INTERFACOLTÀ LETTERE E FILOSOFIA - ECONOMIA
Corso di Laurea in Scienze della Moda e del Costume
IL TESSILE SARDO MATERIALI PER UN DISCORSO INTESSUTO TRA TRADIZIONI E ATTUALITÀ
Relatore
Candidata
Prof.ssa Lucia Masina
Valeria Cattari
Anno Accademico 2012/2013
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INTRODUZIONE Il filo conduttore di questa tesi di laurea è, come suggerisce il titolo, il tessile sardo. Questa non vuole essere una trattazione sistematica ed esaustiva di ciò che quest’ultimo è stato ed ha rappresentato dal passato fino ai giorni nostri, poiché ampia è la bibliografia già esistente sugli specifici ambiti del tessuto e della tessitura. Il mio lavoro di tesi parte, invece, da una volontà di scoprire, riscoprire ed indagare alcune realtà artigianali che più mi sono parse peculiari ai fini di un arricchimento del discorso, sottolineandone volutamente l’aspetto individuale attraverso l’accostamento diretto dei nomi degli artigiani protagonisti, quasi a volerli omaggiare per l’attività in cui si sono distinti. Per una maggiore comprensione e fruibilità del lettore ho ritenuto utile organizzare i casi da me analizzati all’interno di un indice strutturato in maniera coerente dal punto di vista dei contenuti. Così, nel primo capitolo, dedicato ai materiali, si analizzeranno casi emblematici quali l’orbace, tessuto sardo per antonomasia; il lino e il suo intero ciclo produttivo nel paese di Busachi, che ne conserva la tradizione nel piccolo museo e nelle case di poche ultime depositarie filatrici e tessitrici. Come prima personalità legata al tessuto non potevo non citare il caso di Chiara Vigo e del suo - o meglio del nostro - bisso: lei, unica al mondo in questa “maestria”, ne garantisce la continuità, portando avanti inalterata un’antica tradizione. Un altro caso, che si colloca analogamente nella sfera del “perpetuare una tradizione”, è quello di Maria Corda e della lavorazione della seta, della quale segue l’intero ciclo dall’allevamento del seme al prodotto finito - il fazzoletto tipico del costume femminile orgolese, su lióndzu - pratica che si tramanda nella sua famiglia da oltre Duecento anni. Infine, caso diametralmente opposto, Anna Grindi, che il tessuto l’ha invece inventato, dal sughero. Il secondo capitolo è dedicato alle tecniche di lavorazione, in primis la tessitura e l’importanza che rivestiva in Sardegna, finalizzata alla realizzazione di elaborati funzionali alla necessità della vita quotidiana. Esporrò, poi, le due tecniche che caratterizzano e contraddistinguono l’arte del ricamo nell’Isola: il punto a nodo di
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Teulada e il Filet di Bosa. Di seguito, anche in questo capitolo, due nomi accompagnano due distinte arti prese in analisi: quello di Battistina Tronci-Anedda, che per oltre Cinquanta anni ha praticato artigianalmente l’affascinante arte della plissettatura, e quello di Maurizio Savoldo, il quale è riuscito a fare di un antico mestiere, la tintura naturale, un opportunità di sviluppo, recuperando la tradizione per rinnovarla in chiave moderna. Nel terzo capitolo vengono esposti quelli che erano i prodotti del comparto tessile sardo, con i loro usi e le loro consuetudini, affiancati nel corso del Novecento dal sorgere di nuove categorie merceologiche. Nel quarto capitolo, infine, si presenteranno i tratti caratteristici dell’apparato iconografico sardo, e di come, a partire dai primi del Novecento, quest’ultimo abbia visto l’incursione della mano di alcuni nomi del panorama artistico regionale. ! La finalità di questo mio lavoro è offrire una chiara visione d’insieme di quelli che sono i risultati di una ricerca che, come visto, ha toccato vari ambiti. La dicotomia tradizione-innovazione - due termini gravati da talmente tante implicazioni da doverli utilizzare sempre con cautela - è implicita e rintracciabile in tutte le realtà prese in considerazione, da quelle che si situano specificatamente all’interno di uno e dell’altro ambito a quelle che inglobano al loro interno entrambe le accezioni di tradizione-modernità, anche se molto spesso i confini risultano talmente labili da non poter inquadrarle con rigore. ! Essendo la presente tesi composta da materiali compositi ed eterogenei, la raccolta delle fonti è stata diversificata. In alcuni casi ho potuto accedere ad archivi e materiali direttamente fruibili come nel caso del Museo delle Arti Popolari di Roma, punto di partenza della presente tesi, grazie alla quale ho avuto la possibilità di visionare splendidi abiti e manufatti dalla quale ho tratto inizialmente spunto per le ricerche. In altri, numerosi, casi ho potuto attingere direttamente da fonti orali, avendo la fortuna di poter parlare con i diretti interessati. Ho scoperto inoltre l’esistenza di efficienti portali dedicati, in cui ho potuto usufruire liberamente di
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molti testi, documenti, vecchi periodici, atti, cataloghi. Molto devo all’ILISSO, casa editrice sarda che con le sue numerosissime pubblicazioni valorizza la produzione artistica, etnografica e culturale dell’Isola. Ciò che pare l’unica certezza di questo sentito lavoro è che il grande patrimonio di strumenti da lavoro, tessuti e soprattutto saperi relativi a un’attività che tanta importanza ha rivestito nella storia, nell’economia e nella cultura materiale della Sardegna, rischia di andar perduto. Le tessitrici che ancora lavorano, consapevoli e responsabili depositarie di una tradizione prossima a scomparire, meriterebbero maggiore attenzione e reale sostegno. Così anche i musei locali dovrebbero essere potenziati ed incentivati e diventare dei punti di riferimento culturale e dei centri di documentazione e raccolta di dati materiali, orali, fotografici e filmici. Un buon lavoro in questo senso è stato portato avanti con il portale Sardegnadigitalibrary, archivio digitale della Regione Autonoma della Sardegna, concepito come un’opera in progress e destinato ad accogliere i contenuti digitali e multimediali riguardanti la cultura, la storia, la letteratura, la musica, il territorio, l’ambiente e le immagini della Sardegna, con lo scopo di valorizzarne il patrimonio culturale. Recentemente è stato creato anche il portale Mediterranean Crafts Archive, un Archivio dei Saperi Artigianali che propone una “memoria fruibile”, risultato di una lunga e accurata ricerca sul campo condotta - oltre Marocco e Egitto - in Sardegna: fotografie, video, schede, puntuali approfondimenti sulle tecniche e le materie prime, sui luoghi di realizzazione e sugli artigiani. L’Archivio contribuisce alla tutela dei saperi artigianali degli Stati che si affacciano nel bacino del Mediterraneo, muovendo dalla convinzione che questi saperi non rappresentano soltanto parte essenziale della loro identità culturale, ma se collocati all’interno di circuiti virtuosi di valorizzazione e di scambio, possono diventare strumento strategico di sviluppo. Ma rimane aperta la problematica su come vivificare questo patrimonio affinché venga considerato un dono anche dalle prossime generazioni.
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L’ORBACE La Sardegna ha conservato, attraverso decine di secoli, un’industria tessile alimentata per la maggior parte dal paziente lavoro delle donne isolane, industria che ebbe notorietà regionale. L’orbace è un tessuto povero di lana grezza, ruvida e un po’ pungente, in cui ordito e trama sono composti interamente dalle lane lunghe e dure degli ovini di Sardegna (precisamente delle pecore), lavate ma non private completamente della lanolina per conservare una naturale impermeabilità all’acqua. Etimologicamente la parola orbace deriverebbe dal latino albasius (albagio), grossolano panno di lana, conosciuto in Sardegna con i termini: furési, foresi, forese, fresi, uresi, guresi, orbaci, obraci, arbace, ecc1. La ragione fondamentale di quello che è stato il suo successo si riscontra nelle sue qualità intrinseche: la conservazione massima del colore e l’impenetrabilità all’acqua, associate al vantaggio di consentire la traspirazione necessaria all’organismo2. Era, fino alla prima metà del XX secolo, il prodotto più importante dell’artigianato tessile tradizionale, in quanto utilizzato per confezionare molti degli indumenti del vestiario maschile e femminile. Una delle ragioni del considerevole persistente impiego dell’orbace di produzione locale nell’abbigliamento dei sardi sta principalmente nel fatto che in altri tempi, data la scarsità e la difficoltà dei mezzi di comunicazione e di trasporto tra l’isola e il continente, non era facile agli isolani acquistare dalle manifatture d’oltre mare le stoffe di cui avevano bisogno.
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Così trovarono più sicuro e conveniente provvedere a queste necessità col prodotto di una industria tessile locale. Non si possiedono fonti regolari cui attingere notizie o statistiche relative alla produzione, in quanto quest’ultima si trova dislocata un po’ dovunque. Operazioni tecniche subite dalla lana per divenire tessuto di orbace: Cardatura. Attraverso questa operazione vengono separati i fili di lana più lunghi e quindi di miglior qualità. Filatura. Il filato per l’ordito dell’orbace era speciale: attorcigliato una sola volta a sinistra, richiedeva molta abilità da parte della filatrice, che nella maggior parte dei casi era una professionista. La grossezza variava in funzione del tipo di tessitura che si voleva ottenere3. Tessitura. Grande abilità tecnica, raggiunta soltanto da una percentuale minima di tessitrici, era richiesta per la tessitura dell’orbace fino destinato ai capi di vestiario festivi. Per tesserlo (operazione effettuata su telaio orizzontale) venivano scelte le parti più pregiate della lana, presa dalle zone della spalle e dei fianchi della pecora. Il tessuto non è utilizzabile immediatamente dopo la tessitura, ma necessita di ulteriori trattamenti. Follatura. È l’operazione mediante la quale il tessuto è reso impermeabile all’acqua. Si tratta di un infeltrimento artificiale del tessuto (per questo viene anche detta feltratura), ottenuto mediante due metodi: il calpestio, metodo antico eseguito dalle ragazze; le “gualchiere”, impianti meccanici in cui rudimentali martelli di legno, mossi dalla forza idraulica dei torrenti, battevano ripetutamente il tessuto continuamente inumidito d’acqua calda insaponata, allo scopo di far compenetrare tra loro le fibre e ottenere un tessuto compatto4. Tintura. Era praticata non solo dalle tessitrici per uso personale, ma soprattutto da persone che la eseguivano per terzi. La lana nera (in realtà un grigio molto scuro) era preferita per l’orbace che sarebbe stato sottoposto a tintura per ottenere un nero
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lucido e brillante (ottenuto con il Daphne gnidium insieme al Campeggio). La lana bianca era indicata per tessuti da tingere in rosso (con la Rubia tinctorum e peregrina), giallo o marrone. Insieme all’orbace, nel bagno di colore, venivano immerse e sottoposte a tintura anche matasse di filato, simile a quello utilizzato per l’ordito, indispensabile per la cucitura degli indumenti confezionati con lo stesso tessuto; questo filo speciale era conosciuto come filo sau5. Gran parte dell’abbigliamento maschile era confezionato con l’orbace nero: - Sa berritta, un pesante cappello a forma di sacco che si lascia cadere sull’omero o dietro le spalle, o si ripiega sulla fronte come una lunga visiera; - Il gabbano, grande cappotto lungo fino al calcagno, con un’apertura posteriore per poter cavalcare; - La gabbanella, piccolo cappotto che si porta d’estate e d’inverno, in quanto dovrebbe proteggere tanto dal caldo quanto dal freddo; - Is ragas, gonnellino o talora calzoncino; - I borzachinos, alte uose o calzari, chiusi o aperti ed allacciati al polpaccio, difendono dall’umidità e della rudezza del monte o del bosco; - I pantaloni, in alcuni paesi; - Il saccu de coberri, (sacco per coprire), composto semplicemente di due tagli di stoffa, utilizzato per l’esistenza randagia del pastore: per ripararsi dal freddo, come stuoia, come coperta, tappeto, cappuccio, d’inverno e d’estate; - Sas bértulas, dal latino bertula, cioè bisaccia. L’orbace era meno presente nell’abbigliamento femminile, in cui era utilizzato soprattutto per il confezionamento dei corpetti e delle gonne nei costumi di alcuni paesi, nei colori rosso e marrone, meno cupi e più vivaci rispetto agli indumenti maschili. In orbace si confezionavano, inoltre, coperte, giacconi, maglioni e lenzuola, che proteggevano dal freddo, dalle intemperie e dall’umidità. I sistemi di produzione dell’orbace sardo hanno sempre conservato un carattere limitato di piccola industria locale. I mezzi di lavoro rustici, la mancanza di
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qualunque organizzazione commerciale e di un organismo coordinatore non consentirono al prodotto di poter passare a una sfera di più largo consumo.
Nella prima metà del secolo scorso, durante il regime fascista, si fece largo uso di questo tessuto tradizionale: la diminuzione della domanda - dovuta all’abbandono, da parte di molti sardi, del vecchio costume tradizionale - venne resa economicamente meno gravosa dalla diffusione del panno fuori dall’Isola, infatti la Federazione Fascista di Cagliari6 si era impegnata a collocarne l’intera produzione. Fu promossa, così, una vera e propria campagna dell’orbace, con positive ricadute per l’economia rurale dell’isola, che beneficiò di una consistente richiesta di tessuto (sino ad allora utilizzato esclusivamente in ambito rurale) con il quale furono confezionate le divise della milizia e delle organizzazioni giovanili del regime. Tuttavia dopo il secondo conflitto mondiale, lentamente ma inesorabilmente, la produzione del tessuto d’orbace è cessata quasi completamente. Rimangono solo alcuni coraggiosi imprenditori che scommettono su questo tessuto (testimone di un’antichissima tradizione regionale) creando un mercato di nicchia, nella speranza di un futuro legato alla produzione di esclusivi capi di alta moda proposti da stilisti isolani o ad alcune aziende isolane che propongono i loro prodotti fatti su misura o legati soprattutto al settore ippico.
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LA SETA ORGOLESE DI MARIA CORDA A Orgosolo, un centro del Nuorese, si tramanda da tempo immemore una tradizione antichissima, la bachicoltura7. Si tratta dell'unico paese in Sardegna, e probabilmente nell’Italia intera, in cui ancora si producono bozzoli di seta gialla e in cui l’intero ciclo di lavorazione della seta, dalla schiusa del seme bachi al capo finito. Solitamente, infatti, il processo si ferma all’ottenimento dei bozzoli, che vengono poi esportati e ritornano in Italia sotto forma di capi finiti. I primi bachi furono portati in paese dai gesuiti nel Settecento, ed è da questo momento che si data la coltivazione di un particolare tipo di gelso selvatico, la muriessa (che non produce le more), così come la tradizione dell’allevamento di una specie che si è selezionata nel tempo dando origine all’autoctono baco orgolese, del tipo a 3 mute, a bozzolo giallo, con certificazione dell’Istituto di bachicoltura di Padova, sezione dell’Università di Firenze8. Ad Orgosolo tale allevamento viene praticato ancora oggi probabilmente perché la seta che si ottiene, gialla e con notevole resistenza all’usura, non viene più prodotta dalla bachicoltura industriale e quindi ne è impossibile l’acquisto. Padre Antonio Bresciani, appartenente all’Ordine dei Gesuiti e fondatore di una comunità ad Oliena, scriveva: “I gesuiti, che avevan stanze in Oliena, visitaron quel popolo in sullo scorcio del secolo XVII, e colla santa parola li mansuefecero; ma cessati i Padri, tornò all’antica rustichezza. Lasciaron essi tuttavia di sé orma indelebile: poiché introdotti ad opera loro i gelsi e i bachi da seta in quella grossa terra le donne del villaggio vi tesson drappi finissimi e belli”9. Ad opera dei frati, dunque, le donne di Orgosolo appresero come allevare i bachi e coma lavorare la seta ottenuta, piegando la nuova conoscenza ai loro fini. L’allevamento dei bachi e la lavorazione della seta sono rimasti immutati, così come le tradizioni ad esso legate. Il baco da seta, chiamato in dialetto orgolese su erméddu, viene allevato al fine di ricavare il filato impiegato per la realizzazione del copricapo femminile del costume:
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su lióndzu. La benda, lunga circa 150-170 cm e larga 30 cm, è di seta grezza e rigida, di colore giallo intenso. La trama subisce un processo di tintura con lo zafferano (su tanfaránu), mentre l’ordito mantiene il colore naturale della seta orgolese. Il processo della produzione della seta è sicuramente una delle espressioni più alte dell’artigianato di Orgosolo, sicuramente quella più singolare e affascinante, prerogativa esclusivamente femminile, tramandata di generazione in generazione. Purtroppo quella che un tempo era un’attività comune a molte donne, è oggi appannaggio solo di una famiglia, che se la tramanda da più di 200 anni10. Fra le giovani, è rimasta solo una artigiana, Maria Corda, in grado di eseguire l’intero processo nel suo laboratorio, al centro del paese, “Tramas de seda” (Trame di seta), preservando in tal modo una tradizione arcaica che va dall’allevamento del baco alla tessitura dei costumi. Maria Corda cura tutto il ciclo vitale dell’allevamento: il seme bachi (su sèmmene) viene prodotto direttamente dalla bachicoltrice e conservato di anno in anno, dal mese di giugno fino all’aprile successivo, quando inizia la schiusa, a partire dalla quale per quaranta giorni terrà impegnate parecchie persone, spesso l’intero nucleo familiare. Quando, dopo circa quaranta giorni, il baco si costruisce il bozzolo, la bachicoltrice sceglie le crisalidi maschio (se il bozzolo ha forma allungata ed è cinturato nella zona mediana) e femmina (se il bozzolo è tondeggiante), che costituiranno le coppie da tenere per la riproduzione. Dei restanti bozzoli (attualmente circa 5.000) interrompe il ciclo vitale in una maniera molto pratica ed innovativa rispetto a chi l’ha preceduta: attraverso il processo di refrigerazione (li congela in un freezer) garantisce la morte delle crisalidi non implicando alcun impegno di tempo del bachicoltore. Seguiranno la trattura (tirare seda) e la raccolta in un aspo11 delle bave, il lavaggio da impurità residue, l’asciugatura. Le fasi successive richiedono la collaborazioni di altre donne del paese, che lavorano in sincronia: sei per l’orditura, per il corretto svolgimento dei fili e la conta attorno ai
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pioli, e quattro per la tessitura, che provvedono a caricare correttamente l’ordito sul telaio. Purtroppo le istituzioni regionali preposte non si curano di mantenere viva la memoria di elementi ormai così rari della nostra storia e della nostra cultura. Maria Corda porta avanti con tenacia questa tradizione di cui è rimasta l’unica depositaria. Al fine di mantenere viva la memoria e divulgare la conoscenza di questa attività ha allestito un museo dedicato; in realtà si tratta di una piccola sala del suo laboratorio, che tiene in vita con forze e fondi propri organizzando percorsi e laboratori soprattutto per bambini, per preservare quella che lei definisce, ormai, una maestria, più che un lavoro.
La Sig.ra Corda viene invitata in tutta Italia da circoli e associazioni che si interessano della sua attività e le offrono preziose opportunità di divulgazione. Inoltre, da alcuni anni, nel corso della rassegna Autunno in Barbagia12 è aperto un laboratorio in cui vengono illustrate ai visitatori le varie fasi dell'allevamento dei bachi e le operazioni di tessitura e colorazione della seta13. L’associazione Lions Club14 di Cagliari ha insignito Maria Corda del Premio Donna Sarda 2009 a riconoscimento del suo prezioso lavoro artigianale, che trova motivazione più nell’attaccamento alla tradizione e all’identità che a convenienze
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economiche. Infatti, come mi ha spiegato lei stessa, ormai la richiesta di bende di seta per l’abbigliamento festivo è quasi nulla: attualmente, l’ultima benda che Maria Corda ha confezionato a scopo di vendita risale a due anni fa; il motivo è da ricercarsi nel costo molto elevato dovuto alla scarsità della materia prima e alla complessità della sua lavorazione, un processo molto lungo e faticoso. Come tutti i processi produttivi, anche la sericoltura orgolese è stata fortemente condizionata nel corso del tempo dalle regole di mercato inerenti la domanda e l’offerta. Nel recente passato, quando l’abbigliamento popolare tradizionale femminile rappresentava il normale modo di vestire, gli allevamenti di bachi da seta erano numerosi, con una produzione di fibre seriche in grado di soddisfare la quasi totalità della domanda proveniente dal mercato locale che richiedeva bende in numero cospicuo. Il progressivo ridursi delle fasce di popolazione femminile che ancora vestono l’abito tradizionale (unitamente all’entrata nell’uso giornaliero di indumenti di produzione industriale) ha avuto come conseguenza il contrarsi della bachicoltura tradizionale.
