GIARDINI DI SICILIA
Giardini di Sicilia CLARE LITTLEWOOD - fotografie di Mario Ciampi
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© Verba Volant Ltd. 5th Floor, 6 St. Andrew Street London EC4A 3AE, UK
verbavolant www.verbavolantbooks.com info@verbavolantbooks.com Prima edizione 2012 Fotografie © Mario Ciampi ISBN [978-19-05216-34-5] Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Testi di Clare Littlewood Traduzione di Simona Travolta Editing: Leonardo Bondi Project coordinator: Margherita Caldi Inchingolo Stampato in Italia
SOMMARIO Paesaggi rurali
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Il giardino che non c’era
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San Domenico Palace Hotel
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Un giardino silvestre sulle pendici dell’Etna
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Il paradiso di Giulia
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Villa Pulvirenti Villaruel a San Gregorio
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Paesaggi naturali
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Parco Paternò del Toscano: il giardino delle palme
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Azienda Trinità, Mascalucia
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Orto Botanico di Palermo
130
Orto Botanico di Catania
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Ducea di Nelson: un castello, un giardino
142
Il rigoglioso giardino di Valeria
150
Mon Rève palermitano
162
Un giardino selvaggio a Palermo
170
Paesaggi di città
178
Canalicchio e le stanze in fiore
202
Villa Spaccaforno
210
La Commenda di San Calogero
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Paesaggi storici
226
Casa Cuseni, Taormina
246
Villa Manganelli Biscari: un museo all’aperto a
258
Viagrande La residenza di caccia di Gaia a Piana dei Colli
270
Villa Tasca Camastra
278
Terrazze
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Paesaggi rurali
“S
i sa quanto sia fertile e varia questa terra, conosciuta un tempo come il granaio d’Italia, che via via tutti i popoli invasero e dominarono, tanto fu forte la loro volontà di averla, che indusse tanti uomini a combattere e morire, come per una fanciulla ardentemente amata”, scriveva Guy de Maupassant nel 1890. In tempi passati, la campagna mediterranea si divideva in vaste piantagioni che dipendevano da una masseria, o villa rustica, di proprietà di un latifondista e che si basavano su una forza lavoro servile. Durante la dominazione araba, le grandi proprietà dell’aristocrazia e della Chiesa furono divise in appezzamenti di terra più piccoli; l’agricoltura subì una trasformazione tecnica grazie a un sistema di irrigazione complesso ed efficiente, tuttora utilizzato in molte zone. Tra le colture principali a quel tempo: cotone, canapa, canna da zucchero, ortaggi, agrumi e gelsi. La maggior parte di questi prodotti si continuarono a coltivare nel XV secolo, molto tempo dopo la fine della dominazione araba, e alcuni si coltivano tuttora. Anche le zone boschive abbondavano. I re normanni reintrodussero le grandi proprietà, affidandole agli ordini religiosi, alle abbazie e ai baroni, ma si tennero i musulmani come servi: in questo modo, il paesaggio e le
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coltivazioni restarono più o meno inalterate. Intorno alle residenze reali si estendevano grandi parchi, usati soprattutto per la caccia con i falchi e per la pesca. A volte li si arricchiva con interventi artificiali di vasta portata, come per il lago Biviere a Lentini. Nel corso dei secoli la campagna non è cambiata poi molto, salvo un graduale abbandono della terra a causa di duecento anni di nuovo feudalesimo. I primi viaggiatori stranieri che cominciarono a visitare la Sicilia all’inizio del XVIII secolo, si stupirono dei contrasti tra le aree interne desertificate e l’abbondanza inaspettata di piante esotiche: l’agave, il fico d’India, la canna da zucchero e il papiro. Ecco come Tomasi di Lampedusa descrive questa “arcaicità odorosa della campagna” ne Il Gattopardo: “Nel termine campagna è implicito un senso di terra trasformata dal lavoro: la boscaglia invece, aggrappata alle pendici di un colle, si trovava nell’identico stato d’intrico aromatico nel quale la avevano trovata Fenici, Dori e Ioni quando sbarcarono in Sicilia, quest’America dell’antichità”. L’emigrazione, in particolar modo quella dalle campagne, ha portato allo spopolamento di molte aree interne e all’abbandono di ampi tratti di terra coltivabile, permettendo così alla natura di fare il suo corso.
PAGINA A FIANCO E SEGUENTI: Campi di fiori selvatici nei dintorni di Palazzolo, sulle colline iblee, in cui predominano il papavero, l’erba amara, l’erba del cucco e la malva; “i campi di grano sono stati invasi dai papaveri, centinaia di chiazze di colore puro, talmente rossi che feriscono gli occhi e danzano sulla retina come tanti puntolini, il che mi porta a interrogarmi su come si guardassero i papaveri prima che gli impressionisti francesi li dipingessero. In quel rosso sangue i greci leggevano una promessa di resurrezione: essi, in verità, così come le melagrane, sono consacrati a Persefone” – Mary Taylor Simeti.
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PAGINA A FIANCO E SOPRA: Una casa colonica dei primi dell’Ottocento nella provincia siracusana usata per la coltivazione del grano e per l’allevamento, soprattutto di bestiame, ma anche di animali più piccoli come polli e conigli. Sul cortile si affacciano la casa padronale, la cappella e alcuni dei tanti edifici annessi, comprese le enormi stalle, i fienili, i magazzini per il grano e le case del massaro, lo stalliere e gli altri lavoranti. I proprietari usavano la
Una delle impronte più memorabili che lascia la Sicilia è senz’altro la vivacità dei fiori selvatici, soprattutto in primavera, quando la figlia di Cerere, Proserpina, o Persefone, può lasciare gli Inferi. Tuttavia alcune colture sono di nuovo in espansione: l’uva da vino e da tavola, gli agrumeti, raddoppiatisi negli ultimi venti anni, e le coltivazioni in serra. L’unica speranza è che la bellezza della campagna siciliana si possa preservare per le generazioni a venire.
casa colonica come luogo di vacanza ma anche durante il raccolto. “Dal tempo di Proserpina, la Sicilia è stata la casa dei fiori. Si dice che le dee vergini, Proserpina, Minerva e Diana, tesserono una tonaca di fiori variopinti per il padre Giove... Ora capisco perché gli dei hanno tanto amato la Sicilia.” – Frances Elliot, 1880.
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SOPRA E PAGINA A FIANCO: Cigli di strade
distese di fiori che inondavano la larghissima
vicino Ragusa. Per gran parte dell’anno, i bordi
strada, alternandosi e ripetendosi in grandi,
delle strade siciliane regalano una splendida
ininterrotte masse variopinte. Primeggiavano a
visione di fiori spontanei i cui colori variano in
vicenda stupendi convolvoli, ibischi, malve, varie
base alla stagione. Nel corso dei secoli, molti
qualità di trifoglio, frammisti ad agli e arbusti di
viaggiatori hanno descritto la sorpresa e la gioia
capruggine”. Alla fine del secolo scorso, Mary
che tale vista procurava loro: fortunatamente
Taylor Simeti inoltre osservò: “Guidiamo tra
succede ancora. Alla fine del XVIII secolo scriveva
muri di colore. Ogni tratto di strada ha la sua
Goethe nel suo Viaggio in Italia: “Trovammo
vegetazione, e ogni svolta presenta una nuova
alcuni alberi di fico in germoglio, ma quello che ci
variazione dello schema primaverile di base, fatto
riempì di gioia e di meraviglia furono le sterminate
di viola e giallo”.
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SOPRA: Una bougainvillea nei pressi di Bronte ravviva il ciglio della strada con una splendida fiammata di colore dietro a una triste rete metallica. PAGINA A FIANCO: Persino nelle situazioni di degrado la natura si sforza di fare del suo meglio. Ecco un coraggioso cereus in fiore, circondato dal cemento e da una desolante rete da pollaio nella periferia di Paternò.
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SOPRA: La campagna nissena descritta da
senape. In Sicilia cresce spontaneamente
Vincenzo Consolo: “I fianchi dei colli... mostrano
persino sulle terre abbandonate, dove prospera
le radici di quelle rocce, i loro strati; le fiumare
indisturbata, essendo altamente velenosa per gli
hanno logorato quei fianchi, hanno scavato tra
animali. Sono piante perenni erbacee che arrivano
un colle e l’altro profondi solchi. E quelle rocce
fino a quattro metri d’altezza, con gambi robusti,
biancastre, lungo i fianchi, sui profili delle alture
cavi, quasi succulenti e usati a volte per fabbricare
sembrano residui d’ossa calcinate di dinosauri,
mobili rudimentali, come i piccoli sgabelli cubici
d’altri giganteschi animali preistorici. Nei loro
chiamati furrizzuoli. Messi orizzontali, servivano a
fianchi, negli anfratti, cresce lo spino, l’agave,
fare seccare le foglie di tabacco.
l’ampelodesmo, il cardo, la palma nana, la
In inverno la parte aerea della pianta si secca.
ginestra spinosa, il pomo di Sodoma... E sopra vi
In latino ferula significa bacchetta, e in effetti in
volteggiano i neri corvi”.
Italia si usava per fabbricare bastoni di dimensioni e usi diversi, per rimproverare i bambini a scuola
PAGINA SEGUENTE: Ferula o Finocchio Gigante,
(per questo simbolo di castigo o punizione),
nei pressi di Bronte, da non confondersi con
come bastone pastorale usato dal Papa, o come
il finocchio da mangiare, è un genere di pianta
stecca ortopedica per le fratture. Nella mitologia,
perenne che fiorisce soprattutto in estate,
Prometeo ruba il fuoco a Zeus e lo dona agli esseri
nota per l’audace struttura architettonica e le
umani nascosto in un gambo di ferula.
spettacolari umbelle torreggianti color giallo
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PAGINA PRECEDENTE E SOPRA: Cavalli nella
delle dita quelle loro spinose conquiste, le
campagna di Bronte, mucche nei dintorni di
mondarono dell’involucro e divorarono di gusto
Paternò: “Procedevamo per interminabili valli
la polpa. L’operazione richiese parecchio tempo”
solitarie che si spalancavano incolte e deserte,
– Goethe.
abbandonate al bestiame pascolante: begli animali di color bruno, non grandi, con piccole
PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Vigneti nei
corna, eleganti, agili e svelti come cerbiatti. Le
pressi di Marzamemi: “I lussureggianti vigneti e i
brave bestie non difettavano certo di pastura,
frutteti sul ricco suolo vulcanico, infilati lungo le
ma dovevano contenderla a immense distese di
strette strade che serpeggiano tra paesini e sotto
cardi che man mano la impoverivano. Queste
alti muri, davanti ai cancelli che offrono scorci
piante, trovando qui la condizione ideale per
delle antiche ville” – Mary Taylor Simeti.
andare in seme e moltiplicarsi, invadono spazi
“Quindi ogni vigna di rigonfi grappi/
incredibilmente vasti, quali basterebbero per i
Vedi intorno abbondar, d’uva ripiene/
pascoli di più d’un possedimento. Dato che non
Son l’ime valli, e i cupi boschi ovunque/
sono perenni, sarebbe il momento giusto per
Con lieto augurio allo spirar del vento/
distruggerli, estirpandoli prima della fioritura.
Volge la faccia il mobile idoletto./
Mentre mulinavamo con serietà questi piani
A Bacco dunque i consueti onori/
di guerra agricola contro i cardi, dovemmo
Con patri carmi...” – Virgilio, Le Georgiche.
constatare, a nostra confusione, che non erano poi affatto inservibili. In un’osteria solitaria,
PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Agrumeti
dove avevamo sostato per la profenda, erano
nei pressi di Noto, tuttora irrigati con l’antico
appena arrivati due gentiluomini siciliani che
metodo arabo, ossia disseminando di canali il
attraversavano la regione per recarsi a Palermo
terreno con precisione geometrica e creando
per un processo. Con meraviglia vedemmo
dei bacini squadrati intorno a ogni albero così
quegli austeri personaggi fermarsi davanti a un
da favorirne l’irrigazione ed evitare lo spreco
ciuffo di cardi e recidere con affilati coltellini le
d’acqua.
cime degli alti steli; strinsero poi fra le punte
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A FIANCO: Ciò che resta della Conca d’Oro, la vallata che un tempo circondava Palermo fino a ridosso delle colline sul mare. “La città è cinta da un’immensa selva d’aranci chiamata Conca d’Oro che si estende, come una macchia scura, fino alle pendici delle montagne grigie, delle montagne arrossate che paiono bruciate, corrose e dorate dal sole, tanto sono nude e colorate... la vallata è piena di aranci in fiore. Un soffio continuo sale dal bosco profumato, un soffio che rapisce la mente e turba i sensi” – Guy de Maupassant. Parte dell’antico metodo di irrigazione arabo con le saie, ossia canali in rilievo che convogliano l’acqua verso le piante, è tuttora presente insieme alle gebbie, o vasche per raccogliere l’acqua piovana. Gran parte della Conca d’Oro ormai non altro che, è triste ammetterlo, una “conca di cemento”. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Campagne nei dintorni di Noto: “Fra i tamerici e i sugheri radi apparve l’aspetto vero della Sicilia, quello nei cui riguardi città barocche e aranceti non sono che fronzoli trascurabili. L’aspetto di un’aridità ondulante all’infinito, in groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali delle quali la mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in una fase delirante della creazione; un mare che si fosse pietrificato in un attimo in cui un cambiamento di vento avesse reso dementi le onde” – Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Ancora da Il Gattopardo: “Si svoltava su per un pendio e ci si trovava nell’immemoriale silenzio della Sicilia pastorale. Si era subito lontani da tutto, nello spazio e ancor più nel tempo”.
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SOPRA E PAGINA SEGUENTE: Bronte, con
dodici alberi femmine.
ad anni alterni, con numeri dispari, è la capitale
A livello locale il pistacchio è definito “oro verde”,
italiana del pistacchio. Furono gli arabi a introdurre
essendo una delle risorse principali di un’area
il metodo, usato tuttora dai coltivatori brontesi,
in cui ogni secondo anno alla fine di agosto, su
di mescolare lava e cenere dell’Etna per far
quattromila ettari di terreno, si raccolgono a mano
crescere i pistacchi (frastuch in arabo), portati in
trentamila quintali di frutti. La pianta si pota ad
Sicilia dai romani tra il 20 e il 30 d.C., forse dalla
anni alterni, raccogliendo le gemme dei pistacchi
siriana Pisitacco. I pistacchi fanno parte della dieta
prima che maturino. Questo periodo di riposo
dell’uomo come minimo dal tardo Paleolitico.
le permette di assorbire il nutrimento necessario
Gli alberi sono stati paragonati agli stessi siciliani,
dalla lava così da produrre, l’anno successivo, dei
capaci di sopravvivere in assoluta povertà,
frutti particolarmente saporiti. Il raccolto si fa a
adattandosi a condizioni climatiche estreme,
mano, avendo cura di non far finire neanche uno
aridità, terra riarsa, caldo, ma in grado di
dei preziosi pistacchi tra le tortuose increspature
colonizzare la roccia.
della lava. A volte sotto gli alberi si distendono
L’albero di pistacchio sembra una scultura, con
dei lenzuoli, oppure si usano ombrelli aperti a
quei rami contorti e la corteccia rossastra, che
rovescio, con l’intera famiglia che si rende utile
si staglia sulle volute di lava nera tra cui le radici
durante l’intero processo.
cercano scampoli di terreno. In questa ricerca
Il frutto di Bronte è famoso, su scala
lo aiuta spesso un suo parente, il terebinto, le
internazionale: per il colore verde intenso, la
cui possenti radici si abbarbicano alla roccia e la
misura e la forma (più affusolata rispetto agli
circondano, penetrando in ogni fenditura. Per
altri pistacchi), l’aroma e la dolcezza, così come
questo motivo, da innumerevoli generazioni,
per la fama di “risvegliare l’appetito di Venere”.
il pistacchio si innesta su questo albero. La
Ormai il paese etneo è riconosciuto come capitale
pianta può sopravvivere fino a trecento anni,
mondiale del pistacchio.
producendo frutti solo dopo un decennio. Per l’impollinazione serve almeno un albero maschio,
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in grado di produrre abbastanza polline per otto-
la sua ridotta ma esclusiva produzione raccolta
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Il giardino che non c’era Lentini, Siracusa
S
i tratta del luogo mitico in cui Ercole portò la pelle dell’indomabile leone di Nemea, da lui sconfitto, per farne dono a Cerere, la dea delle messi, della vegetazione e della fertilità, creandovi poi un lago, il Lacus Erculeus. Per commemorare quest’impresa, la città vicina prese il nome di Leontio, oggi Lentini. Tra il XII e il XIII secolo i Templari costruirono la prima diga, così da mantenere il livello dell’acqua nel lago che occupa un’area di circa 1300 ettari. Nel corso dei secoli ha assunto il nome Biviere, dall’arabo veverè, abbeveratoio, ciò che il lago era diventato, oltre a essere vivaio di pesci. Attraverso il tufo si scavarono dei profondi canali che conducevano a camere sotterranee in cui si conservava il pesce; e tutto intorno si costruirono le case dei pescatori. Dopo centinaia di anni, nel giardino è ancora intatto un antico molo che si allungava sull’acqua. Nel 1392 il re Martino assegnò il feudo “Biviere di Lentini” all’antenato di Don Scipione Borghese. Negli anni Trenta il lago, ricco di flora e fauna acquatiche, fu prosciugato, in quanto fonte di diffusione della malaria nella zona. Le case circostanti furono abbandonate e l’area divenne arida e polverosa. Sul finire degli anni Sessanta
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il principe Scipione e la principessa Maria Carla Borghese gradualmente trasformarono questo paesaggio di pietre e polvere in un giardino incantato. Durante il restauro delle mura e del molo dell’antico porto, Maria Carla, detta Miki, cominciò a convertire il terreno “sfrigolato” dal sole che circondava la deliziosa casa di campagna in un affascinante paesaggio mediterraneo, con un ricco assortimento di palme, succulente, cactus, rose e alberi da fiore. Seduta sui gradini di casa, progettò il giardino a mente, riflettendo sull’enorme compito che si era assunta. Si immaginò la dea Cerere seduta al suo fianco, addolorata per il lago perduto. Nella sua visione il giardino doveva avere un aspetto informale in cui la fantasia, il profumo, il senso dello spazio e il gioco dei colori dovevano sostituire la geometria. Voleva creare un’armonia tra i muri caldi, color albicocca roseo, degli edifici che le ricordavano le arance e gli alberi e i cespugli da fiore, i frutti degli agrumi, e le rampicanti e stravaganti succulente al posto di statue di pietra. Quando la coppia Borghese arrivò qui la prima volta, nel giardino c’erano poche piante e fango riarso dappertutto. Miki cominciò col prolungare la casa dentro al giardino, riempiendo le buche lasciate dall’acqua, ormai prosciugata da tempo,
PAGINA A FIANCO: La scalinata principale che dal vialetto conduce all’interno della casa, su cui sedeva la principessa Miki Borghese i primi tempi, affascinata dai tramonti colorati e dal quasi impercettibile senso di pace. Qui rifletteva sul da farsi in giardino, accanto alla sua invisibile compagna, la dea Cerere, che rimpiangeva il lago perduto.
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con la terra rimossa durante la costruzione della strada per Ragusa, mescolandola a quella scura del lago, ricco di humus. Moglie e marito radunarono succulente di ogni dove, piante, talee, foglie e germogli da introdurre nella nuova aiuola tra le due lunghe banchine di pietra del lago originale, ognuno largo un metro e mezzo e lungo trenta. In questo modo ottennero un’aiuola perfetta, ben drenata, luminosa e fertile. Per separare le piante usarono i bianchi sassi rotondi raccolti dai bambini presso un letto di fiume nei paraggi. In quest’oasi cominciarono a prosperare succulente di ogni tipo, alte e affusolate, corte e pienotte, pungenti, spinose, rampicanti e striscianti. Questi strani abitatori del mondo hanno pochissime pretese, richiedono solo molta luce, un buon drenaggio e acqua solo in caso di estremo caldo. Quando le piante erano ancora giovani e tenere Miki imparò presto a coprirle con damigiane di vetro e fiasche di vino senza il fondo durante gli inverni più freddi. Piantate in aiuole squadrate piene di sassi bianchi, cinque diverse specie di cactus furono messe a guardia della facciata. Nel 1969 arrivò da Palermo un camion pieno di piante, in compagnia di chi doveva occuparsene: Rosolino, giardiniere di Villa Trabia dalla cinquantennale esperienza con le piante esotiche.
32 IL GIARDINO CHE NON C’ERA
Vicino al cancello nord furono sistemate delle giovani Phoenix canariensis, e qui e là dei bastoncelli di olmi, mentre le Yucca elephantipes furono ormeggiate lungo la banchina, a mo’ di vessilli torreggianti. Il “porto verdeggiante” cominciava a crescere. Quarant’anni dopo, alcune di queste piante appaiono davvero imponenti, soprattutto le yucche con le loro basi elefantesche. La magia del giardino incanta tutti i suoi visitatori, comprese le famiglie reali. I visitatori sono accolti nella cappelletta dedicata a Sant’Andrea, il patrono dei pescatori, restaurata dopo il terribile terremoto del 1693. Qui Miki racconta loro la storia e la mitologia del giardino, per trasmettere un po’ della sua speciale atmosfera. Quindi li fa passare davanti alla gigantesca Xanthorrhea arborea reclinata, di solito molto difficile da far fiorire; qui, però, ogni dieci anni si dimostra generosa, e con molta cortesia è fiorita proprio per la visita della Regina Madre nel 1988. Miki associa questa pianta alla statua di Paolina Bonaparte coricata, nel museo di Villa Borghese. La visita continua attraversando il giardino fino ai due moli, dopo aver superato i quattro pompelmi piantati sulla terrazza accanto alla porta d’ingresso, l’enorme Euphorbia canariensis, che ormai raggiunge il tetto fino all’angolo e la zona
SOPRA: Uno dei moli originali, ancora intatto dopo centinaia di anni, che una volta costeggiava il lago prosciugato negli anni Trenta, essendo diventato fonte di malaria nella zona. Le banchine si sono dimostrate delle ottime aiuole, ricche di humus, ben drenate e luminosissime, ormai rifugio di una splendida combinazione di piante rigogliose, messe a dimora e curate da Miki in persona. PAGINA A FIANCO: Un groviglio di Cereus, una delle tante silenziose sentinelle piantate lungo la facciata della casa, funge da inferriata per la finestra. PAGINE SEGUENTI: Natura rigogliosa, descritta come “porto verde” da un architetto di paesaggi irlandese, Patrick Bowe, tra le pietre antiche dei pontili in cui le gigantesche yucche sembrano navigare.
