Valeria Di Paola - Innesti

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INNESTI

La città sospesa sul pilone di Messina Valeria Di Paola

Università degli Studi di Catania | Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura (DICAR) Corso di Laurea in Ingegneria Edile - Architettura | a.a. 2015/2016

Relatore: Prof. Ing. Sebastiano D’Urso | Correlatore: Ing. Emanuele Forzese



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Introduzione Innesti. La città sospesa sul pilone di Messina

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Architettura Terza

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La categoria della percezione

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L’Interactive Design

Il Manifesto del Terzo Paesaggio Vuoti urbani Definizione di Architettura Terza Quattro categorie di dispositivi La dignità nell’abbandono Il paesaggio della velocità The View From the Road Learning From Las Vegas Il paesaggio dell’altezza

Definizione di Interactive Design Applicazione in architettura Cognitive User of Architecture


L’immagine di Torre Faro 50

Torre Faro

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L’ex elettrodotto

La punta estrema dell’Isola Le opportunità del territorio La progettazione Le fasi di realizzazione I tralicci dell’alta tensione

Una nuova identità 78

L’indagine preliminare

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Il concept

Osservazione del quartiere Altre costruzioni simili L’idea progettuale

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Lo spazio pubblico

Un parco sulla spiaggia L’effetto dell’ombra

La fondazione Un’occasione culturale

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Gli innesti


Il livello architettonico Il ristorante sullo Stretto 160

Bibliografia

165 Sitografia



Quando le torri di trasmissione avranno la stessa purezza di espressione che è stata raggiunta per i grandi ponti, anch’esse verranno acclamate come una forma d’arte del XX secolo. Naturalmente c’è una differenza. Noi affrontiamo i ponti in modo personale: li attraversiamo. Invece il nostro solo contatto con le torri di trasmissione è molto remoto. La sola cosa che le attraversa davvero è l’elettricità. E così noi siamo psicologicamente più condizionati ad accettare un ponte con maggior facilità che non un palo dell’alta tensione. Henry Dreyfuss


Introduzione Quando si parla di infrastruttura? In generale questa viene definita come intervento artificiale sul territorio, volto ad aiutare la collettività a soddisfare i propri bisogni, attraverso il trasporto e la produzione di materia. Rientrano all’interno della categoria tanto edifici di servizio come gli ospedali, le scuole o le carceri, quanto le reti di trasporto e comunicazione, come gli acquedotti, le strade o le ferrovie. Simbolo di modernità nella prima metà del ‘900, l’infrastruttura è successivamente diventata un supporto del tutto ordinario nel processo di trasformazione dello spazio urbano, pur essendo in grado di plasmare l’aspetto delle città. Impossibile immaginare un mondo senza infrastrutture, eppure progressivamente nel corso del tempo, l’architettura si è in generale comportata nei loro confronti con molta sufficienza, delegandone il progetto, l’esecuzione e la gestione, ad altre competenze e discipline, ritenute, senza dirlo apertamente, un po’ di second’ordine, culturalmente limitate e settoriali.1 La stessa letteratura inerente le trasformazioni del territorio e del paesaggio, non si è mai soffermata veramente sulla questione del rapporto fra architettura e infrastruttura, concentrandosi perlopiù su tematiche riguardanti gli aspetti culturali, sociali e produttivi, piuttosto che sull’aspetto progettuale, relegato invece, alla manualistica tecnica. La sperimentazione recente interviene sull’infrastruttura con un’attenzione localizzata, trattandola cioè per singole parti, nell’ambito

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Peter Andrew Lusztyk - Black Canyon Freeway, Phoenix

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Peter Andrew Lusztyk - Red Mountain Freeway, Phoenix

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delle quali si sviluppa la dimensione architettonica, il più delle volte attraverso una serie di interventi di dettaglio, di adattamento al contesto e di inserimento paesaggistico. Questo si manifesta in maniera evidente nelle strategie messe in atto in numerose città europee, dove si assiste al sistematico utilizzo dell’architettura come dispositivo retorico per interpretare il ruolo simbolico di alcuni nodi o punti discreti.2 Se nel resto d’Europa si è riconosciuto nelle infrastruttura, anche se solo di recente, una possibile occasione per nuove sfide e sperimentazioni, in Italia questa prospettiva sembra ancora lontana, nonostante sia innegabile che esista un problema serio d’ignoranza costruttiva diffusa, che rende ogni atto di trasformazione del territorio un’occasione mancata. Parcheggi, cavalcavia, elettrodotti, sono grandi oggetti depositati nello spazio urbano contemporaneo come elementi autosufficienti, avulsi dal contesto del quale fanno parte e indipendenti dal disegno globale della città. L’attenzione per il singolo oggetto, o meglio per il singolo frammento, si traduce nel riconoscimento del progetto infrastrutturale come di qualcosa che non compete l’architettura se non a posteriori, dopo la messa in opera, con l’attribuzione di significati che comunque non riescono a colmarne l’assenza di valore estetico. La difficoltà con la quale l’architettura riesce a stabilire un orizzonte critico dal quale affrontare le questioni infrastrutturali, non dipende in sé dalla natura del progetto d’archi11


tettura come operazione “discreta”, quanto piuttosto dal problema di individuare, nei diversi materiali che compongono il territorio, un campo operativo entro il quale la costruzione della forma architettonica, seppur discontinua, possa assumere un significato.3 All’ambito infrastrutturale appartengono inoltre a pieno titolo tutti quei dispositivi tecnologici a servizio delle esigenze abitative, definiti da Emanuele Forzese Architettura Terza. Se l’architettura “prima” e l’architettura “seconda” sono finalizzate a consentire all’uomo di svolgere le proprie attività, l’architettura “terza”, invece, è destinata specificatamente alla gestione di informazioni, materia ed energia. Per queste costruzioni e per le infrastrutture in generale, si rende quindi necessaria una promozione della cultura della progettazione, che prenda in considerazione non soltanto l’impatto di queste strutture nel territorio, o il rapporto con l’utente che se ne serve, ma che consenta anche di intervenire secondo gli stilemi dell’architettura contemporanea. In questo orizzonte si è evoluto il seguente lavoro di tesi; nel caso specifico ci si è rivolti alla riqualificazione dell’ex traliccio dell’alta tensione presente sulla costa messinese, in Sicilia, un dispositivo tecnologico attualmente dismesso, ma dalle grandi potenzialità architettoniche. Consapevoli del fatto che qualunque proposta di intervento avrebbe potuto metterne a rischio l’identità originaria, si è cercato di operare

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sul pilone per trasformarlo da semplice struttura di supporto di cavi elettrici, a struttura portante vera e propria, con l’aggiunta di corpi di fabbrica che adattandosi ad esso, ne avrebbero garantito l’utilizzo.

Note 1 Vogliazzo Maurizio, “Urban Policies”, «Arca», n. 270, Giugno 2011, pp. 34-35. 2 Privileggio Nicolò, “Città e infrastrutture, nuovi spazi teorici”, in «Forme Insediative, Ambiente, Infrastrutture» Marsilio Editore, Venezia 2003. 3 Ibidem.

