Il Mito del Vero Situation

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Più del frammento, ma non ancora paesaggio. Possibile abstract pubblicitario di un concetto, quello di situazione, che la lingua inglese efficacemente giustappone, quale suo sinonimo, al termine atmosphere. Concetto camaleontico, sfocato, sviante. Proprio per questo attrattivo, intellettualmente fertile. Il paradosso del situazionismo sta nel suo suffisso. Come comporre un‘idea di visione se si esalta l‘assenza di intenzionalità nel culto della percezione sfiorata, del frame sottratto all‘incosapevolezza, dello scorcio dimenticato da riscattare dalla reificazione immaginale, da liberare dalla dittatura dello standard? Cosa vuole insegnarci la pittura situazionistica oggi riemergente con i suoi interni di case, letti sfatti, arredi, gruppi sparsi di oggetti, cibi, beni di consumo? Che la soglia e l‘intercapedine sono la radice dell‘esserci? Che ogni rappresentazione ed espressione artistica opera per decapitazione, formula e riformula mondi per elusione/erosione, come nella Genesi Dio crea le forze e gli elementi cosmici tramite atti di separazione? I luoghi di confine, borderline, forse si rivelano le più efficaci matrici di identità e di identificazione, come se nell‘ombra degli interstizi covasse il mistero generativo. Il gioco dei tempi, l‘incrocio delle percezioni, la generatività della ripetizione, portano un insieme di immagini, impressioni, relazioni da uno status ad un altro. Quel che, volenti o inconsapevoli, contribuiamo ad offrire e ricevere dal e all‘ambiente, almeno a livello di rappresentazione e linguaggio, è come se lo ricevessimo od offrissimo a Dio. La scena è sempre una scena mundi, uno spaziotempovivibile, una possibilità di abito, che lo stesso Saturno conduce occultamente fra Aiòn e Kronos. Come Mario Praz ha reso ragionamento filosofico lo studio della storia dell‘arredamento, compiendo un‘operazione intellettuale simile alle funzioni morfologiche di Propp nell‘analisi delle fiabe o all‘approccio di Marie-Louise Von Franz al “femminile” nella fiaba, così ARCAdiA cerca di entrare nell‘approfondimento delle tendenze artistiche andando oltre il concetto di stile e di tecnica per soffermarsi sulla reinvenzione/riposizionamento di percorsi ideativi e immaginali nei mondi dei significati. Non per il gusto di generare dispersivi elenchi ma per aiutare chi cerca di salvare l‘Imago, vero speculum sapientiae, dalla sterile serialità, dalla contraffazione disanimata. Giacomo Maria Prati

Paolo Lesino


Progetto culturale e coordinamento

arcadiarte.org | mail@arcadiarte.org

Guida alla lettura la sequenza delle opere si sviluppa secondo un percorso iconologico implicito che inizia con il concetto di Scena, si sviluppa nella dimensione dell´Habitat ed evolve nel carisma dei Relitti. Patrocinio

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Via Traversa dei Ceramisti, 8 17012 Albissola Marina (SV) Tel. +39 019 4500659 Fax + 39 019 4500744 www.vanillaedizioni.com ISBN 978-88-6057-124-3 Layout Giordana Ranieri Testi Domenico Piraina Giorgio Lodetti Francesco Correggia Giacomo Maria Prati Paolo Lesino Vera Agosti In copertina (fronte e retro) Leonardo da Vinci Ultima Cena (particolare) Refettorio di Santa Maria delle Grazie, Milano © Haltadefinizione Image Bank per gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici, Milano

Ringraziamenti Alberto Artioli Giovanni Mongini Domenico Piraina Giorgio Lodetti Francesco Correggia Vera Agosti Stefano Gagliardi Paola Forni Antonio Battaglia Guido Peruz Silvia Riva Il Settore Cultura e Beni Culturali della Provincia di Milano

Stefano Valera Enrico Arona Pippo Mancuso Salvatore Tolomeo Vincenzo Mirarchi Giordano Ciapponi Roberto Maio Marco Raiteri Ornella Piluso L‘Ufficio Manifestazioni, il Settore Cultura e lo IAT del Comune di Tortona

Crediti e Courtesy Galleria Gagliardi, San Gimignano • Galleria Forni, Bologna • Ca' di Fra', Milano • Galleria Antonio Battaglia, Milano • BonelliLab, Mantova • AndreA Arte Contemporanea, Vicenza • mc2 Gallery, Milano • Collezione Guido Peruz • Collezione Tralli, Mirandola Copyright © 2011 Vanilla Edizioni © 2011 Per i testi gli autori

Volume stampato per conto di Vanillaedizioni da Erredi Grafiche, nel mese di giugno 2011. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l‘autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell‘editore.


Andy Silvia Argiolas Gabriele Armellini Agostino Arrivabene Carla Bedini Maurizio Bottoni Paolo Brenzini Gabriele Buratti Vesna Bursich Carlo Cane Roberto Coda Zabetta Gianluca Corona David Dalla Venezia Aldo Damioli Emanuele Dascanio Marica Fasoli Manuel Felisi Michelangelo Galliani Omar Galliani Stefano Garrisi Lorenzo Giandotti Andrea Giovannini Emanuele Gregolin Claudio Magrassi Marco Martelli Alessandro Marziano Matteo Massagrande Sabrina Milazzo Ilaria Morganti Elena Mutinelli Nicola Nannini Claudio Onorato Raffaello Ossola Angelo Palazzini Stefania Pennacchio Annalisa Pirovano Paolo Quaresima Roberto Rampinelli Iacopo Raugei Fulvio Rinaldi Elisa Rossi Alessandro Russo Doriano Scazzosi Roberta Serenari Pietro Signorelli Daniel Spoerri Mariarosaria Stigliano Walter Trecchi Federica Varotto Dany Vescovi Federico Vescovo Conor Walton William Marc Zanghi Aura Zecchini

IL MITO DEL VERO S I T U A T I O N

Giacomo Maria Prati

Paolo Lesino

a cura di Giacomo Maria Prati e Paolo Lesino

Spazio Guicciardini Milano 15 giugno | 8 luglio 2011 Palazzo Guidobono Tortona 18 giugno | 13 luglio 2011

Progetto culturale e coordinamento ARCAdiA


Il Cenacolo di Leonardo vive di una propria vita fatta

di letture, rivisitazioni e riconfigurazioni culturali che periodicamente sostanziano e rinnovano la dialettica della comunicazione artistica. L’arte antica si riposiziona in una nuova stagione comunicativa e metartistica che la valorizza quale manifestazione di una piena sintesi semantica, oggi assente, e quindi ipso facto metafora universale della reattività dell’arte quale veicolo di sensibilità ed emozione trasversale, situazionistica! Non solo realtà testimoniali quindi, ma, specialmente, fatti comunicativi. Un “uso” creativo dell’immagine artistica che nel Mito del vero appare discreto, letterale, “antifunzionale”, esempio, che vuol mostrarsi limpido e rispettoso, di quell’appropriazione di coscienza a cui ci richiama sempre il nostro grande patrimonio artistico. L’ingrandimento degli oggetti della tavola leonardesca evidenzia la fisicità murale del dipinto nell’emotività diacronica della sua unicità. La tavola diventa una situazione narrativa intensa che, obliando per un attimo il suo essere frammento visivo del Cenacolo, ci restituisce lo stupore e l’attrattività di un capolavoro che non cessa, per quanto massimamente studiato e tutelato, di coglierci piacevolmente in contropiede dall’alto della sua inesauribile ricchezza espressiva, linguistica. Una suggestione e uno stimolo vivace anche per l’arte contemporanea che, nell’attualizzazione del valore spirituale del Cenacolo, può ritrovare un terreno fertile di riflessione, come è accaduto, nella diversità dei linguaggi, nella Sala delle Cariatidi quando il Cenacolo ha assunto nuovi abiti percettivi grazie alla performance artistica di Peter Greenaway. Non possiamo quindi non sottolineare l’attualità performativa e critica dell’esperienza unica e specialissima dell’Internazionale Situazionistica di Guy Debord, l’ultimo grande movimento culturale europeo ed italiano che per primo ragionò criticamente e creativamente sulla società di massa e sulle sue contraddizioni patologiche. ARCAdiA ha colto un aspetto del Situazionismo, riattualizzandolo: l’ironia del ribaltamento nella sua sfida audace per salvare l’immagine e la capacità immaginale a fronte della serialità

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deprimente dell’industria della comunicazione. L’ambiente e l’ambientazione, dove non c’è soluzione di continuità fra vita e arte, cioè il sogno utopistico dei Situazionisti ma anche l’illusione efficace di ogni vera arte, ridiventa così protagonista narrativo anche nell’arte pittorica, materialmente la più tradizionale nel suo attuale ritorno alla figurazione. Una provocazione che auspichiamo non sia lasciata cadere insieme alla memoria della più paradossale e multiforme corrente culturale del mondo postavanguardistico alla cui sobria e sincera celebrazione, priva di anniversari in quanto situazionistica in se stessa, non posso che associarmi.

