T RACCE di C OSTITUZIONE
«La Costituzione è il fondamento della Repubblica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal governo e dal Parlamento, se è manomessa dai partiti verrà a mancare il terreno sodo sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà» luigi sturZo
l’ARTICOLO 1
ARTICOLO 1
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro(1). La sovranità appartiene al popolo(2), che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione(3).
2
§1. Con l’espressione Repubblica democratica la Costituzione ha inteso riconoscere e far proprio il risultato della consultazione popolare tenutasi il 2 giugno del 1946 (referendum istituzionale), con cui gli italiani avevano cancellato la forma di governo monarchica e scelto quella repubblicana. La Repubblica democratica riconosce ad ognuno l’eguale diritto di prendere parte, in condizioni di parità con gli altri, alla vita politica e sociale. In particolare, in un regime democratico la maggioranza ha il diritto di governare, ma ha anche il dovere di non impedire alla minoranza di diventare, a parità di condizioni democratiche, essa stessa maggioranza (il che consente l’alternanza di forze politiche al potere).
§2. Nei regimi democratici, la sovranità appartiene al popolo. Il Costituente preferì la più forte espressione «appartiene» a quella, proposta inizialmente, «emana», per sottolineare che il popolo (non più il monarca o la sua dinastia) è il vero, esclusivo ed effettivo titolare della potestà suprema. Il popolo esercita tale sovranità secondo due modelli: quello della democrazia rappresentativa, in cui il corpo elettorale, cioè la parte attiva del popolo (art. 48), elegge i suoi rappresentanti almeno nell’organo legislativo (Parlamento), che a sua volta nomina o partecipa alla designazione degli altri organi (Governo, in particolare); quello della democrazia diretta, caratterizzato dalla partecipazione in prima persona dei cittadini alle scelte politiche (come nelle pòleis o città-Stato greche e, più recentemente, nella Confederazione elvetica). Alcuni istituti di democrazia diretta riconosciuti nel nostro ordinamento e menzionati dalla Costituzione assolvono ad una funzione prevalentemente suppletiva, integrativa e correttiva del modello rappresentativo: quello di maggior rilievo è il referendum abrogativo [art. 75].
§3. La regola sancita dal secondo comma dell’art. 1 (La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione) connota il nostro ordinamento come Stato di diritto, in cui il principio della soggezione alla legge, proprio della forma di Stato liberale, si arricchisce di un significato ulteriore: sia i cittadini che i pubblici poteri (compreso il legislatore, in passato considerato onnipotente: art. 70) sono soggetti, infatti, al rispetto della Costituzione, dei suoi principi e dei diritti inviolabili da essa sanciti (principio di legalità costituzionale).
tracce di costituzione l’articolo 1 1
Nel suo primo articolo la Costituzione italiana sancisce solennemente una discontinuità rispetto al passato. Si fonda qui lo Stato costituzionale, cioè quella democrazia nella quale la sovranità del popolo (intesa come volontà della maggioranza secondo i principi affermatisi durante la Rivoluzione Francese) si esprime «nelle forme e nei limiti della Costituzione». La rigidità della nostra Costituzione, ovvero la circostanza per cui la sua modifica non possa avvenire per mezzo della legge ordinaria, è la risposta tecnica al problema riscontrato nel costituzionalismo liberale: la presenza di un legislatore onnipotente, ovvero privo di limiti, aveva portato infatti a decisioni arbitrarie ed ingiuste fino a consentire provvedimenti razzisti e liberticidi. Oggi, in Italia, assistiamo ad un atteggiamento politico che, non tenendo per nulla in considerazione le origini dello stato costituzionale ed il vero significato di sovranità, considera erroneamente la legittimazione popolare avvenuta tramite elezioni uno strumento che esonera la classe politica dal rispetto dei limiti imposti dalla Costituzione. Questa prassi politica ha a che fare direttamente con la Democrazia sulla quale si fonda la nostra Repubblica. La Democrazia costituzionale non si accontenta infatti di concedere ai cittadini la possibilità di esprimere attraverso il voto i propri rappresentanti. I nostri costituenti hanno garantito l’accesso dei cittadini alla vita politica del paese per mezzo dei partiti innanzitutto, ma anche di strumenti di democrazia diretta quali il referendum e la proposta di legge. La Democrazia costituzionale, detto più semplicemente, garantisce diversi modi e diverse sedi in cui far sentire e far contare le proprie idee. Anche il «pluralismo territoriale», la presenza cioè di enti locali minori più vicini ai cittadini, è espressione di questa possibilità. In questi anni, una deriva populista sembra spazzare via questa prospettive: la rimozione di tutti i corpi intermedi tra gli individui e il leader politico, anche se liberamente eletto, può essere fatale per lo stesso ordinamento democratico fino a generare mostri che ben conosciamo. Il riferimento al lavoro invece, che nella storia dell’articolo rappresentò un compromesso tra le diverse forze politiche, fonda il concetto di uno Stato che affida al cittadino la responsabilità del proprio futuro e valuta la dignità di ogni individuo in base a ciò che riesce a realizzare, indipendente-
mente dalle condizioni di partenza. Oggi il lavoro sembra aver perso le sue caratteristiche più profonde: si parla di consumatore e non di lavoratore, e la condizione di precarietà del lavoro impedisce la costruzione del proprio futuro. Il lavoro, come si sa, è uno dei fondamenti di una società. Le possibili declinazioni del concetto di lavoro costituiscono infatti la base stessa delle diverse civiltà. L’idea di «democrazia fondata sul lavoro»
ci dovrebbe rimandare ad una società che immagina il lavoro come uno strumento di liberazione individuale e di emancipazione personale all’interno di un condiviso interesse generale. La democrazia si rafforzerebbe proprio grazie a questa concezione di lavoro: l’impegno ed il merito individuale premiati in una cornice di interesse generale. Alle giovani generazioni queste parole però rischiano di sembrare una fiaba letta in un vecchio libro. L’immaginario collettivo connesso alla figura del lavoratore è mutato quasi antropologicamente negli ultimi decenni. Chi entra nel mondo del lavoro oggi sembra stia scendendo in un’arena dove il rapporto con gli altri si fonda su una competizione sfrenata per la sopravvivenza. Qui lo snodo fondamentale: il lavoro appare unicamente come via per la sopravvivenza. La narrazione collettiva che apprendono le nuove generazioni che si affacciano nel mondo del lavoro ci racconta come il lavoro sia un favore fatto dal datore di lavoro al lavoratore. Il lavoro, in altri termini, non
BREVE STORIA DELL’ARTICOLO 1 Il 16 ottobre 1946 la prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, nel proseguire la discussione sui principî dei rapporti sociali ed economici, affronta la questione del lavoro. La Pira (Dc) propone questo articolo: «Il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale, e la sua partecipazione, adeguata negli organismi economici, sociali e politici, è condizione del nuovo carattere democratico». Alla successiva riunione della Sottocommissione, il 18 ottobre, Togliatti (Pci) si dice convinto che si debba porre al principio della Costituzione la definizione: «Lo Stato italiano è una Repubblica di lavoratori». La formulazione di La Pira gli pare insufficiente perché “gli sembra di trovarsi di fronte non ad una affermazione politica di volontà del legislatore, ma quasi ad una constatazione di fatto”. Dossetti (Dc), che aveva concorso alla formulazione della proposta La Pira, precisa che con l’espressione: «Il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale», si intende esprimere non semplicemente una constatazione di fatto, ma un dato costitutivo dell’ordinamento, un’affermazione cioè di principî costruttivi. Il liberale Lucifero D’Aprigliano obietta (da liberale): «Tutti coloro che partecipano alla produzione sono “lavoratori” (meno l’azionista puro, gli inabili e i malati), dal presidente del consiglio di amministrazione fino all’ultimo usciere della società. Stabilito il principio che tutti sono lavoratori, in quanto uomini, il lavoro, inteso
come manuale, non deve considerarsi preminente sugli altri fattori della produzione». Va quindi in votazione, e viene approvato, l’articolo proposto da Togliatti con gli emendamenti suggeriti da lui e da La Pira: «Il lavoro e la sua partecipazione concreta negli organismi economici sociali e politici è il fondamento della democrazia italiana». Il 28 ottobre la Sottocommissione torna a discutere l’art. 1, e Togliatti ripropone la formulazione «Repubblica di lavoratori». Moro (Dc) propone con successo una mediazione che verrà approvata a fine seduta: «Lo Stato italiano è una Repubblica democratica. Essa ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione concreta di tutti i lavoratori all’organizzazione economica, sociale e politica del Paese». Il 22 gennaio 1947 si riunisce in seduta plenaria la Commissione per la Costituzione (o “dei 75”). Togliatti ripropone senza successo la sua formulazione. Il 24 gennaio la Commissione approva il testo definitivo: «L’Italia è una Repubblica democratica. La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Il 4 marzo l’Assemblea Costituente inizia la discussione generale del progetto di Costituzione; il 22 marzo, quando arriva in discussione l’art. 1, Fanfani e Moro (Dc) presentano con altri l’emendamento poi approvato: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». 3
tracce di costituzione l’articolo 1
il documento Togliatti e la Costituzione
Togliatti e la via costituzionale per la trasformazione della società: democrazia e socialismo
2
La relazione di Paolo Ciofi al convegno dell’8 novembre 2013 promosso da “Futura umanità”
appare più come un diritto, bensì come un colpo di fortuna. Chi ci fa un favore sarà sempre libero di dettare le sue condizioni, a propria completa discrezione. Senza lamentarci e magari senza capirlo pienamente stiamo entrando spaesati nel vortice della precarietà. L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro a tempo determinato. Non solo precarietà lavorativa: la precarietà costituisce il nuovo ordine sociale. Senza un lavoro sicuro e stabile, la possibilità di crescita individuale diventa un miraggio, la mobilità sociale ascendente rimane un retaggio del passato. Una società precaria torna ad essere una società immobile, basata sull’appartenenza di ceto, di classe, di casta, fondata sulla fortuna e sul caso. Le conseguenze sono profonde: senza la possibilità di soddisfare i propri bisogni attraverso il lavoro, l’intero assetto costituzionale perde un importante filo conduttore. Se noi
giovani dovessimo riscrivere il primo articolo in conformità al mondo che ci viene consegnato probabilmente lo faremmo così: L’Italia è una Repubblica (formalmente) democratica fondata sulla benevolenza dei datori di lavoro. La sovranità appartiene al popolo solo il giorno delle elezioni. Vorremmo concludere con le parole di un padre costituente.Queste pochi versi ci dovrebbero ricordare che la Costituzione venne scritta con speranze e sogni, non solo con le parole. Dimenticarlo significa perdere la capacità di immaginare un mondo più giusto. «Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate sulle montagne, dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità andate li, o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione» (Piero Calamandrei, 1955).