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Innesti

La cittĂ sospesa sul pilone di Messina


Architettura Terza Prima di affrontare qualsiasi discorso riguardante l’Architettura Terza, risulta essere indispensabile parlare di Terzo Paesaggio, a partire dal quale questo concetto nasce e si sviluppa. Paesaggista, ingegnere, agronomo e scrittore, Gilles Clèment ha influenzato con le proprie teorie, e in particolare appunto con il “Manifesto del Terzo Paesaggio”, molti progettisti europei. Sin dall’inizio della sua attività egli presta particolare attenzione alle frange urbane, ai terreni in abbandono, agli incolti e alla vegetazione che li caratterizza, e intende mostrare come la biodiversità presente in quei luoghi possa essere considerata una risorsa indispensabile per il nostro pianeta, oltre che un esempio di rara bellezza. “Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana, subito si scopre una quantità di spazi indecisi, privi di funzione ai quali è difficile dare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio dell’ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. Dove i boschi si sfrangiano, lungo le strade e i fiumi, nei recessi dimenticati dalle coltivazioni, là dove le macchine non passano. […] Tra questi frammenti di paesaggio nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, questa è scacciata. Questo

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rende giustificabile raccoglierli sotto un unico termine. Propongo Terzo paesaggio, terzo termine di un’analisi che ha raggruppato i principali dati osservabili sotto l’ombra da un lato, la luce dall’altro”.1 Il Manifesto del Terzo paesaggio afferma la necessità di far diventare gli spazi residuali oggetto di progettazione da parte dei professionisti, e l’importanza di accettare questi luoghi imparando a riconoscerne le caratteristiche principali. Gilles Clèment possiede il merito di aver fatto luce su qualcosa a cui fino ad allora non era stato riconosciuto alcun valore e che però, ricopre un’importanza primaria. Nell’insistere affinché l’uomo prenda coscienza di questa ricchezza, il paesaggista francese sostiene la necessità di operare sul Terzo Paesaggio secondo principi di organizzazione del territorio nuovi, diversi cioè da quelli comunemente seguiti, primo fra tutti il minimo intervento, inteso come forma di rispetto nei confronti della biodiversità. Il discorso di Clèment, riferito ad un ambito prevalentemente botanico, può in realtà essere esteso anche al paesaggio urbano. Francesco Careri in Walkscapes si riferisce alla formazione di spazi di risulta, vuoti urbani, percepibili solo attraverso una lettura non tradizionale della città, e conseguenza dello sviluppo della società contemporanea. Si tratta di luoghi statici, non costruiti, derivanti dall’estensione delle infrastrutture, le quali se da un lato fanno sì che interi terri-

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tori possano essere connessi, dall’altro generano per questo spazi residuali. Per intervenire su di essi il primo passo è allora saperli riconoscere, in modo da cercare di riannetterli e restituirli alla città. “Oltre ai sistemi insediativi, ai tracciati, alle strade e alle case, esiste un’enorme quantità di spazi vuoti che formano lo sfondo su cui la città si autodefinisce. Sono diversi da quegli spazi vuoti tradizionalmente intesi come spazi pubblici – piazza, viali, giardini, parchi – e formano un’enorme porzione di territorio non costruito che viene utilizzata e vissuta in infiniti modi diversi e che a volte risulta assolutamente impenetrabile. I vuoti sono parte fondamentale del sistema urbano, sono realtà cresciute fuori e contro quel progetto moderno che risulta ancora incapace di riconoscerne i valori e quindi di accedervi.”2 A partire dal concetto di Terzo Paesaggio di Clèment, Emanuele Forzese definisce architettura terza tutte “le costruzioni tecnologiche non direttamente abitabili finalizzate alla gestione di energia, materia e informazione, che consentono all’uomo di vivere in qualsiasi territorio”3. Considerando l’architettura “prima” quella delle abitazioni, e l’architettura “seconda” quella cui appartengono tutte le altre costruzioni legate alle attività umane, la terza categoria è quella che serve a definire tutti quei dispositivi a servizio dell’abitare, trascurati dal pen-

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siero architettonico, nonostante siano determinanti nella concezione estetica del paesaggio e concorrano alla qualità della vita dell’uomo. Nel momento in cui si attribuisce un nome a qualcosa, si fa sì che questo qualcosa esista e che possieda già in partenza una dignità: lo studio di Forzese consente allora un allenamento dello sguardo nell’osservazione del paesaggio urbano, per riuscire non soltanto a riconoscere questi elementi, ma anche a progettarli. Il fine ultimo è quello, auspicabile, di trasformare la visibilità delle cose che ci circondano, in vivibilità.4 In riferimento al ruolo che l’architettura terza riveste per far sì che l’uomo possa utilizzare e prendersi cura delle risorse presenti in natura, si distinguono cinque categorie di infrastrutture tecnologiche: - energetiche, legate alla produzione e distribuzione di energia termica, meccanica ed elettrica; - idriche, destinate all’estrazione, distribuzione, conservazione e depurazione dell’acqua; - residuali, relative alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti fognari; - agro-zootecniche, rivolte alla produzione e conservazione dei prodotti alimentari; - telecomunicative, interessate alla trasmissione di segnali di informa-

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zione Alternativamente una distinzione più generale può essere fatta in relazione alle capacità operative di questi dispositivi, riconducibili in totale a quattro famiglie. Questi possono essere infatti, in grado di: - produrre/sollevare energia, materia, prodotti vegetali e animali; - distribuire/comunicare energia, materia, informazione; - conservare/ricoverare materia, vegetali e animali; - depurare/smaltire materia. L’ architettura terza comprende per Forzese quindi, tutti quegli oggetti ed edifici speciali, assimilabili alle infrastrutture tecnologiche e per questo definiti da lui tecnocostruzioni, che interagiscono con l’uomo e il suo territorio e che possono essere considerati per questo Architettura. Si tratta di dispositivi che occupano stabilmente uno spazio nel territorio, destinati ad una particolare funzione, corrispondenti a determinati requisiti tecnologici e programmati per rispondere a precisi criteri di efficienza, allo scopo di facilitare la vita dell’uomo. Nonostante rientrino perfettamente all’interno della definizione di Architettura, intesa come progettazione di elementi non fini a sé stessi ma in grado di costituire uno spazio in relazione al contesto, le cabine elettriche, le antenne televisive o i tralicci dell’alta tensione, non godono di una dignità tale da garantirne una progettazione architettonica, ma vengono piuttosto esclusi dal dibattito contemporaneo e dalla speri-

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Sharon Mollerus - “Canal Park Water Tower, Duluth” 21


Peter O’ Connor- “GOC Wild Beds and Edgy Herts” 22


mentazione tecnologica, considerati a margine del paesaggio urbano. Nell’ambito delle stesse tecnocostruzioni esistono, però, anche differenze di trattamento, che emergono se si prendono ad esempio in considerazione ponti e pali dell’alta tensione. Se nel primo caso sono previsti infatti, un ragionamento architettonico e una fase di progettazione, nel secondo caso questo non avviene e il motivo è probabilmente legato alla percezione. Un ponte viene attraversato, materialmente vissuto e per questo interagisce con noi in maniera diretta; i pali della luce, invece, interessano (solo) il nostro sguardo; influenzano il nostro paesaggio, ma siamo così distratti e assuefatti dall’abitudine, da non accorgercene nemmeno e da scordarci quasi di averli davanti agli occhi, così che non siamo portati a pensarli diversamente da come sono adesso. Accettiamo che i nostri ponti siano architettura, ma non pretendiamo che lo sia anche il resto. Lasciamo che queste tecnocostruzioni siano oggetti posati sul territorio, non pensati per farne parte. La rapidità dell’innovazione scientifica e industriale che caratterizza la società contemporanea, fa sì che ci si trovi di fronte al fatto che questi manufatti tecnologici diventino ben presto obsoleti, sostituiti da altri più nuovi ed efficienti. Ci si pone, o quanto meno ci si dovrebbe porre a questo punto, il problema del riutilizzo di queste strutture, che se a volte acquisiscono nuovi significati architet-