Domenico Piraina


…un'emancipazione reale dei piaceri… Non i piaceri commercializzati, ma un «godimento senza limiti». Insomma: la liberazione dei costumi dell'epoca. Guy Debord

La seconda fase di una mostra scoperta per caso mi vede coinvolto in prima persona, e ne sono piacevolmente partecipe. Occasionalmente nel giugno dello scorso anno ho visitato l‘esposizione di Palazzo Durini a Milano, Mito del Vero. Entrando nelle sale dello storico Palazzo, ho notato con meraviglia un‘esposizione che rendeva omaggio ad artisti affini al mio modo di vedere, giudicare e comprendere l‘attuale situazione contemporanea. Affianco a nomi di artisti amici o conosciuti ho potuto vedere ed apprezzare autori nuovi e talentuosi. Sempre in pellegrinaggio tra fiere, happening, mostre e rassegne d‘arte in una ricerca costante di giovani artisti sono rimasto sorpreso nel constatare l‘operato di questa nuova associazione culturale di promozione artistica: Arcadia, diretta da Paolo Lesino e Giacomo Maria Prati. I pregi dell‘esposizione sono di aver selezionato Artisti di buon livello tecnico ed espressivo, dando quella sensazione, ormai rara e inusuale per questo genere di manifestazioni, di appagamento e di comprensione. Risalta la presenza di autori giovanissimi di qualità insieme a firme note nel panorama nazionale ed internazionale, che propongono uno spaccato di indiscusso valore culturale della produzione artistica contemporanea. Dopo aver visitato la mostra mi sono sentito in dovere di conoscere personalmente gli organizzatori di cui avevo già sentito parlare. L‘incontro è stato piacevole e a pochi giorni dalla mostra mi sono incontrato più volte con Giacomo al quale ho offerto la mia piena collaborazione per futuri eventi. In seguito sono stato incaricato di selezionare una dozzina di Autori per Mito del Vero Situation! La rassegna prevede l‘esposizione di 54 artisti su due sedi pubbliche a Milano e Tortona. Ho voluto per l‘occasione comportarmi come di solito mi è più congeniale, in riferimento alle mie segnalazioni ho affiancato nomi noti a livello nazionale, vedi Arrivabene, Bottoni, Cane, Corona, Rampinelli, Rinaldi a giovani artisti di evidente qualità quali Buratti, Bedini, Dalla Venezia, Dascanio, Trecchi,…

Il piacere si rinnova ad ogni manifestazione culturale che ha per scopo il diffondere, al maggior numero di appassionati e non, l‘operato dei nostri Artisti contemporanei, che proseguono con tenacia e caparbietà la loro estenuante ricerca del bello legato alle antiche tradizioni artistiche ereditate dai grandi Maestri del passato. Oggi dove l‘Arte “ufficiale” si è piegata alle esigenze della globalizzazione divenendone parte integrale, dove il valore commerciale determina il piacere individuale, più costa più è bello, dove se non compari su riviste, quotidiani e televisioni non esisti e non sei giudicato e giudicabile e dove ormai la critica è “padrona e arteficie” delle opere stesse, il partecipare e l‘essere fautore di queste esposizioni mi soddisfa! Grazie a Giacomo e Paolo per avermi dato questa occasione pubblica e a tutti gli artisti che hanno accettato l‘invito a partecipare alla rassegna che è e sarà giudicabile a qualsiasi livello di conoscenza da tutti i visitatori e sicuramente notevole per le indiscusse qualità artistiche individuali e tangibili delle opere degli Artisti presenti!

Giorgio Lodetti

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A proposito del Situazionismo Francesco Correggia

Riparlare di Situazionismo oggi sembra quasi come voler resuscitare uno spettro, affrontare uno dei momenti più radicali della modernità, l‘ultima spiaggia del Surrealismo o meglio di quel che restava delle Avanguardie, di una concezione della storia ancora romantica, fatta di rotture con la tradizione, di passi in avanti progressivi. Tuttavia dobbiamo dover dire che quel che si manifestò con il situazionismo fu, non solo una spinta che rispondeva ad un‘immaginazione lucida, sorprendente, in rivolta, feconda, la quale finì per preparare la strada al sessantotto ma fu anche una rottura epistemologica profetica, un‘analisi della società spettacolarizzata, non senza conseguenze sul piano della critica politica allo sviluppo planetario della circolazione mediale. Come tutti sappiamo l‘Internazionale Situazionista nasce il 28 luglio 1957, a Cosio D‘Arroscia (Imperia), con la confluenza di alcuni membri dell‘Internazionale Lettrista, del Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista, del Movimento CO.BR.A e del Comitato Psicogeografico di Londra. Il caposcuola del Situazionismo fu Guy Debord, il quale partecipò alla fondazione del movimento insieme a Giuseppe Pinot Gallizio, Piero Sismondo, Elena Verrone, Michele Bernstein, Asger Jorn e Walter Olmo. Il movimento finì per esaurirsi nel 1972 per volontà dello stesso Guy Debord che spiegherà questa rottura nell‘opuscolo: La veritable, scissione nell‘Internazionale, con queste parole: I situazionisti sono dappertutto e i loro scopi ovunque. In realtà esso si esaurì per l‘elevato numero di persone che volevano aderire senza avere una minima idea di che cosa fosse il situazionismo. Ciò fa anche capire quanto fosse importante e drasticamente forte la loro spinta teoretica, politica e sociale. Vale la pena sottolineare quanto lo stesso movimento proprio in virtù di una costante messa in discussione e di una ipercritica non solo al sistema dell‘arte ma anche al marxismo, (si veda in questo senso l‘importanza data da Debord agli scritti del giovane Lukacs, le cui posizioni espresse in: Storia e

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coscienza di classe si differenziavano sensibilmente da quelle del marxismo ufficiale), abbia influito su quei movimenti che vanno sotto il nome di Happening, Performing arts, Fluxus, Body Art. Anche se quei movimenti non furono esattamente situazionisti, nel senso di un concetto di situazione legato a quello di “urbanismo unitario“, che riguardava non solo la struttura urbana, ma anche il comportamento dei cittadini rispetto a modi di esistenza alternativi, rivoluzionari, di gioco, di nomadismo, di avventura, tuttavia essi furono accadimenti di situazioni, performances dell‘istante, da e per il luogo, nel luogo della situazione, nel sito dell‘azione e del suo accadimento temporale. Ciò che caratterizzò le performances o gli happenings di quegli anni fu proprio una tendenza ad azioni tendenti ad attivare liberi momenti di vita vissuta, deliberatamente costruiti e che prevedevano un‘organizzazione collettiva di ambienti unitari di comunicazione e conversazione, differenti situazioni di spazi condivisi. Il luogo diventava la matrice dell‘opera che a quel punto finiva per essere l‘evento stesso dell‘accadere, il rappresentante stesso del luogo, dello spazio, del corpo, della situazione. Il Gioco verso cui si tendeva era quello della smontaggio e della ricostruzione, della denuncia e della riappropriazione. L‘obiettivo situazionista, come quello della teoria critica francofortese, fu quello di elaborare l‘ipotesi di una critica radicale in una società caratterizzata da due principali aspetti: la derealizzazione (il mondo vive nelle immagini del mondo) e la pluralizzazione (grandi masse "atomizzate", come si usava dire, abitano il pianeta). Purtroppo i gesti che volevano essere contro sono poi diventati gesti di integrazione. Proprio perché i situazionisti volevano realizzare il superamento dell‘arte come linguaggio separato, paradossalmente per fare questo essi dovevano ricorrere ad interventi e a operazioni che ricreavano quell‘arte da superare, da ribaltare per un senso più politico del fare. Ciò a dimostrazione di quanto lo spettacolo fosse in grado di


