Booklet / Tracce di Uomini - Paolo Borsellino

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traCCe di uomini

pAoLo BorSELLINo



ÂŤChi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta solaÂť

una foto di gruppo del pool antimafia e altri magistrati in servizio a palermo. sono riconoscibili da sinistra giovanni falcone, leonardo guarnotta, giuseppe ddi lello, alberto di pisa, paolo borsellino, antonio caponnetto, vincenzo paino, giusto sciacchinato, il futuro presidenye della repubblica oscar luigi scalfaro, giuseppe ayala


«Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri»

«Non avevo capito che quella massa di nerume e di sangue fosse Paolo. Sono stato io a scoprirlo. In via D’Amelio non c’era niente e nessuno, prima che arrivassimo, io, i ragazzi della mia scorta, i vigili del fuoco che mi trattenevano perché le macchine bruciavano e potevano esplodere: un repertorio di brandelli umani e metallici (...) Camminavo, avevo visto due cadaveri, poi un terzo oltre il cancello, mi ero avvicinato, non sapevo che sua madre abitasse qui, e mi sono accostato a quel troncone e... i denti: sa i suoi incisivi com’erano? Divaricati: dalla bocca aperta ho visto gli incisivi e poi il naso. Un po’ grifagno, particolare. E da quello ho capito: ero inciampato sul suo cadavere, era un pezzo del mio amico e di me stesso: vedevo lui e vedevo che anch’io ero quel morto, così come era accaduto con Giovanni Falcone: ero vivo, respiravo, ma ero parte di quella morte». GIUSEPE AYaLa

Dalla lotta agli appalti truccati al pool antimafia

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ato a Palermo nel quartiere popolare La Kalsa, in cui vivevano tra gli altri anche Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta, dopo aver frequentato le scuole dell’obbligo Borsellino si iscrisse al Liceo Classico “Giovanni Meli” di Palermo. Durante gli anni del liceo diventò direttore del giornale studentesco “Agorà”. Nel giugno del 1958 si diplomò con ottimi voti e l’11 settembre dello stesso anno Borsellino si iscrisse a Giurisprudenza a Palermo. Dopo una rissa tra studenti “neri” e “rossi” finì erroneamente anche lui di fronte al magistrato Cesare Terranova, cui dichiarò la propria estraneità ai fatti. Il giudice sentenziò che Borsellino non era implicato nell’episodio. Proveniente da una famiglia con simpatie politiche di destra, nel 1959 si iscrisse al FUAN, organizzazione degli universitari missini di cui divenne membro dell’esecutivo provinciale, e fu eletto come rappresentante studentesco nella lista del FUAN “Fanalino” di Palermo. Il 27 giugno 1962, all’età di ventidue anni, Borsellino si laureò con 110 e lode con una tesi su “Il fine dell’azione delittuosa” con relatore il professor Giovanni Musotto. Pochi giorni dopo, a causa di una malattia, moriva suo padre all’età di cinquantadue anni. Borsel-

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lino si impegnò allora con l’ordine dei farmacisti a mantenere attiva la farmacia del padre fino al raggiungimento della laurea in farmacia della sorella Rita. Durante questo periodo la farmacia fu data in gestione per un affitto bassissimo, 120.000 lire al mese e la famiglia Borsellino fu costretta a gravi rinunce e sacrifici. A Paolo fu concesso l’esonero dal servizio militare poiché «unico sostentamento della famiglia». Nel 1967 Rita si laureò in farmacia, il primo stipendio da magistrato di Paolo servì proprio a pagare la tassa governativa. Il 23 dicembre 1968 sposò Agnese Piraino Leto, figlia di Angelo Piraino Leto, a quel tempo magistrato presidente del tribunale di Palermo. Nel 1963 Borsellino partecipò al concorso per entrare in magistratura ottenendo 57 voti si classifica venticinquesimo sui 110 posti in gara, e divenne il più giovane magistrato d’Italia. Nel 1967 fu nominato pretore a Mazara del Vallo. Nel 1969 fu pretore a Monreale, dove lavorò insieme ad Emanuele Basile, capitano dei Carabinieri. Proprio qui ebbe modo di conoscere per la prima volta la nascente mafia dei corleonesi. Il 21 marzo 1975 fu trasferito a Palermo ed il 14 luglio entrò nell’ufficio istruzione affari penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con


EMANUELE BASILE

Chinnici si stabilì un rapporto, più tardi descritto dalla sorella Rita Borsellino e da Caterina Chinnici, figlia del capo dell’Ufficio, come di «adozione» non soltanto professionale. La vicinanza che si stabilì fra i due uomini e le rispettive famiglie fu intensa e fu al giovane Paolo che Chinnici affidò la figlia, che abbracciava anch’essa quella carriera, in una sorta di tirocinio. Il 1980 si aprì con l’arresto dei primi sei mafiosi grazie all’indagine condotta da Basile e Borsellino sugli appalti truccati a Palermo a favore degli esponenti della Cosa Nostra, ma nello stesso anno fu assassinato Emanuele Basile e fu decisa l’assegnazione di una scorta per la famiglia Borsellino. In quell’anno si costituì il “pool” antimafia nel quale sotto la guida di Chinnici lavorarono, fra gli altri, alcuni magistrati (Falcone, Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Giovanni Barrile) e funzionari della Polizia di Stato (Cassarà e Montana). Nel racconto che ne fece lo stesso Borsellino, il pool nacque per risolvere il problema dei giudici istruttori che lavoravano individualmente, separatamente, ognuno «per i fatti suoi», senza che uno scambio di informazioni fra quelli che si occupavano di materie contigue potesse consentire, nell’interazione, una maggiore efficacia con un’azione penale

«Palermo non mi piaceva per questo ho imparato ad amarla, perchè il vero amore consiste nell’amare ciò che non piace per poterlo cambiare»

In memoria dell’ufficiale, è stata conferita la Medaglia d’oro al valor civile con questa motivazione: «Comandante di Compagnia distaccata, già distintosi in precedenti, rischiose operazioni di servizio, si impegnava, pur consapevole dei pericoli cui si esponeva, in prolungate e difficili indagini, in ambiente caratterizzato da tradizionale omertà, che portavano alla individuazione e all’arresto di numerosi e pericolosi aderenti ad organizzazioni mafiose operanti anche a livello internazionale. Proditoriamente fatto segno a colpi d’arma da fuoco in un vile agguato tesogli da tre malfattori, immolava la sua giovane esistenza ai più nobili ideali di giustizia ed assoluta dedizione al dovere». Il Capitano dei Carabinieri Emanuele Basile nacque a Taranto il 2 luglio 1949 e morì il 4 maggio 1980 a Monreale (Pa), ucciso da Cosa Nostra mentre ritornava a casa con la moglie Silvana e con la figlia Barbara di due anni, dopo aver assistito alla festa del paese del Santissimo Crocifisso… Terzo di cinque figli, frequentò l’Accademia Militare di Modena. Prima di intraprendere la carriera militare, riuscì a superare il test di Medicina e a sostenere il difficile esame di Anatomia, ma i sentimenti di giustizia e legalità, valori fondamentali nella sua vita, ebbero il sopravvento sulla professione medica. Fu così che entrò nell’Arma dei Carabinieri. Prima di giungere a Monreale comandò le compagnie di altre città, tra cui quella di Sestri Levante (GE), e se la mafia non avesse interrotto la carriera del giovane carabiniere di 31 anni, la successiva destinazione sarebbe stata quella di San Benedetto del Tronto (AP). Precedentemente al suo assassinio, aveva condotto alcune indagini sull’uccisione di Boris Giuliano, durante le quali aveva scoperto l’esistenza di traffici di stupefacenti. Tuttavia, apprestandosi a lasciare Monreale, si era premurato di consegnare tutti i risultati a cui era pervenuto a Paolo Borsellino. La sera del 4 maggio 1980 mentre era intento con la figli piccola e alla moglie ad assistere allo spettacolo pirotecnico della festa del Santissimo Crocefisso giù al Monreale, Basile viene sparato alle spalle da un killer della mafia che poi fuggirà in auto atteso da due complici. Basile viene trasportato all’ospedale di Palermo dove i medici tenteranno di salvargli la vita con un delicato intervento chirurgico ma il carabiniere muore durante l’operazione lasciando nel dolore la moglie e lo stesso Borsellino che era corso in ospedale. Il suo assassino verrà catturato subito dopo l’omicidio dai carabinieri ma verrà assolto tre anni creando sgomento e rabbia sia nei magistrati sia nei suoi colleghi… I giudici palermitani so-

stengono che Basile fu ucciso perché aveva continuato le indagini che stava svolgendo il commissario Giuliano quando venne assassinato. Nell’ordinanza del maxiprocesso, viene ricordata in particolare una operazione che il capitano dell’Arma compì il 6 febbraio dell’80 quando arrestò, solo su sua iniziativa, alcuni mafiosi che rappresentavano lo stato maggiore della cosca corleonese. Dai documenti processuali è stato accertato che Emanuele Basile è stato ucciso da Armando Bonanno (poi scomparso con il metodo della lupara bianca), Giuseppe Madonia, Vincenzo Puccio (ucciso il 9 maggio 1989) e Giovanni Brusca. Sono stati condannati anche i boss della commissione di Cosa Nostra.

Emanuele Basile, Capitano dei Carabinieri, svolgeva servizio a Monreale. Stava conducendo alcune indagini sull’uccisione di Boris Giuliano, durante le quali aveva scoperto l’esistenza di traffici di stupefacenti. Tuttavia, apprestandosi a lasciare Monreale, si era premurato di consegnare tutti i risultati a cui era pervenutoa Paolo Borsellino. La sera del 4 maggio 1980 mentre con la figlia Barbara di quattro anni e alla moglie Silvana Musanti aspettava di assistere allo spettacolo pirotecnico della festa del Santissimo Crocefisso a Monreale, un killer gli sparò alle spalle e poi fuggì in auto atteso da due complici.

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«La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità» coordinata capace di fronteggiare il fenomeno mafioso nella sua globalità. Uno dei primi esempi concreti del coordinamento operativo fu la collaborazione fra Borsellino e l’appena «acquisito» Di Lello, che Chinnici aveva voluto e richiesto in squadra: Di Lello prendeva giornalmente a prestito la documentazione che Borsellino produceva e gliela rendeva la mattina successiva, dopo averla studiata come fossero «quasi delle dispense sulla lotta alla mafia». E presto, senza che le note divergenze politiche potessero essere di più che mera materia di battute, anche fra i due il legame professionale si estese all’amicizia personale. Del resto era proprio la formazione di una conoscenza condivisa uno degli effetti, ma prima ancora uno degli scopi, della costituzione del pool: come ebbe a dire Guarnotta, si andava ad esplorare un mondo che sinora era sconosciuto per noi in quella che era veramente la sua essenza. Nel pool andò formandosi una

Paolo Borsellino si sposò il 23 dicembre 1968 (a 28 anni) con Agnese Piraino Leto, figlia di Angelo Piraino Leto, a quel tempo magistrato e presidente del tribunale di Palermo. L’anno successivo il giovane magistrato diventò pretore a Monreale, dove ebbe modo di conoscere per la prima volta la nascente mafia dei corleonesi.