Amintore Fanfani, i comunisti Palmiro Togliatti e Antonio Pesenti, nonché il partigiano liberale monarchico Roberto Lucifero d’Aprigliano furono incaricati dall’Assemblea costituente di scrivere relazioni che si concludessero con proposte di quella che, a loro avviso, avrebbe dovuto essere la disciplina costituzionale dei rapporti economici. Quattro relazioni e quattro proposte. Quelle quattro relazioni e le quattro proposte non furono il semplice punto di partenza, bensì la salda base delle discussioni che si svolsero nella prima e nella terza sottocommissione in materia di rapporti economici, nella Commissione per la Costituzione e infine in seduta plenaria. 4
Appena rientrato in Italia dopo quasi vent’anni di esilio - il Pci, come si sa, era stato messo fuori legge dalla dittatura fascista -, Togliatti nel primo discorso pubblico pronunciato a Napoli l’11 aprile 1944 espone in modo nitido la strategia dei comunisti italiani, e indica con straordinaria chiarezza i principi da porre a fondamento di una nuova Costituzione, tali da garantire il rinascimento dell’Italia travolta dalla catastrofe della guerra. In un Paese calpestato per metà dalle truppe naziste e per metà occupato dall’esercito anglo-americano, Togliatti afferma: «Convocata domani un’Assemblea nazionale costituente, proporremo al popolo di fare dell’Italia una repubblica democratica, con una Costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di stampa, di associazione e di riunione; la libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi (…) del capitale monopolistico. Questo vuol dire - prosegue - che non proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza o sul dominio di un solo partito. In un’Italia democratica e progressiva vi dovranno essere e vi saranno diversi partiti (…); noi proporremo però che questi partiti, o almeno quelli che (…) hanno un programma democratico e nazionale, mantengano la loro unità per far fronte a ogni tentativo di rinascita del fascismo». «Il regime democratico e progressivo che proponiamo, e alla costruzione del quale vogliamo collaborare e collaboreremo in tutte le forme, dovrà essere - conclude un regime forte, il quale si difenda con tutte le armi contro ogni tentativo di sopprimere o calpestare le libertà popolari». Se è difficile sostenere che il Pci,
3
durante tutta la sua esistenza, abbia in qualche caso derogato da questa impostazione, è altrettanto difficile contestare che in quella fase storica la strategia togliattiana sia stata una strategia vincente. Ponendo i comunisti alla testa della guerra di liberazione e cementando l’unità dei partiti antifascisti, essa consentì di liquidare la monarchia e il fascismo, di risolvere democraticamente la questione istituzionale ridando dignità a un Paese che l’aveva perduta, e di aprire al tempo stesso la strada a una civiltà più avanzata in cui i lavoratori si innalzino al rango di classe dirigente. Come disse a suo tempo Pietro Nenni, «Togliatti era il solo veggente tra coloro che vanno alla cieca». Nella sua visione della politica vi è un legame inscindibile tra fini e mezzi. Quindi, se il fine, vale a dire l’obiettivo strategico generale è la creazione di una democrazia progressiva che attui «un complesso di riforme della struttura economica e sociale» , il partito nuovo di massa è lo strumento adatto allo scopo. Ancora nel discorso di Napoli, Togliatti afferma: «Nessuna politica può essere realizzata senza un partito, il quale sia capace di portarla tra le masse, nelle officine, nelle strade, nelle piazze, nelle case, nel popolo e di guidare tutto il popolo a realizzarla. Il nostro
tracce di costituzione l’articolo 1 partito deve acquistare questa capacità». «Noi dobbiamo essere il partito più vicino al popolo (…). È dovere dei comunisti di essere vicini a tutti gli strati popolari, a tutti coloro che soffrono; agli operai che lavorano o che sono disoccupati, ai giovani, alle donne operaie o di casa, agli intellettuali, ai contadini. Dobbiamo riuscire a comprendere tutte le necessità di questi strati popolari e impegnarci a soddisfarle». Democrazia progressiva e partito nuovo di massa sono dunque i due pilastri della strategia di Togliatti. Ed essi si incarnano nella Costituzione repubblicana e antifascista come progetto di cambiamento. Polemizzando tra gli altri con Piero Calamandrei, il quale sosteneva che la Costituzione italiana, secondo il modello costituzionale staliniano del 1936, dovesse limitarsi a prendere atto della realtà esistente, Togliatti replica che le condizioni della Russia sovietica erano affatto diverse da quelle italiane, e pertanto occorre distaccarsi da quel modello. In caso contrario si sarebbe decretata l’impossibilità di trasformare i fondamenti strutturali del nostro Paese. Là, sotto i colpi di un processo rivoluzionario violento, era stato distrutto il vecchio ordinamento economico-sociale ed erano state le gettate le basi di uno nuovo. Qui osserva - una rivoluzione non è avvenuta, ma è possibile arrivare «a una profonda trasformazione sociale seguendo un cammino differente». Con il crollo della dittatura fascista, sono state riconquistate le libertà civili e politiche. Per quanto riguarda le trasformazioni sociali da attuare, queste si possono realizzare «attraverso la democrazia, cioè accettando e rispettando il principio della maggioranza liberamente espressa». Tale è il senso della democrazia progressiva, «e il valore di questa definizione sta appunto nel fatto che essa riconosce e afferma questa tendenza a un profondo rivolgimento sociale attuato attraverso la legalità». La conclusione cui perviene tale impostazione è limpida: la Costituzione dell’Italia democratica deve avere un carattere progettuale-programmatico «non di previsione, ma di guida», che «porti a un rinnovamento audace, profondo, di tutta la struttura della nostra società, nell’interesse del popolo e nel nome del lavoro, della libertà e della giustizia sociale» . Quindi, non una Costituzione socialista, che prenda atto di un’avvenuta trasformazione e, tanto meno, che codifichi la statizzazione integrale dei mezzi di produzione, ma una Costituzione come programma per il futuro, che apra la strada a una società socialista di tipo nuovo rispetto al modello esistente. Perché - aveva sostenuto Togliatti al V congresso del partito - «soltanto ponendosi sulla via del socialismo, cioè della trasformazione dell’organizzazione della produzione e degli scambi nel senso della solidarietà sociale e umana, si può sperare di ricostruire una ci-
Giuseppe Dossetti un prete scomodo alla DC Dossetti fu uomo di transizione, dimenticato fino ad un paio di decenni fa, quando è iniziato il difficile travaglio della democrazia italiana ed allora sono tornate di attualità le sue tesi ed i suoi insegnamenti. Nessuno può avere un monopolio od un’esclusiva dell’eredità di Giuseppe Dossetti, anche perché è difficile parlare di una di tipo teologico, ma di tipo storico. Nella storia personale di Dossetti vi sono contraddizioni tra gli anni della gioventù, un Dossetti fortemente innovatore sul piano costituzionale, e l’ultimo Dossetti, più conservatore e maggiormente legato al quadro costituzionale esistente. Si potrebbe, quasi paradossalmente, parlare di un parallelo tra la vita del monaco reggiano e quella di don Luigi Sturzo. Ai tempi dell’Assemblea Costituente, Dossetti affermò che una Costituzione, contrariamente a quanto affermato dalla dottrina giuridica liberale classica, non è solamente un insieme di regole e di regolamenti, ma è, soprattutto una atto morale, un documento programmatico intriso di principi etici e morali. Per questo fu un oppositore del liberalismo classico che considerava troppo formalista. Per Dossetti dopo la caduta del regime fascista l’Italia non aveva bisogno solo di una ricostruzione formale, ma anche di una ripresa di spirito morale che trovasse espressione in un documento costituzionale. Per «ricostruire la comunità», perché questo era il vero obiettivo dell’azione di Dossetti in Assemblea Costituente, occorrevano due fatti di primaria importanza: una «Costituzione in senso forte», ossia che non sia solo un insieme di leggi e norme, ma che contenga in se valori etici e morali in grado di farla apparire come il contratto, come il patto di una civile e fruttuosa convivenza con un forte afflato rivolto verso il futuro; il «partito politico», non da intendersi come macchina per la gestione del potere, ma come uno strumento di aggregazione e di scelta della classe dirigente. In quest’ottica fu affascinato dal modello e dall’esperienza del Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti che, nelle cosiddette «regioni rosse», aveva saputo mescolare ed unificare i movimenti sociali della base con la ricerca, la selezione e la formazione di una classe dirigente di alto profilo in grado di far si che il PCI stesso, in tali zone del Paese, fosse identificabile con la «società»: era proprio in virtù di tale situazione che il PCI riusciva ad avere ed a mantenere l’egemonia in tali realtà geopolitiche. Dossetti abbandonò la vita politica a seguito dello scontro con De Gasperi al quale rimproverava di aver assecondato il Paese nella persecuzione di una politica di «bas-
4
so profilo» a scapito di un politica con grandi slanci morali. Per non indebolire il leader democristiano e favorire, così, la destra di Gedda, si ritirò dalla politica attiva volendosi dedicare alla riforma della Chiesa intuendo che, a breve, vi sarebbe stato un Concilio Ecumenico. Seguì gli studi fatti da studiosi tedeschi sul Concilio di Trento che stavano a dimostrare che il Concilio trentino non era stato convocato solo in risposta alla diffusione del protestantesimo, ma anche per dare risposte alle sempre maggiori domande di riforma e di innovazione che avevano attraversato anche quei Paesi e quegli Stati che non si convertirono al protestantesimo, ma che rimasero cattolici. Su indicazione del Cardinale di Bologna, Giacomo Lercaro, mise le sue capacità e le sue conoscenze al servizio del Concilio Vaticano II in cui, scrivendone il Regolamento, impedì l’approvazione dei testi già preparati dalla Curia romana, facendo si che si aprisse una reale discussione. Nel frattempo aveva preso i voti. Accortosi che, regnante Papa Paolo VI, la riforma della Chiesa aveva subito delle battute di arresto, intrapresa la via del monachesimo, iniziò un pellegrinaggio in Terra Santa, che sarebbe dovuto arrivare fino all’Oriente, per testimoniare come il bacino del Mediterraneo fosse stato la culla delle principali tre religioni rivelate. Ultima fase della sua vita fu un ritorno in Patria ed alla politica attiva dopo la comparsa sulla scena politica della destra di Silvio Berlusconi, di cui temeva la pericolosa carica eversiva. In quest’ultima fase fu testimone dell’esperienza costituente e sempre più di frequente invitava al ricordo dei valori e dei contenuti della Costituzione. Fu una fase, per un certo senso, segnata da immobilismo, perché le Costituzioni vivono e si perpetuano nel tempo se sono circondate da consenso e non se diventano un intoccabile «libro sacro». L’eredità di Dossetti, quindi, sembra maggiormente legata ai primi due momenti della sua vita: la «Costituzione come grande patto per l’avvenire», patto per la «società che non c’è» sottoscritto da gruppi di persone che credono in valori morali e che perseguono la creazione di una classe dirigente competente attraverso lo strumento del «partito politico»; la «riforma della Chiesa». Luca Molinari 5
tracce di costituzione l’articolo 1
Il Principio di legalità Il principio di legalità è uno dei caratteri essenziali dello Stato di diritto: con l’avvento del costituzionalismo liberale, infatti, si afferma l’idea che ogni attività dei pubblici poteri debba trovare fondamento in una legge, quale atto del Parlamento, a suo volta unico organo diretta espressione della sovranità popolare o della nazione. La Costituzione vigente non contiene una formulazione espressa di questo principio, anche se ad esso si fa riferimento indiretto in diversi articoli: in particolare, l’art. 23 Cost. stabilisce che «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base a una legge». Mentre parte della dottrina si è espressa per la tesi della costituzionalizzazione implicita del principio di legalità, la giurisprudenza costituzionale lo ha ritenuto un principio generale dell’ordinamento, ancorché non costituzionalizzato. Il principio di legalità si declina in due diversi significati: si parla di legalità in senso formale quando è sufficiente che i pubblici poteri abbiano come base giuridica una legge o un atto ad essa equiparato (Decreto-legge e Decreto legislativo), laddove, invece, si parla di legalità in senso sostanziale quando la legge non si può limitarsi a costituire il fondamento normativo di una certa disciplina, ma deve altresì contenere una disciplina sufficiente a circoscrivere la discrezionalità dell’amministrazione. Una stringente affermazione del principio di legalità si ritrova in materia penale, laddove viene affermato che nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente previsto come reato da una legge che sia entrata in vigore prima della sua commissione (art. 25 Cost.; art. 1 c.p.). Un altro campo dove questo principio trova grande applicazione è quello amministrativo, tanto che la violazione di legge costituisce una delle cause tipiche dell’illegittimità di un atto amministrativo.