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Bo Insogna - “Sunflower Silo in Boulder County” 24


tonici, molto più spesso vengono abbandonate al loro degrado naturale, lasciando segni indelebili sul territorio nel quale sorgono. É il caso di cabine elettriche, elettrodotti o torri per le comunicazioni ad esempio, con i quali la collettività interagisce quotidianamente in maniera visiva e ai quali cerca per questo di attribuire un’identità. Il discorso sul riutilizzo dei dispositivi tecnologici è in realtà più complesso di quanto si possa pensare, e rappresenta oggi come in passato, un tema di dibattito nell’ambito della disciplina architettonica. Se da un lato studiosi come Marc Augè credono che questi resti non andrebbero cancellati perchè comprometterebbero la memoria di quei luoghi, dall’altro lato, esponenti come Vittorio Gregotti ne sostengono l’inutilità qualora non sia possibile riconoscere in essi un’unità d’uso, forma o rappresentazione. Ciò che è innegabile è la poeticità intriseca della rovina, legata alla percezione della stratificazione temporale che la riguarda, all’assenza che essa trasmette e alla fragilità che la caratterizza. Ci troviamo spesso di fronte a spazi della possibilità e dell’incertezza, luoghi che potenzialmente potrebbero consentire un dialogo fra passato e presente, raccontare le molteplici vite passate che li hanno interessati, ma che di fatto vengono abbandonati al degrado e consegnati alla collettività privi di qualsiasi intervento. É pur vero che non sempre un intervento si rende effettivamente

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necessario, ma un rottame tecnologico potrebbe essere comunque conservato, se inteso come rovina architettonica, per consentire alla collettività di rinnovare il proprio interesse verso luoghi che in passato avevano una certa valenza. Già durante la fase di installazione delle tecnocostruzioni, sarebbe allora opportuno valutarne l’intero ciclo di vita, per assicurarsi che, quando la funzione tecnica venga meno, siano esse integre o parzialmente distrutte, sia possibile riadoperarle reinventandone la forma, arricchendola di nuovi significati. Qualora non sia stata prevista in fase di realizzazione una rinascita della struttura posteriore alla sua dismissione, e contestualmente non ci siano i presupposti per decidere di preservare il manufatto così com’è, sono diverse le strategie progettuali che possono essere adottate. Nel caso specifico per la riqualificazione del traliccio di Torre Faro, si è scelto uno degli approcci intermedi tra quelli definiti da Forzese della “configurazione” - tradurre l’essenza dello strumento tecnico in figura architettonica - e della “alienazione” - negazione dello strumento dissimulata da un’altra forma architettonica indipendente da esso - ovvero, l’integrazione: “Atteggiamento che determina la figura architettonica coniugando la logica spaziale non abitabile della funzione tecnica con la logica spaziale abitabile connessa ad altre funzioni private o pubbliche”5

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Questa è stata intesa come inserimento nell’architettura terza esistente di nuove funzioni, che ne modificassero l’aspetto solo parzialmente, nel rispetto quindi dell’identità del manufatto, pur garantendone l’utilizzo alla collettività.

Note 1 Clément Gilles, ed. it. Manifesto del Terzo paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2005, pp. 10-11. 2 Careri Francesco, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Torino, Einaudi, 2006, p. 131. 3 Cfr. Forzese 2011 : 37. 4 Forzese Emanuele, Architettura Terza. Forme, emozioni e visioni del paesaggio tecnologico, Catania, Malcor D’, 2014, p. 18. 5 Cfr. Forzese 2011 : 386.

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La categoria della percezione L’impatto che l’architettura terza ha sul paesaggio, sia essa in uso oppure dismessa, nonché le opportunità che questa fornisce ai professionisti del settore, dipendono in gran parte dalla percezione degli utenti, difficile da analizzare poiché risiede tra la dimensione emotiva e quella cognitiva dell’individuo. Tale condizione è del tutto accentuata se ci si riferisce a dispositivi tecnologici sviluppati prevalentemente in altezza, come silos, centrali elettriche o elettrodotti, emergenti sul paesaggio circostante anche a grande distanza. Nel momento in cui poi queste infrastrutture vengono dismesse, il problema della percezione risulta ancora più evidente, venendo meno la componente utilitaristica che ne giustifica la presenza nel panorama urbano. Qualunque intervento si supponga di adottare nel recupero ad esempio, di un elettrodotto, non si potrà prescindere dal tenere in considerazione tanto l’impatto che questo ha sul contesto stradale, dal quale prevalentemente emerge, quanto soprattutto le opportunità fornite dalla considerevole altezza. Il primo, e generalmente anche unico approccio che si ha con i tralicci dell’alta tensione, è infatti dall’auto. La percezione a velocità è l’unica che possediamo di questi dispositivi e vale per questo la pena soffermarsi su quali siano i meccanismi dello sguardo in relazione a questi e a tutti gli altri elementi del paesaggio stradale. Gli spazi in cui viviamo oggi sono molto diversi rispetto a quelli del passato, così come sono diversi anche i modi in cui immaginiamo

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e percepiamo questi spazi: l’invenzione dei mezzi di trasporto, ha portato infatti, alla nascita di nuove sensazioni legate alla velocità, e all’abbandono del camminare come pratica di spostamento abituale. É come se i corpi siano diventati in qualche modo obsoleti nei confronti delle nuove esigenze che la società impone, visti come troppo lenti, fragili e disadatti a soddisfare aspettative e desideri odierni. Accade allora, che l’automobile diventi sempre più un elemento essenziale in un mondo che è ormai quasi totalmente in scala sovrumana. “L’utilizzo di massa dell’automobile nei paesi industrializzati ha contribuito ad un radicale cambiamento nell’esperienza del viaggio. La percezione dello spazio presenta subito una contraddizione, da un lato la consapevolezza della propria appartenenza ad un luogo, intesa come appropriazione dello spazio osservato, dall’altro la sensazione di estraniamento dovuta alla mancanza di un’esperienza materiale.”1 La velocità sconvolge infatti, il rapporto fra viaggiatore e ambiente percorso, con la conseguente perdita di tutti i sensi indistintamente, a causa del distacco apparente dal tempo e dallo spazio. La visione che si prospetta di fronte gli occhi dell’osservatore in movimento, è sempre diversa e consente varie possibilità interpretative, in base ai soggetti fruitori e alle modalità di percorrenza.

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Un testo rivoluzionario a proposito dell’immagine percettiva della forma urbana è sicuramente “The View from the Road” di Donald Appleyard, Kevin Lynch e John Myer, che insieme a “The Image of the City” dello stesso Lynch, ha contribuito alla nascita del dibattito sui metodi per comporre una visione estetica del paesaggio infrastrutturale. In questo testo si fa riferimento al grande potenziale visivo delle infrastrutture, intese come elementi di margine della scenografia urbana, e alle possibilità che queste offrono al progettista di poter comporre sequenze visive in grado di consentire un’interazione con l’osservatore in movimento. Si parla di trasformare la percorrenza dell’autostrada in una vera e propria esperienza, e si propongono una serie di interventi adatti a tale scopo, dall’integrazione delle strade nel paesaggio, alla regolamentazione nella disposizione delle insegne stradali. L’esperienza della guida può tradursi in una sequenza di immagini che scorrono davanti agli occhi di un pubblico involontario e disattento, la cui visione è limitata e filtrata dalla presenza dell’automobile, che seppur conduce l’individuo attraverso il mondo, lo isola da ogni sensazione e opportunità che invece resta a disposizione del pedone. L’automobilista si limita ad osservare distratto il paesaggio scorrere davanti ai propri occhi, assuefatto dalla monotonia e dall’abitudine che la guida comporta, sensazioni queste, accentuate soprattutto nel caso di un percorso autostradale.