«gerarchia di fatto», come la chiamò Di Lello, fondata sulle qualità personali di Falcone e Borsellino, tributari di questa leadership per superiori qualità - sempre secondo lo stesso collega - di «grande intelligenza, grandissima memoria e grande capacità di lavoro»; ed i colleghi non l’avrebbero discussa, questa supremazia, anche per il timore di essere sfidati a sostituirli. Tutti i componenti del pool chiedevano espressamente l’intervento dello Stato, che non arrivò. Qualcosa faticosamente giunse nel 1982, a prezzo però di nuovo altro sangue «eccellente», quando dopo l’omicidio del deputato comunista Pio La Torre, il ministro dell’interno Virginio Rognoni inviò a Palermo il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che proprio in Sicilia e contro la mafia aveva iniziato la sua carriera di ufficiale, nominandolo prefetto. E quando anche questi trovò la morte, 100 giorni dopo, nella strage di via Carini, il parlamento italiano riuscì a varare la cosiddetta “legge Rognoni-La Torre” con la quale si istituiva il reato di associazione mafiosa (l’articolo 416 bis del codice penale) che il pool avrebbe sfruttato per ampliare le investigazioni sul fronte bancario, all’inseguimento dei capitali riciclati; era questa la strada che Giovanni Falcone ed i suoi colleghi del pool maggiormente intendevano seguire, una strada anni prima aperta dalle indagini finanziarie di Boris Giuliano (sul cui omicidio investigava il capitano Basile quando a sua volta assassinato) a proposito dei rapporti fra il capomafia Leoluca Bagarella ed il losco finanziere Michele Sindona. Il 29 luglio 1983 fu ucciso Rocco Chinnici, con l’esplosione di un’autobomba, e pochi giorni dopo giunse a Palermo da Firenze Antonino Caponnetto. Il pool chiese una mobilitazione generale contro la mafia. Nel 1984 fu arrestato Vito Ciancimino, mentre Tommaso Buscetta (“Don Masino”, come era chiamato nell’ambiente mafioso), catturato a San Paolo del Brasile ed estradato in Italia, iniziò a collaborare con la giustizia. Buscetta descrisse in modo dettagliato la struttura della mafia, di cui fino ad allora si sapeva ben poco. Nel 1985 furono uccisi da Cosa Nostra, a pochi giorni l’uno dall’altro, il commissario Giuseppe Montana ed il vice-questore Ninni Cassarà. Falcone e Borsellino furono per sicurezza trasferiti nella foresteria del carcere dell’Asinara, nella quale iniziarono a scrivere l’istruttoria per il cosiddetto “maxiprocesso”, che mandò alla sbarra 475 imputati. Si seppe in seguito che l’amministrazione penitenziaria richiese poi ai due magistrati un rimborso spese ed un indennizzo per il soggiorno trascorso. Borsellino chiese ed ottenne (il 19 dicembre 1986) di essere nominato Procuratore della Repubblica di Marsala. La nomina superava il limite ordinariamente vigente del possesso di alcuni requisiti principalmente relativi all’anzianità di servizio. Secondo il collega Giacomo Conte la scelta di decentrarsi e di assumere un ruolo autonomo rispondeva ad una sua intuizione per la quale l’accentramento delle indagini istruttorie sotto la guida di una sola persona esponeva non solo al rischio di una disorganicità complessiva dell’azione contro la mafia,

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ninni cassarà

L

’attentato a Ninni Cassarà, avvenuta il 6 agosto del 1985, come quello di Boris Giuliano, Chinnici, Montana e tanti altri, si poteva evitare. Ricordando gli anni ottanta, mi sovviene con amarezza che la morte di tanti onesti e leali servitori dello Stato, non è servito assolutamente a nulla, tant’è che le stragi del 92/93 testimoniano il fallimento di un’annunciata lotta alla mafia. Non occorre essere esperti di cose di Cosa nostra per capire che gli anni ottanta e novanta rappresentano una pagina nera delle nostra Repubblica. Ed è doveroso da parte mia, proprio in memoria di Ninni Cassarà e Roberto Antiochia, ricordare il loro sacrificio. Ninni Casarà, oltre che un collega, era un caro amico. Insieme abbiamo sognato una Palermo diversa, libera dalla mafia. Invero, pur lavorando alacremente, come testimoniano i risultati investigativi di quel tempo, devo ammettere che tutti i nostri sforzi di allora non servirono a nulla. Ma, la frase che ci faceva dannare era “ma cu vu fa fare?!”, pronunciata da amici, parenti ed anche colleghi. Oggi, quelle parole risuonano nella mia mente e sono sono fiero di non averle ascoltate anche dopo la morte di Cassarà. La forza dell’amicizia non si misura con la paura della morte, essa ha rapresentato per me e Cassarà una condotta di vita. Ed ogni volta che

Un

Ninnì mi est cupazioni su dagine sapev tello”. Del re verificare qu suoi confron do di verifica fu abbandon mendamente titi il giorno to. Appresi la te mentre st su un’indagi che riguarda gata alla maf al nord. Cass Sezione inve essere metod li ma soprat il fenomeno va essere rele na o siciliana Con Cassa mitato Lillo assassinato re di romper do del Minis devamo, me incidere sulla demmo e o con l’Alto Co la mafia, ma ti: lo Stato er bico. Però, q va da Santa andava per mitero, ma c


giuseppe montana

Un nuovo modus investigativo

I Chinnici, Falcone, Cassarà sul luogo del delitto La Torre e Di Salvo

n poliziotto inascoltato

ternava timori o preocull’andamento di un’inva di parlare a suo “fraesto, egli ebbe modo di uanta stima nutrivo nei nti. Un giorno diedi moare la mia lealtà. Cassarà, nato. Cassarà rimase tree solo, ci eravamo senprima del suo attentaa notizia della sua mortavo indagando proprio ine sua e di Falcone e ava un’impresa edile lefia che stava edificando sarà, nel condurre la V° estigativa, aveva posto in di innovativi manageriattutto aveva intuito che Cosa nostra non poteegato all’area palermitaa. arà costituimmo il CoZucchetto, mio collega dalla mafia, per tentare quell’ingessato monstero dell’Interno. Chieezzi e uomini per poter a lotta alla mafia. Chieottenemmo un incontro ommissario alla lotta ala rimanemmo inascoltara sordo e persino straqualcuno andava a veniMaria di Gesù e non ci rendere omaggio al cici andava per omaggia-

L’AMICO. Il magistrato in Brasile insieme al poliziotto Antonino «Nini» Cassarà. Cassarà,uomo di fiducia del pool fondato a Palermo da Antonino Caponnetto, contribuì all’istruzione del primo maxi-processo alle cosche mafiose. Padre di tre figli, venne assassinato dalla mafia nel 1985, all’età di 38 anni

re il “Principe”. Qualcun’altro invece, sceglieva pranzi conviviali nell’agro di Ciaculli, piuttosto che a Zagarella. E noi, illusi e ingenui trascuravamo le famiglie per un ideale. Quane volte con Ninni, rimasti soli in ufficio commentavamo, le nostre sconfitte le nostre amarezze, ma la mattina dopo eravamo al nostro posto a continuare il lavoro. La forza di Cassarà, stava nell’onestà, stava nella consapevolezza di essere nel giusto e quella brezza che spirava nella nostra Sezione era dovuta al suo modo schietto e sincero di rapportarsi con tutti noi. La presenza costante di Giovanni Falcone, dava a Cassarà e a noi uno stimolo in più. Ci sono stati giorni felici e giorni tristi ma

la determinazione di Ninnì era encomiabile: noi della Sezione percepivamo il carisma di un “Capo” che capo non era perchè era uno di noi. Spesso, Ninnì mi chiamava al telefono e apostrafava “sbirro”. Roberto Antiochia, ragazzo gentile allegro non faceva parte della pattuglia da me comandata e per i ruoli all’interno della Sezione non ebbi mai modo di lavorare con lui. Tuttavia, ne aprezzavo il “silenzio” e la serietà di espressione. Egli, morì accanto a Ninni a me non fu permesso recarmi a Palermo dopo l’omicidio di Beppe Montana. Cassarà stesso me l’ho impedì e solo dopo la sua morte seppi il motivo di tanta ostinazione. PIppO GIORDANO

l commissario Beppe Montana veniva assassinato la sera del 28 luglio del 1985, intorno alle ore 21,00 sul molo antistante il cantiere nautico di Porticello (PA), dove aveva poco prima attraccato con la propria piccola imbarcazione da diporto. Due killers - uno dei quali mancino - lo avevano colpito a morte a colpi di pistola e si erano rapidamente allontanati. Nel dileguarsi, uno dei due aveva anche sparato e abbattuto un cane che si trovava nel cantiere e che si era avventato sui sicari in fuga. Montana, appena giunto a Palermo, era stato prima destinato alla sezione investigativa, dove aveva conosciuto e lavorato con il commissario Ninni Cassarà, e dal giugno 1984 era andato a dirigere la sezione “catturandi”, fino ad allora più che altro una sigla come tante, a corto di idee e - soprattutto - di risultati; anche ricoprendo tale incarico, aveva comunque mantenuto stretti rapporti personali e di collaborazione con Cassarà. Con Montana l’attività della “catturandi” si era improvvisamente ravvivata, puntando senza troppi riguardi all’individuazione dei rifugi degli uomini d’onore da lungo tempo latitanti sul territorio di Palermo. Il funzionario aveva deciso, ad esempio, di innovare i sistemi di ricerca, sul presupposto che le indagini dovessero essere svolte con metodi che richiedevano una particolare specializzazione di singole squadre e - soprattutto - che dovessero essere svolte con impegno totale e concentrato nel tempo, piuttosto che occasionale e discontinuo. Egli aveva compreso che nessuno dei ricercati era lontano dal proprio quartiere, dai propri familiari, dalla propria cerchia di fidati uomini d’onore; così - anche oltre gli orari di lavoro e durante i giorni festivi - trascorreva intere giornate a setacciare le zone costiere nella zona di Porticello, Mongerbino, Santa Flavia, e l’entroterra di Bagheria e Termini Imerese, dove trovavano rifugio molti uomini d’onore ricercati dalla giustizia. Quest’atteggiamento, questo modo di operare “fuori” da ogni canone della consuetudine burocratica degli uffici di Polizia, erano stati ritenuti pericolosi dall’organizzazione, non solo per la serietà - in quel periodo non comune - con cui Montana conduceva la propria attività di ricerca, ma anche perchè egli spingeva tale sua attivismo proprio in una della zona che i latitanti fino a quel momento ritenevano un territorio di loro esclusivo dominio, sottratto alla sovranità dello Stato. Dalla sera della morte del suo collega e amico, Ninni Cassarà avrebbe avviato frenetiche indagini, senza nemmeno recarsi a casa, fino al pomeriggio tragico del 6 agosto 1985, data in cui anch’egli sarebbe stato barbaramente trucidato dagli squadroni della morte di Cosa Nostra.