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IL LINO DI BUSACHI Il lino veniva anticamente prodotto in moltissime località sarde: Samugheo, Villacidro, Teulada, Fonni, Martis, Desulo, Osilo, ma soprattutto Busachi, un antico centro agropastorale dell’oristanese, nella regione del Barigadu, in prossimità del Lago Omodeo. La coltivazione del lino, specie di pianta Dicotiledone della famiglia delle Linacee, risale in Europa ad almeno cinquemila anni fa. La specie più diffusa come pianta tessile ed olifera è il Linum utitatissimum, che è il tipo coltivato nei secoli scorsi anche in Sardegna15. I primi saggi di tele di lino operate, sfilate, ricamate a mano probabilmente risalgono alle introduzioni di suppellettili e arredi sacri degli ordini monastici venuti dalla Toscana e dall’Umbria 16. Busachi fu nell'isola, fino alla prima metà del Novecento, il principale centro di coltivazione e tessitura del lino e di commercializzazione dei prodotti tessuti. Il lino di Busachi veniva considerato il migliore per la qualità dei terreni paludosi e fertili dove veniva coltivato. Era noto già nell’Ottocento per l’ottima fattura delle sue tele, come dimostrano alcuni passi di differenti autori che visitarono l’Isola: Alberto della Marmora afferma che “il lino di Busachi passa per il migliore”17, e anche Vittorio Angius loda la grande reputazione dei lini di questo territorio, pur notando già nel 1836 una notevole diminuzione della produzione di tele ordinarie a causa della progressiva diffusione di quelle importate di produzione industriale. L’autore osserva che nel passato, quindi presumibilmente alla fine del Settecento o nei primissimi anni dell’Ottocento, questi tessuti erano oggetto di intenso commercio da parte dei venditori ambulanti di Gavoi e fornivano una buona fonte di profitto alle tessitrici 18. La tessitura delle tele, cui si dedicava la gran parte della popolazione femminile, fu quindi per moltissimo tempo un cardine dell’economia locale. Il paese del resto appartiene ad una zona, il Barigadu, zona della Sardegna centrale, fortemente conservativa come dimostra anche il perdurare dell’abbigliamento tradizionale19.
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Dai primi decenni del Novecento, si ebbe una larga diffusione del cotone dovuta alla sua facile reperibilità in commercio.
Ma nonostante la circolazione di tele estere in cotone, l’attività tessile di Busachi proseguì, sia pure in forma ridotta, sino agli anni Cinquanta del Novecento, soprattutto per i ceti meno abbienti, per i quali continuava ad essere più conveniente produrre i tessuti all’interno della famiglia. Piccole quantità di lino vennero coltivate sino alla fine degli anni Sessanta e inizio Settanta, mentre in molti paesi sardi tale attività cessò molto prima, come anche la vendita di tele che continuò grazie ai mercanti girovaghi o le stesse tessitrici che si recavano personalmente alle varie fiere paesane. Dagli anni Settanta in poi questa produzione è quasi totalmente scomparsa e ad oggi il mercato è praticamente nullo: ottenere un metro di lino è infatti un lavoro assai impegnativo e di conseguenza alquanto costoso - il prezzo della fibra prodotta artigianalmente a Busachi oscilla dai 150 ai 300 euro al metro - e ciò ha determinato la scomparsa di una produzione a livello commerciale. Una minima parte di produzione, tuttavia, ancora sopravvive a livello privato: alcune donne continuano a seminare il lino e tessere a tempo perso manufatti che rimangono all’interno del nucleo familiare, quindi senza nessun fine commerciale e soltanto con lo scopo di mantenere viva un’antica manualità.
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Fase di lavorazione del lino: La pianta si seminava in autunno e si raccoglieva in estate. Dopodiché iniziava la lavorazione vera e propria che contemplava: - l’estirpazione degli steli i quali, raccolti in mannelli (manneddi), venivano prima pestati con dei bastoni per togliere i semi - utilizzati nella semina successiva e nella preparazione di disparati medicamenti - poi immersi nell’acqua e lasciati a macerare; - dopo l’asciugatura, le fibre si battevano con un mazzuolo di legno (ciòla) per renderle morbide ed essere così sottoposte alla gramolatura (algatatura)20; le fibre, private di impurità e parti leggere, venivano trattate con scardassi di varia misura (spinazzu grossu, spinazzu muzanu, spinazzu fini) che separavano le fibre più pregiate (lu curizoni) da quelle di qualità media (rasciula) e dalla stoppa (stuppa); - la filatura avveniva tramite la canocchia (cannuga) e il fuso (fusu) ed era una pratica che richiedeva delle filatrici con un’elevatissima manualità, in quanto dovevano essere abili nel realizzare un filo dallo spessore omogeneo; - si procedeva quindi alla preparazione delle matasse e dei gomitoli - con procedimenti analoghi a quelli usati per la lana - e del rocchetto21; - seguiva la preparazione dell’ordito, che doveva essere più resistente in quanto base del tessuto, di conseguenza di adoperavano i fili di qualità superiore. Si eseguiva incrociando i lunghi fili di lino tra i pioli (sos pallònes) dell’orditoio22; - infine l’ordito veniva montato nel subbio23, dopodiché si effettuava il rimettaggio24 e a questo punto il lino poteva essere tessuto, o con semplice intreccio trama e ordito, oppure operato. Raramente si usava tingere il lino, che anche nei tessuti manteneva quindi il suo colore naturale; nella seconda metà dell’Ottocento arrivarono le tele di cotone bianco, che solo le famiglie benestanti e appartenenti a un certo rango potevano
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permettersi; così, per per rendere la fibra di lino più somigliante a quella di cotone si prese a sbiancarla facendola bollire nella lisciva (lissìa) in quanto le tele, confrontate con quelle di importazione, venivano considerate “difettose” proprio a causa della mancanza di candore. Nel secondo dopoguerra, con la svalutazione del cotone che era ormai utilizzato da chiunque, è avvenuta la conseguente riscoperta del lino e delle sue qualità intrinseche e si è abbandonata la tecnica della sbiancatura in favore di un mantenimento del colore originale.
Le tecniche di tessitura, insieme al tipo di fibre di lino utilizzate e il loro spessore, determinavano la qualità delle tele: - il panno da vendere (su pann’e endere), denominato anche panno da due o tre (pann’e duos o tres), era quello più grossolano, con la quale erano realizzati manufatti molto ordinari come strofinacci e grembiuli, sacchi per riporre il grano, materassi, cuscini, bisacce e le tele destinate alla vendita; - il panno da quattro (pann’e báttoro), utilizzato per lenzuola, tovagliati e asciugamani giornalieri;
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- il panno da cinque o sei (pann’e chimbe, sese), che erano le lavorazioni più fini utilizzate per confezionare il corredo e i costumi; - il cuore del lino (su koru de su linu), le fibre più morbide e più fini, adoperate per le camicie e la biancheria. In lino erano anche i tipici fazzoletti bianchi che tuttora molte anziane di Busachi portano sul capo; in segno di vedovanza venivano tinti di giallo con lo zafferano. La massima larghezza del lino, dovuta alle misure del telaio orizzontale, era di 70/75 centimetri, pertanto, al fine di realizzare le lenzuola, le varie pezze venivano cucite l’una con l’altra; questa cucitura di unione veniva infine mascherata attraverso il ricamo, eseguito a mano e con un filo da cucire finissimo anch’esso in lino.25 ! La grande industria tessile moderna ha ucciso la piccola industria rustica delle tele casalinghe - meno fini ma sicuramente di maggior durata - e in conseguenza si rischia con l’andare del tempo di perdere questa lavorazione artigianale di cui le ultime depositarie sono le anziane del paese. Il Museo del Costume e della Lavorazione del Lino è nato a Busachi, infatti, per valorizzare il ricco patrimonio di tradizioni e abilità femminili nel settore della lavorazione del lino, della tessitura e del confezionamento dei costumi tradizionali. È dato particolare risalto alla lavorazione del lino come ambito fondamentale della tradizione artigiana del paese, sia nella lavorazione, sia per le altre fasi che costituiscono il ciclo produttivo: coltivazione, raccolta, macerazione e filatura. L’esposizione dei costumi tradizionali e di alcuni manufatti di lino testimonia l'abilità delle donne busachesi che hanno fatto un'arte della loro manualità, custodendola gelosamente nel tempo e trasmettendola di generazione in generazione. E affinché questa non venga persa completamente il Museo è impegnato nell’organizzazione di progetti e laboratori dedicati ad adulti, ma soprattutto ai bambini, e finalizzati alla conoscenza e alla trasmissione di queste manualità artigianali.
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IL BISSO DI CHIARA VIGO Un filo di luce e oro La Pinna Nobilis26, madreperlacea dentro e ruvida fuori, nasconde una ghiandola setacea che secerne un muco costituito di cheratina, come i nostri capelli; questo, a contatto con l’esterno, si solidifica e produce un fiocco color marrone incrostato di conchigliette, alghe, piccoli coralli: è l’àncora del mollusco per assicurarsi al fondo. Grezzo e incolto in fondo al mare, portato in superficie si tramuta in bisso27 dalla rilucenza aurea28. Il bisso marino possiede proprietà ignifughe, non si deteriora, è resistente all’alcool, all’etere, agli acidi e agli alcali diluiti, quindi è impossibile dipingerlo: si può soltanto tingere il filo (per esempio in porpora) durante la lavorazione; non viene attaccato dagli insetti, ha un’ottima capacità di coibentazione, è più sottile di un capello ma di gran lunga più resistente. La luce che lo attraversa risponde alle leggi ottiche di rifrazione e riflessione: in un certo senso un tessuto di bisso ha una microstruttura analoga a quella delle matrici di cristalli liquidi. All’interno della sua fibra si può verificare il fenomeno della riflessione totale (effetto diapositiva). Il filato derivato è tra i più preziosi che si possano annoverare nel mondo tessile e l’isola di S. Antioco è l’ultimo luogo della Sardegna, del Mediterraneo, del mondo che ci regala ancora questo filamento marino29. La storia Il Bisso ha una storia che si perde nella notte dei tempi. La datazione e la localizzazione degli albori di questa antica manifattura è alquanto improbabile. Essa accompagna i primi passi delle primordiali civiltà, dagli antichissimi popoli del Medio Oriente a quelli del Mediterraneo, la cui vita era indissolubilmente vincolata al mare grazie al quale riuscirono a fondare fiorenti civiltà. I Cretesi, i commercianti Fenici, i raffinatissimi Caldei, tessitori e tintori, e gli Egizi furono i maggiori protagonisti della millenaria storia del bisso. Nel testo biblico ci sono ben 46 brani in
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cui si menziona in bisso: ne parla come tessuto del Re Salomone, della Regina Ecuba, così come pure Aristotele ne racconta… Queste popolazioni avevano scoperto che il filamento di un grande mollusco bivalve poteva diventare un prezioso e finissimo tessuto serico, con la quale realizzavano tessuti o ricami che andavano ad impreziosire le vesti di personaggi di alto rango in campo religioso , in campo politico e persino nello spettacolo (danzatrici, celebri etère): chi doveva rifulgere di luce doveva indossare il bisso. Il declino di una produzione così fiorente incominciò intorno al 500 d.C., quando a Costantinopoli, sotto Giustiniano, giunsero dalla Cina delle pianticelle di gelso e molte uova di baco da seta: in breve tempo la seta surclassò il bisso. Il bisso, già vincolato da una tecnica laboriosa, non poteva infatti competere con la costante e illimitata produzione dei bachi in allevamento. Andò così progressivamente a chiudersi e qualificarsi come specializzazione che poche famiglie si tramandavano per una manifattura artistica di pregio, contraddistinta da pezzi unici riservati per lo più ad onorare personaggi o eventi rilevanti. In Sardegna la lavorazione del bisso sarebbe stata introdotta e praticata su larga scala nelle colonie fenicie per sfruttare la grande abbondanza di conchiglie del mare sardo. Dopo i fenici furono probabilmente gli ebrei a proseguire la lavorazione dell’antico filato: la comunità ebraica proliferò in questa terra in seguito all’invio, nel 19 d.C., di 4000 liberti ebrei da Tiberio da Tiberio Nerone, per combattere i briganti sardi o forse per punirli dei disordini causati a Roma30.
L’intessitura tra storia e leggenda ci porta a Berenice, principessa ebrea sorella di Marco Giulio Agrippa, re vassallo della Palestina, la quale, non potendo seguire a Roma l’imperatore Tito della quale fu innamorata e ricambiata e non potendo tornare in patria, dovette finire in esilio a Solky, oggi Sant’Antioco, e accontentarsi di tessere il bisso cantando: fu lei a donare alle donne del luogo i segreti della seta del mare31. In tempi più vicini a noi, intorno al XIX-XX secolo, donne di Alghero, La Maddalena, Cagliari, Cabras, Bosa e S.Antioco filavano comunemente il «bisso
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serico di seta marina» per la confezione, oltre che di tele e di reti, di discrete quantità di guanti di lusso, scialli, cappelli e altri capi di vestiario, venduti nell’Isola o addirittura nel “Continente”32. Ci furono anche tentativi di sfruttamento industriale del tessuto marino (Giuseppe Basso-Arnoux costituì perfino la Bhissus Ichnusa Society con lo scopo di riportare nell’uso corrente il tessuto di bisso33), risultati però fallimentari. L’inesorabile decadimento della produzione di bisso (il quale, abbandonata la tessitura, fu usato solo per ricamare) vede perdurare come ultimo luogo di sopravvivenza e trasmissione di un antico sapere l’isola di S. Antioco. Italo Diana fonderà qui una scuola di tessitura del bisso negli anni Venti, nella quale le ragazze erano mandate per apprendere la tecnica, ma soprattutto per acquisire una sensibilità artistica. Tra queste dieci ragazze c’era Maria Maddalena Rosina Mereu, detta Leonilde, maestra e nonna di Chiara Vigo34. Il rito «Soltanto le sacerdotesse del mare conoscevano il rito necessario alla grande trasformazione. Erano state addestrate a fronteggiare le forze della natura per pescarlo, a padroneggiare le arti per lavorarlo con maestria e a resistere alle insidie degli uomini (quando erano in preda ai deliri dell’avidità) per conservarne il valore. Così avevano ricevuto, sotto giuramento, la formula segreta che rende questa fibra marina elastica e sensibile. Grazie al loro voto di iniziazione, le donne acqua potevano calarsi nell’abisso e portare al mondo il bisso. Tessendo e cantando»35. Il viaggio verso l’acquisizione della maestria contempla pratica, ritualità e spiritualità: Prevede un lungo percorso di iniziazione. L’apprendista sacerdotessa deve saper filare lana, cotone, canapa, juta, agave e due antichi tessuti ricavati dalla palma e dal fico d’india. Deve pregare ogni mattina all’alba e al tramonto regalando il suo canto alle onde perché lo diffondano nel mondo. Deve apprendere i segreti delle specie vegetali e animali per applicare 124 tecniche tintorie che non danneggiano l’ambiente. Deve conoscere tutti i canti che accompagnano i gesti del tessere e gli antichi disegni che fanno da campione ai tessuti.
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Prevede un giuramento: Ponente, Levante, Maestro e Grecale Prendete La mia anima e Buttatela nel fondale Che sia la Mia Vita Per Essere, Pregare e Tessere Per Ogni Gente Che da me và e da me viene Senza Tempo.Senza nome, Senza Colore, Senza Confini, Senza denaro In nome del Leone dell’Anima Mia e Dello Spirito Eterno Così Sarà36. Prevede un voto. Regalare la vita al bisso. Seguire una legge senza sgarrare mai. Il bisso non si può vendere né comprare in quanto non è assoggettato alle leggi del mercato. Si può soltanto ricevere e donare. Perché la bellezza della nostra arte, la bellezza della nostra natura, è già di per sé a tal punto immensa che non si può ridurre a mera merce di scambio. Chiara Vigo viene introdotta al “mistero del bisso” dalla nonna Leonilde, che comincia con lei un lavoro di iniziazione il quale le trasmetterà quell’enorme e profondo mondo di saperi e quell’intensa sensibilità intrisa di ritualità e spiritualità che inducono Chiara a intraprendere questo percorso, reso però arduo dalla marea consumistica che ha piegato le radici degli antichi mestieri, ha slegato le comunità dalla natura dei propri luoghi, ha prodotto l’alterazione totale dei propri bisogni37. La lavorazione Chiara Vigo, consapevole dell’importanza della salvaguardia di questo sapere millenario e perciò del suo principio, la Pinna Nobilis, intraprende un meticoloso studio dell’eco-sistema dell’Isola grazie al quale giunge a
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scoprire che in particolari periodi dell’anno il fango dei fondali diventa morbido permettendo l’estrazione non dannosa dell’animale, dal quale si taglierà il materiale fibroso. Così a fine Maggio, dopo aver pregato si immerge e, con le unghie o con l’ausilio di un bisturi subacqueo, taglia gli ultimi 5 cm dei 40 cm di bioccolo che ciascun esemplare adulto di Pinna Nobilis secerne. Un tempo il procedimento di raccolta prevedeva l’estrazione della pinna dal fondale e il prelevamento del ciuffo di filamenti intero in tutta la sua lunghezza, determinando pertanto la morte del grande bivalve: fu proprio l’eccessivo sfruttamento dei banchi di pinne la causa principale che portò alla progressiva scomparsa della materia prima e di conseguenza al declino di questa attività38. Attualmente occorrono circa 100 immersioni per cogliere 300 gr di fibra grezza; questa, dopo la cardatura (viene pettinata per essere depurata da frammenti di conchiglie e altri detriti marini) si riduce a 30 gr di bisso che, dopo la dissalatura, la sbiondatura con il succo di limone e la ritorsione con un fuso di ginepro, dà 12 metri di filo ritorto39. Avviene così che “l’oro del mare incontra i fili della terra”40.
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Chiara Vigo è sola. Sola in quanto, come già detto, unica custode della maestria, unica depositaria di una tradizione millenaria del tessuto marino. E sola nella lotta contro il tempo e contro la scomparsa di una specie così importante dalle acque dell’isola. Perché nonostante abbia condizionato il suo lavoro nel senso della salvaguardia, con i suoi studi, le sue ricerche e l’individuazione di un metodo di raccolta non invasivo, questa faticosa scoperta serve a poco se non si ripristinano le condizioni favorevoli nell’acqua dei bassi fondali: questo mollusco ha grandi difficoltà di sopravvivere in un ambiente non protetto, inquinato da allevamenti ittici in vasca che scaricano in acqua sostanze chimiche nocive, stravolto dalla pesca a strascico invasiva e distruttiva. Sono molteplici i suoi appelli di sollecitazione affinché queste pratiche siano dismesse, ma nonostante la Direttiva CITES 92/43/ CEE (Direttiva Habitat) dell'Unione Europea41 che, dichiarandola in via d’estinzione, ne prevede una protezione rigorosa e ne vieta la raccolta se non per scopi scientifici, non c’è nessun organismo che realmente ne verifichi l’effettiva osservanza.
Per una donna che ha donato la sua vita alla conoscenza e alla tutela della sua terra e del suo mare, sempre più stanca delle battaglie via via più ostiche, i bambini hanno rappresentato, rappresentano e rappresenteranno la speranza. In seguito alla conferenza del 2002 alle Scuole Leumann42 percepisce quanto sia importante la fatica intrapresa: la sua idea pressante di realizzare una scuola di tessitura della seta del mare a Sant’Antioco si rafforza grazie ai bambini, insieme alla consapevolezza che bisogna permettere loro di riappropriarsi di una sapienza più vera, la sapienza che sta dentro la stanza dei maestri. La scuola di Nuxis, “I colori dei sogni”, nasce con modeste finanze, sempre incerte, in una semplice abitazione adibita a laboratorio di tintura e tessitura43.
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Chiara Vigo dimostra poi di riprendere in mano il lavoro che gli è stato tramandato facendo conoscere le sue realizzazioni tessute in bisso. Gli uccelli con le ali spiegate, il cervo, le arpie, il leone alato, i pavoni che prendono vita nelle sue mani… È con questi piccoli pezzi molto preziosi che Chiara si fa conoscere nel mondo, attraverso numerosi congressi e vetrine internazionali, prestigiosi riconoscimenti, documenti, servizi e interviste pubblicate da trasmissioni televisive e riviste nazionali e (soprattutto!) internazionali. Le sue opere l’arte44 sono custodite e fruibili, infine, nel Museo del Bisso, a Sant’Antioco, in cui il fare e il tramandare, il tessere e l’essere si incrociano di continuo attorno al Maestro che anima quelle stanze, con gesti e abitudini dal ritmo lento delle cose antiche. Un museo per la cui visita non si paga il biglietto, perché “In questa stanza non si vende niente” e “Il bisso è di tutti”, come recitano dei cartelli. Infatti per conoscere, apprezzare e amare bisogna entrare nel mondo magico della Bottega dove l’arte vive senza la paura di essere venduta e dove l’incontro con chi la ama e la difende può diventare un suggestivo momento di conoscenza, della natura e di noi stessi45. Quella di Chiara Vigo è, dunque, una lotta affinché questo filato preziosissimo e la sua lavorazione siano preservati, custoditi e tramandati a connotare un territorio di senso altissimo di sensibilità del bello, di preziosità della natura. Una lotta per trasmettere non solo il valore della salvaguardia del tessuto marino, ma di come si debba recuperare prima di tutto noi stessi. Ma oggi educare a queste sensibilità, proprio nel nostro territorio e specialmente in ambienti istituzionali, quelli che decidono l’utilizzo del territorio e delle risorse, è quasi un’utopia. La degenerazione del moderno vivere socio-istituzionale mentre cancella i maestri come vivo serbatoio di valori, vede sempre più le antiche arti relegate a semplici vetrine museali, a contenitori vuoti. A chi lasciare l’eredità del bisso? Io dico a noi stessi. Noi dobbiamo creare le condizioni per cui essa possa continuare a vivere ed essere tramandata nelle mani giuste, incentivata, protetta, stimolata, correttamente fruita.