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Impatto visivo del traliccio di Torre Faro (ME) sul paesaggio urbano 31


Impatto visivo del traliccio di Torre Faro (ME) sul paesaggio urbano 32


Impatto visivo del traliccio di Torre Faro (ME) sul paesaggio urbano 33


Nella vista frontale dall’auto il campo visivo è perlopiù occupato da elementi di supporto all’infrastruttura, cartelli pubblicitari, elementi spartitraffico, corsie di scorrimento, oltre che da edifici posti ai margini. Capita naturalmente che siano anche visibili dispositivi tecnologici, come i piloni dell’elettricità, capaci di influenzare fortemente il panorama circostante e di diventare elementi di orientamento all’interno del paesaggio urbano. Se ci sono elementi di architettura terza infatti, che siamo portati costantemente ad osservare, più o meno consapevolmente, questi sono i tralicci dell’alta tensione. Chilometri e chilometri di fili corrono accanto alle autostrade seguendo una rete autonoma, del tutto indipendente da quella stradale, e così accade che ci si trovi di fronte ad enormi strutture di ferro, un momento ai margini della carreggiata, quello dopo improvvisamente a fianco degli edifici, inserite nell’abitato ma da questo ignorate, come elementi di pausa nel tessuto edilizio. Qualora questi manufatti venissero dismessi - e si parla già di sostituzione delle linee aeree con altre sotterranee, più economiche e sicure - ci si dovrebbe assolutamente porre il problema del riutilizzo di queste infrastrutture, considerando le possibilità offerte dalla grande visibilità che queste possiedono. Se consideriamo queste risorse visive, ci accorgiamo di quanto nu-

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merose siano le opportunità che i progettisti hanno di plasmare le impressioni degli automobilisti, per i quali è proprio dalla visione del contesto che dipende la consapevolezza del proprio movimento. Come accade in “The View from the Road”, anche in “Learning from Las Vegas” di Venturi, Scott Brown e Izenour, la strada è analizzata come fenomeno di comunicazione architettonica, con la differenza che nel primo caso, l’interazione con l’utente avviene attraverso elementi tipici del territorio urbano, nel secondo caso invece, ci si riferisce ai messaggi commerciali, veicolati dalle insegne. Le insegne degli esercizi commerciali, siano essi Casinò, Motel o stazioni di servizio, diventano, durante la fase di espansione della città di Las Vegas, sempre più necessarie per una comunicazione commerciale, tanto da arrivare a sostituire esse stesse l’edificio, relegato in secondo piano, lontano dalla strada. Ciò che infatti, diviene importante per colpire l’attenzione dell’osservatore, e quindi il potenziale cliente, è avere un’insegna luminosa quanto più grande possibile, posta sul ciglio della strada, che solo in un secondo momento conduca all’edificio vero e proprio. Drive In, Wedding Chappels e gigantesche insegne luminose sono considerati esempi di comunicazione architettonica da Venturi, il quale fa notare come l’architettura dell’edificio perda la propria importanza in una società dell’informazione immediata, fondata sulla velocità, e come piuttosto siano le insegne ad assumere connotazio-

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La città di Barcellona vista dall’alto 36


ni architettoniche, divenendo sempre più articolate e indipendenti. Egli guarda affascinato questo nuovo mondo che vede dispiegarsi ed evolversi davanti ai propri occhi, trascurando però il fatto che si tratta della conseguenza dell’eccessivo consumismo e che tutti quei signs non hanno altro scopo se non quello di attirare potenziali acquirenti, stimolandone l’interesse per i più svariati prodotti. “Nel suo articolo egli trova spesso il modo di farci capire che non solo non è infastidito da questa allucinante giungla di insegne, ma che al contrario essa è per lui una rivoluzionaria svolta nella storia ambientale dell’uomo. Egli considera Las Vegas come il risultato di un’autentica esplosione di fantasia popolare. E qui sbaglia: Las Vegas non è una creazione del popolo, ma per il popolo.”2 Quella stessa velocità che assuefà l’individuo durante la sua vita quotidiana, tanto desiderata e ormai considerata quasi del tutto necessaria, è proprio la causa di un meccanismo opposto, di continua ricerca di nuovi punti di vista, statici, più lenti, che non solo gli consentano un cambiamento nell’osservazione dell’intorno, ma che gli concedano anche dei momenti di pausa dalla frenesia della città. In ambito urbano non si può allora non affiancare per importanza, alla percezione dinamica dalla strada quella statica dall’alto che, se non interessa ogni cittadino riguarda sicuramente ogni turista. Tutte 37


le più grandi città del mondo infatti, offrono punti di osservazione panoramici privilegiati costantemente invasi dai visitatori, che si tratti di una torre televisiva, la Fernsehturm di Berlino ad esempio, di un’antenna delle telecomunicazioni, come lo è di fatto la Tour Eiffel, o di una ruota panoramica, come lo è la London Eye. L’osservatore in movimento del paesaggio della velocità, che vede ma non guarda coscientemente ciò che lo circonda, è quindi diverso dallo spettatore del paesaggio dall’alto, che invece è più attento e incuriosito, e merita pertanto un riguardo particolare se si opera nell’ambito delle strutture verticali, che si tratti di un edificio residenziale, o di un’architettura terza, come nel caso del pilone di Messina.

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Note

1 Ardita Venera, Architettura e paesaggi infrastrutturali, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore, 2012, pp. 38-39. 2 Maldonado TomĂ s, ed. it. La speranza progettuale. Ambiente e societĂ , Torino, Einaudi, 1992, p. 124.

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L’Interactive Design Le teorie di Lynch sui movimenti dello sguardo del guidatore e quelle di Venturi sulla comunicazione, forniscono ulteriori spunti per una progettazione che tenga conto dell’interazione con l’utente e che ravvivi la scena stradale monotona e costante alla quale l’individuo viene quotidianamente sottoposto. L’obiettivo dovrebbe essere allora quello di plasmare l’architettura, e adattarla al nuovo modo di vivere la società: in un mondo della velocità in cui la percezione è rapida, infatti, l’architettura dovrebbe essere in grado di interagire con l’utente, adattandosi al suo movimento, possibilmente sfruttando a proprio vantaggio la tecnologia che ormai oggigiorno lo sommerge. La tecnologia digitale media le interazioni tra le persone in moltissimi modi, e al tempo stesso funge da tramite per consentire all’individuo di rapportarsi con l’ambiente che lo circonda. Essa è diventata molto più di uno strumento: ha assunto un ruolo decisivo e condizionante all’interno della società contemporanea. Se capiamo allora quanto la tecnologia sia diventata presente nella vita quotidiana di qualsiasi individuo, quindi com’è attualmente adoperata e vissuta dalle persone nella loro vita, ci rendiamo conto della necessità di cambiare punto di vista e vederla anche come un’opportunità per altri settori disciplinari, come ad esempio l’architettura. L’enciclopedia Treccani definisce interaction design quella “attività di