viltà e di preservare la pace». Noi - aggiungeva «siamo democratici in quanto siamo non soltanto antifascisti, ma socialisti e comunisti. Tra democrazia e socialismo non c’è contraddizione». È la visione di un percorso inedito e originale: la via italiana al socialismo, come Togliatti stesso la definirà nel 1956 forse in modo alquanto riduttivo. In altre parole - e in questo sta la sua genialità -, muovendo dalla presenza dell’Unione Sovietica e dal «legame di ferro» con la rottura storica rappresentata dalla rivoluzione dell’ottobre 1917, il segretario del Pci delinea un processo di avanzamento verso il socialismo del tutto diverso. Una visione strategica che si ritrova nell’impianto costituzionale, soprattutto nella sua parte più innovativa, di cui Togliatti è stato artefice diretto: quella riguardante i diritti sociali e di proprietà, che oggi appare in tutta la 6
I giovani cercano miti
5
perché non Giorgio La Pira?
sua grandezza e modernità, nelle mutate condizioni storiche in cui una ristretta minoranza di proprietari universali, ossia il vertice dominante del capitale finanziario globale, sta logorano al tempo stesso l’uomo e l’intiero ambiente della sua riproduzione. Il fondamento del lavoro, che è il contrario della centralità del capitale, cambia la natura della società e dello Stato rispetto al passato. Siamo di fronte a un vero e proprio passaggio storico, giacché al centro dell’architettura dello Stato e della società non c’è più il polveroso principio della proprietà inviolabile, vale a dire il proprietariocittadino, pilastro universale del costituzionalismo antecedente all’irruzione nella storia del movimento operaio e dei lavoratori. Bensì la nuova figura della modernità capitalistica: la persona che lavora disponendo solo di sè medesima, l’uomo e la donna proprietari solo delle loro abilità fisiche e intellettuali, della loro manualità e intelligenza, della loro forza-lavoro. Ossia, la classe dei lavoratori dipendenti o comunque eterodiretti, che in Italia sono più di 16 milioni. La stragrande maggioranza delle forze di lavoro anche in Europa e nel mondo. Insomma, la società dei proprietari cede il passo alla società dei lavoratori. In forza di questo passaggio storico il lavoro non è più soltanto una merce che si scambia sul mercato. Diventa diritto, e poiché lo sfruttamento del lavoro umano nasce dal capitale come rapporto sociale, il lavoro posto a fondamento della società e dello Stato apre la strada a una civiltà più avanzata, in cui l’economia sia al servizio dell’uomo e non viceversa. La Repubblica, infatti, non solo «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro», ma «promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto», in modo che essi possano concorrere al progresso materiale e spirituale della società (art. 4). Non solo «garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni ove si svolge la sua personalità», ma
E’ molto difficile descrivere un uomo come Giorgio La Pira: sono così innumerevoli le cose da lui fatte che ogni biografia finisce per essere incompleta. Due miei cari amici che ne condividono la filosofia, Beltrando Mugnai e Vittorio Pierucci, docenti del Centro Internazionale La Pira, mi hanno avvisato di questa difficoltà; ma il mio intento è solo quello di indicare una figura così rivoluzionaria e profetica alla mia generazione, perennemente in cerca di miti. Chi è Giorgio La Pira? Un uomo di pace che mosso dalla sua fede, ha scavalcato qualsiasi barriera ideologica, ponendo le basi per la pace tra i popoli. In ambito politico fu il primo occidentale ad andare a Mosca nel periodo della Guerra Fredda e a creare un ponte di preghiera e dialogo tra Italia e Russia. Nel 1958 tenne a Firenze i Colloqui Mediterranei, in cui riunì per la prima volta paesi rivali come Israele, Giordania e Tunisia per la riconciliazione tra ebrei, cristiani e musulmani e che, quattro anni dopo, portarono alla pace in Algeria. Impossibile poi non parlare della sua profonda fede cattolica: don Raffaele Bensi scrive che «per lui esisteva l’uomo, il figlio di Dio. Tutti fratelli perché Dio li aveva
«richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2). Da cui scaturisce, a livello internazionale, che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 11). L’intiera architettura costituzionale ha una sua profonda e riconoscibile coerenza. Sul fondamento del lavoro si innalzano i nuovi diritti della persona, i diritti sociali. Muovendo dal principio che la Repubblica «tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni» e «cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori» (art. 35), la Costituzione - come è noto - stabilisce la parità di diritti e di retribuzione per uomini e donne a parità di lavoro (art. 37); introduce il diritto «a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro» sufficiente comunque ad assicurare «una esistenza libera e dignitosa» (art. 36), nonché il diritto all’istruzione (art. 33), al ri-
tracce di costituzione l’articolo 1
«L’aggettivo nell’espressione “civiltà occidentale” non ha valore di sostantivo: ha un valore soltanto geografico e tutto quello che ci permette è di guardare con occhio fisso, ma inespressivo, i punti cardinali» fatti, ciascun uomo com’è anche se birbante, anche se assassino». Tanto che, quando venne arrestato per antifascismo, finito l’interrogatorio ringraziò e scusandosi, porse al gerarca una medaglietta della Madonna dicendogli che gli sarebbe servita. Il 24 gennaio del 1960, di ritorno dal Cairo si ferma a Instanbul dove incontra il patriarca ortodosso Atenagora: il colloquio verte sull’unità con la Chiesa di Roma (con cui il dialogo era inesistente). Alla fine Atenagora affidò a La Pira una scatola di cioccolatini da regalare a Giovanni XXIII. Considerando la sua poliedricità, quante associazioni o istituti ha fondato? Soltanto uno: la Messa di San Procolo nel 1934, dove distribuiva pane e qualche soldino ai meno abbienti. Qualcuno gli rimproverò che erano pochi, ma il punto è che erano tutti: tutto il suo stipendio lo dava ai poveri e la sua casa era una cella del convento di San Marco. Muore il 5 novembre del ‘77 all’età di settantatre anni: il suo motto era «Spes contra spem», che in italiano si può tradurre «speranza contro ogni speranza». E’ difficile credere che una persona così indipendente sia esistita davvero. Nella società di oggi la logica del denaro ha prevalso per troppo tempo su quella dell’amore ed è per questo che oggi il dare ci è estraneo. Ricordare La Pira è soltanto l’inizio con cui possiamo riappropiarci di questo concetto. Quindi diamoci da fare. Luca Pesci
poso e alla salute (art. 32), alla pensione e all’assistenza sociale (art. 38). Inoltre, in una visione assai significativa e moderna della persona e della società, «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico e culturale della nazione» (art. 9). Ma - ecco la grande novità, di fatto mandata in soffitta - per dare attuazione a questa fitta trama di diritti non basta che tutti concorrano «alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» (art. 53), seppure sia questa una condizione ineludibile. È necessario che «l’iniziativa economica privata», ancorché libera, non si svolga «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Di conseguenza, la legge dovrà indicare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere coordinata a fini sociali» (art. 41). Infatti, essendo la proprietà
«pubblica o privata», «i beni economici appartengono allo Stato, a enti o a privati». La proprietà privata è garantita, ma entro limiti che ne assicurino la funzione sociale e l’accessibilità a tutti (art. 42). Di più: «ai fini di utilità generale», la legge «può riservare originariamente o trasferire» «allo Stato, a enti pubblici o - sottolineo - a comunità di lavoratori o di utenti» imprese che si riferiscano a servizi pubblici, a fonti di energia o a situazioni di monopolio (art. 43). Sulla stessa linea del pluralismo nelle forme di proprietà, contrapposto al totalitarismo della proprietà privata capitalista, che rende bene l’idea di un percorso aperto, di un processo riformatore in progress, si collocano anche gli articoli 44, che impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, e 45, che favorisce lo sviluppo dell’artigianato e la cooperazione a carattere di mutualità. Sono tutte norme del titolo III della Costituzione, solitamente ignorate nel dibattito attuale, che derivano in modo rigoroso dai principi fondamentali dalla nostra Carta. Più precisamente, sono la traduzione normativa di quei principi, in particolare di quella visione modernissima dell’uguaglianza e della libertà fissata nell’articolo tre. Dove si afferma non solo che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge e hanno pari dignità sociale, ma che la Repubblica rimuove gli ostacoli economici e sociali, che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza, e quindi impediscono il pieno sviluppo della persona e la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Dove dunque è chiaro che non basta l’uguaglianza davanti alla legge e neanche il principio di equità nella distribuzione del reddito, ma occorre intervenire nel cuore del rapporto di produzione capitalistico, ossia nel rapporto di proprietà, se si vuole garantire libertà e uguaglianza, e quindi il pieno sviluppo della persona umana. In una parola, una rivoluzione. Nel cui svolgimento liberazione del lavoro e libertà della persona s’intrecciano, giacché il lavoro, in una sintesi inedita che non contrappone la classe all’individuo, è considerato non solo come interscambio permanente tra uomo e natura, che comporta una visione inscindibile dello sfruttamento umano e ambientale; non solo come forza produttiva fondamentale dei beni materiali e immateriali; bensì anche come fattore costitutivo della personalità. La valorizzazione del lavoro, che pervade l’intiero impianto costituzionale, diventa così la base materiale e culturale della dell’uguaglianza e della libertà, e perciò anche il riferimento per la finalizzazione della proprietà e per il governo del mercato. Sono temi non dell’altroieri, ma dell’oggi e del domani. Un progetto di tale portata, che - come è stato giustamente osservato - si spinge a introdurre elementi di socialismo
«La combinazione vuole, e forse non soltanto la combinazione, che in questa prima seduta dell’Assemblea, che deve dare corpo e sostanza alla Repubblica italiana, prenda per primo la parola chi ha condotto senza riserve, senza reticenze, con piena lealtà, una grande battaglia e credo di poter dire una bella battaglia. E forse è opportuno che sia così perché è ora che monarchici e repubblicani si ritrovino sulla strada comune della Patria e che conflitti e scissioni cessino dove non sono cessati. La Patria, o la costruiamo tutti uniti o non la costruiremo mai; e quanto più avremo il senso di responsabilità di questa nostra azione, tanto più, proprio dal risultato del nostro lavoro, risulterà se avremo potuto dare una risposta a questo primo interrogativo: Monarchia o Repubblica? Solo la Repubblica e cioè le leggi e la costituzione della Repubblica, e il modo in cui esse verranno applicate potranno risolvere la questione istituzionale. La Costituzione potrà essere la nostra, soltanto se sarà anche quella degli altri. Noi pensiamo, cioè, che la Costituzione sarà veramente una buona Costituzione, se qualunque pensiero democratico potrà in essa trovare il suo libero e sicuro svolgimento; se lascerà ad ogni pensiero democratico la possibilità di svilupparsi, ma non costringerà nessuna corrente di pensiero democratico a dovere assumere un atteggiamento contrario alla legge, alla Costituzione, per potere attuare quello che è il suo programma». intervento di roberto lucifero d’aprigliano nel corso della prima seduta dell’assemblea costituente
, non può essere scisso dalla classe lavoratrice, dalla sua autonomia culturale e politica, e quindi dalla sua diretta partecipazione alla guida del Paese. E infatti nell’impianto costituzionale la valorizzazione del lavoro non è separata dal protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori. I quali conquistano non solo il diritto di sciopero e la libertà sindacale (artt. 39 e 40), ma la concreta possibilità di farsi classe dirigente per il tramite del partito politico, considerato lo strumento indispensabile «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49). I confini della democrazia si sono enormemente allargati ben oltre il perimetro dei principi liberali. Quindi, non più deleghe al sovrano per casato o per censo, o a ristrette élites tecnico-politiche. Con l’entrata in campo della classe lavoratrice la politica assume una nuova dimensione sociale, e con i partiti di massa prende forma quella che Togliatti definisce «la democrazia che si organizza» . Era chiaro infatti ai costituenti che i lavoratori e le classi subalterne non sono in grado di esigere i nuovi diritti costituzionalmente riconosciuti se non si organizzano e non si rappresentano politicamente. Senza sottovalutare l’apporto delle «terze forze», vale a dire di 7