assorbire qualsiasi forma di opposizione facendola propria. Le teorie e le modalità del situazionismo, dopo un periodo di quasi completo oblio, sono state riscoperte di recente, in parte nel quadro del post-moderno, in parte perché gran parte dell‘arte contemporanea e soprattutto la realtà virtuale, la telematica tele satellitare hanno fatto riemergere le teorie di cui scriveva Guy Debord nel suo libro La Società dello spettacolo del 1967. Teorie che partendo proprio, dagli scritti giovanili di Marx, dall‘analisi di Lukacs e dagli scritti di Adorno e Horkheimer introducono un elemento fondamentale rispetto al dibattito politico di quegli anni: il consumo e la trasformazione del consumatore in spettatore. Il proletario diventa in Debord consumatore e spettatore dello spettacolo integrato. Che cosa rimane ora di quelle idee, di quelle pratiche, oltre al fatto che ci troviamo in una società dove si è avverato l‘incubo di una società che riassume nel presente tutti i simulacri, ripete tutte le opere successive, è incline alla simulazione e alla duplicazione della realtà? E l‘arte è ancora quel gesto poetico di rottura ontologica che, attraverso il gioco mirava ad una trasformazione radicale dell‘esistente, il che voleva dire una reversibilità dei significati e una critica del dominio del linguaggio o del linguaggio del dominio? Debord è stato profetico proprio nel prevedere la progressiva smaterializzazione del reale della società di oggi: “Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”. E non solo anche sulla questione dell‘immagine Debord dice qualcosa di assolutamente nuovo rispetto, non solo al suo tempo, ma anche al nostro. Nella società telematica, nella realtà virtuale, e delle telecomunicazioni satellitari noi non abbiamo più un impatto diretto con la realtà. Lo stare nella dimensione del reale, nel mondo della società spettacolarizzata, vuol dire portare in primo piano l‘immagine piuttosto che le cose, vuol dire che il reale ha lasciato il mondo per lo schermo e che il reale stesso è sparito, nel senso che esso non è solo copia, illusione, immagine del reale, quel reale verso cui la rappresentazione prima tendeva ma cosa possibile, possibilità in nuce che fa corpo, altro corpo che diviene, costruisce e duplica mondi. La rappresentazione del mondo, come visione di un orizzonte attraverso cui appariva e si mostrava la verità, linea e confine fra ciò che è e ciò che non è; esperienza e problema cui il

mondo stesso soggiaceva, finisce ora per svanire, annichilirsi in una struttura smaterializzata, in una superficie piatta dove tutto può essere possibile e dove l‘immaginario circola nelle reti mediali, cibernetiche e tecnologiche. Tutto è mescolato e non ha più senso tracciare una linea di confine fra il sopra e il sotto, fra l‘apparenza e la realtà, il vero e il falso. Da lavoratori produttori siamo diventati tutti consumatori felici, spettatori contemplanti in un mondo dove lo spettacolo ipertecnologico ha realizzato il paradosso della rivoluzione, la sua utopia. In tali condizioni è ovvio che un‘opposizione diretta, una forma di ribellione e di rivolta è impossibile: impossibile fronteggiare e sconfiggere l‘irreale attraverso la critica del dominio del linguaggio e viceversa. Proprio perché il mondo non è più immaginabile ma è ed accade in immagine, poiché ciò che non c‘è esiste solo in forma simulacrale è impossibile una coordinazione delle forze in gioco, tale da determinare una qualche forma di “dialettica“ politico-sociale. Mentre il situazionismo elaborava nuovi strumenti di lotta, e di espressione artistica, tali da produrre la “disalienazione“ di un mondo pieno di risorse, ma incapace di utilizzarle, ora questi strumenti sono inefficaci proprio perché siamo tutti nello spettacolo che è diventato così l‘episteme del nostro tempo. Forse dovremmo concludere con Debord che solo il silenzio è capace ancora di dire qualcosa, di sconfiggere lo spettacolo. Quello che rimane da dire è nel non detto, in ciò che non si può dire, nell‘indicibile o se si deve dire lo si può dire con il balbettio, incespicando in un dire fluttuante e pieno di interruzioni, sospensioni, silenzi. L‘evoluzione del situazionismo forse non è tanto un episodio storicamente circoscritto, ma piuttosto uno stile di vita, un‘impostazione politico-programmatica che porta a nuove relazioni e sconfinamenti, ad un nuovo spazio estetico o ancora di più a confrontarsi con delle aporie; quelle della storia e del suo confine, dell‘irrealtà e la descrizione del presente, del potere e l‘immaginazione, del danaro e dello spirito. Se il mondo è da rifare per divenire ciò che è dobbiamo ripartire da una genealogia dei sensi del mondo, da una ridescrizione del senso delle cose, dalla storia, a partire da ciò che è, da ciò che abbiamo sorprendemente lasciato in ombra, sottaciuto e forse abbiamo ancora sotto gli occhi.

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La situazione del situazionismo Giacomo Maria Prati

Il momento in cui finisce il rumore della centrifuga della lavatrice. Francesco Piccolo, Momenti di trascurabile felicità Col treno delle 12 e zero quattro non è arrivata Con il treno delle 14 e cinque non è arrivata Dal treno delle 16 e 23 non è sceso nessuno. Guido Ceronetti, La pazienza dell‘arrostito Il rumore della vita aveva offuscato, demolito la presenza fisica di lui. Né altro aveva potuto mai ricordargliela. Tanto meno i figli. La devota opacità dei suoi due figli superstiti la immalinconiva. Enzo Siciliano, I bei momenti

Dopo una mostra sul perenne ritorno del ritratto su cosa potevamo scagliare la forza suggestionante de “Il Mito del vero”? Forse qualcosa è in me inconsciamente iniziato quando per caso incontrai l‘artista spagnolo Josè Manuel Ballester in Soprintendenza, a Milano. Il pittore chiese l‘autorizzazione, concessa, ad utilizzare l‘immagine del Cenacolo di Leonardo da utilizzare per creare una nuova opera della sua serie Espacios ocultos nella quale rielabora digitalmente i capolavori dell‘arte antica, semplicemente sottraendo le figure umane per restituire immagini nuove, puri fondali, che ci parlano per oggetti e situazioni. Operazione di archeosofia futurista, imitata, maldestramente, già da un altro artista sulla Gioconda e opposta ma analoga a quella di chi si include in celebri opere d‘arte. Questi esempi mi hanno portato a riflettere sull‘ultimo movimento culturale e artistico internazionale nel quale l‘Italia ebbe un ruolo, e non minoritario, con Pinot Gallizio, Baj e la “Pittura nucleare”: il Situazionismo. Il suo scopo era totalmente performativo: rigettare la “società dello spettacolo” che allontanava la vita e l‘arte dal senso del reale e dell‘atto in fieri nella reificazione standardizzata e massificante delle emozioni e delle espressioni, per ricreare, “giocando”, situazioni e ambienti favorevoli all‘arte quale genesi profonda, totalizzante, vitale, inclusiva e nel contempo propulsiva, quale momento di vita, concretamente e deliberatamente costruito attraverso l‘organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco d‘avvenimenti. Il tema non può che tornare di 08

attualità oggi, data la sconfitta storica del Situazionismo quale movimento di critica e di generazione, del tutto assorbito da quell‘onnivoro Mercato che aveva preteso di sfidare, in quanto il culto della situazione, del frammento assolutizzato, del frame centralizzato, si è imposto, televisorialmente, quale modus vivendi sia nella cultura dell‘arte che in una società ormai quasi del tutto immaginale e immaginifica, almeno a livello di aggregazione comunicativa, di medium condiviso. Si tratta però di una immaginalità povera, spezzata, “usata”, come già per primo aveva capito Guy Debord, in quanto l‘imago appare ridotta a mera res, la significazione implosa a signum autoreferenziale, orfano di una rete e di una struttura semantica più ampia della propria esistenza effimera, del proprio spot. Se tutto è situazionistico allora tutto è equivalente nel valore dell‘immagine, mutando solo le combinazioni in un elenco di operazioni già date, e quindi nulla è significante, residuando il significato solo nelle modalità di un effettismo funzionale. Solo il rito dell‘applauso, o della rara denigrazione, interrompe un flusso performante già preprogrammato. Il G8 di Genova ad esempio è stato fenomeno situazionistico, anche estetico e performativo, nel quale il situazionismo anarchico è stato sconfitto, anche nel lascito massmediatico, dal situazionismo del Potere. Una reciproca legittimazione. Ciò che è sembrato spontaneo si può apprezzare infatti quale risultante di due opposte programmazioni in e del conflitto. Fenomeno televisivo. Ma proprio il G8 visto dall‘arte ci rende ancor più prezioso,