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IL SUBERIS DI ANNA GRINDI Il Suberis è un "tessuto non tessuto", creazione, al 100% naturale, composto da un foglio di sughero, dello spessore di qualche frazione di millimetro, incollato su supporti naturali, come cotone, seta, canapa, pelle ed altro ancora. La materia prima Il sughero è un prodotto naturale che si ricava dall’estrazione della corteccia della Quercus suber L, la quercia da sughero. Questa pianta è una sempreverde, longeva, che cresce nelle regioni del Mediterraneo, in Italia, principalmente in Sardegna (90%), in Portogallo, Spagna, Francia, Marocco e Algeria. Alto fino a 20 metri, può vivere fino a tre secoli. Il tronco può raggiungere un diametro di un metro e mezzo e le radici possono scendere a profondità insospettabili, consentendogli di adattarsi alla siccità. Ha una grande capacità di rigenerarsi: durante il ciclo di vita della pianta, la corteccia si rigenera circa 16 volte. Il sughero possiede caratteristiche uniche, difficilmente riproducibili artificialmente: è molto leggero, elastico, comprimibile, resistente alle abrasioni e impermeabile a liquidi e gas; ha inoltre proprietà ignifughe ed eccellenti proprietà isolanti, acustiche e termiche, perché le cellule del tessuto sugheroso sono piene d’aria e quindi scarsamente permeabili. Il sughero è un prodotto al 100% naturale, riciclabile e riutilizzabile, che lo rende un materiale ecosostenibile46. La nascita del Suberis. Dalla terra all’impresa. Da fantasia a realtà. Suberis non nasce né in un laboratorio, né nel centro ricerche di qualche grande azienda, ma in una cucina, ed è il frutto di un’intelligenza e un’intuizione tutta femminile, quella di Anna Grindi.
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Fin da giovanissima Anna Grindi si dedica alla sartoria con una passione talmente forte da non voler andare più a scuola, e a 18 anni possiede già il suo primo atelier di abiti da sposa a Tempio Pausania. É proprio il contatto con l’alta moda e con l’ampia gamma di tessuti, spesso sintetici o mal tollerati, utilizzati e toccati con mano nell’atelier, che spinge Anna Grindi a fantasticare su una possibile “intrusione” del sughero nell’universo del tessuto47. Così iniziò una lunga serie di esperimenti, effettuati di notte stendendo un foglio di sughero, poco duttile e malleabile, sul tavolo della cucina, che divenne il suo laboratorio. “Come una maga d'altri tempi lo cospargevo di intrugli nel tentativo di trasformare in tessuto quel materiale nel quale credevo. Dopo tantissime prove notturne, mortificate da altrettanti insuccessi verificati il mattino dopo, un bellissimo giorno del 1997 sono riuscita nel mio intento. Avevo tra le mani un tessuto di sughero morbido”48. Da qui la lunga trafila passata per le Camere di Commercio sino alla soglia del Ministero dell’Industria, dove, grazie all’aiuto di un ingegnere italiano, le venne riconosciuto il brevetto. La Grindi sottolinea che la sua scoperta costringerà Spagna e Portogallo, i più forti produttori di sughero, a pagare una royalty se vorranno emularla49. La fibra ottenuta dal sughero fu denominata Suberis, dal nome latino della pianta da sughero. Nel febbraio 1999 Anna si recò al Modit (uno degli appuntamenti più attesi per il settore dell’abbigliamento) portando con sé qualche metro del suo tessuto color champagne. Quando lo mostrò su un successo immediato: questo magico tessuto ammaliò i nomi più importanti della moda. La stessa Grindi ricorda: “Guardavano la stoffa, poi me, poi di nuovo la stoffa, poi la stringevano tra le mani e dicevano «Signora forse lei non si rende conto di cosa ci sta proponendo. Questo tessuto è una bomba!»” Qualche mese più tardi, nel luglio 1999, presso il Country Club di Porto Rotondo, andò in scena la finale dell’Elite Model Look (il più importante concorso per modelle al mondo), in cui sfilarono in passerella i primi abiti in sughero: eleganti vestiti da sera, raffinata lingerie, costumi da bagno e scialli. Fu in questa occasione che il Suberis venne a conoscenza di russi, giapponesi, americani, con la quale tutt’oggi l’azienda regolarmente mantiene i più proficui rapporti commerciali.
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Nel 2006 nasce la Boutique Suberis in Costa Smeralda, che ha consacrato il successo dell’abbigliamento in sughero: i modelli della linea Suberis proposti sono esclusivamente disegnati da lei e la figlia, i loro capi non si rifanno ai modelli degli abiti tradizionali tipici sardi, ma neanche a qualche stilista noto50. Dalla quercia alla sottoveste. Produzione e creatività del Suberis. La stilista con i suoi brevetti ha conferito al Suberis caratteristiche uniche, certificate dai principali centri di ricerca europei: è una fibra 100% naturale ed è un prodotto ecosostenibile, in cui non si abbattono alberi, ma semplicemente vengono decorticate le sugherette; è antiallergico, antibatterico, antigraffio, antimacchia, traspirante, ecologico, elastico, impermeabile, inalterabile, lavabile (in lavatrice a 30°), leggero, morbido, non infiammabile, resistente ad abrasioni e strappi, termoisolante, isolante acustico, resistente all’acqua di mare.
Prima della scoperta della stilista tempiese l’unico prodotto industriale ottenuto del sughero, al di fuori della produzione artigianale, erano i tappi in sughero. Dopo il successo di Suberis, Grindi si fece creare delle macchine industriali apposite per la
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creazione di diversi tipi di spessori: da quello più grosso per oggetti come borse, valigie ed arredamento, che richiedono robustezza, a quello più fine utilizzato anche nella lingerie. L’azienda, situata nel cuore della Gallura, a Calangianus, ha una capacità di produzione annua di circa 300.000 metri di tessuto dell’altezza di 1,40 m, per far fronte all’ingente domanda che copre diversi ambiti merceologici: - abbigliamento maschile e femminile; - arredamento: rivestimenti di sedie, poltrone, divani, tendaggi, tovaglie, lampade ecc.; - accessori-moda: cinture, ombrelli, guanti, cappelli, borse, pelletteria in genere; - calzature: scarpe e stivali; - settore automobilistico, per i rivestimenti interni e la selleria, e nautico, per interni ed esterni51. L’azienda non produce solo il tessuto, poiché grazie a un ulteriore brevetto si è arrivati perfino alla produzione del filato di sughero che va dallo spessore di 3 a quello di 6 mm, soluzione eccellente per ogni tipo di produzione di capi di vestiario, dalla lavorazione industriale a quella a mano, e ormai utilizzato anche nella produzione di tappeti (il filato di sughero come trama e il cotone sardo come ordito). La stilista Anna Grindi crea i propri vestiti utilizzando prodotti 100% naturali (il loro utilizzo varia in relazione al tipo di prodotto da realizzare) e neanche gli scarti di lavorazione risultano inquinanti. Dopo la scelta del supporto naturale (cotone, lana, seta, lino, canapa, pelle) o sintetico (viscosa, acetato), viene preso un foglio di sughero dello spessore di qualche frazione di millimetro e fissato al supporto. Anna Grindi è riuscita a creare un tessuto così camaleontico e versatile che a seconda della consistenza scelta può trasformarsi in qualsiasi tipo di tessuto con caratteristiche pari o superiori alle altre materie utilizzate; un tessuto da sogno
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rinominato the new skin o the vegetable skin per via della sua peculiare caratteristica che lo porta ad avere le stesse applicazioni della pelle. Accanto agli interessi commerciali, Anna Grindi ha riservato una particolare attenzione anche alla ricerca, portando avanti un progetto di riforestazione delle sugherette, attraverso un’accorta indagine della qualità del terreno. Difatti, come denunciano anche la FAO e il WWF, nei prossimi dieci/venti anni si fa sempre più consistente il rischio che il 75% delle querce da sughero dell’area mediterranea (Sardegna, Francia, Spagna, Tunisia, Algeria e Marocco) possano sparire a causa dell’innalzamento delle temperature e della diminuzione dell’utilizzo del tappo di sughero nell’enologia; di conseguenza si andrebbe incontro a una perdita pari a 2,7 milioni di ettari. “La creazione di un tessuto come il Suberis può essere la molla per il rilancio di questo settore, che sembrava lanciato verso la decadenza” dicono gli esperti della FAO. É per contribuire all’equilibrio ambientale e stimolare l’aumento programmato di superficie boschiva di quercia da sughero (sino al 30% della copertura totale del territorio), secondo i criteri più consoni, che Anna Grindi lancerà al più presto la sua Fondazione per il sughero52.
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____________________________________________________________________ 1 CASU
NOTE P., Vocabolario Sardo Logudorese - Italiano, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2002, p. 529.
2 VINELLI
M., L’orbace di Sardegna, in Le vie d’Italia, a. XLI, n. 5, Milano, 1935, p. 57. La filatura è l’operazione che conferisce al tessuto la sua grande resistenza. L’operazione della filatura è semplicissima: la donna regge la rocca nella mano sinistra e, inumidite le dita nella destra con la saliva, ne tira un filo e lo torce. Infatti, per aumentare la salivazione, soprattutto nei mesi
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invernali, si masticavano continuamente fave abbrustolite nella brace. Le gualchiere, in sardo calcheras, erano diffuse in tutta la Sardegna lungo i corsi d’acqua dotati di discreta portata; particolarmente famose per la qualità del trattamento dell’orbace erano quelle di Osilo, Siligo, Santo Lussurgio, Tiana, Gavoi, Fonni, Cuglieri, Tresnuraghes, Sennariolo e Bonarcado. 4
La presenza di gualchiere era attestata in Sardegna già dal XVI secolo: erano infatti presenti numerosi chiostri dei cappuccini i quali, al fine di procurarsi il panno necessario per il vestiario, seguivano le varie fasi di lavorazione della lana. L’ultimo esemplare (non più funzionante) ancora esistente in Sardegna è quello di Tiana, in provincia di Nuoro, testimonianza di archeologia industriale. 5
PIQUEREDDU P. (a cura di), Tessuti. Tradizione e innovazione della tessitura in Sardegna, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2006 p. 82. 6 La Federazione dei Fasci di combattimento di Cagliari fu istituita il 18 settembre 1922. Cfr L. Marrocu, Il ventennio fascista. 1923-43, in La Sardegna, a cura di L. Berlinguer e MATTONE ALBERTO, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità ad oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1998. 7 Per una trattazione più ampia riguardo l’introduzione e lo sviluppo della coltura del gelso e dell’allevamento dei bachi da seta sardescha in Sardegna si rimanda a PIQUEREDDU P. (a cura di), Tessuti. Tradizione e innovazione della tessitura in Sardegna, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2006, pp. 90-96 8
CRA - Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura, Unità di ricerca di apicoltura e bachicoltura. www.cra-api.it 9 BRESCIANI A., Dei costumi dell’isola di Sardegna - Comparati cogli antichissimi popoli orientali, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2001, p. 344 10 Comunicazione orale: Maria Corda, Orgosolo, settembre 2013. 11
Nella filatura domestica, utensile non dissimile dall’arcolaio (dal quale si distingue per avere l’asse di rotazione orizzontale) che serve ad avvolgere un filo formandone una matassa. Cfr Enciclopedia Italiana Treccani. 12 Organizzata dall’Azienda speciale della Camera di Commercio di Nuoro (Aspen) con il supporto dell’Assessorato Regionale del Turismo, Artigianato e Commercio, “Autunno in Barbagia” è la manifestazione che permette a sardi e turisti di immergersi nel cuore della cultura della Sardegna dell'interno, di scoprire profumi, sapori, tradizioni, artigianato e arte che, vengono custoditi gelosamente da secoli e secoli dai paesi della Barbagia e che richiamano ogni anno migliaia e migliaia di visitatori. www.sardegnaturismo.it 13 É un opportunità unica in quanto solo in queste occasioni è possibile vedere l’artista all’opera. La materia prima è talmente preziosa e scarseggiante che, per evitare il suo spreco, Maria Corsa la tesse solo in questa determinata occasione. 14 Il Lions Clubs International è un'associazione umanitaria fondata nel 1917. Lo scopo dell'associazione è quello di permettere ai volontari di servire la propria comunità, di soddisfare i
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bisogni umanitari e di favorire la pace e promuovere la comprensione internazionale attraverso i club. www.lionsclubs.org 15 DEGIOANNIS L., La tessitura tradizionale in Sardegna. Lavorazione, tecniche e motivi a Busachi, Mogoro, Morgongiori, Isili e Tonara, S’Alvure, Oristano, 1993. 16 Per citare i più remoti: - I Benedettini Camaldolesi che presso Ploaghe fondarono il monastero di Saccargia, uno dei più celebri dell’ordine. - I Benedettini di Vallombrosa il cui monastero, la chiesa di S. Michele di Salvenero, fu creato nel 1139. Degna di nota anche la chiesa di S. Maria del Regno di Ardara, del secolo XI. cfr IMERONI A., Piccole industrie sarde, Ente Nazionale per le Piccole Industrie, Roma, 1928 MARMORA A., Viaggio in Sardegna, Cagliari 1926-27, p. 330 18 «La gran riputazione dei lini di questo territorio, ha fatto che gli agricoltori abbiano usata qualche diligenza verso i medesimi. Il raccolto ascende annualmente a circa 500 cantara. Molto se ne adopera nel paese, dove non vi sono meno di 400 telai; ma per l’addietro se ne adoperava assai più, chè era 17 DELLA
allora un gran traffico di tele ordinarie, che si compravano da’ Gavoesi per rivenderle in altri paesi. Dopo che le tele dell’estero di sono potute comperare a eguale, o a prezzo minore, cessò questo profitto per le famiglie di Busachi, nelle quali ora non si lavora che quello solo che sia necessario ai propri bisogni. Si tessono presentemente come nel passato delle tele di molta finezza, che sosterrebbero il paragone con le estere, se si potesse presentarle egualmente bianche», cfr V. Angius, s.v. Busachi, vol. II, 1834, p.737 in CASALIS G., Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-56, riedito a cura di CARTA L., Città e villaggi della Sardegna e dell’Ottocento, Nuoro, 2006, voll.3 19
A Busachi circa 60 persone, prevalentemente donne e uomini anziani, indossano tuttora, quotidianamente, il costume tradizionale, mantenendo sempre viva il rapporto dei giovani con esso. Infatti tuttora alle bambine viene confezionato il primo costume alla nascita, poi, crescendo o lo ricostruiscono o indossano quello delle nonne 20 Le fibre venivano frantumate con una macchina rudimentale, la gràmola, in modo da selezionare le fibre più grosse da quelle più sottili eliminando la scorza. «Per preparare i rocchetti di lino da inserire nella spola - differente da quella usata nella lana - si usava la bobinatrice, attrezzo costituito da una vaschetta in legno dove si mettevano i rocchetti, e da un’asticella in ferro, sorretta da due supporti, in cui era inserita una rotella sempre di ferro. 21
Il rocchetto da riempire, ricavato da un pezzo di canna tagliato fra due nodi, si preparava in questo modo: gli si annodava attorno il filo e lo si inseriva nell’asticella, mentre il gomitolo si poneva nella vaschetta; a questo punto si faceva girare l’asticella, per mezzo della rotella, ed il rocchetto veniva riempito» in Degioannis L., La tessitura tradizionale in Sardegna. Lavorazione, tecniche e motivi a Busachi Mogoro, Morgongiori, Isili e Tonara, S'Alvure, 1993. 22 Una curiosa caratteristica delle case di Busachi sono infatti i fori nei muri esterni, nella quale un tempo erano fissati i pioli dell’orditoio. 23 Cilindro di metallo o di legno, componente del telaio. 24 Operazione con la quale i fili dell'ordito vengono passati, mediante un apposito attrezzo, nelle maglie dei licci. Comunicazione orale: Fadda Giovanna Maria, curatrice e guida del Museo del Costume e della Tradizione del Lino di Busachi, 24 novembre 2013.
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26 Nella
penisola italiana la pinna è indicata con diversi nomi: nacchera, nacara, nachera, gnacchera,
gnaccara. In Sardegna le pinne sono conosciute sotto le denominazioni di náccara, náccarra, macigonis, gnácchera, gnácchera, gnáccara. Cfr. PORRU V., Nou Dizionariu universali sarduitalianu, Cagliari, 1832. 27 Il bisso marino viene indicato anche con i termini lana marina, lana pinna, lana penna, lana pesce, lana dorata, gnacara, barba byssina e seta di mare, mentre in Sardegna con i termini pilu ‘e naccara, pilu de naccara, pilu de niaccára, cabeèl de gnácchera, bisso. 28 Il colore dorato è caratteristico soltanto di alcune pinne, probabilmente le più vecchie. Cfr. G. BASSO-ARNOUX, Sulla pesca e sull’utilizzazione della pinna nobilis e del relativo bisso, Roma, 1916, p. 3. Cfr. LAVAZZA S., Dal buio alla luce. Il bisso marino e Chiara Vigo, Cartabianca Publishing, 2012, pp. 8,9,10,11 - 26. 30 Ivi p. 22. 31 Ivi pp. 20, 21. 29
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Cfr. PIQUEREDDU P. (a cura di), Tessuti. Tradizione e innovazione della tessitura in Sardegna, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2006, p. 99 33 Cfr. La Nuova Sardegna, Sassari, 11-12 marzo 1908. 34 Cfr. PIQUEREDDU P., p. 101. 35 LAVAZZA
S., p. 9 a Chiara Vigo, Regione autonoma della Sardegna, Karel Space S.p.a., 2008. 37 Cfr. LAVAZZA S., pp. 28. 29. 38 Cfr. PINNA M., La lavorazione del bisso. Il tramonto di un’industria sarda, in L’Unione Sarda,
36 Intervista
Cagliari, 19 ottobre 1930. a Chiara Vigo, Regione autonoma della Sardegna, Karel Space S.p.a., 2008 40 Titolo dell’intervento del maestro di bisso Chiara Vigo al ciclo di conferenze dal titolo: Il filo tra le dita: la tessitura tra archeologia e mondo femminile, tenutesi il 14 aprile 2012 al Museo Archeologico dell’Alto Vicentino, Santorso (VI). 39 Intervista
41 Direttiva
92/43/CEE del Consiglio del 21.05.1992 relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, Gazzetta Ufficiale, n. L. 2006 del 27.07.1992 42 Il Villaggio Leumann rientra nel progetto sulla Cultura Materiale e fa parte della rete ecomuseale della Provincia di Torino. Si tratta di un raro esempio, con Crespi d'Adda e Schio, nel nostro paese di Villaggio Operaio che si sia conservato integralmente. L’Ecomuseo copre tutta l’area del Villaggio e viene posta al centro dell’interesse la vita che qui si viveva: il lavoro, la famiglia, la scuola, la religione, il tempo libero, le relazioni sociali e la sua evoluzione nel tempo. L’Associazione Amici della Scuola Leumann è un’associazione non profit sorta nel, le cui finalità istituzionali sono valorizzare il Villaggio Leumann come documento di un periodo storico rilevante, come luogo della memoria, e organizzare attività culturali, sociali e ricreative. 43 Intervista a Chiara Vigo, Comune di Sant’Antioco, gennaio 2009. 44 Per l’elenco completo si rimanda a LAVAZZA S., Dal buio alla luce. Il bisso marino e Chiara Vigo, Cartabianca Publishing, 2012, pp. 43, 44, 45, 46, 47. 45
Documentario La magia del bisso. Chiara Vigo. Incontro con l’ultima tessitrice di bisso, 2009 realizzato da www.memoteca.it 46 Le piante non vengono abbattute ma la loro scorza viene raccolta incidendo con un’accetta speciale la corteccia in corrispondenza della prima biforcazione dei rami e aprendola fino al piede con un
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taglio longitudinale. Perché la quercia cominci a produrre sughero occorrono 20/25 anni: il tronco deve misurare almeno 1,3 metri di altezza e raggiungere una circonferenza di 70 cm. Da quel momento, il sughero può essere raccolto dall’albero per circa 150 anni, con un intervallo minimo 9 anni. La decorticazione della quercia da sughero è un processo antico che può e deve essere eseguito solo da specialisti, poiché sono necessarie abilità manuali ed esperienza per non danneggiare l‟albero. Esistono tre qualità di sughero: - sughero maschio o demaschiatura o sughero vergine, è il prodotto della prima decortica, ha una qualità insufficiente per produrre tappi, ed è perciò utilizzato per applicazioni diverse; - sughero secondario, il prodotto della seconda decortica, produce ancora un materiale di scarsa qualità; - amadia o sughero di riproduzione, è il sughero con le migliori proprietà ottenuto solo dopo la terza decortica, adatto alla produzione di sugheri di qualità, grazie a una struttura regolare con un interno ed un esterno liscio. Da questo momento in poi la quercia da sughero offrirà una buona qualità per circa un secolo e mezzo, permettendo, in media dalle 15 alle 16 decorticazioni. In seguito all’estrazione le plance vengono portate a stagionare per almeno 1 anno in ampi spazi presso le fabbriche. La stagionatura avviene con le plance che vengono messe le une sulle altre in posizione orizzontale, in modo che il peso le faccia perdere la curvatura determinata dal fatto che avvolgevano il tronco di una pianta. Dopo la stagionatura, le plance vengono fatte bollire a una temperatura di 120 gradi, pronte per essere trasformate con le lavorazioni successive. Con l’operazione di bollitura lo spessore del sughero tende ad aumentare, migliora l’appiattimento delle plance, il sughero si ammorbidisce, viene disinfestato da eventuali parassiti, e viene estratta la parte delle sostanze idrosolubili, come i tannini. Le successive fasi della lavorazione vengono eseguite con macchinari molto sofisticati tramite i quali il prodotto può essere lavorato in svariati modi che ne esaltano la duttilità. Ogni settore di applicazione del sughero utilizza le proprie apposite macchine che ne permettono la lavorazione. I settori di riferimento sono: Settore edilizio: le sue proprietà isolanti (termiche e acustiche) ne fanno un ottimo supporto per isolare gli ambienti da rumori, caldo, freddo, etc… Settore enologico: la produzione di tappi per bottiglie (turaccioli) è forse tra le più rinomate e conosciute applicazioni del sughero, sono miliardi le bottiglie che annualmente vengono tappate con questo materiale. Settore artistico: il sughero è utilizzato per produrre soprammobili, oggettistica e prodotti artigianali che rimandano molto spesso a antiche tradizioni riprodotte in modo caratteristico grazie alle sue proprietà. Settore calzaturiero: il sughero è molto utilizzato in questo settore, oltre che per le sue particolarità estetiche nel campo della moda, per le sue proprietà impermeabili e di alta resistenza al caldo e alle sollecitazioni, nonché per la leggerezza dei prodotti realizzati. Settore abbigliamento: l´utilizzo del sughero in questo settore risponde sia a esigenze di trend sia a esigenze di comfort, infatti il sughero, in seguito a determinati trattamenti, assume le parvenze di un normalissimo tessuto che viene sempre piú spesso utilizzato per la creazione di capi di alta moda, abiti da sposa, ecc. 47 Il sughero, che a Tempio circonda ogni cosa, era infatti entrato concretamente nella sua vita grazie al matrimonio con Tonino Giua Marini, con la quale iniziò il suo viaggio nella dinastia dei sugherieri.