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IL “POOL” IN LACRIME. Borsellino con il collega del pool anti-mafia Leonardo Guarnotta al funerale di Nini Cassarà. Quel giorno anche Falcone scoppiò in lacrime

funerali di pio latorre e rosario di salvo

Il 30 aprile del 1982, alle nove del mattino Pio La Torre, insieme a Rosario Di Salvo, sta raggiungendo in auto, una Fiat 132, la sede del partito comunista. In via Turba, di fronte la caserma Sole, si affiancano alla macchina due moto di grossa cilindrata: alcuni uomini mascherati con il casco e armati di pistole e mitragliette sparano decine di colpi contro i due. La Torre muore all’istante mentre Di Salvo ha il tempo di estrarre la pistola e sparare alcuni colpi in un estremo tentativo di difesa. Il 12 gennaio 2007 la Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha emesso l’ultima di una serie di sentenze che ha portato a individuare in Giuseppe Lucchese, Nino Madonna, Salvatore Cucuzza, e Pino Greco, gli autori materiali dell’omicidio. Dalle rivelazioni di Cucuzza, diventato collaboratore di giustizia, è stato possibile ricostruire il quadro dei mandanti dell’eccidio, identificati nei boss Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Antonino Geraci. Il quadro delle sentenze ha permesso di individuare nell’impegno antimafia di Pio La Torre la causa determinante della condanna a morte inflitta dalla mafia del politico siciliano.

il sorriso degli uomini onesti

Beppe Montana, Ninni Cassarà e Roberto Antiochia

E

ra un tiepido pomeriggio di maggio 1985, ed estasiati ammiravamo, da una villetta del promontorio di Mongerbino la bellezza della Conca d’Oro. Ero insieme a Beppe Montana, Commissario di Polizia, e ci trovavamo lì per concordare l’affitto delle villetta ove lo stesso Beppe avrebbe dovuto soggiornare, insieme alla sua ragazza per le ferie estive. Non mi aveva anticipato il motivo delle visita e quindi quando lo appresi mi incupii, perché non ero d’accordo. Non ero d’accordo perché qualche anno prima “amici degli amici” lo avevano invitato a sloggiare da Aspra, ove i Prestifilippo di Croce Verde Giardina, nonostante latitanti, si godevano indisturbati le vacanze. Salimmo in macchina, una Fiat 124 scassata, nota e usata solo da me e Montana e che utilizzavamo per le indagini. Stavo per parlare quando Beppe mi precedette: “Mi devi dare la parola d’onore che non dirai nulla a Ninni Cassarà che mi sono affittato la villetta” Dopo aver esternato la mia ritrosia, acconsentii: non dissi nulla a Ninni. La stretta di mano tra amici, andava rispettata ed onorata. Io non ero più in servizio a Palermo, ma Cassarà aveva bisogno ed io non ho potuto a causa della nostra amicizia, dire di no. Quindi mi trovavo sotto copertura a Palermo, la mia presenza era nota soltan-

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to a Montana, Cassarà e Falcone: dovevo iniziare una delicata indagine con Beppe Montana, indagine durata un paio di mesi e poi non conclusa per motivi indipendenti la nostra volontà. Beppe era un ragazzo, pieno di vita e con una gran voglia di combattere Cosa nostra, del resto era quello che 42 sognatori, tanti eravamo nella sezione investigativa antimafia della Mobile palermitana, avevamo come obiettivo. Ricordo il momento dell’arrivo in sezione di Beppe, non passò inosservato per la sua vivacità e allegria. Egli faceva parte di un nutrito contingente assegnato alla Mobile, ma pochi, dopo averli discretamente tenuti in osservazione, rimasero. Roberto Antiochia rimase. Avevamo già avuto un lutto in Sezione, era stata assassinato da killers mafiosi Lillo Zucchetto e la sua morte ci aveva ulteriormente “legati”: tutta la Sezione era accomunata dal dolore ma non ci facemmo spaventare. Anzi, il dolore ci fece diventare più forti e determinati a combattere quel mostro che si chiama mafia. Io e Beppe compimmo numerose operazioni di Polizia, compreso il rinvenimento di armi sotto il cavalcavia di San Ciro Mare Dolce. Egli ebbe la notizia di una raffineria di eroina che trovammo in una caverna sotto terra, mentre io scoprii a pochi passi l’arsenale. Beppe Montana il 28 luglio del 1985 ven-


ma anche a quello di poter facilmente soffocare questa azione colpendo il magistrato che ne teneva le fila; questa collocazione, «solo apparentemente periferica», fu secondo questo autore esempio della proficuità di questa collaborazione a distanza. Di parere difforme fu Leonardo Sciascia, scrittore siciliano, il quale in un articolo pubblicato su Il Corriere della Sera il 10 gennaio del 1987, si scagliò contro questa nomina invitando il lettore a prendere atto che «nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso», a conclusione di un’esposizione principiata con due autocitazioni. Si tratta della nota polemica sui cosiddetti «professionisti dell’antimafia». Borsellino commentò (o lo citò) solo dopo la morte di Falcone, parlando il 25 giugno 1992 ad un dibattito sullo stato della lotta alla mafia dopo la strage di Capaci: «Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia». Secondo Umberto Lucentini, uno dei suoi biografi, Borsellino si era invece reso conto della crescente importanza delle cosche trapanesi, e di Totò Riina e Bernardo Provenzano, all’interno della rete criminale di Cosa Nostra, che ad esempio intorno a Mazara del Vallo e nel Belice facevano ruotare interessi notevoli che occorreva seguire da vicino. Verso la

fine - Nel 1987, mentre il maxiprocesso si avviava alla sua conclusione con l’accoglimento delle tesi investigative del pool e l’irrogazione di 19 ergastoli e 2.665 anni di pena, Caponnetto lasciò il pool per motivi di salute e tutti (Borsellino compreso) si attendevano che al suo posto fosse nominato Falcone, ma il Consiglio Superiore della Magistratura non la vide alla stessa maniera e il 19 gennaio 1988 nominò Antonino Meli; sorse il timore che il pool stesse per essere sciolto. Borsellino parlò allora in pubblico a più riprese, raccontando quel che stava accadendo alla procura di Palermo. In particolare, in due interviste rilasciate il 20 luglio 1988 a la Repubblica ed a L’Unità, riferendosi al CSM, dichiarò tra l’altro espressamente: «si doveva nominare Falcone per garantire la continuità all’Ufficio», «hanno disfatto il pool antimafia», «hanno tolto a Falcone le grandi inchieste», «la squadra mobile non esiste più», «stiamo tornando indietro, come 10 o 20 anni fa». Per queste dichiarazioni rischiò un provvedimento disciplinare (fu messo sotto inchiesta). A seguito di un intervento del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, si decise almeno di indagare su ciò che succedeva nel palazzo di Giustizia. Il 31 luglio il CSM convocò Borsellino, il quale rinnovò accuse e perplessità. Il 14 set-

roberto antiochia

ne assassinato a Porticello, località vicina alla villetta presa in affitto. Mi fu vietato recarmi a Palermo per partecipare ai suoi funerali. assarà, me lo impedì con tutte le sue forze e mentre io insistevo, altri stavano progettando un attentato contro di me. E anche dopo l’assassinio di Cassarà e Antiochia, altri colleghi m’impedirono di raggiungere Palermo. Dopo lo loro morte venni a conoscenza di quell’impedimento. Qualcuno attendeva il mio arrivo a Palermo per portare a termine un attentato contro di me. Cassarà era consapevole che la minaccia era seria. Lillo, Beppe, Ninni, Roberto e Natale Mondo, anche lui poi assassinato, tutti della mia Sezione, Sezione che ha pagato un alto tributo di sangue. Oggi, rifletto su quegli anni di lacrime e sangue e sono giunto alla conclusione che, mentre uomini onesti lavoravano per la legalità, altri, seduti accanto a noi ci tradivano. Quante, irruzioni in case dove eravamo sicuri della presenza di latitanti mafiosi e li trovavamo vuoti con cibi e sigarette ancora fumanti. Io, Beppe e Cassarà ci dannavamo dell’infruttuosità: miserabili e vigliacchi traditori. E, dopo 10 anni dal quel lontano ‘82, venni a conoscenza che una notte io e Cassarà ci salvammo per una fortuita coincidenza. Eravamo usciti dalla Mobile per compiere un sopralluogo, non lo sapeva nessuno, eppu-

il commissario beppe montana

re un nutrito commando di uomini d’onore ci stava dando la caccia: sapevano targa e tipo del nostro mezzo. Chi ci tradì? Alla luce di tanti tradimenti, mi sovviene un atroce dubbio, ossia che le stanze della mia Sezione investigativa erano imbottite di “cimici”. E’ un sospetto che mi assilla da diverso tempo e questo mio convincimento nasce dal fatto che nessuno sapeva della mia uscita notturna con Cassarà: ci eravamo accordati nel suo ufficio senza la presenza di alcuno. Ma adesso non voglio pensare ad altro se non ricordare con tanto affetto i miei migliori amici: Lillo Zucchetto, Beppe Montana, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia e Natale Mondo; il vostro sorriso aleggia per sempre nel mio cuore. PIppO GIORDANO

tembre Antonino Meli, sulla base di una decisione fondata sulla mera anzianità di ruolo in magistratura, fu nominato capo del pool; Borsellino tornò a Marsala, dove riprese a lavorare alacremente insieme a giovani magistrati, alcuni di prima nomina. Iniziava in quei giorni il dibattito per la costituzione di una Superprocura e su chi porvi a capo, nel frattempo Falcone fu chiamato a Roma per assumere il comando della direzione affari penali e da lì premeva per l’istituzione della Superprocura. Con Falcone a Roma, Borsellino chiese il trasferimento alla Procura di Palermo e l’11 dicembre 1991 vi ritornò come Procuratore aggiunto, insieme al sostituto Antonio Ingroia.

r o be r t o antiochia

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oberto Antiochia, agente della Polizia di Stato, arruolatosi a 18 anni, dopo il corso di formazione venne assegnato dapprima alla Questura di Torino, poi alla Criminalpol di Roma ed infine alla Squadra Mobile di Palermo. A Palermo collabora con il dottor Peppe Montana, Capo della Sezione Catturandi, e con il dottor Ninni Cassarà, Capo della sezione investigativa; funzionari ai quali era legato da sincera amicizia. A luglio del 1985, poco prima dell’omicidio del dottor Montana, Roberto Antiochia viene trasferito a Roma ma appresa la notizia dell’agguato mortale al dottor Montana, avvenuto sulla banchina di Porticello il 29 luglio, Roberto, che in quel momento si trovava in ferie, decide di ritornare a Palermo, aggregato alla squadra Mobile, per concorrere nelle indagini sull’omicidio del funzionario e per essere vicino al dottor Cassarà, considerato oramai prossimo obiettivo della mafia. Durerà poco questo suo impegno di amore straordinario, perché una settimana dopo l’omicidio Montana, alle 15.20 del 6 agosto 1985, a Palermo, in via Croce Rossa 81 un commando di circa 10 uomini armati di kalashnicov già organizzato e appostato, uccide Cassarà ed Antiochia ferendo altri due agenti. Roberto Antiochia muore subito perché con il suo corpo ha cercato di proteggere il suo commissario dai colpi di Kalashnikov sparati dai Killer della mafia. Avrebbe dovuto sposarsi pochi mesi dopo. Nel 1997 alla sua memoria venne intitolata la nuova sede del Commissariato di Orvieto e successivamente la via della nuova Questura. Alle due cerimonie partecipò la mamma di Roberto, la signora Saveria, scomparsa nel 2001, che per anni è stata una delle donne che a Palermo e in Sicilia hanno portato avanti l’impegno antimafia e numerose battaglie per la legalità, con grande dignità e forza d’animo, impegnandosi strenuamente nella denuncia e nell’ impegno contro la mafia e per la libertà della Sicilia. Da allora, la signora Saveria ha investito ogni minuto del suo tempo e ogni energia scaturita dalla sua indignazione per ricordare a tutti il valore civile della memoria e l’irrinunciabilità della giustizia. I mandanti e gli esecutori materiali dei due omicidi, tutti appartenenti a Cosa Nostra, sono stati individuati e condannati da tempo all’ergastolo.