del situazionismo, l‘urgenza della riflessione e della ricerca sui fondamenti dell‘arte, l‘impegno etico ed esistenziale, il recupero simbolico del barocco quale dimensione organica e propulsiva di vita, quale categoria chiaroscurale dell‘anima. In questa logica ARCAdiA rilancia la pittura figurativa, quale vera pro-vocazione, quale chiamata di valore per l‘unica arte che, proprio per la sua tradizionalità e fisicità intrinseca, ha resistito maggiormente ad ogni moda dissolutoria, ad ogni tendenza disgregativa, conservando in se stessa una semanticità che porta inevitabilmente ad un percorso ricostruttivo, unitario, ideale. La battaglia culturale del Situazionismo può essere paradossalmente ripresa oggi proprio dall‘are figurativa e dalla scultura. I mondi dell‘installazionismo pagano un vuoto linguistico di partenza. L‘installazione è performativa a livello strutturale, tecnico, materiale. Questo dato frena una performatività espressiva più profonda, che vada al di là dell‘arte quale mero fatto comunicativo, quale mera escrezione che finisce nel suo apparire. Il Mito del vero II risponde con una scelta semplicissima, in negativo: solo opere pittoriche senza figure umane o viventi, e senza l‘idea del paesaggio. Abbiamo così due mostre che affascinano attraverso oggetti, situazioni, scorci. Scena, Habitat, Relitto, appunto. Possiamo porci come in un processo di assimilazione e penetrazione nell‘immagine, in una stessa immagine che, nel tempo, appare quale scena, si evolve in habitat, e residua quale relitto. Tre sguardi, tre dialettiche. Si recupera così la situazione quale Mito, sfinge e arcadia, quale strumento di conoscenza e ricostruzione del senso del reale. E tutto ciò sfidando l‘installazionismo (moda che è ideologia) nel suo stesso campo: l‘assenza apparente di intenzionalità, il deficit di soggettività. La situazione diventa matrice di valore, non solo nel gioco della sua riconfigurabilità quale traccia e orma di un vissuto di cui non appare il vivente, ma, specialmente, quale modulazione dell‘essere, rete narrativa, simultaneità di oggetti linguistici. Sarebbe risultato retorico imporre un percorso visibile: Colui che guarda può modulare la tripartizione di scena/habitat/relitto secondo la propria sensibilità in molteplici possibili percorsi di lettura tra e delle opere. La copertina è un omaggio concettuale sia all‘opera di Ballester che allo stesso Cenacolo di Leonardo. Ballester raggiunge l‘estremo limite mentale dell‘arte pop lavorando fisicamente sulla tradizione quale materia immaginale quale giacimento di fertilità. Una grande lezione etica e culturale che riassume per sottrazione e assenza il senso più puro

dell‘arte postmoderna, orfana delle avanguardie, fattesi diktat di conservazione modaiola, e, quindi, necessariamente ormai resasi iposperimentale recita di poetiche inesistenti. Ballester ci fa ironicamente riflettere sul rapporto fra opera e occasione, immagine e genesi estetica. Tutto ciò mi ricorda le parole di Vittorio Sgarbi alla conferenza stampa di Ritratti Italiani, citando Samorì e Donizzetti, sul timore proprio di molti pittori affermati di apparire “troppo figurativi”, per cui assumono pose pittoriche “sfigurazionali”. Ballester affronta di petto la quaestio della Tradizione ricreandola per sottrazione, generando valore e significato nella sua fedele e diretta distruzione e manipolazione. Questo modello di pensiero và applicato su ogni percorsi artistico figurativo. Non a caso i soggetti narrativi d‘ambiente rappresentano fiume carsico, un filo rosso, sempre più ritornante nell‘opera degli migliori pittori contemporanei. Il Mito del vero II non si limita ad un‘operazione di ritipizzazione di nuovi/antichi modelli narrativi riemergenti ma elenca il frammento e il microcosmo quale modulazioni di un medesimo Discorso, Mito quindi, sull‘essere, che appartiene alle radici della visione, e quindi dell‘arte. L‘approccio del Mito del vero è sempre un approccio iconologico, e non iconografico, e di un‘iconologia spirituale e non semplicemente morfologica. Il Romeo De Maio di Cristo e la Sfinge, più che il Panofsky di Saturno e la malinconia. Ripartire da quell‘immagine perdurante nel tempo, infinito temporale, profondità fisica, che è l‘opera pittorica/scultorea per ritornare agli immaginari, alle logiche e dinamiche partecipative e performative del linguaggio. Non più un situazionismo quale depotenziamento della tensione euristica e assimilativa, quale fuga rassegnata dal peso dell‘idealità, rinuncia al desiderio di comprensione, ma un nuovo Mito della Situazione quale Presenza viva, processante, interpellante, formante e in-formante. Processo vitale di concrescenza e ristrutturazione. Segni di sanguigne esplorazioni e approfondimenti di sguardi contemplativi, più che artificiali costruzioni di dominanza. Anche nelle situazioni oggettuali ritorna l‘epos della Significanza, il pathos della Partecipazione. Si giunge ad un livello sottotraccia proprio della creazione artistica. Quando una visione diventa autonarrativa? Quando e come si genera l‘illusione dell‘autosufficienza dell‘opera? Solo uscendo dall‘ancillarità dell‘arte rispetto all‘industria massmediale possiamo ridare spazio e autorità all‘arte stessa. Il camaleontismo tradisce la stessa provocazione. Paul McCarthy è artista di potere, non di trasgressione o innovazione,

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perché stigmatizza l‘osceno con il medesimo linguaggio, e quindi lo celebra, inverando e rinnovando la sconfitta storica del Situazionismo. Scena, habitat e relitti assumono allora il ruolo formante di movimenti d‘essere. La scena diventa una situazione aurorale, dinamica, aperta, ricca di una sua forza come di una sua ambiguità polisemica di lettura. L‘habitat si riconosce nelle opere situazionistiche in cui più incisivo appare il senso di autosussistenza narrativa. La rappresentazione diventa habitus. Il relitto appare quando il situazionismo quale compositività pittorica assume toni affettivi e lirici di abbandono, di lascito, testimoniali e, quindi, intenso si rivela il valore narrativo soggettivante pur nel paradosso della sua assenza figurativa. Un processo identitario uno e trino! Situation quale comunicazione di un racconto che parte dal frammento per tornare all‘idea di cosmo, e di un cosmo che si genera, con quel grande situazionista di vita che fù Kierkegaard, per ripetizione. Senza la categoria di reminiscenza o di ripetizione, la vita intera svanisce in un rumore vuoto e inconsistente. (Kierkegaard, La ripetizione) L‘orma come erma. Ciascun possibile è un ombra sonora (op.cit.) Ma senza entrare nell‘idea, religiosa, di paesaggio. Forse ci aiuta, nel distinguere fra Situation e paesaggio, Tarkovskij: La Zona è Zona, la Zona è la vita: attraversandola l‘uomo o si spezza o resiste. (Scolpire il tempo, Ubulibri) Il Mito quale Zona, scena in movimento che è data e resiste a prescindere dalle azioni che l‘attraversano. Non è il Mito greco un insieme caotico di innumerevoli rivoli situazionistici, dei quali rimane il gusto, il clima, l‘aura? Non è l‘Arcadia, e la stessa Sfinge, una situazione, un‘atmosfera, un ambiente? Ragionando su una possibile nuova poetica della Situazione, da rimitizzare, assistiamo ad un‘opera d‘arte che torna intima, e non più ideologicamente estroflessa, pubblica/ pubblicistica, incapace di vivere solitaria, nascosta, come nell‘installazionismo, vero “turismo esistenziale”. In quanto nasce esoterica, intima, segreta, l‘opera d‘arte si fa condivisibile. Non il contrario. Se nasce come eruzione pubblica allora finisce nel chiacchiericcio, nell‘inconcludenza e non richiama i tempi dell‘ermeneutica. Resta arte abortiva, estranea alla maieutica. La pittura d‘ambientazione non solo resiste all‘usura dei linguaggi ma resta nel profondo della purità della rappresentazione estetica salvando l‘esigenza della connettività semantica. Così Tamara salvò la sua pittura dal crollo della fase epica e gloriosa delle avanguardie: iniziando a dipingere interni di case! Situation chiama alla rigenerazione della relazionalità

