Vario 91 inserto Ovidio

Page 1

VARIOLETTURE

PUBLIO OVIDIO NASONE “LE TRISTEZZE” Libro primo, Carme terzo

Traduzione e nota introduttiva di Giovanni D’Alessandro


A

ttorno all’8 d.C. Publio Ovidio Nasone, nato a Sulmona nel 43 a.C., nella prima fase delle guerre civili successive all’uccisione di Cesa-

re (avvenuta alle Idi di marzo dell’anno precedente) che vedranno trionfare il nipote Ottaviano, è uno dei massimi poeti di Roma, mentre Cesare Ottaviano Augusto è all’apice della sua autorità e potenza nell’appena costituitosi impero, ancorché non voglia ancora per sé il titolo, che sarà assunto dai suoi successori, di imperator. Ovidio è celebre, introdotto a corte e frequenta la famiglia del principe, popolata da inquietanti presenze come la potente e spietata Livia, moglie di Augusto, e l’imbarazzante nipote di lui, Giulia Minore, la cui condotta è assai nota per la disinibizione, eufemismo per non dire che genera scandalo nella capitale. Il sulmonese è il poeta dell’amore e varie sue opere lo hanno accreditato come tale, a partire dalla più celebre, di otto anni prima, Ars amandi o “L’arte di amare”: è l’ammiccante suggeritore delle arti di seduzione e conquista, nonché un dichiarato fautore della variatio amorosa, cioè di tutte le variazioni sul tema, e infedeltà, possibili e immaginabili; quelle che ama nascondere – dietro crini di agnello, lui lupo sceso dai monti natii - umilmente definendosi tenerorum lusor amorum, cantore di teneri amori. Ovidio non sembrava, quando viveva nella natia Sulmona, destinato a tal fama poetica. La sua famiglia, appartenente all’ordine equestre e con antenati illustri - come lo stesso poeta ricorda: non è infatti avaro di notizie sulla sua vita, a differenza di altri - lo aveva destinato alla carriera forense e magistratuale, sulle orme del fratello maggiore, mandandolo a studiare diritto e oratoria a Roma. Il padre lo aveva avvertito che il poetare non gli avrebbe garantito mezzi di sussistenza e per un certo periodo il giovane aveva anche provato a cimentarsi con la prosa di diritto, ma


la Musa della poesia lo aveva imperiosamente richiamato a sé: tutto ciò che scriveva -racconta – “gli usciva in versi”. Aveva dunque secondato la sua vocazione e frequentato gli ambienti dove erano accolti e benvoluti i poeti coetanei, o comunque attivi al tempo dei suoi esordi. E’ lui stesso a farne i nomi: Macrone, Properzio, Pontico, Basso, Orazio, Tibullo, Gallo e perfino Virgilio - il poeta ufficiale di corte, l’autore dell’Eneide, poema celebrativo delle fatali sorti di Roma e della gens Julia - incrociato, tuttavia, e mai conosciuto di persona. Tra di loro aveva mosso i primi passi, una volta abbandonata la carriera che la famiglia avrebbe voluto per lui. I suoi familiari si saranno poi ricreduti, per la fama conquistata dal figlio, ancor giovane, in un campo particolare quale la poesia amorosa, dove poteva vantare ammiratori e imitatori. E dove si era guadagnato amicizie, o almeno frequentazioni, altissime, al vertice della caput mundi: le quali saranno - tuttavia - causa della sua repentina rovina, da cui non lo salverà l’essere uno dei più acclamati artisti di Roma. A cinquant’anni “come un fulmine” – scrive infatti - si abbatte su di lui l’ingiunzione da parte di Augusto di lasciare immediatamente Roma e l’Italia, per ritirarsi ai confini dell’impero, a Tomi, nell’attuale città di Costanza in Romania, sul Mar Nero. Il principe, per qualcosa che lo ha profondamente disturbato, forse anche per una necessità di stato, lo allontana dall’Urbe e non lo riammetterà mai più in essa, pur irrogandogli un provvedimento in definitiva blando (la relegatio, invece dall’exilium, la quale non comportava la capitis deminutio e la perdita dei beni). Cosa abbia commesso Ovidio per far adottare contro di lui questa misura, da parte di Augusto che ama presentarsi quale protettore dei poeti, rimarrà ignoto fino ai nostri giorni, alimentando saggi, studi, ricostruzioni e anche romanzi a non finire. La più plausibile delle ipotesi (avallata da qualche passo dello