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PAGINA A FIANCO: In questo giardino ogni pianta acquista dimensioni enormi, godendosi lo spazio, la luce e la tenera attenzione di una principessa illuminata. Qui una gigantesca agave regna orgogliosa sotto il sole siciliano, con “le grasse foglie dentate da artigli insidiosi e con la punta capace di trafiggere come uno stilo”, come ha detto Miki. SOPRA: Aloe piantati dentro una vecchia barca rotonda con il fondo piatto, fatta di ferro e rivestita di pece, un tempo usata dai canniddari, i tagliatori di canne, sul lago. Queste barche si chiamavano quarare e potevano navigare sulle acque più basse. Oggi pare galleggiare sul prato dove prima c’era il lago. PAGINE SEGUENTI: È difficile credere che fino alla fine degli anni Sessanta, fino all’arrivo di MIki, questo giardino non fosse altro che un grande bacino polveroso. Le piante sembrano del tutto consapevoli di quanto siano fortunate a vivere in questo giardino idilliaco. Miki spiega: “Nel mio giardino abitano soprattutto le piante che ho desiderato, che hanno catturato la mia curiosità, che ho cercato tra le
piscina, circondata da splendide bougainvillee di tutti i colori che, abbarbicate a un pergolato, fanno ombra al luogo in cui la famiglia trova riparo dal caldo soffocante dell’estate, seduta intorno alle mole grandi e fresche che si usavano per macinare grano e riso. Ogni pianta ha una storia da raccontare, trasmessa amorevolmente da Miki, che prima non sapeva nulla di botanica. Lei riesce a combinare le piante con un gusto e una fantasia notevoli, in modo da aggiungere un tocco di allegria al giardino; quindi le rose si arrampicano sulle yucche per mitigarne la geometria e la spinosità, mentre una nuvola di gelsomino fuoriesce dall’enorme e rigido Cereus jamacaru che nelle notti d’estate produce dei grandi fiori profumati bianchi e gialli. Adesso, da un’alcova dentro un muro di pietra, Cerere tiene d’occhio il nuovo giardino nato dal suo mitico lago con un sorriso interrogativo, che si spera di approvazione, mentre Miki continua a progettare e a sognare perché, come dice giustamente, “una volta che hai dato vita a un giardino non puoi più smettere di fare progetti per lui, come si farebbe per un figlio”.
pieghe dei miei sogni. Ho amato coltivarle tutte. Tutte hanno contribuito a creare un’armonia che solo un posto felice e ricco di vita può avere”.
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SOPRA: La piscina si apre su quattro spettacolari gruppi di Washingtonia robusta, con i loro tre, quattro o cinque fusti, piantate quando nacque il primo nipote di Miki nel 1984. PAGINA A FIANCO: Un gruppo di Yucca elephantipes in fiore, con i piedi grinzosi di un pachiderma, che sorvegliano un’ancora romana trovata dal principe Scipione Borghese nelle acque di Porto Ercole, appoggiata su due massicci blocchi di pietra dell’antico porto che Miki associa a “un grande uccello grigio ad ali aperte, pronto a spiccare il volo”. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Il nuovo fogliame frondoso di un Taxodium distichum, il cipresso calvo, una bellissima conifera a foglie caduche che si gode il sedimento limoso del lago prosciugato, come l’altro suo nome, “cipresso di palude”, potrebbe suggerire. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Un lussureggiante gruppo di Aloe arborescens gode le ottime condizioni del giardino.
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San Domenico Palace Hotel Taormina
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l grazioso giardino panoramico del San Domenico Palace Hotel ha ricevuto gli elogi di molti visitatori di fama, compreso Goethe, che scrisse: “Non si dimentichi che godemmo la vista di questa bella sonda sotto il più terso dei cieli, dall’alto d’una piccola balaustrata, guardando le rose e ascoltando gli usignoli”. Nel 1865 lo scienziato francese Élisée Reclus scrive: “In nessuna altra parte del mondo l’uomo è mai riuscito a combinare in modo così sublime i tesori dell’arte con la magnificenza della natura”. Allo stesso tempo, il pittore e barone Ottone Geleng rappresentava i colori e i paesaggi di Taormina. Nel mostrare i suoi dipinti a Parigi, suscitò incredulità e diffidenza, giacché nessuno immaginava che quei paesaggi potessero esistere davvero. Geleng si offrì di pagare il viaggio e la sistemazione ai suoi critici, se fossero riusciti a dimostrare che la sua opera non era realistica. Tre di loro lo seguirono e in seguito scrissero delle recensioni piene di entusiasmo, sancendo l’inizio del turismo a Taormina. San Domenico è un vecchio monastero del XV secolo convertito in albergo, i cui lunghi corridoi imbiancati evocano tuttora la vita monastica, così come la evocano i chiostri e i giardini nascosti, sorvegliati solo dalle terrazze private delle camere che vi si affacciano.
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Da qui si apre un vista sbalorditiva sulle valli sottostanti, lungo la costa e poi su fino al gigantesco profilo fumoso dell’Etna, che D. H. Lawrence, durante il soggiorno a Taormina, descrive così: “Ancora l’Etna, quella strega malvagia, che fa riposare la sua spessa neve bianca sotto il cielo, e lentamente, lentamente innalza spire del suo fumo arancione. Loro, i greci, lo chiamavano il Pilastro del cielo. Dapprima sembra sbagliato, poiché esso si arrampica su per una lunga linea, magica e sinuosa dalla riva del mare fino al suo cono smussato, e non sembra alto. Sembra piuttosto basso, sotto il cielo. Ma quando lo si conosce meglio, oh timore e magia! Distante sotto il cielo, distaccato, così vicino eppure mai con noi... Ma l’Etna stesso, l’Etna della neve e dei segreti venti mutevoli, è dietro un muro di cristallo. Quando lo guardo basso, bianco, simile ad una strega sotto il cielo, mentre lentamente innalza le spire del suo fumo arancione e a volte espira fiamme rosse come le rose, allora devo distogliere lo sguardo dalla terra e rivolgerlo all’etere, al basso empireo. E lì, in quella remota regione, l’Etna è solo”. Inoltre, dall’altro capo del giardino si vede il famoso teatro greco, che Goethe descrive come “una gigantesca opera d’arte e di natura... mai,
PAGINA A FIANCO: La facciata dell’hotel, con vista sugli alberi del giardino, la bougainvillea che tappezza il muro e l’Etna in lontananza, “con i suoi strani venti che vagano intorno ad esso in cerca di preda come le pantere di Circe.” – D. H. Lawrence.
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probabilmente, un pubblico di teatro si vide davanti qualcosa di simile”. Il giardino risplende per la maggior parte dell’anno con una profusione di fiori delimitata da magnifiche siepi di lavanda, bosso e Asparagus sprengeri. Violacciocche, eliantemi, calendule, digitali, statici, fiordalisi, salvia rossa e bocche di leone si combinano sotto diverse specie di alberelli: kumquat, limoni, ibischi, callistemoni, chiazze di strelitzie e bougainvillee. I giganteschi vasi di Agave attenuata e le giare d’olio colme di felci punteggiano i sentieri bianchi e rossi pavimentati con motivi a lisca di pesce frammezzati con sassi decorativi. Il senso di pace, i profumi e l’atmosfera contemplativa che prevalgono qui rievocano le sue origini monastiche.
SOPRA: Mattina presto nel giardino di San Domenico, con le gocce di rugiada ancora sulla profusione di fiori nelle aiuole ombreggiate dagli alberi da frutto. PAGINA A FIANCO: Palme e agrumi prosperano tra le siepi di lavanda sullo sfondo di una spettacolare veduta della Baia di Naxos, giù in lontananza. PAGINE SEGUENTI: Vista al tramonto sulla baia, Capo Taormina e Isola Bella dalla terrazza stretta e lunga sulla quale è costruita una Taormina “ancorata al cielo”, con le parole di Lawrence Durrell. PAGINE ANCORA SEGUENTI: Giare per l’olio, vasi di terracotta e urne distribuite in tutto il giardino, traboccanti di fiori e felci, lungo i sentieri piastrellati o tra flutti di statici, lavanda e papaveri di California.
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PAGINE PRECEDENTI: Eliantemi rossi a profusione, la cui esuberanza è delimitata dalle bordure di lavanda. PAGINA A FIANCO: Aiuola di statici, Psilliostachys suworowii, i fiori semprevivi, di ogni colore, che sembrano frusciare come carta crespata e, in mezzo, un’apparizione occasionale di papaveri rosso intenso e Escholzia arancione. SOPRA: Guardando dal balcone il giardino e il mare sottostanti, si possono capire i commenti entusiasti dei tanti ospiti dell’albergo. PAGINE SEGUENTI: La stessa vista di notte: il regno delle fate.
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Un giardino silvestre sulle pendici dell’Etna Catania
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uesto giardino, conosciuto nella zona con il nome di Bosco della baronessa, in onore della zia dell’attuale proprietario, presenta le tipiche specie boschive delle pendici etnee: querce, aceri, pini dell’Etna, lecci e castagni. Circonda la casa costruita con mattoni di lava, in origine una delle masserie della proprietà, in cui tutt’ora si conservano alcuni elementi rustici come la greppia, ossia la mangiatoia per gli animali, e il tavolo all’aperto, ricavato da una botte di legno per vino. Le zone cintate dentro il giardino, un tempo adibite a mànnare, cioè ovili, sono oggi prati costellati di margherite e circondati da fiori e arbusti delimitati da muscosi muretti di lava. Si tratta di un giardino davvero intimo, rigoglioso e tranquillo, in cui ogni mànnara si distingue per un suo tratto distintivo e un’attenta selezione di piante. In una, ad esempio, un gigantesco bagolaro dell’Etna crea una magnifica zona d’ombra per il salotto esterno, con un merletto di luce in movimento sull’erba. Un’altra, invece, è orlata di rigogliose camelie, del tutto integrate nell’ambiente. In effetti, un proverbio locale recita: “A Palermo le pomelie, a Catania le camelie”. Ortensie, rose antiche, ginestre e molte varietà di cespugli da fiore e peonie circondano la casa e
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incorniciano gli ovili più vicini, mentre il giardino si fonde gradualmente con l’area boscosa più lontana dagli edifici. In onore della famiglia dei proprietari, i Fragola, manca solo un bel tappeto di fragoline selvatiche, ma pare che qui non vogliano proprio crescere. Le pesanti strutture in cemento che una volta formavano scale e sentieri sono state tutte sostituite da elementi di legno, come i gradini ottenuti dalle traversine ferroviarie in disuso, raddolciti da erba e piante striscianti, in splendida armonia con la selva circostante. Per il progetto originale, la scelta delle piante e il recente inserimento di un laghetto, i proprietari hanno potuto contare sull’aiuto del paesaggista Salvatore Bonajuto. Guardiano dell’intera proprietà è il re dei boschi, il Quercus pubescens.
PAGINA A FIANCO: Scalinata di traversine che porta alla casa, con gradini erbosi immersi tra le piante a sostituire quelli precedenti fatti di calcestruzzo, davvero brutti e senza vita.
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SOPRA E A FIANCO: In origine una cisterna dell’acqua, ora convertita in abitazione, che affaccia su uno degli ovili e su uno straordinario assortimento di piante. È difficile credere che queste siano le pendici di un vulcano attivo.
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PAGINA A FIANCO: L’ovile più basso, con un prato straripante di margherite, si apre in modo allettante verso la frescura silvestre, una vera delizia in questo riarso paesaggio vulcanico. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: “A Palermo le pomelie, a Catania le camelie”. Petali rosa adornano il tappeto erboso punteggiato di margherite. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Salotto all’aperto sotto l’ombra screziata di un gigantesco bagolaro dell’Etna. Il colore brillante dei cuscini riecheggia nelle rose e nelle camelie, un contrasto intenso con il verde prorompente del giardino.
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SOPRA: Il nuovo laghetto in mezzo al bosco, nelle cui acque immobili si riflettono le graziose foglie dentellate delle querce e la luce guizzante del sole. PAGINA A FIANCO: Il bosco, dimora di molti alberi originari dell’Etna, come querce, aceri, pini, lecci e castagni, tappezzato di felci, fiori ed edere spontanei. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Il Quercus pubescens (la roverella) che cresce spontaneo sulle pendici più basse dell’Etna, re del bosco, qui domina maestoso sul giardino. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Scalini di legno che, dai recessi ombrosi del bosco, riportano agli ovili soleggiati.
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Il paradiso di Giulia Catania
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i tratta di un giardino privato sulle pendici dell’Etna, vicino Catania, conosciuto con il nome di Zona Paradiso, che Giulia ha pazientemente tirato fuori da un mandarineto di famiglia. Si sviluppa su tre grandi terrazze con un magnifico sfondo di sedimentazioni verticali di lava, residui di un cratere vulcanico formatosi centotrentacinquemila anni fa, prima dell’eruzione dell’Etna. Ai piedi del giardino si apre un panorama mozzafiato sul bacino di questo vulcano ormai estinto e sul Golfo di Catania, dalla Riviera dei Ciclopi fino ad Augusta. Dal giardino si può godere di una vista panoramica spettacolare. In cima al muro verticale del cratere è appollaiata la torre di famiglia, una stravagante costruzione in stile ottocentesco, un tempo usata per conservare il palmento per i vasti vigneti, ormai divisi tra i membri della famiglia. Dietro le mura del giardino domina la figura dell’Etna, incoronato da una calotta di neve per gran parte dell’anno. Giulia ha cominciato a realizzare il suo giardino circa quindici anni fa, grazie alla spinta iniziale del paesaggista Ettore Paternò che l’ha aiutata a tracciare i sentieri fiancheggiati da iris blu in primavera e a scegliere alberi e cespugli particolari, inusuali in quegli anni.
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Un enorme Erythrina ombreggia l’ampia terrazza pavimentata in cima al giardino, il salotto di famiglia all’aperto, provvista inoltre di un patio che si sviluppa intorno alla sorgiva della cisterna sotterranea dell’acqua, un tempo usata come abbeveratoio per gli animali. Non mancano poi i tipici sedili piastrellati lungo i muri, i bissuoli. Fino al 1950 la deliziosa casa di un piano era la stalla di famiglia. Ai primi di maggio siepi di Rhaphiolepis abbelliscono il giardino con una profusione di boccioli rosa e bianchi. Invece, per gran parte dell’anno, sono le diverse specie di Grevillea australiana, le piante preferite di Giulia, a colorare il giardino. Piante del posto si combinano con specie da ogni dove, e spesso trovano spazio anche piante portate dal vento e dagli uccelli. Il grazioso manto di fiori selvatici che occupa la parte centrale di ogni terrazza è composto da minuscoli trifogli bianchi, pervinche rosse e blu e nontiscordardime, con uno sfondo di euforbia, acanto e macchie di Centranthus ruber, che in famiglia chiamano ligno sapunaciu, legno saponario, perché dalle sue radici si otteneva un sapone rudimentale per lavare la biancheria al tempo di guerra. A ogni livello del giardino piccolissime violette spuntano dal pavimento. Qualche agrume sopravvive ancora qui e là sulle terrazze, tuttora collegate l’una all’altra
PAGINA A FIANCO: Scalinata fatta di vecchie traversine, inframmezzata da erba e orlata dalle lantane, conduce al patio davanti la casa dalla prima terrazza.
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dagli stretti gradini originali addossati ai muri, una volta usati dai raccoglitori. Querce indigene, ulivi, carrubi, mandorli e bagolari dell’Etna si combinano con le gigantesche agavi, yucche e aloe, i Jacaranda, le Chorisia, Brachychiton, Melia e Koelreuteria, favorendo una splendida varietà di fioriture tutto l’anno. Un’ampia scalinata di vecchie traversine porta sul retro della casa, orlata da una profusione di lantane, cycas e succulente. Giulia ammette di gradire molto il dialogo quotidiano col suo giardino, mentre il marito
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Michele confessa di provare una lieve gelosia, mista, ovviamente, a orgoglio.
SOPRA: Un paio di alberi di Jacaranda piantati di recente creeranno una leggera ombra ricamata per le panchine, in una delle zone più panoramiche con vista sul Golfo di Catania, sulla costa che va dalla Riviera dei Ciclopi fino ad Augusta. PAGINA SEGUENTE: La stravagante torre di famiglia di stile ottocentesco in cima alla collina, in cui si conserva il palmento per il vino, e le straordinarie formazioni laviche verticali, che risalgono a centotrentacinquemila anni fa.
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PAGINE PRECEDENTI: Sentiero che porta alla
SOPRA: I licheni arancioni abbarbicati agli scalini
terrazza più bassa in cui le agavi, le aloe e le
di lava, un tempo usati dai raccoglitori quando il
piante mediterranee si mescolano con le specie
giardino era un mandarineto, fanno risaltare gli
più esotiche; dietro, un magnifico ulivo antico e
iris blu e le margherite felicia.
una coltre di acanti spontanei che nascondono una panchina nell’ombra più folta.
PAGINE SEGUENTI: La terrazza più bassa,
PAGINA A FIANCO: Le sedimentazioni naturali
ginestrini piè d’uccello cresciuti spontaneamente
di lava creano uno sfondo teatrale perfetto per
in mezzo a iris, cespugli e alberi.
con manto ornamentale di pervinche, trifogli e
l’esuberante vegetazione del giardino.
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Villa Pulvirenti Villaruel a San Gregorio Catania
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on lontano dal giardino di Giulia, il fratello di Michele, Enzo, ne possiede uno molto diverso, accanto alla villa signorile di campagna della stessa proprietà, costruita nel 1845 sul limitare della vigna. Il giardino cintato risale alla stessa epoca: sembra essere rimasto indietro nel tempo con quella sua disposizione formale tuttora intatta e alcuni cipressi originali, innestati per formare degli archi. Il giardino, di cui si occupa con cura la marchesa Vittoria, si affaccia sul piazzale della Chiesa dell’Immacolata. Questo è composto da due quadrilateri, uno interamente pavimentato e uno caratterizzato dalla presenza di aiuole, separati da un viale che attraversa il giardino dal cancello principale fin sulla piazza e prosegue fino alle vigne. Il giardino a quadrilatero è a sua volta suddiviso in quattro quadrati da sentieri di ghiaia di fiume che corrono anche lungo i muri di cinta a forma di eleganti archi sormontati da busti di terracotta. Dei sedili piastrellati abbelliscono i punti in cui i sentieri conducono ai muri esterni. L’area pavimentata vicino alla casa e agli altri edifici annessi, ormai incorporati in quello principale, un tempo era l’area di servizio e nasconde la cisterna dell’acqua. Qui si trovano una grande palma e un gran numero di urne e
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vasi di terracotta traboccanti di lobelie, lavande e gerani. L’edificio a torre, l’originaria residenza del massaro, ha ancora due fenditure nei muri, create appositamente per sparare a eventuali briganti. Nella zona con le aiuole, nei punti in cui i sentieri si incrociano, si trovano una fontana e una statua. Le aiuole sono composte da una colorata combinazione di fiori di stagione: emerocallidi gialli, felicie azzurre, liriopi sotto le magnolie, lantane gialle, agapanti blu, amarilli rosa, peonie gialle, canne arancioni, nigelle rosa e bianche con bossi rotondi agli angoli. Tra le piante più grosse ci sono due camelie, specie che ama il microclima delle pendici dell’Etna, cycas, palme, magnolie e alberi di Giuda lungo i muri laterali. Il viale che parte dal cancello principale è decorato con un motivo geometrico a sassi bianchi e neri, detto a rasagghia e porta a una grande rosa dei venti anch’essa di sassi, incorniciata da cascate di rose bianche. Questo viale, che un tempo conduceva alla vigna confinante, è largo abbastanza da permettere il passaggio dei veicoli della fattoria. Il raffinato salotto che si affaccia sul giardino è stato dipinto nel 1986 dall’artista inglese Tony Watford, che ha raffigurato il giardino stesso, per come si vede dalle finestre, con eleganti affreschi
PAGINA A FIANCO: Il cancello d’ingresso, celato da una cascata di rose bianche, visto dal giardino ombreggiato.
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a tutta parete, mentre lo studio attiguo mantiene ancora gli affreschi paesaggistici del XVIII secolo.
SOPRA: Area pavimentata prospiciente la casa, con la strada acciottolata che partendo dal cancello principale, permetteva il passaggio delle carrozze attraverso il giardino fino alle vigne. attigue PAGINA A FIANCO: Muro singolare con eleganti archi rosa sormontati da busti di terracotta, che un tempo separava il giardino dalla vigna confinante. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Il delizioso affresco del giardino, liberamente interpretato da Tony Watford verso la fine del secolo scorso, nel salotto di casa crea un continuum tra interno ed esterno. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Quattro cipressi del XIX secolo innestati a coppie per creare un passaggio ad arco sul sentiero di ghiaia di fiume, e per riecheggiare la forma dei muri di cinta rosa.