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che sono ogni opera d‘arte. Come la “colonna spezzata”, figura religiosa e mitica, che, parlando anche per assenza, emblemizza il mistero che è ogni composizione. Di fronte al situazionismo culturale, da Dies Irae di Giuseppe Genna a Corpo di Tiziano Scarpa, dai racconti di Giulio Mozzi all‘hip hop, dalla Leggenda del pianista sull‘oceano tratta dal monologo Novecento del situazionista Baricco al fenomeno Luther Blisset/Wu Ming, da Austin Power alla moda dello splosh e del buildering, sorgano nella pittura Nuovi Situazionisti a contemplare lo sguardo pittorico, ad esaltare la Situazione contro ogni ismo. I tempi sono maturi, dopo le preziose chiamate del Mitomodernismo di Stefano Zecchi e del Secondo Rinascimento di Armando Verdiglione. A guardare più da vicino infatti l‘occhio trova quel senso che la celebrazione anticipata del nonsenso elude. Per questo abbiamo messo in copertina i dettagli dell‘anguilla e dell‘arancio della tavola del Cenacolo di Leonardo. Per rigenerare, senza sottrarre come Ballester, ma solo rifocalizzando, nuovo valore in un‘opera tecnicamente studiatissima, ma ancora incredibilmente vergine all‘iconologìa. L‘anguilla e l‘arancio diventano talismani affascinanti anche nel loro sfingeo mutismo, nell‘assenza assoluta di prova di un‘intenzionalità. La possibile polisemìa, anche esoterica ed ermetica, di questi due simboli viene allora dalla stessa reattività dell‘opera quale immagine, realtà situazionistica, autogenetica. Sono anguille e aranci che veicolano una loro dinamica, una logica fatta di intero/spezzato, alluso/ ostentato, tagliato, imbandito. Che i cinque spicchi dell‘arancio indichino il Pentateuco o le cinque scene della geografia sacra della Passione di Gesù secondo Giovanni non esclude il senso armonico immediato e il senso oggettuale di traccia e di modulazione di per sé narrante. Che l‘arancio sia un‘allusione alla pianta infissa da San Domenico sull‘Aventino nel 1220 o sia una citazione dei pomi edenici delle Esperidi o un riferimento esoterico al Cristo crocefisso nel colore del sole al tramonto, o all‘oro alchemico cotto insieme all‘anguilla cioè al solfuro di antimonio o stibio, non impedisce di lasciar respirare liberamente il senso aurorale del gioco fra chiaro acido e scuro aromatico, fra luce e tenebre negli elementi visti quale semplice natura recisa, cioè rappresentata. Dettagli che appaiono quale scena, habitat, relitto. Organismi umidi che rilasciano sugo, succo, liquido, come Gesù nell‘essudorazione di sangue del Getsemani che la malinconia del volto leonardesco di Gesù anticipa nell‘ultima/prima Cena.


L′uomo che non c′era Paolo Lesino

L‘arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità. Theodor W. Adorno, Minima Moralia Ma la donna di sua mano sollevò il grande coperchio dell‘orcio e tutto disperse, procurando agli uomini sciagure luttuose. Sola lì rimase Speranza nella casa infrangibile, dentro, al di sotto del bordo dell‘orcio, né se ne volò fuori; ché Pandora prima ricoprì la giara, per volere dell‘egioco Zeus, adunatore dei nembi. Esiodo, Le opere e i giorni

Il corpo è sparito. Era già accaduto nel tempo passato. Oggi si ripete. E se il luogo è lo stesso, è il presente ad essere cambiato. Prima il tempio era il corpo, oggi si celebra la sua assenza, nel confronto con l‘insufficienza di realtà della realtà. E nella scomparsa l‘illusione consolatrice della verità, senza più il vincolo del corpo | materia, forma all‘esistenza vissuta. E questa assenza porta via con sé l‘indimenticato sguardo ceruleo di chi ha indagato il vero, nel ritratto e nel volto della proprie specie, umana. Ora lo sguardo converge su quello che manca, è mancato, mancherà: la prossimità dell‘uomo, che anche quando non manca, prelude alla carenza, alla deprivazione. Spogliato, libero di perfezionare la propria visione della realtà: la trasparenza, l‘ologramma, il rituale nel segno della virtualizzazione dell‘essere umano. La non finitezza data dall‘elusione della piena soggettività individuale quanto dell‘oggettività percettiva potenzia la processualità narrativa e la capacità integrativa dello sguardo osservativo evocando una contemplatività dinamica. È in questo senso che il Cenacolo è Vero e Mito, in quanto rovinato e atmosferico, in quanto non finito e così il neosituazionismo pittorico per la medesima essenzialità di un molteplice tempo narrativo. L‘uomo non è mai perfetto, lascia delle tracce, delle orme, delle impronte che Situation � racconto pittografico secondo la tripartizione Scena Habitat Relitti, ready-made contemporaneo che, estraendo maieuticamente dal suo contesto idea e funzione, riesce a diventare più vero del vero, più arte dell‘arte � coglie nel segno del carisma che fu proprio della macchina narrativa combinatoria presentata da Italo Calvino ne Il castello dei destini incrociati; non più però spettatori della irrealtà ma integrati nello svolgersi della realtà stessa. Intatta per sempre, nel suo ordito narrativo. La Scena introduce il desiderio metafisico più profondo,

di non essere presenti ma di vedere. E se nel dove riapparire stà la scelta dell‘idea che ci siamo fatti di noi stessi, in termini di autodefinizione consapevole, l‘interno prospettico di Matteo Massagrande, presentandosi come bagatto dei cinquantaquattro arcani neosituazionistici, restituisce l‘immagine della nostra assenza, che si fa traccia in Lorenzo Giandotti, prosegue in artificium in Daniel Spoerri, si autodefinisce brama di intimità in Carla Bedini. Non resta che osservare quel che rimane dell‘homo sapiens urbanus, la persistenza della traccia del protagonista che non c‘è mai, che rivela la sua esistenza passata nei luoghi, lontani dall‘horror pleni. Residenze accoglienti (Sabrina Milazzo) creative e scapigliate (Enrico Gregolin) o invivibili (Vesna Bursich), domicili collettivi che parlano di chi ne fu ideatore (Raffalello Ossola) realizzatore (Gabriele Buratti) protagonista (Mariarosaria Stigliano) senza mai ri-apparire nelle armoniche costruzioni, sospese (Marco Martelli), capaci con e in Walter Trecchi di colmare abissi accogliendo e mettendo in rapporto esseri viventi come moderne foreste. Ogni dimora è conferma d‘identità, che l‘apparente assenza dell‘intenzionalità duplica nell‘efficacia del tipico effetto di ogni vera arte: la sospensione dell‘incredulità e l‘illusione dell‘autogenerazione. Ecco la fragilità umana evocata in Pandora di Agostino Arrivabene nel momento in cui nella casa infrangibile sola lì rimase Speranza, nel velo acusmatico della Veronica di Maurizio Bottoni generatore di spazi immaginari e metaforici, sino alla croce di Nicola Nannini, simbolo del compimento del destino di Cristo Gesù la cui forza colloca altrove ogni corpo destinato al supplizio di dover assistere alla morte di Dio. L‘assenza quindi, fortemente presente come simulacro, degrada in simboli della disincarnazione, segni di un passato che restano immutabilmente ed eternamente fissati nel corredo in Elisa Rossi,

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nel ricordo filtrato di un giorno di festa in Silvia Argiolas, o resi definitivamente palpabili dal facere ricompositivo di Doriano Scazzosi nel suo eden perduto e, quindi, giustamente spezzato. Nel nuovo senso della scena, dove per paradosso il protagonista non c‘è mai, non sembra esserci mai stato se non per i pallidi segnali che restano attorno alla sua assenza, il neosituazionismo degli Habitat si trova naturalmente al centro del modello semantico e linguistico dell‘arte. I neosituazionisti, assimilato il principio del superamento dell‘arte evocato da Debord nel suo compito di sottrarre l‘esperienza al tempo per renderla eterna, definiscono habitat mutanti e mentali in cui il senso non viene più colto dalla ricerca della profondità ma dal net fra più frammenti e lacerti comunicativi. Nuove tracce di senso nelle illuminanti emozioni di Roberto Coda Zabetta colgono mirabilmente l‘uso neosituazionista evocato dal situazionista della narrativa Alessandro Baricco: La superficie è tutto. E in essa è scritto il senso. Meglio: in essa siamo capaci di tracciare il senso. Superata postniccianamente la dialettica tradizionale superficie | profondità, la superficie mantiene la capacità di riflettere l‘immagine della realtà sensibile e percepibile con un secondo sguardo che Omar Galliani coglie nel rispecchiamento conservando per sottrazione la memoria dell‘uomo. La situazione si riappropria di ogni singolo momento della vita, ricostruito muovendosi simultaneamente sulla superficie del mondo, immaginando di incrociare l‘ambiente unitario con il gioco degli avvenimenti. Dai frammenti di vita prendono forma habitat che registrano e collegano le tessere del reale. Sono sedimenti di indagine che gli avvenimenti in corso non consumano, senso dell‘attesa, dell‘eterno aspettare. Nel nascondersi ed al tempo stesso mostrarsi stà il senso centrale ed egemonico dell‘ape regina e la torre di Babele che definisce la capacità immaginale di Paolo Quaresima di coniugare talento e velocità dell‘intelligenza dei nuovi Barbari. E di cogliere le mutazioni. Siano esse la polvere pulita di Ilaria Morganti o l‘amore ri-generativo, quindi supersituazionistico, evocato da Marica Fasoli. Ecco allora catalogarsi le esperienze di vita attraverso frammenti di esistenza: psicogeografiche partenze (Andrea Giovannini) urgenze turistiche (Aldo Damioli) viaggi ora poeticamente iconici (Alessandro Russo) ora astralmente interiori e subcoscienti (Claudio Onorato) depositi di affetti (Manuel Felisi) o affidamento alla casualità dei ricordi (Angelo Palazzini) intimità dei reperti di gioco (Roberta Serenari) fino a consapevolizzare la fragilità e la frammentazione delle ombre nella organizzata figurazione di Gabriele Armellini. La capacità critica e costruttiva appare ancora forte nella carica