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48 Comunicazione 49 M.
orale di Anna Grindi, ideatrice del Suberis.
Giovannelli, Anna Grindi e il Suberis, in Gazzetta di Porto Rotondo, 10 agosto 1999, p.16. Ivi p. 17. 51 www.suberis.it 52 Comunicazione orale di Anna Grindi, 25 novembre 2013. 50
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LA TRADIZIONE DELLA TESSITURA IN SARDEGNA La tessitura è tra le più antiche forme di lavoro domestico femminile. La struttura familiare funzionava all’interno della società come un’unità economica tesa alla produzione dei beni indispensabili per la sussistenza. Pertanto, nel sistema socioeconomico, la tessitura metteva in rapporto reciproco i pastori, che fornivano la lana, e i contadini, che fornivano lino, con le artigiane che, una volta lavorate le materie prime, le restituivano alla comunità sotto forma di manufatti. Parlando di tessitura sarda, possiamo agevolmente elencare dei punti fermi: Quest’arte “povera” fece parte nei secoli del bagaglio di attività e di conoscenze di ogni famiglia: la conoscenza della tecnica di tessitura era una delle numerose competenze delle donne sarde. Se la padronanza di questa tecnica era comune alla quasi totalità delle donne, diversificate secondo la condizione sociale ed economica della tessitrice erano la destinazione dei loro manufatti e le modalità della lavorazione: da una parte le donne benestanti, che spesso possedevano più di un telaio, distribuivano il lavoro tra le domestiche e potevano, volendo, non tessere o dedicarsi solo ai lavori più gratificanti come la confezione del corredo più fine; dall’altra, le donne costrette a tessere per necessità tutti i tessuti destinati alla famiglia, anche perché la mancanza di denaro liquido ne avrebbe reso impossibile l’acquisto, e a produrne un certo numero destinato alla vendita. Le donne veramente povere non possedevano neppure il telaio: in questi casi la comunità veniva loro in aiuto, mediante il prestito dello strumento di lavoro che poteva essere smontato e ceduto per il periodo necessario, oppure restare nella casa della proprietaria, ma a disposizione della donna che ne aveva bisogno1.
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Un secondo aspetto che risulta fondamentale, per comprendere il carattere proprio delle arti tradizionali e la realtà tessile in particolare, è la situazione di relativo isolamento della Sardegna, che da un lato determinò la forte caratterizzazione delle espressioni della produzione artigianale, ma nel contempo non fu tale da impedire influenze ed acquisizioni da altri contesti derivati da popoli lontani, comunque sempre filtrate dal sapere e dal gusto locale. Dai fenici, certamente, l’antico popolo sardo ha tratto il gusto dell’arte tessile che col tempo è andato perfezionandosi, tanto che, specie nel campo dei costumi, si ha una varietà di stili che non trova l’uguale in nessun altro popolo. Fenici, Cartaginesi, Romani, Bizantini, Vandali, Saraceni, Pisani, Genovesi, Aragonesi, Spagnoli, Piemontesi, Austriaci2 hanno lasciato infatti nell’isola testimonianze di influenze culturali che col tempo sono state assimilate dalla cultura popolare, la quale è riuscita a interpretare a proprio modo la cultura di importazione. Qui va cercata la fonte dell’incredibile varietà delle mustras (cioè l’elemento decorativo centrale) e degli ornati di tappeti, coperte, arazzi. La terza certezza è che «quando si parla, a proposito dell’artigianato artistico, di arte popolare, non si sbaglia il concetto: arte in quanto carica di quella forza creativa propria dell’invenzione artistica in senso stretto; popolare perché, sebbene dietro ognuno di questi oggetti vi siano la mano, il gusto, l’intelligenza e l’esperienza di un singolo “produttore”, l’oggetto artigiano pare appartenere a un’intera comunità, se non proprio ad un intero popolo. Non per niente l’espressione artigiano sardo suona fortemente vera: la “sardità” dell’oggetto artigiano è un suo stigma di riconoscimento, una sua carta d’identità immediatamente percepibile, che viene prima dello stesso marchio di qualità che lo accompagna»3.
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La tecnica Appare indispensabile un cenno alla tecnica4 vera e propria della tessitura, dato che diversi modi di tessere influiscono sia sul tipo di lavorazione che sui colori usati. Lo strumento base per il lavoro è il telaio5, usato per ogni tipo di tessuto, compresi gli arazzi e i tappeti. I telai più diffusi sono del tipo: - orizzontale, diffuso in quasi tutta l’Isola; - verticale, presente solo in alcuni paesi della Barbagia (Tonara, Sarule, Nule); - dagli anni Settanta circa, si può parlare anche di un terzo tipo, quello obliquo o traverso, che però non è altro che un telaio verticale inclinato per meglio facilitare l’uso dello strumento e rendere più resistente l’elaborato. È utilizzato per i tappeti annodati o a fiocco e lo si trova in due soli paesi: Dorgali, Zeddiani6.
Interessante è la diversità dei prodotti che si hanno a seconda del telaio usato: - nei manufatti eseguiti al telaio verticale la decorazione si riduce a forme geometriche, essenziale, probabilmente perché la stessa forma e posizione del telaio non rende agevole l’esecuzione di forme articolate, minute e complesse. Questa geometrizzazione (e quindi il fatto che non sono presenti immagini dal significato
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immediato come, ad esempio, la pavoncella, i fiori, gli animali, etc.) facilita la tendenza ad attribuire un significato simbolico; - la tessitura al telaio orizzontale presenta invece un’ornamentazione che, pur nella sua stilizzazione e simbolizzazione, mostra un preciso riferimento a elementi figurativi e contrappone all’ampio respiro dei tessuti eseguiti al telaio verticale una sorta di horror vacui che dà luogo a superfici fittamente decorate7. Le tecniche usate per la creazione dei manufatti sono: - la tecnica a lìttus (trama in lino) o a briàli (trama in lana), eseguita con il telaio orizzontale e destinata ai manufatti di uso quotidiano: bisacce, copritavolo, copricassa, coperte per tutti i giorni; era anche la tecnica usata per tessere le tele; - la tecnica detta secondo le zone a bàgas (a salti), a laùru o a punt’ e agu (punto di ago) , eseguita con telaio orizzontale, contraddistingue i manufatti cerimoniali; è infatti quella che permette di ottenere i risultati più ricchi e policromi. La bisaccia o il copritavolo, l’arazzo, il copricassa o l’ornamento per animali realizzati con essa hanno a prima vista l’aspetto di tele fittamente ricamate (invece si tratta tessitura vera e propria); per formare i disegni si utilizzano lana, lanette colorate, fili di seta e dorati, inseriti tra i fili dell’ordito; - la tecnica a tauleddha (a tavoletta), eseguita mediante una spola con un solo filato (trama lanciata), usata soprattutto per le coperte; - la tecnica a un in dente (effetto di trama), così definita perché in ogni dente del pettine viene inserito un filo d’ordito; nei tessuti l’ordito viene completamente coperto dalla trama, perciò i manufatti risultano fitti e compatti; - la tecnica a pibionis (a nodi, o grani), eseguita con telaio orizzontale, anticamente riservata a copriletto e ornamenti da letto ma attualmente largamente utilizzata in vari manufatti e molto apprezzata sul mercato per il suo particolare effetto di rilievo, ottenuto dagli innumerevoli grani che formano i disegni8.
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La materia prima utilizzata per la tessitura in gran parte dell’Isola è la lana di pecora, utilizzata per la trama e, in alcuni elaborati, anche per l’ordito. Il cotone è abbastanza usato, specie per l’ordito e per l’esecuzione di prodotti più sottili come coperte, tendaggi e tovagliati. Vengono impiegati anche altri materiali quali la canapa (per l’ordito), il lino e le lanette artificiali. Le realizzazioni più apprezzate sono gli arazzi, tessuti con ordito in cotone e trama in lino e motivi decorativi in lana con fili d’oro e d’argento che conferiscono all’insieme un tono di preziosità sfarzosa. ! I tessuti avevano quindi una funzione pratica, connessa al lavoro ed alla casa, e una funzione simbolica, legata alla collettività. Oggi le mutate condizioni soci-economiche, il tramonto della società agro-pastorale e le diverse esigenze di mercato hanno modificato profondamente anche i meccanismi di produzione e di fruizione dell’artigianato, incluso quindi quello tessile e le funzioni cui esso assolveva. Non si lavora più per confezionare i tessuti d’uso, che si acquistano giù pronti, e progressivamente questi si sono trasformati in oggetti di arredamento: le bisacce sono diventate portariviste, le coperte si sono trasformate in tappeti da terra, sono nati gli arazzi. La richiesta di mercato ha indirizzato la produzione verso una specializzazione di tipo artistico che, pur essendo profondamente legata alla tradizione, ha spesso elaborato nuove forme espressive, talvolta con il contributo creativo di artisti.
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LA PLISSETTATURA DI BATTISTINA TRONCI-ANEDDA
In lingua sarda il procedimento è denominato infriare (“fare il plissé”), da cui infriadura (“plissettatura”). Il procedimento consiste nel tagliare la stoffa e pieghettare il capo d’abbigliamento (nel nostro caso la gonna) approntandolo per essere indossato in occasione di feste, processioni, avvenimenti importanti, o come parte integrante del costume tradizionale femminile nel paese di appartenenza. Questo sistema di confezionamento, di certo arcaico, presuppone una preparazione piuttosto lenta, ma consente di conferire al capo trattato una raffinatezza insostituibile.
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Battistina Tronci-Anedda, autodidatta, per circa cinquanta anni a Baunei ha praticato questa arte (fino a pochi anni or sono ancora lavorava) che, vista la sua complessità, gli ha permesso di avere ben poche concorrenti in Ogliastra e Barbagia. Sa fardetta, la gonna, necessitava di stoffe preferibilmente in seta, lana, raso (taffetà); il tessuto d’orbace, per il suo spessore, consentiva un plissé più grossolano. Occorrevano tessuti di lunghezza tra i sette e i dieci metri, e di larghezza variabili tra i 70-90 cm, in rapporto all’altezza, alla corporatura e al giro-vita della cliente. Le tavole di legno, su cui poggiavano le stoffe, andavano periodicamente sostituite per evitare che s’incurvassero a causa dell’umidità, dando luogo a un’imperfetta restituzione degli allineamenti tra le pieghe. Dopo l’imbastitura dell’orlo, iniziava il lavoro vero e proprio, con la stesura della stoffa sul tavolo, ponendola in una certa tensione. Per trattarla con più facilità, quindi, si bagnava con schizzi di acqua tiepida sollevati a mano, nelle zone in cui da
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un capo all’altro venivano “pizzicate” sas frias (le pieghe) che dovevano essere tutte identiche tra loro. Il pregio di una gonna finita, infatti, è dato dalla finezza di questa lavorazione: quanto più sono fitte, sottili ed uguali tra loro le pieghe, tanto maggiore sarà il valore commerciale del capo. È dunque fondamentale esercitare sui polpastrelli la pressione ottimale per ottenere una singola piega allineata diritta che prontamente sarà bloccata da una piccola lastra di pietra o marmo, di preferenza liscia, non troppo pesante e distanziata di 10 cm dalla successiva. Appena conclusa, da un’estremità all’altra, la piega andava ulteriormente irrigidita con l’inserimento di spillini (agulas) per fargli mantenere il giusto assetto e, dopo un controllo generale, cucita a filo grosso per imbastire. Per completare tutte le pieghe occorreva circa una settimana. Nel frattempo, per favorire l’asciugatura a temperatura ambiente, si adoperavano vari strati di diversi tessuti piuttosto sottili, sovrapposti l’uno all’altro in modo da coprire la gonna e pressati da piccole pietre di varia pezzatura, squadrate in un certo modo e pesanti quel tanto che occorreva. A questo punto, le piccole lastre, gli spilli e il filo usati per tenere insieme le pieghe andavano eliminati, così che l’intera opera si sarebbe tenuta insieme senza altro sostegno. Infine occorrevano circa altri due giorni di lavoro per rifinire la gonna; andavano fissati alcuni gancetti laterali di chiusura e sistemata, con ulteriori cuciture, sa triccia (la cintola) che assicurava nel giro-vita la tenuta complessiva al busto-corpetto sovrastante9. Finalmente sa fardetta era pronta per essere indossata. Per poterla conservare appesa in armadio, era uso arrotolarla ordinatamente ed inserirla in un contenitore tubolare, per preservarla dalle tarme. Altri nemici erano il sudore, l’acqua marina e… il ferro da stiro, assolutamente contro indicato per restituire l’originale plissé. Sa fardetta, infatti, senza alcun intervento, mantiene intatte per molti decenni le sue pieghe. Al costo di lire 1.200 a capo, la Signora Battistina Tronci-Anedda cominciò a realizzarle per sé e i suoi parenti già nel 1948, per arrotondare il bilancio familiare. La voce corse e, visti i pregevoli risultati, iniziarono ad arrivarle commesse da Baunei, da tutta l’Ogliastra e da molti paesi della Barbagia. Ben presto ebbe tanto
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lavoro e i suoi clienti dovevano prenotarsi ed attendere anche tre o quattro mesi per avere la gonna finita. Alla vigilia delle feste era sempre dedita al cucito o al plissé, lavorando freneticamente per accontentare le decine di signore e signorine che aspettavano ansiose di ritirare “su estire bellu”, il vestito elegante da esibire. Ad un Natale, ricorda la Signora Battistina, dovette prepararne una decina contemporaneamente, lavorando oltre quindici ore ogni giorno. Per l’artigiano è indispensabile il contatto fisico con il materiale stesso che modella. È però un contatto che consuma. Osservando le sue lunghe mani, si può constatare come le punte delle dita siano modellate stranamente: la loro morfologia si è adattata al bisogno, ciò non stupisce viste le numerose fardettas confezionate in tanti anni. Infatti, per lasciare inalterata la sensibilità tattile nel predisporre le pieghe, la Signora Battistina non ha mai usato protezioni quali guanti, o ditali, senza evitare il dannoso e prolungato contatto con l’acqua. Ora ha lasciato questo impegno gravoso, dedicandosi a qualche sporadica riparazione di capi già realizzati10.
É anche conoscendo tutto questo, che noi possiamo maggiormente apprezzare il gran lavoro di questa donna, che ha creato capi d’abbigliamento di pregio unici, da conservare gelosamente.
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IL RICAMO L'arte del ricamo era un tempo l'occupazione prediletta di tutte le donne, un nobile mezzo di lotta contro l'ozio, un eccellente fattore e un contributo prezioso alla decorazione della casa, da quella patrizia alla più umile dimora11.
Il ricamo è anch’esso un’arte, come quella dei tessuti e dei tappeti, di origine antichissima e che più di ogni altra ha subìto remoti influssi, come remota ne è anche la tecnica; volendo rintracciare la quale bisognerebbe risalire, se fosse possibile, ai primi popoli d’Israele12. Non è semplice stabilire quando furono introdotti in Sardegna i ricami, ma è innegabile la caratterizzazione dei merletti sardi, in particolare il filet di Bosa, rispetto alle produzioni continentali. Se nello “stile” il merletto sardo ha un carattere peculiare che lo distingue da altra produzione del genere, ciò non toglie che molti elementi decorativi, forse per infiltrazioni avvenute chissà in quali epoche, trovino riscontro nei lavori d’aghi di altre nazioni e nella produzione delle stesse nostre regioni italiane. Infatti, anche la Sardegna, in questo vasto campo di attività femminile, non doveva andare esente da influenze estranee. Influenze relative, poiché la maggior parte della produzione, pur avendo accolto modelli importati, ha saputo riprendere con nuovi impulsi la propria tradizione: ragion per cui ripeterà, anche sui merletti, quei motivi semplici e
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decorativi tolti dalla fauna o dalla flora locale, o quei simboli (vedi § IV) riprodotti sui copricassa o sulle coperte. La donna sarda, quindi, anche quando imita forme importate, sa dare alla disposizione del disegno di un determinato ricamo una stilizzazione di gusto locale facilmente rintracciabile. Brevemente, anche in Sardegna, come nelle altre regioni, si passò, cronologicamente, dal ricamo a colori a quello in bianco, in fili contati, fili tirati, per giungere alle vere trine, ossia dalla rete da pesca al buratto, sfilato, filet. Il punto a nodo di Teulada Il paese di Teulada, nella provincia di Cagliari, era il centro sulcitano più rinomato in questa tipologia di ricamo: non a caso si parla di “punto Teulada”, che prende il nome dalla tecnica “a nodo” (su punt’ e’ nu) impiegata. Il punt’ e’ nu13 è caratterizzato da disegni che utilizzano un punto base, che in questo caso è il nodo; le combinazioni possono essere tante, ma si parte sempre da un nodino per ottenere qualunque forma. Questa tecnica richiama i nodini o granelli in alto rilievo (vedi § II) della tessitura detti pibioni, ossia “acino d’uva”. Su punt’ e’ nu fu ed è ancora oggi riportato solo ed esclusivamente sul lino. Tenendo strettamente la sua origine talmente antica da non conoscersi tutt’ora una data precisa, viene ancora tramandato da madre in figlia. Ciò che ha reso peculiare il paese di Teulada è l’utilizzo di questo ricamo anche nel costume maschile14, rendendolo unico nel suo genere, circondato dal mistero della leggenda che si narra in suo onore, perché troppo poco di esso si sa15. Le antiche camicie recavano una decorazione sul collo, sul petto e sui polsi dagli effetti straordinari per le penombre create dall’alto rilievo dei disegni. Il filet di Bosa Il Filet16 è uno dei lavori più antichi e ben difficile torna stabilirne il paese d’origine poichè si rinviene presso tutti i popoli primitivi, derivato dalle arcaiche reti da pesca
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e da caccia, sulle quali si susseguono tuttora trasformazioni e varianti, e applicazioni infinite, raggiungendosi vere opere d’arte. Il centro principale, incontrastato, del filet sardo è stato sempre la cittadina di Bosa17: forse perché le sue produzioni, obbedienti a una rigida impronta locale, ebbero fortuna anche fuori dell’ambito isolano. Alla domanda perché il filet sia rimasto ambientato principalmente nella cittadina di Bosa, l’avvocato e storico Amerigo Imeroni suppose che questa tipica trina dovesse essere scaturita dalla corte dei Malaspina, che nel 1122 fondarono la nuova Bosa, e serbata come una tradizione18. Il filet doveva in origine chiamarsi reticello e crearsi solo con filo di lino e poi canapa, che non si produce nell’isola19, ed ora anche in seta e lana bianca e colorata20.