stesso poeta, quando ammette di aver sbagliato in un carmen et error, in “una poesia” e “un equivoco”, per culpa, “per leggerezza” e non per crimen, cioè senza “coscienza d’incorrere in un misfatto”) lo presenta come sodale di Giulia Minore e…solidale con lei, se non pronubo, in amori vietati; quelli che costringeranno poi lo zio a relegare Giulia stessa in un’isoletta, affinché non sia più di scandalo a Roma; ma non manca chi dice che Ovidio si sia messo di traverso, in quella maledetta poesia fraintesa, Livia, per aver contrastato le mire di successione del di lei figlio Tiberio, poi successore del marito. Sta di fatto che Ovidio deve aver veramente irritato Augusto, per farsi cacciare da Roma su due piedi. Per anni il poeta di Sulmona implorerà invano, attraverso ogni canale (compresi quelli della sua – terza- moglie, appartenente all’antica gens Fabia) la grazia di un annullamento, o almeno di un’attenuazione, del provvedimento, come anche nella poesia che segue. Morirà nella remota e barbarica Tomi senza aver mai rivisto l’Italia. La più celebre rievocazione del duro abbandono della sua famiglia, della sua casa e della sua patria, è contenuto in questo carme del libro terzo dei Tristia , “Le Tristezze” che Ovidio scrive nella lontana Tomi. Giovanni D’Alessandro*

*Scrittore abruzzese, di origine sulmonese, laureato in legge, vive e lavora a Pescara. Il suo esordio nella narrativa risale al ‘96, quando ha pubblicato con Donzelli Se un Dio pietoso (romanzo storico a sfondo metafisico ambientato a Sulmona ai primi del 1700), finalista al “Viareggio”; nel 2004 con Mondadori I fuochi dei kelt (rivisitazione della guerra gallica attraverso gli occhi di un giovane auriga gallo, o kelt); a fine 2006 con Rizzoli La puttana del tedesco (una storia d’amore, ambientata in Abruzzo nel 1943-44 durante l’occupazione tedesca, tra una donna italiana e un soldato della Wehrmacht); nel 2008 con San Paolo il libro di racconti Il guardiano dei giardini del cielo; nel 2011 con San Paolo Soli; Nel 2013 La tana dell’odio (storia d’amore ambientata nell’attuale Bosnia-Erzegovina, sullo sfondo della guerra del ’92-’95). Autore di saggi, si interessa di letteratura anglosassone, di storia dell’arte e collabora con vari quotidiani e riviste nazionali.



PUBLIO OVIDIO NASONE “TRISTIA� 1, 3

Cum subit illius tristissima noctis imago, qua mihi supremum tempus in urbe fuit, cum repeto noctem, qua tot mihi cara reliqui, labitur ex oculis nunc quoque gutta meis. Iam prope lux aderat, qua me discedere Caesar finibus extremae iusserat Ausoniae. Nec spatium nec mens fuerat satis apta parandi: torpuerant longa pectora nostra mora. Non mihi servorum, comites non cura legendi, non aptae profugo vestis opisve fuit. Non aliter stupui, quam qui Iovis ignibus ictus vivit et est vitae nescius ipse suae. ut tamen hanc animi nubem dolor ipse removit, et tandem sensus convaluere mei, alloquor extremum maestos abiturus amicos, qui modo de multis unus et alter erat. uxor amans flentem flens acrius ipsa tenebat, imbre per indignas usque cadente genas. Nata procul Libycis aberat diversa sub oris, nec poterat fati certior esse mei. Quocumque aspiceres, luctus gemitusque sonabant, formaque non taciti funeris intus erat.


PUBLIO OVIDIO NASONE “LE TRISTEZZE” 1, 3

Quando mi torna in mente la visione tristissima di quella notte che segna per me l’ultimo tempo a Roma, quando ripenso a quella notte in cui lasciai tanti miei affetti, ancor oggi la lacrima mi scende dagli occhi. Era quasi l’alba del giorno in cui per ordine di Augusto dovevo allontanarmi dagli estremi confini dell’Italia. Né tempo né pensiero avevo avuto per i necessari preparativi. Il cuore era come scivolato nel torpore di un lungo indugio, non avevo pensato agli schiavi o ai compagni, alle vesti o alle cose necessarie a un profugo, mi sentivo frastornato come quando una persona colpita dalla folgore di Giove resta in vita e non si rende conto d’esserlo. Quando però lo stesso dolore mi dissolse la nebbia nella mente, e tornai in me, prima di partire mi accinsi a rivolgere l’estremo saluto agli amici affranti, non più di uno o due rimasti dei tanti che avevo. Piangevo, e più di me piangendo l’innamorata moglie mi tratteneva con una pioggia di lacrime a rigare le sue incolpevoli guance; era invece lontana, in terre straniere, sulle spiagge di Libia mia figlia, ignara di ciò che mi era toccato. Dovunque si posasse lo sguardo risonavano pianto e lamento. Sembrava di essere a un funerale e non di quelli dal tono sommesso:


Femina virque meo, pueri quoque funere maerent, inque domo lacrimas angulus omnis habet. Si licet exemplis in parvis grandibus uti, haec facies Troiae, cum caperetur, erat. Iamque quiescebant voces hominumque canumque, Lunaque nocturnos alta regebat equos. Hanc ego suspiciens et ad hanc Capitolia cernens, quae nostro frustra iuncta fuere Lari, “numina vicinis habitantia sedibus,” inquam, “iamque oculis numquam templa videnda meis, dique relinquendi, quos urbs habet alta Quirini, este salutati tempus in omne mihi. Et quamquam sero clipeum post vulnera sumo, attamen hanc odiis exonerate fugam, caelestique viro, quis me deceperit error, dicite, pro culpa ne scelus esse putet. ut quod vos scitis, poenae quoque sentiat auctor: placato possum non miser esse deo.” Hac prece adoravi superos ego: pluribus uxor, singultu medios impediente sonos. Illa etiam ante lares passis prostrata capillis contigit extinctos ore tremente focos, multaque in adversos effudit verba Penates


Ogni donna, uomo o ragazzo levavano lamenti a queste mie esequie, non un angolo di casa era senza lacrime; se è lecito accostare a cose grandi le piccole sembrava di assistere al pianto per Troia espugnata. Già tacevano esseri umani e cani e l’alta Luna reggeva i cavalli della notte che, ad essa levando io lo sguardo e a lei dappresso scorgendo il Campidoglio abbracciato inutilmente il mio lare, “O voi numi” - dissi – “che avete dimora tanto vicino a me e voi templi che con questi occhi mai più contemplerò, e voi o dei, quali la Città alta di Quirino accoglie, dei da lasciare qui, siate per sempre da me salutati. E se troppo tardi, a ferite ricevute, imbraccio ora lo scudo, purtuttavia togliete il peso dell’odio alla mia cacciata e a quell’uomo celeste quale sia stato l’errore che mi ha tradito spiegate, sicché non veda nella mia colpa un misfatto: ciò che sapete voi, sappia anche l’autore della mia punizione sicchè, placato questo dio, io non sia più un misero”. Questa preghiera io rivolsi agli dei celesti; e ancora più preghiere, con suoni spezzati a metà dai singhiozzi, rivolse lei, prosternata davanti ai Lari, coi capelli sciolti, alitando sui labili lumi con respiro tremante, e agli avversi Penati moltissime suppliche rivolgendo


pro deplorato non valitura viro. Iamque morae spatium nox praecipitata negabat, versaque ab axe suo Parrhasis Arctos erat. Quid facerem? Blando patriae retinebar amore: ultima sed iussae nox erat illa fugae. A! Quotiens aliquo dixi properante “quid urges? vel quo festinas ire, vel unde, vide.” A! Quotiens certam me sum mentitus habere horam, propositae quae foret apta viae. Ter limen tetigi, ter sum revocatus, et ipse indulgens animo pes mihi tardus erat. Saepe “vale” dicto rursus sum multa locutus, et quasi discedens oscula summa dedi. Saepe eadem mandata dedi meque ipse fefelli, respiciens oculis pignora cara meis. Denique “quid propero? Scythia est, quo mittimur,” inquam, “Roma relinquenda est. utraque iusta mora est. uxor in aeternum vivo mihi viva negatur, et domus et fidae dulcia membra domus, quosque ego dilexi fraterno more sodales, o mihi Thesea pectora iuncta fide! Dum licet, amplectar: numquam fortasse licebit amplius. In lucro est quae datur hora mihi.”