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ideale dei neosituazionisti. Se fino a pochi anni fa l‘introspezione oggettuale si riduceva a minimalismo esistenziale, a residuo di una pittura post-romantica di genere, il neosituazionista si confronta con i Relitti, artefatti creati dall‘uomo, idee scritte con l‘immagine, accogliendone e sublimandone i segni della persistenza in un giardino troppo in fretta lasciato, ad indicare ora che è stato l‘uomo a collocarli lì. Magistrale la prefigurazione di Conor Walton della fine come una festa nella sua realtà esatta e inumana, ossessionata nella vibrante presenza pur in assenza di vita del simulacro del corpo esanime in David Dalla Venezia, esangue come la carne deprivata di ogni significato di passione che Gianluca Corona ci chiama ad indagare nella perfetta iperrealtà della sua superficie indifesa e vulnerabile. La dematerializzazione appare compiuta con lo svuotamento interiore celebrato da Emanuele Dascanio, che già anticipa l‘inutile attesa inscenata da Alessandro Marziano, che simbolicamente Fulvio Rinaldi rappresenta nella forma dell‘opus lignea, nella cui fissità e chiusura resta preservata la garanzia della immutabilità delle forme che rimanda all‘immensa accumulazione di gestuale ritualità proposta da Elena Mutinelli. Ciò che resta sono solo i segni: preservati sotto resina da Claudio Magrassi nel suo artificio di preziosa e meravigliosa ricostruzione del fenomeno della fossilizzazione. Ora la cornucopia di doni che abbiamo conosciuto e imparato ogni giorno a riconoscere è lasciata al caso, come non ci fosse più nessuno ad occuparsene. La fine è compiuta, sono appassiti i fiori recisi di Roberto Rampinelli, dimentichi per sempre i simboli della passata fertilità di Pietro Signorelli, già lontano il memento della fragile perfezione rappresentata nel desco da Annalisa Pirovano. In un mondo oramai senza di noi l‘occupazione naturale prende il sopravvento sui relitti dell‘uomo (Iacopo Raugei) gli habitat che ci hanno accolto si tingono di livida atmosfera (William Marc Zanghi) fino all‘assoluto scioglimento, alla dissoluzione colante di Carlo Cane mentre resiste il seme della terra che Danny Vescovi presenta splendente e profumato come prima della comparsa di Adamo. Il Mito del Vero dimostra così come la profondità dei valori e delle visioni possa ancora coniugarsi con le suggestioni linguistiche situazionistiche e nel superare la dialettica tradizionale superficie | profondità condensando la carica semantica residua solo nella connessione fra elementi erratici e manifesta come non ci sia un situazionismo neutro, solo tecnico, indipendente dall‘assetto dei valori in cui si crede, ma vi siano tanti situazionismi quante sono le prospettive spirituali in cui ci si muove.


Situazionisti contemporanei Vera Agosti

Storicamente il Situazionismo è un movimento di contestazione

della cultura della società di massa, che rimetabolizza le avanguardie artistiche dei primi del Novecento. L‘Internazionale Situazionista nasce il 28 luglio 1957, a Cosio di Arroscia, in provincia di Imperia, fondata da alcuni membri dell‘Internazionale Lettrista, del Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista (MIBI), del Movimento CO.BR.A e del Comitato Psicogeografico di Londra. I situazionisti intendono creare “situazioni costruite”, ovvero “momenti della vita, concretamente e deliberatamente costruiti, mediante l‘organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti.” Tra le questioni fondamentali, inoltre, il diritto d‘autore e l‘idea della potenzialità rivoluzionaria del tempo libero. Figure di spicco del movimento, il francese GuyErnest Debord, il danese Asger Jorn, il belga Raoul Vaneigem e gli italiani Giuseppe Pinot-Gallizio e Gianfranco Sanguinetti. Il movimento raggiunge l‘apice di diffusione dopo il maggio del 1968 a Parigi, quando centinaia di persone si definiscono situazionisti, senza aver bene compreso i principi ispiratori e rivoluzionari dell‘Internazionale, che fin da subito attacca le sinistre istituzionali e i regimi totalitari comunisti. Il gruppo si scioglie spontaneamente nel 1972, proprio quando raggiunge l‘apice del successo. Se i situazionisti del passato erano attenti a un cambiamento politico e sociale, partendo da posizioni artistico-letterarie per arrivare alla critica rivoluzionaria, questo non si può dire degli artisti contemporanei, selezionati per la mostra Il Mito del Vero II: Situation, la cui attenzione si rivolge prevalentemente a precise scelte estetiche e alla propria visione del mondo. Tra le poche eccezioni, spicca l‘epica della memoria collettiva di Roberto Coda Zabetta, che con il suo gigantesco Senza titolo (190x190 cm) raffigura la negazione di un paesaggio contemporaneo, occultato o sostituito dal fumo grigio di un‘esplosione vulcanica, dopo l‘eruzione del Merapi in Indonesia. Evoluzione dei lavori precedenti, legati alla tragedia delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Come ben si domandano i curatori della collettiva, Giacomo

Maria Prati e Paolo Lesino, l‘intento della rassegna è riuscire a cogliere, pur nella diversità delle interpretazioni presentate, il senso attuale di una natura morta contemporanea o di una scena, in un mondo dominato dalla civiltà delle immagini e dalle icone massmediatiche. Si tratta dell‘esplicitazione figurativa di una riflessione culturale, di una weltanschaung, come è sempre stato. Cerchiamo di esaminare alcuni esempi contemporanei, per formulare risposte, alla luce delle tre grandi tipologie, individuate dai curatori, alle quali ricondurre le diverse rappresentazioni: scena, habitat, relitto. La prima sottintende l‘azione e l‘accadimento; il secondo è l‘ambientazione, il luogo in cui si vive o sarebbe possibile vivere; il terzo un oggetto sopravvissuto al tempo, alla memoria e alla storia. Spesso, tuttavia, i confini sono labili e sovrapponibili. Omar Galliani, riassume nel suo grande dipinto Bianco titanio (200x250 cm) le tre tipologie: scena, relitto e habitat. È un luogo non luogo, un paesaggio negato, indefinito e onirico, immerso nelle sfumature del bianco e del nero. Un‘incisione leggera, un fugace riflesso in un lago oscuro, in cui si scorge appena il viso di una donna. Evocazione o ricordo di una presenza/assenza, di un amore lontano nel tempo e nello spazio. Come di consueto, il maestro indiscusso del disegno, costruisce una storia enigmatica, attingendo alle tradizioni più diverse: mitologia, Manierismo, Rinascimento, influenze orientali, creando un cortocircuito tra la definizione perfetta della forma e del segno, sottile e preciso, e il mistero di uno spazio poetico e immaginario. Daniel Spoerri è uno dei membri fondatori del Nouveau Réalisme, che ha partecipato anche all‘attività del movimento Fluxus, viene esposto un assemblage del 1962 a Parigi, Les ronds des serviettes, in cui in un armadietto a muro venivano conservati i tovaglioli, relitti delle sue cene surrealiste e delle sue indimenticabili performance, quando la galleria diventava ristorante e il ristorante galleria. A cavallo tra scena e relitto, i lavori di Federico Vescovo e Iacopo Raugei. Il primo costruisce equilibri precari