Il ricamo su rete filet (in sardo su randadu) si fa ricamando a punto rammendo la rete filet, il supporto. La preparazione della rete di base è una lavorazione ad intreccio di tipo tessile antichissima ed è strettamente legato al mondo della pesca. In tutto il Mediterraneo infatti, questo tipo di reti si usavano per catturare animali e pesci.
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Le donne, che facevano le reti per i pescatori, usavano la stessa tecnica per ottenere un pizzo, ricamando la rete al telaio. In Europa e anche in Italia, l’uso della rete per la decorazione di vestiti e altri oggetti della casa, è cominciato soprattutto dal 1400. Il ricamo filet sardo era utilizzato per la realizzazione di tutto il corredo della sposa quali tovagliati, lenzuola, asciugamani in lino, centri ecc. ed era spesso abbinato ad altre tecniche che prevedono la sfilatura dei fili. In passato i segreti della lavorazione del filet venivano tramandati da madre in figlia e i merletti rimanevano nella cerchia familiare. Solo nel 1800 nascono le prime scuole e laboratori artigiani e quest’arte si trasforma in un vero e proprio mestiere21. Grazie a questi laboratori il filet di Bosa è diventato molto famoso e rinomato22.
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IL RECUPERO DI UN’ANTICA PRATICA: L’ARTE TINTORIA DI MAURIZIO SAVOLDO Si parla spesso di una grande varietà di erbe e dei loro svariati impieghi, anzitutto curativi, preventivi e culinari, ma, in una società regolata da ritmi frenetici e contraddistinta da dinamiche produttive accelerate, si trascura un ambito fondamentale altresì noto nella storia dei saperi tradizionali: la tintura naturale dei tessuti. Le piante hanno avuto una grandissima importanza anche nella storia economica e politica, negli scambi culturali, nelle arti e nello sviluppo delle scienze e delle tecniche. Alcuni vegetali, i più noti per le loro proprietà coloranti, sono stati coltivati e commercializzati, divenendo merci importanti ed influendo in maniera significativa sullo sviluppo di molte regioni. Il loro utilizzo è sopravvissuto per molti secoli fino alla comparsa dei moderni coloranti sintetici avvenuta verso la fine del XIX secolo23. L’arte di ottenere i colori dalle sostanze naturali è antica quanto l’uomo anche in Sardegna. Attualmente, però, uno fra gli ultimi artigiani a detenere l’arte della tintura con le erbe è Maurizio Savoldo, ideatore di La Robbia24, un laboratorio artigianale di tinture naturali e arti applicate situato nel cuore della regione del Mandrolisai, nel piccolo paesino di Atzara. Il profondo legame di Savoldo con i colori naturali inizia nel 2001 con la ricerca all’Università di Cagliari risoltasi nella tesi di Laurea in Scienze Naturali dal titolo Piante tintorie spontanee nel territorio di Atzara, grazie al quale ebbe la possibilità di partecipare alla pubblicazione del libro Per erbe e per tinture in Sardegna25. Da qui, poi, la scelta di voler dar vita a un proprio laboratorio che, in un territorio con così alto indice di spopolamento, vuole richiamare l’attenzione verso quel contesto genuino dei piccoli paesi dove tradizione e cultura sono ancora in sintonia con natura e ambiente, cogliendo l’occasione per avvicinare il pubblico verso questo aspetto della natura e
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della biodiversità, che sta riscoprendo un rinnovato interesse. Infatti l’uso dei coloranti naturali, che sino alla fine del XVIII secolo aveva rappresentato l’unica modalità di tintura esistente, ebbe un grave declino nei primi anni del Novecento a causa dell’avvento dei coloranti di origine sintetica, più pratici e versatili, ma spesso anche tossici26. Oltre agli aspetti salutistici, anche gli aspetti ambientali (legati all’uso di coloranti di sintesi, caratterizzato da un elevato carico inquinante) stanno assumendo un’attenzione crescente. Così, recentemente, la maggior propensione verso l’utilizzo di prodotti di origine naturale ha determinato un crescente avvicinamento a quei “colori della natura” di cui il mondo vegetale è ricco. Il laboratorio “La Robbia”, nato nel 2005, deve il suo nome a una delle piante con forte potere tintorio, da sempre utilizzate ad Atzara; questo piccolo paese, infatti, fino agli anni ’70 possedeva uno dei più grossi centri di tintura naturale, che non ha mai abbandonato anche dopo l’avvento dei coloranti chimici. Ed è proprio la memoria storica delle persone anziane del paese, con la quale Maurizio Savoldo ha intrapreso un’accurata ricerca etnografica, che gli ha permesso il recupero di quest’antica arte, di cui andava perdendosi la conoscenza e il valore. Il laboratorio si occupa della tintura di fibre rigorosamente naturali di origine vegetale (cotone, lino, iuta) e animale (lana e seta) con coloranti naturali anch’essi sia animali sia vegetali. Piante e colori I coloranti di origine vegetale sono ricavati, da Savoldo, da piante tintorie in parte importate, ma in maggioranza autoctone. La Sardegna ha infatti una profonda tradizione di tintura naturale, che sembra risalga al periodo neolitico. Furono poi i cretesi a importare nell’isola la Rubbia tintoria (Robbia dei Tintori) e il Crocus sativus (Zafferano). Quest’arte poi si consolidò con i fenici e con i romani, basti pensare che la Sardegna versava a Roma in tributo una quantità elevatissima di cocciniglia (colorante animale ottenuto dall’omonimo insetto, un parassita della quercia spinosa) e in seguito con i fenici che importarono ad esempio la tintura con la porpora27, pigmento ottenuto dalla secrezione ghiandolare di un mollusco della specie Murex brandaris appartenente alla famiglia dei Muricidae. Nel ‘700 vennero
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poi raccolti con criteri industriali le galle (escrescenze) prodotte dal parassita della quercia spinosa, la Cocciniglia della specie Kermes vermilio, dalla quale si estraeva un colorante rosso utilizzato all’epoca per tingere le acquaviti, che venivano pertanto denominate “liquori al khermes”28.
E ancora, dalla Roccella Tinctoria sarda
dell’isola della Maddalena (appartenente al genere di Licheni della famiglia delle Roccellacee e presente, nel bacino del Mediterraneo, solo in Sardegna) si estraeva un colorante rosso, tintura costosissima che veniva usato in Inghilterra per tingere le giubbe del reggimento della guardia, ma soprattutto molto rinomata perché utilizzata per tingere le vesti cardinalizie29. Ma la coltura che ebbe maggior fortuna fu certamente quello della Rubia tinctorum (Robbia dei Tintori) appartenente alla famiglia botanica delle Rubiaceae e della Rubia peregrina (Robbia selvatica), da cui si ricavano i rossi, e comune anche ad altre regioni. É proprio quest’ultima che dà infatti il nome al laboratorio di Maurizio Savoldo: fortemente legata al nostro territorio e ai colori dei tappeti sardi, veniva utilizzata anche per tinteggiare le case. Oltre le piante già citate per ricavarne i rossi, ossia la Robbia e la Roccella (in Sardegna detta volgarmente l’Oricello) e lo Zafferano per il giallo, le altre piante autoctone adoperate da Maurizio Savoldo sono la Reseda Luteola (famiglia delle Resedacee), che è la più antica pianta utilizzata per il giallo; la Dafne per il giallo senape, il Cisto, la Roverella, il Leccio e il Melograno per il giallo limone; il Mallo di Noce (di produzione locale ma anche importato perché quello locale non è sufficiente) per il verde; la Lavanda selvatica per le tonalità purpuree. Importante sottolineare, per un discorso ambientale, che sia la Lavanda selvatica che il Cisto, ma anche la Dafne, sono piante infestanti, quindi cogliendole non si arreca nessun danno all’ambiente. Invece le piante acquistate, che ha scelto comunque di utilizzare per via di un legame cromatico e storico con la Sardegna, sono, ad esempio, l’Henné, pigmento estratto
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dall’omonima pianta (famiglia Lawsonia inermis) che dà un colore molto solido e affidabile; il Legno di campeggio, una pianta della famiglia delle leguminose proveniente dal Messico legata alla Sardegna perché utilizzata già da tempi remoti per tutta la serie di colore dei viola e in associazione con altre piante per i neri, tant’è che possiede addirittura un nome in sardo: s’is cambecciu; l’Indaco, pigmento tintorio ottenuto a partire dalla sostanza azzurrina (indacano) che si estraeva macinando le foglie soprattutto di piante indiane appartenenti alla specie Indigofera tintoria, non è presente sul territorio sardo30; il Guado, appartenente alla specie Isatis tinctoria, è stata importata con scopo tintorio (non ha infatti un corrispettivo nome in sardo) ma poi si è inselvatichita e ora, quindi, è presente nel territorio: le cui foglie contengono lo stesso principio colorante dell’indaco ma in percentuale minore insieme ad altre impurità31. Infine, per quanto riguarda i colori animali, ho già citato la Cocciniglia sarda, colorante ottenuto essiccando i corpi delle femmine di alcune specie di coccidi (insetti) che vive nella quercia della specie Quercus coccifera32, dalla quale si ottengono la serie di colori dal vinaccio al rosa; invece un colorante non autoctono importato da Maurizio Savoldo è quello ricavato da insetti secchi parassiti del fico d’india provenienti dal Perù, utilizzato peraltro anche in ambito culinario (bitter)33. Queste sono le piante che determinano il campionario di 26 colori standard creato da Maurizio Savoldo, anche se parlare di colori standard nella tintura naturale non è proprio corretto data la d i ff i c o l t à n e l r i c r e a r e sempre la stessa tonalità di colore. Questo campionario viene periodicamente aggiornato di nuovi colori grazie a una costante ricerca di laboratorio. Le tonalità cromatiche che si possono ottenere in tintura naturale sono
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infatti tantissime. Da quando possiede questa attività, Maurizio Savoldo suppone di aver fatto circa 300 colori. Le ricette tintorie di ogni singolo colore sono determinate da differenti parametri quali periodo di raccolta della pianta, quantità di vegetale, tempo di macerazione, tempo di tintura, temperatura di tintura, ecc. La particolarità dei colore naturali è quella di non possedere neanche una definizione fissa di cromatismo, nel senso che osservando, ad esempio, una sciarpa tinta naturalmente notiamo che presenta delle vibrazioni di colore, o delle imperfezioni che fanno si che il colore non sia pacato, spento (caratteristica tipica, invece, del colore di sintesi)34. Estrazione dei coloranti É d’obbligo sottolineare che il processo di estrazione delle tinture è interamente artigianale, eseguito in un piccolo laboratorio all’interno della bottega35. La tintura, che avviene in filato, ha luogo attraverso le seguenti fasi: - dopo aver sminuzzato il materiale vegetale e averlo lasciato macerare in acqua una notte, viene fatto bollire in acqua per un’ora allo scopo di estrarne il pigmento; - contemporaneamente la fibra è sottoposta alla mordenzatura: viene cioè trattata con un mordente, in genere un sale minerale (allume di potassio), che ha la funzione di legare stabilmente il pigmento alla fibra nelle successive fasi della tintura; - la fibra mordenzata viene posta a freddo nel bagno di colore e portata ad ebollizione, che viene mantenuta fin quando non venga ottenuta la tinta desiderata; - la matassa viene estratta dal bagno di tintura, sciacquata in acqua fredda finché non perde più colore e messa ad asciugare all’ombra. Alla tintura, inoltre, il laboratorio ha voluto accostare una produzione di capi finiti. Non avendo grossi riscontri economici dal solo processo di tintura del filato,
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Maurizio Savoldo ha infatti iniziato a elaborare e realizzare dei prodotti finiti: in collaborazione con delle tessitrici ha realizzato tappeti, sia in chiave moderna che in chiave tradizionale; poi con delle vecchie macchine da maglieria ha dato vita a una produzione di sciarpe, accessorio posto a diretto contatto con la pelle e di qui la fondamentale esigenza di avere un prodotto di qualità per quanto riguarda la fibra (come già detto, attraverso la tintura naturale si possono tingere solo fibre naturali: lana, seta, lino, cotone); poi borse, prodotti di arredamento, arazzi di orbace ricamati a mano con simbologie appartenenti alla cultura popolare autoctona. Trae ispirazione dal costume sardo, in prevalenza da quello di Atzara, di cui riprende il ricamo e la bordatura del grembiule. Gli articoli realizzati, oltre a essere ricchi di tradizione, si contraddistinguono perché si trovano in linea con le esigenze della società moderna, sempre più attenta ai prodotti non dannosi all’ambiente e alla salute dell’uomo: indossare un capo naturale colorato con tinture naturali è molto importante sia per la traspirazione corporea (i tessuti sintetici comportano anche sgradevoli odori) e sia per evitare svariati disturbi dermatologici che i coloranti chimici possono facilmente arrecare36. L’utilizzo di questa tecnica di tintura naturale implica, inoltre, un discorso di salvaguardia ambientale notevole: tutti i reflui che derivano dal colore di sintesi contengono una grossa quantità di metalli pesanti, che vanno a riversarsi nell’ambiente e compromettendo, ad esempio, l’ecosistema della fauna ittica; mentre, nel caso del colore naturale i reflui prodotti risultano avere un bassissimo impatto ambientale. Grazie all’assidua sperimentazione e ricerca in materia di Savoldo, recentemente sono state riscoperte altre ricette per effettuare le tinture con i colori tipici dei costumi sardi37. All’attività del laboratorio si è aggiunto quindi il recupero dell’arte della lavorazione del costume maschile e femminile atzerese: un’arte antica, oggi praticata ormai da pochissime donne e in fase di declino. Infatti il commercio del
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costume è calato molto, si tratta di pezzi dall’elevato costo, acquistati per lo più da collezionisti o dalle persone che sfilano durante le manifestazioni folkloristiche. Vengono effettuati maggiormente ritocchi e restauri, più che la produzione del capo ex novo. Proprio per contrastare la perdita di quest’antica tradizione, recuperata grazie alla memoria degli anziani del paese, Maurizio Savoldo attribuisce notevole importanza alla formazione organizzando momenti di trasmissione e divulgazione con corsi, seminari e stage rivolti principalmente a due ambiti: - le tecniche di tintura naturale: riconoscimento delle svariate specie di piante tintorie - che crescono spontaneamente perfino nei parchi delle nostre città - periodo e aree adatti alla raccolta, parti delle piante da utilizzare, fino alle “ricette” per generare il colore e tingere le fibre; - le tecniche di lavorazione del tessuto e il confezionamento del costume sardo, in particolar modo quello di Atzara, caratterizzato da particolari ricami in quasi tutti i suoi pezzi, che rivive grazie alla collaborazione della madre di Maurizio Savoldo, Angela Manca, nell’attenta riproposizione delle tecniche antiche. I progetti con le scuole sono invece legati alla disponibilità dei fondi, che oggi vanno diminuendo inesorabilmente.38
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NOTE Questa usanza mi è stata inizialmente riportata da Signora Michelina Soggia-Bagella, confermata
successivamente da DEGIOANNIS L., La tessitura tradizionale in Sardegna. Lavorazione, tecniche e motivi a Busachi Mogoro, Morgongiori, Isili e Tonara, S’Alvure, Oristano, 1993, p. 28. 2 Cfr. LODDO P., Arte Tessile in Sardegna. Simboli e ornati, Sassari, 1987, p. 25. 3 Tessitura in Sardegna, Catalogo generale, Cagliari 1994, ISOLA. 4
La tessitura consiste nell’intrecciare una serie di fili chiamati ordito e mantenuti paralleli e in tensione, con un’altra serie chiamata trama. I fili di trama, avvolti su apposita navetta e fissati al primo filo di ordito, vengono introdotti tra i pari e i dispari dell’ordito. Questa operazione, detta passata, viene seguita dalla battitura, effettuata con un pettine o un attrezzo analogo, che serve per comprimere uniformemente il tessuto. 5 Generalmente il telaio veniva collocato in una zona luminosa: nelle case del Meridione si trovava spesso nel loggiato, sa lolla; nelle abitazioni della zona settentrionale si metteva in una stanza di riguardo, a volte in quella da letto, a volte nella cucina. Il lavoro del telaio, secondo la testimonianza delle tessitrici, era gratificante e veniva svolto, in genere, volentieri. Le lunghe ore necessarie, la forza di braccia, la posizione, la continua concentrazione, lo rendevano però un’attività faticosa. Il telaio si ereditava di madre in figlia, o comunque all’interno della famiglia. Periodicamente era necessario sostituire le parti più logorate dall’uso, ma spesso quelle più antiche avevano più di un secolo. Le parti del telaio che si logoravano col tempo venivano spesso sostituite o aggiustate in casa, dal marito o da altri parenti della tessitrice, anche con l’utilizzo di legno comune, senza ricorrere al falegname: una delle parti che si consumavano per prime erano i cavalletti anteriori, rovinati dai continui colpi della cassa battente. Cfr. DEGIOANNIS L., La tessitura tradizionale in Sardegna. Lavorazione, tecniche e motivi a Busachi Mogoro, Morgongiori, Isili e Tonara, S’Alvure, Oristano, 1993, pp. 28, 29. 6
Ivi, p. 26. M., Tessitura Tradizionale della Sardegna. Un caso particolare, Gallizzi, Sassari, 1998. 8 L’effetto di rilievo si ottiene in questo modo: tra i fili dell’ordito si passa la trama e la si avvolge con le mani attorno a un sottile ferro, portandola in rilievo nei punti richiesti dal disegno da eseguire, con effetto di grani o nodini. La dimensione dei grani dipende dalla sezione del ferro che viene utilizzato, 7 MURA
nonché dal tipo di materiale. 9 G. Anedda, La sarta, in “Sardegna e Dintorni”, Anno 2001, p. 39, 40, 42, 44. 10 Comunicazione orale di: Michelina Soggia-Bagella, Gianluigi Anedda, Battistina Tronci-Anedda, novembre 2013. 11 G.
V. Arata, G. Biasi, Arte sarda, S.A. Fratelli Treves Editori, Milano, 1935, p. 60. Per una trattazione più ampia sulla storia si rimanda il lettore alla consultazione di G. V. Arata, G. Biasi, Arte sarda, S.A. Fratelli Treves Editori, Milano, 1935, p. 51, 52, 53, 54. 13 www.ricamo.it 12
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Il costume maschile dei teuladini richiama quello della vecchia Catalogna per il grande sombrero a larghe tese, un succinto corpetto, larghe brache e uose di orbace nero, ed un collettone aperto a grandi risvolti, in tela di lino greggia ricamata, appunto, con il punto a nodo (pibioni). 15 Leggenda: si narra che questo punto fu inventato da una giovane ragazza ingiustamente condannata al carcere anziché alla forca perché gestante. Per non annoiarsi si mise a ricamare: ogni “punto nodo” corrisponderebbe ad un “grano” del rosario, nelle cui preghiere ella riponeva tutte le sue speranze. Riuscì a creare una coltre talmente bella che la Regina di Teulada, vedendola e avutala in dono, decise
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di donarle la grazia e portarla con sé a corte per ricamare i suoi corredi. Da Mostra di ricami sardi e lombardi per la festa della donna, in Il messaggero sardo, 24 aprile 2005. 16 Filet è una parola francese e indica la reticella sulla quale si realizza il finissimo ricamo 17 Questo tipo di filet è veramente caratteristico sardo: è diverso da quello siciliano in quanto il filo di questo non è annodato negli angoli ma solo accavallato. 18 Cfr A.