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analisi e progetto delle modalità di interazione fra uomo e macchina, volta a valorizzare in particolare gli aspetti sia di carattere fisico, dinamico, intellettivo, sia comportamentale ed emozionale di questa relazione”.1 Questa scienza raccoglie cioè, le competenze relative ad ambiti disciplinari differenti, dalla psicologia cognitiva all’ingegneria, dalla scienza dei materiali all’informatica, ma comprende anche il graphic design, l’ergonomia, e l’industrial design, con lo scopo di creare un prodotto tecnologico di semplice utilizzo, in grado di rispondere rapidamente ai bisogni dell’utenza, siano essi legati alla socialità o alla cultura. La locuzione interaction design viene attribuita a due membri della società statunitense di ricerca e design IDEO, Moggridge e Verplank, che per primi la adottarono negli anni Ottanta, in riferimento a nuovi prodotti di industrial design contenenti software, per definire questo incontro tra utente e apparecchiatura tecnologica. L’interaction design trae i suoi contenuti dalle discipline più varie, ma tra queste non vi è l’architettura, nonostante siano numerose le opportunità che potrebbero nascere da un eventuale connubio. La pratica architettonica si serve infatti, delle possibilità offerte dalla tecnologia esclusivamente per ciò che riguarda la rappresentazione formale, quindi la modellazione parametrica e lo studio computazionale, trascurandone invece, l’aspetto della comunicazione, dell’informazione e

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dell’interazione con l’utenza, parametri che potrebbero invece risultare di grande aiuto ad esempio, nel reinserimento nel panorama urbano di elementi di architettura terza dismessi e riqualificati, perchè consentirebbero alla collettività di accettare più facilmente costruzioni fino ad allora considerate esclusivamente a servizio dell’abitare. “I professionisti che affrontano l’interaction design, […] spesso citano una generazione di architetti e di urbanisti attivi negli anni Sessanta e Settanta. Teorici e progettisti come Jane Jacobs, Christopher Alexander, Reyner Banham, Cedric Price e Archigram sono stati messi da parte da decenni di cultura architettonica accademica incentrata sulla forma. […] Trascurato dagli architetti, l’interesse per gli edifici e le città come sistemi di rapporti è stato rinfocolato dai progettisti dell’interazione.”2 Accettando l’utente come attore consapevole in quello spazio che l’architettura provvede a creargli, la domanda che diversi progettisti e ricercatori si sono posti è allora come essi possano interagire l’uno con l’altro. Attraverso numerosi studi neuroscientifici, il filosofo tedesco Thomas Metzinger nell’opera Being No One (2003) spiega cosa sia un’esperienza consapevole di osservazione della realtà. L’obiettivo principale della sua ricerca era dimostrare che questa appare com’è perché noi

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la percepiamo come tale. Egli dice che quello che vediamo, sentiamo, percepiamo con i nostri sensi o le nostre emozioni non sono altro che una minima frazione di ciò che esiste effettivamente nella realtà. Come se il nostro mondo fosse dimensionato su di noi, e ci trovassimo a vivere all’interno di quello che lui chiama Ego Tunnel. D’altronde è vero che ciascun individuo osserva ciò che lo circonda in maniera diversa, come se riuscisse a vedere alcune cose piuttosto che altre, in base al proprio background culturale e alla propria esperienza. Bisogna distinguere, dice ancora Metzinger, due modi di percepire la realtà, una consapevole (apperception) e una inconsapevole (perception), al punto di doversi chiedere quale delle due sia abbastanza forte da spingere l’individuo, l’architectural user, a concentrarsi sul paesaggio architettonico, e se sia possibile tracciare l’attenzione dell’osservatore in maniera scientifica, attraverso dati empirici. “The Cognitive User of Architecture” di Clemens Plank, professore presso la facoltà di architettura dell’Università di Innsbruck, in Austria, esplora le opportunità e le implicazioni dello studio di Metzinger, applicandolo all’architettura e al suo rapporto con l’individuo che con essa interagisce. All’interno del testo, egli propone tre esperimenti per mettere in luce differenti approcci che l’individuo può avere nel confronti del costruito. Il primo dal titolo What the people look at mostra i risultati di test condotti su un campione di soggetti, ai quali è

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OMA, biblioteca pubblica di Seattle - foto di Maciek Lulko 44


stato chiesto di osservare la stessa immagine, ed in particolare una foto della biblioteca di Seattle di Rem Koolhaas. É stato possibile così, studiare il movimento dello sguardo degli osservatori, e conseguentemente mappare i risultati in coordinate x-y, per rispondere all’obiettivo di capire quali materiali, colori o elementi architettonici ne attirassero l’attenzione, pur tenendo presente le notevoli differenze derivanti dalla visione di un’immagine piuttosto che di un oggetto reale, che ne avrebbero falsato i risultati. Per questo motivo il successivo è stato un full scale spatial experiment. È stato progettato per quell’occasione un apposito oggetto scatolare, da porre all’interno di un panorama architettonico esistente, dotato di un sistema di tracciamento per essere monitorato. L’intera superficie dell’oggetto è stata coperta da schermi proiettanti un video interattivo, una sorta di installazione visiva, la cui funzione era quella di tentare l’osservatore ad entrare nella scatola, seppur questa non sembrasse provvista architettonicamente di alcun tipo di accesso convenzionale. L’obiettivo dell’esperienza è stato quindi quello di capire quale sensazione fosse più forte the architectural - no door - sensation or the interactive - door - communication.3 L’ultimo esperimento invece, non ha previsto l’aggiunta di nuovi elementi nel paesaggio ad eccezione di un sistema di luce sensibile, capace di modificare l’impressione dell’osservatore, posto di fronte ad

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un’architettura, in relazione al suo movimento. Camminando attraverso una stanza, ogni utente avrebbe visto cambiare costantemente la sua percezione dello spazio grazie alla luce. L’obiettivo era quello di monitorare il movimento degli individui, per capire se avessero trovato inconsciamente, una configurazione di luce ideale, durante l’osservazione dell’opera. Il professor Plank, pur non ottenendo da queste simulazioni risultati del tutto soddisfacenti, è giunto alla conclusione che l’osservazione di un’opera architettonica sia in generale legata ad un processo di percezione inconsapevole, e che quando l’utente non è da solo, la sua attenzione si dirige verso gli altri piuttosto che su ciò che lo circonda. Egli si pone alla fine dell’articolo delle domande, a cui ancora oggi non si è riusciti a dare una risposta: cosa accadrebbe se il paesaggio architettonico fosse dotato di un sistema di interazione? Come si modificherebbe la percezione dell’intorno? Sulla base di questi interrogativi e ispirati ai principi del design interattivo, ci si è avviati al progetto di rifunzionalizzazione del pilone di Torre Faro. L’obiettivo è stato quello di intervenire nel pieno rispetto della costruzione esistente, per far sì che anche un osservatore occasionale fosse indotto ad interagire con il traliccio, visivamente e praticamente usufruendo delle attività in esso inserite. A partire dalla base, sulle cui pareti esterne sono stati previsti schermi per la visione del

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panorama osservabile in sommità, un palco per eventi e un supporto per l’arrampicata, fino alla cima, nella quale è stato posto un ristorante funiviario panoramico, l’intento è sempre stato quello di fornire la struttura di servizi in grado di attirare a sè la collettività. L’interaction design si fonda su principi di informazione e comunicazione che possono essere esplicitati non soltanto attraverso la tecnologia, ma anche con l’architettura stessa, adattandola alle esigenze dell’utenza. Le aperture nelle pareti esterne sono state, ad esempio, previste per essere sempre all’altezza dello sguardo dell’osservatore, sia esso seduto o in piedi, a prescindere dall’ambiente, in modo da consentirgli una visione costante e continua dell’intorno.