tracce di costituzione l’articolo 1 6
Roberto Lucifero D’Aprigliano un liberale...di destra 7
azionisti, repubblicani e liberali democratici, di cui la Costituzione assume la grande conquista storica dei diritti civili, ma respinge la vecchia ideologia proprietaria comunque riverniciata e apparentemente spogliata di ogni relazione con il gravame soffocante dei rapporti economici, non c’è dubbio che i comunisti e i socialisti, da una parte, e i democratici cristiani, dall’altra, sono stati i principali artefici di un disegno costituzionale innovativo, le cui enormi potenzialità rimangono tuttora largamente inesplorate oltre che inapplicate. Non si è trattato di un inciucio ante litteram, ma di una convergenza, su una reale piattaforma di cambiamento, di due grandi correnti di pensiero, l’una che risale a Marx cui i comunisti e i socialisti allora facevano riferimento, l’altra d’ispirazione cristiano-sociale il cui principale esponente era Giuseppe Dossetti. Un solidarismo d’origine diversa - osserva Togliatti intervenendo nella discussione sul progetto di Costituzione - che però «arrivava, nella impostazione e soluzione concreta di differenti aspetti del problema costituzionale, a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo noi». «Questo è il caso dell’affermazione dei diritti del lavoro, dei cosiddetti diritti sociali; è il caso della nuova concezione del mondo economico, non individualistica né atomistica, ma fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del lavoro; è il caso della nuova concezione e dei limiti del diritto di proprietà». E quando Giorgio La Pira, uno dei costituenti di spicco della Dc, indica nella dignità della persona il riferimento per i diritti dell’uomo e del cittadino, Togliatti afferma che «qui vi è un altro punto di convergenza della nostra corrente, comunista e socialista, con la corrente solidaristica cristiana» giacché «socialismo e comunismo tendono a una piena valutazione della persona umana». Si stabilisce così una relazione inedita, sconosciuta in altre esperienze del Novecento ad Est come ad Ovest, e ricca di 8
Roberto Lucifero, marchese d’Aprigliano, nasce a Roma il 16 dicembre 1903; laureatosi in giurisprudenza, svolge attività di pubblicista. Monarchico, viene eletto nel collegio XXVIII di Catanzaro tra le fila del Blocco Nazionale della Libertà. In Assemblea lavora intensamente nelle Commissioni per la Costituzione, nella prima sottocommissione, per le leggi elettorali, per l’esame dei disegni di legge, ed in altre. Nel gennaio del 1947 lascia il Blocco Nazionale per entrare a far parte del gruppo dei liberali di Benedetto Croce. Il suo primo intervento avviene in occasione della com-
memorazione del repubblicano Cesare Battisti, patriota irredentista. Un’esposizione breve ed onorevole, rispettosa dell’Assemblea, degli avversari, ispirata da un forte senso di unità nazionale, da un vivo senso di Patria. Certo, forse non aveva compreso cos’era stata la Resistenza e la Costituzione che da essa stava nascendo, una Costituzione antifascista e non meramente a-fascista. La foto rivela un quarantenne di bell’aspetto, barba e baffi dandy. Gli occhi garbati ed un sorriso appena accennato smentiscono ogni voce su quel cognome così impegnativo.
implicazioni straordinariamente attuali, tra solidarietà e personalismo, tra classe sociale e individuo, tra collettività e persona, e anche tra utilità sociale e impresa, che dà all’intiero impianto costituzionale, sicuramente la vetta più alta toccata dagli italiani nel loro contrastato cammino verso la libertà e l’uguaglianza, il respiro di un’operazione di grande portata strategica su cui costruire il futuro. è un progetto di nuova società. La proprietà articolata in forme diverse (pubbliche, private, comuni), limitata e finalizzata, e il mercato, regolato per soddisfare le esigenze umane e ambientali attraverso l’intervento pubblico e la presenza di soggetti sociali politicamente organizzati, si innestano in un progetto, e in un processo, di trasformazione della società diverso da ogni modello finora conosciuto, che potremmo chiamare nuovo socialismo. Di certo questo non è il modello sovietico di società socialista. D’altra parte, una Costituzione che pone il lavoro a fondamento della democrazia non si può definire liberale, giacché va ben oltre i sacri principi dell’ ‘89. Ma il progetto costituzionale non si identifica neanche con il compromesso socialdemocratico, che in tutto il Novecento mai ha superato il limite della sfera distributiva, evitando di affrontare il nodo dell’accumulazione e della struttura economica, e quindi di scalare la muraglia del modo di produzione capitalistico, cioè dei rapporti di proprietà. Il risultato è che dopo il fallimento del «socialismo realizzato» ad Est, oggi dobbiamo constatare il fallimento della socialdemocrazia ad Ovest. In questo contesto, a mio giudizio il proget-
to costituzionale italiano assume un valore speciale. Esso trae i suoi fattori costitutivi dalle specifiche condizioni storico-culturali del nostro Paese, dalle caratteristiche del capitalismo italiano e dalle lezioni che i partiti della classe operaia hanno saputo trarre dalla sconfitta subita con l’avvento del fascismo. Ma sarebbe un grave strabismo non vedere che questo progetto ha un valore più generale, perché pone su basi nuove l’idea e la pratica della trasformazione della società verso il socialismo nell’intiera Europa, in Paesi capitalisticamente maturi, retti da diverse forme di democrazia politica. Un progetto reso possibile dalla strategia dei comunisti italiani, che in Occidente hanno aperto un diverso orizzonte al processo rivoluzionario, teorizzato e praticato con coerenza da Togliatti sulla via della democrazia progressiva, da percorrere con la presenza e con le lotte del partito nuovo di massa. È semplicemente assurdo, e al tempo stesso prova di inguaribile dogmatismo, ritenere che esista un’unica via per la trasformazione della società indipendentemente dalle condizioni storiche, e un unico schema di società comunista in cui imbracare l’universo mondo. Del resto, non era questo il pensiero di Marx - a torto imprigionato nella precettistica degli epigoni -, il quale, in un discorso del 1872 ad Amsterdam, polemizzando con gli anarchici astensionisti, aveva sostenuto che le classi lavoratrici devono «prendere il potere politico per fondare la nuova organizzazione del lavoro», altrimenti mai avrebbero visto «l’avvento del regno dei cieli in questo mondo». Ma, aggiungeva, «non abbiamo affatto preteso che per arrivare a questo scopo i
tracce di costituzione l’articolo 1 mezzi fossero dappertutto identici. Conosciamo quale importanza abbiano le istituzioni, i costumi, le tradizioni di vari Paesi», e perciò riteneva che nei Paesi più avanzati «i lavoratori possono raggiungere il loro scopo pacificamente». L’originalità del comunismo di Togliatti consiste in un pensiero e in una pratica che superano la più che secolare oscillazione tra il tutto sociale e il tutto politico, tra massimalismo e riformismo. E quindi in un’azione politica che connette il particolare con il generale, la parzialità con la visione di sistema, la quotidianità con la prospettiva, i mezzi e i fini attraverso un’iniziativa combinata dal basso e dall’alto che dà concretezza al processo riformatore. E perciò delinea i contorni di un più alto ordinamento, di un «socialismo diverso». L’esito di questo processo - annota Togliatti nel 1962 - «dipenderà dal fatto che, per l’azione di un partito rivoluzionario, com’è il nostro, non si perda mai, nelle masse lavoratrici, la coscienza del legame tra le riforme parziali e gli obiettivi del movimento operaio e socialista, e questi non vengano mai né cancellati né offuscati». La più grande innovazione introdotta da Togliatti - ha fatto notare Mario Tronti - , sta proprio nel superamento del dilemma che nel Novecento ha dilaniato in Europa socialdemocratici e comunisti: riforme o rivoluzione? La rivoluzione nella società e nello Stato attraverso le riforme: questa è la risposta che troviamo nell’impianto togliattiano. E non è un gioco di parole, o un astratto esercizio intellettuale. L’unità di riforme e rivoluzione, ovvero il rivoluzionamento della società e dello Stato attraverso riforme della struttura economico-sociale e delle sovrastrutture culturali e formative, si realizza nel processo di trasformazione guidato dalla politica concepita come partecipazione sociale e protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici. Il partito di massa, «intellettuale collettivo» che lotta anche sul terreno della cultura e della formazione del senso comune, è lo snodo decisivo di questa strategia, che si distacca dal leninismo costruttore del partito-avanguardia, come pure dalle socialdemocrazie imprigionate nella gabbia dei rapporti di produzione capitalistici. Un partito inteso appunto come «parte», che non si identifica quindi con lo Stato né si sovrappone alla società per dominarla, ma stabilisce con essa un rapporto interattivo allo scopo di produrre «politica reale delle classi subalterne in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamo alla massa», per dirla con Antonio Gramsci. Si tratta di un disegno strategico poderoso e organico, fondato proprio sulle analisi di Gramsci e sulla sua teoria della funzione egemonica, da conquistare prima nella società e nell’organizzazione della cultura per poterla poi esercitare nello Stato,
C’è la lettera, l’ultima, ai compagni, di un ragazzo partigiano di Parma, Giordano Cavestro, studente di 18 anni, fucilato dai fascisti repubblichini il 4 maggio 1944 a Bardi, che riletta oggi riempie di dolore e di commozione per le sue speranze tradite: «Se vivrete tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care. La mia giovinezza è spezzata, ma sono sicuro che servirà da esempio». E’ servita da esempio quella giovane morte? Questa nostra di oggi non sembra davvero l’Italia che sognarono i partigiani discesi dalle montagne il 25 aprile 1945. La crisi economico-finanziaria, con i 3 milioni di disoccupati, il 38,7 dei giovani senza lavoro, i quasi 3 milioni di precari, gli esodati, le fabbriche piccole e medie che ogni giorno chiudono sono i dati crudeli della condizione del Paese. Ma l’incuria dura da decenni di cattivi governi, il paesaggio è devastato, in nome della speculazione. Della bellezza non si tiene alcun conto; la situazione idrogeologica è perennemente precaria, si parla delle alluvioni e dei terremoti soltanto al momento degli eventi, poi cala il silenzio, come all’Aquila, con il suo centro storico dopo quattro anni desolatamente abbandonato. Per la cultura, musei, biblioteche, archivi, teatri, che dovrebbe essere un forno sempre acceso, l’Italia è all’ultimo posto in Europa per i suoi investimenti e al penultimo per l’istruzione. E’ questo il paese sognato dagli uomini e dalle donne della Resistenza dopo i disastri del fascismo e della guerra? Le commemorazioni possono anche essere di maniera, stucchevoli, ma nei momenti gravi della vita nazionale come questo che stiamo vivendo, un 8 settembre della democrazia, è necessario e doveroso, invece, ripensare alle proprie radici per poter ricominciare, ripetere con pazienza che la Repubblica è figlia della Resistenza al fascismo, anche se si è fatto di tutto, in questi anni, per negare in modo beffardo l’evidenza tentando continuamente di dimenticare e di cancellare la Costituzione che, come scrisse padre David Maria Turoldo, è il Vangelo della Repubblica. Che festa grande fu quel 25 aprile entrare nelle città liberate, tra la folla che applaudiva, i ragazzi che sventolavano bandiere, rosse, azzurre, tricolori, con le campane che suonavano a distesa. Era finita. I partigiani arrivarono spesso prima degli americani, degli inglesi, dei neozelandesi, dei polacchi. A Genova i tedeschi chiesero la resa al Corpo volontari della libertà e le brigate partigiane sfilarono lungo via XX settembre scortando migliaia di prigionieri dell’esercito nazista catturati o arresi. A Milano fu la divisione garibaldina dell’Oltrepò comandata da Italo Pietra, il futuro direttore del Giorno, a liberare la città entran-
