Photo credit: Nicola Cericola
Il signore delle bollicine
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NOVEMBRE 2013
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ValVIBRATA life TERRITORIO CULTURA ECCELLENZE AMBIENTE SOCIETA’
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Avete mai ricordato un parlamentare finito sul lastrico? Disoccupato? Io no. Avete mai letto storie di imprenditori falliti dopo aver dato lavoro a decine di operai? Io si. Riabilitati dallo Stato o aiutati dalle banche? Quasi mai. Anzi, azzardo e dico, mai! Così vanno le cose, ma non è rassegnazione la mia. E’ la costatazione dei fatti su cui neppure la Carta dei padri costituzionalisti sembra poter far nulla. Perché davanti a nessun tribunale puoi far valere i principi dei “diritti e dei doveri” sanciti dalle “scritture” del Dopoguerra e della Ricostruzione. L’orgoglio italiano ce l’hanno spento, svenduto al peggior offerente: la politica. Quella del “a noi i soldi, a voi le tasse”. L’Ocse smonta ogni previsione di rimonta economica dello Stivale per l’anno che verrà dopo che avevamo creduto di poter sollevare il viso dalla polvere in cui siamo sepolti da 5 anni. Dove sono i segni della ripresa preannunciata? Nei talk show i blablatori ti suggestionano a tal punto che ti fai convinto del fatto che la crisi, quasi quasi, è colpa tua. Mai la loro (dei nostri rappresentanti). Hanno “coraggio” da vendere quando dicono “ci assumiamo la responsabilità politica”. Che si traduce in niente perché il nostro codice penale non la contempla come reato e quello civile nemmeno apre al risarcimento del danno. E di danni certa politica ne fa tanti. Tutti i giorni. Ai tutti di Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama mancano diottrie sufficienti per accorgersi della miseria perché non scendono fra i semplici al piano terra, preferendo restare ai piani alti. Plaudono Papa Francesco ma non lo imitano.
DIRETTORE RESPONSABILE Alex De Palo SEGRETERIA DI REDAZIONE Virginia Ciminà HANNO COLLABORATO Federica Bernardini, Marco Calvarese, Valeria Conocchioli, Martina Di Donato, Noemi Di Emidio, Alessandra Di Giuseppe, Francesco Galiffa, Giordana Galli, Virginia Maloni, Michele Narcisi, Nando Perilli, Federica Pompei, Andrea Spada EDITORE Diamond Media Group s.r.l. Via Carlo Levi, 1- Garrufo di Sant’Omero (TE) Tel. 0861 887405 - redazione@diamondgroup.it VAL VIBRATA LIFE Reg. Trib. di Teramo n° 670\2013 Graphic Design Milena De Palo GRAFICA Diamond Media Group s.r.l. STAMPA Arti Grafiche Picene s.r.l. PUBBLICITA’ info@diamondgroup.it RESPONSABILE TRATTAMENTO DATI Dlgs 196/03 Alex De Palo Riservato ogni diritto e uso. Vietata la riproduzione anche parziale
EDITORIALE
ALEX DE PALO
SOVRAPPENSIERO
A NOI LE TASSE, A LORO I SOLDI
Nocella di Campli, la gassosa con la firma di vittorio g.
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enogastronomia, uk chiama italia e teramo non risponde
sabatino lattanzi i fornelli la mia passione
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epas e il paranormale in val vibrata
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SOMMARIO
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il teramano flagellato dal maltempo
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alba adriatica tortoreto, gemelli diversi
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il surreale della matita di fabrizio del monaco
la fonte di ancarano intorno a un chicco di grano La grotta di sant’angelo a ripe imprenditoria, collaborare per uscire dalla crisi val vibrata life baby gianluca zarroli, il giovane con la passione per l’agricoltura eventi la satira di nando perilli
GIOCANDO CON LE PAROLE di TESTADUOVO
come curare le macchie del viso
ALBALBENSE
moda
Stormi di storni stronzi albergano nell’alba albense cacando con cinica costanza bombardano belle badanti.
CINEMA sterilizzare cani e gatti RICETTE
foglie nelle fogne fonghe tritate come trucioli tristi dicono il dicibile e l’indicibile di quest’aulico, aureo autunno
TERRITORIO
SORVEGLIATI SPECIALI I fiumi fanno paura, la costa teramana flagellata negli anni dalle alluvioni Ad ogni pioggia, come l’ultima, si risveglia l’incubo delle esondazioni
Marco Calvarese
Torna la stagione delle piogge e, con questa, i molti che sono soliti levare lo sguardo al cielo, non per godere romanticamente della carezza delle gocce d’acqua sul viso o per cercare malinconicamente tra le nuvole un timido raggio di sole che dia l’idea di un’estate più vicina; gli sguardi di molti residenti sulla costa teramana sono piuttosto quelli delle persone che, tornando indietro con la memoria, sperano di non vedere ripetersi mai quanto capitato in passato. Inutile illusione. Ricordi traumatici legati ad eventi meteorologici come l’ultimo, quelli del marzo 2011 con la piena dei fiumi Tordino e Salinello che inondarono Giulianova, dell’aprile 2009 con la piena del fiume Vomano che spaventò Pineto e Roseto degli Abruzzi, dell’ottobre 2007 con l’alluvione di Tortoreto ed Alba Adriatica e così via a ritroso nel tempo fino alla storica esondazione del fiume Salinello della notte tra il 18 ed il 19 ottobre 1978 che a Giulianova ancora in molti ricordano con sconcerto. È brutto sentirsi inermi di fronte all’acqua e al fango che, mentre vedi salire sugli stinchi il livello di quella massa liquida puzzolente, inondano dentro e fuori casa rovinando ogni cosa. Proprio per questo motivo si vive con la paura che un evento simile possa ripetersi, soprattutto perché troppo spesso, in contrapposizione a quello che viene puntualmente definito “un evento meteorologico straordinario” non corrispondono subito dopo “lavori di messa in sicurezza straordinari”.
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TERRITORIO
Ogni pioggia quindi ricorda i momenti come quelli della notte tra il 1 ed il 2 marzo 2011, quando il sindaco di Giulianova, Francesco Mastromauro, guardava scomparire sconsolato la pista ciclabile e l’argine sotto la furia del fiume Tordino, mentre dalla parte opposta della città gli argini non riuscivano a contenere il corso del fiume Salinello che inondava tutto il quartiere giuliese e moscianese, oltre che distruggere parte del depuratore di Tortoreto sotto gli occhi del sindaco, Generoso Monti; così come quello del 21 aprile 2009, quando il sindaco di Roseto, Franco Di Bonaventura e quello di Pineto, Luciano Monticelli guardavano crescere a dismisura, sconsolati, il corso del fiume Vomano; anche quello della notte tra il 6 ed il 7 ottobre 2007, quando il sindaco dell’epoca di Tortoreto, Domenico Di Matteo si ritrovò di fronte un intero paese alluvionato ed adirato.Storie che potrebbero essere dimenticate nel tempo solamente se ci si accorgesse che si sta operando in tutti i modi per evitarle, così mentre a Tortoreto ed Alba Adriatica si sono messi in atto nel tempo progetti ben precisi in merito ai sistemi di raccolta delle acque piovane per aumentare la portata della rete, ben diversa sembra la situazione per quanto riguarda i fiumi, i cui argini sembrano ormai bloccati da tempo dalla burocrazia. Un discorso quanto mai attuale visto che, è notizia proprio di questi giorni, assieme alle piogge sarebbero arrivati in Provincia di Teramo, trasferiti alla Regione Abruzzo dalla Ragioneria di Stato, anche 20 milioni di euro non spesi della programmazione fondi FAS 2001/2007, da destinare proprio per i danni dell’alluvione del 2011. Una somma importante e rilevante che andrebbe quindi ad aggiungersi a diversi altri anticipi destinati sempre in favore dei Comuni alluvionati nel 2011, tra i quali i 3.700.000 euro che il Ministero avrebbe sbloccato in favore della Provincia di Teramo dall’estate 2012 ma, soprattutto, il 1.600.000 euro dei fondi stanziati dalla Regione Abruzzo sempre nel 2012 ma proprio per la ricostruzione degli argini dei fiumi Salinello e Tordino così ripartiti: 1.032.913 euro per il consolidamento e la sistemazione degli argini del fiume Salinello compresi nei Comuni di Giulianova, Mosciano e Tortoreto; 619.749 euro per sistemare gli argini del fiume Tordino compresi nei Comuni di Giulianova e Bellante . Interventi che sembrano però rallentati dalla burocrazia. Infatti seppur siano pronti i progetti definitivi che già da tempo sono nelle mani degli ingegneri della Provincia di Teramo, questi hanno dovuto superare tutte le fasi previste dall’iter burocratico ed il nulla osta del Ministero dell’Ambiente prima della gara che, secondo le ultime previsioni politiche, potrebbe far iniziare i lavori sugli argini dei fiumi nella primavera del 2014. Nel frattempo, però, resta la paura dei cittadini ed in partico-
lare dei giuliesi residenti nella zona tra la SS16 e la foce del fiume Salinello che guardano critici i pochi lavori effettuati sugli argini dopo l’alluvione del 2011. Infatti oltre ai lavori di pulizia dei ponti da alberi e rifiuti rimasti bloccati per un anno circa sui pilastri e rimossi autonomamente dai Comuni di Giulianova e Tortoreto, l’unico altro intervento visto fino ad ora è stato quello effettuato nel 2012 dalla Provincia di Teramo con 60mila euro. Un intervento che non permette certo ai residenti di dormire sonni tranquilli. Infatti non è stato risolto il problema causato dalla curva del fiume che si trova tra il ponte stradale e quello pedonale sul versante nord e che causa una corrente perpendicolare e conseguente erosione all’argine giuliese quando il fiume si ingrossa; inoltre, le pale meccaniche si sono limitate a ricompattare l’argine sul versante sud con la terra raccolta dal letto del fiume stesso, non tenendo in considerazione gli scogli di cemento che in precedenza si trovavano sistemati ordinati all’interno per ridurre l’azione di erosione della corrente di acqua.
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Risorge Fonte Monsignore ad Ancarano In epoca romana era antica cisterna di acqua potabile
Valeria Conocchioli Val Vibrata, terra di profumi e sapori, ma anche luogo ricco di storia e di preziose testimonianze del passato, come la forse poco nota Fonte Monsignore di Ancarano. Grazie al lavoro di ricerca e documentazione svolto nel 2005 dal periodico “Ancarano & Dintorni” sappiamo che la fonte è un’antica cisterna a uso potabile e che, secondo gli storici, le sue origini risalirebbero addirittura all’epoca romana e ciò costituirebbe un’ulteriore testimonianza della presenza di questo popolo nel territorio. La fonte è situata alla fine di via Monsignore, in un luogo non solo abbastanza dislocato rispetto al centro storico ma anche inglobato tra edifici industriali e abitazioni. Fino a qualche anno fa, il sito risultava praticamente introvabile, coperto com’era da sterpi, rovi e vegetazione che ormai avevano fagocitato tutto e rovinato le antiche strutture. Per i turisti era quindi impossibile visitare la fonte ma, sorprende maggiormente, che anche molti abitanti ne ignorassero l’esistenza. Finalmente nel 2005, grazie a un intraprendente intervento di pulizia e bonifica del luogo, questa antica cisterna e le sue vasche sono tornate alla luce. Nonostante attualmente
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rimangano poche parti originali dell’epoca romana, la fonte è facilmente visitabile anche se, complice forse la scarsa manutenzione, il sito non risulta in condizioni ottimali.