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Le gole dell’Alcàntara Colate di lava a Randazzo Il fiume Ciane, nei pressi di Siracusa Riserva naturale di Vendicari, Siracusa Paesaggi naturali
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l fiume Alcàntara, tributario del Mar Ionio, con i suoi cinquantadue chilometri di lunghezza e un’area di circa cinquecentosettantatre chilometri quadrati tra le provincie di Messina e Catania, è uno dei fiumi più grandi della Sicilia. Il parco fluviale dell’Alcàntara è un parco di interesse botanico ma anche geologico, perché vi si trovano straordinarie formazioni di rocce basaltiche in un canyon naturale, probabilmente dovute più ai sommovimenti sismici che all’opera erosiva del fiume nel corso dei secoli. I movimenti sussultori dei terremoti devono aver spaccato gli antichi laghi basaltici di magma fuoriuscito dalle fenditure del basamento pre-etneo, risalente a circa trecentomila anni fa, formando delle gole con pareti che in alcuni punti arrivano a cinquanta metri d’altezza. Queste pareti sono composte da colonne quasi verticali soprannominate “canne d’organo”, muri leggermente arcuati definiti “arpe” o “ventagli” e formazioni orizzontali a cataste di legna. In certi punti la roccia è più incrinata e caotica; qui le colate di lava si raffreddavano lentamente, permettendo la formazione di prismi, pentagoni ed esagoni, simili alla struttura molecolare del magma stesso. Nei punti più stretti la gola è larga solo due metri, ma in certe zone
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può arrivare fino a quattro o cinque, arrivando a coprire più di sei chilometri. Il letto del fiume non si asciuga neanche nei mesi estivi più secchi, perché attraversa una delle zone con la più alta percentuale di pioggia, raccoglie il deflusso di neve e ghiacciai dell’Etna, e scorre lungo una zona carsica. Le sue temperature sono sempre incredibilmente fredde. Già alla fine del XIX secolo, il potente flusso di queste acque si usava per produrre elettricità, mentre i turisti viaggiavano in carrozza da Taormina per godersi le acque termali di Francavilla, illuminati dalla nuova scoperta. L’unica grotta originata dalla colata di lava si trova a Motta Camastra; si chiama Grotta dei Cento cavalli per via delle dimensioni. È davvero splendida, ma difficile da raggiungere. Qui la natura si è esercitata a creare giardini verticali lungo la gola, distribuendo tasche di vegetazione lungo le pareti a precipizio, un vero paradiso per gli uccelli. In primavera le sponde del fiume si riempiono di colori, tra violette, papaveri, anemoni, mirto, rose canine, fichi d’India, terebinti e oleandri, per non parlare delle diverse specie di orchidee selvatiche. Il parco è nato per salvaguardare le gole e assistere le migliaia di turisti attratti qui ogni anno.
La Sicilia, terra di contrasti, ha dei panorami mozzafiato: straordinarie montagne vulcaniche, distese di agrumi e mandorli che fioriscono in primavera, antiche rovine incantevoli e linee costiere variegate. È Giuseppe Tomasi di Lampedusa a descrivere questa terra nel modo più intenso: “Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove”. Guy de Maupassant parlava dell’“immensa natura siciliana, scabra, vulcanica, sulfurea, eternamente mossa, ma viva e rigogliosa a un tempo, e disposta comunque a lasciarsi governare”.
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Sono stati tracciati sentieri di varie lunghezze sulle cime dei dirupi per far godere il panorama delle gole dall’alto; in più, dei gradini e un ascensore portano alla spiaggia di sabbia fine. Quando le condizioni lo permettono si organizzano visite guidate alla grotta, con possibilità di prendere a noleggio, sul posto, impermeabili e stivali.
PAGINA PRECEDENTE: Il punto più stretto delle
lentamente, plasmando la roccia in modo incredibile.
gole, dove l’acqua ghiacciata serpeggia impetuosa tra i dirupi di lava verticale, creando spiagge di
PAGINA A FIANCO: Le facce prismatiche della
sabbia fine laddove la parete rocciosa cede terreno
roccia basaltica sono state descritte come enormi
alle grotte o si allarga tanto da permettere alla
fasci di ramoscelli, piegati e spezzati con violenza.
corrente di calmarsi un po’. Dalle cime trabocca una vegetazione rigogliosa che trova modo di
PAGINE SEGUENTI: Le rocce bizzarre, a forma
abbarbicarsi a ogni più piccola fenditura nella roccia.
di prismi, pentagoni ed esagoni, messe in risalto
SOPRA: Il canyon naturale, con pareti alte cinquanta
paragonate alla Grotta di Fingal sull’isola di Staffa,
metri nel punto in cui i fiumi di lava si raffreddarono
nelle Ebridi Interne.
dalle ombre e dai raggi solari obliqui, sono state
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uesto paesaggio lunare, testimone della furia dell’Etna – nella storia si sono registrati almeno centotrentacinque grosse eruzioni – nel corso dei secoli è stato descritto da molti viaggiatori famosi e, non di rado, è stato paragonato all’inferno dantesco. Nel suo Viaggio in Italia, Goethe descrive il panorama intorno al vulcano: “La collina di selce mista continua fin quasi a Catania e poi fa luogo, o si affianca, a colate di lava etnea... Qui si vede come la natura ami la varietà delle tinte: si sbizzarrisce sul grigio-blu nerastro della lava ricoprendolo di muschio color giallo vivo, cui si sovrappone il rosso del Sedum e altri bei fiori violetti. Le piantagioni di fichidindia e i vigneti testimoniano colture accurate. Le colate laviche si fanno via via più imponenti”. Scrive Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo: “Questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali, questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della Baia di Taormina”.
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SOPRA: Helichrysum italicum sopravvive con coraggio su una colata di lava apparentemente ostile, insieme allo Stereocaulon vesuvianum, l’intrepido lichene vulcanico chiamato lippu di sciaru in dialetto locale, uno dei primi colonizzatori dopo il raffreddamento della lava. PAGINA A FIANCO: “Ma il verde è squarciato da nastri di lava nero-rossastra: benché sempre più rade e ridotte, le piante strisciano lentamente verso le pendici più alte, lottando per riconquistare la terra ricoperta e bruciata dalla lava ormai secoli addietro. I primi colonizzatori sono stati muschi e licheni, chiazze grigio verdi su sterili pendii come muffa sulla marmellata di more. Oltre, solo lunghe distese di lava, minacciose ed esanimi” – Mary Taylor Simeti.
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PAGINA A FIANCO: Fitte macchie subacquee
ci consegnò i pensieri dei morti, che fu custode
di piante fluttuano e si intrecciano in direzione
del genio umano tenga, sul suo corpo esile di
del mare nella lieve corrente di acqua dolce e
arboscello, una larga criniera fluente e rigogliosa,
limpida. Scrive Guy de Maupassant: “Sotto di noi,
simile a quella dei poeti? ”. In effetti, la gente del
in fondo all’acqua, si scorge una foresta di grandi
posto ha soprannominato parrucche questi ciuffi
erbe che si muovono, ondeggiano, galleggiano,
lunghi e sottili.
sembrano nuotare nella corrente che le agita”. SOPRA: Una moltitudine di tenere canne e di verdi piante acquatiche affolla le sponde del fiume, chinandosi, come Narciso, ad ammirare il proprio riflesso nell’acqua. PAGINE SEGUENTI: “Ormai è un fiume che scorre per cinque chilometri fino al mare, attraversando un fitto arruffio di acori gialli e papiri selvatici, ma una volta Ciane era una delle ancelle di Persefone che, per aver tentato di salvare la sua signora dal Padrone dell’Oltretomba, per tutta risposta fu tramutata in fiume” – Mary Taylor Simeti, On Persephone’s Island. Ne La vita errante (1885), Maupassant paragona i papiri a teste umane trasformate in piante, gettate nelle acque sacre della fonte da uno degli
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l fiume Ciane, che attraversa l’entroterra a sud di Siracusa, deve il suo nome al colore delle acque – in greco kyanos significa azzurro scuro – ma anche alla leggenda secondo la quale Plutone trasformò la ninfa Ciane in una sorgente perché aveva cercato di ostacolare il rapimento di Proserpina. Se si attraversa su una barca il fiume cristallino, ricco di pesci e uccelli, che porta a uno stagno di papiri – una pianta acquatica di origine egiziana che forniva ai faraoni un supporto di lunga durata per scrivere – sembra davvero di entrare in una leggenda. Il silenzio assoluto, interrotto solo dal fruscio di queste piante che giocherellano e mormorano al vento e dal tranquillo sciabordio della barca che scivola sull’acqua, la evoca ancora. In luoghi come questo lo splendore della natura raggiunge livelli tali di incanto che tutto diventa possibile. Qui il papiro cresce maestoso tra salici e frassini, un caso unico in Europa, già documentato nel I secolo d.C. Si dice che più tardi, in questo fiume, gli Arabi avessero introdotto i coccodrilli. La popolazione locale, che li chiamava cuncutrigli, li considerava talmente pericolosi per sé e per gli animali da sterminarli gradualmente nel corso del XVIII secolo.
dei pagani che anticamente vivevano qui. “Non è curioso forse che il venerabile arbusto, il quale
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SOPRA: Tratto di costa dalla sabbia fine, punteggiata di panicaudi, che si staglia su un mare turchino. PAGINA A FIANCO: La palude salmastra di Vendicari, rifugio della flora mediterranea che predilige i terreni sabbiosi e degli uccelli di palude. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Panicaudi, Eryngium maritimum, sulle dune di sabbia, dal coriaceo fogliame verde argentato e con spine insidiose per proteggersi dagli animali da pascolo. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Capolini secchi di Carlina nebrodensis, una pianta spinosa tipica dei terreni da pascolo, che riporta alla mente la descrizione di Tomasi di Lampedusa di una “campagna funerea, gialla di stoppie, nera di restucce bruciate”, dove “il lamento delle cicale riempiva il cielo, era come il rantolo della Sicilia arsa che alla fine di agosto aspetta invano la pioggia”.
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endicari, aperta tutto l’anno, è la palude più meridionale d’Europa, un’oasi faunistica in cui migliaia di uccelli migratori sostano sulle cinque lagune o intorno a essa, scampata all’avida stretta degli immobiliaristi attratti dal mare stupendo. Si tratta di una sottile striscia di costa salmastra e acquitrinosa su un’area di cinquecentosettantaquattro ettari, un habitat raro, e ormai del tutto protetto, sia per le specie migratorie sia per la particolarissima vegetazione mediterranea che predilige i terreni sabbiosi. L’ampia distesa pantanosa contiene alti livelli di salinità e ha sviluppato un insolito ecosistema che continua ad attrarre un gran numero di volatili che sorvolano l’area. Inoltre, nei mesi autunnali, è il rifugio di molti uccelli trampolieri e da palude, compresi fenicotteri rosa, spatole, aironi rossi, rallidi e gabbiani corsi. Tra le poche specie che qui si riproducono ci sono i cavalieri d’Italia, ali nere, corpo bianco e lunghe zampe rosse, l’emblema della riserva. Poiché l’habitat è molto variegato – dune, rocce e paludi salmastre – la flora è interessantissima: il sottosuolo roccioso, che occupa soprattutto la parte settentrionale della riserva, è l’ideale per la vegetazione del tipo gariga, con cuscini di fragrante satareddu (Thymus
capitatus), spinaporci (Sarcopoterium spinosum), e il commestibile finocchio marino (Crithmum maritimum). Dove predomina la sabbia, invece, tra la macchia mediterranea crescono piante perenni come il garganazzu (Juniperus oxycedrus), la cipolla marina (Urginea maritima), e il rosmarino. Raleigh Trevelyan osserva: “Narra la leggenda che Vendicari è infestata da una vergine che al crepuscolo piange per un amore impossibile: che sia il lamento del chiurlo?”.
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Parco Paternò del Toscano: il giardino delle palme Catania
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i tratta del giardino creato marchese Ettore Paternò del Toscano un architetto del paesaggio che piuttosto ha sempre preferito definirsi “giardiniere”. Negli anni Cinquanta cominciò a sistemare i suoi tre ettari di suolo vulcanico, modellando la terra per ottenere delle terrazze irregolari sulla proprietà di famiglia vicino a Sant’Agata Li Battiati, sulle pendici dell’Etna, nei pressi di Catania. Il suo primo esperimento è stato la creazione di un vivaio per testare l’adattabilità di piante provenienti da ogni dove. Il vivaio esiste ancora, benché non si trovi più all’interno del giardino. L’edificio principale, costruito a metà degli anni Cinquanta, è situato nella parte più alta della proprietà e affaccia sul giardino che discende versole vigne e gli agrumeti, tuttora esistenti. In esso trova spazio un ricco assortimento di piante da tutto il mondo, ma anche la flora indigena etnea, in un numero prodigioso di collezioni botaniche meravigliose. Quarantadue varietà di palme straordinarie, una delle più grandi passioni di Ettore Paternò, si alternano a specie tropicali e subtropicali, ognuna con forma, colore e storia affascinanti. Tra gli affioramenti della lava che testimoniano le antiche eruzioni vulcaniche, crescono le agavi, le yucche e una miriade di
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altre piante tropicali: il risultato è un giardino roccioso con splendidi panorami. La rigogliosa flora tropicale e subtropicale che circonda la casa si combina magistralmente con aree più informali, come il residuo della selva etnea con le sue specie endemiche, in memoria del sito originale. Paternò desiderava proprio creare un ambiente ricco, amalgamando specie diverse di piante, approfittando del clima mediterraneo particolarmente accomodante. Due aree salotto all’aperto, che in questa zona si possono sfruttare per otto mesi all’anno, prolungano la casa fin dentro al giardino, in cui la sagoma del vulcano è incorniciata da due magnifici gruppi di Washingtonia robusta e filifera alle spalle della piscina a nord, e macchie di Trachycarpus fortunei, erette come un ritmico colonnato a sud. Paternò, autodidatta come molti dei più famosi architetti del paesaggio della sua generazione, ha sottolineato l’importanza di ombra, acqua, suono, colori di stagione, profumo, spazio, luce del giorno e tracce della notte nella progettazione del giardino mediterraneo. Ha evidenziato che i giardini siciliani si apprezzano meglio al tramonto, quando i profumi, come quello del gelsomino, diventano inebrianti.
PAGINA A FIANCO: Il viale della Sciara con gradini costruiti con blocchi di lava, che attraversa il bosco indigeno e gli affioramenti lavici naturali. “Si deve tener presente che nelle zone in cui il sole è molto forte e le estati lunghe almeno i due terzi del giardino dovrebbe essere in ombra, cosi noi cercheremo conforto nella sua frescura e nel rinfrescante verde”. PAGINE SEGUENTI: Sentieri che si intersecano nell’ombra del bosco, molto amata da Ettore Paternò in questo clima caldo, con l’acanto che fiorisce spontaneamente dappertutto: “in un giardino, l’uso di fantasia dell’ombra è paragonabile a quello che svolgono la luce e l’ombra in un dipinto”. PAGINE ANCORA SEGUENTI: Radura nel bosco con panchine piastrellate a motivi tradizionali, uno dei salotti all’aperto dei Paternò. Le piastrelle, del XVIII secolo, vengono da Ragusa.
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Con sua moglie Maria Antonietta nel 1992 ha pubblicato un libro, Luci ed ombre nei giardini siciliani nel quale scrive: “Si deve tener presente che nelle zone in cui il sole è molto forte e le estati lunghe, almeno i due terzi del giardino dovrebbero essere in ombra, cosi noi cercheremo conforto nella sua frescura e nel rinfrescante verde. Per i climi caldi sebbene comporta che si può vivere fuori per la maggior parte dell’anno, abbiamo bisogno di rifugio dal sole troppo forte e dalla luce abbagliante. Dal mattino fino a crepuscolo, il mutamento naturalmente dipende dal periodo dell’anno, il sole filtra attraverso gli alberi, i rami e le foglie, formando ombre sempre mutevoli, creando effetti spettacolari di luce e colore... Giocare con questi diversi effetti di ombra, e ottenere le diverse giuste intensità, è il lavoro dell’ architetto dei giardini. Egli avrà cura di non appiattire il giardino, ma fornirà varietà, giocando con le diverse tonalità di verde e di intensità di ombre... I motivi prodotti dalle ombre del giardino possono creare spettacolari effetti visivi. Pensate alla forma delle foglie pinnate delle palme, ad esempio, riflessa sulla superficie d’acqua ...in un giardino, l’uso di fantasia dell’ombra è paragonabile a quello che svolgono la luce e l’ombra in un dipinto”.
109 PARCO PATERNÒ DEL TOSCANO: IL GIARDINO DELLE PALME
Queste raccomandazioni si adattano perfettamente al suo giardino. Egli sostiene che le doti naturali e l’armonia tra anima e personalità in un individuo siano vitali per la creazione di un giardino, senza dimenticare che quelli più semplici sono anche i più eleganti. Ci tiene inoltre a sottolineare l’handicap di ogni giardiniere: quando crede di aver finito un giardino, in realtà è solo all’inizio. L’arte del giardino, diversamente delle altre forme artistiche, è vivente, un continuo succedersi di stagioni, fioritura e crescita. Nel parco, al giorno d’oggi, molte sono le attività da seguire, di cui si occupa la nipote di Ettore, Stena. Si tengono lezioni rivolte a bambini di tutte le età in materia di giardinaggio, la propagazione delle piante e l’ecologia, ma anche eventi artistici e culturali, soprattutto in estate. Mentre visitava la Sicilia, Roberto Burle Marx si è innamorato di questo splendido giardino mediterraneo, complimentandosi con Paternò per la sua “abilità nel giardinaggio”. “Un gran bel complimento”, ha osservato Ettore con orgoglio “in cui è implicito che una buona conoscenza delle piante dovrebbe andare di pari passo con il sesto senso di come organizzare un giardino”.
SOPRA: Stagno ottagonale, orlato con un largo
l’ombra zebrata delle molte varietà di palme.
bordo in pietra grigia, per le ninfee, sommerso
“Giocare con questi diversi effetti di ombra, e
dal prato di uno dei giardini incassati. Paternò
ottenere le diverse giuste intensità, è il lavoro
considerava l’acqua “un elemento di vita”,
dell’ architetto dei giardini. Egli avrà cura di non
importantissimo in qualsiasi giardino.
appiattire il giardino, ma fornirà varietà, giocando
PAGINA A FIANCO: Due imponenti gruppi di
ombre”.
con le diverse tonalità di verde e di intensità di Washingtonia robusta e filifera torreggiano dietro la piscina, incorniciando l’Etna in lontananza. Linneo
PAGINE ANCORA SEGUENTI, A DESTRA:
definiva la palma “regina del mondo vegetale”. Nel
Foglie di Oreopanax peltatus, o Aralia montana, che
suo giardino Paternò ne ha quarantadue varietà
Paternò descrive come “marcatamente palmate,
diverse.
hanno un disegno elegantissimo e un insolito color verde bronzato, mentre, nella pagina inferiore,
PAGINE SEGUENTI: Altri due panorami silvestri
sono rubiginose. Particolarmente belli i nuovi getti
in cui la macchia mediterranea e ciò che resta del
foliari che sembrano di camoscio”.
bosco etneo si combinano con le specie tropicali e subtropicali tra le colate di lava. La selva occupa più di un ettaro del giardino. “Dal mattino fino al crepuscolo, il mutamento naturalmente dipende dal periodo dell’anno, il sole filtra attraverso gli alberi, i rami e le foglie, formando ombre sempre mutevoli, creando effetti spettacolari di luce e colore”. PAGINE ANCORA SEGUENTI, A SINISTRA: Alcune delle piante preferite di Paternò: Dasylirion, sia serratifolium e longissimum, Yucca rostrata, Dracaena draco e Opuntia, fichi d’India, sotto
110 PARCO PATERNÒ DEL TOSCANO: IL GIARDINO DELLE PALME
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Azienda Trinità, Mascalucia Catania
V
illa Trinità si trova a Mascalucia, vicino Catania, in una proprietà di campagna di circa tre ettari, a più o meno cinquecento metri sopra il livello del mare. Per almeno otto generazioni è appartenuta alla famiglia Bonajuto, di antiche origini spagnole, arrivata in Sicilia all’inizio del XIV secolo. La villa, costruita nel 1609, deve il suo nome alla vicina chiesa del XVII secolo, la Santissima Trinità. Il giardino giace sulla più recente di una serie di remotissime stratificazioni, così che ogni tanto affiorano antichi manufatti ellenistici o romani. Nel 1382 una colata di lava ricoprì tutto; quindi il giardino attuale è stato invogliato a uscire dal suo letto di lava grazie al duro lavoro e alla passione dell’attuale proprietario, Salvatore Bonajuto. Salvatore, paesaggista e agronomo, ha cominciato a sistemare il suo giardino all’inizio degli anni Novanta, facendo esperimenti con specie del luogo ed esotiche, ma nel frattempo preservando molte delle varietà di agrumi che suo padre Antonio aveva piantato in ogni spazio possibile negli anni Sessanta. Antonio affidò di buon grado la gestione della terra al figlio, di ritorno da Milano dopo i suoi studi sul paesaggio, in modo da legarlo alla proprietà. La sua strategia si è dimostrata
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vincente, e ancora oggi Salvatore investe tutto il tempo e l’energia nel miglioramento della sua eredità, sempre in evoluzione. Per prima cosa, ha mantenuto le vestigia più pittoresche del passato: le magnifiche saie, i canali sopraelevati di terracotta per l’irrigazione di antica tradizione araba, in cui Salvatore, come lui stesso ricorda, giocava con delle barchette di foglie; la gebbia, la grossa cisterna dell’acqua, il cui nome deriva chiaramente dalla lingua araba; le enormi macine per la pressatura delle olive, ricavate da un unico pezzo di lava; i sentieri di lava spaccata, chiamati rasule e una curiosità, u scifu d’aroi (scifo delle gru), un affioramento naturale della lava che raccoglie acqua, usata dalle gru, a novembre in volo verso sud, per abbeverarsi. Salvatore ha accumulato una straordinaria varietà di piante mediterranee ed esotiche acclimatate, compresi molti tipi di agavi, aloe, iris e palme, ma anche tanti alberi insoliti come la Chorisia speciosa, il cui tronco è cosparso di spine impressionanti, o lo Schinus molle, l’albero del pepe, e una grande collezione di querce e lentischi. Tra le aree di interesse naturalistico vi è un appezzamento di terra coperto di Quercus pubescens selvatica, la roverella, che un tempo ricopriva le pendici dell’Etna.
PAGINA A FIANCO: Il cortile davanti la proprietà con la gigantesca cisterna dell’acqua del XVII secolo, sulla destra, che raccoglie l’acqua piovana dai tetti per l’irrigazione del giardino.