Note 1 www.treccani.it/enciclopedia/interaction-design 2 Cfr. Scharmen Fred, Steenson Molly Wright, “L’architettura deve interagire”, «Domus Web», Princeton, Giugno 2011. 3 Cfr. Plank Clemens M., The cognitive user of architecture, Innsbruck, 2012.

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L’immagine di Torre Faro


Torre Faro Fino a qualche decennio fa chiunque avesse attraversato lo Stretto di Messina diretto dal continente verso la Sicilia, avrebbe visto di fronte a sé, rivolgendo lo sguardo verso Nord-Est, una delle opere di ingegneria elettrica di maggior vanto per il nostro Paese, tale da contribuire a far crescere in questo campo il nome delle nostre aziende anche e soprattutto all’estero. Si tratta del collegamento aereo elettrico da 200kV realizzato negli anni ’50 fra la Calabria e la Sicilia, costituito da due torri d’acciaio, poste nei due casi rispettivamente su un promontorio e sulla spiaggia, in grado di consentire scambi energetici fra l’isola e il resto d’Italia attraverso cavi metallici sollevati ad una settantina di metri dal livello del mare. Oggi di questo sistema restano solo gli imponenti sostegni, fino agli anni ‘80 i più alti del mondo, che contribuiscono in maniera evidente a definire l’immagine del paesaggio. Il pilone siculo si trova sulla punta estrema dell’isola ed in particolare a Torre Faro, frazione del comune di Messina, lembo di terra che dista dalla costa calabra solo 3.6 km. Il borgo sorge in corrispondenza di Capo Peloro, in cui le colline si interrompono bruscamente sul mare per formare la spiaggia, che insieme ai due laghi, di Ganzirri e di Faro, caratterizza l’intera area. Si tratta di una località prettamente balneare, la cui costa proprio per queste particolarità ben si presta a concretizzare i ragionamenti fatti

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Vista aerea dello Stretto di Messina 51


Il pilone posto sulla spiaggia di Torre Faro (ME) www.torrefaro.it


Il pilone calabro di Santa Trada, Villa San Giovani (RC)


finora sull’importanza dei dispositivi di Architettura Terza e la loro integrazione nel contesto. Si è scelto come aerea di progetto quindi, la spiaggia di Torre Faro, includendo però la prospicente strada e presupponendo un collegamento con il nuovo parcheggio scambiatore previsto dal Comune nei pressi delle Torri Morandi, un tempo connesse ai piloni e adoperate per la contrappesatura dei cavi elettrici. La zona costiera, d’estate presa d’assalto dai bagnanti, perde d’inverno la sua attrattività a causa dell’assenza di strutture ricettive in grado di valorizzare questo particolarissimo territorio e attirare residenti o turisti. Sulla spiaggia, oltre il traliccio, emergono altre due costruzioni, classificate nelle carte tecniche regionali rispettivamente come manufatto edilizio e manufatto industriale. Nel primo caso si tratta di quello che probabilmente era un deposito per alimenti, nel secondo invece, di un ex capannone industriale di cui resta attualmente solo lo scheletro. Il pilone, o “U Piluni” come è affettuosamente chiamato dai residenti, resta comunque la costruzione più imponente dell’intero litorale. Nonostante sia attualmente inaccessibile, fino a qualche anno fa era possibile raggiungerne la cima attraverso una scala di 2240 gradini, di pendenza 55° e larghezza 85 cm, per godere di una vista unica dell’intero Stretto.

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Vista aerea della spiaggia di Torre Faro. A destra l’ex capannone industriale www.torrefaro.it


Costruzione di cemento sulla spiaggia


Il manufatto richiederebbbe un’integrazione nel contesto che fin’ora non ha avuto


Strada secondaria d’accesso alla spiaggia


Vista del litorale calabro dalla spiaggia di Torre Faro


L’ex capannone industriale in ferro


La struttura in ferro si rivolge perfettamente verso il pilone di Santa Trada


L’ex elettrodotto L’idea dell’attraversamento elettrico dello Stretto di Messina è antica e risale in particolare al primo dopoguerra, quando, in occasione del completamento degli impianti idroelettrici silani in Calabria, si pensò di collocare parte di quella energia in Sicilia, dove i bisogni erano elevati e le infrastrutture inadeguate, essendo gli impianti idroelettrici troppo costosi per la natura topografica e geologica del territorio. Lo sviluppo industriale del Mezzogiorno, assorbendo però quasi del tutto la produzione calabrese, fece sì che il progetto venisse ben presto abbandonato, per essere ripreso solo dopo il 1936 da Mussolini in un momento in cui il bisogno di incrementare le attività industriali del Paese imponeva la costruzione di nuovi impianti idroelettrici, e la realizzazione di un attraversamento sullo Stretto avrebbe rappresentato un perfetto espediente di propaganda politica. “Il collegamento appariva sempre molto interessante per le diverse condizioni elettriche dell’Isola e del Continente. Nella prima gli impianti idroelettrici risultavano sempre estremamente costosi, sicché il grosso dell’energia doveva essere prodotto, come infatti è prodotto, da impianti termici. Ma tali impianti adattissimi per fare la base dei diagrammi di consumo, sono meno adatti per fare le punte, che sono invece affidate nel nostro Paese agli impianti idrici ad accumulazione. Donde una complementarità dei due

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Cartolina storica di Messina - foto dell’Arch. Principato 63


Profilo definitivo delle campate dell’elettrodotto

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gruppi di installazioni che suggeriva sempre più insistentemente la connessione elettrica fra le due sponde. Gli studi furono ripresi, ma si orientarono questa volta nettamente verso la soluzione aerea. Non erano necessarie sei coppie di torri, ma ne bastava una sola.”1 Per diverse ragioni, legate anche al monopolio della SGES (Società Generale Elettrica della Sicilia) e al suo mancato ampliamento delle linee di trasporto e di distribuzione energetiche, bisognerà aspettare fino al 22 Ottobre 1952 per assistere all’inizio dei lavori, e al 28 Dicembre 1955 per vedere l’elettrodotto effettivamente in funzione. Si trattava del primo progetto di quelle dimensioni al mondo ed ebbe per questo vasta risonanza nazionale ma soprattutto internazionale, evidenziando le capacità tecniche del Paese nonché della SAE (Società Anonima Elettrificazione) che aveva avuto una parte essenziale nella progettazione e nel montaggio dell’opera. “Anni di discussioni e di studi, di prove di laboratorio e di ricerche in sito, di esami da parte degli organi tecnici delle Amministrazioni dei Lavori Pubblici, della Marina, dell’Aeronautica, hanno condotto finalmente alla costruzione della più grande campata di elettrodotto del mondo, sulla quale già da due anni l’energia elettrica fluisce, dimostrando che almeno in questo campo la Sicilia non è più un’isola.”2

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Ottenuta la volontà politica di realizzare le torri sullo stretto e raggiunta la disponibilità economica, il primo passo verso la progettazione fu la scelta del sito, che avrebbe influenzato anche le caratteristiche dei sostegni. Si sarebbe dovuto cercare la zona di larghezza minima dello Stretto, vagliando al tempo stesso gli eventuali ostacoli che l’esecuzione dell’opera avrebbero potuto rappresentare per le opere civili esistenti. Si presero così in considerazione diversi tracciati, finché alla fine si optò per disporre la torre calabra sullo sperone di Torre Cavallo, che, protendendosi verso il mare, avrebbe consentito campate di 3.300, 3.400 o 3.500 metri, con dislivelli rispettivamente di 110, 130 e 160 metri. Per la costruzione delle torri nel 1947 vennero vagliate le offerte di cinque (poi diventate sei) grandi aziende di carpenterie metalliche, e se in principio era stato richiesto di prendere in considerazione la costruzione dell’intero impianto, in un secondo tempo si decise di appaltare separatamente le varie parti dell’opera, fondazioni, ancoraggi contrappesatura e tesatura, e quindi di concentrarsi momentaneamente sui soli sostegni verticali. “Poiché i vari progettisti avevano affrontato i vari particolari secondo criteri differenti, divenne necessario fissare un criterio uniforme di calcolazione e definire alcuni punti fondamentali: preferenza per le strutture in profilati anziché in tubi, per le torri autoportanti anziché