do da Porta Ticinese. Che emozione per quei ragazzi diventati adulti tra le asperità della guerra di montagna contro un nemico che da sempre ha le armi nel sangue. Carlo Smuraglia, Presidente dell’Anpi, giurista insigne, partigiano, poi nell’Esercito italiano di liberazione, ha raccontato alla tv come fu naturale allora per lui, studente di vent’anni alla Normale di Pisa, scegliere la parte della libertà e della giustizia. Più semplice che per un giovane di oggi. E dopo? Non andò di certo come doveva, con la guerra fredda che divise di nuovo il mondo, gli ostruzionismi, i maccartismi, la cancellazione delle garanzie, le discriminazioni, il revisionismo impudico ancora oggi in azione. La vittoria sul fascismo non è stata mai digerita del tutto da strati non piccoli della società. Nell’estate del 2011, il governo Berlusconi che negava ancora l’esistenza della crisi, boccheggiante, con l’acqua alla gola, tentò di abolire la festa del 25 aprile e anche il Primo maggio e il Due giugno. Di recente un leader del Movimento 5 stelle, Roberta Lombardi, non ha scritto che il fascismo ebbe un altissimo senso dello Stato? Il fascismo buono. Tutti uguali, carnefici e vittime. E Luciano Violante, eletto nel 1996 presidente della Camera, non riabilitò benevolo, nel discorso ufficiale a Montecitorio, i “ragazzi di Salò”? (Tutti i morti sono uguali, ma sono ben diverse le ragioni per cui sono caduti: i partigiani, per la liberazione dell’Italia, i fascisti al servizio dei tedeschi invasori, spesso anche più feroci di loro nei rastrellamenti). La crisi non è soltanto economico-finanziaria, ma è una crisi culturale, politica, antropologica di tutta una classe dirigente. Occorre intervenire subito con coraggio, ma ci vorranno anni, forse generazioni, per ricomporre una società che riabbia dignità e rispetto per se stessa. Tra passato e presente. Se si pensa chi furono gli uomini della Costituzione, appartenenti a tutte le forze politiche – Luigi Einaudi, Lelio Basso, Piero Calamandrei, Alcide De Gasperi, Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Giorgio La Pira, Nilde Iotti, Emilio Lussu, Concetto Marchesi, Aldo Moro, Costantino Mortati, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti – può essere umiliante un paragone con l’oggi. Il 4 marzo 1947, Piero Calamandrei fece all’Assemblea Costituente un discorso che ha mantenuta intatta tutta la sua contemporaneità. Concluse così: «Che cosa diranno i posteri di questa nostra Costituzione? Seduti su questi scanni è stato tutto un popolo di morti, di quei morti che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani». Corrado Stajano 9
tracce di costituzione l’articolo 1 che capovolge gli schemi delle rivoluzioni condotte dall’alto con un atto giacobino o con la presa del Palazzo d’inverno, per calarle successivamente nel corpo sociale. Praticabile ovviamente a due condizioni: che sia presente sulla scena un partito rappresentativo del lavoro dipendente ed eterodiretto, oggi delle lavoratrici e dei lavoratori del XXI secolo; e che nell’azione politica non si spezzi il nesso tra rivoluzione e riforme, tra sociale e politico, tra prospettiva e concretezza. Diversamente, la politica, intesa come azione per trasformare il mondo, e quindi posta al vertice delle attività umane, retrocede nel migliore dei casi a politicantismo o a puro verbalismo. Il nodo da sciogliere non è dunque quello del gradualismo, ma quello della direzione di marcia. Per essere più precisi, oggi si tratta di decidere se, facendo asse sul lavoro, s’intende porre al centro dell’azione politica il programma di profonde riforme sociali ed economiche previsto dalla Costituzione. Oppure se a quel programma si vuole chiudere definitivamente la porta, cambiando la Costituzione. Concepita in un momento drammatico della nostra storia, la Costituzione del ’48, non parla del passato, ma del presente e del futuro degli italiani. Ed è una bussola moderna proprio perché, come è stato giustamente è osservato, ponendo il lavoro a fondamento del patto tra gli italiani dimostra la sua inesauribile vitalità in quanto sancisce «una dimensione complessa dell’eguaglianza, non riducibile alla parità delle condizioni di partenza». E dunque tutela non solo consolidati diritti, come quelli degli operai Fiat, ma è aperta all’affermazione di diritti nuovi, che scaturiscono dalla rivoluzione scientifica e tecnologica e dalla condizione umana del nostro tempo, e riguardano perciò le generazioni giovani, in preda alla precarietà e prive di prospettive. Come è dimostrato dal fatto, ed è solo un esempio, che per l’accesso alla conoscenza reso possibile da internet non basta affermare in astratto il pari diritto di ciascuno, se poi permangono condizioni di disuguaglianza e di esclusione. In altre parole, le condizioni di vita della nostra epoca reclamano a piena voce un’uguaglianza reale e non retorica, che la nostra Costituzione sancisce. È certo che, come la storia ha dimostrato, la liberazione del lavoro non si potrà ottenere se non si comprende la differenza tra uomo e donna come pure la complessità della figura sociale di ciascuno e di ciascuna, andando oltre la stessa condizione materiale. Ma dalla disuguaglianza tra chi possiede i mezzi finanziari, di produzione e di comunicazione, e chi dispone solo delle proprie capacità corporee, fisiche e intellettuali, non si può prescindere, ben al di là della asserita uguaglianza di tutte e di tutti davanti la legge. 10
Come definire la Repubblica
9
8
Quell’articolo di Dossetti e i lavori della Costituente
Intervento di Palmiro Togliatti all’Assemblea Costituente del 22 marzo 1947 Qui si tratta di scegliere tra due formule: «Repubblica democratica fondata sul lavoro» oppure «Repubblica democratica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro». Queste due formule vengono presentate dopo che è stata respinta la formula da noi presentata, alla quale avevano aderito alcuni gruppi e che diceva: «Repubblica democratica di lavoratori». Di fronte all’alternativa che adesso si presenta, devo dichiarare a nome del gruppo al quale appartengo, che noi preferiamo la formula proposta dall’onorevole Fanfani: «Repubblica democratica fondata sul lavoro». Il motivo mi sembra evidente: prima di tutto la formula del collega Fanfani è quella che più si avvicina a quella che noi avevamo presentato. Per questo semplice motivo, noi avremmo il dovere di votarla. Per la sostanza, la formula «Repubblica fondata sul lavoro», si riferisce a un fatto di ordine sociale, e quindi è la più profonda; mentre la formula che viene presentata dall’onorevole La Malfa ed altri colleghi, trasferendo la questione sul campo strettamente giuridico e introducendo anche una terminologia poco chiara e poco popolare sui «diritti di libertà» e «di lavoro», ci sembra sia da respingere. Da ultimo, essa se mai non è appropriata a questa parte della Costituzione, ma appartiene alla seconda parte, alla parte successiva. Per questi motivi, il nostro gruppo voterà contro la formula dell’onorevole La Malfa e in favore della formula dell’onorevole Fanfani.
Il lavoro non è soltanto un diritto garantito dalla Costituzione, ma è il diritto che ne ha ispirato l’impianto. Certo la centralità della persona, l’uguaglianza, la libertà, la soggettività della comunità locale che è alla base del regionalismo e del federalismo, non lo sono di meno. Ma il lavoro in una qualche misura li riassume tutti e, in ogni caso, rappresenta il punto di convergenza fra le tradizioni culturali e politiche presenti all’Assemblea costituente. Don Giovanni Nicolini, un prete straordinario e molto noto di Bologna, racconta un episodio significativo al riguardo: un giorno fece da autista, da Bologna a Firenze, a due costituenti suoi amici, Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira, e riferisce del colloquio fra i due che non si può dimenticare. Dossetti ricordava a La Pira quando, proprio agli inizi dei lavori dell’Assemblea, si incontrò con Palmiro Togliatti in un bar nei pressi di Piazza del Popolo per discutere di quale avrebbe dovuto essere la cifra, cioè il dato di sintesi dei principi costituzionali e, dopo un girare intorno al tema che non sembrava approdare in quel momento ad un esito, fu proprio lui a rompere gli indugi e a proporre a Togliatti il valore del lavoro. La reazione dell’interlocutore fu del tipo: «Ma lei lo dice per compiacere noi». «No, non mi interessa compiacere voi – fu la risposta di Dossetti – sono proprio convinto che il tema del lavoro debba essere centrale nella nuova Costituzione e possa rappresentare un punto di incontro fra posizioni culturali che per altri aspetti non sono facilmente conciliabili». In effetti Dossetti ancora un anno prima, il 31 luglio 1945, a commento della vittoria laburista in Gran Bretagna, aveva scritto un articolo dal titolo Il primato del lavoro dove cercava di andare oltre la cultura socialista. Gli stessi La Pira e Fanfani se ne erano occupati intervenendo alla Settimana sociale dei cattolici italiani del 1945 su “Costituente e Costituzione” sostenendo che la
tracce di costituzione l’articolo 1
Dietro ogni articolo della Carta Costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza. Quindi la Repubblica è una conquista nostra e dobbiamo difenderla, costi quel che costi. sandro pertini, messaggio di fine anno agli italiani (1979)
Costituzione non si sarebbe dovuta limitare a fotografare la situazione esistente ma avrebbe dovuto darsi l’ambizione di produrre una nuova condizione sociale ed economica del paese e, La Pira in particolare, richiamò il radiomessaggio pontificio del Natale 1942 in cui si diceva che il diritto al lavoro avrebbe dovuto essere condizione al diritto di proprietà (questione che in effetti alimenterà il confronto fra Basso, Fanfani, La Pira, Dossetti, Einaudi e Ruini in sede di definizione dell’articolo 41 della Costituzione). Si capisce allora come il lavoro diventerà così importante da meritare due dei dodici articoli dei Principi Fondamentali, l’1 e il 4, e ispirare buona parte del terzo titolo della Costituzione relativo ai Rapporti Economici. Non sorprenderà che i costituenti abbiano voluto che fosse proprio il primo comma del primo articolo a sancire un incipit capace di essere ricordato come la sintesi valoriale di tutto il testo: ci fu ovviamente discussione perché Togliatti avrebbe voluto definire quella italiana (come era scritto nella costituzione sovietica) una «Repubblica dei lavoratori», ma alla fine prevalse la formula «repubblica democratica, fondata sul lavoro» proposta da Fanfani, proprio perché al di là dei diritti soggettivi e dei soggetti destinatari, i lavoratori appunto, è il lavoro in sé ad essere nella concezione dossettiana un valore. Nel senso che il lavoro è lo strumento attraverso cui non solo l’uomo (per i credenti) completa la Creazione come è scritto nel libro della Genesi, ma ancor più realizza se stesso, cioè diventa veramente uomo. Dice il filosofo Salvatore Natoli in proposito che l’uomo è un ente trasformatore che utilizza il lavoro come strumento: «Attraverso quello che creo, mi creo». Dunque il lavoro come mezzo ineludibile per diventare persona, per acquisire la dignità della persona, per realizzare il fine esistenziale di concorrere alla costruzione del bene comune e, di conseguenza – anche in questo caso è decisiva la formulazione congiunta Togliatti-Dossetti dell’articolo 36 – il salario sarà frutto e condizione perché il lavoro realizzi tale finalizzazione. È ancora Dossetti nel dibattito della
10
prima sottocommissione, commentando un testo proposto da Aldo Moro e condiviso da Togliatti, a cercare di allargare il valore del lavoro anche alle attività contemplative e in particolare a quelle monastiche, non solo perché, come sottolineò La Pira, anche il poeta è un lavoratore, anche lo studente (participio presente del verbo studiare) lo è, ma perché pure l’attività contemplativa risponde a una finalità sociale, che è ciò che conta. Ovviamente Dossetti non aveva la pretesa che una simile specificazione entrasse nel testo, ma vi si intrattenne a lungo, sorprendendo e provocando varie reazioni in alcuni interlocutori come Lelio Basso e Concetto Marchesi, proprio perché riteneva fosse importante cristallizzare il valore del lavoro in sé, venendo a mancare il quale si sapesse che veniva a mancare non una condizione ma la condizione che consente agli uomini di essere e di essere considerati tali. E per affermare il principio che, essendo degradabile, il valore del lavoro dovrà essere sempre tutelato dall’ordinamento oltreché dalla e nella comunità. Pierluigi Castagnetti