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INTORNO A UN CHICCO DI GRANO
L’evoluzione della mietitura: dalla falce alla mietitrebbiatrice Francesco Galiffa
Per molti millenni, dal Neolitico all’Ottocento, la falce è stata l’unico attrezzo a disposizione dei mietitori di grano. Sono da riconoscere, infatti, come falci anche taluni coltelli di silice con immanicatura in legno, che l’uomo usava, ancor prima di aver imparato a coltivare, per raccogliere quanto la natura gli metteva a disposizione spontaneamente. Talora, come in Egitto, servivano da falci mascelle di animali o manici di legno in cui erano innestate piccole schegge seghettate di selce. Con l’introduzione dei metalli si ebbero falci di bronzo e di ferro, a volte dentellate. Nell’antichità la sua funzione era così importante che molte divinità e personaggi della mitologia (Saturno, Silvano, Vertumno, Demetra) ebbero come attributo la falce;
in un mosaico rinvenuto a Zliten e conservato al Museo Archeologico di Tripoli, la figura dell’Estate è ritratta con una corona di spighe e una falce dentellata sull’omero. Un’altra testimonianza del suo valore è data dal significato che assume in araldica: essa è simbolo di lavoro operoso. Non va dimenticato, infine, che la falce, insieme al martello, fu il simbolo di un grande partito di massa del Secondo Dopoguerra, che si riteneva paladino degli interessi del proletariato agricolo. Con l’evoluzione dell’agricoltura la falce cominciò ad assumere forme diverse, secondo gli usi: quella usata per il taglio dei cereali, chiamata messoria o falciola, aveva la lama stretta, era curvata a circolo e si impugnava attraverso un breve manico.
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TERRITORIO Il mietitore stringeva con la mano sinistra un pugno di grano un poco al di sotto della spiga e lo tagliava con il falcetto che teneva nella mano destra; le dita della sinistra erano protette da pezzi di canne, legate tra loro quasi a formare un guanto rigido. Essendo uno strumento di lavoro indispensabile, il contadino riservava alla falce le dovute cure.
Prima di recarsi sul campo, per rendere più tagliente la lama, la martellava su una piccola incudine fissata su un tronchetto o bloccata per terra. Nel corso della giornata, per riaffìlarla, usava la “cota”, un pezzo di pietra abrasiva, che aveva sempre con sé, nella tasca dei pantaloni o in un corno di bue legato alla cinta, dentro il quale, spesso, era versato dell’aceto, per tenere umido l’attrezzo. Se la lama della falce si arrotondava, in dialetto “se smarreva”, bisognava ribatterla di nuovo sull’incudine, che il previdente contadino aveva portato sul campo. L’operazione era compiuta nelle prime ore del pomeriggio, durante la pausa che seguiva il pranzo. L’uso della falce iniziò a scemare nei primi decenni del 1800, quando in America furono messe a punto le prime mietitrici a trazione animale, meglio note col nome di falciatrici, alle quali fecero seguito, nella seconda metà del secolo, le mietilegatrici, sempre a trazione animale; queste macchine co-
nobbero una rapida diffusione nelle grandi pianure, soprattutto dove c’era carenza di manodopera. La prima mietitrice degna di questo nome fu costruita dall’inglese Gladstone nel 1806, ma si deve allo scozzese Patrick Bell, nel 1826, lo studio di un modello che prefigurava le caratteristiche di quelli sviluppati in futuro. Nel 1831 Cyrus Hall McCormick iniziò, in Virginia, la sperimentazione di una mietitrice leggera e semplice, tirata da due cavalli, che fu brevettata nel 1834 e commercializzata dal 1842. Negli anni successivi la macchina fu perfezionata e prodotta anche in Italia, dove prestò il suo onorevole servizio fino agli Anni Settanta. Essa era costituita da un telaio in ghisa o in acciaio, montato su due ruote; ad una era applicato un ingranaggio, che, tramite una biella, metteva in funzione l’apparato falciante costituito da una barra a moto alternato (con lama e controlama fissa a denti triangolari). Sulla struttura erano fissati due sedili: uno per il conducente degli animali e l’altro per un operaio che, aiutandosi con un bastone, “accompagnava” il grano reciso su un “cancelletto” mobile; quando riteneva che su di esso se ne fosse depositata una quantità adeguata, lo abbassava azionando un pedale; il fascio si depositava per terra ed era raccol-
Motofalciatr ice in funzion e nel territorio di C ontroguerra (da Il tesoro dei n onni, Istituto C omprensivo di C olonnella, 20 05)
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TERRITORIO to da altri operai, che avevano il compito di fare i “manocchi”. Il suo impiego dimezzò i tempi ed il numero degli addetti alla mietitura. L’uso della falce non fu, in ogni modo, completamente abbandonato perché su ogni appezzamento bisognava tagliare a mano una striscia per consentire la prima passata del mezzo e il grano cresciuto a ridosso degli alberi. Un ulteriore contributo allo sviluppo della meccanizzazione della raccolta dei cereali fu dato dall’invenzione della mietilegatrice, che liberava l’uomo dal compito di legare i covoni; l’operazione era svolta dalla macchina, prima che fossero depositati a terra. In America, la richiesta di queste macchine era così elevata che le aziende pioniere intensificarono in maniera esponenziale la produzione e, dagli ultimi decenni dell’Ottocento, sempre più numerosi produttori americani si dedicarono alla loro costruzione e commercio, esportandole anche in Europa: nel Vecchio Continente, negli ultimi decenni del 1800, il 90% delle macchine, infatti, era importato dall’America, anche se non mancavano costruttori locali capaci di mettere sul mercato modelli di qualità non inferiore. In Italia, dove la proprietà era molto frazionata, la diffusione di queste macchine fu alquanto lenta sia per prezzo d’acquisto troppo elevato per i proprietari che per l’abbondanza di manodopera a disposizione. Un impulso al loro uso venne dalla politica autarchica messa in atto dal Regime Fascista, che mirava ad aumentare la produzione di cereali per raggiungere l’autosufficienza; la Laverda, industria
leader nella produzione di macchine agricole, fu spinta a realizzare la mietilegatrice ML6 con barra da 1,82 m, che, commercializzata dalla Federazione dei Consorzi agrari, conobbe subito una notevole diffusione. Negli anni successivi seguirono modelli sempre più perfezionati e adatti anche alle zone collinari; la produzione, nella seconda metà degli anni Cinquanta, raggiunse i 2000 esemplari l’anno, coprendo i due terzi del mercato. Furono anche costruiti modelli di mietilegatrice di più grandi dimensioni, con uscita laterale dei covoni, trainata ed alimentata da potenti trattori, in grado di accelerare ulteriormente i tempi della mietitura. Ebbero però una vita molto breve perché furono soppiantate dall’avvento delle mietitrebbie. C’è da rilevare che in Italia, in tal epoca, l’introduzione delle macchine in agricoltura fu molto lenta e si deve costatare che la mietitura manuale continuò a essere praticata a lungo, durante il ’900, con la falce e poi con l’aiuto delle mietitrici; anche in questo secondo caso, però, era richiesta una quantità sempre grande di mano d’opera. Questo ritardo era anche dovuto al fatto che il sistema socioecononomico italiano dell’epoca non richiedeva un drastico abbattimento della manodopera, ritenuto invece necessario in America e in molti Paesi Europei. Da noi, i mezzi meccanici di maggiore successo e diffusione, per il costo contenuto e la possibilità d’impiego in zone declivi, furono gli apparati mietitori e mietilegatori in genere ad accovonatura verticale, montati su motofalciatrici; cominciarono a circolare intorno agli anni 30-40,
iziare sivo di Pronto per in tuto Compren ti Is i, n n o n ei (da Il tesoro d 05) Colonnella, 20 Mietilega, co llegata a un trattore a cin Istituto Comp goli, in azion rensivo di Colo e nelle camp nnella, 2005) agne di Bella nte
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(da Il tesoro d
ei nonni,
TERRITORIO ma il loro impiego si affermò solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, periodo in cui fu attuata una meccanizzazione dell’agricoltura su larga scala. Questi ritardi ebbero ripercussioni gravi sul costo di produzione dei cereali e, di conseguenza sul costo del grano. A tale proposito sono estremamente eloquenti i seguenti dati, riferiti al 1935: per effettuare la mietitura a mano di un ettaro di grano il costo era di 140 lire, usando un mezzo a trazione animale di 60, con una macchia a trazione meccanica scendeva a 35. L’ultima grande innovazione, anzi una vera e propria rivoluzione, i cui primi prototipi risalgono all’Ottocento, è stata quella dell’abbinamento della mietitura e della trebbiatura in una sola operazione mediante macchine semoventi, le mietitrebbiatrici, che, a parte alcune aree particolarmente arretrate, caratterizzano l’intero sistema agricolo mondiale attuale. Le prime mietitrebbie nacquero ancora in America, dove le grandi estensioni coltivate a cereali imponevano necessariamente di trovare uno strumento alternativo alla falce e agli altri mezzi man mano immessi sul mercato. La prima mietitrebbia fu inventata da Hiram Moore nel 1838, ma dovettero passare molti decenni prima che diventasse popolare; per operare, aveva bisogno di essere trainata da oltre 16 cavalli! Più tardi fu spinta da trattori a vapore e poi da quelli a scoppio. Le combinate, alimentate da prese di potenza collegate al trattore, furono usate per lungo tempo, anche dopo l’introduzione dei modelli
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ie spe e mietitrebb m ri p e ll e d a Un grario) Ispettorato A
semoventi, nei piccoli appezzamenti dislocati in alta collina e in montagna. Le semoventi, le motomietitrebbiatrici, videro la luce tra le Due Guerre. Nel 1930 ne fu progettata una da Franz Claas in Westfalia, ma la vera pioniera in questo settore è considerata la MH-20 Massey Harris, introdotta nel 1938; essa offriva agli agricoltori di grandi estensioni di terreno la possibilità di ottenere enormi aumenti di produttività e di prestazioni. Negli Anni Cinquanta furono immessi sul mercato anche modelli italiani, prodotti dalla Laverda e dalla Orsi, grandi industrie specializzate nella produzioni di mezzi per l’agricoltura. Il resto della storia è cronaca ed è sotto gli occhi di tutti: una sola persona, al massimo con l’aiuto una seconda addetta alla guida del trattore di appoggio per immagazzinare il grano, fa fuori in poche ore ettari di grano. Un epilogo della storia che esalta sicuramente il progresso ma che si presta a una considerazione carica di un velo di nostalgia. Si passa dall’impiego di uno stuolo di contadini che ingannano la loro fatica con scherzi e canti alla solitudine del conducente di una macchina supertecnologica, il quale non suda perché la cabina dispone di aria condizionata, ma, se vuol ascoltare una voce umana, lo può fare solo attraverso la radio o l’auricolare dell’IPad.