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Inoltre non mancano Vecchie Rose e rose botaniche, salvie, lavande, giunchiglie, alberi e cespugli del luogo come i sorbi di montagna, i corbezzoli, gli azzeruoli, innumerevoli piante rampicanti e un ricco assortimento di agrumi coltivati biologicamente che si vanno ad aggiungere a quelli già piantati dal padre. Gli agrumeti sono tappezzati di quaranta specie diverse di iris. In più ci sono molti cespugli mediterranei, alberi da frutto tradizionali come fichi d’India, cachi, noci, castagni, peri, albicocchi e alberi da frutto esotici quali Acca sellowiana, Macadamia, Eugenia jambos e la guaiava, da cui gli ospiti della tenuta possono raccogliere e assaggiare i frutti in tutta libertà. I vigneti, molti dei quali piantati dal nonno di Salvatore, producono vitigni eccellenti, come il DOC nerello mascalese, un rosso corposo della miglior tradizione etnea. Le prestigiose etichette di famiglia: “Barone Antonio”, “Etna Rosso” ed “Etna rosato”, sono tutti vini DOC dell’Etna. Dal 2007 la cantina produce anche un ottimo vino bianco dall’uva Carricante, una cultivar tipica della zona, mentre dal 2008 l’ultimo nato è un pregevole Merlot in purezza. Gli ospiti e i visitatori dell’agriturismo di Salvatore e Marina possono aiutare nella raccolta dell’uva,
118 AZIENDA TRINITÀ, MASCALUCIA
quand’è periodo, mentre per il resto dell’anno c’è la possibilità di partecipare agli eventi di degustazione di vini prodotti in azienda. La lava, quando si destruttura e diventa porosa, è ricca di microelementi ed è l’ideale per le vigne, sebbene romperne la superficie comporti un duro lavoro, attività di cui si occupano da secoli tutti coloro che vivono all’ombra dell’Etna, in eterna competizione con il vulcano sovrastante. Un boschetto di eucalipti è stato piantato dal nonno del proprietario, il barone Salvatore Bonajuto, per rimpiazzare il campo da tennis quando i gerarchi del partito fascista ne cercavano uno per uso personale. Ormai questi grossi alberi contengono un elaborato “percorso avventura” per Antonio, il più giovane dei Bonajuto, e per i suoi amici, che fa ombra anche al campo di bocce in terra battuta. Per Salvatore il giardino è in continua evoluzione, le piante crescono e mutano di aspetto, se ne aggiungono di nuove, e spesso trovano spazio anche quelle spontanee. L’unica cosa che non muta mai è la lava.
SOPRA: Il prato principale e l’ulivo di duecentocinquanta anni dall’insolita corteccia bianca, tipica dell’area ragusana, trapiantato dall’attuale proprietario tre anni fa. PAGINA A FIANCO: Il pergolato a forma di L, progettato da Salvatore, che fiancheggia il prato principale. Le colonne sono composte da dischi di terracotta chiamati suspensura, che nel IV secolo d.C. gli antichi romani usavano per sostenere i pavimenti, qui utilizzati qui per sostenere una collezione di vecchie specie di rose rampicanti. Il canale di terracotta sopraelevato, la saia, fa parte del tipico sistema di irrigazione degli antichi arabi per convogliare l’acqua piovana, in genere per scopi agricoli. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Cespugli ornamentali di bosso nell’orto attraversato da un sentiero di mattoni a lisca di pesce. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Un grosso esemplare di Wigandia caracasana, il cui nome è indicativo della provenienza. Le sue belle foglie ondulate sempreverdi e i fiori ornamentali incorniciano la piscina, accanto a un rigoglioso Echium nativo del Mediterraneo.
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PAGINA A FIANCO: Iris fiorentini con la gebbia
del Natal, che deve il suo nome ai frutti rossi che
sullo sfondo, un’enorme cisterna per l’acqua
maturano in autunno.
piovana, anch’essa facente parte dell’antico sistema di irrigazione arabo che porta l’acqua alle
PAGINE SEGUENTI: La giungla di Salvatore tra
saie in giardino per mezzo di un sistema di mini
palme, cactus e succulente da tutto il mondo; una
chiuse di terracotta che deviano il corso dell’acqua
collezione botanica in crescente aumento.
o ne bloccano il flusso.
A pavimentare i sentieri, lava a scaglie.
SOPRA: La piscina per gli ospiti dell’agriturismo vista attraverso i rami di un noce, Juglans regia e il grosso cespuglio di una Carissa grandiflora, o pruno
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PAGINA A FIANCO: Un altro panorama del “crogiolo” botanico, che ritrae un affollamento di varietà di aloe e agavi insieme a un Cereus e un Dasylirion, contro un fondale di ginestra dei carbonai. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Dettaglio di un Cereus peruvianus che fa capolino da un’Aloe arborescens. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Convolvolo e more serpeggiano senza timore tra una feroce Agave ferox.
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Orto Botanico di Palermo
Orti Botanici
N
el 1779 la Reale Accademia di Scienze, il nome dell’università a quel tempo, acquistò parte del vecchio edificio di Porta Carini, più un piccolo appezzamento di terra confinante in cui insegnare le scienze mediche e botaniche. Presto, comunque, il giardino si rivelò inadatto e nel 1796 si decise il trasferimento in un’area più grande accanto al nuovo giardino, Villa Giulia. Nel 1795 l’Orto Botanico aprì ufficialmente i battenti al pubblico. Sarebbe stato il primo giardino botanico a ospitare una collezione di piante medicinali da usare per scopi didattici. Grande importanza si dà ancora oggi alla ricerca e agli sviluppi botanici, soprattutto per quelle piante di uso medico e agricolo. Inoltre l’orto e gli edifici annessi sono un posto piacevole da visitare, un punto di forza importante per la città, riflesso dello spirito illuminista di quegli anni. La costruzione dell’edificio neoclassico, che risale al 1789, fu completata in sei anni. Il Gymnasium, posto al centro, è affiancato dal Tepidarium e dal Calidarium. La scrivania e lo scranno al centro del Gymnasium erano riservati al “dimostratore” che teneva agli studenti le lezioni sulle piante medicinali. Le teche di vetro lungo i muri contengono collezioni di semi, frutta e campioni di legno, ma anche più
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di un migliaio di antichi volumi di botanica, il più antico dei quali risale al 1537, e fa parte della ricca biblioteca di diciannovemila testi. Inoltre nel Gymnasium si trova l’Herbarium, sia quello Generale con la sua preziosissima collezione di piante essiccate da tutto il mondo, sia l’Erbario Siculo, che ospita esclusivamente le taxa dell’isola. Qui si sono studiate innumerevoli specie di piante – molte delle quali tropicali e subtropicali – diffuse poi nel resto della Sicilia, nel Mediterraneo e nell’Europa intera. Nel corso degli anni l’Orto Botanico si è allargato e oggi ricopre un’area di dieci ettari, divisa in due aree principali. Quella accanto alle serre del Gymnasium è divisa in “quartieri” secondo il sistema di classificazione sessuale di Linneo, quella più recente, accanto all’Istituto di Botanica con i suoi laboratori e sale lettura, segue il sistema di Engler, in cui le specie sono sistemate secondo rapporti filogenetici tra famiglie di piante. Qui trovano spazio un gran numero di specie sudafricane, australiane e sudamericane, alcune in vaso o in serra, altre direttamente piantate in terra, all’aperto. L’Aquarium, posto alla fine del viale principale, è un grande stagno circolare, articolato in tre cerchi concentrici di varie profondità suddivisi in ventiquattro piccole vasche.
I primi orti botanici in Italia, quelli di Pisa, Firenze e Padova, risalgono alla metà del XVI secolo. Fino a quel momento molte cure mediche si basavano sull’uso delle erbe secondo le prescrizioni di Dioscoride Pedanio nel suo De Natura Medica, scritto all’inizio del I secolo d.C. Gli orti furono istituiti per lo studio delle piante e della scienza botanica, non solo per le erbe medicinali e le spezie. Ormai ne esistono quasi duemila sparsi in tutto il mondo, in cui le piante vengono raccolte, registrate secondo metodi scientifici e usate per la ricerca e per fini accademici. Gli scopi e i metodi non sono più solo quelli tradizionali, ma includono l’educazione ambientale, la promozione della cultura scientifica, le sperimentazioni biotecnologiche, la conservazione delle piante in pericolo d’estinzione e la biodiversità in generale. Con l’aumento, in tutto il mondo, dell’inquinamento ambientale, la conservazione è diventata la sfida più grande per gli orti botanici moderni, sia quella in situ sia ex situ, comprendendo la conservazione del germoplasma, la coltivazione e le tecniche di reintroduzione, nonchè l’educazione ambientale per preservare la biodiversità nell’ambiente di appartenenza.
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PAGINE PRECEDENTI: Un gruppo di Washingtonia filifera, la palma della California, accanto alla Tabebuia rosea, la rosa morada, e in primo piano una distesa di Aloe arborescens, sempre più popolare per le sue proprietà medicinali. Nel Giardino Coloniale, California, Sudamerica e Sudafrica creano una felice commistione. SOPRA: Un angolo delle collezione di aloe e agavi nel giardino delle succulente, tra il Viale Montemartini e il Giardino Coloniale, con Agave Furcraea in primo piano. PAGINA A FIANCO: Il famoso viale degli alberi bottiglia o falso kapok, Chorisia speciosa e Chorisia insignis, entrambe della famiglia delle Bombacaceae, un nome appropriato, nel Giardino Coloniale. I tronchi rigonfi, che immagazzinano acqua per i periodi di siccità, sono punteggiati di corte spine coniche, come protezione dai predatori, mentre i semi sono avvolti in baccelli di morbido kapok. PAGINE SEGUENTI: Lo straordinario Ficus magnolioides Borzì, piantato nel 1845 oltre il bosco esotico, le cui enormi radici tabulari occupano una superficie di 12.000 metri quadrati circa. Come scrisse Ruskin: “La sua età è scritta in ogni ramo”.
Qui la Victoria regia, una ninfea gigante originaria della Guiana britannica, è fiorita in Italia per la prima volta. Le sue foglie sono robuste abbastanza da sopportare il peso di un bambino. A un lato dello stagno trova posto un boschetto di bambù, dietro al quale sorge una collina artificiale che simula un paesaggio semiarido, ombreggiato da un magnifico albero del drago (Dracaena draco). Nei dintorni, un enorme Ficus magnolioides Borzì, arrivato dalla Francia nel 1845, presenta delle straordinarie radici aeree scultoree e una chioma che occupa una superficie di 1200 metri quadrati circa. È quest’albero ad attirare il maggior numero di visitatori e fotografi; davanti a questo colosso naturale, John Ruskin ebbe a dire: “La sua età è scritta in ogni ramo”. Il vecchio Giardino Coloniale, dove furono introdotte e studiate, per il loro potenziale economico, piante da cui ricavare stoffe, oli, resine, gomme e altro, regala ancora oggi un delizioso viale fiancheggiato da palme. Questa parte dell’Orto si continua a sfruttare per la sperimentazione con le piante, sia a scopi medici che economici. Le collezioni di alberi sono di grande interesse scientifico. Tra gli esemplari più curiosi, gli alberi di kapok, Chorisia insignis, formano uno
spettacolare viale di alberi bottiglia, spinosi e sghembi come ubriachi. Nel 1810 i mandarini (Citrus deliciosa) furono coltivati e introdotti nel Mediterraneo proprio grazie all’Orto Botanico, così come il nespolo (Eriobotrya japonica) nella prima metà del XIX secolo. Altre importanti collezioni sono le succulente, le Moraceae, un cui genere è il Ficus, le felci, le palme, le piante utili, quelle acquatiche, quelle carnivore e la collezione più completa del mondo di fichi d’India, le Opuntia. È così che l’Orto Botanico di Palermo regala un’esperienza estetica intensissima, aggiunta al fascino di un museo all’aria aperta con più di 12.000 specie che affiancano il venerando lavoro scientifico.
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Orto Botanico di Catania
L’
Orto Botanico di Catania fu fondato nel XIX secolo grazie alla determinazione di Francesco Tornabene Roccaforte, monaco benedettino e professore presso la Facoltà di Botanica dell’Università di Catania, la più antica della Sicilia. Fu lui stesso a scegliere il luogo adatto in base alla qualità del terreno e alla posizione dentro la città, né troppo vicino né troppo lontano dal centro. La prima pietra venne posata dal Gran Cancelliere dell’università il 31 luglio 1858 per celebrare il compleanno di Maria Teresa, regina delle Due Sicilie. Francesco Tornabene si occupò del discorso d’apertura, in cui enfatizzò il ruolo pratico e didattico degli orti botanici, ma anche le difficoltà incontrate nella fase di creazione. Il professor Mario Di Stefano, della Facoltà di Architettura, ebbe l’incarico di progettare gli edifici, compresa la scuola principale dal colonnato neoclassico, la vasca a più segmenti per le piante acquatiche e il grande Tepidarium, ricostruito di recente secondo criteri più tecnologici. Tornabene organizzò lo schema di piantagione dell’Hortus Universalis, seguendo il sistema di De Candolle, sostituito poi con quello più moderno di Engler all’inizio del XX secolo e tuttora in uso. Il giardino occupa 13.000 metri
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quadrati divisi in quattro sezioni da due assi ortogonali i cui punti focali sono il porticato della scuola, l’ingresso centrale, lo stagno circolare e la serra. Nonostante lo spazio limitato, l’area ospita notevoli collezioni di piante esotiche come le succulente, tra le quali l’ultracentenaria Echinocactus grusonii, volgarmente conosciuta come “cuscino della suocera”, più di centocinquanta palme e le Cycadaceae. L’Hortus Siculus è più informale perché secondo Tornabene deve “imitare l’apparenza naturale”, dove i grandi alberi sono sistemati nei loro habitat naturali accanto a rare piante endemiche quali la Zelkova sicula, il Salix gussonei e il Celtis aetnensis. Le prime piante arrivarono nel 1861, in primo luogo dai Giardini Botanici di Palermo e Napoli, ma anche dalla Svezia e dalla Francia, insieme a piante essiccate per l’Herbarium, famoso per i suoi 11.000 esemplari di flora sicula raccolti da Tornabene. Inoltre Palermo prestò il suo giardiniere capo in modo che fosse d’aiuto durante le prime fasi della piantagione. L’ampliamento dell’Hortus si deve invece a una donazione, nel 1860, da parte di Mario Coltraro, canonico eccentrico noto per il suo comportamento rivoluzionario. Ci tenne a precisare che il suo denaro si doveva usare per “la tutela e la
PAGINA A FIANCO: Il viale principale del giardino che, dalla via Etnea, attraversa una ricca collezione di piante fino alle eleganti colonne della scuola di botanica. PAGINE SEGUENTI: Uno degli storici alberi del drago, Dracaena draco, di fronte al colonnato ionico neoclassico, dell’edificio principale dell’Orto, anche questo progettato da Di Stefano nel 1857, ora Dipartimento di Botanica dell’Università di Catania.
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conservazione delle piante spontanee siciliane, le più adatte per curare le malattie della gente dell’isola” nell’area stabilita di tremila metri quadrati. Si tratta di un comportamento piuttosto illuminato in un’epoca in cui l’esotico esercitava un fascino particolare. La flora siciliana è estremamente varia, conta più di tremila specie, molte esclusive del territorio. Quelle endemiche, più di duecentocinquanta, presentano notevoli gradi di biodiversità nell’isola, con la sua grande varietà di habitat, sia naturali che antropocentrici, e l’eredità genetica territoriale. Di recente, nell’Hortus Siculus sono stati ricreati diversi tipi di habitat rappresentativi dei vari paesaggi dell’isola: le dune sabbiose, gli aspri dirupi vulcanici, le assolate rocce calcaree, l’arida e pietrosa gariga, la macchia sempreverde, il bosco termofilo e un’area umida. Questo per dimostrare come ogni pianta abbia un suo posto in natura, via via adattandosi all’ambiente, che modifica le sue strategie di sopravvivenza. In Sicilia, molte di queste piante sono già rare o a rischio di estinzione, per cui il giardino botanico protegge delle aree ex situ in modo da preservarle e studiarle, proprio come avrebbe voluto Mario Coltraro. Una delle scoperte più entusiasmanti, nel 1991, è stata un gruppo di Zelkova sicula, albero appartenente alla famiglia
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dell’olmo, conosciuto in precedenza solo per dei fossili che risalivano a circa trentamila anni fa. Oggi si riproducono, per innesto e talea, sia nell’orto che in una valle vicino Ragusa, dove sono stati trovati, per ricostituire la popolazione dopo migliaia di anni. Come parte della strategia per la protezione e lo sviluppo dell’eredità genetica delle piante siciliane, sono state pensate nuove strutture per ospitare l’Herbarium e la banca dei semi. Quest’ultima contiene una notevole collezione di semi parzialmente disidratati e congelati che possono restare quiescenti per molti anni, ed essere poi “risvegliati” quando serviranno per un eventuale ripopolamento, senza alcun rischio di contaminazione genetica. L’Orto Botanico di Catania è un vero e proprio museo vivente, che l’attuale direttore, il professor Pietro Pavone, instancabilmente presenta a un pubblico in costante aumento, soprattutto alle scolaresche, così da accrescere la consapevolezza e favorire la futura sopravvivenza dei tesori botanici della Sicilia.
SOPRA: Gli splendidi fiori a pannocchia del vecchio albero zampa d’elefante, la Beaucarnea recurvata. PAGINA A FIANCO: Orto Botanico di Catania. Lo stagno a segmenti per le piante acquatiche, progettato dall’architetto catanese Mario Di Stefano su uno degli assi ortogonali dell’Hortus Universalis.
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Ducea di Nelson: un castello, un giardino Bronte
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el 1799 Ferdinando I, re delle Due Sicilie (IV di Napoli e III di Sicilia) assegnò all’ammiraglio Nelson il titolo di Duca di Bronte come segno di gratitudine per aver facilitato la sua fuga via nave insieme alla regina, verso Palermo mentre i francesi entravano a Napoli per domare la rivolta. Horatio Nelson scrisse alla moglie di voler rendere la proprietà “il luogo più felice d’Europa”, e i giornali di Londra pubblicarono romantici resoconti di una ducea con l’Etna sullo sfondo, in cui “lungo le stradine di lava ombreggiate da cactus giganti, i caprai e i pastori portavano le greggi verso forre odorose al suono degli zufoli”. In seguito, soffrendo gli effetti dei pettegolezzi per la separazione dalla moglie, scrisse a Lady Hamilton: “Desidero ardentemente recarmi a Bronte perché, credetemi, quest’Inghilterra è un paese scioccante; una passeggiata all’ombra dei castagni, benché vi possa capitare di essere preso a fucilate dai banditi, è meglio che vedere pugnalata la propria reputazione in patria”. In verità non riuscì mai a visitare la sua proprietà siciliana, gestita per suo conto da un mandatario. Il primo amministratore inviato da Nelson fu il visconte Johann Gräfer, botanico e paesaggista, che, in passato, aveva contribuito alla realizzazione del
142 DUCEA DI NELSON: UN CASTELLO, UN GIARDINO
Giardino Inglese a Caserta. Il governo italiano continuò a rinnovare la donazione agli eredi di Nelson, e nel 1873 Alec Hood, di soli diciannove anni, arrivò a dorso di mulo quando “la vendemmia era in pieno svolgimento... i pittoreschi finimenti dei muli e il mosto nelle pelli di capra stracolme”. Fece costruire la prima strada carrozzabile lunga tre chilometri fino a Maniace e cominciò a fare cambiamenti dentro il castello, facendo realizzare un giardino, vasti aranceti e boschi. Ogni anno per i successivi sessant’anni Alec Hood trascorse nove mesi nella tenuta, continuando a modernizzarla. Il giardino, con il suo aspetto formale nell’area pianeggiante davanti alla costruzione, rivelava la nazionalità del suo proprietario vittoriano e destava parecchia ammirazione nei suoi tanti visitatori inglesi, specialmente in primavera per i suoi biancospini rosa e bianchi, i pruni dalle foglie purpuree, gli iris, le peonie, le primule e le violette. Una pergola d’uva si sviluppava tra due aiuole contornate di bosso, ognuno a forma di quinconce romboidale, colmo di rose e piantine tappezzanti. Un cancello egiziano in ferro battuto conduce dal giardino, cinto da mura, sino al luogo più elogiato: il Giardino Selvaggio, su un livello più
PAGINA A FIANCO: Il castello di Nelson visto dalla riva opposta del torrente Saracena, fuori dalle mura, descritto da Lady Paget come “un torrente impetuoso”. I quattro grossi cipressi, di cui qui ne vediamo solo due, furono piantati prima del 1860. Nel 1915 Alexander Nelson Hood li descrive come “neri cipressi, con le loro guglie affusolate, si ergono contro l’ azzurro del cielo”.
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basso rispetto a quello formale, costeggiando il corso del ruscello Saracena, è “un giardino roccioso naturale che orla per un miglio il torrente impetuoso”. Hood si occupò di progettare un giardino naturale all’inglese che offrisse uno spettacolo diverso per ciascuna stagione dell’anno, a cominciare dal periodo della fioritura dei mandorli, caratteristica della primavera precoce siciliana. Scrive William Sharp: “C’è qualcosa in Europa di più raffinato... o c’è altrove un altro giardino incantato come il Giardino Selvaggio del Castello di Maniace... circondato da pioppi giganti, immense colonne tremule d’oro agitato ma non caduto?”. Descrive anche “i vapori fluttuanti di rose e violette, di eliotropi e le lunghe guglie a mazzi dei nespoli e verbena profumata di limone... un’invisibile fumo di dolci odori”. Nel 1958 il sesto duca, Arthur Herbert Nelson Hood, costruì una piscina in mezzo al giardino, distruggendone la continuità, e sotto i balconi del castello, al posto delle aiuole fiorite fece mettere un lussureggiante prato verde per non dimenticare la sua patria. Il prato ospita magnolie, frassini, gelsi, ippocastani e palme, alcuni risalenti al giardino originario, e una vera di pozzo neogotica. Le quinconce restanti furono riempite di rose antiche e altre piante erbacee in grado
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di sopportare il clima siciliano. A destra della casa venne aggiunta, in pieno sole, una bordura “calda”, composta di lavanda, ruta, caryopteris, cistus e ceanothus. Dalla parte opposta, un parterre parzialmente ombreggiato dai colori delicati e freschi, colmo di teucrium, artemisia e senecio grigi, ortensie, viburni, deutzie e filadelfi tutti con la fioritura bianca. Sotto la pergola c’erano bulbi e fiori primaverili che precedevano le foglie del glicine e delle viti. I parterre furono progettati da Vernon Russell-Smith, che si ispirò ai giardini da sogno pre-raffaelliti dipinti da Dante Gabriel Rossetti, anche se quasi tutto è andato perduto. Nel 1981 la proprietà fu venduta al comune di Bronte. Nel 1992 Charles Quest-Ritson conclude la sua descrizione del giardino di Nelson con molta tristezza: “Polvere alla polvere è il destino di molti giardini inglesi in Italia: a Maniace è cenere alla cenere”. Possiamo solo sperare che il recente restauro del castello possa in seguito riguardare anche l’esterno; magari si potrebbe tornare a piantare dentro le quinconce e ripristinare il Giardino Selvaggio per aiutarlo a riemergere dalle ceneri.