Chi obietta che il fondamento del lavoro oggi non ha senso perché è finita la stagione del fordismo e dell’operaio-massa, evidentemente ha in testa un’unica idea fissa del lavoro come categoria immutabile che non va oltre la catena di montaggio, e non fa i conti, oltre che con la dittatura del capitale sul lavoro, con una rivoluzione della scienza e della tecnica che non ha abolito il lavoro, ma ha rivoluzionato il modo di lavorare, senza rivoluzionare però il diritto di proprietà, come la Costituzione prevede. Per cui, il vero problema, come del resto è evidente dagli svolgimenti drammatici della crisi, non è la cancellazione del fondamento del lavoro, bensì la sua rielaborazione nelle nuove condizioni, applicando al tempo stesso le norme previste dal titolo III. In conclusione, la Costituzione è un progetto vivo e vitale, di cui è necessario liberare tutte le potenzialità per uscire dalla crisi in Italia e per contribuire a dare una diversa dimensione all’Europa. Un progetto che parla alle nuove generazioni, alle lavoratrici e ai lavoratori del nostro tempo, qualunque sia la forma in cui si manifesta (o non si manifesta) la loro attività lavorativa, e indipendentemente dalle norme giuridiche in cui è regolato (o non è regolato) il loro rapporto di lavoro. In sintesi, la Costituzione è il vero progetto per cambiare l’Italia e l’Europa: di cui gli italiani oggi possono disporre grazie all’apporto decisivo di un grande politico e statista come Palmiro Togliatti, il rivoluzionario costituente, secondo la definizione di Gianni Ferrara. Dunque, il progetto per cambiare lo stato delle cose presenti esiste, ed è costato tanti sacrifici e dure lotte. Occorre recuperarlo, e farne oggi la stella polare che illumini il cammino, in un momento tra i più oscuri della nostra storia. un astratto esercizio intellettuale. L’unità di riforme e rivoluzione, ovvero il rivoluzionamento della società e dello Stato attraverso riforme della struttura economico-sociale e delle sovrastrutture culturali e formative, si realizza nel processo di trasformazione guidato dalla politica concepita come partecipazione sociale e protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici. Il partito di massa, «intellettuale collettivo» che lotta anche sul terreno della cultura e della formazione del senso comune, è lo snodo decisivo di questa strategia, che si distacca dal leninismo costruttore del partito-avanguardia, come pure dalle socialdemocrazie imprigionate nella gabbia dei rapporti di produzione capitalistici. Un partito inteso appunto come «parte», che non si identifica quindi con lo Stato né si sovrappone alla società per dominarla, ma stabilisce con essa un rapporto interattivo allo scopo di produrre «politica reale delle classi subalterne in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamo alla massa», per dirla con Antonio 11
tracce di costituzione l’articolo 1 11
lo scudo dei cittadini 12
Gramsci. Si tratta di un disegno strategico poderoso e organico, fondato proprio sulle analisi di Gramsci e sulla sua teoria della funzione egemonica, da conquistare prima nella società e nell’organizzazione della cultura per poterla poi esercitare nello Stato, che capovolge gli schemi delle rivoluzioni condotte dall’alto con un atto giacobino o con la presa del Palazzo d’inverno, per calarle successivamente nel corpo sociale. Praticabile ovviamente a due condizioni: che sia presente sulla scena un partito rappresentativo del lavoro dipendente ed eterodiretto, oggi delle lavoratrici e dei lavoratori del XXI secolo; e che nell’azione politica non si spezzi il nesso tra rivoluzione e riforme, tra sociale e politico, tra prospettiva e concretezza. Diversamente, la politica, intesa come azione per trasformare il mondo, e quindi posta al vertice delle attività umane, retrocede nel migliore dei casi a politicantismo o a puro verbalismo. Il nodo da sciogliere non è dunque quello del gradualismo, ma quello della direzione di marcia. Per essere più precisi, oggi si tratta di decidere se, facendo asse sul lavoro, s’intende porre al centro dell’azione politica il programma di profonde riforme sociali ed economiche previsto dalla Costituzione. Oppure se a quel programma si vuole chiudere definitivamente la porta, cambiando la Costituzione. Concepita in un momento drammatico della nostra storia, la Costituzione del ’48, non parla del passato, ma del presente e del futuro degli italiani. Ed è una bussola moderna proprio perché, come è stato giustamente è osservato, ponendo il lavoro a fondamento del patto tra gli italiani dimostra la sua inesauribile vitalità in quanto sancisce «una dimensione complessa dell’eguaglianza, non riducibile alla parità delle condizioni di partenza» . E dunque tutela non solo consolidati diritti, come quelli degli operai Fiat, ma è aperta all’affermazione di diritti nuovi, che scaturiscono dalla rivoluzione scientifica e tecnologica e dalla condizione umana del nostro tempo, e 12
Quando c’erano i Faraoni c’era già la Legge. E la Legge c’era anche quando c’erano gli imperatori, i sovrani medioevali e poi quelli rinascimentali. C’è stata perfino sotto i tiranni. C’è sempre stata, anche ai tempi degli uomini delle caverne; rudimentale, imperfetta, ingiusta anche, ma sempre, da quando gli uomini hanno cominciato a vivere insieme, la Legge ha regolato i loro rapporti. Quella che non c’è stata mai, fino a pochissimo tempo fa, fino a due secoli fa (proprio poco se paragonati ai millenni di storia umana), è la Costituzione. Se ci si pensa, la Legge del Faraone e quella emanata da altri come lui non è cosa che poteva lasciare tanto tranquilli; meglio di niente, va bene, ma funzionava, al massimo, se un rematore litigava con un panettiere o un contadino con un altro contadino. Perché certo, se il contadino se la prendeva con un soldato o un proprietario terriero, la Legge per lui poteva fare proprio poco, anzi per lui era proprio meglio non invocarla affatto questa Legge. Perché il Faraone l’aveva emanata per i suoi fini, non per quelli del Paese che governava; o almeno, stando bene attento che le sue ricchezze e il suo potere non ne venissero intaccati. E siccome ricchezze e potere gli derivavano dall’appoggio di altri ricchi e potenti, non proprio come lui ma comunque appartenenti alla sua stessa classe, ecco che la Legge teneva conto degli interessi e dei privilegi di questi pilastri a cui lui si appoggiava e che volentieri lo sostenevano, perché in questo modo facevano anche i propri interessi. Dunque la Legge del Faraone era, in realtà, una legge per il Faraone; e per la gente come lui. (...) Per millenni
è stato così; e, in tante parti del mondo, è ancora così. Poi si è fatta strada un’idea stranissima: non va bene che il Re, il Signore, l’Imperatore, il Tiranno, insomma questo Faraone, possa fare quello che vuole. Perché, se è una brava e onesta e capace persona andrà pure bene. Ma se è disonesto, incapace e magari anche criminale, le leggi che imporrà saranno un male per il Paese; cercherà privilegi e ricchezze, legittimerà le sue prepotenze e quelle dei suoi amici, insomma sarà un tiranno. E nessuno può sapere se domani arriverà a governare il Paese proprio uno così. Ecco, si è pensato, occorre una legge speciale, una legge che non sia diretta al Popolo ma al Re; una legge che non serva solo a regolamentare i rapporti dei Cittadini tra loro e che invece regolamenti i rapporti tra il Re e i Cittadini. Ecco, ci serve una Costituzione. Nel 1215 Giovanni Senza Terra si impegnò a non imporre tasse senza il consenso del Parlamento (che non era eletto da lui, dal capo del Governo, come invece succede oggi in Italia). (...) Passò molto tempo prima che l’idea della Legge che regolamentasse il potere di chi governa venisse accettata; come ho detto, lo Stato, così come lo conosciamo noi, è una conquista recente. Ma alla fine, nel mondo occidentale moderno, gli Stati, chi prima, chi dopo, si sono dati una Costituzione. La nostra è proprio giovane; è entrata in vigore il 1° gennaio del 1948. Ed è una Costituzione bellissima. È nata, la nostra Costituzione, da tanti errori, tanta sofferenza, tanti lutti. È nata dal sacrificio di tanti cittadini, dall’impegno di tanti superstiti, dalla maturità di un Paese finalmente diventato adulto. È nata soprattutto come una conquista condivisa da tutti, dopo un lavoro che ha accomunato guerrieri, filosofi, politici, giuristi che hanno collaborato senza riserve e con un obiettivo comune: fare dell’Italia un Paese prospero, pacifico e giusto. Come poteva non essere bellissima? Naturalmente la Costituzione italiana non è solo bellissima; è anche un capolavoro di ingegneria giuridica che, questo è il punto, garantisce i cittadini dagli abusi del potere. E questo lo fa adottando i princìpi fondamentali più avanzati che il mondo conosca: pensate alla bellezza del principio - tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla Legge, senza distinzioni di sesso, razza, religione, opinioni politiche. Pensate quale conquista sociale rappresenti il principio - tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla Legge. Pensate di quale tranquilla sicurezza possono godere i cittadini per via del principio - i Giudici sono soggetti soltanto alla Legge. E pensate finalmente quanto sia importante aver integralmente adottato la teoria di Montesquieu, la divisione dei poteri: esecutivo (il Governo), legislativo (il
tracce di costituzione l’articolo 1
Parlamento) e giudiziario (la Magistratura). Ecco, già solo così la nostra Costituzione si rivela per quello che è: uno scudo a difesa dei cittadini, uno scudo contro il Faraone. La Legge è eguale per tutti; nessun potere controlla interamente lo Stato. Non sono possibili abusi: chi governa lo fa secondo le leggi emanate da chi legifera; e la corretta applicazione della Legge spetta a chi non l’ha fatta. Un equilibrio perfetto. Ma la Costituzione è uno strumento complesso, fragile, delicato: un piccolo cambiamento in questa complessa architettura e lo scudo andrebbe in frantumi. Certo, potrebbe essere necessario modificarla, aggiungere qualcosa, togliere (togliere?, mah) qualcos’altro. Ma bisogna pensarci bene; ecco perché la stessa Costituzione prevede che questi cambiamenti non si possano fare alla leggera: due terzi del Parlamento debbono votarli; oppure, se c’è solo una maggioranza semplice, allora i cittadini debbono approvare i cambiamenti con un referendum. Come dire: state attenti prima di desiderare qualcosa, potreste ottenerla. E adesso la nostra classe politica, per lo meno gran parte di essa, proprio questo vuole fare: vuole cambiare la Costituzione. Non discuterò qui di quali cambiamenti stanno proponendo; credo che, al momento, non sia ben chiaro nemmeno a chi ha in mente di distruggere la Costituzione come farlo. Una cosa però gli è chiarissima: è proprio la natura della Costituzione che non va bene, è la sua funzione di scudo per i cittadini contro l’abuso del potere che si vuole eliminare. Questo obiettivo ormai non viene nemmeno più nascosto, le riforme non vengono nemmeno più giustificate con questo o quell’altro pretesto. Si dice apertamente che la Costituzione è ormai vecchia; che è stata elaborata alla fine degli anni Quaranta, dopo la guerra, dopo il fascismo; che ormai i tempi sono diversi; che non c’è più bisogno di una Costituzione come questa; che occorre uno strumento che permetta di governare con efficienza e rapidità; che il Parlamento deve assecondare i progetti del Governo e non ostacolarli; che la Magistratura, almeno il Pubblico Ministero, deve rispondere al potere politico e non può essere indipendente; che... Non so, viene lo sconforto a enumerare tutte queste protervie. Eppure dovrebbe essere così evidente. Nessuno può ipotecare la storia. Nessuno può ignorare che la tentazione di gestire il potere senza controllo è connaturata al potere stesso. Nessuno può pensare davvero che i potenti della terra, e figuriamoci i potenti dell’Italia, si comportino come Cincinnato, il dittatore romano che, esaurito il suo mandato che gli conferiva potere assoluto, tornò a fare il contadino. Bruno Tinti
Relazione al Progetto [Dalla relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini che accompagna il Progetto di Costituzione della Repubblica italiana]
[...] Era necessario che la Carta della nuova Italia si aprisse con l’affermazione della sua, ormai definitiva, forma repubblicana. Il primo articolo determina alcuni punti essenziali. Non si comprende una costituzione democratica, se non si richiama alla fonte della sovranità, che risiede nel popolo: tutti i poteri emanano dal popolo e sono esercitati nelle forme e nei limiti della costituzione e delle leggi; nel che sta l’altra esigenza dello «Stato di diritto». Bisogna poi essere ciechi per non vedere che è oggi in corso un processo storico secondo il quale, per lo stesso sviluppo della sovranità popolare, il lavoro si pone quale forza propulsiva e dirigente in una società che tende ad essere di liberi ed eguali. Molti della Commissione avrebbero consentito a chiamare l’Italia «repubblica di lavoratori» se queste parole non servissero in altre costituzioni a designare forme di economia che non corrispondono alla realtà italiana. Si è quindi affermato, che l’organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica ha per fondamento essenziale – con la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori – il lavoro: il lavoro di tutti, non solo manuale ma in ogni sua forma di espressione umana.