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Il cammino L’intreccio «Davanti alle difficoltà non bisogna arrendersi. Al contrario, devono stimolarci a fare sempre di più e meglio, o superare gli ostacoli per raggiungere i risultati che ci siamo prefissati»

rita atria, testimone di giustizia

Paolo Borsellino. venti anni dalla strage e le troppe domande senza risposta

Fu solo mafia? Perché venne dato credito al falso pentito Scarantino?

«Il sacrificio di Paolo Borsellino e della sua scorta impegna tutti e le istituzioni ad opporsi a forme di collusione e alla pervasività della mafia». Lo scrive il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel messaggio inviato alla signora Agnese Borsellino. «La strage rappresentò il culmine di una delle fasi più gravi e inquietanti della sanguinosa offensiva della criminalità organizzata contro le istituzioni democratiche. A diciannove anni di distanza, il sacrificio di Paolo Borsellino richiama la magistratura, le forze dell’ordine e le istituzioni tutte a intensificare - con armonia di intenti e spirito di effettiva collaborazione - l’azione di contrasto delle mafie e delle sue più insidiose forme di aggressione criminale. Quel sacrificio impegna inoltre le istituzioni e la collettività tutta a uno sforzo convinto e costante nell’opporsi - come dissi anche lo scorso anno - ad atteggiamenti di collusione e indifferenza rispetto al fenomeno mafioso e alla sua pervasività... Con questo spirito... rinnovo a lei, cara signora, ai suoi figli e ai famigliari degli agenti caduti, i sentimenti di gratitudine, vicinanza e solidarietà miei e dell’intero Paese»

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l lavoro cominciato a Capaci, sulla strada che portava dall’aeroporto alla città, fu completato a Palermo, cinquantasette giorni dopo, in via Mariano d’Amelio. Dopo Giovanni Falcone toccò a Paolo Borsellino, anche stavolta con il carico aggiuntivo degli agenti di scorta, saltati in aria insieme all’obiettivo che avrebbero dovuto proteggere. Era scritto, e Borsellino lo sapeva bene. Per questo aveva fretta. Voleva arrivare a qualche risultato prima che gli assassini arrivassero a lui. Si capì allora, e c’è la conferma oggi, dopo le nuove indagini che hanno in parte riscritto la storia di quell’attentato. Una storia di mafia, ma non solo. Ormai sembra un modo di dire, una frase fatta, un luogo comune. Ma è così. Non è importante che siano o meno inquisiti o imputati estranei a Cosa nostra, per sostenere che con ogni probabilità qualche altro elemento entrò in gioco nella morte di Borsellino. FERMI a BOSS E PICCIOTTI? Come presunti colpevoli siamo fermi a boss e picciotti, ricorda il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, titolare dell’ultima inchiesta, peraltro non ancora conclusa. Ha ragione, lui deve attenersi a ciò che risulta agli atti. Dentro quegli stessi atti, però, emergono frammenti di verità, schegge di avvenimenti che se pure non portano a individuare responsa-

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bilità penali fanno capire che intorno alla fine di Paolo Borsellino – prima, durante e dopo – c’è qualcosa che non riguarda solo Cosa nostra. Il procuratore aggiunto di Palermo dilaniato il 19 luglio 1992 dal tritolo mafioso doveva morire perché era l’unico che poteva prendere il posto di Falcone nella comprensione delle dinamiche interne alle cosche, e quindi nel contrasto ad esse. E forse era tra i pochi che avrebbero potuto avvicinarsi alla verità sulla strage di Capaci, al di là del movente della vendetta. Anche se formalmente non era suo compito, e di questo lui si rammaricava. Fu forse il cruccio più grande dei suoi ultimi due mesi di vita. VOLEVa ESSERE INTERROgaTO

Titolare delle indagini era una Procura diversa dalla sua, ma lui avrebbe voluto testimoniare di fronte ai colleghi di Caltanissetta, per rivelare qualcosa che sapeva e poteva essere utile per risalire agli assassini di Falcone, e magari a qualche diverso centro di potere che poteva aver avuto interesse alla sua eliminazione. Lo ripeteva in ogni occasione, anche in pubblico, parlando del suo amico Giovanni: c’erano delle cose su cui era costretto a tacere perché doveva riferirle all’autorità giudiziaria, nel segreto dell’inchiesta. Ma nell’arco di due mesi non ci fu alcuna autorità giudiziaria che trovò il tempo per rac-


o segnato... mafia-finanza

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el settembre del 1991, la mafia aveva già abbozzato progetti per l’uccisione di Borsellino. A rivelarlo fu Vincenzo Calcara, picciotto della zona di Castelvetrano cui la Cupola mafiosa, per bocca di Francesco Messina Denaro (capo della cosca di Trapani), aveva detto di tenersi pronto per l’esecuzione, che si sarebbe dovuta effettuare o mediante un fucile di precisione, o con un’autobomba. Assai onorato dell’incarico, che gli avrebbe consentito la scalata di qualche gradino nella gerarchia mafiosa, il mafioso attendeva l’ordine di entrare in azione come cecchino qualora si fosse propeso per questa soluzione. Ma Calcara fu arrestato il 5 novembre e la sua situazione in carcere si fece assai pericolosa poiché, secondo quanto da lui stesso indicato, aveva in precedenza intrecciato una relazione con la figlia di uno dei capi di Cosa Nostra, uno sbilanciamento del tutto contrario alle “regole” mafiose e sufficiente a costargli la vita; se da latitante poteva ancora essere utilizzato per «lavori sporchi», da carcerato invece gli restava solo la condanna a morte emessa dall’organizzazione. Prima che finisse il periodo di isolamento, Calcara decise di diventare collaboratore di giustizia e si incontrò proprio con Borsellino, al quale, una volta rivelatogli il piano e l’incarico, disse: «lei deve sapere che io ero ben felice di ammazzarla». Dopo di ciò, raccontò sempre il pentito, gli chiese di poterlo abbracciare e Borsellino avrebbe commentato: «nella mia vita tut-

to potevo immaginare, tranne che un uomo d’onore mi abbracciasse». Il 23 maggio 1992 nell’attentato di Capaci persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco di Cillo. Il 19 luglio, 57 giorni dopo Capaci, Paolo Borsellino fu ucciso insieme agli agenti della sua scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina). Il pomeriggio, nel corso dell’XI scrutinio delle elezioni presidenziali, i 47 parlamentari del MSI votarono per Paolo Borsellino come Presidente della Repubblica. Una settimana dopo la strage, la giovanissima testimone di giustizia Rita Atria, che proprio per la fiducia che riponeva nel giudice Borsellino si era decisa a collaborare con gli inquirenti pur al prezzo di recidere i rapporti con la madre, si uccise. Diversi pentiti di mafia ritrattarono alcune accuse precedentemente espresse. Borsellino rilasciò interviste e partecipò a numerosi convegni per denunciare l’isolamento dei giudici e l’incapacità o la mancata volontà da parte della politica di dare risposte serie e convinte alla lotta alla criminalità. In una di queste Borsellino descrisse le ragioni che avevano portato all’omicidio del giudice Rosario Livatino e prefigurò la fine (che poi egli stesso fece) che ogni giudice «sovraesposto» è destinato a fare. Alla presentazione di un libro alla presenza dei ministri dell’interno e della giustizia, Vincenzo Scotti e Claudio

Martelli, nonché del capo della polizia Vincenzo Parisi, dal pubblico fu chiesto a Borsellino se intendesse candidarsi alla successione di Falcone alla “Superprocura”; alla sua risposta negativa Scotti intervenne annunciando di aver concordato con Martelli di chiedere al CSM di riaprire il concorso ed invitandolo formalmente a candidarsi. Borsellino non rispose a parole, sebbene il suo biografo Lucentini abbia così descritto la sua reazione: «dal suo viso trapela una indignazione senza confini». Rispose al ministro per iscritto, giorni dopo: «La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento». Due mesi prima di essere ucciso, Paolo Borsellino rilasciò un’intervista ai giornalisti Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi (21 maggio 1992). L’intervista mandata in onda da RaiNews 24 nel 2000 era di trenta mi-

Rita Atria, la picciridda di Borsellino Una donna vestita di nero, con il capo chino nascosto sotto un velo, nero anche esso, entra nel piccolo cimitero di paese, si avvicina alla tomba della figlia. La mano impugna un martello, un attimo di esitazione, e con violenza bestiale si accanisce sulla tomba, spacca il marmo dove è inciso il nome, strappa la fotografia di un’adolescente che sorride alla vita. In dialetto stretto inveisce contro la sorte, battendosi le mani al petto. La disperazione di una madre che ha perso l’amata figlia di diciasette anni? No, la madre si dispera di avere per figlia una «fimmina con lingua longa e amica degli sbirri» come si mormora in tutto il paese e nessuno osò andare al funerale di Rita. Neanche il suo codardo fidanzato. Non andò neppure sua madre, l’aveva ripudiata e minacciata di morte perché quella figlia ribelle aveva “disonorato” la famiglia, le procurava imbarazzo a Partanna, villaggio del trapanese di scarse 12mila anime con sito archeologico che risale all’epoca paleolitica. Ma la storia più recente del paese l’ha fatta Vito Atria, potente boss locale, fino a quando una cosca rivale decide di farlo fuori. Alla morte del padre, Rita, appena undicenne, si lega al fratello Nicola, boss in erba, da lui cerca affetto e protezione. Nel giugno 1991 anche Nicola è trucidato dalla mafia. A questo punto sua moglie Piera Aiello decide di collaborare con la giustizia. Cinque mesi dopo anche Ri-

ta, seguendo l’esempio della cognata, chiede un incontro con il giudice Paolo Borsellino. Le loro deposizioni consentono di fare arrestare diversi mafiosi e di avviare un’indagine sull’assai discusso Vincenzino Culicchia, per trent’anni sindaco, padre/padrone di Partanna. Il giudice Borsellino “adotta” la picciridda Rita, la ragazza trascorre molto tempo con lui e la moglie, come una di famiglia. Quale migliore rifugio dall’orrore mafioso? Rita, di base, vive sotto protezione a Roma, indirizzo segretissimo. Una settimana dopo la strage di via d’Amelio, Rita si uccide lanciandosi dal settimo piano. Aveva di nuovo perso ogni affetto, ogni senso di famiglia. Il suo unico punto di riferimento. Non ce l’ha fatta a ricominciare daccapo. Questo il suo laconico messaggio lasciato vent’anni fa. Sembra scritto ieri. Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta. Rita Una domanda per tutti,

per me stessa in primis: quanti hanno mai sentito il nome di Rita Atria? Per la prima volta ho letto attonita la sua storia sul Corriere di ieri riportata dal collega Paolo Di Stefano. Non si sono ancora spenti gli echi delle commemorazioni per il ventennale delle stragi di Capaci e di via d’Amelio e non una parola è stata spesa per ricordare il sacrificio di Rita. Sacrificare (dal lat. composto di sacrum efacere) significa, letteralmente, rendere sacro. Come in una tragedia greca, Rita si è immolata per restituire onore a uno Stato svergognato dall’incapacità di prevalere sulle cosche, inetto nel proteggere anche i suoi più fedeli servitori, come il giudice Borsellino. Sono felice che la piazza centrale di Partanna sia stata dedicata a Falcone e Borsellino. Non lontano dall’imponente villa Macallè, la casa dove, tra gli agi, è vissuta Rita, la casa del boss mafioso tanto rispettato e riverito. Ma una lapide alla memoria di Rita non stonerebbe nella stessa piazza. Invece, lasciare al cimitero la sua tomba in stato d’abbandono, per vent’anni, senza un nome, senza una targa è più che vergognoso. Il nome di Rita andrebbe gridato in ogni angolo della Sicilia. Sembra invece che se ne voglia cancellare ogni traccia dalla memoria collettiva. Perché qui la mentalità omertosa fa ancora da padrona. Testimone di mafia era Rita, secondo l’austero protocollo giudiziario. Nulla di più. JANUARIA PIROMALLO