SOPRA: Grossa croce celtica di basalto nel cortile principale, progettata da Alexander Nelson Hood e realizzata con pietra di cava dai tagliatori della ducea; eretta nel 1888 per commemorare Horatio Nelson, reca la scritta heroi immortali nili (all’immortale eroe del Nilo). PAGINA A FIANCO: Porta d’accesso al giardino visto dalle quinconce incorniciate dai bossi, un tempo colme di peonie, rose antiche, rudbeckie, delphinium e lupini, ispirate ai giardini da sogno dipinti dal pre-raffaellita Dante Gabriel Rossetti, ora vuote. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: La pergola dei glicini, che hanno rimpiazzato le viti, ombreggia il sentiero tra le quinconce. Nel 1885 i registri della ducea segnalavano che in una di esse erano state piantate quattro palme. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Glicini, ippocastani e alberi di Giuda ingentiliscono il giardino.
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PAGINA A FIANCO: Nel 1958 il sesto duca, Arthur Herbert Nelson Hood, al posto delle aiuole fiorite sotto i balconi fece piantare un lussureggiante prato verde per non dimenticare la sua patria. Il prato ospita magnolie, frassini, gelsi, ippocastani e palme, alcuni risalenti al giardino originario, e una vera di pozzo neo-gotica. SOPRA: La vista da questo prato verso l’Etna, descritto da Virgilio come “la dimora degli dei”.
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Il rigoglioso giardino di Valeria Catania
P
rogettato nel XIX secolo, questo tipico rifugio di campagna con annesso ampio agrumeto si trova appena fuori Catania. Valeria e suo marito vi si sono trasferiti trent’anni fa, dopo la morte della suocera di lei. La nuova padrona di casa si è subito innamorata del suo giardino, un amore che non è scemato nel corso degli anni; semmai la passione è aumentata. Ha cominciato a curarlo partendo dalla zona d’ingresso; dal cancello si accede verso ciò che Mary Taylor Simeti definisce “il marchio del barocco siciliano, la doppia scalinata che, sulla facciata, curva in alto verso il piano nobile. L’inventiva degli architetti siciliani stava nella varietà con cui erano capaci di trattare questo stile: ogni famiglia voleva che la sua scalinata fosse simile alle altre eppure unica”. Il giardino anteriore è in perfetta armonia con l’architettura del XIX secolo, con la sua abbondanza di piante, tipica dell’epoca, che fornisce ombra e colore; l’unico errore è stato l’ibisco perché, ammette la stessa Valeria, nell’Ottocento non era ancora disponibile. L’intero giardino era ricoperto da una crosta di lava, risalente all’eruzione etnea del 1693, di cui Valeria ha sfruttato il grande effetto: ne ha lasciato lingue e creste per dare un senso di
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movimento e varietà nel suo giardino, osservando la determinazione di certe piante ad abbarbicarsi a ogni crepa possibile. In un punto la crosta è collassata, rivelando una grotta circolare attraverso la quale la lava fusa ha continuato a scorrere sotto la superficie ormai indurita dal contatto con l’aria. Da questo anfiteatro naturale i tunnel serpeggiano sotto la superficie, affascinando i geologi e gli speleologi in visita, ma anche i nipoti della padrona di casa. Dove la crosta è stata rotta per creare prati e stagni, i pezzi di lava sono stati usati per costruire muretti con cui recintare le aiuole nella parte davanti casa. Il resto del giardino si contraddistingue per lo stile naturalistico e romantico, salvo un’area incassata ricolma di agrumi rigogliosi, circondata da muretti di lava, un residuo del vecchio giardino. Valeria ha raccolto piante con molta passione da tutte le fonti possibili. Molte talee le sono state donate dagli amici e di essi ne portano il nome, come “l’iris di Giovanna”, un grosso gruppo di Iris japonica amorevolmente curato dal nuovo ospitante. Altre piante sono ricordi di luoghi e vacanze, come la straordinaria Datura metel, di origini indiane, portata dalla Germania quindici anni fa. Le trombe degli angeli (anch’esse Datura ma ora chiamati Brugmansia) fioriscono nel
PAGINA A FIANCO: Il giardino superiore, la giungla di Valeria, con una palma delle Canarie, un albero di Jacaranda e malvarose che fanno capolino dal sottobosco.
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giardino in tutte le forme e varietà, come lo splendido “Grand Marnier” che mescola le sue belle trombe dorate con gli strani fiori venati di porpora della Aristolochia, il fiore cigno, che a Valeria ricorda un foulard di seta. Altre piante ancora, trasportate dal vento o seminate dagli uccelli, hanno potuto trovare il loro spazio, così da contribuire a questa straordinaria giungla. Gruppi di fragrante Amaryllis belladonna, noti come i gigli della vendemmia perché fioriscono proprio durante quel periodo e che in Sicilia si piantano lungo i confini delle vigne, si sono sparsi in tutto il giardino, così come i panciuti bulbi della cipolla marina siciliana (Scilla maritima), spesso seduti sopra la lava nera, ostile in apparenza, da cui in qualche modo estrae il nutrimento. Dopo la pioggia Valeria raccoglie ortaggi selvatici di tutti i tipi, da usare nelle ricette tradizionali. Ogni pianta ha la sua personalità: la sempreverde Salvia leucantha, per esempio, è “contenta, perennemente felice”. L’acqua non manca, il che contribuisce a rendere il giardino rigoglioso. L’acqua piovana viene raccolta dai tetti in grosse cisterne sotterranee e distribuita in tutto il giardino grazie al tradizionale sistema arabo delle saie, i canali di terracotta. Una grande gebbia, la cisterna
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all’aperto, ospita i fiori di loto, un enorme Eichhornia, il giacinto d’acqua e altre piante acquatiche, mentre i pesci rossi sorvegliano l’espandersi della lenticchia d’acqua (Wolffia), la più piccola pianta acquatica che si conosca, flagello di ogni stagno. Le enormi giare di terracotta per l’olio e i recipienti per l’acqua stracolmi di piante dimostrano che l’esuberanza è la peculiarità di questo giardino. Valeria lo definisce un giardino “semplice” per via del suo aspetto informale; ma la dimensione e la ricchezza richiedono la cura costante di due giardinieri e della stessa padrona di casa che, con gioia e orgoglio, ogni giorno fa un giro d’ispezione delle sue piante. In particolare è affezionata alla parte più selvaggia, dove è la lava a predominare, “un’area irripetibile, che solo la natura può aver creato”. Il suo colore preferito è il viola ma di notte non si distingue, per cui nei dintorni della casa preferisce i fiori bianchi, possibilmente profumati. Per fortuna la sua famiglia in aumento nutre grande interesse verso il giardino; e le “sorprese” che prepara sempre per i nipoti sono un modo per condividere i misteri e la magia della vita vegetale e della geologia di questa sua giungla.
SOPRA: I fichi d’India prosperano persino sulla colata di lava, con le loro potenti radici che si abbarbicano a ogni fenditura della roccia in cerca di acqua. PAGINA A FIANCO: Una delicata bougainvillea rosa serpeggia attraverso il giardino. PAGINE SEGUENTI: Aloe, agavi, fichi d’India e altre succulente vivono felicemente in combinazione con gli alberi nativi e la bougainvillea. PAGINE ANCORA SEGUENTI, A SINISTRA: Euforbie e yucche si stagliano contro il cielo. PAGINE ANCORA SEGUENTI, A DESTRA: Maestose palme californiane si ergono orgogliose sul prato accanto la piscina.
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PAGINE PRECEDENTI, A SINISTRA: Un Quercus pubescens ornato con festoni di cactus rampicanti, la Hylocereus nudata, mentre una piccola rosa sarmentosa si arrampica sulla lava. PAGINE PRECEDENTI, A DESTRA: Un’esuberante Stephanotis madagascariensis emana il suo profumo intossicante dalla cima di una robinia spontanea. IN QUESTE PAGINE: Buffi cuscini di pietra del XIX secolo, provenienti da Ragusa.
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Mon Rève palermitano Palermo
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el 1927 il nonno delle attuali proprietarie, le sorelle Giulia e Carla che vivono ancora qui ma in due zone diverse della casa, comprò la residenza da Beaumont Gardner, un inglese imparentato con la famiglia Whitaker, nota per il vino Marsala. Questi, un architetto, aveva aiutato il cognato, Robert Whitaker, a trasformare la casa, Villa Sofia, ereditata dai genitori. Questa proprietà, come molte altre ai piedi di Monte Pellegrino, in origine era un terreno agricolo con terrazze di uliveti e agrumeti. Il nonno, Giuseppe, aveva acquistato la casa, già soprannominata “Mon Rève”, da Gardner, con sei ettari di terra, diventati quattro e mezzo dopo la confisca di una porzione per costruire la ferrovia. Con molta probabilità fu proprio Giuseppe a realizzare il giardino in stile romantico con il grande lago e la cascata, la cui acqua serve per irrigare le piante secondo il sistema arabo dei canali di terracotta, qui noti con il nome di castelletti. Una coppia di cigni scivola con grazia sull’acqua, quando non crea scompiglio tra le piante intorno al lago: in effetti, un gruppo di agapanti è stato trasferito proprio dopo il massacro dei suoi fiori a opera degli animali. Un airone grigio osserva il giardino dalla cima del cipresso più alto, l’angolo idilliaco
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che ha fatto suo per poter pescare indisturbato nel lago. Giulia e Carla sono molto orgogliose di come mantengono il giardino, per non parlare del figlio sedicenne di Giulia, Lucio, profondo conoscitore e appassionato delle sue piante. Questi visita tutti i vivai e le fiere della zona alla scoperta di nuove piante e ha imparato molto dal vivaista di Milazzo Natale Torre, fonte di sapienza botanica e con una specializzazione in alberi da frutto tropicali, da cui ha ottenuto informazioni preziose e molte piante. Negli ultimi tempi anche in questo giardino il temibile Punteruolo rosso, che ha decimato la popolazione palmifera italiana, ha ucciso moltissime palme venerande. Lucio si è ormai rassegnato a questa perdita e ha deciso di utilizzare i nuovi spazi per introdurre altre specie di piante. Tra queste, la Ginkgo biloba, unica sopravvissuta di un’antica famiglia di conifere i cui antenati risalgono a circa centosessanta milioni di anni fa; il Sapindus drummondii, o albero del sapone, dai cui semi si può produrre una meravigliosa alternativa ecologica al detersivo in polvere; il Litchi chinensis, o ciliegia della Cina, conosciuto per i suoi frutti dolci; la Annona reticolata, la mela cuore di bue, dal commestibile frutto a forma di cuore, e molte altre piante
PAGINA A FIANCO: Campo di papaveri, ora uliveto, sul limitare della proprietà sotto le pendici di Monte Pellegrino. Sulla cima del promontorio spicca il rosa pallido del liberty Castello Utveggio, in principio un albergo di lusso, occupato per un po’ di tempo dai servizi segreti e oggi sede di una scuola per dirigenti d’azienda. Tomasi di Lampedusa ne ha fatto una descrizione davvero evocativa: “I fianchi di Monte Pellegrino arsicci, scavati ed eterni come la miseria”. Goethe fu molto più generoso con la sua definizione di “promontorio più bello del mondo”. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Sentiero in giardino delimitato da edera e agapanto, una Chorisia speciosa, il falso kapok dal tronco spinoso a forma di bottiglia e un Cupressus sempervirens, il cipresso italiano. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Altra panoramica del giardino con ortensie e ibischi dietro le aiuole di agapanto, palme, la Cycas revoluta, un altro “fossile vivente” e una Chorisia speciosa di sghimbescio come un ubriaco.
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PAGINA A FIANCO: Cascatella, probabilmente commissionata dal nonno Giuseppe negli anni Venti, che schizza su un tripudio di nasturzi. L’agapanto è stato spostato per via dello scompiglio creato dai cigni, e ora è stato sostituito con il Clerodendrum ugandese. Dalla cascatella l’acqua si riversa nei canali di terracotta per irrigare le piante del giardino secondo l’antico sistema arabo. SOPRA: Il lago del nonno Giuseppe, circondato da banani e aranci brasiliani e un gruppo di oleandri sull’isoletta raggiungibile con un ponticello. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Bordo del semenzaio colmo di nasturzi, una splendida e profumata Gardenia thunbergia in primo piano a sinistra e un’esuberante edera abbarbicata a un cipresso venerando, il posatoio preferito
esotiche, in sintonia con lo stile romantico del giardino creato dal nonno. Anche Giulia cominciò a interessarsi presto al giardinaggio, per l’esattezza quando, a diciannove anni, andò in vacanza studio in Inghilterra e rimase colpita dalle aiuole sparse ovunque colme di fiori. Attualmente ha dei piani per le serre, che una volta si usavano come vivai commerciali, accanto agli oliveti che ancora producono tre tipi di olive: la nocellara, la biancolilla e la giarraffa. Lucio, invece, non sa ancora se concentrarsi su studi in ambito agrario o lasciare che la sua passione resti solo un piacere; il tempo per decidere, comunque, non gli manca. Nel frattempo, dedica il suo tempo libero al miglioramento del giardino, insieme alla madre: una delle aggiunte più recenti è una pergola di rose e glicini accanto alle serre che lui vorrebbe sfruttare per collezionare orchidee. Non c’è dubbio che il futuro di questo giardino sia in buone mani.
dell’airone grigio che ama pescare nel lago. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Un enorme Cedrus deodora dell’Himalaya, che di solito prospera in climi da alta montagna.
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Un giardino selvaggio a Palermo Piana dei Colli
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amore di Gabriella per le piante risale a quando, ancora piccola, trascorreva i lunghi mesi estivi nelle proprietà agricole di famiglia, agrumeti e campi di grano, nelle Madonie e vicino a Cefalù. Oggi, lei è l’orgogliosa proprietaria di millecinquecento metri quadrati di giardino naturale nella periferia di Palermo, Piana dei Colli, in cui, tra l’altro, gestisce un incantevole bed and breakfast, “Il Glicine”, in una parte della settecentesca Villa Castelforte in cui vive dal 1977, ossia da dopo il restauro. Questa era una delle tre zone in cui l’aristocrazia palermitana costruiva le case estive per sfuggire all’afa cittadina. Da piccola, Gabriella amava arrampicarsi sugli alberi e trascorrere lunghe ore nella sua casetta su un vecchio ulivo, in cui ogni ramo rappresentava una stanza. Oggi è più felice sotto gli alberi, seduta sulle panchine sparse in punti strategici del giardino, specialmente accanto al laghetto e sulle panchine da meditazione all’ombra di un grande Melia azedarach o albero dei rosari – chiamato così per i suoi duri semi rotondi, da cui si ricavano i grani dei rosari – di un Broussonetia papyrifera, o gelso da carta, la cui corteccia una tempo si usava per le banconote, che Gabriella ha fatto crescere da un seme, e di un Fraxinus ornus, il frassino
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da manna. Passa più tempo possibile all’aria aperta, anche con la pioggia, ed è appassionata di tematiche ambientali, colpita com’è dall’ignoranza diffusa quanto a “coltivazione e conservazione” delle piante, soprattutto da parte della pubblica amministrazione. Per molti anni è stata presidente della sezione palermitana della Lega Ambiente e ancora oggi continua a combattere per proteggere la natura, in particolare, gli alberi della sua città. Per il microcosmo naturale che si diletta a ricreare nel suo giardino, la spontaneità gioca un ruolo importante, favorita anche dalle sue conoscenze su clima, terreno e piante adatte al suo ambiente, raccolte grazie a un’osservazione attenta. Il suo giardino non è mai stato progettato: è “successo” ed è in costante evoluzione. Molte piante sono comparse a sorpresa, altre erano talee degli amici, o portate di nascosto dai suoi innumerevoli viaggi all’estero quando lavorava per la compagnia di bandiera italiana; molte, infine, provengono dalle sue magnifiche terrazze di Roma, dove ha vissuto prima del ritorno in Sicilia. Gabriella rispetta sia gli arrivi spontanei sia le piante comprate nei vivai o coltivate da talee, perché le piace osservare gli sviluppi della natura interferendo il meno possibile. Qui non ci sono prati: la padrona di casa, infatti, disapprova lo spreco di acqua, elettricità e forza
PAGINA A FIANCO: La natura, gli uccelli e Gabriella stessa hanno contribuito a creare questo giardino ristoratore, pieno di colore, un rifugio dallo sfrigolante sole siciliano. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Una delle panchine preferite di Gabriella, all’ombra del fragrante Melia azedarach, l’albero dei rosari, grazioso tutto l’anno. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Il galletto segnavento portato dall’Inghilterra, in mezzo al giardino accanto al laghetto, la gioia dei tanti uccelli in cerca di sollievo e delle piante che prosperano grazie all’umidità; un altro degli angoli preferiti in cui la padrona di casa ama meditare.
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PAGINA A FIANCO: Pergola artigianale ormai ricoperta di rose e piante di Solanum, che dalla casa invita tra gli alberi, all’ombra. SOPRA: Sentiero che attraversa il giardino passando sotto un Eriobotrya japonica, il nespolo del Giappone, uno dei tanti alberi dai frutti commestibili, quelli che Gabriella predilige, fiancheggiato dalla Pyracantha coccinea, l’agazzino e dal Crataegus laevigata, il biancospino, piantati per gli uccelli e per i fiori e i frutti ornamentali. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Zantedeschia aethiopica, le calle bianche, la Ceratostigma plumbaginoides, il plumbago tappezzante azzurro vivo, felci da terra spontanee verde prato, nasturzi arancioni, gialli e rossi, fior di vetro rosa e bianche tra pallide rose di Castelforte, una delle poche piante originarie, e una Cycas revoluta verde scuro. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: I colori intensi accanto la casa cedono terreno a tutte le tonalità di verde in mezzo al giardino, punteggiato dai colori della frutta sugli alberi; solo il nasturzio è riuscito
lavoro per la manutenzione. Invece, si gode un bel manto colorato di piante tappezzanti spontanee, con l’aggiunta di sprazzi di colori variopinti: la Ceratostigma plumbaginoides azzurro intenso, l’Iresine (detta anche pianta bistecca per i suoi steli rossi e le foglie venate), l’Helichrysum petiolatum argenteo, l’Impatiens, o fior di vetro, e i nasturzi di ogni sfumatura (gialli, arancioni, rosa e rossi) che spuntano a ogni angolo. Quando arrivò qui, ormai più di trent’anni fa, tutto quello che trovò furono tre ulivi, una pianta di rosa e un po’ di arance e limoni, le ultime vestigia della grande proprietà del principe di Castelforte. Oggi, il suo giardino è un rifugio ombroso pieno di interesse, di profumi e colori tutti da godere, sia per lei che per le tante specie di uccelli, compreso un martin pescatore azzurro intenso che frequenta il laghetto. In uno stagno più piccolo, una tartaruga si divide lo spazio con le ninfee e l’ibisco acquatico. Per Gabriella, la bellezza del suo giardino sta nell’affascinante teatralità con cui le stagioni si alternano, un fondale diverso ogni mese, uno scenario fresco in cui le piante hanno la libertà “di fare tutto ciò che vogliono”.
a farsi strada fin dalla casa, formando un tappeto sotto il limone e in ogni altro spazio disponibile. “Che bisogno c’è di un prato?”, si chiede Gabriella.
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Paesaggi di città Ragusa, Taormina, Noto, Siracusa, Catania, Palermo
L
a città di Ragusa, Rausa in siciliano, è capoluogo di provincia e conta circa settantacinquemila abitanti. Sorta su un’estesa collina calcarea tra due profonde valli, Cava San Leonardo e Cava Santa Domenica, è divisa in due aree distinte: la parte più bassa e antica, Ragusa Ibla, e quella alta e più recente, Ragusa Superiore. Le due metà sono separate dalla Valle dei Ponti, una gola profonda attraversata da quattro collegamenti. Dopo il devastante terremoto del 1693, che distrusse gran parte della città uccidendo cinquemila persone, metà della popolazione sopravvissuta decise di ricostruire sulla cresta che dominava la città, mentre l’altra rimise a nuovo quella vecchia. Nel 2000 a.C. Ragusa bassa era abitata dalla popolazione indigena dei siculi, ed era chiamata Hybla Heraea, da cui deriva il nome Ibla. All’estremità di questa zona, si trova una grande area verde, il Giardino Ibleo, che regala un vista magnifica sui monti e le valli circostanti ed è considerato uno dei panorami più belli della Sicilia. Vicino all’ingresso del giardino si incontra la chiesa di San Giorgio Vecchio; sebbene restaurata dopo il terremoto del 1693, la sua struttura conserva ancora alcuni elementi
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originali dello stile gotico-catalano del XV secolo. La chiesa è nota per la torre campanaria decorata con piastrelle di maiolica di Caltagirone. La parte più vecchia del giardino risale al 1858, quando tre privati cittadini cominciarono a sistemare un appezzamento di terra intorno alle due chiese, un convento cappuccino e il viale delle Colonnine, chiamato così per una serie di colonne a spirale sormontate da vasi di terracotta decorati. Gran parte del lavoro fu svolto dagli abitanti a titolo volontario. Sicuramente questa è la parte più interessante del parco, sia per le componenti architettoniche che per la flora, come lo splendido olmo accanto all’entrata, una serie di venerandi alberi di Giuda lungo il viale delle Colonnine e una doppia fila di cinquanta ingenti Phoenix canariensis nel viale delle Palme, parallelo al viale delle Colonnine. Per poter espandere il giardino intorno alla rovine della chiesa di San Giorgio, nel 1884 si vendette un libro di poesie di Paolo Arrabito, in cui il poeta scriveva: “S’è ideato un disegno che è una magnificenza/ Si vorrebbe allargare della villa il confine/ Così la vaga rosa sarìa spoglia di spine/ E sapete Signore come potrebbe fare?/ Il giardin di San Giorgio tentando comperare”.