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o impossibili, attraverso parallelepipedi e altre figure geometriche, che ricordano le costruzioni dei bambini (Casa), miraggi salvati dell‘infanzia e metafora dell‘incertezza e dell‘instabilità della vita quotidiana. La resa, sempre più pop, è perfetta e brillante, attraverso l‘impiego delle resine. Il secondo raffigura drammaticamente e con lucida attenzione il crollo di un trofeo dell‘esistenza, abbandonato tra macerie e detriti, tra i quali crescono spontaneamente alcune erbacce (Conscious state of confusion). Nel nero, una luce mistica rischiara ogni dettaglio. Il trofeo è un simbolo di vittoria, un traguardo raggiunto attraverso sforzi che, secondo la lettura dell‘artista, può essere interpretato come uno dei capisaldi della nostra conoscenza, le nostre certezze, le nostre convinzioni scientifiche, sociali e religiose... se vogliamo, i nostri valori. L‘immagine di Raugei è quindi una sorta di richiamo socratico all‘abbandono di ogni certezza e di ogni ostentazione di conoscenza e sapere, la conoscenza è in continua evoluzione, si deve basare sull‘umiltà della ricerca, mettendo in dubbio, ogni giorno, ciò che crediamo di avere acquisito. Relitti anche le immagini di tre giovani artiste che indagano un universo squisitamente femminile. Elisa Rossi presenta un Corredo32 da sposa, un elaborato ed elegantissimo pizzo, memoria della tradizione, dei regali della nonna, dell‘eredità della femminilità trascorsa. Silvia Argiolas dipinge una torta dimenticata su un tavolino (Copia), che si sta sciogliendo lentamente, a poco a poco, icona della “caducità” delle cose e dell‘esistenza. Tuttavia la rappresentazione è fresca e frizzante, luminosa e giocosa, ci parla di un quotidiano vicino e rassicurante, senza insidie, velato da una sottile vena di malinconia. Aura Zecchini propone una visione intimistica e privata, la dimensione degli affetti e del ricordo, che parte dal regalo di un bouquet di fiori secchi (Cold & Sweet Desert) e torna nei lavori come un leitmotiv. La carta bianca utilizzata, delicata e preziosa, riflette il senso di fragilità dei rapporti e della vita stessa. Anche la scultura bianca di Federica Varotto (Artico) appartiene alla categoria del relitto. Un velo, che sa di antico e di sofferenza, agitato da un soffio in pieghe profonde, pare sopravvissuto a chissà quali lotte e copre l‘ignoto, come una maschera, un sipario, un vestito abbandonato. Pietro Signorelli focalizza una scena e presenta una natura morta cristallizzata e perfetta (Uva e colori), con colori acidi che danno un senso di eternità e immutabilità all‘immagine, fondendo la tradizione del soggetto con l‘artificio del

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contemporaneo. Andy dipinge una scena pop e surrealista. In Step, con colori psichedelici, una scarpa femminile col tacco si trova all‘inizio di un‘improbabile scala, che conduce a una porta che dà sul cielo azzurro, decorato da nuvole di magrittiana memoria. La scena di Paolo Brenzini (Il dono della magia), che appartiene a una lunga serie, parte dalla sezione di mondo imprigionata nello schermo di un pc. Uno sguardo particolare, una realtà spiazzante, che l‘artista sa modificare a suo piacimento. Una descrizione lirica e onirica, molte le citazioni degli artisti del passato. Una lettera d‘amore ci fa entrare nell‘intimo e nel sentimento, quasi in punta di piedi, con delicata leggerezza. Dany Vescovi si muove tra scena e habitat. Si interroga su alcuni quesiti fondamentali della storia dell‘arte, legati alla percezione, alle sue possibilità e ai suoi limiti. I fiori non sono che un mero pretesto, forme e colori da scomporre, trasformare e modificare sulla tela, per studiare lo straniamento della visione. Un richiamo alla classicità unita all‘ispirazione contemporanea: l‘habitat diventa una forma pura, un alveare perfetto, nella scultura in marmo di Michelangelo Galliani, Antropomorfica (Casa- Dolce Casa); l‘ambiente per eccellenza dell‘artista, il suo Atelier, come nei dipinti lirici e vibranti di Emanuele Gregolin, nei quali realisticamente dominano gli oggetti imprescindibili e necessari: tele, pennelli, barattoli, immersi in un rosso inconfondibile. La sala da pranzo di Annalisa Pirovano, dal titolo Attese, è calata nella dimensione dell‘aspettativa di un evento negativo, minaccioso. Lo comprendiamo dai colori freddi, dall‘atmosfera sospesa, dalla lente di ingrandimento deformante che permette di spiare l‘intimità degli interni domestici, contesti familiari stranianti, dai tratti noir. Venezia New York di Aldo Damioli è una rappresentazione idealizzata delle città esistenti. La metropoli si fa ordinata e pulita, controllata, con architetture di ampio respiro, che sfociano in un momento di distensione, come un lago o uno spazio verde. È la città della ragione, del buon senso, di un contemporaneo classicismo. Così non è per William Marc Zanghi, che dipinge un‘ambientazione inquieta (Mushroom), in cui domina il colore quasi “urlato” con acrilico, smalti e vernici industriali; la pennellata è libera e violenta, lascia colare le tinte in fluide cascate o crea macchie che suggeriscono un flusso animato e variopinto. I veri soggetti? Il disagio e la solitudine contemporanei.


SCENA Lo stesso show, nuovi mercati

The Practice of Theory, Situationist International, I, New York, 1969

Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione Guy Debord, La società dello spettacolo

La pittura astratta è divenuta vuoto estetismo, un terreno di gioco per gli accidiosi in cerca di un facile pretesto per rimasticare ancora una volta verità invecchiate da tempo. La pittura astratta è un pezzo di chewinggum biascicato cento volte infilato sotto la tavola. Noi lanceremo contro questo disimpegnismo oggettivo una Dittatura Militante dello Spirito dal Manifesto di Spur, 1958, in Assalto alla cultura, Stewart Home

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Matteo Massagrande | Interno (550) | Tecnica mista su tavola, cm 50x40, 2009 | Courtesy Galleria Gagliardi, San Gimignano

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Lorenzo Giandotti | Finestra con gabbietta | Olio su tavola, cm 55x76, 2005 | Courtesy Galleria Gagliardi, San Gimignano

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Gabriele Buratti | Una sera diversa | Tecnica mista su tavola, cm 58x92, 2011

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Carla Bedini | Stanza n째 9 Dublino | Tecnica mista/garza, cm 95x110, 2007 | Courtesy Ca' di Fra', Milano

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Mariarosaria Stigliano | Old factory | Tecnica mista su tavola, cm 61x105, 2011

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Walter Trecchi | Antropico-Naturale V | Tecnica mista su tela, cm 150x200 (dittico), 2011 | Courtesy mc2 Gallery, Milano

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Daniel Spoerri | La ronde des serviettes | Assemblaggio, cm 44x60x6,5, 1962 | Courtesy Collezione Guido Peruz

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Emanuele Gregolin | Atelier | Olio su tela, cm 100x150, 2009

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Sabrina Milazzo | Calore | Olio su tela, cm 120x100, 2001

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Vesna Bursich | White flame | Olio su lino, cm 70x100, 2011

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Marco Martelli | Gli Acrobati | Olio su tela di iuta, cm 85x85, 2005

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Raffaello Ossola | Equilibrio | Acrilico su tela, cm 120x100, 2010

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Agostino Arrivabene | Grazie Pandora | Olio su tela, cm 70x100, 1989 | Courtesy Collezione privata, Rivolta d窶連dda

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Maurizio Bottoni | Il velo della Veronica | Olio su tavola incamottata, cm 80x67, 2006

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Nicola Nannini | Si fece buio su tutta la terra | Olio su tavola, cm 100x70, 2010

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Doriano Scazzosi | Peonie | Tecnica mista su tavola, cm 145x180 (dittico), 2011

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Elisa Rossi | Corredo 32 | Olio su tela, cm 100x140, 2009 | Courtesy AndreA Arte Contemporanea Vicenza

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Silvia Argiolas | Copia | Olio e tempera su tela, cm 50x50, 2011

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Andy | Step by step | Acrilico su tela, cm 100x100, 2011

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HABITAT In Lui ci muoviamo, viviamo, respiriamo Atti degli Apostoli, 17,28

La creazione non è disposizione di oggetti e forme, è invenzione di nuove leggi su quella disposizione Guy Debord Rapport sur la construction des situations et sur le conditions de l’organisation et de l’actions de la tendance situationniste internationale 1957

Senti, senti Diomeda, che tesoro, disse volgendosi all’amica, senti come gliele canta, il Malusardi, a quei poveri figurativi…Rifè comerizzando per rerare la biffetta posca o pisca! Risero di gusto entrambe. Spiritoso, niente da dire, approvò Diomeda. Ah io l’adoro, il Malusardi. È un formidabile! Dino Buzzati, Sessanta racconti /56/ Il critico d’arte

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Omar Galliani | Bianco titanio | Olio su tela, cm 200x250, 2011

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Roberto Coda Zabetta | Senza titolo | Smalti su tela, cm 190x190, 2009 - 2010 | Courtesy Collezione Privata

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Michelangelo Galliani | Antropomorfica (casa dolce casa) | Marmo statuario di Carrara e piombo, cm 50x50x25, 2011

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Stefano Garrisi | M‘involo | Pietra leccese, cm 38x45x12, 2007

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Aldo Damioli | Venezia New York | Acrilico su tela, cm 80x100, 2010