Imeroni, Piccole industrie sarde, Ente nazionale per piccole industrie, Roma, 1928, p. 23, 24. scarsa produzione locale la Sardegna ricorre ai filati di canapa e di lino della Lombardia, Emilia, Veneto, ma il prodotto più fine è il filo di Scozia della Harbour di Londra. 20 Il suo costo è commisurato alla qualità del filo, precisione del lavoro, nobiltà del disegno e 19 Per
dimensioni (base il centimetro quadrato). 21 La produzione del filet a Bosa occupava, negli anni Venti del Novecento, 1500 operaie, di cui 1000 con produzione individuale per conto proprio, e le restanti per i laboratori di Olimpia Peralta Melis e Diodata Delitala, che producevano filets colorati in lino, lana e seta. La produzione si estendeva poi a Oristano (500 operaie) in laboratori e al Nuorese, alla provincia di Sassari e di Cagliari in aggregati familiari. Cfr IMERONI A., Piccole industrie sarde, Ente nazionale per piccole industrie, Roma, 1928, p. 25. 22 Una delle scuole più importanti è stata fondata da Olimpia Melis, che partecipò con le sue opere a numerosissime esposizioni e fiere internazionali vincendo diversi premi e ottenendo importanti riconoscimenti anche in Francia e in Belgio. 23 Cfr. BRUNELLO F., L'arte della tintura nella storia dell'umanità, Vicenza, 1968. 24 www.larobbia.it 25 Pubblicato dall’Associazione Tinture Naturali Maria Elda Salice, Milano, 2003. L'Associazione Colore e Tintura Naturale Maria Elda Salice è sorta a Milano nel 1986, con l'intento di proseguire lo studio e il lavoro della maestra tintora Maria Elda Salice (1931-1985). Non ha fini di lucro e sviluppa il proprio impegno nell'ambito della ricerca, della sperimentazione e della diffusione delle tecniche di utilizzo dei coloranti naturali. 26 Cfr. Voce “coloranti” Enciclopedia Italiana Treccani. 27
LEONARDONI A., Tingere al naturale: piante tintorie per tessuti, L’informatore agrario, Verona, 1995, pp. 34, 35, 36. 28 AA.VV., La flora tintoria. Gli studi e le guide di RomaNatura, 3, Ente regionale RomaNatura, Roma, 2009, p. 13. 29
L’indaco, diversamente dalle altre tinture, è molto particolare perché la tintura avviene in un ambiente basico, ossia: la matassa viene immersa nella soluzione basica e inizialmente assume un colore giallo verdastro, ma nel momento in cui viene estratta ed entra in contatto con l’aria e quindi con l’ossigeno, si ossida provocando una virazione di colore dal giallo verdastro all’azzurro (avviene in 10-20 minuti). 30 SALICE M. E., La tintura naturale: come preparare lana e seta per la tintura, come ottenere una vasta gamma di colori dalla cocciniglia, dal caffè, dall’ortica, dalla betulla, dall’indaco, da te…, Sonzogno, Milano, 1979. 31 Informazione raccolta dall’intervista a Maurizio Savoldo, 24 novembre 2013. 32
DI CARLO S., Coloranti vegetali: dalla natura ai beni culturali. Storia, utilizzo, molecole e riconoscimento, tesi di laurea in Scienze Applicate ai Beni Culturali ed alla Diagnostica per la loro Conservazione, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, 2006-2007. 33 Intervista a Maurizio Savoldo, Atzara, Regione Autonoma della Sardegna, Karel S.p.a, 2008.
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34 Comunicazione
orale di Maurizio Savoldo, 24 novembre 2013.
35 I
pigmenti di origine vegetale sono in genere estratti per sminuzzamento e macerazione dalla pianta intera o parti di essa. Da radici, foglie, fiori, frutti, semi o cortecce di una stessa pianta si possono ottenere colori diversi perché diversi sono i tipi di pigmento che risiedono in ciascuna parte di essa. La concentrazione di pigmenti all’interno di una pianta è inoltre influenzata da una serie di fattori ambientali tra i quali la natura del suolo, la luce, la temperatura. La raccolta viene fatta a campionatura, ovvero si prelevano dei campioni in luoghi differenti di anno in anno, in modo tale da dare il tempo alla pianta di risvilupparsi. L’estrazione dei colori dalle piante è un procedimento complesso, che richiede un certo rigore a
soprattutto tempo: il tempo naturale del ciclo biologico della pianta; il tempo per la raccolta e per la lavorazione; il tempo di dilettarsi dinanzi all’alchimia dei colori. 36 Oggi le tinture naturali sono molto studiate anche dal punto di vista terapeutico, ad esempio vengono utilizzate nella cromoterapia con buoni risultati perché il colore naturale non è aggressivo come il colore chimico, ma infonde tranquillità. 37
Ad esempio, molto caratteristica è la tintura dell’orbace per realizzare la gonna e il grembiule del costume atzarese: si tratta di un colore rosso granato che conserva il riflesso rosso della robbia: si ricava questo colore tingendo la gonna con più piante a base rossa e successivamente sovrapponendo a queste una tintura effettuata con il mallo della noce. Quando una donna diventava vedova non confezionava ex novo il suo abito, ma tingeva tutti i suoi vestiti, compreso il ricamo, di nero utilizzando il legno di campeggio, poiché i tempi di realizzazione dei pezzi del costume sono lunghissimi (per realizzare solo il corpetto occorre un mese e mezzo). La differenza del nero della vedova e del nero maschile (nero pece) si differenziava proprio perché conservava questo riflesso rosso.
38 Comunicazione
orale di Maurizio Savoldo, 24 novembre 2013.
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PREMESSA Prima di parlare dei prodotti del tessile sardo, preme fare un’indispensabile premessa. La precisa differenza tra le due dimensioni del quotidiano e del festivo, elemento distintivo delle classi popolari, è sancita da evidenti diversità che oppongono tempo lavorativo e tempo cerimoniale. La tradizione popolare ha elaborato, anche per gli indumenti, qualità e tipologie diverse in base alla distinzione quotidiano-cerimoniale: mentre l’abbigliamento di tutti i giorni è semplice e funzionale all’attività lavorativa, quello cerimoniale diventa elegante e sfarzoso. Anche i tessuti usati nell’arredo, le coperte, i copritavolo, i copricassa e i manufatti da lavoro, come le bisacce, partecipano di questa precisa e codificata distinzione. Il corredo tessile prevede infatti un certo numero di capi quotidiani e di capi più fini. La differenza tra i manufatti quotidiani e quelli festivi, dal punto di vista estetico, è immediatamente evidente: i manufatti quotidiani sono prevalentemente eseguiti con tecniche più semplici, sia come lavorazione che come risultato, o di più rapida esecuzione; i manufatti cerimoniali erano eseguiti con altre tecniche che richiedevano maggiore precisione, abilità e pazienza1. I manufatti quotidiani avevano essenzialmente una funzione d’uso, ed a questa rispondevano le loro principali caratteristiche di robustezza, durata e funzionalità. L’aspetto estetico era secondario, anche se molto spesso anche la più umile bisaccia da lavoro o un semplice sacco per il grano presentavano qualche piccolo elemento decorativo. I tessuti festivi, pur essendo sempre degli oggetti d’uso, assolvevano anche ad altre esigenze, e si caricavano di particolari significati. I moduli espressivi, gli espedienti tecnici, le scelte cromatiche erano anticamente molto ben connotate per aree, quindi caratterizzati etnicamente rispetto a quelli di altri centri: i prodotti di ogni paese specializzato nella tessitura erano immediatamente distinguibili dagli altri. In questo modo, specialmente il tessuto cerimoniale, il più curato da tutti i punti di vista, rappresentava simbolicamente la comunità che lo aveva prodotto, e di cui portava il segno inconfondibile, facendosi
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portatore dei suoi valori etnici, e ribadendone, soprattutto nei momenti festivi e cerimoniali, quindi collettivi, la precisa identità.2 Copricassa e copritavolo, coperte, bisacce, teli per la panificazione, elementi del vestiario e del corredo e poco altro costituivano le tipologie di tessuti presenti nella società tradizionale isolana. !
IL COSTUME TRADIZIONALE Nelle sue caratteristiche secolari, nei suoi aspetti esteriori e nelle sue varietà cromatiche, il costume sardo rappresenta una delle espressioni più genuine di tutto il folklore mediterraneo. Il complesso vestimentario oggi riconosciuto come costume popolare della Sardegna rappresenta l’esito di un lungo processo di trasformazione che prende avvio nel XVI e si conclude alla fine del XIX secolo3. Il “costume popolare”, quale è definito dagli studi nei suoi significati sociali e nelle sue componenti formali, appare totalmente
differente
dall’abbigliamento usuale moderno: nell’abito tradizionale, all’interno della quale i margini di scelta personale sono ristrettissimi, i segni forniscono informazioni sulla regione di appartenenza, sul ceto e sui diversi ruoli all’interno della comunità, il sesso, l’età. É difficile tracciarne con esattezza l'origine, farne la comparazione stilistica o individuare, con precisione, le influenze che hanno esercitato gli invasori che conquistarono o sottomisero l'Isola. Le dominazioni che si sono succedute hanno dato ognuna i suoi apporti: Fenici e Cartaginesi sono stati, verosimilmente, i primi che introdussero i pezzi base del
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costume, modificati durante il lungo periodo romano e, successivamente, arricchiti da influenze continentali, genovesi, pisane, catalane, spagnole, piemontesi. Poiché gli Spagnoli sono stati nell’Isola in un arco di ben quattrocento anni, possiamo immaginare che buona parte dei costumi sia stata assoggettata ad influenza spagnola4: dal Trecento al Quattrocento nobildonne e mogli di funzionari spagnoli devono essere stati i veicoli di novità della moda.
I costumi sardi per gran parte andarono delineandosi nelle sub-regioni storicogeografiche dell’Isola (Logudoro, Gallura, Goceano, Barbágia, Ogliastra, Campidano, Sulcis) e attorno alle due città di Cagliari e di Sassari, oltre ai centri settecenteschi di Carloforte e di La Maddalena. Centri di diffusione della moda dovettero essere alcune residenze di feudatari, soprattutto tra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento: i soffi di mode nuove continentali trovarono nell’Isola terreno fertile ed i modelli aulici dovettero
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suscitare una certa suggestione sui popolani: il semplice, austero vestiario tradizionale si andò sostituendo con fogge di influenza aristocratica (tra le quali la più notevole rimane sempre quella di ascendenza spagnola). Dal Settecento in poi subentrarono, con i Savoia5, le mode francesi (il fatto che il vestiario femminile sia sempre composto di due parti - corsetto e gonna - rispecchia il fatto che non sia di ascendenza molto antica, come generalmente si crede)6. Non verrà compilata, in questa sede, la descrizione delle singole parti dell’abito, per la consultazione della quale si rimanda a testi specifici7. «Ma il nostro timore - scrivevano negli anni Trenta l’Arata e il Biasi8 - è che la vita moderna, col suo travolgente impeto che sposta e sgretola valori con rapidità vertiginosa, faccia sparire anche questa espressione etnografica, nonostante lo spirito tradizionale della razza tenti di ritardare quello sviluppo graduale che trascina uomini e cose in una evoluzione costante e precisa che, spesso, nessun urto può far deviare o arrestare. E ciò sarà un grave danno per l’integrità della nostra Isola e per le caratteristiche fisionomiche della nostra razza». Oggi, chi desidera vedere raggruppati i celebri costumi, in numero davvero imponente, non ha che assistere alle sfilate, da molti anni ormai in calendario, che si tengono per la sagra di Sant’Efisio a Cagliari (il 1° maggio 2014 si terrà la 357esima edizione), per la “Cavalcata” di maggio a Sassari (65esima edizione) e per la festa del Redentore a Nuoro (ad agosto 2014 si terrà la 114esima edizione): queste sfilate costituiscono una vera e propria esposizione vivente di costumi della tradizione. Così, anche se è difficile ormai trovare i costumi nel loro ambiente naturale (perfino nei paesini più sperduti dell’interno) i sardi sembrano aver preso coscienza dell’importanza della tradizione e della sua preservazione, se in ogni cassone tradizionale tengono riposto un costume di gala preziosissimo, da indossare per le grandi sfilate. Rispetto ai primi decenni del secolo scorso, anzi, il patrimonio in costumi oggi è forse superiore, se si pensa che alcuni centri, che avevano perso l’usanza del costume, abbiano intrapreso un’opera di “ricostruzione” del vestiario tradizionale attraverso le documentazioni grafiche e letterarie dell’Ottocento, riannodando in tal modo i fili della tradizione.
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IL TAPPETO SARDO I tappeti sardi rappresentano la parte più cospicua e più interessante di tutta la produzione folkloristica dell’Isola, quella che, per complessità e varietà, può stare a paragone con qualunque produzione straniera del genere, compresa quella orientale. Se è vero che i modelli giunsero dalla Persia in Europa dopo il Mille, nell’Isola non si ebbero, tuttavia, contributi successivi da parte di altri popoli come accadde in altre
regioni italiane, per esempio in Sicilia, ove sostarono Arabi, Normanni, Svevi9. A partire dal XIV secolo, in Sardegna si ebbero influenze artistiche da una sola parte, la Spagna, che per altro non sembra aver sostanzialmente contribuito all’attività tessile come influì invece in altri campi, specie, come già detto, in quello affine del formarsi dei costumi. La produzione isolana si differenzia nettamente dalle altre produzioni regionali, sia italiane che spagnole. Vano è stato, dunque, fino ad oggi, scoprirne le matrici, a differenza di altre categorie di manufatti di artigianato usuale e artistico.
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L’uso dei tappeti, era motivato, naturalmente, dall’esigenza di ricoprire il suolo all’interno delle abitazioni per procurare il massimo calore possibile. Dapprima si usava a questo scopo il vello degli animali, poi si passò ad una specie di pelliccia artificiale: dal primitivo sistema di inserire segmenti di lana nei tessuti si è probabilmente sviluppata una tecnica molto simile all’odierna; si può supporre che i primi tappeti fossero fabbricati con avanzi di lane anche di vario colore accoppiate casualmente, e che in un secondo momento si sia sentita l’esigenza di ideare semplici motivi decorativi10. Il tappeto sardo, in realtà, nasce all’origine come coperibanga o cobericascia (copricassa), ovvero come elemento decorativo dell’austera cassapanca, depositaria del corredo della sposa e di un piccolo tesoro domestico. Questa sua antica funzione ne spiega la struttura, costituita generalmente da una sezione con figure o disegni geometrici e due falde laterali che servono da ornamento. Partendo da copricassa si passa, per fasi successive, all’utilizzo come coperta, arazzo11 e poi tappeto. Un elemento assai rilevante del manufatto è il ritmo del disegno: la ripetizione variata o meno di motivi e figure ed i rapporti di colore sono essenziali per caratterizzare il prodotto dell’artigianato popolare. Il tappeto sardo raramente ha lo scomparto centrale libero da motivi decorativi, anzi, una delle fisionomie più spiccate del copricassa/tappeto sardo è di ornare di decorazione tutto il tessuto come se dovesse rappresentare un arazzo. Inizialmente veniva composto con motivi ripetuti a tutto campo di agevole realizzazione, ottenuti con semplice movimento di trama e di ordito. L’introduzione del simbolo e delle figure avvenne dopo, ma anche questi elementi sono comunque strutturati in modo schematico12. I manufatti dell’arte popolare possiedono dei requisiti (impiego di materiali locali, dai più preziosi a quelli più umili, forma, ritmo, colore) che si traducono in un linguaggio particolare e inconfondibile. Col tempo, nuovi motivi decorativi si sono aggiunti a quelli tradizionali, senza però tradire il carattere di semplicità che l’artigiano riesce a infondere con la sua personale interpretazione.
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IL TAPINU DE MORTU É in una realtà particolare qual’è la Barbagia - area più conservativa a causa della posizione geografica che determinò un certo isolamento economico-culturale - che si colloca, come provenienza, l’eccezionale manufatto denominato tapinu de mortu, tradotto con il termine “tappeto del morto”, che nell’articolo di Carlo Albizzati del 192713 è indicato come proveniente da Orgosolo o Mamoiada, due centri barbaricini attivi nella tessitura al telaio verticale. La parte finale dell’articolo dell’Albizzati riporta la notizia data a un antiquario di Palermo dai venditori, dalla gente del posto quindi, che i tappeti sarebbero conservati nelle famiglie per distendervi la salma quando i parenti e il vicinato si recavano a porgere l’estremo saluto al defunto prima della sepoltura, uso comune a tutta l’area mediterranea14. Gli esemplari di cui siamo a conoscenza sono quello illustrato nell’articolo di Albizzati, oggi perduto, quello citato ivi come “donato al Museo di Boston”, alcuni conservati al Museo Unico Regionale dell’Arte Tessile Sarda di Samugheo, e i due custoditi presso il Museo Sanna in Sassari e il Museo Etnografico di Nuoro15. L’Albizzati non crede che tali tappeti siano stati eseguiti ad esclusiva destinazione funeraria, ma ritiene probabile che, cessata la produzione e ormai divenuti rari, essi siano stati trasmessi all’interno di qualche famiglia da una generazione all’altra e usati per solennizzare quei tristi momenti, e per tale motivo si siano conservati nel tempo in buono stato 16.
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Essi possiedono, soprattutto dal punto di vista compositivo e iconografico, ma anche tecnico, un’impronta che li pone in posizione atipica rispetto ai tessuti sardi: - la tecnica differisce dai tradizionali manufatti tessili sardi; - il tapinu è composto generalmente da un riquadro centrale con motivi stilizzati, ed esternamente uno spazio di forma rettangolare caratterizzato da strisce color ruggine e giallo ocra, bordate di nero, che seguono un andamento a V o a zig zag. Compaiono inoltre, paralleli al bordo del tappeto, elementi grafici che ricorderebbero i caratteri cufici17; - la denominazione tapinu, per indicare il tappeto, non ha alcun riscontro a livello linguistico in nessun centro dell’Isola, perché innanzitutto il tappeto non esisteva anticamente nell’uso tradizionale e poi il vocabolo tap(p)ínu assume a Mamoiada il significato di “panno di lana grezza con cui si avvolgono le sfoglie di pasta del pane perché lieviti”18. Allo stesso tempo, raffrontando i tre manufatti, possiamo osservare che, dal punto di vista tecnico, la tessitura del tapinu, eseguita su telaio verticale, ha termini di confronto con altri tessutoi eseguiti in Barbagia. A Nule (uno dei pochi centri dove ancora si eseguono manufatti su telaio verticale) il punto di congiunzione fra due diversi colori, la cui mancanza determina gli “occhielli” come quelli del tapinu, è segnalato specificatamente come se si trattasse di un’operazione acquisita recentemente. A sua volta, rilevante è la somiglianza del tapinu de mortu con i Kilim orientali (Carlo Albizzati indicò i Kilim del Caucaso o di Caraman): la tecnica di tessitura è, infatti, quella tipica del Kilim anatolico, con piccole asole a bordi combacianti in corrispondenza dei passaggi cromatici dei fili di trama 19. Pur collocandoli in un’antichità remota e nonostante gli aspetti indicati, non si spiega comunque la singolarità di questa categoria di manufatti nei quali l’elemento esterno, asiatico, non risulta filtrato dal gusto proprio della cultura locale, che, come sappiamo, assimilò nel corso della storia molti aspetti tecnici e iconografici di diversa provenienza, ma sempre mediandoli e facendoli propri cosicché essi si integrarono nei contesti tradizionali.
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Secondo l’Albizzati (che nonostante rilevi numerosi elementi asiatici, è convinto dell’appartenenza del manufatto al contesto geografico-culturale della Sardegna) sarebbero cosÏ antichi da aver perso nei secoli qualsiasi traccia che attesti, in tessiture di epoca successiva, un qualche segno di derivazione. Gli esemplari di tapinu non hanno, quindi, alcun riferimento con gli altri manufatti eseguiti al telaio verticale, non presentano alcun tipo di contatto e allo stesso tempo non hanno dato luogo ad elementi di derivazione: non il formato, non la composizione, non i motivi iconografici. Solo il Medioriente presenta nella produzione odierna manufatti che risultano imparentati con il nostro tappeto. Gli istituti regionali finora non hanno condotto studi specifici, ma si sono limitati a inserirli genericamente nella tessitura al telaio verticale.