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«Giovanni Falcone morì tra le braccia di Paolo Borsellino all’ospedale civico di Palermo. Paolo disse: “Io di quella strage sono un testimone e aspetto di essere chiamato dall’autorità giudiziaria per dire quello che so e per dire quello che ho scoperto di quella strage”. Non fu mai chiamato dal Tribunale di Caltanissetta per testimoniare e ritengo che un altro dei motivi per cui sia stato ucciso così in fretta è stato proprio per impedirgli di portare quelle testimonianze. Di portare quelle cose che aveva scoperto e che sicuramente aveva scritto nell’Agenda Rossa». SaLVaTORE BORSELLINO

Il giudice in vacanza con due dei suoi tre figli al Parco nazionale d’Abruzzo. Dopo il 4 maggio 1980 tutta la famiglia Borsellino cominciò a vivere sotto scorta.

coglierne la testimonianza. E’ uno dei misteri di quei cinquantasette giorni. Che può avere pure una spiegazione banale, ma mai sufficiente a giustificare l’assenza di quella deposizione tra le carte dell’inchiesta. Così come la scomparsa dell’agenda rossa sulla quale il giudice annotava le proprie considerazioni sul lavoro che andava svolgendo nella sua corsa contro il tempo, su quello che era venuto a sapere, sugli spunti d’indagine da coltivare. Un elemento prezioso per tentare di scoprire le responsabilità nascoste su Capaci e – dopo – su via D’Amelio. Che non è mai stata ritrovato. L’agenda rossa era nella borsa che il giudice portò con sé dalla casa del mare a quella della madre, prima dell’esplosione. E’ sparita, e le indagini non hanno chiaro perché, né per mano di chi. E’ un altero mistero che non ha a che fare con la mafia. OLTRE La MaFIa

Non c’è bisogno di individuare “mandanti esterni” o agenti segreti infedeli che abbiano partecipato all’attentato, per capire che non è solo una storia di mafia. Basta risalire a qualche omissione o pezzo mancante per poter sostenere che nell’intreccio c’è qualche altra cosa, oltre la mafia. Capita quasi sempre, nelle storie dove il potere s’intreccia col crimine. Colpevoli sono i criminali, ma sulla sponda del potere si scopre puntualmente che qualcosa non ha funzionato come avrebbe dovuto. Nella migliore delle ipotesi. Vale anche per la presunta trattativa avviata tra lo Stato e la mafia dopo Capaci (o forse addirittura prima, secondo l’ultima ipotesi della Procura di Palermo), di cui Borsellino era venuto a conoscenza. Almeno per un 12 | TRACCE DI UOMINI | paolo borsellino

frammento, che magari era solo un’iniziativa investigativa un po’ audace: i colloqui tra i carabinieri e l’ex sindaco corleonese di Palermo Vito Ciancimino. Non glielo dissero i carabinieri, con i quali pure aveva contatti e stava programmando attività d’indagine: che ne avrà pensato il giudice? E chi era l’amico che l’aveva tradito, come hanno testimoniato sue suoi giovani “allievi” che l’incontrarono piangente e piegato da avvenimenti e preoccupazioni poche settimane prima che morisse? Perché, il giorno prima dell’attentato, disse alla moglie che ad ucciderlo non sarebbe stata soltanto la mafia? DOMaNDE SENZa RISPOSTa

Sono tutte domande rimaste senza risposta, che suscitano inquietudini. In cui la mafia non c’entra. Così come non c’entra nelle indagini che dopo la strage di via D’Amelio imboccarono quasi subito una falsa pista, smascherata solo dopo sedici anni da un nuovo pentito. erché si volle chiudere tutto così in fretta, con le false confessioni di qualche falso collaboratore di giustizia? Fu solo un errore investigativo e poi giudiziario – com’è costretto a ipotizzare il procuratore di Caltanissetta, in assenza di prova che dimostrino altro – o c’era qualche diverso motivo? Comunque sia andata, dietro la morte di Paolo Borsellino e quello che s’è mosso intorno a lui prima e dopo la bomba di vent’anni fa, non ci furono solo i padrini e i loro gregari. E anche quell’eccidio è diventato uno dei grandi misteri d’Italia che hanno deviato e inquinato il corso della storia. Rimando misteri, purtroppo. GIOVANNI BIANCONI


nuti, quella originale era invece di cinquanta minuti. «All’inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un’impresa anch’essa. Un’impresa nel senso che attraverso l’inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all’estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all’industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso» (Paolo Borsellino, in quella intervista). Nell’intervista (la penultima rilasciata), Borsellino riferì delle possibili correlazioni tra i mafiosi di Cosa Nostra e di ricchi uomini d’af-

fari come il futuro Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. In questa sua ultima intervista Paolo Borsellino parlò anche dei legami tra la mafia e l’ambiente industriale milanese e del Nord Italia in generale, facendo riferimento, tra le altre cose, a indagini in corso sui rapporti tra Vittorio Mangano e Silvio Berlusconi. Alla domanda se fosse Mangano un «pesce pilota» della mafia al Nord, Borsellino rispose che egli era sicuramente una testa di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord d’Italia. Sui rapporti con Berlusconi invece si astenne da giudizi definitivi. Anche alla luce di quest’intervista e del ruolo di Mangano così come descritto da Borsellino (testa di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord d’Italia) destò scalpore la dichiarazione di Marcello Dell’Utri, condivisa dal presidente del consiglio dei ministri Silvio Berlusconi riferita a Vittorio Mangano: egli fu, a modo suo, un eroe. Paolo Guzzanti aveva sostenuto che l’intervista trasmessa da Rai News 24 era stata manipolata, i giornalisti della rete gli fecero causa, ma fu assolto. Vi era corrispondenza tra la cassetta ricevuta ed il contenuto trasmesso, ma non con il video originale. Alcune risposte erano state tagliate e messe su al-

tre domande. Ad esempio, quando Borsellino parla di «cavalli in albergo» per indicare un traffico di droga, non si riferiva ad una telefonata fra Dell’Utri e Mangano come poteva sembrare dalla domanda dell’intervistatore (che faceva riferimento ad un’intercettazione dell’inchiesta di San Valentino, che Borsel-

l’intervista E BORSELLINO ORA ATTENDE

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lle otto in punto, come sempre, Paolo Borsellino è nel suo ufficio di procuratore aggiunto di Palermo. Con un peso sulle spalle in più. Detto nel più semplice dei modi, il governo - il ministro degli Interni - vede in lui l’uomo che può raccogliere l’eredità di Giovanni Falcone, il giudice che può continuare il lavoro interrotto dal tritolo di Capaci. Vincenzo Scotti glielo chiede esplicitamente: deve essere Borsellino il nuovo procuratore nazionale antimafia. Paolo Borsellino è nervosissimo. Ha il volto tirato, ha modi inusualmente bruschi. E’ stato a Roma nel pomeriggio di giovedì, è tornato a Palermo nella notte. Dalle 8 in punto il telefono non smette di trillare. Paolo Borsellino è stanco di interviste. Lo dice chiaro e tondo: «Non posso vivere così, signori miei. Non sono abituato e non voglio abituarmi a lavorare con i giornalisti in attesa fuori la porta». Ma è l’uomo del giorno, è l’uomo che la strage di Capaci ha chiamato sotto i riflettori. Procuratore Borsellino, quando il governo ha chiesto la sua disponibilità per la Procura nazionale antimafia? «Nessuno ha chiesto la mia disponibilità». Nessuno le ha anticipato la proposta del ministro degli Interni Scotti? «No, ho ascoltato per la prima volta la proposta di Scotti in pubblico, come tutti alla presentazione del libro di Pino Arlacchi». In ogni caso, ora, la proposta c’è. Scotti, a nome del governo si augura che, dopo la morte di Giovanni Falcone, si riaprano i giochi per l’ incarico di Superprocuratore e auspica che lei presenti la sua candidatura. Che cosa farà? «Io non considero questo problema attuale. Non posso non considerare che è in corso una procedura che deve avere, avrà i suoi sbocchi naturali». Martelli ha annunciato oggi che sta predisponendo un provvedimento legislativo che

possa riaprire i termini per la presentazione delle candidature. Ora ammettiamo che quest’ iniziativa vada in porto. Lei presenterà la domanda? «Quando, e se, il problema diventerà attuale come tutti gli altri possibili ed eventuali candidati valuterò l’opportunità di presentare domanda». Della necessità di un organismo giudiziario che coordini le indagini antimafia Borsellino non ha dubbi. Lo ha ripetuto anche ieri dai microfoni del Gr1. Gli hanno chiesto: rimane l’ esigenza di avere un nucleo centrale dove convogliare le indagini? Ha risposto: “La gestione del tutto insoddisfacente delle dichia-

razioni di Calderone hanno inciso enormemente sulla decisione di Falcone di lasciare la procura di Palermo. Giovanni si era reso conto che, con l’imposizione di una visione parcellizzata del fenomeno mafioso, non fosse possibile da un’ unica sede giudiziaria ripetere quello che era successo nella fase originaria del maxi-processo. Ebbe l’occasione di andare a lavorare al ministero di Grazia e Giustizia dove si impegnò soprattutto nello studio di un’organismo giudiziario che potesse ricreare, anche se per diversa via, quelle condizioni che erano proprio alla base della filosofia del pool antimafia”. Allora, qual è la

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lino aveva seguito solo per poco tempo), ma ad una fra Mangano e un mafioso della famiglia Inzerillo. Nel numero de L’Espresso dell’8 aprile 1994 fu pubblicata una versione più estesa dell’intervista. L’intervista, e i tagli relativi alla sua versione televisiva, furono citati anche dal tribunale di Palermo nella sentenza di condanna di Gaetano Cinà e Marcello Dell’Utri: «Un riferimento a quelle indagini si rinviene nella intervista rilasciata il 21 maggio 1992 dal dr. Paolo Borsellino ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo. In dibattimento il Pubblico Ministero ha prodotto la cassetta contenente la registrazione originale di quella intervista che, nelle precedenti versioni, aveva subito, invece, evidenti manipolazioni ed era stata trasmessa a diversi anni di distanza dal momento in cui era stata resa, malgrado l’indubbio rilievo di un simile documento». (Dalla sentenza di condanna di Dell’Utri Pag 431). Nella sentenza fu poi riportato il brano dell’intervista relativo all’uso del termine «cavalli» per indicare la droga e sulle precedenti condanne di Mangano, in una versione ancora differente rispetto alle due già diffuse, trascritta dal nastro originale. Nella stessa sentenza era poi riportata l’intercettazione della telefonata intercorsa tra

Palermo, luglio 1992. Sono i giorni della strage di via D’Amelio. “È finito tutto” dice uno scosso Antonino Caponnetto a un giornalista, uscendo dall’obitorio dopo l’ultimo saluto a Paolo Borsellino. Il giudice in pensione, padre del pool antimafia, è l’ambasciatore di un’Italia che non ha più uomini presentabili. “Chi ci difende ora? Dov’è lo Stato?”, gli chiedono le persone. Le stesse domande sentite due mesi prima in occasione della morte di Giovanni Falcone. L’ex Capo Ufficio Istruzione è il simbolo di una città, di un Paese, che si rialza dall’ennesimo schiaffo. Il rammarico per quella frase detta in un momento di sconforto è un motivo in più per farsi coraggio, per riprendere le forze e la speranza, e lavorare sul cambiamento culturale e sulla lotta alla mafia. È l’inizio della primavera palermitana. Nella sua “preghiera laica”, al funerale di Borsellino, c’è il progetto dei dieci anni seguenti: Caponnetto diventa il primo rappresentante della società civile, gira l’Italia per testimoniare nelle scuole la sua esperienza e portare avanti le idee dei magistrati uccisi dalla mafia.