13
riguardano perciò le generazioni giovani, in preda alla precarietà e prive di prospettive. Come è dimostrato dal fatto, ed è solo un esempio, che per l’accesso alla conoscenza reso possibile da internet non basta affermare in astratto il pari diritto di ciascuno, se poi permangono condizioni di disuguaglianza e di esclusione. In altre parole, le condizioni di vita della nostra epoca reclamano a piena voce un’uguaglianza reale e non retorica, che la nostra Costituzione sancisce. È certo che, come la storia ha dimostrato, la liberazione del lavoro non si potrà ottenere se non si comprende la differenza tra uomo e donna come pure la complessità della figura sociale di ciascuno e di ciascuna, andando oltre la stessa condizione materiale. Ma dalla disuguaglianza tra chi possiede i mezzi finanziari, di produzione e di comunicazione, e chi dispone solo delle proprie capacità corporee, fisiche e intellettuali, non si può prescindere, ben al di là della asserita uguaglianza di tutte e di tutti davanti la legge. Chi obietta che il fondamento del lavoro oggi non ha senso perché è finita la stagione del fordismo e dell’operaio-massa, evidentemente ha in testa un’unica idea fissa del lavoro come categoria immutabile che non va oltre la catena di montaggio, e non fa i conti, oltre che con la dittatura del capitale sul lavoro, con una rivoluzione della scienza e della tecnica che non ha abolito il lavoro, ma ha rivoluzionato il modo di lavorare, senza rivoluzionare però il diritto di proprietà, come la Costituzione prevede. Per cui, il vero problema, come del resto è evidente dagli svolgimenti drammatici della crisi, non è la cancellazione del fondamento del lavoro, bensì la sua rielaborazione nelle nuove condizioni, applicando al tempo stesso le norme previste dal titolo III. In conclusione, la Costituzione è un progetto vivo e vitale, di cui è necessario liberare tutte le potenzialità per uscire dalla crisi in Italia e per contribuire a dare una diversa dimensione all’Europa. Un progetto che parla alle nuove generazioni, alle lavoratrici e ai lavoratori del nostro tempo, qualunque sia la forma in cui si manifesta (o non si manifesta) la loro attività lavorativa, e indipendentemente dalle norme giuridiche in cui è regolato (o non è regolato) il loro rapporto di lavoro. In sintesi, la Costituzione è il vero progetto per cambiare l’Italia e l’Europa: di cui gli italiani oggi possono disporre grazie all’apporto decisivo di un grande politico e statista come Palmiro Togliatti, il rivoluzionario costituente, secondo la definizione di Gianni Ferrara. Dunque, il progetto per cambiare lo stato delle cose presenti esiste, ed è costato tanti sacrifici e dure lotte. Occorre recuperarlo, e farne oggi la stella polare che illumini il cammino, in un momento tra i più oscuri della nostra storia. 13
tracce di costituzione l’articolo 1
Evoluzione dell’Articolo 1
14
Il 18 ottobre 1946 la prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione approva il seguente articolo: «Il lavoro e la sua partecipazione concreta negli organismi economici sociali e politici è il fondamento della democrazia italiana». Il 28 novembre 1946 la prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione approva il seguente articolo, che sostituisce quello approvato il 18 ottobre 1946: «Lo Stato italiano è una Repubblica democratica. Essa ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione concreta di tutti i lavoratori all’organizzazione economica, sociale e politica del Paese». Il 3 dicembre 1946 la prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione approva il seguente articolo: «La sovranità dello Stato si esplica nei limiti dell’ordinamento giuridico formato dalla presente Costituzione e dalle altre leggi ad essa conformi. Tutti i poteri emanano dal popolo che li esercita direttamente o mediante rappresentanti da esso eletti». Il 22 gennaio 1947 la Commissione per la Costituzione in seduta plenaria approva il seguente testo: «L’Italia è Repubblica democratica». Il 24 gennaio 1947 la Commissione per la Costituzione in seduta plenaria approva il seguente articolo: «L’Italia è Repubblica democratica. Essa ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La sovranità emana dal popolo e si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».
Perché fondata sul lavoro?
Un pò di storia, per capire il contesto in cui è nata un’espressione di questo genere: siamo nel 1946, quando il 16 ottobre la prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, nel proseguire la discussione sui principi dei rapporti sociali ed economici, affrontò la questione del lavoro. Il punto era: come e con quali formule esprimerlo nella Carta che si andava elaborando nell’Assemblea 14
Testo definitivo del Progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione: Art. 1. L’Italia è una Repubblica democratica. La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi. Il 22 marzo 1947, nella seduta pomeridiana, l’Assemblea Costituente approva l’articolo 1 nella sua forma definitiva: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Testo coordinato dal Comitato di redazione prima della votazione finale in Assemblea e distribuito ai Deputati il 20 dicembre 1947: Art. 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Testo definitivo dell’articolo: Art. 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
La costituzione, nel senso suo più profondo e sostanziale, è l’organizzazione di questa triade: economia, per assicurare i beni materiali; politica, per assicurare ordine e sicurezza; cultura, per creare senso d’appartenenza. Gustavo Zagrebelsky Costituente? Giorgio La Pira, esponente della Democrazia Cristiana ed insigne giurista, propose questo articolo: «Il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale, e la sua partecipazione, adeguata negli organismi economici, sociali e politici, è condizione del nuovo carattere democratico». Alla successiva riunione della Sottocommissione, il 18 ottobre, Palmiro Togliatti, leader del Partito Comunista Italiano, si disse convinto che era necessario porre all’articolo della Costituzione la seguente definizione: «Lo Stato italiano è una Repubblica di lavoratori», poiché la formulazione di La Pira gli parve poco sufficiente per questo motivo, disse: «sembra di trovarsi di fronte non ad una affermazione politica di volontà del legislatore, ma quasi ad una constatazione di fatto». Dal canto suo, Giuseppe Dossetti, anche lui della Democrazia Cristiana, che aveva concorso alla formulazione della proposta La Pira, precisò che la formula: «Il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale», era non solo una constatazione di fatto, ma un dato costitutivo dell’ordinamento: un’affermazione di principi costruttivi. Tuttavia, nel confronto tra PCI e DC, s’inserì il liberale Lucifero D’Aprigliano che non fu d’accordo, né con Togliatti né con Dossetti, e affermò: «Tutti coloro che partecipano alla produzione sono “lavoratori”, dal presidente del consiglio di amministrazione fino all’ultimo usciere della società. Stabilito il principio che tutti sono lavoratori, in quanto uomini, il lavoro, inteso come manuale, non deve considerarsi preminente sugli altri fattori della produzione». L’articolo, con gli emendamenti suggeriti da D’Aprigliano e da La Pira, andò in votazione e venne approvato con la seguente formula: «Il lavoro e la sua partecipazione concreta negli organismi economici sociali e politici è il fondamento della democrazia italiana». Lavoro, quindi, come «fondamento» della democrazia parlamentare che andava ricostituendosi dopo il ventennio fascista. Il 28 ottobre la Sottocommissione tornò a discutere l’art. 1, e Togliatti ripropose la formulazione «Repubblica di lavoratori». Aldo Moro della Democrazia Cristiana propose, con successo, una mediazione che fu approvata a fine seduta: «Lo Stato italiano è una Repubblica democratica. Essa ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione concreta di tutti i lavoratori all’organizzazione economica, sociale e politica del Paese». Il 22 gennaio 1947 si riunì in seduta plenaria la Com-
tracce di costituzione l’articolo 1 missione per la Costituzione, quella dei 75. Togliatti ripropose, ancora una volta senza successo, la sua formulazione. Due giorni dopo, il 24 gennaio la Commissione approvò il testo definitivo: «L’Italia è una Repubblica democratica. La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Il 4 marzo del 1947 l’Assemblea Costituente iniziò la discussione generale del progetto di Costituzione; il 22 marzo, quando arrivò in discussione l’art. 1, Amintore Fanfani e Moro stesso presentarono con altri l’emendamento poi approvato: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Pertanto, fondamento della Repubblica democratica è il lavoro, di tutti. Il testo dell’articolo poi dichiara: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Andiamo a qualche anno dopo. Nel gennaio del 1955, a Milano, Piero Calamandrei, giurista e anche lui membro della Costituente, incontrò gli studenti e parlò della Costituzione entrata in vigore solo 7 anni prima, mettendo al centro due parole chiave accanto al lavoro: scuola ed eguaglianza. Spiegò il legame tra l’articolo 34 sul diritto all’istruzione e l’articolo 3 sul principio di eguaglianza; e l’articolo 1 fu l’incipit del suo discorso: il lavoro inteso come primo principio fondamentale e fondante la Repubblica democratica italiana, che racchiude il principio lavoristico, legato al fattore lavoro, e quello personalista, collegato alla persona del lavoratore. Calamandrei affermò: «L’art. 34 dice: “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Beh, ma se non hanno mezzi? Allora nella nostra Costituzione c’è un articolo, che è il più importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così: “É compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”». È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. 1 – «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» – corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si po-
Mentre non vi sono nella storia costituzionale italiana precedenti diretti del principio lavorista, le Costituzioni che hanno preceduto la Carta del 1947 recano tracce del principio democratico (e della connessa proclamazione della sovranità popolare).