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LA BISACCIA Sa bertula de sos poveros, de sa vida, de su traballu20. Un altro prodotto della tradizione tessile sarda era sa bértula, la bisaccia, portata da tutti gli uomini sulla spalla: in essa i pastori e i contadini portavano il pane e i viveri per il periodo della transumanza e per le tante giornate da trascorrere in campagna, oppure veniva utilizzata per trasportare le sementi, il latte, il formaggio e gli altri frutti della terra. Le bisacce da lavoro sono uno degli ultimi oggetti tessili che veicolano un autentico linguaggio etnico, nonché l’identità socioculturale del soggetto; il riconoscimento dei segni identitari avveniva attraverso il tessuto con cui era confezionata: scelta del filato, modalità di filatura, colorazione, composizione cromatica, motivi decorativi. In altre parole, la bisaccia si ostentava, dunque, come bandiera del proprio paese di provenienza. Le bisacce da lavoro più comuni, comunque, erano spesso semplicemente bianche, in consistente tela di lino o lana e cotone (si preferiva utilizzare l’ordito di cotone perché la stoffa così composta era più morbida e poteva adattarsi meglio alla spalla di chi la portava); le orlature che rinforzavano queste bisacce quotidiane adottavano resistenti tessuti commerciali, solitamente azzurri o scuri21. Contrariamente alla semplice bisaccia di uso comune, la bisaccia festiva ha funzione prettamente estetica ed è, pertanto, riccamente decorata e rifinita; veniva adoperata come ornamento da esporre sul dorso degli animali o sui carri durante le sfilate cerimoniali, oppure nelle case come tessuto decorativo, sempre in occasione festiva e cerimoniale22. La confezione è ottenuta da una striscia di tessuto, in genere finemente realizzata sul telaio orizzontale a licci, ripiegata sui lati corti per formare due ampie tasche
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simmetriche e speculari, rivolte su un quadrante centrale. Le decorazioni e le misure di questa tipologia di manufatti cerimoniali variano in funzione del loro utilizzo: la bisaccia di più ridotte dimensioni è adatta al dorso di un asino, mentre quella più grande a quello di un mulo o di un cavallo23. Le tecniche e i motivi decorativi utilizzati per la sua realizzazione variano in riferimento all’area di produzione. Il motivo riportato nelle tasche è per lo più floreale, con moduli di animali e altri elementi curvilinei disposti in modo simmetrico e speculare tra le due parti, mentre nel centro e nella porzione interna sono comunemente usati motivi geometrici, motivi di righe o di quadretti; le parti non in vista erano, invece, prive del ricco decoro frontale. Questi manufatti spesso riportano nella tessitura inscrizioni con datazioni, nomi dei proprietari e dediche24. Le bisacce cerimoniali venivano tessute con l’impiego di materiali più fini e pregiati rispetto a quelle di uso quotidiano, con i quali si creavano composizioni decorative complesse. Questa tipologia di prodotto artigianale domestico veniva realizzato dalle donne sin da giovanissime, per comporre il proprio corredo nuziale: infatti spesso veniva regalato all’uomo dalla sua promessa sposa come dono di nozze. Ma in genere lo sposo, da parte sua, doveva possedere, oltre alla biancheria intima, la dotazione dei manufatti tessili legati alla sua attività lavorativa, tra i quali, appunto, le bisacce25. Gli esemplari d’uso quotidiano erano meno ornati ma sostanzialmente simili per il tipo di tessuto impiegato: solitamente la bisaccia veniva confezionata con le stoffe ad armature diagonale (come l’orbace), o a spina di pesce (a ischina ‘e pische), tessute utilizzando 4 licci.
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In alcuni centri della Sardegna sembra che la produzione delle bisacce non fosse rivolta solamente al mercato locale, ma anche a quello più ampio della regione: venivano diffuse in tutta l’Isola attraverso fiere e venditori ambulanti; la vasta circolazione dei modelli ha determinato nel tempo conseguenti contaminazioni culturali. ! Se fino alla seconda metà dell’Ottocento vengono prevalentemente prodotti manufatti come copricassa, copritavolo, strisce, giraletto, corpiletto, lenzuola, asciugamani, bisacce, pani per la panificazione ed abbigliamento per un uso locale dai primi decenni del Novecento, sulla scia della rivitalizzazione che attraversa le arti applicate, si definiscono nuove categorie merceologiche e stili estetici. I copriletto ispirano scendiletto e poi tappeti da pavimento per le stanze più importanti della casa; i copribanco danno vita alla produzione, peraltro già affermata in altre regioni di Italia, dell’arazzo. Tutto in questi primi decenni del secolo sembra cambiare e ciò che non muta per funzione d uso cambia spesso nello stile e nei colori. Se fino all’Ottocento tappeti da terra e arazzi potevano essere considerati eccezioni a beneficio dei locali più facoltosi o indirizzati all’arredo di chiese e palazzi comunali, nei primi decenni del Novecento cominciano a essere disponibili per un pubblico più vasto. Queste produzioni sono poi affiancate da manufatti economicamente più accessibili che rispondono al bisogno di offrire, in uno “stile estetico locale”, oggetti d’uso quotidiano come borse, cinte, portafogli, ecc. Il mercato all’interno della quale sono inquadrate queste tipologie di prodotti non è più solo quello locale, ma si allarga al mercato cittadino e turistico. La produzione tessile moderna si è arricchita di diversi altri prodotti destinati all'arredamento della casa, sempre più frequentemente case di lusso e appartenenti a persone non native della Sardegna26: si tratta di tende, stoffe, cuscini e tovagliati, nella cui decorazione si può intravedere una lenta e moderna evoluzione, pur in
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presenza di una costante ispirazione a elementi figurativi del repertorio classico tradizionale. Nella realizzazione dei manufatti tessili la manualità delle tessitrici (rimanendo, naturalmente, in ambito artigianale) è rimasta inalterata; rispetto alla tradizione le novità riguardano i colori, la disposizione, le dimensioni e l’ordine dei motivi iconografici, che per le tessitrici di oggi non hanno più il significato sacrale e simbolico di un tempo, ma costituiscono quasi esclusivamente una decorazione. ____________________________________________________________________ NOTE I capi cerimoniali, grazie a tali tecniche complesse, sono contraddistinti da una vivace policromia e da diversi, minuziosi motivi decorativi di grande pregio estetico. 2 Cfr. L. Degioannis, La tessitura tradizionale in Sardegna. Lavorazione, tecniche e motivi a Busachi, 1
Mogoro, Morgongiori, Isili e Tonara, S’Alvure, Oristano, 1993, p. 35, 36. 3
Cfr. Costumi. Storia, linguaggio e prospettive del vestire in Sardegna, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2003,
p. 15. Si noti la nomenclatura dei capi, è quasi tutta di derivazione spagnola: mantiglia, cossu, giponi, sumbreri, ecc. (sciallu deriva invece dal francese châle). 5 Tra il 1718 e il 1720, con le trattative diplomatiche di Londra e dell'Aia, il Regno di Sardegna venne definitivamente ceduto alla Casa Savoia, già detentrice del Principato del Piemonte e di altri territori 4
continentali. I Savoia, benché insoddisfatti del nuovo acquisto territoriale, poterono così ottenere il titolo monarchico a lungo inseguito. Vittorio Amedeo II divenne il XVII re di Sardegna. La storia della Sardegna sabauda è l'ultima fase della parabola storica del Regno di Sardegna. Inizia nel 1720 e termina formalmente nel 1861, quando il XXIV re di Sardegna Vittorio Emanuele II proclama l'avvenuta nascita del Regno d'Italia. Cfr. F. C. Casula, La Storia di Sardegna, Sassari, Carlo Delfino Editore, 1998. 6 Cfr. V. Mossa, Arigianato Sardo, Carlo Delfino Editore, Sassari, 1983, pp. 233, 234, 235. 7 Cfr Costumi. Storia, linguaggio e prospettive del vestire in Sardegna, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2003. 8 G.
V. Arata - G. Biasi, Arte sarda, S.A. Fratelli Treves Editori, Milano, 1935, p. 22. Mossa, Artigianato sardo, Carlo Delfino Editore, Sassari, 1983, p. 136, 137. 10 P. Loddo, Arte tessile in Sardegna. Simboli e ornati, Delfino, Sassari, 1987. 11 La nascita dell’arazzo probabilmente si può ricondurre all’imitazione da parte delle donne sarde dei broccati francesi importati nell’isola per abbellire i costumi. Questi tessuti riccamente lavorati sono 9 V.
quindi da considerare come antenati degli attuali arazzi che, con una decorazione ricca di molti colore, portano decisamente il segno di antiche influenze straniere, cfr P. Loddo, Arte tessile in Sardegna. Simboli e ornati, Delfino, Sassari, 1987. 12 La tessitura, vincolata dagli “incontri” forzati delle linee orizzontali (trama) con quelle verticali (ordito), non dà possibilità di ottenere forme particolari. 13 C. Albizzati, Tapino de mortu, in Mediterranea, a. 1, fasc. 9, 1927. Questo scritto è la prima trattazione specifica, svolta in maniera ampia, per i tessuti di tradizione sarda, è una fonte essenziale
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non ancora superata nella considerazione di questi esemplari abbastanza singolari, fondamentale per aver illustrato per primo un esemplare di tapinu e aver dato notizie su questa categoria di manufatti. 14 M. Mura. Tessitura tradizionale della Sardegna, un caso particolare, Gallizzi, Sassari, 2001, p. 52. 15 Tessuti. Tradizione e innovazione della tessitura in Sardegna, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2006, p. 34. 16 Questa consuetudine si collega con l’uso in ambito logudorese, ma probabilmente anche in diverse aree geografiche della Sardegna, di avvolgere la salma del defunto con una coperta di esecuzione tradizionale. Tale costume stabilirebbe un qualche rapporto con la destinazione funeraria del tapinu. 17 P. Loddo, Arte tessile in Sardegna. Simboli e ornati, Delfino, Sassari, 1987, p. 50. 18 Il vocabolo dovette essere impiegato inizialmente per indicare un tipo di drappo con determinate caratteristiche di tessitura e formò poi, in unione con il termine “de mortu”, un’espressione indicante un particolare manufatto che svolse una funzione negli usi funebri barbaricini. 19 G. Carta Mantiglia, La tessitura. Materiali e tecniche della tradizione, in Il museo etnografico di Nuoro, a cura di P. Piquereddu, Sassari, 1987, didascalia alla fig. 16. 20 “La bisaccia dei poveri, della vita, del lavoro”. 21 Tessuti.
Tradizione e innovazione della tessitura in Sardegna, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2006, p. 192 Capitaleddhi (cuscini da sella) erano realizzati per la cavalcata femminile; solitamente coordinati con una bisaccia, venivano utilizzati nelle occasioni festive, come i matrimoni o le feste religiose, durante i quali uomo e donna cavalcavano insieme. 22
23 In
media, comunque, misurano circa un metro per cinquanta centimetri. www.mediterraneancraftsarchive.it 25 Tessuti. Tradizione e innovazione della tessitura in Sardegna, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2006, p. 185. 26 Assume un peso rilevante il cosiddetto “Stile Costa Smeralda”: la produzione odierna, pur 24 Cfr
conservando i colori della tradizione, si è adeguata alle richieste del mercato turistico in cui prevalgono nuovi tappeti abbondantemente cresciuti di dimensione; i colori caldi e intensi della tradizione lasciano il posto a varie tonalità di azzurro e altre tinte fredde, mentre delle decorazioni acquistano sempre più spazio i motivi iconografici - che, nella disposizione, non rispettano le antiche regole di composizione - della flora e della fauna, soprattutto il motivo decorativo della pavoncella, quasi un marchio della Sardegna. Tutto questo è dovuto alla perdita del significato simbolico attribuito ai decori tradizionali, sia alla domanda del mercato trainato dalle richieste dell’industria turistica proveniente dalla Costa Smeralda.
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MOTIVI DECORATIVI L’essenzialità delle materie prime e delle tecniche, viste precedentemente, si complica al momento della decorazione: il tessuto diventa come la tela di un quadro, in cui l’artigiana distende con abbandonata fantasia le figure stilizzate degli ornati e le lussureggianti immagini delle mustras, autentici stemmi dell’araldica popolana1.
Ricercare le fonti dei motivi tipicamente regionali impressi sulla tela o scoprire l’origine della produzione di un dato popolo, è sempre stata impresa ardua, compito estremamente difficile di quanti si sono occupati di produzione decorativa artigiana. Impresa tanto ardua che molti studiosi, non riuscendo a individuare le sorgenti di certi motivi folkloristici perpetuatisi nei secoli, ridussero le questioni in termini molto semplici: dissero che le stoffe, per esempio, o i tessuti che noi vediamo riprodotti nella maggior parte della produzione europea, non sono che ripetizioni di modelli antichissimi di origine orientale. Possiamo accettare questa conclusione semplicistica solo in parte, perché innanzitutto il clima e l’ambiente influenzano l’individuo, che inconsapevolmente finisce col lasciare un’impronta personale anche sulla copia del modello importato. E la Sardegna in particolare ha subìto le diverse influenze quasi di riflesso e infatti i caratteri regionali sono così chiari e ben definiti che la produzione isolana si distingue subito da altra di genere. In realtà, nella grande massa dei tessuti e dei tappeti, l’influenza orientale ha avuto certamente una cospicua parte, poiché - aldilà delle aggiunte apportate dalla fantasia degli artefici - è un fatto storico assodato che nei secoli dopo il Mille - e cioè dall’epoca dell’importazione dei magnifici tappeti venuti dall’Oriente e soprattutto dalla Persia - essi siano stati i modelli quasi universalmente ammessi e accettati da tutte le scuole d’Europa2.
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L’artigianato tessile sardo è fortemente caratterizzato tanto da risultare, come già detto, facilmente distinguibile tra i manufatti italiani ed europei. I motivi decorativi risalgono ad epoche diverse, antichissime e più recenti, e ognuno di essi testimonia le vicende storiche, culturali e commerciali di cui l’Isola fu protagonista. I diversi influssi sono stati assimilati dalla tradizione che li ha reinterpretati in base ai suoi codici tecnici e stilistici, facendoli propri3. Nelle zone maggiormente aperte agli scambi culturali e commerciali - zone costiere e loro immediati entroterra - venivano realizzati manufatti attraverso i quali è piuttosto evidente l’eredità delle diverse popolazioni che hanno avuto contatto con l’Isola: decorazioni e simboli di origine precristiana, elaborazioni locali di moduli e temi decorativi bizantini, rinascimentali e barocchi si manifestano infatti con decine di varianti4. I motivi decorativi erano, soprattutto anticamente, differenziati secondo i centri e le aree di produzione: un tempo ogni paese era identificato da una propria mustra5 (mostra), ovvero il motivo dominante della composizione, posto generalmente nella zona centrale; ad essa fanno seguito tutti gli altri elementi ornamentali che vengono disposti a riempimento e che in alcuni casi proprio da quello centrale si dipartono. Le mostre sono infinite per varietà, e documentano la fertile inventiva delle tessitrici, che hanno trovato modo di dare un nome a quanto creano, oppure ripetono per tradizione. Caratteristica delle decorazioni sui tessili sardi sono: - la simmetria - la ripetizione ritmica - la stilizzazione - la rappresentazione su un piano senza prospettiva né profondità - la tendenza a evitare ogni spazio vuoto tra i motivi principali: per questo horror vacui nascono numerosissimi motivi minori, piccoli e piccolissimi, che contribuiscono a infittire le composizioni decorative principali rendendole ancora più ricche e colorate6.
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É stato calcolato7 che i motivi e i simboli ricorrenti nell’arte popolare sarda della tessitura siano ben più di cento: quasi 100 motivi/simboli e più di 20 mustras diverse: ognuna col suo nome, ognuna con la sua storia, ognuna con una sua capacità evocativa, quasi con un cifrato messaggio magico. I vari tipi di decorazioni, che coesistono nelle diverse aree, possono suddividersi in quattro grandi gruppi: - motivi geometrici, sono i più antichi e i più semplici, presenti in tutte le culture; rappresentano un decoro sintetico e astratto, ma carico di significati emotivi e religiosi, con funzioni anche scaramantiche e talismaniche8.
- motivi vegetali e floreali, come l’albero della vita presente nella tessitura di tutta la Sardegna e simboleggiante il carattere ciclico dell’esistenza umana o i tralci di vite (sa mustra de sa ide) con grappoli d’uva, che sottintendono l’eucarestia e sono simboli di fertilità; oppure di origine orientale la peonia (simbolo di ricchezza), il fiore di loto (emblema di purezza), il melograno (sa mustra de su melagranadu simbolo di fecondità, fertilità, ricchezza); oppure la rosa, che in ambito cristiano rappresenta la trasfigurazione delle gocce del sangue di Cristo; - motivi animali, il più diffuso dei quali è sicuramente il cavallo (sa mustra de su caddu), con o senza cavaliere, incarnazione simbolica di forza e virilità, ma anche l’aquila, universalmente riconosciuta come simbolo di divinità e di ascesa spirituale, o il pavone, che nell’arte paleocristiana rappresenta Cristo e quindi la resurrezione e l’immortalità;
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- motivi antropomorfi, come la cavalcata degli sposi (sa mustra de su cavalleris e de sa dama) o il ballo sardo (sa mustra de su ballu); - nel quarto gruppo, di carattere composito, possono compendiarsi simboli religiosi, araldici ed emblematici, come l'aquila bicipite, torri, castelli, ostensori, candelieri, grifoni, figure mitologiche, astri9. I motivi di origine tipicamente orientale sono qui, come nel resto dell’Europa, gli animali disposti l’uno di fronte all’altro, separati da un motivo vegetale, o gli uccelli simmetrici, messi dentro motivi ornamentali. La figurazione-simbolo aggiunge qualcosa di diverso al semplice ornamento. Probabilmente la maggior parte dei motivi decorativi aveva in origine un significato simbolico, ben noto a chi li tesseva. Le varie dominazioni a cui è stata sottoposta l’isola hanno, col tempo, fatto perdere ad alcune composizioni il significato originario dei motivi e loro valore simbolico, che era nato in modo razionale e coerente, secondo uno schema logico.
Il colore Notevole importanza riveste, inoltre, la composizione cromatica che accompagna ciascun motivo e che ne determina in alcuni casi il significato. La colorazione della materia prima, un tempo eseguita con sostanze ricavate dal mondo vegetale o animale e quindi praticata dalle stesse tessitrici, è stata sostituita, come abbiamo visto, dai colori artificiali, attraverso procedimenti di laboratorio, tecnica che snellisce i tempi di lavorazione ma non dà al prodotto finito quella
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qualità del passato, superiore sia per quel che riguarda la penetrazione nella fibra tessile, sia per la gamma delle variazioni cromatiche, anche casuali, tipiche proprio dell’opera artigianale. Per questo, in alcuni paesi, si sta tornando ai procedimenti di tintura del passato (vedi § 1). É anche vero, peraltro, che la colorazione chimica garantisce l’inalterabilità del colore, secondo quanto viene richiesto dal mercato non interessato a quell’impreziosimento del tessuto dovuto alla patina del tempo10. Anche per quanto riguarda i colori si possono distinguere aree dove essi sono più scuri, cupi ed austeri, per esempio nei paesi dell’interno e nelle zone di montagna; mentre invece in altre aree, quelle vicine al mare ed ai grandi centri urbani, essi hanno note più squillanti; mentre note fredde e basse si possono trovare nel Sassarese e nel Cagliaritano. Il tappeto antico si distingue dal moderno per l’assenza assoluta dei colori viola, verde e rosa, creazione dei colori all’anilina, propri delle attuali lane meccaniche. Non è però raro che, su un antico tappeto, si siano effettuati malamente dei restauri o ripassi con lane moderne e con palese contrasto. Il colore dominante negli antichi è il rosso bruno, ruggine, e poi nero, indaco, bianco, giallo e alcune pallide tinte, che possiedono un sorprendente effetto e durata.