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TERRITORIO
WELCOME ITALY,
BYE BYE TERAMO
All’appuntamento enogastronomico del Regno Unito mancavano provincia e Val Vibrata Anna Di Donato
degustazioni di vini, due degustazioni oli extra vergine d’oliva ed un workshop sul bergamotto. In uno stimolante e succulento tour tra gli stand è stato possibile degustare la miriade di prodotti peculiari di molte regioni d’Italia, dai formaggi alle salse d’ogni genere, dai vini ai tarallucci , dall’olio extravergine d’oliva fino ai salumi. Non mancava proprio nessuno se non la provincia di Teramo e la tanto amata Val Vibrata. Com’è stato possibile che una larga fetta della nostra regione restasse all’oscuro di un evento volto alla promozione delle eccellenze del food&beverage italiano? Delucidazioni a riguardo sono giunte proprio dall’Italian Chamber of Commerce la quale risponde che, l’organizzazione dell’esibizione ha coinvolto le Camere di Commercio aderenti al progetto SIAFT ( Southern Italy Agri Food and Tourism), l’ARSIAL (Agenzia Regionale per lo sviluppo e l’in-
A Londra si è svolta la prima edizione di una delle fiere più importanti che la storia dell’export italiano ricordi. L’evento, organizzato al Royal Horticultural Halls dall’Italian Chamber of Commerce era basato sulla sponsorizzazione dei migliori prodotti enogastronomici di cui il nostro Paese può far vanto. Il successo delle tre giornate è dovuto alla presenza di 4600 visitatori di ogni nazionalità, 61 espositori, 20 ristoranti premiati con il marchio Ospitalitá Italiana, nove sponsor (del calibro di Alessi, Electrolux, Bormioli, Ferrarelle, Caffé Fratelli, Federazione Italiana Chef, ed altri), otto performances live di chef italiani rinomati nel Regno Unito, tre giorni di fiera, tre
novazione dell’Agricoltura del Lazio), Regione Lazio e Regione Calabria oltre che grandi privati come Fiat. Se il progetto Siaft ha l’obiettivo di consolidare nel mercato britannico le eccellenze agroalimentari del Sud in quanto le regioni del Nord sono più avanzate dal punto di vista dell’export, continua a non spiegarsi l’assenza della nostra Provincia e del vasto territorio vibratiano, i quali, proprio per la grande quantità di prodotti tipici, più di altri meriterebbero un’opportunità di tale calibro. Non è chiaro, dunque, se, alla richiesta di partecipazione ci sia stato disinteresse da parte della Camera di Commercio di Teramo o se la mancanza è attribuibile ai singoli produttori della zona. Fortunatamente non tutto l’Abruzzo è andato perduto; a rappresentare la nostra regione è stata la Provincia di Chieti con le cantine Ciavolich ed in particolare Riap Teatina la quale, oltre agli ottimi bianchi, rossi e rosati, ha esposto un eccellente vino cotto (detto anche bambenielle) dall’inestimabile valore
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LA NOSTRA STORIA
LA GROTTA DI SANT’ANGELO A RIPE Di origine neolitica “segna” il passaggio dal Paganesimo al Cristianesimo con la venerazione di San Michele Anna Di Donato
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TERRITORIO Era il V Millennio a.C. quando, nella zona di Ripe, ataviche popolazioni lasciarono un perenne segno della loro identità e presenza. Oltre all’aspetto puramente geologico delle grotte, naturale conseguenza del fenomeno carsico, di notevole interesse è l’imprinting degli insediamenti umani. Accertata la difficoltà di un’ancestrale ricostruzione morfologica, più incisiva è l’analisi dell’aspetto antropologico. Interessante è il continuum excursus cultuale rintracciabile nel passaggio dal neolitico pagano fino agli influssi del monoteismo cristiano. Le prime testimonianze di un’attività rituale emergono dall’individuazione di grandi buche scavate in onore della fertilità della terra; il culto pagano “della Grande Madre” secondo cui tutto ciò che proveniva dalla terra era dispensatore di vita così come tutto quanto a “Lei” tornava. Per tale ragione, nelle buche furono posti resti di cibo, ossa animali ed addirittura umani il cui ritrovamento (avvenuto nel secolo scorso) confermò la radicata fede di queste popolazioni nel mito della rigenerazione dalla morte. Al secondo aspetto dell’era neolitica inferiore appartiene l’altro insieme di ritrovamenti archeologici, convalida dell’impiego della ceramica impressa nella lavorazione di vasi a fiasco, scodelle emisferiche, recipienti troncoconici ed approssimativa decorazione. Risalenti al 3.000 a.C., la loro particolare composizione denuncia una maggiore propensione all’estrosità delle forme che a quella degli impressi. Con l’insediamento di agricoltori e pastori avvenuto intorno all’anno 1000 a.C., nulla mutò nel substrato spirituale, e, per nuove forme di idolatria bisognò attendere l’anno zero. Il passaggio degli antichi romani, infatti, diede impulso alla pratica del Culto di Ercole: incarnazione della forza bruta, in Italia passò a rappresentare il tramite tra mondo umano e quello divino. L’aspetto interessante è che in Italia Ercole abolì il culto dei sacrifici umani celebrati dai Sabini , integrandosi, ed in parte sostituendosi al culto della Madre Terra. Per questa ragione, nella grotta non ci sono più testimonianze di ritrovamenti di ossa umane di lì in avanti. Intorno all’ 800 d.C. la grotta divenne rifugio per molti eremiti; la sua collocazione, infatti, predisponeva l’animo umano all’espiazione dei peccati e alla purificazione dello spirito. Trasfigurata in connotati cristiani la figura di Ercole, il quale attraverso le sue fatiche, prove
e purificazioni si avvicinava all’assunzione finale nell’Olimpo, l’eremita, allo stesso modo, predisponeva anima e corpo all’assunzione in Paradiso. La presenza di 4 o più eremiti, dà alla grotta l’aspetto di romitorio, disconferma di quanto spesso asserito nella classificazione del luogo ad eremo. Nella realtà, eremo non fu mai; nel 1200 d.C., i solitari dediti all’ascesi mistica furono travolti dall’indelebile influenza esercitata da San Francesco (storicamente passato nelle nostre zone) e dal suo ordine, per il quale era necessario lasciare su questa terra tracce di preghiera e venerazione nonché espiare i peccati mediante l’applicazione della regola (in questo caso benedettina ma ripresa dai francescani) “Ora et Labora”. Diretta conseguenza di questa nuova fede è il primo altare costruito nel 1236 d.C. in onore di San Michele Arcangelo colui che scacciò Satana dall’ Eden e da allora tramite tra cielo ed inferi in virtù della sua condizione di guardiano. Con la venerazione di San Michele si chiude il triangolo sacro dei riti succedutisi nella grotta dal Neolitico
Foto di FABRIZIO FAGNANI all’era Cristiana; persino i briganti, occupato il territorio da fine 1600 a termine del 1800, proseguirono l’adorazione facendosi custodi della sacralità della caverna, in particolar modo perché il Santo in questione era uno dei pochi la cui iconografia lo ritraeva armato; segno di un’ imprescindibile affinità con il loro stile di vita. La Grande Madre Terra, collante ed interazione tra morte e vita; Ercole, simbolo di resistenza e sacrificio volto all’ascensione nell’Olimpo, fino a San Michele, tramite per eccellenza tra universo divino, terreno ed ultraterreno.
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DO YOU SPEAK
ITALIAN?
La lingua di Dante “passpartout”per il permesso di soggiorno I centri Eda funzionano, in quello di Nereto e Martinsicuro si sono iscritti 325 stranieri Valeria Conocchioli
L’Italia e, quindi, la Val Vibrata, si stanno trasformando in una realtà sempre più multietnica. Di conseguenza, aumentano sul territorio le strutture che si occupano di erogare istruzione a quegli utenti di età adulta che, più dei bambini o degli adolescenti, trovano difficoltà nell’apprendimento di una nuova lingua. I comuni del nostro territorio, in quanto appartenenti a un unico Bacino per l’impiego, fanno riferimento al Centro Territoriale Permanente di Nereto per le attività di formazione in età adulta. I dati a disposizione, ricavati dalla “Relazione finale dei Corsi di italiano per stranieri” del Ctp di Nereto, risalgono all’anno scolastico 2012-2013. Da questi emerge un costante aumento della frequenza alle lezioni di lingua: ai 21 corsi attivati presso le sedi di Nereto e Martinsicuro hanno partecipato ben 325 corsisti. Da quanto si ricava dal “Quaderno E.D.A. Esperienze e documentazione”, si tratta soprattutto di cittadini stranieri (donne e uomini di età compresa all’incirca tra i 25 e i 40 anni) provenienti soprattutto dal continente asiatico e da quello africano. In particolare, una maggiore partecipazione si è registrata nei corsi di livello A2 oramai fondamentali dopo l’istituzione del “Test di conoscenza della lingua italiana” con il Decreto ministeriale 4 giugno 2010. Il decreto stabilisce che per ottenere il “permesso di soggiorno CE” per soggiornanti di lungo periodo è necessario superare il test di lingua italiana o avere un attestato di conoscenza della lingua al livello A2 “che consente di comprendere frasi ed espressioni di uso frequente in ambiti correnti”. Non sorprende, quindi, la massiccia presenza di cittadini stranieri a questi corsi. Anche per esperienza per-
sonale, posso confermare che le richieste di iscrizione continuano durante tutto l’anno scolastico. Il Ctp di Nereto, oltre ad essere sede di test, è anche convenzionato con le Università per Stranieri di Siena e Perugia per il rilascio delle certificazioni Cils e Celi. Si tratta di titoli volti ad accertare una conoscenza dell’italiano spendibile a livello lavorativo, formativo o sociale. In particolare, a quanto emerge dai dati del Ctp, i corsisti che sostengono gli esami per i livelli intermediavanzati sono interessati a utilizzare la certificazione in diversi ambiti: come requisito di ingresso ai corsi di qualifica per Mediatore Interculturale; come titolo per lavorare nel settore delle traduzioni o dell’interpretariato; come possibilità di insegnare l’italiano una volta rientrati nel Paese di origine. Oramai è sempre più chiaro che conoscere la lingua permette non solo di trovare un’occupazione (finalità primaria del migrante), ma anche di migliorare la propria posizione lavorativa e inserirsi meglio nel tessuto sociale e culturale.