PAGINA A FIANCO: Ragusa Ibla vista dall’altro lato della Valle dei Ponti.
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Questa seconda parte del giardino, che comincia dal convento dei Cappuccini, mostra la formalità tipica dei primi del Novecento, con aiuole geometriche intorno a una fontana rotonda. Una collinetta in stile tardo romantico è raggiungibile tramite due sinuose scalinate di pietra orlate dalla Medicago arborea, il ginestrone. In questa zona ci sono anche delle palme magnifiche (Phoenix canariensis, P. dactylifera, Washingtonia robusta, W. filifera), che danno un tocco esotico. La grande terrazza si affaccia sul fiume Irminio.
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Nel 1930 venne acquistata altra terra per il parco e si creò la terza sezione: il Bosco della Memoria, in onore dei caduti della prima guerra mondiale, dove i bambini hanno piantato senza disegno geometrico un pino domestico, il Pinus pinea, per ogni soldato morto. Inoltre, qui si trova un monumento ai caduti, progettato da Pinelli, fiancheggiato da due imponenti Cupressus macrocarpa, il cipresso di Monterey.
SOPRA E PAGINA A FIANCO: Il Giardino Ibleo, tra i più panoramici della Sicilia, regala delle viste spettacolari sui monti e le valli circostanti. PAGINE SEGUENTI: La sistemazione formale dei primi del Novecento nella parte più vecchia del giardino, con laghetto circolare e magnifiche palme, delimitate dal bosso, che si stagliano sul meraviglioso panorama.
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SOPRA E A FIANCO: Il giardino privato di Florence Trevelyan a Taormina, con un panorama mozzafiato che spazia dalla città fino alla costa, è oggi un parco pubblico molto apprezzato.
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lla fine del XIX secolo, a Taormina cominciò a stanziarsi una piccola ma prosperosa comunità inglese, che costruì una chiesa anglicana e molti giardini. Lady Florence Trevelyan, cugina della regina Vittoria e discendente di una famiglia piuttosto eccentrica, ne realizzò uno intorno alla casa del marito, Salvatore Cacciola, sindaco del paese, filantropo ed esperto di scienze mediche. Non molto si sa di lei, se non che era bassa e piuttosto bruttina; ornitologa entusiasta e particolarmente austera a dispetto delle sue curiose “follie”, godeva dell’indiscussa condizione di “gran dama” all’interno della piccola comunità borghese dei suoi connazionali. In Sicilia, fu la donna inglese più importante del suo tempo, tanto da ricevere il re Edoardo VII durante la sua visita a Taormina nel 1906 (il che diede adito a delle dicerie su una loro precedente relazione), il kaiser Guglielmo II, lo zar Nicola II e il principe Vittorio Emanuele III. Invitò molti altri ospiti illustri, tra cui Oscar Wilde, Nietzsche e Gabriele D’Annunzio, in questo modo contribuendo a rendere noti il nome e le bellezze di Taormina. Dopo aver perso il suo unico figlio durante il parto, Florence Trevelyan cercò consolazione nel grande giardino che occupava tre ettari sulle
ripide pendici sottostanti le mura cittadine. Cominciò a sistemarlo nel 1884, secondo uno stile piuttosto convenzionale, tra terrazze di pietra, sentieri acciottolati, statue classiche ed enormi giare di terracotta. Piantò alberi e cespugli con il tipico entusiasmo vittoriano per la varietà e le rarità. A parte i carrubi, gli ulivi e i mandorli, ormai considerati autoctoni, introdusse alberi originari soprattutto dell’emisfero australe, come ad esempio l’Araucaria excelsa bidwillii e il Melaleuca armillaris dall’Australia, il Calliandra tweedyi dal Brasile, il Bauhinia aculeata dal Perù, e tante altre piante esotiche sconosciute fino ad allora a Taormina. In più, realizzò una serie di straordinari padiglioni con ogni materiale a disposizione, fu una vera e propria pioniera del riciclo. Due furono riconversioni ispirate, nate sulle rovine di case di pescatori, altri due puri lavori di fantasia. Nel 1922 gli eredi Trevelyan-Cacciola lasciarono il giardino al comune con l’incarico di preservare le eccentricità della sua creatrice, sebbene oltre ai moderni sentieri di mattoni sia stato inserito un toccante memoriale di guerra: sui tronchi degli ulivi che adornano un lungo viale sono state affisse delle targhe commemorative dedicate a ciascuna delle vittime locali.
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Un tocco di sicilianità si trova sulle lapidi di un cimitero per cani tipicamente inglese, in un angolo del giardino: “Cara Fanny, amica e compagna fedele. Avvelenata il 27 luglio 1899. Età 15 anni”; e “Jumbo Perceval (terrier). Leale, onorevole, amorevole. Piccolo amico e compagno. 3 settembre 1887. Assassinato il 24 luglio del 1994. Mai dimenticato”. Quando nel 1907 fu la stessa Florence a morire, a causa di una polmonite per aver nuotato nell’acqua ghiacciata, come ultima stravaganza volle farsi
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seppellire sul Monte Venere, la montagna più alta sopra Taormina, in una località nota come “a francisa”, da Florence, perché a quel tempo tutti i visitatori stranieri venivano indistintamente chiamati francisi, francesi. Questa era una delle tante proprietà acquistate nei dintorni di Taormina che lei aveva riempito di cipressi, pini e palme, con l’aiuto di quarantadue contadini del posto che dovevano piantarli e curarli “all’inglese”. Un busto bronzeo di Florence Trevelyan la commemora al centro dell’odierno giardino pubblico.
SOPRA E PAGINA SEGUENTE: Le straordinarie torri riciclate che Florence Trevelyan usava per osservare gli uccelli, e in cui prendeva il tè con i suoi cani. I dettagli sono tutti di origine siciliana, sebbene mescolati in un improbabile guazzabuglio di stili: romanico, gotico e rococò nei mattoni colorati, frammenti di pietra, piastrelle e tubi di ogni misura, insieme ad altri brandelli di materiale di recupero architettonico. Il risultato è quasi orientale.
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PAGINE PRECEDENTI E IN QUESTE PAGINE: Ficus benjamina, detto anche ficus piangente, la cui chioma viene a volte potata a cubo. È un albero da ombra molto popolare in tutta la Sicilia per il denso fogliame sempreverde. Alcuni esempi nelle strade dell’”impareggiabile Noto” di Vincenzo Consolo, e in quelle di Siracusa, in cui nei luminosi e screziati tronchi del ficus riecheggia la “cristallina chiarità orientale” della pietra del posto.
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PAGINE PRECEDENTI, A SINISTRA: Un gelsomino disobbedisce al senso vietato, Siracusa. PAGINE PRECEDENTI, A DESTRA: Piazza del Duomo di Siracusa, una delle piazze barocche più affascinanti dell’Italia. SOPRA E A FIANCO: Balconi in via dei Crociferi a Catania. PAGINA SEGUENTI, A SINISTRA: Il cortile di Villa Cerami, costruita nel XVIII secolo e restaurata nel XIX secolo, oggi Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania. PAGINA SEGUENTI, A DESTRA: Una palma stretta tra due case in una viuzza della città vecchia con uno scorcio dell’Orto Botanico di Catania sullo sfondo. PAGINE ANCORA SEGUENTI: Palazzo Biscari, Catania.
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on molta probabilità, il complesso monastico di San Giovanni degli Eremiti, di fronte al Palazzo dei Normanni di Palermo, risale al VI secolo d.C., quando San Gregorio Magno lo fondò sulle rovine di un monastero più antico, quello di Sant’Ermete, da cui forse deriva il nome attuale. Nel IX secolo, dopo la conquista della Sicilia da parte degli Arabi, il monastero fu convertito in moschea; quando poi questi furono soppiantati dai Normanni, intorno al 1136 il re Ruggero II la riconvertì in chiesa cristiana, affidandola ai monaci benedettini di San Guglielmo di Vercelli. Grazie alla presenza del fiume Kemonia, l’intera area ha sempre abbondato di orti e frutteti, e infatti nel 1148 il giardino del monastero era descritto come un luogo rigoglioso e fresco, con agrumi e rosai. Il chiostro tardo-normanno, aggiunto forse intorno al 1300, è la parte antica che si è conservata meglio, con colonnine doppie coronate da capitelli decorati con piante scolpite che reggono archi a sesto acuto. Altri elementi interessanti sono la cisterna moresca e piante più tipiche del giardino del monastero, melograni, papiri e agrumi, che di quello successivo. Nel corso dei secoli la chiesa è stata ampiamente modificata. Con il restauro del 1882 Giuseppe Patricolo tentò di restituirle l’aspetto medievale originario, demolendo gran parte delle
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strutture monastiche, sostituite con un giardino. La forma attuale di quest’ultimo risale probabilmente al 1874, quando il consiglio comunale comprò della terra confinante in cui introdusse piante esotiche in modo informale. La disposizione romantica sopravvive ancora oggi nelle aiuole irregolari e nei sentieri sinuosi in ciottoli che dal livello della strada portano su verso il chiostro più formale, una piccola oasi nel bel mezzo della frenesia cittadina. La chiesa è famosa per le cupole rosate tipicamente musulmane, le “qubba”, parola araba per gobba, chiaro segno della persistenza di un’influenza moresca anche nella Sicilia normanna al tempo della ricostruzione della chiesa nel dodicesimo secolo. Nel suo Diario di una viaggiatrice in Sicilia, Frances Elliot la descrive come, “perfettamente orientale, starebbe bene a Baghdad o a Damasco”. San Giovanni ha una pianta a croce latina, una navata centrale e due laterali più tre absidi. Ogni campata quadrata è sormontata da una cupola piccola e anche il presbiterio, che termina in una nicchia, ne ha una. Questo simbolismo è importante: il cubo rappresenta la terra (il profano, ma anche la stabilità e la costanza), mentre le cupole semicircolari indicano il cielo (il sacro, l’eternità e la metafisica). La cupola più alta si trova sulla torre campanaria di stile gotico, un classico esempio di moschea araba convertita in chiesa cristiana.
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Canalicchio e le stanze in fiore Catania
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uesto giovanissimo giardino di un acro e mezzo è stato iniziato solo nel 2000 da Rossella Pezzino de Geronimo come elemento complementare alla sua ottocentesca villa di campagna neoclassica, situata all’estremo confine sud di Catania e circondata da palazzoni e traffico intenso. La sua idea era di dar vita a un giardino floreale contemporaneo combinando la macchia mediterranea e circa seicento piante rare tropicali e subtropicali in una serie di ambienti collegati tra loro, in maniera più informale che geometrica, “per creare un’aria misteriosa”. All’interno del giardino il percorso è stato progettato per essere spirituale, a partire dall’oscurità di una zona più selvatica e ombrosa, che ci porta sempre più verso la luce per finire in un giardino zen da meditazione. Altro scopo è quello di stimolare i sensi: la vista, con i colori, in particolare il bianco e il blu con qualche sprazzo di rosso e arancione; l’olfatto, con i profumi che ritornano in tutto il giardino; l’udito, con il suono dell’acqua che scorre attraverso le stanze e la cascatella; il tatto, con le varietà di cespugli e i fiori lungo il percorso; il gusto, infine, con i frutti abbondanti del giardino. Le piante esotiche sono soprattutto cinesi, australiane, sudafricane,
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e provengono da vivai di tutto il mondo. Rossella ama collezionarle e pare non abbia alcuna intenzione di smettere. Le piante siciliane e le tracce di lava, compresi i neri muri a secco e un abbeveratoio convertito in fontana con getti d’acqua lungo tre lati, si combinano con elementi giapponesi e con un’isoletta, un luogo simbolico in cui distrarsi dalla quotidianità. I canali arabi per l’irrigazione corrono lungo le terrazze culminando in una cascatella che rifornisce il giardino di energia. Nel punto più alto del giardino, accanto a due pregiati bonsai, Rossella ha realizzato una serra riscaldata in stile vittoriano, stracolma di preziose piante tropicali, e una casa del tè, in cui serve la bevanda, verde ovviamente.
PAGINA A FIANCO: La facciata della villa di campagna neoclassica, costruita a Catania nel 1889, circondata dal nuovo giardino “fusion”, ottenuto grazie a combinazione di stili e provenienze botaniche diverse.
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IN QUESTE PAGINE: Il giardino superiore con i bulbi piantati in tasche tra lastre di pietra bianche, insieme a fiori da raccogliere in ogni stagione e ortaggi per la cucina. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: All’inizio dell’itinerario, arcata di passaggio da una “stanza” all’altra nel giardino inferiore, ornata con festoni di clematidi. La divisione del giardino “in stanze” è una tradizione tipicamente inglese che Rossella ha portato in Sicilia per aumentare il senso di sorpresa e mistero, rivelandolo poco alla volta. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Il vecchio abbeveratoio ricavato da un blocco di lava, alimentato da tre cascatelle, crea una fontana fresca all’estremità di un’altra “stanza”, il giardino ombroso. PAGINE ANCORA SEGUENTI, A SINISTRA: Il laghetto con gigli, equiseti, giacinti d’acqua e fiori di loto circondati da bambù, ed esotici cardamomi ed eliconi, e ombreggiato dalle sovrastanti grevillee. PAGINE ANCORA SEGUENTI, A DESTRA: Foglie di grevillea filiforme ricamano la lenticchia d’acqua color verde pisello che ricopre il laghetto.
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Villa Spaccaforno Ragusa
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uesto giardino è un tributo a Ettore Paternò del Toscano, probabilmente l’ultima sua creazione, che ancora oggi i suoi cari amici Salvina e Franzo tengono in ottimo stato. Si sviluppa intorno alla loro elegante casa, Villa Spaccaforno, l’antico nome di Ispica, costruita nel 1896-97 e acquistata da loro nel 2002, insieme a due palme, un boschetto di eucalipti e un muro alto tre metri che fiancheggiava la casa, isolandola virtualmente dal terreno circostante. Paternò ha lavorato in simbiosi con la coppia, non appena terminata la ristrutturazione della casa nella primavera del 2004, aiutato dalla giovane discepola Alessandra Schillirò che ha trasferito le sue idee su carta. È stata la prima volta in cui uno dei suoi progetti è stato disegnato, e non solo sviluppato a mente e messo in atto sulla terra. Il primo consiglio è stato di demolire il muro e sradicare gli eucalipti; tre camion pieni del legno che nessuno voleva hanno lasciato la villa, mentre le pietre del muro venivano usate altrove in giardino e i calcinacci sollevavano il livello del terreno intorno alla piscina per separare quest’area dai prati riposanti davanti alla casa. Stessa fine ha fatto ogni traccia di asfalto.
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Il viale che conduce dall’ingresso è stato rivestito di ciottoli posati tra strisce di lastroni di pietra locale, quasi un migliaio di metri quadrati di sassi di fiume. Lungo il viale, su entrambi i lati, si è scelto di piantare il Brachychiton acerifolius, detto “albero fiamma”, per creare una via d’accesso interessante e inusuale. La strada poi si biforca in una doppia curva intorno al prato davanti casa per deviare le automobili dietro un’alta siepe, così che dalle finestre risultino invisibili. Un sentiero ingegnoso prosegue la linea della strada sul prato. Qui Ettore Paternò ha sistemato delle basole, distanziate l’una dall’altra per permettere al gramignone di ricoprirle quasi per intero. Questo sentiero si intravede appena ma permette di attraversare il prato in tutta facilità senza affondare nel terreno o sporcarsi i piedi di fango. In passato quest’area era un giardino italiano formale poco attraente che lottava per sopravvivere su un sottile strato di terreno sfibrato e che i proprietari avevano deciso di eliminare. Paternò ha quindi sollevato la terra di quindici centimetri per fornire una base ricca sia al prato che alle piante nuove, mantenendo del vecchio giardino solo due deliziose vasche di pietra colme di ninfee. Nei nuovi spazi ricavati si sono piantate con maestria una moltitudine
PAGINA A FIANCO: Scalinata che porta alla piscina, invisibile dalla casa, realizzata con traversine ferroviarie e vecchie pietre, orlata da lunghi cuscini gialli di Gazania uniflora che in questo clima fiorisce per gran parte dell’anno frammista a ciuffi di Stachys lanata, l’orecchio d’agnello. Qui si possono ammirare molte delle piante preferite di Paternò, come la Dasylirion, sia la serratifolia che la longissimum, e una spettacolare Yucca rostrata, la Yucca becco, che si staglia su un’aiuola di cotonastri con una Yucca elephantipes (il tronchetto della felicità) alle spalle.
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PAGINA A FIANCO: Muro di cinta accanto alla piscina che funge da sfondo per una serie di succulente: Aloe arborescens, Agave mitriformi ed Euphorbia candelabrum, dietro a bassi cespugli di Kalanchoe fedtschenkoi, sotto le fronde della felce, Phoenix australis. SOPRA: Un angolo del patio della piscina che Ettore Paternò ha punteggiato di aiuole per le palme: qui la Trachycarpus fortunei e un tappeto di Geum con una collezione di antichi vasi di varia provenienza. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: La vera del pozzo nel prato, portata qui da una proprietà in campagna, sotto le Chorisia; addossato al muro di cinta, l’abbeveratoio ricavato dalle pietre di un casotto campestre, rivestito di graziose mattonelle napoletane del XIX secolo, bianche e blu. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Le aiuole di iris di Alessandra con la Rosa mutabilis che garantiscono colore e interesse quando gli iris non fioriscono.
di specie dal vivaio di Paternò: palme di tutte le varietà, piante esotiche oltre a quelle della macchia mediterranea, soprattutto sempreverdi, e prati di gramignone. Oggi è difficile credere che il giardino abbia solo sette anni. Una piantatura sapiente e ingenti quantità d’acqua, sessanta metri cubi estratti ogni notte d’estate dall’enorme pozzo sotterraneo – realizzato dagli stessi proprietari e poi coperto con una vecchia vera di pozzo proveniente da una proprietà di campagna – hanno contribuito alla realizzazione di un giardino straordinariamente verde, lussureggiante e tranquillo, con alberi e cespugli di notevoli dimensioni. Quanto alla scelta della piante, Salvina ha opinato solo sui magnifici cespugli di mirto piantati in modo ritmico tutt’intorno alla piscina: benché belli da vedere, a luglio, proprio quando la piscina si sfrutta molto, creano delle nuvole di lanugine galleggiante; del resto è piuttosto restia a cambiare le scelte di Paternò. La piscina ha una forma inusuale per dare spazio a un angolo formato da uno statuario gruppo di sette Cocos capitata, la palma della gelatina, tappezzato con una schiera di agapanti blu. In un altro angolo si sono realizzati due ambienti per le docce e i macchinari da piscina, riutilizzando un casotto di
campagna demolito e ricostruito qui. Le pietre rimanenti sono state usate per costruire l’abbeveratoio accanto alla casa, rivestito di bellissime piastrelle napoletane blu e bianche dell’Ottocento. Altri antichi abbeveratoi, sempre trovati in campagna, ornano diversi angoli del giardino e del cortile pavimentato. Ettore Paternò ha consigliato e consultato i due proprietari su ogni dettaglio, realizzando un pergolato accanto alla piscina, degli eleganti supporti in ferro battuto per i rampicanti in cortile, un giardino di rose di vecchie varietà che Franzo cura amorevolmente; un “muro” verde di gigantesche Eugenia paniculata, la ciliegia rosso magenta australiana e di Chorisia insignis a sostituire una fila di tetre conifere, per proteggere la parete occidentale della casa dal sole estivo cocente e; infine un impianto di illuminazione a livello terra ovunque. L’unico dettaglio aggiunto da Alessandra in seguito sono le graziose aiuole di iris in una zona periferica del giardino, che aggiungono colore sotto gli alberi.
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La Commenda di San Calogero Siracusa
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uesta grande proprietà è una delle affascinanti dimore storiche siciliane, posta in mezzo a una valle scolpita nella pietra bianca dal fiume San Calogero, sull’altipiano ibleo proprio di faccia all’Etna, a nord di Siracusa. Nella valle si trovano ancora delle tombe dei secoli X-IX a.C. e una grotta in cui si dice avesse trovato riparo San Calogero in epoca bizantina. Nel fondovalle i campi fertili, ricchi di terreno alluvionale e di sorgenti, una volta erano dedicati alla coltivazione degli agrumi. Sui tavolati più secchi, invece, si coltivavano cereali e ulivi. Le pendici, a volte rocciose e aride, più di frequente ricoperte di macchia mediterranea, servivano per il pascolo. Il nome “commenda” – diminutivo di commendatore – che deriva da una delle classi di benemerenza dell’ordine di San Giacomo della Spada, fu dato alla proprietà dal conte Passaneto quando la costruì nel XIV secolo. Subito dopo il terremoto del 1693 la masseria fortificata fu ricostruita sulle rovine dell’originale, ma con il tempo si deteriorò. Nel XVIII secolo fu assegnata agli antenati della famiglia Materazzo, gli attuali proprietari. All’inizio del XIX secolo, subì un ennesimo restauro: l’ala occidentale divenne la casa padronale, mentre la cappella e gli altri
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edifici rimasero inalterati e se ne costruirono di nuovi per dare al tutto l’apparenza di un piccolo villaggio, aspetto che conserva ancora oggi. I proprietari sfruttarono la casa sempre di più, sia per poter amministrare le terre, sia come villeggiatura per periodi lunghi, tra battute di caccia, cavalcate e giardinaggio. Fino alla fine del XVIII secolo è rimasta una riserva di caccia e ancora oggi alloggia una delle più antiche scuderie per l’allevamento dei cavalli da sella. Nel 1768 San Calogero ospitava già degli agrumeti, che i siciliani in genere definiscono giardini. Uno di questi si chiamava Isola delle arance, perché completamente circondato dal fiume. Viali di rose e altre piante ornamentali condividevano lo spazio e l’abbondanza d’acqua con gli agrumi, irrigati con il tradizionale sistema arabo delle saie, i canali di terracotta sopraelevati. All’inizio del Novecento, intorno alla casa furono aggiunte delle piante ornamentali, un processo incredibilmente laborioso che implicava persino il trasporto, su carri, di terreno fertile dalla valle sottostante. Risalgono a quell’epoca le Phoenix canariensis e la meravigliosa Nolina recurvata, così come alcune rose quali la “Old Blush”, una rosa cinese conosciuta anche come “Parson’s Blush”, tuttora regina del giardino e madre di tutte le
PAGINA A FIANCO: La facciata della casa padronale dà su un insolito prato di Stenotaphrum secondatum, il gramignone morbido e “molleggiato” sotto i piedi. PAGINE SEGUENTI: Disposizione geometrica del giardino, in cui tutto è piantato in maniera simmetrica per riecheggiare la planimetria della casa: cipressi, palme Washingtonia, alberi di Giuda e rose, tutti delimitati da basse siepi di bosso. PAGINE ANCORA SEGUENTI, A SINISTRA: Rosa “Clair Matin” abbarbicata a un albero jacaranda e cespugli di lavanda. PAGINE ANCORA SEGUENTI, A DESTRA: Una gigantesca Euphorbia candelabrum e un’enorme Nolina recurvata, messe a dimora all’inizio del Novecento quando sono state piantate le prime essenze decorative attorno alla casa.