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INCONTRI FRA ARTE E ARTIGIANATO NELLA TESSITURA SARDA: L’INTERVENTO DEGLI ARTISTI
Per tutto il Novecento e oltre, le vicende della tessitura sarda, così come dell’artigianato artistico in generale, si svolgono all’insegna della contrapposizione binaria “tradizione - innovazione”. Queste sono le due linee che caratterizzeranno lungo tutto il secolo gli interventi degli artisti nella tessitura sarda11: ripresa del passato e innovazione, “tradizione” e “modernità”12. EUGENIO TAVOLARA Pittore, scultore, ceramista, designer e produttore di giocattoli, tappeti, cestini; è difficile sintetizzare la molteplice attività di Eugenio Tavolara, artista insolito e originale nel panorama italiano tra il primo e il secondo dopoguerra. Nato a Sassari nel 1901, si dedicò a varie espressioni artistiche 13 . Fortemente interessato alla manifattura artigianale in genere, aveva iniziato una radicale azione riformatrice dell’attività del telaio14. Con la volontà di far nascere una spontanea arte popolare, contribuì al recupero di quelle peculiarità dell'artigianato artistico sardo che rischiavano di perdersi, rivitalizzando l’intero settore. Il folklore per lui era un punto di arrivo, non di partenza; il punto di partenza era invece il riuso aperto, colto e intelligente della tradizione15. Dal 1950 incomincia a lavorare, accanto all’architetto Ubaldo Badas, per l’ente regionale che sovrintende alla produzione artigianale, l’ISOLA16. La sua attività, paziente e intelligente, inizia con una capillare ricognizione - svolta viaggiando attraverso tutti i centri di produzione della Sardegna - parlando, come riferisce, con tutti e tracciando un quadro della situazione. Poi passa alla fase didattica vera e propria, anch’essa svolta capillarmente, in cui tenta di educare il gusto, preparando i disegni e reintegrando le conoscenze riguardanti l’uso del colore e persino delle tecniche17. Tra il 1950 e il
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1962 disegna una quantità impressionante di tappeti, arazzi e stoffe. Grazie al suo metodo il passaggio dall’antico al nuovo si compiva per tappe successive che portavano a una crescita lenta e senza scosse del grado di innovazione18. Superate, grazie a un rapporto diretto, la diffidenza e le resistenze degli artigiani, Tavolara e Ubaldo Badas erano riusciti a realizzare quella collaborazione tra ideatori ed esecutori tanto auspicata e così difficile da mettere in pratica; il risultato era un artigianato che non si reggeva più su qualche nome isolato ma si presentava come un tutto organico. Da questa riforma, attraverso le proposte di vari artisti, anche dopo la scomparsa di Tavolara, si è continuata in Sardegna una bella produzione di tappeti moderni. MAURO MANCA Figura di artista estroverso, dall'entusiasmo contagioso e dal forte carisma personale, Mauro Manca (1913-1969) è colui che negli anni Cinquanta, in una Sardegna ancora fortemente condizionata in campo artistico dal permanere delle poetiche primonovecentesche, appare come il portatore del nuovo19. Apre infatti la strada alla sperimentazione, divenendo il principale rappresentante di un indirizzo volto alla totale “modernizzazione” della produzione tessile sarda, con l’adozione di forme e motivi ignoti al repertorio tradizionale. La sua concezione della creatività locale era finalizzata al design, a quella “riproducibilità tecnica” che si avvale dei risultati della ricerca progettuale20. Nonostante la sua modernizzazione - che conduce inevitabilmente a risultati fortemente interpretativi - è per via del mantenimento dei materiali, dei processi tecnici, del tipico cromatismo e del senso araldico delle superfici che queste, nel loro insieme, appaiono coerenti rispetto alla tradizione tessile dell’Isola21, soprattutto se confrontati con tanta merce inautentica22. ALDO CONTINI Il suo impegno di scultore e designer lo porta in breve tempo a divenire il braccio destro di Tavolara, che lo chiama a lavorare all'ISOLA (Istituto Sardo Organizzazione Lavoro Artigiano) dal 1959 al 1962, periodo in cui si dedica all'attività di riorganizzazione e orientamento artistico dell'artigianato sardo,
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fornendo progetti per il settore del tessuto, della ceramica, del legno, del ferro battuto. Contini offre un’interpretazione individuale del “rinnovamento della tradizione”, in linea con la volontà di intercettare le tendenze del gusto contemporaneo23; i tappeti e gli arazzi che progetta si caratterizzano per la ripetizione ritmica di uno o due motivi dalle forti cadenze geometriche, e per l’uso di tinte vivaci e contrastate; la modernità dell’effetto deriva dall’ingrandimento di motivi che nella tessitura tradizionale hanno dimensioni minime24. MARIA LAI Artista giustamente definita poliedrica, partita come scultrice sulle orme di Francesco Ciusa25 prima e di Alberto Martini26 poi, ma in seguito interessata all’Arte Povera27, agli assemblage28, alla Land Art29, alla scrittura. Nella sua produzione i telai30 hanno sempre trovato uno spazio privilegiato: è il telaio, con le geometrie di trama e ordito scompigliate e interrotte dal tracciato di fili volanti, che si accampa sul fondo chiaro del tappeto progettato dall’artista e realizzato a Zeddiani nel 1981. Ha progettato vari tappeti da far realizzare su suo disegno a tessitrici di diversi paesi, ma è stata soprattutto la cooperativa tessile “Su Màrmuri” del suo paese nativo, Ulassai, che ha collaborato maggiormente con l’artista e tutt’ora affianca al repertorio decorativo tipico dell’artigianato della Sardegna i motivi scaturiti dal suo intervento31. Non sono solo gli artisti sardi - oltre i già citati, ricordiamo Mario Delitala, Salvatore Pirisi, Bruno Contieri, Paola Dessy, i pittori Aligi Sassu e Antonio Corriga, lo scultore Costantino Nivola, Piero Zedde - a proporre bozzetti per la tessitura in Sardegna, esiste anzi un complesso progetto culturale e produttivo, promosso dall’A.R.P. Studio di Oristano32, che ha fatto conoscere per tutta l’Europa la traduzione in tappeti, tessuti a Zeddiani, di progetti espressamente ideati da noti
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artisti e architetti contemporanei, da Alinari a Veronesi, passando attraverso Del Pezzo, Morandini, Natalini, Rotella, Rossi33. La prima mostra Taccas. Nuovi tappeti sardi34, organizzata a Nuoro nel 1987, aveva come proposito quello di verificare la capacità della tecnica tradizionale di rendere una varietà di percorsi individuali molto caratterizzati35; infatti nessuno degli interventi si ricollegava alla tradizione tessile sarda.36 Se pure non hanno molto a che vedere con la Sardegna queste opere vanno ricordate nel quadro del rinnovamento delle forme tessili nell’isola.
NIETTA CONDEMI DE FELICE Il suo percorso artistico è legato alla sperimentazione nel campo delle arti visive e della tessitura condotta a livello di ricerca e di comunicazione visiva sugli elementi dell'intreccio e della materia. Sperimenta nel campo della tessitura rompendo la tradizionale bidimensionalità del tessuto per tentare avventure plastiche che conquistano lo spazio con ritmi diversi37. Con l'uso anche di materiali alternativi ai filati, come carta tinta a mano e ritorta, nastri e fili metallici, bacchette di legno, inserti nella tessitura, crea esiti di notevole suggestione visiva e tattile, dall’effetto scultoreo. “La parola d’ordine è tridimensionalità”38. Un prodotto molto interessante, frutto di questa esplorazione delle potenzialità plastiche della tessitura, è il tappeto ludico-didattico per bambini in età prescolare39 che, grazie all’utilizzo di diverse tecniche di tessitura, presenta ondulazioni, superfici in tridimensione, inserti che creano una storia a livello tattile40. Nietta Condemi de Felice ha partecipato, curato, promosso e coordinato iniziative culturali ed eventi per associazioni, enti pubblici e privati
inerenti alla
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valorizzazione della Tessitura e delle Arti Visive. In particolare voglio citare la manifestazione Tappeti d’autore promossa nel 2006 dal Comune di Nule, grazie alla quale artisti, designer, stilisti progettano tappeti che vengono poi realizzati dalle tessitrici di Nule e poi presentati all’interno della rassegna internazionale Miniartextile di Como41.
CAROLINA MELIS Dopo un percorso poliedrico di 15 anni all’estero come designer, illustratrice e regista di film di animazione, fa ritorno in Sardegna, per progettare per l’artigianato. Nei suoi lavori traspare la capacità di cogliere l’universale anche nel patrimonio locale. Il lavoro di Carolina Melis, con il suo brand MioKaro, è molto lontano dal folklore, e soprattutto, come lei sottolinea, non è solo un progetto artistico, ma l'obiettivo principale è commerciale.
“L'artigianato non deve essere visto solo come tradizione etnica ma capire che al momento hand made è sinonimo di lusso. La manifattura made in Italy sta facendo numeri strepitosi in paesi come la Cina, l'Arabia Saudita e i paesi dell'ex Unione
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Sovietica. Penso che l'unico modo per conservare le attività artigianali sia conoscere e rispondere ai mercati e fare un discorso economico attraente sia per chi sceglie questo come mestiere sia per chi investe. É questo quello che porto di nuovo nel contesto della tradizione, non solo un restyling della pavoncella. Tradizione e contemporaneità oggi non vuol dire rivoluzionare il disegno ma rendere contemporaneo il modo in cui il disegno si presenta al pubblico. Presentare il prodotto con le parole giuste”. Il segreto é: comunicare in modo moderno 42. Collabora con la cooperativa Su Màrmuri di Ulassai, poi con Su Trobasciu a Mogoro43. Nel 2010 l’ISRE44 le ha commissionato il corto “Le fiamme di Nule”45, un poetico racconto sul lavoro della tessitura, che ha ricevuto diffusi e importanti consensi.
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“Tradizione e moderno quindi si compenetrano, seguendo la strada maestra creata dal gesto, unica memoria della cultura antica e popolare della Sardegna”.
____________________________________________________________________ NOTE 1 AA.VV.,
Tessitura di Sardegna, Catalogo generale, Cagliari 1994, ISOLA. G. V., BIASI G., Arte sarda, S. A. Fratelli Treves Editori, Milano, 1935, p. 37,38. 3 Capitava che ciascuna tessitrice potesse apportare con spontaneità una serie di modifiche, scelte secondo un arbitraria attribuzione di valore o significato alle immagini tradizionali o una propria 2 ARATA
inclinazione del gusto. In questo modo il manufatto si arricchiva di un contenuto simbolico per la tessitrice. 4 MORITTU R., PAU A., L’eredità del fare. Archivio dei Saperi Artigianali del Mediterraneo: percorsi di ricerca in Sardegna e Marocco, Edizioni ETS, Pisa, 2012. 5 In questi ultimi decenni motivi commerciali e di altra natura hanno eliminato questa caratteristica. 6
DEGIOANNIS L., La tessitura tradizionale in Sardegna. Lavorazione, tecniche e motivi a Busachi Mogoro, Morgongiori, Isili e Tonara, S’Alvure, Oristano, 1993, p. 73. 7 AA.VV. Tessitura in Sardegna, Catalogo generale, Cagliari 1994, ISOLA. 8 PIQUEREDDU P., Tessuti. Tradizione e Innovazione della tessitura in Sardegna, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2006. LAO L., Artigianato artistico sardo. Tradizione e innovazione, Silvana Editoriale, ISOLA, Sassari, 1983, p. 34. 10 LODDO P., Arte Tessile in Sardegna. Simboli e ornati, Sassari, 1987, p. 27. 9
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11 Il
punto di partenza per una produzione intensa e significativa di tessiture d’artista nel Novecento si
è verificata con l’avvento del déco. L’esposizione delle arti decorative e industriali moderne di Parigi del 1925 è infatti per il tappeto e l’arazzo, come per le altre arti applicate, una data cruciale. VIRDIS L. C., Sul filo dell'arte. Tessiture d'artista in Sardegna, Charta, Milano, 2001, p. 13, 14; R. BOSSAGLIA, L’Art déco, Laterza, Bari, 1984. 12
Cfr. PIQUEREDDU PAOLO (a cura di), Tessuti. Tradizione e innovazione della tessitura in Sardegna, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2006 p. 384. 13 L’aspetto più sorprendente e singolare della sua attività è la produzione, con il collega Antonio Anfossi, di giocattoli di legno di straordinaria qualità e ironia - Un popolo di legno. Questi giocattoli si tratta di pupazzi - sono di soggetto e di stile sardo, ma va aggiunto, che sono oggetti compiutamente déco. Fu proprio la riflessione sullo stile locale, quella nudità degli schemi, quella calcolata simmetria, quella stilizzazione puntigliosa, di cui Arata e Biasi parlano a proposito dei tessili, a fornire a Tavolara e Anfossi la chiave per la rilettura della tradizione in chiave déco. Tavolara, dunque, che è un critico feroce nei confronti del puro folklorismo nelle arti applicate, trasforma la suggestione dell’artigianato in oggetto artistico. Cfr. VIRDIS L. C., Sul filo dell'arte. Tessiture d'artista in Sardegna, Charta, Milano, 2001, p. 24. 14 VIRDIS L. C., p. 21. 15 ALTEA G., Eugenio Tavolara, Ilisso, 1994, p. 155. 16
Istituto Sardo Organizzazione Lavoro, ente della Regione Sardegna costituita con la Legge Regionale 2 marzo 1957, n. 6 e soppressa con la Legge Regionale 11 maggio 2006, n. 4, (art. 7 comma 3). La sua direzione fu affidata ad Eugenio Tavolara e Ubaldo Badas. Scopo primario dell'ente era la promozione dell’artigianato locale in ambito regionale, nazionale e internazionale, favorendo, incentivando, valorizzando e diffondendo la cultura ed i prodotti della Sardegna. L'I.S.O.L.A operava non soltanto attraverso otto centri-pilota creati in alcuni dei paesi a più alto spessore di tradizione della tessitura, ma anche con artigiane singole o riunite in cooperative. La Delibera n. 20/29 del 22 maggio 2013 “propone di riorganizzare in modo coordinato e centralizzato la funzione dei Centri Pilota attraverso l’istituzione di una Rete dei Centri della Tradizione Artigiana. La Rete, finalizzata alla
tutela, valorizzazione, conoscenza e promozione dell’artigianato tradizionale artistico potrà essere sia uno strumento per la diffusione nel territorio della cultura e dei saperi legati alla tradizione artigianale, sia l’occasione per nuove opportunità lavorative”. Personalmente, sono molto scettica a riguardo. 17 Cfr. BRIGAGLIA M., CONTINI A., MOSSA V., Omaggio a Eugenio Tavolara, catalogo della mostra, Gallizzi, Sassari, 1969. metodo dell’artista si fondava nella quasi totalità dei casi sul prelievo da stoffe antiche di motivi decorativi tradizionali, che venivano poi ricomposti secondo nuovi assetti, ritmi, proporzioni. La composizione veniva studiata, oltre che per mezzo di disegni, tramite dei collage fotografici; una volta
18 “Il
raggiunta la soluzione progettuale desiderata, il tessuto che ne derivava era a sua volta fotografato, per diventare punto di partenza di ulteriori trasformazioni”. PIQUEREDDU P., p. 391. 19 ALTEA G., MAGNANI M., Mauro Manca, Ilisso, Nuoro, 1994. 20 VIRDIS L. C., p. 23. 21 Inoltre, nei tappeti di Manca, è molto presente il tema nuragico della preistoria sarda, che viene spesso richiamato direttamente, attraverso sintetiche figurazioni ispirate ai bronzetti nuragici. Cfr. PIQUEREDDU P., p. 398. 22 LODDO P., Arte Tessile in Sardegna. Simboli e ornati, Carlo Delfino Editore, Sassari, 1987, p. 17 23 Pop e Optical.
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24 PIQUEREDDU
P., p. 397.
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«La scultura moderna comincia in Sardegna con Francesco Ciusa (1883 - 1949), artista la cui vicenda assume per il mondo intellettuale sardo del primo Novecento un valore quasi mitico. La premiazione, alla Biennale di Venezia del 1907, del suo gesso La madre dell’ucciso viene interpretata dai conterranei come un evento simbolico, che apre una nuova era per la cultura isolana. Ciusa diventa quindi il “primo scultore”, come la Deledda era la prima scrittrice». Cfr. ALTEA G., Francesco Ciusa, Ilisso, Nuoro, 2004, p. 7. 26 Alberto Giacomo Spiridione Martini (1876 - 1954) è stato un pittore, incisore e illustratore italiano, precursore del movimento surrealista. 27
Tendenza artistica che, rifiutando i valori culturali legati a una società organizzata e tecnologicamente avanzata. Nel ricorso a materiali poveri, “anti-artistici” (stracci, cartapesta ecc.), l’arte povera si pone come presa di coscienza delle possibilità espressive insite nella materia vegetale, animale, minerale o persino in un processo mentale elementare. Cfr. Enciclopedia Italiana Treccani. 28 Nel linguaggio della critica d’arte, nome dato a composizioni formate da oggetti, o parti di essi, generalmente applicati a un supporto; usata già dai cubisti, dai dadaisti, dai surrealisti, nel secondo dopoguerra la tecnica dell’assemblage ha assunto particolare importanza come mezzo di passaggio dall’espressionismo astratto alla pop art, ed è stata adottata da numerosi esponenti del nouveau réalisme e dell’arte povera. Cfr. Enciclopedia Italiana Treccani. 29
Forma d’arte contemporanea, nota anche come earth art, earth works («arte della terra», «lavori di terra»), sorta intorno al 1967 negli Stati Uniti e caratterizzata dall’abbandono dei mezzi artistici tradizionali per un intervento diretto dell’operatore nella natura e sulla natura. In tale scelta era insito un rifiuto del museo, come luogo dell’opera d’arte, e del mercato artistico: le opere hanno per lo più carattere effimero e restano affidate specialmente alla documentazione fotografica e video, a progetti, schizzi ecc. Gli artisti che hanno individuato nella natura la loro area operativa, infatti, non puntano tanto al risultato quanto al processo e alla realizzazione di un’esperienza esemplare. Cfr. Enciclopedia Italiana Treccani. 30 Immagine della fabrilità femminile e sarda a un tempo, il telaio diviene il soggetto di fantasiosi assemblage di varie titolazioni, composti di legno, tela e spago, magari integrati con sabbia. Cfr .VIRDIS L. C, p.21. 31 Maria Lai è sicuramente la madrina indiscussa del lavoro di questa grande squadra composta da sei donne, che, oltre ai motivi classici della tradizione sarda, ormai da anni ne riproduce le meravigliose opere. Da più di un decennio eseguono con passione il loro lavoro sul vecchio telaio a mano, portando avanti con maestria vecchie tecniche lavorative che dal 1971 son state più volte tramandate nella Cooperativa tessile femminile. Oggi, a loro volta, insegnano l’arte alle loro allieve, diciotto ragazze di tutte le età. www.sumarmuri.it 32 Con
il sostegno dell’ISRE (Istituto Superiore Regionale Etnografico). L. C., p. 21 34 Taccas. Nuovi tappeti sardi, Catalogo della mostra, ISRE, Nuoro, 1987. 35 Cfr PIQUEREDDU P., p. 408 36 Per Arp Studio Taccas doveva segnare l’inizio di un percorso ventennale della tessitura sarda, i cui 33 VIRDIS
esiti on hanno avuto, però, nel contesto locale, l’eco che si aspettava. Tuttavia, l’attività di coinvolgimento di noti progettisti da parte della Arp Studio è proseguita oltre. Per approfondimenti: Cfr PIQUEREDDU P., p. 406, 408, 409, 410; Taccas. Nuovi tappeti sardi, Catalogo della mostra, ISRE, Nuoro, 1987.
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37 www.sardegnacultura.it 38 Intervista
a Nietta Condemi De Felice, www.sardegnadigitalibrary.it orale della Sig.ra Nietta Condemi de Felice, ottobre 2013. 40 Il gioco delle superfici è molto importante, a livello tattile, per l’acquisizione dei concetti dell’alto e del basso (il cielo è tessuto con la tessitura a stuoia di Nule, il prato con l’annodato di Dorgali, la 39 Comunicazione
strada con la tessitura rasa), del dentro e del fuori (finestrelle create inserti di trame supplementari). 41 Miniartextil è una rassegna annuale d’Arte contemporanea, capace di proporre la migliore produzione artistica internazionale nell’ambito della Textile Art o Fiber Art, quel settore dell’arte contemporanea che riprende antiche nozioni tessili rivoluzionandone, tuttavia, schemi e materiali. www.miniartextile.it Paolo, L’ordito e le trame di Carolina. La Sardegna nuova frontiera, in La Nuova Sardegna, 8 agosto 2013. 43 Per ogni paese realizzo un disegno diverso, qualcosa che richiama la tradizione del luogo e si sposi con la tecnica. Nule è il paese delle forti geometrie, del fiammato e dei colori. Ad Ulassai sulle orme 42 Curreli
di Maria Lai ho realizzato una serie in bianco e nero che richiama la Sardegna in chiave moderna: Le Quattro Stagioni. Per Mogoro ho fatto due motivi per arazzo Mattina e Sera: un disegno più decorativo e romantico. 44 Istituto Superiore Regionale Etnografico. 45
Presentato a Cagliari nei locali del Museo Etnografico Regionale della Cittadella dei Musei il 5 marzo 2010. Il film è stato interamente prodotto dall’Isre attraverso il concorso AViSa (Antropologia Visuale in Sardegna). É la storia di Anna, Maria e Rosa, tre tessitrici di Nule in Sardegna, che partecipano a un concorso: avranno una settimana di tempo per tessere i tappeti; i giudici sceglieranno il pezzo che meglio rappresenterà il loro villaggio. Anna lavora su un tessuto in cui forme e colori si sposano perfettamente, la geometria è impeccabile. Rosa è ispirata alla natura dei fiori e il suo tappeto mostra il motivo il più bello e romantico. Maria riflette, prende tempo prima di iniziare il suo design. Trascorre la settimana nel villaggio passeggiando tra le persone riunite nei campi e osservandole nei giorni che passano. Anna e Rosa si domandano quando e se mai inizierà il suo tappeto. E’ la sera prima del giorno del verdetto. Il villaggio è addormentato. Improvvisamente la luce in casa di Maria si accende, finalmente inizia a lavorare sul suo arazzo. Il suono del suo telaio invade il villaggio per tutta la notte, eppure c'è qualcosa di strano in questo, non è il battito normale della navetta che bussa la trama, ma è la musica di un coro di molte voci e molti toni . Arriva il giorno del giudizio. Rosa presenta il suo tappeto. E 'il disegno più bello, così complesso e dettagliato appare come un ricamo. Anna apre la finestra e srotola il suo arazzo. Il tessile è così lungo che si estende per tutta la strada, da casa sua fino all'ingresso di Nule. Si tratta di un impressionante tappeto le cui forme si sposano perfettamente e in tutta la sua lunghezza non c'è un solo errore. Infine, Maria rivela il suo tappeto. E 'un tessuto molto insolito. Non perfetto, né bello, ma sembra vivo. Lei spiega: “Il mio regalo per Nule è Nule stessa. Bella, sì, ma non perfetta. Armonica, sì, ma non sempre in sintonia. Amichevole, sì, ma a volte litigiosa. Ordinata, sì, ma a volte in confusione. Sono stata a guardare a noi tutti, come lavoriamo, come amiamo, come viviamo e anche se alcune delle mie forme non sono in forma e anche se alcuni dei miei colori si scontrano, siamo quel mix e questo è il mio dono”.
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