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LA NOSTRA STORIA
SEPARATI IN
CASA
Alba Adriatica si staccò da Tortoreto nel 1956 I motivi raccontati da Mimì Dezi, storico operatore turistico lidense Michele Narcisi
TERRITORIO Per tanti cittadini vibratiani, molti dei mali attuali che affliggono Alba Adriatica e Tortoreto partono da lì, ossia dall’anno di grazia (o di disgrazia?) 1956, quando fu sancita una delle divisioni più dolorose, e per tanti versi dannose, di tutta la vallata vibratiana, e non solo. L’allora Tortoreto Stazione, dopo memorabili e non incruenti battaglie, riuscì infine a costituirsi in Comune autonomo, scegliendosi come nome Alba Adriatica (Spiaggia d’Argento). Tortoreto Paese, già allora abbastanza povero a livello di abitanti, mai e poi mai avrebbe accettato di rinunciare, o rimettere in gioco, la sede comunale e la sua centralità. A parlare di tutta la vicenda, dall’inizio fino agli sviluppi successivi è Domenico Dezi, per tutti Mimì, operatore turistico per una vita, e memoria storica di quanto è accaduto nei due centri negli ultimi 70 anni se non di più. Mimì rievoca le vicende passate con estrema lucidità, ad onta delle molte primavere che porta meravigliosamente bene sul groppone. Di quando andava a studiare in bicicletta a Giulianova o di quando fu arruolato (in Marina, anno 1943). Fu lui, sulla scia del papà Zio’, a creare insieme ad un paio di soci uno chalet punto di riferimenti dei villeggianti di mezzo mondo. E, a proposito di mondo, allora era proprio un “altro mondo”: strade sterrate, spiagge in semi-abbandono, lampioni che sembravano piatti da cucina, vegetazione autoctona fatta di erbe e piccoli arbusti pungenti (chiamati “baciapiedi”, ma più che baci erano punture a volte anche un po’ dolorose). Domenico Dezi non fu solo un precursore nel campo del turismo, ma si batté anche per evitare la spaccatura tra Tortoreto Paese, Tortoreto Lido e Tortoreto Stazione (l’attuale Alba Adritaica). A distanza di tanti anni non riesce a darsi pace e non perdona, con mente lucida e cuore ancora appassionato, chi fece in modo di causare la secessione albense. Mimì si schierò con la lista “Barca a Vela”, il cui programma si basava, per l’appunto, sul mantenimento del Comune unito. La sede del nuovo municipio sarebbe sorta nell’attuale Villa Rosa, nella zona della Pinetina. La lista vinse contro l’altra in lizza, “La Tortora”, ma dopo varie vicende, non tutte, per dir così, “pulite”, fu sancita la divisione e indette nuove elezioni. Ma è d’obbligo, per inquadrare meglio i fatti, concatenandoli tra loro, fare un lungo passo indietro. La questione campanilistica tra i centri che formavano un unico blocco deflagrò nel
1930 (in pieno Fascismo, con al potere, non a caso, il Podestà signor Ricci), con lo spostamento della sede municipale da Tortoreto Alto a Tortoreto Stazione. Motivata da ragioni di viabilità, di trasporto, di spostamenti più veloci essendoci, appunto, lo scalo ferroviario. Ma la sommossa più forte si ebbe quando fu deciso lo spostamento, dalla collina al mare, della caserma dei carabinieri. Molti tortoretani del paese alto furono rinchiusi nel carcere di Sant’Agostino a Teramo. Nel 1944, nel corso della ritirata dei tedeschi da Ortona, per ripararsi da eventuali bombardamenti, la sede del Comune da Tortoreto Stazione fu trasferita nella contrada Casa Santa (zona conosciuta come “Lu Caso’). Ma, appena passato il fronte, gli abitanti del Paese, con un vero e proprio blitz, si riportarono a casa il Comune, nel vecchio palazzo municipale. Il Prefetto prese atto della situazione senza colpo ferire anche per evitare ulteriori sommosse. I fatti successivi li abbiamo già citati sia pure sommariamente: elezioni, vittoria della “Barca a Vela” risultata inutile e l’inevitabile divisione di due centri che non risultano divisi da un fiume o un torrente o una collina, ma da una piccola strada, angusta, scomoda, stretta, che, appunto, li separa. Dezi e tanti altri cittadini dell’una o dell’altra sponda, pardon: strada, non riescono però a rassegnarsi e premono con i sindaci che di volta in volta si avvicendano nei due Palazzi di città affinché si mettano d’accordo per riunire Alba Adriatica e Tortoreto. Un sogno che -si ha motivo di ritenere- rimarrà tale. Difficile se non impossibile, infatti, debellare i campanilismi frutto di arretratezza politica, sociale e, soprattutto, culturale.
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IMPRENDITORIA
COLLABORARE PER USCIRE DALLA CRISI
E’ possibile con il “contratto di rete”, uno strumento innovativo per la
crescita delle nostre imprese ALESSANDRA DI GIUSEPPE
Rete ed innovazione: sono questi i giusti ingredienti per superara la crisi? In un mercato sempre più globalizzato, per poter fronteggiare realtà imprenditoriali agguerrite e di grandi dimensioni, le piccole e medio imprese devono coalizzarsi. Oggi, infatti, sopravvive chi è meno piccolo. Prima della legge 33/2009, che ha introdotto in Italia il contratto di rete, le uniche forme di aggregazione tra imprese erano il contratto di società o di consorzio, A.T.I., R.T.I, joint ventures, il contratto di franchising ed altre. Il contratto di rete è uno strumento molto più flessibile, capace di adattarsi alle esigenze di imprese di ogni dimensione e settore, che combina due concetti fondamentali: collaborazione imprenditoriale sugli stessi programmi e mantenimento dell’autonomia imprenditoriale. Per realizzare il programma di rete le parti contraenti
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possono istituire un fondo patrimoniale comune, che è soggetto a vincolo di destinazione. La crescita dimensionale attraverso le reti consentono al piccolo imprenditore di uscire dall’isolazionismo, di rinunciare ad una concorrenza sfrenata cambiando la visione del fare impresa. I motivi per optare per il contratto di rete sono di natura fiscali, finanziari ed amministrativi. Sul piano fiscale, con provvedimento del 14 giugno 2013 l’Agenzia delle Entrate ha previsto un’agevolazione consistente nella sospensione d’imposta della quota di utili d’esercizio destinata al fondo patrimoniale comune o al patrimonio finalizzato alla realizzazione dello scopo comune, per le imprese che abbiano aderito a un contratto di rete. L’agevolazione riguarda il periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2012. La normativa prevede semplificazioni per l’accesso al credito nonché per l’accesso ai contributi con un unico procedimento per le imprese aderenti più snello e veloce. I modelli di reti d’impresa sono due: - Rete verticale: aggrega aziende che condividono interessi legati a tutta la filiera produttiva, con obiettivi di consolidamento e responsabilizzazione. - Rete orizzontale: raggruppa piccole aziende che si uniscono in rete per superare l’ostacolo della scarsa visibilità e del basso potere di negoziazione. Il contratto può essere redatto non solo per atto pubblico o scrittura privata autenticata ma anche per atto firmato digitalmente con mera firma digitale o con firma elettronica autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale e trasmesso agli uffici del Registro delle Imprese attraverso un modello standard tipizzato. Secondo uno studio effettuato sul campo da InfoCamere da aprile 2010 ad oggi il contatore delle reti
IMPRENDITORIA segna bel 995 accordi siglati, per un totale di circa cinquemila imprese operanti nei settori dell’edilizia, sanità, tessile e nuove tecnologie. I vantaggi riscontrati nell’immediatezza sono l’integrazione e lo scambio di know-how, il potenziamento della capacità innovativa, forza contrattuale, competitività ed efficacia di penetrazione commerciale sui mercati. Secondo gli ultimi dati, 8 imprese su 100 sono a Milano, due contratti su tre hanno tra tre e nove imprese. In Lombardia sono 1300 le imprese aderenti ad una rete; a seguire Emilia-Romagna con 714 imprese e Toscana con 579. Anche in Abruzzo, il contratto di rete è stato preso in considerazione per essere al passo con il mercato ed è nata la prima rete di imprese denominata “Polo dell’Alta Moda” nell’Area Vestina, prima rete in Italia del Sistema Moda e, di recente, sulla scia del successo del primo
è nata un altro contratto di rete a Pescara, denominato “Partners for Value”, stipulato tra aziende operanti nei servizi ad alto valore aggiunto alle imprese. Il 21 ottobre è scaduto, inoltre, il bando per l’internazionalizzazione delle reti di impresa, finanziato con 2 milioni di euro del P.O. FSE 2012/13, finalizzato ad accrescere le opportunità di accesso ai mercati internazionali delle imprese abruzzesi operanti nei settori agroalimentare, meccanica, efficienza energetica e moda. In questa fase di grave crisi economica le imprese devono imparare a collaborare tra loro per sopravvivere e per essere competitive. Il cambiamento è la flessibilità. In Val Vibrata, al momento. non esiste una rete di imprese; il contratto di rete potrebbe essere lo strumento adatto per affrontare mercati sempre più competitivi, consentendo alle imprese di mantenere la propria autonomia.
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PEOPLE
IL PRIMO DEI “PRIMI” Sabatino Lattanzi fa lo chef di professione Ama trasformare risotti e pasta seguendo studio e ricerca Valeria conocchioli Accostamenti insoliti, gusti raffinati e profumi accattivanti: questa è l’arte di Sabatino Lattanzi, giovane chef di Civitella del Tronto. Un’intervista a tu per tu per scoprire tutti i segreti che si nascondono dietro un ottimo piatto. Oramai si parla molto di te e del tuo talento, ma raccontaci come ti sei avvicinato al settore culinario. Il mondo della cucina mi ha sempre affascinato fin da piccolo. Ho frequentato infatti l’Istituto Alberghiero a Teramo e ho iniziato a lavorare nel 2002 come aiuto cuoco presso il ristorante Zunica di Civitella del Tronto e da lì non sono più andato via. Dopo una prima stagione alquanto difficile, alle prese con uno chef molto severo e un lavoro poco gratificante, stavo seriamente pensando di abbandonare tutto. Poi, per mia fortuna, è arrivato un nuovo chef, Francesco Liguori, che ha riacceso in me la passione per la cucina e mi ha convinto ad andare avanti. Sappiamo anche che hai partecipato a diversi eventi e manifestazioni culinarie. Quali sono le più recenti e significative? Il 2013 è stato un anno pieno di soddisfazioni e appuntamenti importanti. A Lione ho partecipato al “Sirha”, la fiera alimentare dei più grandi chef francesi; sono stato poi al “Vinitaly Cooking Show” di Verona e a “Identità Golose” a Milano. Di recente ho partecipato al “Cooking X art” di Roma rappresentando l’Abruzzo con un mio piatto e alla manifestazione “Chef emergente” di Firenze. In quest’ultima occasione ho sostenuto le gare di qualificazione come chef emergente del centro Italia e ho superato
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PEOPLE la semifinale battendo quattro chef rispettivamente di Abruzzo, Marche, Umbria e Molise. Sono così giunto in finale ottenendo un ottimo secondo posto, dietro a uno chef del Lazio. Sono molti sicuramente i riconoscimenti e le gratificazioni che ricevi dal lavoro, ma altrettanti saranno i sacrifici e le rinunce. Si, è un lavoro che richiede molto impegno e qualche sacrificio. In pratica so quando arrivo al ristorante ma mai quando esco! Ho dovuto abbandonare qualsiasi attività sportiva per mancanza di tempo e mi è rimasto un unico hobby, quello della pesca, che mi permette di rilassarmi e scaricare la tensione. A proposito dei tuoi piatti, c’è qualcosa che preferisci cucinare? Si, prediligo la preparazione dei primi, essenzialmente perché amo mangiarli. Mi piace molto sbizzarrirmi con i risotti e, in particolare, le mie creazioni migliori sono il risotto sedano rapa, tartufo e caffè e quello porri, pere e caprino. Per quanto riguarda gli ingredienti, ci tengo a utilizzare sempre prodotti di stagione, del territorio e a Km zero. Da cosa ricavi l’ispirazione quando cucini? Alla base di tutto ci sono il continuo studio e la costante ricerca. Trascorro molto tempo al pc per prendere spunto dai più grandi chef nazionali e mondiali dai quali riesco sempre ad imparare molto, rielaborando poi secondo il mio stile personale. Quali sono le tue ambizioni per il futuro? Desidero diventare un grande chef e ottenere la Stella Michelin che è sicuramente uno dei più grandi riconoscimenti in questo campo. C’è una persona in particolare che ti senti di ringraziare o a cui sei debitore? Si, certamente. Un ringraziamento va al mio collaboratore Luca di Felice e sicuramente, tra tutti, a Daniele Zunica che ha sempre creduto in me e mi ha dato piena fiducia fin dall’inizio. Spero di continuare a lavorare per lui per crescere e migliorarmi. Prima di concludere, un commento alla recente moda dei reality televisivi legati alla cucina. Mi ritrovo spesso a guardare questi programmi televisivi, ma credo che possano essere sviluppati meglio con professionisti del settore, sicuramente più competenti e preparati rispetto alla gente comune e dai quali si potrebbero ricavare molti insegnamenti e ispirazioni.