«Devo fare in fretta, perché adesso tocca a me»

Mangano (la cui linea era sotto controllo) e Dell’Utri, relativo al blitz di San Valentino, in cui veniva citato un «cavallo», a cui aveva fatto riferimento il giornalista nelle domande dell’intervista a Borsellino. La sentenza specificava però che: «Tra le telefonate intercettate (il cui tenore aveva consentito di disvelare i loschi traffici ai quali il Mangano si era dedicato in quegli anni) si inserisce quella del 14 febbraio 1980 intercorsa tra Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri. È opportuno chiarire subito che questa conversazione, pur avendo ad oggetto il riferimento a “cavalli”, termine criptico usato dal Mangano nelle conversazioni telefoniche per riferirsi agli stupefacenti che trafficava, non presenta un significato chiaramente afferente ai traffici illeciti nei quali il Mangano era in quel periodo coinvolto e costituisce il solo contatto evidenziato, nel corso di quelle indagini, tra Marcello Dell’Utri e i diversi personaggi attenzionati dagli investigatori».

chiave? «Il lavoro di Falcone al ministero ebbe, sotto questo profilo, successo. Si è arrivati alla creazione di questo organismo in grado di avere una visione d’assieme rispetto alle singole fette dei vari processi che si occupano di organizzazione mafiosa. Purtroppo l’assassinio ha stroncato la possibilità di utilizzare questo strumento che avrebbe, anche se per via diversa, ricreato le condizioni in cui operò, nel suo periodo migliore, il pool antimafia di Palermo». Paolo Borsellino oggi più che della sua candidatura preferisce parlare di quanto sarebbe stato utile Falcone come procuratore nazionale antimafia. Procuratore, tuttavia, Giovanni Falcone si è trovato molto isolato quando ha sostenuto la nascita della Direzione nazionale antimafia. «Giovanni a volte peccava di ottimismo presupponendo che i magistrati potessero sostenere le sue iniziative. Peccò di ottimismo quando doveva prendere il posto di Antonino Caponnetto all’ufficio Istruzione, quando si candidò al Consiglio superiore della magistratura, quando si mise in corsa per la Superprocura. In più occasioni non è stato sostenuto dall’associazione dei magistrati, dal Csm». Non è che a Palermo, Falcone abbia avuto miglior sorte. «Voglio sfatare questo luogo comune. Io credo che a Palermo, presso la magistratura siciliana, la media del consenso nei suoi confronti sia stata più alta che altrove. La gran parte dei magistrati di Palermo, anche quelli che hanno avuto con lui dei disaccordi, sapevano che il procuratore nazionale antimafia doveva essere lui». Lei si è dato molto da fare nella sua corrente per sostenere la candidatura di Giovanni Falcone... «Io ho assunto posizioni pubbliche. Ad un convegno a Torino di Magistratura Indipendente ho sostenuto che la corren-

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te dovesse appoggiare Giovanni Falcone...». Risulta, in verità, che lei abbia fatto di più: con la collaborazione di Ernesto Staiano, avrebbe conquistato il consenso per Falcone di quattro dei cinque membri di Magistratura Indipendente presenti nel Csm. Voti utilissimi che avrebbero dato a Falcone la maggioranza nel plenum del Consiglio. «Sì, io avevo tratto la conclusione che la nomina di Giovanni a procuratore nazionale antimafia era sostenuta dai numeri, era cosa fatta». Ora potrebbe toccare a lei diventare procuratore antimafia. Hanno molto impressionato in questi giorni alcune sue dichiarazioni. L’ultima in ordine di tempo è questa. Lei ha detto stamattina al Gr1: “Ciò che è difficile questa volta è trovare lo stesso entusiasmo. Spero che l’entusiasmo me lo possa far tornare una rapida conclusione delle indagini sull’assassinio di Falcone”. «Non nascondo, l’ho detto pubblicamente, di avere paura di perdere l’entusiasmo per il mio lavoro di magistrato. Nonostante questo timore continuerò a lavorare in questo ufficio dove mi trovo benissimo, continuerò a lavorare come sempre, come da anni faccio, con lo stesso impegno». GIUSEppE D’AVANZO


Paolo Borsellino sapeva di dover morire, ma andò incontro al suo destino senza sottrarsi, senza indietreggiare. Fa effetto ascoltare dalla voce di chi col giudice ucciso in via D’Amelio ha condiviso gli ultimi giorni la cronaca di una sorta di «sacrificio» annunciato. Dal banco dei testi per deporre al processo per favoreggiamento al generale dei carabinieri Mario Mori, il colonnello Umberto Sinico, ricorda commosso «la lucida consapevolezza» con cui il magistrato affrontò la sua sorte. «Dopo l’uccisione di Falcone aveva fretta - racconta ai giudici - sapeva di essere il prossimo obiettivo e di non avere tempo». Ma continuava una corsa contro il tempo per cercare di capire cosa ci fosse dietro l’uccisione del collega. Sinico usa un termine forte, parla di «sacrificio» e quasi con rabbia ricorda quando, a fine giugno del 1992, poco prima dell’eccidio di via D’Amelio, andò insieme a due sottufficiali nel carcere di Fossombrone a incontrare un confidente, Girolamo D’Anna. Un mafioso di rango, nonostante fosse stato ’posatò da Cosa nostra, e di grande carisma. Fu lui a dirgli che nell’ambiente carcerario si parlava di un imminente attentato a Borsellino. «Ci disse che era arrivato l’esplosivo - racconta - E noi tornammo sconvolti a Palermo e andammo dal giudice a riferirgli tutto». «“Lo so”, ci rispose, “ma devo lasciare qualche spiraglio, altrimenti se la prendono con la mia famiglia”». Un modo per far capire che avrebbe lasciato allentare le maglie della sicurezza esponendosi per tutelare i suoi. Ma il colonnello, per lunghi periodi all’Anticrimine a Palermo, del giudice ucciso nel ’92 dice anche altro: «Col Ros aveva un rapporto ottimo. Tanto che dopo la sua morte i familiari ci vollero durante il sopralluogo della polizia nella sua abitazione». LA PACE CON LEONARDO SCIASCIA. È il gennaio 1988:un anno dopo l’articolo sui «professionisti dell’antimafia» lo scrittore e il magistrato si chiariscono

«Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio, o si fanno la guerra o si mettono d’accordo»

L’ultimo giorno di Paolo Borsellino Borsellino trascorre la mattinata a Villagrazia di Carini con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia (manca solo la figlia minore Fiammetta, 19 anni, in viaggio in Indonesia con alcuni amici). L’amico Giuseppe Tricoli: «Non li aspettavamo. Del resto Paolo non ci comunicava mai prima le sue visite. Li ho subito invitati a pranzare con noi. Paolo era sereno, tranquillo, scherzava...». A un certo punto il giudice prende l’amico in disparte e gli confida: «Il tritolo e’ arrivato anche per me, lunedì scorso». Poi gli dice che in giornata partirà per la Germania. Motivi di lavoro. «Non mi ha detto altro. Anche con me era estremamente riservato». Dopo pranzo Borsellino dice che va a riposare un po’ (in realtà non chiude occhio, fuma una sigaretta dopo l’altra). Poi, alle 16.40, dice ai sei uomini della scorta di prepararsi. Neanche all’amico dice che sta andando dalla madre. Solo la moglie lo sa. Alle 16.55 il corteo blindato si ferma in via d’Amelio, dove abita Maria Lepanto. Borsellino scende dalla Croma, tende un dito per suonare il campanello, ma in quell’istante esplode una vecchia Fiat 126, parcheggiata davanti al civico 21, in cui sono stipati 90 chili d’esplosivo. «La 126 si disintegra volando per trenta metri, schizzando morte e distruzione, devastando le auto blindate, riducendo a carcasse fumanti altre trenta macchine e facendo tremare le fondamenta mentre i corpi di Borsellino e degli agenti che gli stanno a fianco vengono maciullati e

bruciati con resti che volano e si schiacciano sull’asfalto un po’ nero un po’ rosso. Il boato del finimondo si avverte fino alla circonvallazione e Palermo trema. Le prime telefonate dicono solo “Via Autonomia siciliana” e tanti pensano al giudice Ayala che abita vicino e che, invece, corre giù a piedi per trecento metri insieme con i ragazzi della sua scorta arrivando fra i primi ai bordi dell’inferno. Fra le macerie di quest’altra battaglia perduta dallo Stato, accanto ai resti di Borsellino, c’è il corpo martoriato di Emanuela Loi, appena rientrata dalle vacanze nella sua Sardegna. E poi Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Walter Cosina e Claudio Traina. Resiste in ospedale Antonino Vullo. E nelle corsie arrivano feriti a decine (...) Le Tv lanciano l’allarme che arriva così nella casa di villeggiatura di un ex deputato missino, Giuseppe Tricoli, a Villagrazia di Carini (...) È Manfredi ad arrivare per primo con un amico in via D’Amelio restando obnubilato dallo scenario apocalittico, vagando abbracciato ora a un giudice ora a un altro e allontanandosi distrutto per raggiungere a casa la madre che chiede dov’è Paolo. Oggi, la Palermo che si preparava a celebrare le messe per i due mesi della strage di Capaci, è invece pronta a sfilare di nuovo in un Palazzo di Giustizia trasformato in camera ardente. E qui sarà la salma del giudice Paolo Borsellino» (Felice Cavallaro). [Felice Cavallaro, Cds 20/7/1992; Franco Nuccio, Cds 20/7/1992].

«L’equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E no! Questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest’uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati». PaOLO BORSELLINO

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La strage di via D’Am

I

l 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla sua scorta in via D’Amelio, dove vive sua madre. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa 100 kg di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo oltre a Paolo Borsellino anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, gravemente ferito. Pochi giorni prima di essere ucciso, durante un incontro organizzato dalla rivista MicroMega, così come in una intervista televisiva a Lamberto Sposini, Borsellino aveva parlato della

«Un nuovo patto di convivenza Statomafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un patto di convivenza che, da un lato, significava la ricerca di nuovi referenti politici e, dall’altro lato, la garanzia di una duratura tregua armata, dopo il bagno di sangue che in quegli anni aveva investito l’Italia»INGROIA ANTONIO INgROIa

L’ultima foto di Borsellino

«Sapeva che sarebbe morto»

L’ULTIMA FOTO. Il 19 luglio 1992 il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta venivano uccisi in un attentato avvenuto in Via D’Amelio a Palermo. In questa foto l’ultimo scatto del giudice realizzato 13 giorni prima in compagnia di amici in un tentativo di quella normalità persa dopo l’uccisione dell’amico e collega Giovanni Falcone.