tutte incapaci di giovare all’uomo da lei compianto. Intanto precipitando, la notte sottraeva tempo all’indugio e l’Orsa del Parrasio aveva volto il suo carro. Cosa dovevo fare? Ero trattenuto dal dolce amore per la mia patria. Ma quella era l’ultima notte prima dell’allontanamento a me ingiunto! Ah quante volte, mentre verso l’esterno muovevo il passo, mi dissi: “Perché ti affretti? Guarda dove stai per andare e cosa stai per lasciare! Ah quante volte dissi giunta l’ora giusta per incamminarmi! Tre volte toccai la soglia di casa e tre volte fui indietro richiamato mentre il piede, obbedendo al cuore, si attardava! Non una volta sola, dopo aver detto “addio”, ripresi invece a lungo a parlare, mentre, uscendo, mandavo gli ultimi baci! Non una volta sola mi trovai a ripetere raccomandazioni uguali, ingannandomi, solo per guardare chi era caro ai miei occhi! E ancora: “Che mi affretto a fare? “ – dicevo – “E’ in Scizia che mi mandano, e c’è Roma da lasciare: l’una e altra cosa giustificano il trattenersi. Finché sarò vivo e finchè lo sarà lei, mi viene negata mia moglie, e così la mia casa e le amate stanze dove mi rifugiavo e tutti gli amici che amai di affetto fraterno, legati quanto i compagni di Teseo al mio cuore! E allora finchè posso, lasciate che io vi abbracci; perchè forse non più sarà possibile. Lasciate ch’io faccia tesoro di ogni ora a me concessa.


Nec mora, sermonis verba inperfecta relinquo. Complectens animo proxima quaeque meo. Dum loquor et flemus, caelo nitidissimus alto, stella gravis nobis, Lucifer ortus erat. Dividor haud aliter, quam si mea membra relinquam, et pars abrumpi corpore visa suo est. Sic doluit Mettus tunc cum in contraria versos ultores habuit proditionis equos. Tum vero exoritur clamor gemitusque meorum, et feriunt maestae pectora nuda manus. Tum vero coniunx umeris abeuntis inhaerens miscuit haec lacrimis tristia verba meis: “non potes avelli. Simul hinc, simul ibimus:” inquit, “te sequar et coniunx exulis exul ero. Et mihi facta via est, et me capit ultima tellus: accedam profugae sarcina parva rati. Te iubet e patria discedere Caesaris ira, me pietas. Pietas haec mihi Caesar erit.” Talia temptabat, sicut temptaverat ante, vixque dedit victas utilitate manus. Egredior, sive illud erat sine funere ferri, squalidus inmissis hirta per ora comis. Illa dolore amens tenebris narratur obortis


Smesso di indugiare, spezzai le parole a metà, trattenendo nel cuore le cose che stavo per dire, vedendo che mentre parlavo e piangevamo, nell’alto di un cielo limpidissimo era sorto Lucifero, la stella per noi dura. Mi sentivo straziato, come se fossi scisso dalle mie membra e una parte del mio corpo venisse separata da esso, con un dolore quale Metto, squartato da cavalli spinti in senso opposto, quale punizione per il suo tradimento, ebbe a patire. E mentre pianto e gemito continuavano a levarsi dai miei cari, e le tristi mani graffiano i petti scoperti, mia moglie strettasi alle mie spalle, mentre me ne andavo, queste tristi parole pronunciò, frammiste a pianto: “Non possono strapparti a me. Ce ne andremo via insieme da qui, ti seguirò e sarò esule anch’io, quale moglie di un esule. Anche per me la strada è segnata, anche me attende il mondo estremo; mi aggiungerò come lieve peso alla nave del profugo. Te allontana dalla patria un ordine di Cesare; me, la devozione. E questa devozione sarà per me come Cesare”. Questo tentava di fare, come già aveva fatto prima. A fatica si arrese, nella sola speranza di potermi aiutare. Uscii infine, come in un funerale senza il morto, coi capelli spettinati e la barba lunga. Lei, pazza di dolore - mi venne detto poi –


semianimis media procubuisse domo: utque resurrexit foedatis pulvere turpi crinibus et gelida membra levavit humo, se modo, desertos modo complorasse Penates, nomen et erepti saepe vocasse viri, nec gemuisse minus, quam si nataeque virique vidisset structos corpus habere rogos; et volvisse mori, moriendo ponere sensus, respectuque tamen non periisse mei. Vivat, et absentem, quoniam sic fata tulerunt, vivat ut auxilio sublevet usque suo.


una volta rientrata a casa, perse i sensi; e come rinvenne, coi capelli sporchi di terra, trovò la forza di sollevare le membra dalla fredda terra, levando lamenti sulla propria sorte coi Penati e sul nome del marito a lei strappato, come se avesse visto della figlia e del marito il corpo esser preda del fuoco sulla pira, dicendo di voler morire e porre fine, con la morte, alla coscienza di ciò; solo il pensiero di me pare l’abbia trattenuta da morte. Che viva, poiché così è per noi scritto nel destino, e perché almeno il saperla viva rechi a me, lontano, conforto.


© VARIO LETTURE allegato a Vario 91 giugno - luglio 2017


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.