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ValVIBRATA y life ab b
ILLUSTRAZIONI DI GIORDANA GALLI
NINNA NANNA DEGLI INDIANI: Passa la carovana degli indiani in fila indiana, inseguendo van la traccia coi colori sulla faccia, con le penne nelle trecce, con la scure e con le frecce e con l’arco nella mano in silenzio piano piano. Bum Bum, Bum Bum..... Esce dalla foresta a cavallo lancia in resta un guerriero in armatura con la spada alla cintura elmo e scudo son d’argento, corre forte come il vento al castello in mezzo al lago per combattere col drago.
Bum Bum, Bum Bum..... Ecco viene la mamma; e’ già ora della nanna, è finito un altro giorno e il guerriero fa ritorno, fa ritorno da lontano col pirata e con l’indiano per dormire nel lettino con le teste sul cuscino. Bum Bum, Bum Bum..... (www.infanziaweb.it)
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L’ ”aguzza” matite
Fabrizio Del Monaco, l’agente di telefonia con la passione per il disegno Virginia Ciminà
Amante dei fumetti supereoristici americani e dello stile europeo, nei suoi disegni Fabrizio Del Monaco sprigiona tutta la sua creatività. Linee semplici, esplosioni di colori, personaggi eclettici e case stravaganti tanto da mettere in scene location
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quasi surreali. “Fin da piccolo mi piaceva molto disegnare – si confessa soddisfatto e con il sorriso stampato sul volto. Mi ricordo che mia madre faceva la sarta, la osservavo e mentre lei era intenta a lavorare io disegnavo i volti delle modelle che vedevo sui giornali . Per non parlare poi dei fumetti, li amavo molto e li leggevo a tutto spiano”. “Poi durante il periodo dell’università – continua Fabrizio - disegnavo per pagarmi le spese. Da lì ho iniziato a considerare questa passione come un vero e proprio lavoro. Ma si sa, in Italia l’artista non viene ripagato come si deve e per questo a malincuore, ho dovuto optare per un altro lavoro, l’agente di telefonia.” Ma la passione per l’illustrazione è sempre ardente in Fabrizio. Infatti dopo i primi incontri con il fumetto nell’atelier del fumettista Fulvio d’Amore prosegue la sua esperienza di
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formazione prima con l’illustratrice Selene Reitano per approdare poi alla Scuola di Fumetto Marche sotto la guida di Fabrizio Faina e, in seguito, alla Scuola Internazionale di Comix. Negli anni successivi, entra a far parte dello staff della Scuola di Fumetto Abruzzo dove insegna corso di fumetto base e junior. Una scuola a tutto tondo che ha allargato gli orizzonti anche allo stile orientale con corsi di manga. “Non è facile fare questa attività - spiega infine Fa-
brizio - molte persone non capiscono quanto lavoro c’è dietro. Bisogna documentarsi tanto, entrare nel personaggio, vedere l’epoca e studiarne le mode. Mi è capitato di fare una sceneggiatura su Ascoli negli anniVenti, ho dovuto studiare gli abiti che andavano ai tempi, le macchine che c’erano per poi ricostruirne tutta la storia”. All’attivo, Fabrizio vanta diverse collaborazioni con la casa editrice Edinova con la quale ha pubblicato diversi albi illustrati per ragazzi. Ha realizzato guide a fumetti per associazioni di volontariato, ideato e realizzato locandine per spettacoli teatrali, scenografie e oggetti di scena. Attualmente è in corso di realizzazione una guida illustrata della Domus teramana rivolta ai bambini, relativa ai percorsi educativi del Museo Archeologico Savini di Teramo ed è in fase di pubblicazione l’illustrazione di una filastrocca sempre per bambini inserita in un progetto multiculturale.
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ECCELLENZE
Come sgorga da nocella
Stile vintage e sapore antico accompagnano la storia della famosa gassosa di Vittorio G VIRGINIA CIMINA’
(fotoservizio Nicola Cericola) Avio si sforza di ricordare, mentre fuori c’è una bellissima giornata di sole. Si partì per caso nel 1972 quando Pancrazio, allora proprietario della azienda, decise di mettere in vendita l’ attività già avviata e papà Giovanni, che allora era fabbricatore di mobili, non si fece scappare questa preziosa opportunità. Una vendita totale dai vecchi macchinari alla famosa ricetta che poi modernizzò e fece sua.
In una società dove l’importazione la fa da padrona e domina una cultura manageriale in cui le piccole e medie imprese e il lavoro artigiano non vengono più viste di buon occhio, la vera sfida è continuare le tradizioni di un tempo con dedizione e passione per il lavoro artigianale. Si scopre cosi che non è mai tardi per rivalorizzare i vecchi mestieri e le vecchie tradizioni come quella di Giovanni Vittorio, imprenditore artigianale che ha saputo utilizzare consapevolmente il proprio talento creativo e manuale per metterlo a disposizione del pubblico, presentando così un prodotto qualitativamente eccellente, la famosa gassosa firmata Vittorio G. Bastano appena 20 minuti per arrivare all’azienda di Vittorio G che si affaccia in contrada Piane di Nocella a Campli. È la tipica azienda “vecchio stile” anni Settanta caratterizzata da un grande spazio esterno, un capannone che fa da cornice e un’abitazione-ufficio con giochi sparsi qua e là, per la semplice gioia degli occhi. Appena entrati, non sorprende trovare il figlio 41enne Avio, ora a capo dell’azienda e la mamma a fare gli onori di casa e smistare le telefonate. Sorseggiamo un po’ della sua gassosa mentre ci accingiamo a visitare l’azienda. Come mai la scelta di tuo padre di intraprendere questa avventura ?
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Qual è il segreto della ricetta della gassosa? Non esiste un segreto, a parte il giusto dosaggio degli ingredienti :acqua, zucchero, anidride carbonica, acido citrico e aromi naturali per arrivare ad un mix perfetto. Siamo partiti con la produzione di spuma, chinotto, bitter e aranciata. Le bottiglie erano fatte a mano con etichette stampate a vetro e si chiudevano ermeticamente con una pallina di vetro spinta verso l’alto dalla pressione dell’acqua gassata. Oggi produciamo complessivamente 12000 casse l’anno soprattutto d’estate. Il potere delle nostre bollicine? Oh, lasciamelo dire! Bevuta da sola o allungata con il vino o con il ghiaccio e il limone è la morte sua. E poi ha effetti digestivi ineguagliabili. Mi parla del processo produttivo, descrivendomelo come la cosa più semplice del mondo. Avio ci mostra tutti i passaggi della lavorazione: dalla preparazione
ECCELLENZE era la cinta dei pantaloni, l’acqua si gassava grazie alla rotazione di pale sotto pressione. Poteva fare al massimo 120 bottiglie. Ma le soddisfazioni non finiscono qui. Infatti nel 1980 Vittorio G si aggiudica un importante premio di qualità a livello nazionale. Mio padre era determinato a dimostrare il proprio talento nel capire quello che vogliono i consumatori. E così ha fatto nel corso degli anni. A differenza di altri imprenditori della zona, riluttanti a ostentare il proprio successo, Avio Vittorio parla vo-
della giusta dose di sciroppo alla pastorizzazione per poi passare alla dosatrice dove la bottiglia ne prende la quantità giusta. Infine la bottiglia va nella riempitrice dove viene aggiunta acqua e anidride carbonica. Finalmente è pronta per essere imbottigliata e etichettata. “Si fa così, che ci vuole!”, esclama entusiasta del suo racconto. Avio si sente fiero della sua ricchezza ma è anche consapevole di quanto sia difficile stare al passo con i tempi per non essere spazzati via. Infatti oltre alla produzione di gassosa è anche ingrosso di bevande. Nel piazzale ci sono cataste di bottiglie come sentinelle, ferri e casse di plastica per arrivare in fondo ed intravedere un vecchio camioncino ormai in disuso. Mio padre quando iniziò andava in giro con il suo camioncino passava casa per casa con la cassa di ferro che ha ancora intatta nonostante gli anni. Sai, una volta si facevano le cose per farle durare. Avio si lascia sfuggire un sorriso misto a rammarico. Ma la più glamour e vintage di tutte è la macchina degli anni Quaranta per fare l’acqua gassata. Ferma lì appoggiata sui dei mattoni. Avio si affretta a spiegarne il processo, ancor prima che glielo chieda. Si attaccava al trattore o a mano la cinta di distribuzione
lentieri di denaro. Nonostante il fatturato sia sceso di parecchio rispetto all’anno precedente, quasi dimezzato, dovuto ai cambiamenti imposti dal mercato, il suo obiettivo rimane sempre quello di continuare ad investire in nuove macchine. Benvenuti nell’Italia di oggi, o almeno in una sua parte, dove l’apice del successo consiste nel credere ancora nella forza e nella flessibilità delle piccole imprese.