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Tipi di torri proposte dai vari costruttori

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strallate, per la saldatura in officina e bullonatura in opera, con esclusione della chiodatura e della saldatura in opera, influenza teorica da attribuire al vento, verifiche sismiche a cui sottoporre la struttura.”3 In una prima selezione vennero allora eliminati tutti quei progetti non rispondenti ai requisiti sopra elencati e si scelse un tipo di torre per ognuno dei tipi di struttura caratteristici: la struttura tronco piramidale proposta dall’ing. Bianchi della SAE, quella a struttura prismatica progettata dal prof. Krall per la TERNI, quella a struttura diffusa studiata dall’ing. Covre per la BALDONI. Questa seconda gara vide vincitore il progetto della SAE, che risultò essere non solo il più economicamente vantaggioso, ma anche il più conveniente, perché con un peso ridotto prevedeva la disposizione di due terne anziché una su ciascuna torre, ovvero di sei conduttori al posto di tre per ciascun sostegno. La torre presentava in origine una forma troncopiramidale e una base quadrata dalla diagonale di 40 m, ma il progetto venne modificato in seguito all’approvazione del Consiglio Superiore dei LL. PP. per ragioni di sicurezza: vennero disposti ulteriori irrigidimenti, oltre quelli già previsti, il tronco inferiore venne separato dal restante corpo superiore, e diviso alla base in quattro gambe indipendenti. Questi ed altri cambiamenti causarono un au-

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Torri del progetto SAE prima e dopo la modifica del Consiglio per i lavori pubblici 71


mento di peso per il raggiungimento complessivo di 500 tonnellate. Il controllo dei calcoli ottenuti analiticamente venne effettuato in seguito attraverso un modello in scala 1:25 realizzato con gli stessi identici materiali del futuro traliccio, alto 9 metri e pesante 32 kg, oggi contenuto nel Museo della Tecnica di Milano. Questo venne adoperato per confermare tutti i risultati previsti, dalla resistenza all’azione del vento, alle variazioni di temperatura, alle verifiche statiche. A sostegno di torri così alte era necessario porre delle fondazioni adeguate, in grado di preservare la struttura da qualunque tipo di sollecitazione derivante da eventuali dissesti sismici. Lo studio di oltre cinque mesi sulla natura dei terreni, portò alla progettazione di fondazioni differenti per le due sponde: quella sicula sarebbe dovuta essere innanzitutto monolitica, in modo da abbassare il baricentro della costruzione metallica soprastante e aumentarne la stabilità, e si decise che fosse poggiante su quattro cassoni indipendenti, spinti fino ad oltre 18 metri sotto il livello del mare; quella calabra, invece, data la diversa natura del terreno, sarebbe potuta essere direttamente poggiante sulla roccia di un profondo scavo. La croce di fondazione sarebbe dovuta essere comunque identica in entrambi i casi, ed in particolare dalla diagonale della lunghezza di 50 metri. La costruzione dell’elettrodotto costò quasi 2 miliardi di

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lire e impegnò 200.000 giornate lavorative, ma rappresentò un assoluto successo per la SAE tanto da garantirgli la vittoria nel 1958 del premio ANIAI per la migliore realizzazione di Ingegneria Elettrotecnica Italiana negli anni 1951 - 1956.

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Note

1 - Società Generale Elettrica Sicilia, L’attraversamento elettrico dello Stretto di Messina, Roma, Libreria Dedalo, 1958, p. 10 2 - Ibidem. 3 - Ivi, p. 20-21

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Una nuova identitĂ


L’indagine preliminare Prima di intraprendere qualunque tipo di ragionamento progettuale, il primo passo necessario è quello dell’analisi, che in questo caso specifico ha riguardato tanto il contesto circostante, quanto il traliccio in sè e per sè. Lo studio del quartiere prospicente la spiaggia oggetto di studio, ha permesso di individuare un uso prevalentemente residenziale per i suoi fabbricati nonchè di riconoscere le principali vie d’accesso al lungomare. Per ciò che riguarda il traliccio è stata innanzitutto effettuata una ricerca per confrontarlo con altre strutture esistenti, simili in dimensioni, origini e funzioni, prendendo in particolare in considerazione la Tour Eiffel di Parigi e l’Albero della Vita di Expo Milano 2015; successivamente è stata presa in esame la struttura portante del traliccio con l’obiettivo di individuarne le principali parti costituenti e verificarne l’effettiva resistenza ad eventuali carichi futuri. Considerazioni di carattere economico sono invece scaturite dalla scoperta che il traliccio calabro, gemello di quello messinese, risieda attualmente all’interno di un terreno privato e che non sia quindi proprietà del Comune, come invece accade in Sicilia. Ci si è posti allora l’interrogativo di cosa accadrebbe se il proprietario del terreno, e di conseguenza anche del traliccio, decidesse di smontarlo, distruggendo così quello che di fatto è ormai diventato un simbolo per tutti coloro che attraversano o anche solo volgono lo sguardo, allo Stretto di Messina.

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Inquadramento ortofotografico della spiaggia di Torre Faro 79


ediďŹ cio residenziale

manufatto edilizio

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manufatto industriale


Torre Eiffel

Pilone Torre Faro

Albero della vita

1889

1956

2015

ferro

acciaio

324m

232m

legno lamellare acciaio 36m

x2 1665

8000 t

€ 1mln

?

2240

450 t

€ 520000 7mln€

144

330 t

€ 8.3mln 500000€


400

300

200

100

25 m Torre de Montjuic Space Needle BT Tower Rheinturm Pilone di Torre Faro Messina Londra Dusselforf Barcellona Seattle 136 m

184 m

191 m

218 m

232 m


Colonius Colonia 266 m

Telemax Torre de Collserola Hannover Barcellona 277 m

288 m

Tour Eiffel Parigi 324 m

Fernsehturm Berlino 368 m


450 t

2650 € / t

1. 192. 500 €

7. 000. 000 €



Vista del traliccio dalla spiaggia di Torre Faro


La valorizzazione del traliccio è giustificata dalla sua importanza paesaggistica


Il concept Il concetto fondamentale che ha mosso la ri-progettazione del pilone di Torre Faro in tutto il suo complesso è quello che un’infrastruttura, qualunque essa sia, abbia diritto di essere considerata architettura, e in quanto tale essa debba essere resa fruibile alla collettività, con interventi che, pur senza mascherarne l’aspetto originario, ne rispecchino l’identità. Il pilone di Messina è un simbolo. Rappresenta un passato glorioso per le industrie italiane del ferro, un collegamento elettrico che sembrava irrealizzabile, e una connessione, anche se solo visiva, con il resto del Paese. L’obiettivo è stato allora quello di trasformare il traliccio da semplice struttura di supporto, come di fatto era nata, a scheletro portante vero e proprio, con l’aggiunta di nuovi corpi di fabbrica che adattandosi ad esso ne avrebbero garantito l’utilizzo, tanto annuale quanto stagionale. migliorare PERCEZIONE

ristabilire CONNESSIONE

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FlessibilitĂ a breve termine uso annuale uso stagionale

FlessibilitĂ a lungo termine


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Prima idea progettuale


Lo spazio pubblico Per l’organizzazione dello spazio pubblico ci si è riferiti all’esistente, cercando di cogliere gli stimoli da esso emergenti, come la configurazione delle vie d’accesso alla spiaggia o l’estendersi dell’ombra dell’imponente traliccio. Con l’obiettivo di un’integrazione con il circostante centro abitato, si è supposta una pista ciclabile che a partire dal parcheggio scambiatore recentemente realizzato nell’area delle Torri Morandi, costeggiasse i due laghi per poi raggiungere e attraversare l’intera area di progetto. Come le onde si infrangono sulla spiaggia spingendosi disomogenee verso l’entroterra, allo stesso modo dove possibile, l’intervento si incunea nello spazio pubblico, integrando la prospicente strada e facendo diventare l’acqua del vicino mare un vero e proprio elemento di progetto.