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rose moderne. Sia questa rosa che la Nolina, o Beaucarnea, arrivarono da Palermo, regali alla bisnonna di Andrea da parte della sorella che in città aveva un magnifico giardino. Il giardino attuale è stato progettato di recente da Andrea Materazzo, un membro dell’ultima generazione della famiglia, un architetto che nutre grande passione per i giardini e per il paesaggio. Si tratta di un’estensione naturale della situazione preesistente, mentre alcune delle nuove piante sono propagazioni di quelle già in situ. Il progetto formale del parterre all’italiana, davanti alla casa padronale riprende la planimetria dello stesso edificio: le siepi rappresentano i muri e le aiuole le stanze, mentre il cortile diventa la parte centrale del giardino diviso in quattro aiuole colme di specie mediterranee e rose antiche. Il resto del giardino ha uno stile più informale e, dove possibile, Andrea ha scelto piante endemiche o comunque di tradizione siciliana; quindi ulivi e arance amare crescono tra rose e aromatiche, tra alloro e mirto. In questa zona è stata la madre di Andrea a inserire le piante più esotiche, che il figlio ha comunque deciso di lasciare benché non siano frutto delle sue scelte. La predominanza delle rose miste alle piante mediterranee, l’acqua delle saie e le fontane creano un’atmosfera fresca e riposante persino nelle afose giornate estive.
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PAGINE PRECEDENTI: Un prato meno formale in un’altra parte della proprietà con un albero di Tipuana tipu, il palissandro boliviano, e un cespuglio di Callistemon, la “scovolina” australiana. SOPRA: Una collezione di palme nel giardino informale. PAGINA A FIANCO: Un esemplare di Erythrina crista-galli, l’albero di corallo.
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Il Giardino di Kolymbetra, Agrigento La Valle dei Templi, Agrigento Le Latomie di Siracusa La Grotta della Madonna, Graniti Paesaggi storici La Sicilia è una terra imbevuta di storia, preziosa dimora di monumenti che testimoniano il ricco retaggio culturale dell’isola. È stata la posizione strategica a foggiare il destino di questo triangolo di terra – la Trinacria, l’isola dai tre promontori – all’incrocio tra Africa ed Europa mediterranea, attraverso una serie di conquistatori che hanno tentato di dominarla. Il risultato è una terra ricca di monumenti, leggende, tesori artistici e innovazioni botaniche e agricole con cui pochi luoghi possono rivaleggiare. I Greci furono i primi a civilizzare l’isola e i resti archeologici siciliani superano, con tutta probabilità, i monumenti stessi della madrepatria per quantità e spesso anche per qualità.
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el 79 a.C. il greco Diodoro Siculo scriveva: “Gli Agrigentini costruirono anche una sontuosa piscina, che aveva la circonferenza di sette stadi e la profondità di venti cubiti: in essa vennero condotte le acque dei fiumi e delle sorgenti, diventando così un vivaio di pesci, che forniva molti pesci per l’alimentazione e per il gusto; e in codesta piscina eransi posto anche moltissimi cigni, i quali il luogo rendeano amenissimo e grato. Ma essa empiutasi di fango per incuria dei posteri, e negletta, per l’antichità si disfece. Del rimanente, come le campagne d’Agrigento erano di fondo ubertoso, furonvi a quel tempo fatti superbi piantamenti di viti, e d’alberi d’ogni specie, che poi diedero grossissima rendita”. Nel 480 a.C. l’architetto Feace costruì un sistema di acquedotti e condotte sotterranee per approvvigionare il lago d’acqua, sfruttando la forza lavoro dei prigionieri cartaginesi. In seguito tutto questo sistema si trasformò in una complessa rete di irrigazione grazie alle tecniche arabe delle cisterne dell’acqua all’aperto, le gebbie, e dei canali per l’acqua di terra battuta, le saie, a volte scavati nelle rocce per rifornire quelli in superficie, i cunnùtti, e grazie anche agli incavi, o casedde, intorno a ogni pianta.
Il giardino di Kolymbetra, riparato in una valle tra il tempio di Castore e Polluce, il simbolo di Agrigento, e il tempio di Vulcano, occupa circa cinque ettari ed è delimitato da alte mura di dorato tufo calcareo. In Sicilia, il termine “giardino” di solito indica un frutteto o un giardino produttivo, ciò che effettivamente divenne Kolymbetra e continuò a essere per molti secoli dopo il prosciugamento. Nel 1778 l’abate di Saint Non descrive il luogo come “una valletta che, grazie alla sorprendente fertilità, somiglia alla Valle dell’Eden o a un angolo di Terra Promessa”. E nel 1896 Gaston Vuillier notava: “Gli antichi templi mostrano le loro colonne tra gli aranci, e più oltre si intravede la distesa infinita del mare”. Riparato dalle fredde correnti invernali e dal caldo estivo, con un fertile terreno alluvionale e acqua abbondante, il giardino ospita una vegetazione straordinaria, recentemente recuperata e accuratamente potata da esperti gestiti dal FAI (Fondo Ambiente Italiano) all’inizio del XXI secolo dopo diversi decenni di abbandono. Inoltre, il sistema di irrigazione è stato restaurato e ampliato, i due ruscelli puliti e gli argini consolidati, i muri di pietra a secco risistemati, i sentieri migliorati; panchine di
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PAGINE PRECEDENTI: Il tempio di Castore e Polluce – o più probabilmente dei Dioscuri, oppure un santuario dedicato a Demetra e Persefone – quattro eleganti colonne sormontate da un architrave che si staglia contro il cielo, in realtà una ricostruzione del XIX secolo, frutto di un assemblaggio di elementi assortiti, visto dal giardino Kolymbetra, con uno dei secolari olivi saraceni in primo piano. IN QUESTE PAGINE: Un orto a fondovalle, tra agrumeti e macchia mediterranea che cresce sulle pareti rocciose che racchiudono la vallata. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Pirandello, uno dei figli devoti di Agrigento, descrive la sua amata valle nel romanzo del 1913 I vecchi e i giovani: “Circondata d’ogni parte da immensi tappeti vellutati di verzura... sotto il turchino intenso e ardente cielo”.
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SOPRA: Nel XIX secolo l’autore inglese William Sharp, viaggiando in Sicilia, scrisse: “Ma come rendere anche in modo vagamente approssimato la bellezza degli aranceti quando... una persona sente le fragranze del paradiso e all’improvviso si trova davanti l’avanguardia di tre milioni di arance? Accamparsi all’ombra di questo verde bosco selvaggio con intorno una moltitudine di globi di luce gialli e rubicondi e il ronzio delle api tra le viole e narcisi nel sottobosco e il battere delle ali di farfalle bianche e sulfuree su rose o convolvoli striscianti (l’ora magica, l’ora della lucciola e la luna crescente, è una gioia a parte)”.
legno o pietra collocate in punti strategici e ponti costruiti sui i ruscelli, così da rendere il giardino più accessibile ai visitatori. Oggi Kolymbetra vanta un agrumeto con limoni, cedri, clementine, mandarini e nove antiche varietà di arance, sia amare che dolci. Inoltre qui trovano spazio canne, pioppi bianchi, tamerici e salici che prosperano vicino ai ruscelli, così come un’incredibile varietà di alberi da frutto: mandorli, pistacchi, fichi, peri, albicocchi, peschi, azzeruoli, cotogni, cachi, meli, nespoli, pruni, sorbi, melograni, carrubi, gelsi, fichi d’India, banani e olivi, insieme alla macchia mediterranea spontanea, ossia mirto, lentisco, alloro, leccio, terebinto, fillirea, palma nana, euforbia e ginestra dei carbonai ai piedi e sulle pareti rocciose che delimitano il giardino. Alcune di queste piante hanno assunto proporzioni monumentali e si è stimato che uno degli olivi ha più di ottomila
anni. Nell’Eden, com’è scritto nella Genesi, Dio crea dalla terra ogni sorta di albero, sia quelli ornamentali che quelli da frutto. È facile capire perché l’abate di Saint Non paragonava Kolymbetra alla creazione di Dio, e perché il FAI era così determinato a far risorgere il giardino dallo stato d’abbandono in cui versava.
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PAGINE PRECEDENTI, A SINISTRA: Una delle
PAGINA A FIANCO: Un angolo del frutteto
nuove passerelle che attraversa un ruscello e
simile all’Eden, per come è descritto nella Genesi,
pareti di tufo calcareo del “laghetto dei pesci”,
in cui trova spazio ogni sorta di albero, sia quelli
Kolymbetra in greco, per indicare un bacino di
ornamentali sia quelli da frutto, e che Biagio
grandi dimensioni pieno d’acqua, le cui origini
Guccione descrive così: “Un pezzo di paesaggio
risalgono al tempo dell’antica colonizzazione greca
incontaminato sospeso tra il passato e il futuro. Un
della Sicilia nel 500 a.C. e della costruzione di
passato ricco di storia e un futuro da inventare”.
Akragas, Agrigento. PAGINE PRECEDENTI, A DESTRA: La saia è un canale per l’acqua in terracotta, parte dell’antico sistema d’irrigazione arabo, tuttora usato in Nord Africa, di recente restaurato e ampliato dal FAI (Fondo Ambiente Italiano). SOPRA: La parete di tufo dorato dove il frutteto cede spazio alla macchia mediterranea e ai fichi d’India.
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grigento è il sito dell’antica città greca di Akragas, Agrigentum in latino e Kirkent o Jirjent in arabo, una delle colonie più ricche e conosciute della Magna Grecia durante l’età d’oro della Grecia antica intorno al 582-580 a.C. Venne fondata su un altipiano che si affacciava sul mare, in una zona estesa in gran parte non ancora portata alla luce. Nota Goethe nel suo Viaggio in Italia: “Nessuna meraviglia quindi se la città bassa, ossia la parte che s’arrampica grado a grado, a la città alta, viste dal mare, presentavano insieme un colpo d’occhio imponente”. La Valle dei Templi, designazione erronea, in verità, perché si tratta di un altipiano e non di una valle, è un’ampia area sacra nel lato sud dell’antica città, a un chilometro circa da Agrigento, in cui tra il VI e il V secolo a.C. si costruirono sette templi monumentali in stile dorico. Oggi sono patrimonio dell’umanità in quanto sono tra gli antichi edifici greci più grandi e meglio conservati. La posizione di cui godono è spettacolare: tre templi ancora intatti si trovano lungo una moderna strada panoramica ben progettata, che corre lungo la cima della cresta tra antichi uliveti e mandorleti. I templi furono costruiti con lo stesso tufo dorato del crinale su cui giacciono; al tramonto paiono rosseggiare e di notte sono illuminati a giorno. Vincenzo Consolo li descrive nel suo libro La Sicilia passeggiata: “Della grande, dell’opulenta, dell’edonistica città, dove gli abitanti, come si diceva, costruivano templi e case nella prospettiva dell’eternità, si abbandonavano ai piaceri come se la morte li avesse attesi l’indomani”.
237 LA VALLE DEI TEMPLI, AGRIGENTO
PAGINE PRECEDENTI: Il maestoso tempio
IN QUESTE PAGINE: Il mandorlo e l’ulivo sono
dorico della Concordia, il meglio conservato
ormai diventati simboli della Valle dei Templi. Il
in tutto il mondo, assieme a quello di Teseo ad
mandorlo è uno degli elementi più significativi del
Atene. Il suo notevole stato di conservazione
mito della Sicilia come terra di eterna primavera
si deve alla trasformazione in chiesa nell’era
perché fiorisce in inverno, da dicembre a marzo,
dei primi cristiani, nel 597 a.C., mentre l’area
con i suoi fiori che dal bianco puro coprono tutte
circostante fungeva da necropoli, con le tombe
le sfumature di rosa. Il viaggiatore settecentesco
ricavate nelle pareti rocciose. “Percorso la
Johann Heinrich Bartels paragonava i mandorli in
sommità della collina appena implumata di
fiore alla via Lattea, di notte punteggiata di stelle.
mandorli, d’ulivi, scesi lungo la Valle dei Templi, estasiati dalla perfezione geometrica del quasi
PAGINE SEGUENTI: Motivi di licheni su pietre
intatto tempio della Concordia, dall’astratta
antiche descritte da Quasimodo come, “adagiate
sua bellezza matematica, pura come una
sul colle nitido di luna... tra il murmure di ulivi
dimostrazione filosofica, dal suo compiuto
saraceni”.
ordine sopra la tempesta d’una natura sconvolta”
“Il rugoso, tormentato olivo, l’albero sacro ad
– Vincenzo Consolo.
Atena, la dea della ragione, della sapienza” – Vincenzo Consolo.
238 LA VALLE DEI TEMPLI, AGRIGENTO
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e famose Latomie sono cave utilizzate sin dall’epoca greca per fornire la pietra per la costruzione della metropoli di Siracusa. Si stima che per i templi, le strade e le fortificazioni si usarono circa cinque milioni di metri cubi di pietre. Ci sono dodici cave distribuite lungo un arco di un chilometro e mezzo che segue il bordo della terrazza calcarea verso Ortigia, di cui, dopo aver prelevato roccia della qualità più dura, resta un curioso labirinto di miniere, ripari e caverne. I lavoratori erano in gran parte schiavi e prigionieri di guerra, per i quali le cave fungevano anche da prigione di massima sicurezza poco più di duemila anni fa; un carcere che non permetteva alcuna possibilità di fuga. Questi schiavi, molti dei quali greci catturati dopo la sventurata spedizione ateniese, di certo non avrebbero apprezzato il nome moderno di una di esse: Cava Paradiso. Nel 1959 il poeta
242 LE LATOMIE DI SIRACUSA
brasiliano Murilo Mendes scrisse: “Giardini che esplodono, le latomie onservano / il soffio fisico del passaggio / di antica morte a Siracusa: violenta marcia la storia / sul suo selciato”.
SOPRA: “Le Latomie sono fresche e misteriose ormai... i loro muri a picco gettano ombre sugli aranci e sulle le bougainvillea che prosperano dove una volta i soldati ateniesi si raggomitolavano nella polvere” – Mary Taylor Simeti. PAGINA A FIANCO: La Via delle Tombe con le nicchie votive si trova proprio alle spalle del teatro. “L’inestimabile fatica con la quale ognuna e tutte le migliaia di tombe furono scolpite; la devozione con cui, nel corso di centinaia di anni, si fornirono ai morti dimore durevoli tale che i vivi negavano a loro stessi; la severa bellezza e forza della roccia; investono la scena con un’aurea di sublime solennità. La morte risiede in questa pietra immensa che, allo stesso tempo, vibra dell’inestinguibile potenza della vita” – Gunther Zunzt.
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uesto santuario è stato creato nel luogo in cui, nel 1962, la Madonna apparve a un’abitante di Graniti, Giovanna Longhitano, nella frazione Muscianò. Giovanna sognò di trovarsi a piedi nudi davanti a una roccia concava come una grotta, e di sistemarvi dentro una statua della Madonna con un mantello azzurro, comprata con le offerte degli abitanti di un’altra frazione di Graniti, Postoleone. La donna ne parlò con il prete della parrocchia, monsignor Filippo Calabrò, che suggerì di trasformare il suo sogno in realtà. Però Giovanna non aveva denaro suo e temeva di affrontare l’argomento con il marito. Ma nel 1964, sulla strada per Postoleone, all’improvviso Giovanna si sentì sopraffatta dalla stanchezza. Si sedette, alzò gli occhi al cielo e chiese a Dio cosa volesse da lei. Di colpo, una raffica di vento aprì uno squarcio tra i rami dell’albero sotto cui aveva trovato riparo, rivelando la nicchia che aveva visto in sogno. Decise quindi che era arrivato il momento di agire. Con suo fratello Nicola camminò a piedi nudi fino a Postoleone, dove raccolse cinquemila lire per comprare una statua della Madonna a Messina; il 4 aprile 1964, a cent’anni esatti dall’apparizione della Madonna di Lourdes, alla presenza di tutti i parrocchiani
di Graniti, la statua fu sistemata nella nicchia. Ogni anno, l’ultimo giorno di maggio, si tiene una processione, e molti parlano di miracoli e atti di grazia. La signora Giovanna vive ancora in una modesta abitazione di Graniti da cui ogni giorno, al tramonto, si reca a piedi fino al santuario per accendere le candele, qualunque siano le condizioni atmosferiche. Nel corso degli anni ha inoltre dato vita a una chiesa rudimentale dedicata alla Madonna, ricavata nella roccia adiacente.
245 GROTTA DELLA MADONNA, GRANITI
Casa Cuseni, Taormina Messina
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asa Cuseni è la creazione di Robert Hawthorn Kitson (1873-1947), ingegnere e artista che visitò la Sicilia per motivi di salute ma che poi decise, incantato dal clima, dal paesaggio e dalla storia della regione, di trasferirsi a Taormina. La casa e il giardino, costruiti sul fianco della collina sopra la città, “sono testimoni del senso della proporzione da ingegnere, dell’amore per i colori da artista e dell’istinto per una drammatica angolarità da architetto.” (Charles Quest-Ritson, da The English Garden Abroad, 1992). Da qui si può godere una fantastica vista sull’Etna, uno sfondo preso in prestito per il giardino che Kitson sviluppò per oltre quarant’anni, sulla Baia di Naxos oltre i tetti di Taormina, e sul Mar Ionio circa duecentocinquanta metri più sotto. A quell’epoca sorprendeva che un “inglese matto” volesse vivere fuori dalle fortificazioni medievali della città dove “non ci sono altro che maiali e contadini”. Kitson e i suoi amici artisti (soprattutto il pittore Frank Brangwyn dell’inglese Arts and Craft Movement, il movimento artistico delle arti e dei mestieri) progettarono la villa, e ne decorarono l’interno con delicati affreschi, mobili scolpiti in stile liberty e tessuti ricamati a mano. Quest-Ritson osserva che il progetto è caratterizzato da molti elementi rinascimentali
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misti a un senso tutto rococò del divertimento e all’ingenuità intellettuale di Edward Lutyens: il risultato è comunque estremamente romantico. La villa è situata al centro della proprietà; il ripido pendio fu terrazzato con gradini, rampe e sentieri serpeggianti di collegamento, ricchi di elementi a sorpresa, come bei vasi di terracotta, sculture intriganti e giare per l’olio colme di piante profumate. Furono i contadini del posto e le loro donne dalle tipiche gonne lunghe a ricavare queste terrazze dall’originale mandorleto sul fianco del pendio, usando solo asini e vanghe. Come ingresso, Kitson realizzò un cancello rococò a mezza luna che si apre su una vasca di marmo circondata da papiri e sinuosi muretti blu lungo la strada. Anche le panchine sono in stile, immerse tra nuvole di papaveri della California, lupini, iris e convolvoli delle Mauritius. Ogni terrazza ha caratteristiche e stili tutti suoi. Quella situata sopra la casa ha un patio con un complicato broderie di ciottoli commissionato agli artigiani locali secondo la tipica tradizione Arts and Crafts, usando il ciottolato, una tecnica settecentesca di Catania, e un muro di piastrelle ornamentali che Kitson importò dal Nord Africa. Tocchi arabi pervadono l’intero giardino. Su di un altro muro vi è inciso con mascherine in rilievo
PAGINA A FIANCO: Panchina rococò da giardino nella prima terrazza, avvolta da nuvole di iris, papaveri della California, papiri e spiree.
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delle caricature di Kitson e del suo capomastro. Sulla terrazza in cima, una squisita vasca cubica che si affaccia sull’Etna sfrutta uno degli antichi bacini greci, circondata da un pergolato blu e rosa ricoperto di festoni di gelsomino e glicine, allineata con il profilo fumante del vulcano in lontananza. Secondo calcoli matematici, se la vasca e la luna sono entrambe piene, nell’acqua si dovrebbe vedere il riflesso dell’Etna innevato. Un archeologo esperto che lavorava a Gela ha identificato quattro manufatti greci del IV secolo a.C., trovati da Kitson in giardino quando ancora si scavavano le fondamenta della casa: la testa di leone sulla vasca all’ingresso con un getto d’acqua che gli esce dalla bocca; una faccetta divertente (“fatta per divertire i bambini”, secondo l’archeologo) sistemata su un muro; il piedistallo rotto di un’arula, o piccolo altare di famiglia, che il giardiniere aveva messo sottosopra per riempirlo di gerani, con sommo orrore dell’esperto, e un’anfora adesso sistemata in casa. L’archeologo ha osservato: “Certamente i greci avranno avuto una villa qui, non si sarebbero mai lasciati scappare un panorama del genere. Questo sito e quello del teatro greco sono i migliori di Taormina”. Nel giardino ci sono tre pozzi greci che forniscono l’acqua essenziale, tuttora in uso per l’irrigazione.