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TERRITORIO
FRATELLO SOLE, SORELLA CAMPAGNA Gianluca Zarroli va controcorrente. Preferisce gli stivali alla cravatta: la terra è la mia passione Martina Di Donato
Quando si parla di professionalità, onestà e passione per il proprio lavoro, al giorno d’oggi quasi non riusciamo ad immaginare un volto; ma setacciando la nostra vallata possiamo scoprire che c’è ancora chi riesce a mescolare innovazione e tradizione. E’ questo l’obiettivo di Gianluca Zarroli di Sant’Omero. Le sue sono le forti braccia prestate all’agricoltura. In uno scenario bucolico ho incontrato un uomo che mi spiega che la sua passione e l’amore per la terra lo hanno sempre accompagnato. Inevitabile per chi, come lui è nato e cresciuto in campagna. Anche quando si occupava di altro, sapeva che non avrebbe mai abbandonato quell’ambiente così importante. La storia dell’ azienda passa dai suoi avi ai nonni, quando ancora c’erano i poderi (i “padroni”) e dai genitori e lo zio, per poi passare a lui e alla sorella Eridania, nel 2005. Con una tradizione agricola così forte alle spalle ha deciso di cambiare vita e dedicarsi a quello che più lo appagava, studiando e perfezionando il sapere precedentemente acquisito. Zarroli che ha fondato l’omonima azienda agricola, dice <<che tutti gli sforzi ed i sacrifici che un lavoro come il mio comporta, vengono ripagati quando il consumatore si trova soddisfatto dai miei prodotti>>. Zarroli ci convince: si legge nei suoi occhi e nella sua voce un vero e proprio trasporto oltre all’amore per la natura ed i suoi frutti, che tratta con naturalezza; i metodi sono, infatti, quelli “della nonna”: niente chimica né alterazioni. Questo è un punto molto importante per lui. Tutto come veniva fatto un tempo, ed è proprio questo il valore aggiunto dei suoi prodotti, a partire dalla coltivazione, fino al prodotto finito, strizzando sempre l’occhio all’innovazione e alla particolarità (con stupore abbiamo scoperto la confettura di zucchine, melone, peperoni).
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Gianluca, com’e’ nata la tua passione per l’agricoltura? Sono nato e cresciuto qui,in campagna e sin da piccolo vedevo i miei genitori e mio zio che lavoravano nei campi, quindi si può dire che innata in me la passione per l’agricoltura e per la natura in genere. Ma la tua prima attività lavorativa era ben diversa da questa.
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Quando e perché hai deciso di cambiare totalmente rotta? L’azienda ha alle spalle una tradizione agricola ben salda. Le origini risalgono al 1880, ed è da cinque generazioni che viene portata avanti, quindi mi sono sentito quasi in dovere di non interrompere la nostra storia. Sicuro di ciò che volevo, nel 2005, io e mia sorella Eridania,abbiamo deciso di rilevare l’attività, lasciando le nostre occupazioni. Un bel passo. Avete mai avuto paura di aver commesso un errore con questa scelta? No, siamo sempre stati sicuri di ciò che dovevamo fare. E forse, in un periodo come questo, c’e’ bisogno di innovazione e cambiamento. Avevate già delle nozioni di agricoltura o siete partiti dalla base? Indubbiamente avevamo le basi necessarie, ma ugualmente abbiamo dovuto partecipare a dei corsi di formazione, indispensabili per la nostra attività. Cosa producete in azienda?
I nostri sono prodotti di nicchia. Frutta, ortaggi, bovini, ovini, pollame, api e lepri. Dalla coltivazione o allevamento la nostra è una vera e proprio filiera. Infatti da qualche anno abbiamo inserito dei laboratori polifunzionali di propduciamo conserve, ma anche carne macellata. Alcuni prodotti particolari sono ad esempio le confetture di zucchine, peperoni, melone. La peculiarità dei vostri prodotti? Un elemento importantissimo per noi è la naturalezza dei prodotti, infatti non vengono utilizzati né pesticidi, né fertilizzanti, niente agenti chicimi. Per questo abbiamo solo prodotti di stagione. I nostri clienti, oramai affezionati conoscono bene la nostra filosofia a riguardo. In più utilizziamo ancora i vecchi metodi, quelli della nonna per intenderci, così da dare al prodotto il medesimo sapore di quelli prodotti in casa. Vi capita di spostarvi per la vendita? Si. Spesso ci rechiamo in città come Roma, Milano, Bari e con grande piacere facciamo scoprire la bontà dei prodotti naturali a chi non ha la possibilità di usufruirne. E il riscontro è più che soddisfacente.
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BENVENUTI
NELLA TRANSILVANIA
TERAMANA
Gli “amici” di Casper in missione a Sant’Omero e Civitella per captare suoni e presenze metafisiche. Torneranno con lo “zaino protonico”
A Sant’Omero torneranno e pure a Civitella del Tronto. Massimiliano Maresca ed il suo team di acchiappafantasmi busseranno nuovamente per studiare, preferibilmente senza presenze umane, fenomeni paranormali nei siti segnalati (c’era da sfatare il mito dei lupi mannari che secondo la leggenda si aggiravano presso la vecchia fonte, dove le fanciulle andavano a lavare i panni e li venivano aggredite). I troppi curiosi che hanno assediato i cacciatori
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TERRITORIO
di Casper a settembre non hanno permesso lo svolgimento tranquillo delle indagini. Saranno nuovamente in Val Vibrata. In valigia porteranno il geofono, la termocamera, la videocamera digitale, il rilevatore di campi elettromagnetici KII, il rivelatore di campi elettromagnetici digitale, il rivelatore di campi elettromagnetici analogico, un filtro ad ultravioletti,
chi faceva la parte bassa della Fortezza. Ci siamo poi ritrovati nella piazza d’armi appena in cima alla prima gradinata. Siamo stati attratti, nella zona bagni, da un forte rumore conseguente ad un rilievo di campo elettromagnetico (un picco) da parte del nostro strumento chiamato K2. In questo punto, abbiamo fatto delle sessioni di EVP (Electronic Voice Phe-
un microfono panoramico, un laser grid, il dvr. A Civitella, l’Epas si recherà per approfondire gli studi. Il mistero che si cela nella fortezza borbonica s’infittisce. E’stato captato dalla strumentazione di Max, Cindy e di tutti gli altri suoni anomali e bagliori: erano lamenti che provenivano dal “pozzo del suicida”. <<Ci siamo divisi in due squadre>>, racconta Massimiliano Maresca. <<Chi faceva la parte alta e
nomena) per registrare con un registratore sensibile eventuali voci elettroniche che erano nell’ambiente circostante. Un altro strumento è stato messo nella grotta insonorizzata inserendo un microfono panoramico molto sensibile. Qui i rumori son assorbiti dalle pareti della grotta che risulta totalmente asettica eppure si sono sentiti tre colpi ben distinti sul microfono e nella grotta non c’era nessuno. Ma l’esperimento più eclatante lo abbiamo svolto vicino ad un pozzo dove negli anni 60 un ragazzo si è suicidato. Abbiamo sempre usato il K2 ed abbiamo iniziato a fare domande come se stessimo parlando con una persona presente, facendo conto che in quel momento vi fosse lo spirito del ragazzo. Ad ogni domanda il k2 si accendeva... nel contempo si sono sentiti dei terribili lamenti. Non sappiamo cosa potesse essere ma sicuramente ci avvicinavamo molto all’idea che potesse essere quel povero ragazzo>>.
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CULTURA E SPETTACOLO PEOPLE
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Dal 24 novembre fino al 16 dicembre si terrà a Giulianova la sesta edizione della rassegna teatrale “TERRE DI TEATRI”, a cui è stato assegnato il prestigioso premio Enriquez 2012.
Gli spettacoli si svolgeranno in tre location differenti: il 24 novembre ci sarà l’anteprima presso L’Officina (L’arte e i Mestieri) a Giulianova Paese. Alle ore 21.00 si aprirà la mostra fotografica “Foto di scena” di Fabio Di Evangelista, visitbile fino al 15 dicembre. Alle ore 21.30, la compagnia teatrale Il Piccolo Teatro metterà in scena lo spettacolo “Il limbo dei devoti”. Viaggio nei classici a venire. L’ingresso e’ gratuito. Il secondo scenario, per la sezione Teatro per ragazzi, sarà il Centro Culturale Annunziata, a Giulianova Lido. Il 1 dicembre, alle ore 17.30, la compagnia teatrale Terrateatro di Giulianova metterà in scena lo spettacolo “ Dr. Jekyll e Mr. Hyde”. L’8 dicembre la compagnia Teatro Presente ci proporrà “Il vecchio e il principe”. Inizio spettacolo ore 17.30. Il 15 dicembre sarà, invece, di scena la compagnia Teatro Lanciavicchio con lo spettacolo “Pinocchio e il diritto a non essere un burattino”. Inizio spettacolo ore 17.30 Il costo degli spettacoli è di 4 euro. Terzo ed ultimo scenario sarà la sala Kursaal, a Giulianova Lido, per la sezione teatro Contemporaneo. Il 5 dicembre andrà in scena “Not here not now” del drammaturgo, attore e regista teatrale Andrea Cosentino. Inizio spettacolo ore 21.15. Il 15 dicembre, la compagnia teatrale Scena Verticale metterà in scena lo spettacolo “Italianesi”. Inizio spettacolo ore 21.15. Il costo degli spettacoli di questa sezione è di 6 euro.
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CULTURA E SPETTACOLO PEOPLE
i t n eEventi novembre-dicembre
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MARTINA DI DONATO
Sant’egidio alla vibrata
Proseguono i venerdi all’insegna della buona musica presso il Dejavu Drink & Food: il 20 novembre si esibirà il gruppo pisano Criminal Jokers. Inizio concerto ore 22.00. Il 29 novembre saranno gli Eva Mon Amour ad esibirsi. Il gruppo formatosi nel 2008 e composto da Emanuele Colandrea alla voce e alla chitarra, Corrado Maria De Santis alla chitarra e Fabrizio Colella alla batteria, ha calcato palchi di eventi musicali importanti come l’Heineken Jammin’ Festival. Inizio concerto ore 22.30. Ingresso gratuito. Il 13 dicembre sarà la volta della band Persian Pelican e del loro folk per nulla classico. Ad apertura serata si esibiranno i Wool Fool. Inizio ore 22.00.
TORTORETO
Il 22 novembre, presso il pub Frida di Tortoreto si esibiranno gli W5 double- u- quintet, gruppo composto da Fabio Zeppilli, Domenico Canderoli, Marco Ghezzi, Niki Barulli e Giulio Spinozzi. Inizio concerto ore 22.15.
GIULIANOVA
Dal 22 novembre al 15 dicembre ci saranno una serie di eventi organizzati dal Circolo Virtuoso Il Nome Della Rosa. 22 novembre. Per il ciclo “ Vita d’artista” ci sarà l’incontro con Franco Tancredi, a curare l’incontro Luca Maggitti. Ore 21.00. Domenica 24 novembre. Valeria Marziani animerà la letteratura per bambini in lingua inglese. Costo dello spettacolo 5 euro. Inizio ore 17.00. Alle ore 21.45, Roberto Iaconi e Danilo Di Feliciantonio ci parleranno di cinema, in particolare della pellicola del 2009 “ Trash Humpers”, diretta da Harmony Korine. Il 29 novembre, alle ore 21.30 si terrà il dibattito “La faccia nascosta di Selene”. Come gli USA (non) andarono sulla luna. A cura di Giovanni Lattanzi. Il 30 novembre, invece, sarà trasmesso il cortometraggio dal titolo “Il ragazzo dei fulmini” di Giustino Di Gregorio. L’incontro sarà curato da Danilo Di Nicola. Inizio ore 21.30. Il 1 dicembre, si terrà un incontro con Alessandra Granito ( Dottore di ricerca in Filosofia presso l’Univesità “G. D’Annunzio di Chieti- Pescara). L’incontro sarà incentrato sulla figura di Pier Paolo Pasolini. Inizio ore 18.00. Il 6 dicembre ci sarà l’incontro con Marco Auciello, autore del libro di poesie “Dove ora sono” Il 7 dicembre, alle ore 21.30 si sarà l’incontro con Marco Ricchioni dal titolo “Siamo tutti in pericolo”. Pier Paolo Pasolini e la perdita della singolarità umana sotto l’impero del consumismo e della televisione. L’8 dicembre ci sarà l’incontro “Nel vortice della tradizione. L’uomo si avventuri e scenda” , a cura di Paolo Di Cristofaro. Ore 21.30. Il 13 dicembre ci sarà la presentazione del libro “Lottavo romanzo” dell’autore Marco Sommariva, con la prefazione di Haidi Gaggio Giuliani. L’incontro sarà curato da Carmelo Neri. Inizio ore 21.30. Il 15 dicembre, dalle ore 16.00 alle ore 24.00 ci sarà la terza edizione del mercatino di Natale “CHE PALLE!!!”. Ricordiamo, in fine, che fino al 30 novembre sarà possibile visitare la mostra fotografica “STATICO DINAMICO” del fotografo Marco Cimorosi, sempre presso il Circolo Virtuoso Il Nome Della Rosa, via Antonio Gramsci 46/a.