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Andrea Giovannini | Destinazione Francia | Tecnica mista su tavola, cm 107x125, 2011 | Courtesy Galleria Gagliardi, San Gimignano

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Manuel Felisi | Citofono (Victoria) | Tecnica mista su tela, cm 50x50, 2009 | Courtesy Galleria Gagliardi, San Gimignano

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Angelo Palazzini | AmnesĂŹa | Olio su tela, cm 115x115, 2011

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Ilaria Morganti | Polvere pulita | Olio su tela, cm 150x100, 2009 | Courtesy Galleria Gagliardi, San Gimignano

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Paolo Quaresima | L‘ape regina (e la torre di babele) | Olio su tavola, cm 250x150, 2011

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Gabriele Armellini | Senza titolo | Acrilico su tavola, cm 40x40, 2010

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Federico Vescovo | Casa | Acrilico, sabbia e resina su tela, cm 100x150, 2011

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Roberta Serenari | Joca relicta | Olio su tela, cm 140x100, 2011

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Marica Fasoli | Lovers | Olio su tela, cm 100x150, 2010

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Alessandro Russo | Barca | Olio su tela, cm 30x40, 2010 | Courtesy Galleria Antonio Battaglia, Milano

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Claudio Onorato | Il viaggio di Luna | Cartoncino ritagliato e colore acrilico, cm 119x169, 2009

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Aura Zecchini | Senza titolo | Tecnica mista su carta intelata, cm 100x150, 2009

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RELITTI Noi non dobbiamo semplicemente costruire i monumenti: dobbiamo prevederne le gigantesche rovine, a monito nei secoli. Dobbiamo inventare l’arte anche nella dissoluzione fisica del monumento. In India non si restaurano i monumenti: essi sono in realtà monumenti al tempo che corrode. E le rovine sono maestose. Dobbiamo immaginarle, calcolarle. Chiamiamola una teoria delle rovine Giuseppe Genna, Hitler

E anche dopo, lasceremmo qualche impalpabile ma durevole marchio sull’universo? Qualche bagliore persistente, qualche eco dell’umanità terrestre? Qualche segno interplanetario del fatto che una volta c’eravamo? Alan Weisman, Il mondo senza di noi

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Conor Walton | The End | Olio su tela, cm 30x61, 2011

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David Dalla Venezia | Senza Titolo | Olio su tela, cm 130x81, 2011

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Gianluca Corona | It was a pig | Olio su tavola, cm 18x20, 2010 | Courtesy Galleria Forni, Bologna

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Emanuele Dascanio | Le prostitute | Olio su tavola, cm 40x50, 2010

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Roberto Rampinelli | Grande fiore | Olio su carta a mano, cm 32x44, 2011

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Claudio Magrassi | Othonia I | Tecnica mista su cartoncino inchiodato su tavola sotto resina, cm 27x45, 2011

59


Annalisa Pirovano | Attese | Olio su tela, cm 92x105, 2011

60


Pietro Signorelli | Uva e Colori | Disegno a matita su pannello di legno incamotato, verniciato e velato con resina alchidica e pigmenti naturali, cm 60x60, 2009 | Courtesy Collezione Tralli, Mirandola

61


Dany Vescovi | Senza titolo | Tecnica mista su lino, cm 80x60, 2010 | Courtesy BonelliLab, Mantova

62


William Marc Zanghi | Mushroom | Vernice su tela, cm 20x30, 2011 | Courtesy BonelliLab, Mantova

63


Carlo Cane | Qual‘cosa che non c‘è | Olio su tela applicata su tavola, cm 70x150, 2010

64


Fulvio Rinaldi | Porta | Tempera, cm 96x55, 2010

65


Alessandro Marziano | Inutile attesa | Olio su tela, cm 100x70, 2011 | Courtesy Galleria Gagliardi, San Gimignano

66


Federica Varotto | Artico | Materia su tavola, cm 100x100, 2011

67


Stefania Pennacchio | Menarca | Ceramica ďż˝ legno di recupero, cm 50x35x6

68


Elena Mutinelli | Nodi nelle pieghe dell‘anima | Resina, terracotta, ferro, fune, cm 205x200x200, 2007

69


Iacopo Raugei | Surrender your ego | Olio su tela, cm 100x100, 2010

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Paolo Brenzini | Il dono della magia | Stampa ecosolvente su pvc, cm 100x70, 2009

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Biografia degli artisti Andy Monza 1971, dove vive e lavora

Gianluca Corona Milano 1969, dove vive e lavora

Emanuele Gregolin Milano 1972, dove vive e lavora

Silvia Argiolas Cagliari 1977, vive e lavora a Milano

David Dalla Venezia Cannes (Francia) 1965, vive e lavora a Venezia

Claudio Magrassi Tortona (Al) 1969, dove vive e lavora

Gabriele Armellini Castelletto di Branduzzo (Pv) 1950, vive e lavora a Voghera (Pv)

Aldo Damioli Milano 1952, dove vive e lavora

Marco Martelli Firenze 1968, dove vive e lavora

Emanuele Dascanio Garbagnate Milanese 1983, vive e lavora a Bellusco (Mb)

Alessandro Marziano Catanzaro 1977, vive e lavora a Roma

Agostino Arrivabene Rivolta d'Adda (Cr) 1967, vive e lavora a Gradella di Pandino (Cr) Carla Bedini Castellanza (Va), vive e lavora a Felina (Re)

Marica Fasoli Bussolengo (Vr) 1977, vive e lavora a San Giorgio in Salici (Vr)

Maurizio Bottoni Milano 1950, vive e lavora a Milano

Manuel Felisi Milano 1976, dove vive e lavora

Paolo Brenzini Viareggio (Lu) 1962 vive a lavora a Massa

Michelangelo Galliani Montecchio Emilia (Re) 1975 dove vive e lavora

Gabriele Buratti Milano 1964, dove vive e lavora Vesna Bursich Torino 1974, vive e lavora a Bra (Cn) Carlo Cane Valenza Po (Al) 1951, vive e lavora in provincia di Alessandria Roberto Coda Zabetta Biella 1975, vive e lavora tra Milano, Singapore e Bali

72

Omar Galliani Montecchio Emilia (Re) 1954, dove vive e lavora Stefano Garrisi Galatina (Le), vive e lavora a Sogliano Cavour (Le) Lorenzo Giandotti Firenze 1935, dove vive e lavora Andrea Giovannini Lugo di Ravenna (Ra) 1962, vive e lavora a Campagnola (Re)

Matteo Massagrande Padova 1959, dove vive e lavora Sabrina Milazzo Torino 1975, dove vive e lavora Ilaria Morganti Roma 1975, vive e lavora a Frosinone Elena Mutinelli Milano 1967, vive a Osnago (Lc) e lavora tra Osnago, Milano e Verona Nicola Nannini Bologna 1972, vive e lavora a Cento (Fe) Claudio Onorato Milano 1967, dove vive e lavora Raffaello Ossola Locarno (Svizzera) 1954, vive e lavora a Como

Angelo Palazzini Lodi 1953, vive e lavora tra Milano e Pavia Stefania Pennacchio Varese 1969, vive e lavora in provincia di Reggio Calabria Annalisa Pirovano Como 1978, vive e lavora a Milano Paolo Quaresima Merano (Bz) 1962, dove vive e lavora Roberto Rampinelli Bergamo 1948, vive e lavora tra Milano, Urbino e Amer (Catalogna - Spagna) Iacopo Raugei Firenze 1975, dove vive e lavora Fulvio Rinaldi Brembilla (Bg) 1949, vive e lavora a Almenno S. Salvatore (Bg) Elisa Rossi Venezia 1980, vive e lavora a Adria (Ro) Alessandro Russo Catanzaro, dove vive e lavora Doriano Scazzosi Busto Garolfo (Mi) 1960, vive e lavora ad Arconate (Mi)

Roberta Serenari Bologna 1957, vive e lavora a Sasso Marconi (Bo) Pietro Signorelli Treviglio (Bg) 1948, vive e lavora ad Assisi Daniel Spoerri Galati (Romania) 1930, vive e lavora a Vienna Mariarosaria Stigliano Taranto 1973, vive e lavora a Roma Walter Trecchi Como 1964, vive e lavora a Torno (Co) Federica Varotto Padova 1954, vive e lavora a Monza Dany Vescovi Milano nel 1969, dove vive e lavora Federico Vescovo Milano 1961, dove vive e lavora Conor Walton Dublino (Irlanda) 1970, vive e lavora a Country Wicklow William Marc Zanghi Wichita (Kansas) 1972, vive e lavora a Palermo Aura Zecchini Peschiera del Garda (Vr) 1983, vive e lavora a Milano




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