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È

la sera di lunedì 6 luglio 1992, e il conto alla rovescia è già partito. Paolo Borsellino sembra sentirlo, quel tic-tac che diventa sempre più forte, mentre a Palermo i sussurri diventano grida: è lui il prossimo, lui la vittima designata, lui il morto che cammina. Tredici giorni dopo questa fotografia, scattata nella villetta del giudice a Villagrazia di Carini, a pochi chilometri dalla città, via D’Amelio sarà squarciata dal tritolo. Un’immagi-


IL NATALE 1988. Borsellino scherza con il figlio Manfredi rimproverandolo di essere un po’ «cornutello», discolo

melio sua condizione di “condannato a morte”. Sapeva di essere nel mirino di Cosa Nostra e sapeva che difficilmente la mafia si lascia scappare le sue vittime designate. Antonino Caponnetto, che subito dopo la strage aveva detto, sconfortato, «Non c’è più speranza...», intervistato anni dopo da Gianni Minà ricordò che «Paolo aveva chiesto alla questura – già venti giorni prima dell’attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l’abitazione della madre. Ma la domanda era rimasta inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto nei suoi confronti disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze».

Il magistrato nella cucina di casa nel 1979

ne scattata durante una serata con gli amici che è uno dei tentativi residui di normalità, di quella normalità che Borsellino si è lasciato alle spalle 44 giorni prima, quando Falcone – suo amico e scudo – è saltato in aria a Capaci. È l’ultima sua fotografia, quella che vent’anni dopo il figlio Manfredi mostra con gli occhi negli occhi del padre. Dopo, di Borsellino, ci sarebbero state soltanto le immagini di un lenzuolo a coprire il cadavere nel cratere dell’esplosione. Un’immagine che racconta come ormai, a dispetto dell’abbozzo di sorriso della moglie seduta all’altro capo del dondolo (in centro c’è un’amica di famiglia), il giudice non riesca più ad avere un momento di serenità. Volto scavato, sigaretta in bocca, sguardo sofferto, distrattamente rivolto all’obiettivo. Sono i giorni in cui il magistrato scrive febbrilmente sull’agenda rossa poi scomparsa. Sono i giorni in cui combatte una battaglia durissima con il suo procuratore capo, Pietro Giammanco, che lo tiene fuori dalle indagini più importanti e dalla gestione dei nuovi pentiti. Sono i giorni in cui, secondo quello che sta emergendo dalla nuova inchiesta sulla strage partita dopo la conclusione del processo depistato, il giudice viene a conoscenza della trattativa fra Stato e mafia per mettere fine al-

L’ultima sigaretta di Paolo Borsellino Un’auto percorre lenta Via D’Amelio, a Palermo. Paolo si accende l’ennesima sigaretta, mentre pensa ai sui vent’anni, al giorno della sua Laurea in giurisprudenza, al sorriso di suo padre, morto pochi giorni dopo, a sua madre che vive in quel palazzo in fondo alla strada, ai suoi sacrifici di «unico sostentamento» della famiglia. I ragazzi della scorta scendono. Paolo aspira la sigaretta, mentre ricorda la Kalsa, e a Giovanni bambino. Giovanni, lasciato solo a morire nell’«attentatuni» di poche settimane fa. Paolo scende mentre scorrono anni, indagini, visi e voci di colleghi, amici. Dei tanti nemici infidi che ti sorridono mentre ti accoltellano alle spalle. Che forse trattano in nome di quello Stato che solo tu hai deciso di difendere a ogni costo. Paolo aspira la sigaretta e guarda i veicoli in sosta, pensando che da un mese chiedono alla Questura di farli rimuovere. Sorride pensando ad Agnese, Manfredi, Lucia, Fiammetta, al tempo che passa e chissà la stagione delle bombe. Un patto che gli ripugna. «Oggi – racconta Manfredi Borsellino - sappiamo di avere assistito a Caltanissetta a un processo farsa, a indagini condotte da un ex questore e prefetto che aveva molta fretta di fare carriera, Arnaldo La Barbera. Non abbiamo partecipato a una sola udienza, forse intuendo inconsapevolmente che c’era qualcosa di strano». Il figlio di Borsellino non ha paura di parlare chiaro. «Il depistaggio, ormai acclarato da quei colleghi di mio padre che conducono le nuove indagini sulla strage di via D’Amelio, e che con mia madre e le mie sorelle non finirò mai di ringraziare, per produrre i suoi effetti devastanti è stato perlomeno “avallato” da magistrati requirenti e giudicanti. Io voglio credere che tutti siano stati sempre in buona fede e quindi davvero tratti in inganno dalle false risultanze investigative che gli venivano poste sotto gli occhi». Ma questo appartiene all’angoscia del dopo. Qui, in questa fotografia, c’è il dolore che precede l’epilogo, quando il cerchio si è ormai stretto. Proprio dalla villetta di Villagrazia di Carini, quella domenica fatale di luglio, il giudice sarebbe partito dopo l’ultimo tuffo per andare a prendere la madre in via D’Amelio e portarla dal cardiologo. Doveva essere lo specialista a fare una vi-

quanto ne resta perché «Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano». Paolo con la sigaretta in mano suona il campanello. Un lampo, un boato. Paolo affoga in un buio freddo. Affoga, con Giovanni, Ninì e tanti altri, nel buio della memoria di un Paese distratto. Un buio che va illuminato dal nostro cuore e dalla nostra mente, perché se «è sfortunato quel Paese che ha bisogno di eroi, più sfortunato è il Paese che se li dimentica». Paolo nel vento aspira un’altra sigaretta. Aspetta, con Giovanni e tutti gli altri. Come quelli di noi che aspettano verità e giustizia. Aspettiamo che finisca perché «la mafia è un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha avuto un inizio e avrà anche una fine». Aspettiamo, avvinghiati nelle nostre paure, senza capire che siamo, comunque, dei cadaveri che camminano. L’importante è che la morte ci trovi vivi. Anche con una sigaretta in mano. CARLO CIpICIANI sita domiciliare, ma il giorno prima la mafia gli aveva incendiato la macchina per lasciarlo a piedi. Il tempo di scendere in quella strada in cui nessuno aveva provveduto a mettere un divieto di sosta, di scampanellare al citofono e la Fiat 126 imbottita di tritolo avrebbe sventrato asfalto e palazzi. Con lui muoiono Emanuela Loi, uno scricciolo di 45 chili e 24 anni che è tornata dalle ferie nella sua Cagliari per senso del dovere nonostante non si senta bene; Walter Cosina, un omone di Trieste che volontariamente è piombato nella trincea di Palermo e che sempre per sua scelta è in servizio al posto di un collega appena arrivato; Agostino Catalano, che ha lasciato a casa due figlie già orfane di madre; Claudio Traina, al suo primo giorno in servizio accanto a Borsellino; Fabio Li Muli, che pochi giorni prima ha chiesto alla sorella di ricordagli le parole dell’Ave Maria. Qualcuno, adesso, per il giudice parla di martirio. Manfredi sorride, amaro. «L’ultimo dei suoi desideri – dice - era lasciare la moglie vedova e tre orfani ancora ragazzi, ma era consapevole che questo sarebbe potuto accadere. Piuttosto voleva far sì che i suoi familiari e gli agenti di scorta non rimanessero coinvolti in un attentato: con i primi è riuscito nel suo intento, con i secondi purtroppo no».

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Paolo Borsellino e la moglie Agnese

Dopo le stragi

L’ombra della trattativa tra Stato e mafia

La chiamano «scellerata trattativa», sostengono che è andata avanti dal ’92 al ’94 e che ha visto protagonisti «i massimi esponenti di Cosa Nostra ed alcuni rappresentanti dello Stato», fino alla «definitiva saldatura del nuovo patto di coesistenza Stato-mafia», realizzato grazie alle «garanzie assicurate dal duo Dell’Utri-Berlusconi». Caduto il Muro di Berlino, dicono i pm, si frantumarono i vecchi equilibri politico-mafiosi e venne meno, con la sentenza del maxiprocesso, la garanzia dell’impunità per Cosa nostra. Da lì lo scatenamento dell’attacco allo Stato, con l’omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992), che rappresenta anche l’assalto alla politica collusa. Poi ci sono le stragi di Capaci e via D’Amelio e, l’anno dopo, Roma, Firenze e Milano. In un clima fatto di «tanti, troppi, depistaggi e reticenze, spesso di fonte istituzionale», vengono trascinati davanti al Gup 12 imputati, 5 mafiosi, 5 esponenti delle Istituzioni, Massimo Ciancimino e Marcello Dell’Utri.

I

n fondo è una storia tipicamente italiana. Di una mafia quasi onnipotente, di uno Stato incerto. Una storia di trame, depistaggi e sbandamenti investigativi. È una storia infinita, in gran parte ancora da scrivere. Del resto, sono passati «solo» vent’anni. La storia giudiziaria delle stragi del ‘92 in Sicilia appare strettamente collegata a quella delle stragi del ‘93 a Roma, Firenze e Milano. E, secondo una lettura che non ha trovato riscontro in pronunce giudiziarie, è legata anche alla nascita di nuovi soggetti politici e della Seconda Repubblica. Le stragi intrecciano i fili delle trame che le hanno ispirate con quelli della cosiddetta trattativa fra Stato e mafia, toccando i fili dell’alta tensione istituzionale. Il pool del procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia si appresta a chiedere un processo contro ex ministri, ex alti burocrati, investigatori, imprenditori e politici. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, ha già riscritto la storia del depistaggio di via D’Amelio e ha tirato fuori dalle celle sei mafiosi, ingiustamente accusati della strage in cui fu ucciso il giudice Paolo Borsellino. Il 23 maggio 1992, a Capaci, Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo e tre agenti di scorta vengono uccisi con il classico attentato perfetto, che colpisce tre auto lancia-

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Nell’introduzione del libro L’agenda rossa di Paolo Borsellino Marco Travaglio scrive: «Oggi, quindici anni dopo, non è cambiato nulla. L’impressione è che, ai piani alti del potere, quelle verità indicibili le conoscano in tanti, ma siano d’accordo nel tenerle coperte da una spessa coltre di omissis. Per sempre. L’agenda rossa è la scatola nera della Seconda Repubblica. Grazie a questo libro cominciamo a capire qualcosa anche noi». Salvatore Borsellino, fratello di Paolo Borsellino, parla esplicitamente di “strage di Stato”: «Perché quello che è stato fatto è proprio cercare di fare passare l’assassinio di Paolo e di quei ragazzi che sono morti in via D’Amelio come una strage di mafia. [...] Hanno messo in galera un po’ di persone - tra l’altro condannate per altri motivi e per altre stragi - e in questa maniera ritengono di avere messo una pietra tombale sull’argomento. Devo dire che purtroppo una buona parte dell’opinione pubblica, cioè quella parte che assume le proprie informazioni semplicemente dai canali di massa televisione e giornali - è caduta in questa chiamiamola “trappola” [...] Quello che noi invece cerchiamo in tutti i modi di far capire alla gente [...] è che questa è una strage di stato, nient’altro che una strage di stato. E vogliamo far capire anche che esiste un disegno ben preciso che non fa andare avanti certe indagini, non fa andare avanti questi processi, che mira a coprire di oblio agli occhi dell’opinione pubblica questa verità, una verità tragica perché mina i fondamenti di questa nostra repubblica. Oggi questa nostra seconda repubblica è una diretta conseguenza delle stragi del ‘92».

