più importante, è l'intesa umana che si ha con i musicisti. Non amo suonare con persone con cui potrei avere dei dissapori, con cui non c'è immediato feeling sul palco e fuori. Per questo scelgo attentamente con chi suonare anche quando svolgo, ormai sempre meno, il ruolo di sideman. Suono solo con i musicisti con i quali posso condividere un progetto artistico. AAJ: Da musicista come vedi lo stato di salute del jazz in Italia sul versante del mercato, ovvero il management, i festival e la critica musicale? G.M.: Intanto vorrei dire che ci sono molti booking agent e pochi manager. Dico pochi ma in realtà dovrei dire nessuno. Pertanto molti si occupano di trovare dei concerti, talvolta anche in maniera selvaggia, e pochi producono o promuovono l'artista e la sua musica. Quindi, se dovessimo parlare di stato di salute, su questo versante “non stiamo poi così bene”. Nella mia esperienza ho notato che in altri Paesi europei, penso alla Francia o alla Svezia, le cose funzionano molto meglio. Ho recentemente fatto un tour con la cantante svedese Rigmor Gustafsson e ho visto la qualità dello staff che si muove con lei. In Italia questo non c'è neppure con i nomi di primissimo piano, ovviamente con le dovute eccezioni. Da noi si lavora sul breve termine piuttosto che sul lungo. Ci sono poi dei problemi davvero seri e mi riferisco a quei booking agent che hanno concretamente rovinato il mercato perché vendono (e uso questa parola di proposito) musicisti a cifre davvero basse sfruttando il cambio favorevole del dollaro e ingaggiano jazzmen americani approfittando del fatto che non si pagano i contributi. Quindi, con tanti artisti americani si lavora praticamente in nero. AAJ: Due considerazioni sui giornalisti? G.M.: Una buona parte dei critici e/o giornalisti pur non essendo musicisti hanno la sensibilità, taluni anche la competenza, per comprendere ciò che dal punto di vista musicale avviene ascoltando un disco o un concerto, se non strettamente dal punto di vista tecnico di certo in termini di vibrazioni sensibili. Altri entrano nel merito della musica in termini più specifici pur non avendo alcuna competenza musicale e danno sentenze che sono l'immagine speculare della loro ignoranza alla quale spesso, così come succede nella vita, si accompagna arroganza intellettuale. A quelli che sostengono che il jazz sia cominciato nel 1968 suggerirei di documentarsi, di studiare, di approfondire seriamente tale materia perché la loro ignoranza (nel senso stretto che ignorano la materia) - è dannosa. C'è poi chi tenta, attraverso l'attività di critico, di far politica... e questo non è può che essere un male perché l'arte non è proprietà di nessun partito o colore politico.

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AAJ: Hai un sogno che vorresti realizzare? G.M.: In generale sono soddisfatto di come sono andate le cose nella mia vita e mi sento molto fortunato. Uno dei miei sogni è quello di suonare con Jim Hall, oppure in trio con Charlie Haden e Paul Motian.

Foto di Alessandra Freguja (la quarta)

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