15
Ciò peraltro avvenne in Costituzioni che non divennero base duratura di ordinamenti giuridici statali, neanche su parte del territorio della penisola (le Costituzioni del triennio giacobino e della prima parte del periodo napoleonico, ma anche le Costituzioni della Restaurazione e quattro delle cinque Carte del 1848-49); oppure ebbe luogo in maniera parziale, nel contesto di un sistema costituzionale in cui il principio democratico era sì accolto, ma come informante solo una componente dell’ordinamento medesimo (lo Statuto albertino del 4.3.1848). Gli antecedenti che ci interessano riguardano anzitutto quelle Costituzioni che proclamano la sovranità dei cittadini (ad es. l’art. 1 della Costituzione di Bologna del 1796, secondo il quale «i Cittadini esercitano la sovranità per mezzo dei loro Rappresentanti»), della nazione (ad es. l’art. 2 della Costituzione spagnola di Cadice del 1812 – adottata nel 1820 nel Regno di Napoli e nel 1821 in Piemonte – che recitava: «la sovranità risiede essenzialmente nella nazione: e perciò a questa appartiene il diritto esclusivo di stabilir le sue leggi fondamentali») o del popolo (ad es. l’art. iniziale della Costituzione della Repubblica romana del 1849, secondo cui «la sovranità è per diritto eterno nel popolo. Il popolo dello Stato romano è costituito in repubblica democratica»). È però un altro antecedente – letteralmente meno vicino all’art. 1 della Costituzione del 1947 – che più a lungo ha trovato traduzione costituzionale concreta nel nostro Paese. Si tratta della proclamazione della natura rappresentativa dell’ordinamento, ben sintetizzata, per la prima volta, nell’art. 2 della Costituzione del Regno di Napoli emanata da G. Murat il 15 maggio 1815, che precisava: «la Costituzione è rappresentativa». Sulla stessa lunghezza d’onda si porranno infatti alcune Carte adottate nel
1848, e, fra esse, lo Statuto albertino. Questi ultimi documenti, peraltro, pur accogliendo opzioni riconducibili al principio democratico, le affiancavano – secondo la logica delle monarchie costituzionali – il principio di legittimazione opposto: quello monarchico. Infatti, secondo lo Statuto (il cui art. 2 ragionava di un «governo monarchico rappresentativo»), il principio rappresentativo (nel quale è implicita una certa quota di istanza democratica) da un lato conviveva con quello monarchico, e dall’altro era tradotto operativamente nelle forme del suffragio limitato (che era disciplinato dalle leggi elettorali per la Camera alle quali lo Statuto rinviava sia la scelta sul sistema di elezione, sia l’individuazione dei titolari del diritto di voto). La graduale estensione di quest’ultimo condusse certo ad una mutazione sostanziale delle basi sociali dello Stato italiano nei primi decenni del novecento – parallelamente a quanto accadeva negli altri Paesi europei – ma non realizzò mai compiutamente il suffragio universale. Anche la legislazione dell’età giolittiana, infatti, recava distinzioni connesse all’alfabetizzazione ed escludeva i cittadini di genere femminile. Per l’introduzione del suffragio universale nell’ordinamento italiano (sia pure nella forma, oggi generale nelle democrazie, del suffragio universale dei cittadini maggiorenni) occorre attendere il periodo costituzionale transitorio e il d.lg.lt. 74/1946, recante norme per l’elezione dell’Assemblea Costituente, che fu applicato per la prima volta nelle elezioni del 2 giugno 1946.
trà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto un’uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso con-
tinuo di tutta la società». Come si può vedere, le parole di Calamandrei sono molto attuali: il lavoro, la garanzia, le condizioni e la sua retribuzione diventano il criterio con cui misurare l’uguaglianza di fatto degli uomini, quindi la democrazia o l’assenza di democrazia nella Repubblica. Infatti, una Repubblica democratica fondata sul lavoro deve assicurare a tutti la possibilità di lavorare, perché tutti i lavoratori - non una parte, non quelli che fanno solo alcuni lavori - devono essere nelle condi15
tracce di costituzione l’articolo 1 16
zioni materiali e spirituali di contribuire all’organizzazione della vita politica, economica e sociale del Paese; in più - e questo è indicato sempre da Calamandrei come il principio più importante di tutta la Costituzione - è compito della Repubblica eliminare gli ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini perché tutti i lavoratori siano partecipi del processo di costruzione dello Stato. Questo significa che la mancanza del lavoro, l’esclusione dall’accesso al lavoro sono segni di mancanza di libertà e di uguaglianza e che è dovere della Repubblica offrire agli uomini privi di mezzi le risorse per studiare e lavorare. Inoltre, il lavoro è paradigma di una determinata concezione dell’essere umano, che mette in articolo il principio di fondo dell’etica kantiana: «l’uomo deve essere riguardato come un fine in sé e non come un mezzo». È il principio personalistico insito in questo articolo che si affianca al principio lavoristico. Poniamoci questo dubbio: è se oggi la nostra Repubblica «fosse fondata sui consumi»? Ci sono due modelli che si contendono il campo. Si tratta, da un lato, del modello anglo-americano che è incentrato sulla libertà del consumatore e sull’idea della sua piena sovranità decisionale. Dall’altro lato, quello europeo che, al contrario, ruota attorno alla dignità della persona consumatore-lavoratore, dal punto di vista esistenziale e sociale. La prima è la cultura della massima sovranità degli interessi economici dell’individuo, la seconda quella della massima tutela della persona e dei valori extra-economici, incentrato sull’effettiva possibilità di perseguire la responsabilità e tutela della persona e, quindi, della sua sfera sociale al di là dal patrimonio. Solo il modello europeo è compatibile con il principio personalistico legato all’art. 1 della nostra Costituzione. Infatti, mettere al centro del sistema l’obiettivo 16
L’art. 1 della Costituzione accosta il principio democratico a quello del fondamento laburista («fondata sul lavoro»). È indiscutibile che in tale art. 1 vi sia molto di più che una mera sottolineatura del «dovere di lavorare«, che è infatti specificatamente previsto nell’art. 4 co. 2. Il quid plus dell’art. 1, infatti, consiste nel riconoscimento del valore storico del lavoro come caposaldo fondamentale del modello statuale. Tale riconoscimento, tra l’altro, si salda alla perfezione con il principio democratico, nella misura in cui il «popolo», titolare della sovranità, è anche il detentore di quella ricchezza che è reputata tanto importante da costituire il fondamento della stessa Repubblica. L’art. 1, insomma, sancisce l’avvenuto compimento di un processo di ricomposizione storica: l’inserimento a pieno titolo del Quarto Stato, appunto, il popolo. nel riferirsi al «lavoro» come astrazione, e non ai «lavoratori», l’art. 1 abbraccia idealmente tutti i membri del consesso
sociale in un unico riconoscimento incentrato sul minimo comune denominatore del lavoro. Tale riconoscimento, a sua volta, ha un’influenza diretta sull’orientamento dell’azione politica dello Stato: l’art. 1, infatti, sancisce il principio dell’impegno sociale dello Stato costituzionale. Ciò acquisito, occorre sottolineare che, nell’affermazione costituzionale relativa al lavoro, è rintracciabile un sottofondo fortemente eticizzante. L’idea del lavoro come attività umanizzante e liberatoria, tuttavia, è piuttosto tarda, risalendo infatti solo all’Otto-novecento, ovvero all’epoca dell’esaltazione produttivistica conseguente alla Rivoluzione industriale. In precedenza, al contrario, il lavoro (vita activa) era considerato come un’attività secondaria, riservata agli schiavi ed ai ceti inferiori. L’attuale esaltazione culturale del lavoro, comunque, pur mantenendo un forte valore simbolico, denuncia i segni del tempo, e, se c’è chi la ritiene ancora imprescindibile, essa ha, per altri, qualcosa di moralistico, se non di mistificatorio.
17 18
prioritario del consumo significherebbe esporre il lavoro e le sue regole alla pura logica dei costi e, quindi, alla scomparsa della sua ragione d’essere storica. Infine, tante sono le questioni aperte oggi attorno a cui far ruotare il nostro art. 1: ai tempi del multiculturalismo, nell’incontro tra culture – pensiamo che cosa può comportare oggi il terremoto che sta avvenendo nei paesi del nord Africa in termini di mobilità e flussi di persone – che significato assume l’articolo 1 della Costituzione? Il lavoro è un diritto di tutti coloro che sono presenti nel nostro paese, in egual misura? Può il lavoro, grazie al fatto di dover essere garante e misura di uguaglianza di democrazia, diventare principio con cui amministrare e con cui reggere il pluralismo della democrazia? PAOLO BURLI
Dietro ogni articolo della Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta. La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere. In questa Costituzione [...] c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie: son tutti sfociati qui negli articoli. La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Piero Calamandrei, disCorso sulla CostituZione, (1955)
le foto
§1 Prima riunione della Costituente a Montecitorio. Il 15 luglio 1946 il presidente Saragat legge il messaggio indirizzato da De nicola al popolo italiano. §2 La seduta di insediamento dell’Assemblea Costituente a Montecitorio (25 giugno 1946). Vittorio Emanuele Orlando presiede, in quanto decano parlamentare. §3 Palmiro Togliatti (1893-1964). §4 Moro e Dossetti, esponenti di rilievo della sinistra democristiana. §5 Giorgio La Pira (1904-1977). §6 una seduta della Commissione per la previdenza sociale, presieduta da Ludovico D’Aragona (P.S.I.). §7 Roberto Lucifero, esponente monarchico, attivo nella guerra di Liberazione, eletto all’Assemblea Costituente nelle liste del PLI. §8 nilde Iotti (eletta all’Assemblea Costituente nelle liste del PCI a soli 26 anni) e Palmiro Togliatti, membri della Sottocommissione per l’ordinamento dello Stato. §9 Giuseppe Grassi (a sinistra) discute con umberto Terracini una questione procedurale.
§10 L’emblema della Repubblica definitivamente approvato. Il bozzetto è di Paolo Paschetto. §11 Giovanni Conti (a destra), esponente di rilievo del gruppo repubblicano e presidente della II sezione, sul potere giudiziario della II Sottocommissione. §12 L’Assemblea Costituente accoglie con un applauso il risultato del voto finale di Approvazione della Costituzione (6 dicembre 1947). §13 una tavola de La Domenica del Corriere che celebra l’Assemblea Costituente. §14 Foto www.coopsp.it. §15 Enrico De nicola, Capo provvisorio dello Stato, firma la Costituzione della Repubblica (27 dicembre 1947). §16 Emilio Lussu, esponente di rilievo del Partito d’Azione, e Gustavo Fabbri, esponente della Concentrazione democratico-liberale, eletto nelle liste del Blocco della Libertà. §17 Tomaso Perassi (a destra), insigne giurista e personaggio di spicco del gruppo repubblicano insieme al comunista umberto Terracini. §18 Piero Calamandrei (1889–1956).
le fonti
www.anpi.it www.appelloalpopolo.it www.appuntigiurisprudenza.it www.brocardi.it www.cgil.tn.it www.cronologia.leonardo.it www.impariamolacostituzione.wordpress.com www.futuraumanita.it www.lanazione.it www.leparoleelecose.it www.liberazione.it www.nascitacostituzione.it www.nuovitaliani.it www.paolociofi.it share.dschola.it www.thefrontpage.it www.treccani.it www.visionedimensione.it Progetto grafico e iMPaginazione
vani@rt design giugno 2014
T RACCE di C OSTITUZIONE
l’ARTICOLO 1