te a 160 chilometri orari, in autostrada. C’è solo la mafia, dietro? Solo Giovanni Brusca, che, fra mille mezze verità e reticenze sulle complicità «esterne», si autoaccusa di avere premuto il tasto del telecomando che scatena l’inferno? Solo Pietro Rampulla, l’artificiere del commando, uno dei primi 24 condannati all’ergastolo, nei processi celebrati a Caltanissetta? C’è solamente la meticolosità artigianale di un gruppo di bombaroli improvvisati? Sono domande che i magistrati di Caltanissetta non hanno mai smesso di porsi. Ma un livello diverso da quello dei mandanti e degli esecutori mafiosi non è mai emerso nei processi: e così una sfilza di ergastoli, 30 in tutto, colpirà la Commissione di Cosa nostra, con Totò Riina e Bernardo Provenzano in testa; e poi, fra gli altri, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Raffaele Ganci, Francesco Madonia, il catanese Nitto Santapaola, il nisseno Giuseppe «Piddu» Madonia. I processi vanno e vengono dalla Cassazione: solo nel 2008 arriverà l’ultima parola, quella definitiva. Cinquantasette giorni dopo Capaci, via D’Amelio. Mentre la politica esita sulla conversione in legge di un decreto che istituisce il carcere duro, i mafiosi danno prova di una spocchia senza eguali. Si scatena la protesta della società civile, ci sono disordini ai funerali dei cinque agenti di scorta mor-


ti con Borsellino. Pochi giorni dopo quel tragico 19 luglio, il 13 agosto, il Sisde mette la polizia sulle tracce di un gruppetto da corte dei miracoli, ladruncoli e piccoli spacciatori, fra cui spicca Vincenzo Scarantino, un picciotto del quartiere della Guadagna. Convinto a suon di botte dal gruppo investigativo Falcone-Borsellino, guidato da Arnaldo La Barbera, diventerà in breve tempo l’uomo-chiave dell’inchiesta: si autoaccuserà, ritratterà, tornerà ad accusare e di nuovo si rimangerà tutto. Gli altri pentiti, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca, Santino Di Matteo, Gioacchino La Barbera, lo smentiranno. Ma il guazzabu-

glio giudiziario produce comunque condanne, che arrivano in primo grado già il 27 gennaio 1996. Verranno poi altri processi, il bis e il ter, fondati su altri presupposti: le condanne alla fine saranno 32. Verrà infine il pentito Gaspare Spatuzza, ritenuto molto più attendibile: racconta la vera storia dell’attentato, scagiona il clan della Guadagna e coinvolge i boss di Brancaccio, i Graviano. Spatuzza parlerà di un livello più elevato, rilancerà i sospetti (già archiviati, a Caltanissetta e a Firenze) contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, ancora una volta indicati come «mandanti occulti». Non verrà creduto. Cosa ci fu, allora, dietro il «colossale depistaggio» individuato da Lari? Il dolo dei Servizi deviati? E perché? Una ragione c’è, secondo i magistrati. Nei 57 giorni che separano le due stragi i carabinieri del Ros prendono contatti con Vito Ciancimino, attraverso il figlio Massimo. L’ex sindaco mafioso di Palermo, secondo la versione del capitano Giuseppe De Donno e del generale Mario Mori, accetta di dare indicazioni sulla ricerca dei latitanti, Riina in testa. Ma il canale, secondo Mori e De Donno, rimarrà dormiente fino ad agosto, dopo la strage di via D’Amelio. Diversa la versione di Ciancimino jr, che dal 2008, dopo essere stato condannato per avere fatto sparire il tesoro delle tangenti del padre, avvia una controversa collaborazione con la Procura di Palermo: i contatti col Ros, racconta, ben prima di via D’Amelio avrebbero prodotto abboccamenti. La mafia avrebbe posto allo Stato le condizioni per interrompe-

re l’attacco a suon di bombe, scrivendole nel cosiddetto papello. La versione di Ciancimino coincide, in parte, con quella di Brusca, il primo a parlare di quei presunti approcci e a tirare in ballo l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino. Il figlio dell’ex sindaco mafioso risveglia le memorie: Claudio Martelli, Liliana Ferraro, gli ex pm Massimo Russo Alessandra Camassa aggiungeranno tasselli che portano oggi i pm di Palermo e di Caltanissetta a parlare di un Borsellino assassinato per avere scoperto la trattativa e per avere cercato di fermarla. Ciancimino poi farà carte false per dimostrarsi inattaccabile, ottenendo l’effetto diametralmente opposto. Ma restano le indagini sulla trattativa e il processo in cui Mori è accusato di avere favorito Bernardo Provenzano, che sarebbe stato «ringraziato» con una specie di protezione di Stato per avere consentito, alla fine dell’annus horribilis delle stragi siciliane, la cattura di Totò Riina. Poi ci sono i dubbi e i veleni sulla seconda parte della trattativa, nel ‘93, l’anno in cui le bombe sarebbero state piazzate per eliminare o ammorbidire il carcere duro, il 41 bis. Una storia che secondo i pm di Caltanissetta è solo una vergogna di Stato, non punibile, e per i magistrati di Palermo merita invece un processo per un concorso nell’assalto alle Istituzioni e, in qualche caso, anche solo per le dimenticanze e le reticenze istituzionali di chi lo Stato assediato avrebbe dovuto difenderlo. RICCARDO ARENA

Ecco la valigetta di Borsellino La conserva il maggiore Canale Ricompare dopo vent’anni e diventerà un cimelio da osservare al «museo della legalità» (aperto lo scorso 3 settembre 2012) presso la Legione dei carabinieri di Palermo la borsa del giudice Paolo Borsellino. Proprio la borsa sparita e ritrovata dopo la strage di via D’Amelio priva della famosa Agenda rossa, da allora introvabile.Si è scoperto che nel 1992 la vedova, Agnese Borsellino, la donò all’allora maresciallo Carmelo Canale, l’uomo ombra del magistrato che oggi, dopo tanti sospetti, processi e assoluzioni, la dona al museo nella Legione dove, dopo una sorta di «esilio» calabrese, adesso lavora col grado di maggiore. L’AGENDA SPARITA - La foto della borsa, sforacchiata com’è dall’effetto bomba, campeggia sulla prima pagina di “S”, il magazine del gruppo I love Sicilia, dove viene raccontata la storia di questo prezioso cimelio finito nelle mani dell’ufficiale incriminato dalla Procura di Palermo e poi sempre assolto, nonostante venti pentiti abbiano tentato di trasformare Canale in un infido collaboratore del giudice ucciso meno di due mesi dopo il massacro di Giovanni Falcone. «Fu la signora Agnese Borsellino a donarla a mia figlia Manuela...», rivela Canale lasciando inquadrare al fotoreporter Luigi Sarullo il fronte della borsa devastato dall’esplosione, al contrario della parte posteriore e dell’interno, perfettamente intatti. Questo significa che doveva essere integra l’agenda rossa contenuta in uno degli scomparti con gli appunti di Paolo Borsellino, con i riferimenti ai filoni su mafia e appalti, a tangentopoli e ai contatti avuti nelle settimane preceden-

te con fonti tedesche per contattare un pentito agrigentino. INDAGINI TARDIVE - «Ancora prima degli ingiusti sospetti rovesciati sulla mia persona, nemmeno la magistratura di Caltanissetta volle ascoltarmi quando dicevo che l’agenda rossa i numeri di telefono delle persone contattate in quelle settimane, che le ragioni della strage andavano cercate nel filone mafia appalti, ma si cominciò a indagare su tutto questo troppo tempo dopo», rivela Canale allo scrittore Aldo Sarullo che ne raccolse il primo disappunto.E l’ufficiale rincara la dose oggi: «Il dottore Borsellino aveva perfino in pubblico che attendeva di essere interrogato su Capaci, sulle notizie che lui aveva in relazione agli appalti, ma i magistrati di Caltanissetta non lo convocarono mai. Non solo, ma invitò a cena una sera a casa sua uno dei sostituti che indagavano e non servì a nulla...». Si riaccendono così i riflettori su questa introvabile agenda della quale esiste una copia, come mostra Canale: «Eccone una uguale. ‘Agenda dei carabinieri 1992’. Quando lavoravamo a Marsala, il dottor Brosellino come procuratore, io come suo stretto collaboratore, ce ne regalarono due...». SOSPETTI SUGLI INQUIRENTI - I sospetti più pesanti coinvolsero il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, inquisito dopo che erano state trovate delle foto in cui figurava a due passi dall’auto di Borsellino mentre si allontana dalla scena del delitto con la borsa in mano. Una vicenda giudiziaria chiusa con un proscioglimento. Nessuno ha mai spiegato come quella stessa

borsa sia ricomparsa vuota, repertata dall’allora capo della Mobile Arnaldo La Barbera, consegnata agli uffici giudiziari e, dopo qualche tempo, restituita alla signora Borsellino e ai suoi figli, compreso Manfredi, oggi funzionario i polizia. IL DONO DI AGNESE - L’odissea giudiziaria ha comunque incrinato i rapporti tra la famiglia e Canale. La signora Borsellino nel ‘92 aveva grande considerazione del maresciallo, a sua volta oggi triste nel ricordo di una tragedia privata: «Mia figlia Antonella era stata uccisa da un tumore e mia figlia Manuela veniva a trovarmi in ufficio a Marsala, all’uscita da scuola. Quando andavamo tutti via, Paolo Borsellino che aveva amato Antonella come un padre e stravedeva per Manuela la coinvolgeva: ‘Prendi tu la borsa’. E lei ci seguiva, con la scorta. Si, quella borsa di cui abbiamo poi tanto parlato la portava Manuela, fiera di essere utile...». La stessa che l’ufficiale è pronto a portare al piano terra della Legione dove il 3 settembre, nel trentesimo anniversario di un’altra devastante strage, quella del generale Dalla Chiesa, alla presenza della figlia Rita, è stato inaugurato un piccolo ma prezioso museo della legalità. Un dono oggi apprezzato da Manfredi Borsellino: «Mia madre donò quella borsa alla quale teneva soprattutto la piccola Manuela. Andammo a casa loro. La bimba la teneva in camera sua. Toccante. E l’idea di esporla al museo dei carabinieri è una gran cosa...». Un simbolo fra tanti cimeli, compresa l’altra «Agenda rossa 1992», gemella di quella introvabile, oggi ancora sulla scrivania del maggiore Canale. FELICE CAVALLARO

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Paolo Borsellino si laureò a 22 anni con una tesi su «Il fine dell’azione delittuosa» con relatore il professor Musotto

fonti http://www.wikipedia.org http://www.apoftegma.it/ http://www.giuseppebommarito.it http://www.quirinale.it http://www.liberanet.org http://cinquantamila.corriere.it http://www.pensieriparole.it http://www.19luglio1992.org http://www.ecorav.it http://palermo.repubblica.it http://www.piolatorre.it http://iverieroi.blogspot.it http://www.corriere.it http://www.ilfattoquotidiano.it http://antimafia.altervista.org http://www.roundrobineditrice.it http://www.beppegrillo.it http://www.lastampa.it www.giornalettismo.com progetto grafico e impaginazione vani@rt design


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traCCe di uomini

pAoLo BorSELLINo

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