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DEJAVU Drink & Food dejavu drinkandfood Dejavu s.egidio
La SATIRA DI PERILLI
BELLEZZA
QUANDO IL VISO E’“LEOPARDATO” LE SOLUZIONI PER CORREGGERE MACCHIE BRUNE E DISCROMIEE CUTANEE Noemi Di Emidio* Le macchie cutanee si formano a causa di una disomogenea produzione di melanina. Possono insorgere a causa di diversi fattori: l’esposizione prolungata al sole favorisce la comparsa di aree di iperpigmentazione, l’avanzare dell’età, con il tempo compaiono le cd macchie senili, modificazioni ormonali, durante la gravidanza, assunzione di contraccettivi ormonali ed in menopausa. Tra i fattori sopra esposti, quello che può essere in una certa misura arginato è il cd”photoeging “ossia il danno causato da una eccessiva ed inadeguata esposizione solare o a raggi UV. Occorre, infatti, prevenire il danno da radiazioni UV con una corretta esposizione al sole o ai solarium in base al fototipo cutaneo, con filtri antisolari adeguati e stimolando la produzione dei filtri naturali attraverso l’assunzione di integratori a base di vitamina C e betacarotene. Quanto alle discromie datate nel tempo, quindi già formate, bisogna applicare sulla pelle cosmetici contenenti sostanze depigmentanti oppure antiossidanti ovvero trattamenti ad azione schiarente. L’acido glicolico è un ottimo depigmentante, stimola la rigenerazione cellulare, schiarisce ed idrata minimizzando le macchie. E’ consigliabile affidarsi a centri estetici specializzati per i trattamenti a base di acido glicolico. L’acido mandelico, ottimo esfoliante,schiarente e antiossidante, a differenza dell’acido glicolico è più delicato, ed è adatto a tutti i tipi di pelle, non è fotosensibilizzante e non produce nessun tipo di eritema. Per una maggiore omogenità del colorito,idratazione, tonicità e vitalità occorre utilizzare a casa tutti i giorni creme che contengono ad esempio acido glicolico o mandelico in piccole percentuali, sostanze antiossidanti come il sodio ascorbil fosfato (SAP) una forma stabilizzata di vitamina C (ottimo schiarente, illuminante e antiage che stimola inoltre la sintesi di collagene), altre sostanze schiarenti :Estratto di liquirizia, acido cogico, acido jaluronico( idratante antiage),acido fitico, sono importanti per la pelle anche gli oli vegetali come quello di mandorle che mantengono la pelle idratata e più elastica. Questi trattamenti sono efficaci su macchie recenti con risultati ottimali, mentre per le macchie scure più datate, bisogna ricorrere a trattamenti più incisivi dermatologici come il laser e il peelig chimic, per un risultato definitivo. In conclusione, la soluzione migliore è la prevenzione per evitarne la comparsa Per ottenere il massimo dei risultati da un trattamento schiarente è indispensabile proteggere quotidianamente dall’azione nociva dei raggi solari le zone affette, applicando una crema da giorno con filtro UV. Senza questo semplice gesto di prevenzione qualsiasi trattamento è infatti destinato ad avere poco successo. I trattamenti schiarenti devono essere protratti per un periodo minimo di due mesi applicando la crema o lozione tutti i giorni due volte al giorno. Prendersi cura di se stessi, avere un stile di vita sano,senza stress ,fumo, alcol, e una dieta equilibrata è fondamentale. * (Estetista)
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MODA FedericA Bernardini
TUTTO IL FASCINO
DELLO STILE FRANCESE
Non si sa per quale motivo, ma si deve ammettere che per le strade di Parigi si possono incontrare donne particolarmente eleganti che mostrano una raffinatezza ed un atteggiamento nel quotidiano non comune alle altre grandi città. Lo sanno bene Isabelle Thomas, scrittrice del libro Stile Parigino e Inès De La Fressange autrice de La Parigina. Guida allo chic. In ambedue i testi viene svelato il segreto di come creare uno stile tipicamente francese mixando pezzi unici a quelli di tendenza, capi sobri ad accessori più trasgressivi, abiti dal taglio maschile a quelli iperfemminili. Isabelle Thomas, scrittrice di moda, propone nel suo libro anche citazioni ed interviste a stilisti, esperti di moda che dicono la propria sull’eleganza tipicamente francese. Chi ha in cantiere un viaggio a Parigi potrebbe ritenere più interessante il testo de La Fressange, ex modella e musa di Karl Lagerfeld, che, con illustrazioni realizzate dalla stessa Inès e con le foto della figlia maggiore, ci insegna a vestire con un guardaroba di soli sette capi basici, e ci suggerisce anche ristoranti, hotel, boutiques, librerie, negozi vintage da visitare nella Ville Lumière. Due modi diversi per tuffarsi in un mondo a noi vicino ma allo stesso tempo lontano fatto di baguette, baschi, tubini neri, croissant, in cui vivere sia fisicamente che con la fantasia le suggestioni di una Vie en Rose.
LA MODA SULLE RUOTE Cambia lo shopping: dalla boutique e da internet ai fashion trucks
Non si sa per quale motivo, ma si deve ammettere che per le strade di Parigi si possono incontrare donne particolarmente eleganti che mostrano una raffinatezza ed un atteggiamento nel quotidiano non comune alle altre grandi città. Lo sanno bene Isabelle Thomas, scrittrice del libro Stile Parigino e Inès De La Fressange autrice de La Parigina. Guida allo chic. In ambedue i testi viene svelato il segreto di come creare uno stile tipicamente francese mixando pezzi unici a quelli di tendenza, capi sobri ad accessori più trasgressivi, abiti dal taglio maschile a quelli iperfemminili. Isabelle Thomas, scrittrice di moda, propone nel suo libro anche citazioni ed interviste a stilisti, esperti di moda che dicono la propria sull’eleganza tipicamente francese. Chi ha in cantiere un viaggio a Parigi potrebbe ritenere più interessante il testo de La Fressange, ex modella e musa di Karl Lagerfeld, che, con illustrazioni realizzate dalla stessa Inès e con le foto della figlia maggiore, ci insegna a vestire con un guardaroba di soli sette capi basici, e ci suggerisce anche ristoranti, hotel, boutiques,
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DIALOGO
MALATI DI SPORT Si chiama vigoressia (o bigoressia) il superlavoro in palestra per fare il fisico
Virginia Maloni*
Quanto è importante avere un fisico perfettamente scolpito? L’attività fisica è uno dei cardini importanti per mantenere uno stato di buona salute psicofisica. Quando questa viene professata in eccesso, può tramutarsi in un’ossessione e danneggiare la salute. Oggi parliamo di un disagio tutto al maschile definito “Vigoressia o Bigoressia”. La Vigoressia si riferisce ad una condotta estrema di iperinvestimento sul proprio corpo che si contraddistingue dal “normale” prendersi cura del proprio aspetto e della forma psico-fisica che all’opposto sono rappresentativi di salute mentale. Gli individui affetti dal disturbo sono principalmente uomini che, ricercando ossessivamente un fisico necessariamente muscoloso, dedicano una eccessiva quantità di tempo, risorse e denaro nella cura del corpo frequentando meticolosamente palestre, centri fitness, negozi di prodotti alimentari ipocalorici, senza sentirsi mai pienamente soddisfatti. La Vigoressia può cristallizzarsi in una vera e propria dipendenza, andando a danneggiare differenti aree di funzionamento del soggetto come quella fisica, sociale, lavorativa e familiare. La persona si sente sempre inappagata rispetto al proprio fisico ed è ossessionata dalla paura di restare priva dei propri muscoli e del proprio stato di perfetta forma. L’esercizio fisico viene professato in maniera maniacale (culturismo in particolare), seguendo diete squilibrate sostenute spesso da un uso scorretto di farmaci, con possibili ragguardevoli ricadute sulla salute dell’individuo. I principali fattori psicologici implicati nella Vigoressia sembrano essere la scarsa autostima, il desiderio di essere accettati e ammirati, l’insicurezza: gonfiando i propri fisici si ha l’illusione di compensare il proprio senso di inadeguatezza. Sicuramente non dobbiamo trascurare, però, l’influenza, sul disturbo, del “modello
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culturale” poiché oggi l’esteriorità e la bellezza sono considerati “valori” fondamentali per sentirsi bene ed essere accettati nella società. Infatti, a tal proposito, la Bigoressia è anche conosciuta come ‘Complesso di Adone’, personaggio della mitologia greca e archetipo della bellezza maschile intesa come perfezione corporea. Quali fasce d’età colpisce questa disfunzione? Una fascia adolescenziale che va dai 18 ai 25 anni, una fascia che oggi definiremmo di adultescenti e che va dai 25 ai 35 anni ed una fascia di persone più adulte, sopra i 40 anni, che, volendo riconquistare la propria giovinezza attraverso l’allenamento, si ritrovano coinvolte in allenamenti sempre più duri e frequenti e a seguire un’alimentazione sempre più rigida, sino a trovarsi vittime della Bigoressia. La Vigoressia fu identificata nel 1993 da Pope HG Jr, Katz DL, Hudson JI in un articolo dal titolo “Anorexia nervosa and reverse anorexia”. Il termine ‘reverse anorexia’ fu proposto in considerazione del fatto che, con schemi comportamentali uguali e contrari all’anoressia, chi soffre di questo disturbo continua a vedersi asciutto e mingherlino nonostante abbia una muscolatura fuori dal comune. L’inserimento diagnostico non è ancora ben determinato: fra la dismorfofobia, i disturbi alimentari non altrimenti specificati (NAS) e il disturbo ossessivo-compulsivo. Può essere d’aiuto un percorso di psicoterapia congiuntamente all’intervento del medico, che prescriverà gli esami da fare e le eventuali terapie maggiormente idonee. * (Psicoterapeuta)
Bibliografia di riferimento American Psychiatric Association. DSM-IV-TR. Manuale diagnostico e statistico dei Disturbi Mentali, 4th edizione, text revision, a cura di Andreoli V, Cassano GB, Rossi R, Masson, Milano 2001. Pope HG Jr, Phillips KA., Olivardia R., The Adonis Complex: The Secret Crisis of Male Body Obsession, New York, NY; 2000. Pope HG Jr, Katz DL., Bodybuilder’s psychosis, Lancet. 1987; Cella S., Buonaiuto M., Miraglies R., Cotrufo P., La reverse anorexia: uno studio descrittivo su 50 bodybuilders XIX congresso AIP sezione di psicologia clinica, Cagliari, 2005.