92


P




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Vista dell’area sportiva e della rampa est di accesso al traliccio


Vista della rampa ovest e della scalinata d’accesso al traliccio


La fondazione La fondazione del traliccio è stata pensata per essere riutilizzata e trasformata in un’occasione culturale aperta alla collettività. Il primo livello sotterraneo, infatti, con i propri percorsi tra i profilati metallici, un tempo attraversati solo dagli addetti ai lavori, fornisce oggi l’opportunità per la creazione di un museo che abbia come tema ciò che il pilone stesso rappresenta: l’elettricità. Si è scelto di mantenere la configurazione esistente degli spazi e di fare in mondo che fosse la struttura stessa a fornire il supporto per questo tipo di attività sostitutiva. Si è pensato allora, di rendere pubblico l’accesso alla fondazione attraverso la scalinata preesistente, e di allestire un percorso museale in questo primo livello sotterraneo, sfruttando la distribuzione dei percorsi lungo i quattro bracci della base fondazionale, predisponendo gli spazi ad accogliere installazioni temporanee come quelle realizzate ogni anno per il Progetto Terna. L’assenza di finestrature consente inoltre di creare il fondale perfetto per delle proiezioni tridimensionali, che, oltre a consentire un immediato veicolamento delle informazioni, garantirebbero l’interattività con gli utenti. Il secondo livello sotterraneo, posto a 2 metri di profondità sotto il livello del mare, pur essendo teoricamente accessibile tramite una scalinata centrale, è stato pensato per essere a differenza del precedente, non visitabile, data la quantità eccessiva di profilati d’acciaio presenti.

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Hyundai Advanced Design Center, “Fluidic Sculpture in Motion” L’installazione realizzata per il Fuorisalone di Milano nell’edizione 2013 era costituita da 12.000 sfere luminescenti in grado di percepire il calore della presenza umana, e di reagire creando immagini tridimensionali perfette da ogni angolazione. 104


Daniela De Lorenzo, “Dentro e fuori luogo�, 2012. Progetto vincitore della quarta edizione del Premio Terna.

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Gli innesti “ Innesto [in-nè-sto] s.m. 1. agr. Operazione con cui si fa crescere sopra una pianta una parte di un altro vegetale della stessa specie o di specie differenti, al fine di formare un nuovo individuo più pregiato o più produttivo o più giovane.” Enciclopedia Treccani Lungo il suo sviluppo verticale, la struttura d’acciaio del traliccio accoglie una serie di moduli pensati per adattarsi di volta in volta ad essa, plasmati dal suo rastremarsi verso l’alto. Ciascun blocco funzionale è influenzato nell’organizzazione dello spazio interno dalla presenza di un corpo centrale di collegamento verticale, che consente il raggiungimento di ciascun livello per ogni blocco dalla base alla cima, pur garantendone l’accessibilità anche ai diversamente abili. Proprio questo corpo centrale risulta essere fondamentale per una separazione di diversi flussi di merci e di persone che si alternano all’interno del nuovo “edificio” così costituito, che si tratti di persone che si muovono a velocità differenti, per raggiungere direttamente questo o quel piano specifico, o che a spostarsi siano il personale di servizio e i beni di consumo. Le funzioni inserite all’interno di ciascun corpo hanno un carattere prevalentemente ludico - sportivo in linea con l’obiettivo di dotare il lungomare di Torre Faro di un centro ricreativo, oltre che di un polo d’osservazione esclusivo sullo Stretto di Messina.

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Visio

svago

sport

ristorazione

acquisti

+200.0m

sa

Tomus

+150.0m

Rupes

+140.0m

Ars

+125.0m

la

le t

tur

a

arrampic a

es

po

io siz

ta

ni

+109.0m

Hydra sa

+94.0m

u

s

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Lusio cinema bar +70.0m

Ganea

Faenus

+39.0m

g pin

po

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t

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nte

bar

+8.0m +0.0m

P ro s p e tto S UD

tennis

area commerciale


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24m

solstizio d’estate equinozio solstizio d’inverno E

2.6m 3.8m 4.4m 4.7m 4.7m 5.0m 5.7m 5.9m 6.5m 7.3m 8.3m 8.5m

S O

N

Sicilia Calabria

133m

9.1m 10.4m 11.3m 13.4m 14.0m

11.00 12.00 10.00 13.00 9.00 14.00 8.00 15.00 7.00 6.00 E 16.00 17.00

14.5m

go 15 A

29m

7.5m

S

38m

18.00

sto

N

7.2m 7.25m

O

43m 10.

97

m

23

.7 7

m

N

S

barriera acustica riduzione temperatura estiva gestione acque meteoriche elevata inerzia termica

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ascensori piani principali montacarichi

ascensori piani intermedi

ascensore cima ascensore personale di servizio

velocitĂ decrescente



A

A

Faenus

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A

A

113


A

A


Campo da Tennis del Burj Al Arab Hotel, Dubai La pendenza della copertura di Faenus, e la vicinanza del successivo corpo in altezza, hanno suggerito l’annessione al primo piano di una terrazza da utilizzare come campo da tennis sospeso sulla spiaggia.

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+ 45.0

+ 42.0

+ 39.0



+56.5

A

Ganea

A

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A

A

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A

A

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Marta Schwartz, Exchange Square, Manchester. Per le panchine del terzo piano, situate a una settantina di metri da terra, ci si è ispirati alla soluzione adottata a Manchester nella Exchange Square: panchine mobili, in grado di scorrere su dei binari, e di garantire cosĂŹ all’utente una completa autonomia nella scelta del paesaggio da osservare.

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+69.5

+60.5

+55.5

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A

Lusio

A

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A

A

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A

A

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+ 93.5

+ 88.0

+ 84.5

+ 81.5

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Vista della terrazza esterna


A

Hydra

A

130


A

A

131


+ 109.0

+ 106.0

Serbatoio dell’acqua da 2328 hl (V=231.81 m3)

Hydra - Sezione AA Scala 1:200



Ars

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+ 124.0

+ 121.5

+ 119.0

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Interno della galleria espositiva


Rupes

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+ 137.0

+ 134.6


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Tomus

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+ 149.0 + 148.0 + 146.0

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A

Visio

A


A

A


+ 174.0

+ 178.0


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Interno della cabina funiviaria

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Percorsi d’emergenza

Uscite di sicurezza


Aree verdi complessivamente previste nel progetto

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Vista del traliccio dal porto - Stato di fatto

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Vista del traliccio dal porto - Condizione di progetto

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