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Il futuro appartiene a chi crede alla bellezza dei propri sogni.
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CINEMA ANDREA SPADA
L’ORIGINE DEGLI ZOMBI:
GEORGE A. ROMERO
C’e’ una certa smania di contagio filmico zombesco nell’ aria del 2013 a cominciare dalla serie televisiva “ The walking dead “ giunta in forma smagliante alla quarta stagione con molte promesse( ancora da mantenere certo ) e poi da moltissimi b movie ,remake e per finire anche l’ultimo” Worl war z “che, con una strizzatina anche al pubblico femminile “deliziata” dalla presenza di Brad Pitt , si lancia in una poderosa quanto improbabile lotta contro la pandemia zombesca in ascesa sul mondo dei vivi. Ma all’origine di tutto ciò c’è il più citato regista di classici degli zombi, il signor George A. Romero che di “non morti” ne ha contemplati parecchi . Già a partire con il classico datato 1968 “ La notte dei morti viventi “ ci introduceva nel clima di un oggetto del terrore molto diverso dal solito, più credibile e allo stesso tempo del tutto soprannaturale: il morto che cammina per nutrirsi del vivo. Tutte le inquadrature degli zombi che in massa assalgono gruppi sparuti di un ultima umanità reietta sono ormai storia del cinema, ai tempi quasi un monito verso il consumismo ;oggi piuttosto è il consumismo degli zombi ad aver reso gli stessi fragili ed indifesi come agnellini , esplodendo come un vulcano alle leggi del sacro caro botteghino !!
Dark Skies
Oscure presenze Giovedi 24 ottobre 2013 è uscito nelle sale Dark Skies , un film di Scott Stewart( Priest, Legion al suo attivo ) e che dire ...ci imbattiamo nell’ennesimo film sul tema delle case infestate. Ad insidiare il sacro simulacro della famiglia, stavolta, ci si mettono le oscure presenze provenienti dallo spazio siderale . Inizialmente a pesare molto nel meccanismo della suspance c’ è la crisi economica che la famiglia protagonista sta vivendo, ma poi saranno le visite sempre più tangibili degli alieni a far saltare tutti gli schemi della logica cosicché stormi di uccelli che si abbattono sulle finestre e foto sparite dai lori muri suggeriscono che ci sia qualcosa di più che un semplice complotto della CIA alle loro spalle. Il cocktail di realtà e fantascienza creata dal regista da origine ad un palpabile senso di smarrimento progressivo che erode i personaggi e le loro psicosi già deboli . Che gli alieni ci avessero già contattato molto tempo fa( alimentando un clima di sospetto circa talune architetture millenarie e cognizioni eccessivamente all’ avanguardia di antiche popolazioni) ne eravamo certi, ma non sino al punto che ci stessero osservando così da vicino per rapirci ( questo sembra essere il tocco originale per il regista). E non è una novità che un sistema di telecamere a circuito chiuso (Paranormal Activity) , sveli ombre più o meno tangibili e sempre di notte guardacaso ,di uno speciale cattivissimo tipo di alieno adoratore di bambini :” i grigi”. Infine il ricorso che i protagonisti fanno all’ esperto di fenomeni paranormali ( Poltergeist ) è già risaputo così come la loro stoica ed eroica resistenza. Dark Skies tuttavia ha il suo punto di forza nella saggezza narrativa , asciutta ed efficace , evitando schemi concitati e in un montaggio lineare non frenetico ci lascia aperti più di un punto interrogativo, tra cui : ci sarà il sequel ?
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PET
Sterilizzare cani e gatti Ecco quando è utile e perchè Federica Pompei* Per qualcuno di noi questa pratica medico-chirurgica (oramai consolidata nell’arco degli ultimi decenni) rappresenta ancora ad oggi un atto di crudeltà gratuita, un qualcosa di totalmente innaturale, una ingiusta “mutilazione” nei riguardi del povero malcapitato che andrà incontro ad alterazioni fisiche e/o comportamentali che lo accompagneranno per tutta la vita. A questi pensatori vorrei sottoporre all’attenzione i dati allarmanti e struggenti che ci riportano quotidianamente casi di incidenti stradali con diversi animali morti sulle strade, cucciolate di randagi costrette a morire di stenti o a causa di infauste malattie infettive (quando fortunati da non venire crudelmente soppressi per mano di giustizieri senza scrupoli). La ricerca scientifica ha anche messo alla luce il ruolo preventivo che questo atto chirurgico (soprattutto se effettuato precocemente, ossia in giovanissima età) ha nei confronti di patologie tumorali mammarie o prostatiche giusto per fare qualche esempio, per non parlare della concreta diminuzione del rischio di contrarre malattie infettive semplice-
mente limitando gli accoppiamenti (si pensi nel gatto all’Immunodeficienza felina, paragonabile all’AIDS umana o alla Leucemia felina, malattie dalla prognosi infausta). Voglio ricordare inoltre come condizioni spiacevoli, patologie come la piometra o la pseudogravidanza, detta anche gravidanza isterica, possono essere in tal modo evitate e prevenute definitivamente con questo semplice responsabile gesto. Concludo riportando i dati della LAV (lega anti vivisezione) secondo la quale sterilizzare il proprio amico a quattro zampe eviterebbe 70.000 nuovi randagi, questo è il numero di discendenti che un gatto o un cane può generare in soli sei anni. Forse questa scelta merita di essere presa seriamente in considerazione sia in termini di responsabilità morale che di prevenzione di salute pubblica e, non meno importante, per una questione di miglioramento del benessere e della salute del nostro caro compagno di vita a quattro zampe che di sicuro merita il meglio. *(Medico Veterinario)
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Le ricette della memoria
La melacotogna,
Alcuni anni fa, i miei alunni della classe terza della Scuola Secondaria di Controguerra eseguirono, attraverso numerose interviste alle anziane massaie, un’indagine capillare sulle abitudini alimentari della gente
di campagna. Frugando nella memoria, le donne ricostruirono ricette ormai completamente dimenticate e desuete, ma assolutamente straordinarie per la maestrìa con cui erano manipolate materie prime affatto povere. Ne furono codificate settantadue, poi pubblicate dall’Istituto Comprensivo di Colonnella in un libro intitolato Acqua&Farina. Tra i piatti descritti ce n’era uno che sembrò molto singolare poiché prevedeva l’inconsueta combinazione di patate e melecotogne. La pubblicazione della ricetta ha avuto il merito di sollecitare i ricordi di diverse donne, che hanno segnalato la presenza del nostro frutto tra gli ingredienti di altri piatti: esso era usato nel baccalà in umido con patate (sperimentato con successo da chi scrive) ed era abbinato allo stoccafisso, come pure agli arrosti di carni grasse, come quelle del maiale e dell’oca.
Patate e melecotogne
Durante l’intervista, la signora di Controguerra che ha dettato la ricetta, ha tenuto a precisare di non essere in grado di suggerire le dosi esatte perché non l’aveva preparata più da molto tempo e perché la determinazione delle percentuali dei vari ingredienti, un volta, era lasciata al gusto individuale; ha invitato ad essere curiosi e a procedere per tentativi. PROCEDIMENTO Procuratevi qualche melacotogna, delle patate, della cipolla, dei pomodori maturi (a settembre dovrebbero trovarsi ancora; altrimenti ricorrete alla passata in bottiglia), del buon olio d’oliva delle nostre colline e, naturalmente, del sale. Procedete in questo modo. Lavate bene le melecotogne, sbucciatele e tagliatele a fettine, avendo cura di eliminare le parti guaste; fate altrettanto con le patate. Versate l’olio d’oliva in un tegame e fatevi appassire la cipolla tagliata finemente; poi aggiungete le melecotogne e le patate, lasciandole rosolare un po’; versate infine la polpa di pomodoro, aggiustate di sale e lasciate cuocere a tegame coperto. L’autore di questa nota, avendo sperimentato la ricetta per fotografare il piatto, consiglia di aggiungere le melecotogne quando le patate sono a metà cottura ed anche oltre. La pietanza ha un gusto particolarissimo, derivante dalla bella combinazione tra l’acidità della melacotogna e il dolce della patata.
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Le ricette della memoria
frutto degli Dei Tutto ciò ha rappresentato per molti una vera sorpresa perché il melocotogno, pianta antica di origine orientale dalla magnifica fioritura, era indubbiamente molto diffuso nelle campagne e nei giardini, ma il suo frutto era apprezzato soprattutto per gli usi non alimentari (si utilizzava per profumare gli armadi e la cucina) e, al
massimo, per la realizzazione di confetture. Si faceva anche bollire insieme al mosto quando si realizzava il vino cotto e da questo connubio le nostre antenate ricavavano una confettura dal sapore unico e indimenticabile.
Marmellata di melecotogne
PROCEDIMENTO Procuratevi del mosto da un amico che sta effettuando la vendemmia oppure spremete dell’uva matura. Disponete il succo in un recipiente con un fondo alquanto spesso e fatelo bollire a fiamma moderata fino a quando non sarà ridotto della metà circa. Nel frattempo togliete la buccia alle melecotogne, eliminate il torsolo e le parti guaste (essendo un frutto spontaneo, ce ne saranno parecchie), riducete la polpa a cubetti e disponeteli in un recipiente aggiungendo il mosto cotto, fino a coprirli. Fate bollire sin quando la polpa sarà disfatta e sarà raggiunta la consistenza desiderata. Volendo disporre di una marmellata più spalmabile, si consiglia di passare, a metà cottura, la polpa al setaccio. Gli zuccheri presenti nel mosto dovrebbero rendere la confettura già dolce; all’occorrenza aggiungete dello zucchero. Raggiunta la consistenza voluta, invasate la marmellata, capovolgendo i vasetti. Per maggiore sicurezza bolliteli, una volta raffreddati, anche a bagnomaria. Il mosto può essere sostituito dall’acqua. In questo caso, usate 300 g circa di zucchero per ogni kg di frutta nettata. La confettura è particolarmente indicata nella preparazione di dolci da forno, è gustosissima se spalmata sul pane e si sposa perfettamente con i formaggi stagionati.
La ricerca dei ragazzi di Controguerra non è stata un’operazione culturale accademica; ha avuto un riscontro pratico perché ne hanno fatto tesoro alcuni ristoratori vibratiani. Essa può essere presa ad esempio per recuperare tante altre tradizioni culinarie del nostro territorio, sulle quali gli operatori della ristorazione potranno
lavorare per ampliare e caratterizzare l’offerta turistica, che vede nell’enogastronomia un fattore di primaria importanza.
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