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Dopo la morte di Kitson nel 1947, sua nipote Daphne Phelps arrivò a Taormina per vendere la proprietà; ma presto se ne innamorò, e così tentò di mantenerla mentre combatteva contro bancarotta, mafia, pretendenti italiani interessati alla sua eredità, autorità locali, una misera padronanza dell’italiano e lo stupore generale per le sue capacità nonostante fosse una donna. Tutto ciò è raccontato molto bene nel suo libro, Una casa in Sicilia, pubblicato qualche anno prima della sua morte, nel 2005. Daphne non poteva permettersi di mantenere tre giardinieri, come aveva fatto lo zio, dunque fu lei stessa a occuparsi di gran parte del lavoro. Fu costretta a vendere gli appezzamenti di terra sopra la proprietà, e così dalla montagna spoglia non le arrivò più la pioggia che riempiva la cisterna, posta in cima al giardino, per dare acqua alle piante. Quindi dovette usare più specie locali che potessero resistere al caldo e alla siccità. Per far quadrare il bilancio si trasformò persino in una “locandiera”, offrendo ospitalità non solo a persone rispettabili ma anche di dubbia fama. “Casa Cuseni è come un fiume”, ha osservato uno dei suoi numerosi ospiti, al che Daphne ha aggiunto: “ne sono arrivati da ventisei paesi diversi, con amici che presentavano altri amici. Intorno al tavolo rotondo di Brangwyn ho unito gente che nella vita
SOPRA: La maschera dietro la vasca è una caricatura del proprietario, l’ingegnere e artista Robert Kitson, che progettò quest’incantevole casa e il suo giardino con un’armoniosa combinazione di Arts and Crafts inglese e stili siciliani locali. PAGINA A FIANCO: Il giardino visto dalla terrazza di casa che si affaccia sulla strada e sul cancello d’ingresso a forma di luna, mostrando la natura scoscesa del pendio su cui è stato realizzato. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Una moltitudine di fiori di stagione sotto gli agrumi della terrazza immediatamente al disotto della casa, piantati negli anni Trenta con un misto di limoni, pompelmi, mandarini e arance dolci. È triste notare quanto manchi il tocco di Daphne che, con devozione, si occupava di quest’intrico di fiori. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: La maschera dietro questa vasca, contornata da una frangia di papiri, è una caricatura del capomastro di Kitson, Don Carlo Siligato.
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normale difficilmente si sarebbe incontrata, e se l’avesse fatto, avrebbe fraternizzato con difficoltà: intellettuali e non, destra e sinistra, ceti superiori e inferiori, bianchi e neri, britannici e americani (divisi dalla lingua comune)”. Per più di cinquant’anni, Daphne ha curato con amore sia la casa che il giardino, lasciandoli poi a un’amministrazione fiduciaria che li conservasse. Al momento, la proprietà, dichiarata “di importanza storica e culturale” dall’Accademia delle Belle Arti di Messina, è in restauro dopo un
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periodo di triste declino. Per il futuro, la famiglia Cundari Spadaro, erede dell’amica fidata di Daphne, Concetta Cundari, ha trovato un modo per non vendere Casa Cuseni: curare e gestire casa e giardino sottoforma di museo. C’è speranza, quindi, che il commento del giornalista e presentatore inglese Alan Whicker, che Casa Cuseni “è l’unico posto che non è cambiato dopo la guerra. Taormina è cresciuta tutt’intorno, ma lo straordinario incanto della casa e del giardino è più potente che mai”, non sia stato detto invano.
IN QUESTE PAGINE: I sedili rococò di Kitson con vista strategica, al di là dei muri briosi e del cancello a luna, su Taormina, circondati da nasturzi e convolvoli mauriziani.
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IN QUESTE PAGINE: Terrazza che si affaccia su Taormina, la Baia di Naxos e la linea costiera fino a Siracusa, con il pavimento acciottolato in stile Arts and Crafts realizzato dagli artigiani locali su disegno di Kitson. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Gli intricati broderies di ciottoli del pavimento di una delle terrazze superiori, variazioni esotiche di tradizioni locali. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Posta in cima alla casa, questa terrazza offre un panorama spettacolare dell’Etna nelle giornate limpide. Un pavimento acciottolato fiancheggiato da alberi da frutto, iris e agapanti, termina davanti a un’altra vasca di papiri ornata su tre lati da muri rosa, con graziose statuette dentro nicchie laterali.
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Villa Manganelli Biscari: un museo all’aperto a Viagrande Catania
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o storico giardino dei principi Manganelli Biscari occupa circa due ettari, sebbene in origine fosse molto più esteso e comprendesse anche le stalle, ormai convertite in villa privata, e un grande parco dall’altro lato di via Garibaldi. Lo stile predominante è quello francese, tipico dei giardini siciliani del Settecento, con elementi di classicismo rinascimentale, teatralità barocca ed eccellenza botanica. Per più di due secoli fu il ritiro prediletto dei principi catanesi, una miniera di tesori: fontane, statue di pietra, reperti archeologici ed etnografici, voliere, templi, grotte e tutte le caratteristiche francesi essenziali: parterres, berceaux, broderies e allées. La villa e i giardini, come si vedono oggi, sono il risultato delle modifiche fatte dall’architetto milanese Carlo Sada dal 1879 al 1889, lo stesso periodo in cui stava ultimando il teatro Bellini di Catania, su commissione di Giuseppe Paternò Asmundo, principe Manganelli, dopo che la proprietà era stata divisa dalla strada provinciale via Garibaldi. Su insistenza del principe, Sada non eliminò le precedenti influenze neoclassiche ma si limitò ad aggiungere dettagli floreali in stile liberty, di moda a quell’epoca, molti dei quali rimossi in seguito dall’attuale proprietario. Fortunatamente
258 VILLA MANGANELLI BISCARI: UN MUSEO ALL’APERTO A VIAGRANDE
Sada ha preservato molti degli eccezionali alberi settecenteschi, aggiungendo rare piante esotiche e restaurando i sinuosi sentieri decorati con ciottoli di fiume bianchi e neri a motivi geometrici e zoomorfi, compreso l’elefante “gioioso”, il simbolo di Catania, e i motivi policromi che raffigurano il dio Simeto, Afrodite, delfini, sirene e vasi di fiori. Il giardino attuale presenta tre successive fasi di piantagione: lo stile “all’italiana” del XVI secolo, quello “alla francese” del XVIII e quello liberty del XIX. Il giardino italiano è la zona formale che rimane tra la villa e la strada provinciale, fronteggiato da cancelli in ferro battuto con il monogramma coronato dei principi Manganelli. Questo giardino classico ha una fontana centrale, quattro aiuole rettangolari simmetriche orlate di pietra bianca, e sentieri in ciottoli a motivi geometrici. Qui si trovano meno reperti archeologici ed etnografici rispetto al resto del parco, salvo i due vasi greci rettangolari di creta rosa, probabilmente risalenti al II secolo a.C., e quattro grandi giare per l’olio, due saracene e due locali, in modo da non distogliere l’attenzione del visitatore dalla villa principale e dalle portinerie. Da qui partono tre scalinate di marmo e una carreggiata acciottolata che portano al parco basso dietro la casa, in cui si respira un’atmosfera per gran parte settecentesca,
PAGINA A FIANCO: Il giardino formale, chiamato Villetta, davanti alla facciata principale della casa, caratterizzato da una classica disposizione geometrica e una fontana centrale che rappresenta Afrodite seduta su una conchiglia con due delfini zampillanti ai piedi. Sentieri in ciottoli bianchi e neri separano le simmetriche aiuole floreali incorniciate con pietra bianca.
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ricca di attrattive botaniche, archeologiche, etnografiche e artistiche. Sentieri sinuosi, orlati da cordoli di lava che delimitano siepi di vario tipo, formano dei meandri intorno ad aiuole colme di piante interessanti, statue del Settecento in pietra locale, pietra di Vicenza o terracotta, reperti archeologici in vasta scala e reperti etnografici della civiltà rurale siciliana, un vero e proprio museo all’aperto, complementare alle ampie collezioni dentro i numerosi edifici. La zona inferiore del parco contiene inoltre delle costruzioni particolari, come l’ottocentesco gazebo in ferro battuto, i canili, le grotte artificiali, i casotti di lava con pannelli piastrellati di maiolica dell’Ottocento, rustiche nicchie di lava con statue di pietra bianca, fontane dentro grotte, la vecchia taverna (ora museo etnografico), l’originale mescita (per mescolare le bevande, ora un rustico bar) e la selleria (che contiene bardature e altre armature equestri). Tutti i sentieri portano a una radura che un tempo era occupata dal campo da tennis reale, circondato da alti tigli, ormai usato per eventi all’aperto. Da qui due scalinate e una rampa di lava e ciottoli conducono al Parco Superiore così come l’ampio viale acciottolato che unisce la villa alla dependance del giardino più alto. Eleganti balaustre, in pietra o ferro battuto, separano il Parco Superiore da quello
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Inferiore, incoronando le mura della terrazza per ornamento e sicurezza. Anche nel Parco Superiore si trovano molte costruzioni: un esagono, un tempietto a meridiana, una cappella rustica, un arco trionfale in pietra lavica, grandi portoni in ferro battuto, vere di pozzi, un campo di bocce e un edificio che ospita una nuova sala congressi. I manufatti nella zona alta sono più archeologici che etnografici, con capitelli corinzi, romani, colonne doriche, fontane, vasche e architravi nel giardino, per non parlare delle innumerevoli statue, sia originali che copie del XVIII secolo, esibite al coperto nella loggia, aggiunta dal proprietario attuale. Probabilmente molto di ciò deriva dalle prestigiose collezioni di Ignazio Paternò Castello, quinto principe di Biscari (1719-1786), molti pezzi delle quali sono stati rinvenuti tra le rovine di Catania dopo il devastante terremoto del 1693. Di tutti questi incredibili manufatti, sia all’esterno che all’interno, oggi si prende cura con devozione l’attuale proprietario, Lorenzo Pitanza, che ha mirabilmente restaurato, catalogato e illustrato i suoi tesori per i posteri. Nonostante la fiducia non gli manchi, conclude il suo dettagliato libro-guida al giardino con una citazione dagli Epodi di Orazio che esprime perfettamente la sua disperazione per la totale mancanza di interesse e di partecipazione da parte delle autorità locali.
SOPRA: La Villetta e la facciata neoclassica della villa, modificata e semplificata dall’attuale proprietario che fece rimuovere i tanti elementi liberty aggiunti alla fine dell’Ottocento. PAGINA A FIANCO: Uno dei viali caratterizzato da mosaici geometrici e bordi a lisca di pesce realizzati con ciottoli di fiume, che attraversa giardino inferiore, quello in gran parte settecentesco. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Un arco accanto al salotto all’aperto, una volta campo da tennis e prima ancora campo da tennis reale, adiacente alla piscina e vicino alla nuova sala congressi, così da poter essere sfruttato come luogo di ritrovo esterno. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Scalini che portano al Parco Superiore, da cui si intravede la fontana barocca di Galatea, in piedi dentro una conchiglia sostenuta da due delfini in una vasca di pietra di Vicenza, secondo l’iconografia catanese. Quattro autentici capitelli corinzi in marmo del II e III secolo d.C. sostengono dei mortai antichi romani piantati ad Asparagus sprengeri; ai lati della fontana due enormi colonne doriche.
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PAGINE PRECEDENTI, A SINISTRA: Arco di
scalinata a tenaglia che, attraversando una
pietra lavica del XVIII secolo, con cancello in
facciata bidimensionale, porta a una terrazza
ferro battuto dello stesso periodo, sormontato
superiore. Questo spazio si può prenotare per
da un’aquila, il simbolo di Viagrande, situato nel
ricevimenti, riunioni, matrimoni, conferenze e
Giardino Superiore, guardando verso la Loggia.
congressi.
PAGINE PRECEDENTI, A DESTRA: Loggia
PAGINE SEGUENTI: La terrazza sopra la sala
in stile prevalentemente palladiano aggiunta
congressi, un tempo un palmento, vista da
dall’attuale proprietario, utilizzata come sala
entrambe le direzioni. Si tratta di uno spazio
concerti e per ospitare le grandi collezioni di
aperto alternativo, disponibile per gli stessi usi
statue, tesori archeologici, vasi, fontane, consolle,
della sala sottostante.
armi e molti altri pezzi; alla fine del patio, una fontana romana in marmo con maschere colma di papiri. PAGINA A FIANCO: Il tempietto con meridiana costruito con reperti archeologici. SOPRA: Ingresso della sala congressi con la
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La residenza di caccia di Gaia a Piana dei Colli Palermo
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uesta proprietà è una casa di caccia neoclassica costruita dagli avi di Gaia alla fine del Settecento. Quasi subito dopo il completamento, però, fu la regina Carolina di Borbone a occuparla, dopo la fuga da Napoli su una nave condotta dall’ammiraglio Nelson. E in effetti a quell’epoca era nota con il nome di Villa Carolina. La regina vi restò per sei mesi, periodo dopo il quale la proprietà tornò a essere una residenza di caccia, ma solo fino al 1944, quando i nonni di Gaia, Luigi (il secondogenito noto come l’ultimo Gattopardo) e Beatrice si sposarono e la ricevettero come dono di nozze. Durante la seconda guerra mondiale il padre di Luigi comprò una grande chiglia di nave che capovolse in giardino e ricoprì di cemento per farne un rifugio antiaereo per la famiglia. I neosposi ne fecero la loro dimora, organizzando il giardino con uno stile formale all’italiana. Appena finita la riconversione della proprietà, la marina militare italiana la requisì per un anno, facendone il proprio quartier generale logistico. Fortunatamente la casa subì pochissimi danni e la coppia vi poté tornare a vivere nel 1945. Gaia ha scelto di mantenere il giardino esattamente come fu concepito dai nonni, ossia
270 LA RESIDENZA DI CACCIA DI GAIA A PIANA DEI COLLI
un giardino “permanente” dove è il verde a predominare e i pochi fiori sono quelli degli alberi da frutto, disposto in modo simmetrico, il tutto disegnato “in modo che non debba soffrire per l’incuranza dell’uomo”. Quest’area ornamentale occupa un ettaro e mezzo di terreno mentre altri cinque sono stati destinati a una vera e propria fattoria produttiva, curata dagli ottantenni guardiani, con ortaggi, polli e mucche. La zona ornamentale contiene anche degli agrumeti dietro alte siepi di bosso vicino alla casa, che poi cedono terreno a siepi di ibisco lungo i viali e a un labirinto, formato da cerchi concentrici di bosso, chiamato Fioretta. Le piante sono soprattutto mediterranee con aggiunta di palmizi, Cycas revoluta, la palma nana giapponese, gigantesche Strelitzia reginae, o uccello del paradiso, e ippocastani, una scelta inusuale in Sicilia. Un enorme Ficus magnolioides domina un angolo del giardino, dove le sue radici aeree hanno avvolto, e quasi inghiottito, una panchina piastrellata. Tra le attrattive più singolari ci sono dei lampadari in ferro battuto sospesi a funi d’acciaio in tutto il giardino, scelti dalla nonna Beatrice. Dopo il tramonto le funi diventano invisibili e i lampadari sembrano fluttuare nell’aria
PAGINA A FIANCO: Dal primo piano, vista sull’area da pranzo all’aperto lungo il viale Beatrice che prende il nome dalla nonna, creatrice del giardino a metà del Novecento, attraverso la fioritura rosa dell’albero di Giuda, così chiamato perché la leggenda vuole che questo sia l’albero a cui Giuda si era impiccato. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Angolo di viale Beatrice con viale Anna Stella, un altro membro della famiglia, con un’antica dama di marmo che fa capolino dall’aranceto incorniciato da siepi di bosso. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Un albero di Giuda e una rigogliosa bougainvillea abbarbicata a una yucca gigante sul limitare del largo Gaia, il posto preferito dell’attuale proprietaria, Gaia.
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diffondendo una magica aura di luce, soprattutto sulla pista da ballo circolare ricoperta di muschio e circondata da torreggianti piante “uccello del paradiso” nascoste tra gli alberi. Busti di marmo su colonne sono disseminati qui e là, effigi di personaggi per gran parte italiani e francesi e quasi tutti raffiguranti figure femminili; sono stati comprati dal senatore Gabriele, un altro antenato e appassionato collezionista di antichità, direttamente presso musei, insieme a panchine di pietra distribuite all’ombra degli alberi. Nei mesi invernali, queste “distinte signore” si ritirano in casa, andando a occupare i davanzali delle finestre. Su altre colonne si trovano grandi vasi di terracotta colmi di Aspidistra eliator. Il viale principale, viale Beatrice, termina con un muro il cui ornamento è una targa rotonda di maiolica del Settecento che rappresenta la Madonna, circondata da graziose piastrelle di casa, anch’esse del XVIII secolo.
274 LA RESIDENZA DI CACCIA DI GAIA A PIANA DEI COLLI
In due angoli del giardino si trovano le “casette dello scirocco”, dei luoghi freschi in cui ripararsi dai venti caldi da sud-est che soffiano direttamente dal deserto. Ogni viale muscoso del giardino porta il nome di un membro della famiglia, salvo lo spiazzale chiamato “Tennis”, perché una volta era in effetti un campo da tennis. Il posto preferito di Gaia, naturalmente, è il largo Gaia, uno spazio arioso abbellito dai fiori degli alberi di Giuda, yucche e vivaci bougainvillee. Per entrare in casa si attraversa un grande cortile con al centro una fontana ottagonale decorata con le tradizionali pigne di ceramica, dove alcune tartarughe che portano i nomi delle figlie della proprietaria, Anna Stella, Beatrice e Greta, convivono in armonia con pesci rossi, carpe e ninfee, mentre la bougainvillea incornicia le porte e le finestre delle vecchie scuderie. A guardia dell’entrata principale stanno i busti di due eleganti dame.
SOPRA: Viale Beatrice a lume di lampadario, con un tappeto di fiori di Giuda sul viale muscoso, fiancheggiato da aspidistre in grandi vasi di terracotta e da busti di marmo di donne sconosciute su colonne; gli ultimi si ritirano sui davanzali delle finestre di casa per superare l’inverno. PAGINA A FIANCO: Sala da pranzo all’aperto illuminata dagli evocativi lampadari in ferro battuto di nonna Beatrice, che sembrano fluttuare nell’aria. PAGINE SEGUENTI: Dettaglio di uno dei lampadari in ferro battuto, sparsi in tutto il giardino. Questo in particolare illumina l’area chiamata “Tennis” dove prima c’era un campo, ora una radura muscosa ombreggiata da giganteschi bagolari.
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Villa Tasca Camastra Palermo
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n lungo viale fiancheggiato da una doppia fila di palme parte dalla strada Palermo-Monreale, nei pressi dell’antico parco normanno, il Genoardo, ricco di pozzi, fontane, di giardini e frutteti, e arriva alla villa, costruita tra il 1555 e il 1559. Da qui si può godere una magnifica vista sulla Conca d’Oro. Questa è una delle poche ville principesche ai confini di Palermo a essere sempre stata abitata. Il giardino si potrebbe definire “dinamico” per via dei molti proprietari, il primo dei quali fu Aloisio da Bologna, barone di Montefranco. La villa cambiò nome quando una delle sue figlie sposò il primo duca di Camastra. A quel tempo era conosciuta per “deliziosa flora e viali”, un giardino formale murato, con un parterre diviso in sei quadrati delimitati da siepi di bosso e circondato da agrumeti e campi coltivati. I primi quattro riquadri contenevano fontane con zampilli alla francese. Si ha l’impressione che nel corso dei secoli ogni generazione abbia voluto eliminare le tracce di quella precedente, finché nel 1840 il conte Lucio Mastrogiovanni Tasca acquistò la proprietà e fece cambiamenti drastici nel giardino. Ristrutturò la casa, dandole un aspetto neoclassico rimasto pressoché intatto. Wagner ci soggiornò nel 1881
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per comporre il Parsifal, dopo aver preso freddo nel Grand Hotel et des Palmes di Palermo. Fu il conte Lucio a dare al giardino la configurazione attuale, diviso in due zone adiacenti ma diverse, il risultato di interventi successivi nel 1855 e nel 1870. La prima parte si apre sul davanti della villa, al posto dell’originario parterre. In quest’area dalla forma irregolare si trovano un grande lago ornamentale, su cui si riflette la facciata della villa, e quattro bacini tondi ricoperti di ninfee e papiri egiziani, circondati da aiuole di fiori esotici e calle bianche. Sentieri sinuosi orlati da siepi di Duranta, Pittosporum e Santolina si snodano tra cespugli, gruppi di palme, radure e gruppi di venerande Cycas, tra le prime a essere piantate in Sicilia. I viali paralleli alle mura perimetrali sono i resti del settecentesco giardino formale, così come i bacini rotondi. Nel 1870, su un pezzo di terra adiacente fu aggiunto un giardino in stile romantico, diviso in tre aree dall’acqua o dai boschi. La prima zona è lacustre e rocciosa, con Dracaena, l’albero del drago, Araucaria, Yucca e un enorme Ficus magnolioides che ha soppiantato gli originari cipressi che stavano intorno all’isola nel “Lago dei cigni”, trasformandola così in una penisola; scelte, queste, ispirate all’esoticità dell’Orto Botanico di Palermo.
PAGINA A FIANCO: L’ingresso principale sorvegliato da busti di allegorie in gesso. Le cancellate di ferro, sommerse nella bougainvillea, sono incassate in pilastri di gesso sormontati da vasi di pietra scolpiti e dalle enormi Washingtonia filifera che, da brave sentinelle, fanno la guardia lungo i confini.
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Lucio Tasca fu il primo aristocratico palermitano a interessarsi alla flora tropicale che abbondava nell’orto e, a sua volta, influenzò tutti i più importanti giardini della città, prima quelli privati e poi quelli pubblici, grazie alla sua capacità nell’usare queste piante esotiche per creare un giardino romantico molto evocativo, piuttosto che una collezione botanica o un giardino formale all’italiana. Un viaggiatore notò che l’Araucaria heterophylla “non si era mai vista prima a Palermo ma era diventata di moda e indispensabile in ogni villa”, andando a sostituire i lecci e i cipressi nativi. Sul bordo del lago si trova un delizioso padiglione vetrato per le orchidee, tipicamente romantico, mentre all’estremità opposta una grotta ombrosa ricavata in un monticello roccioso è sormontata da un tempietto dorico dedicato a Cerere, vicino a un ruscello che trabocca di Colocasia antiquorum, l’orecchio d’elefante. Molte delle statue originarie del parterre sono state sistemate lungo i sentieri sinuosi del giardino romantico. La seconda area, oltre il boschetto di bambù a fusto nero, è una zona collinare con dei ponticelli di ferro da cui si accede a una pagoda all’orientale che offre una magnifica vista sopra gli alberi esotici fino alla villa. Sotto questa collina artificiale c’è una misteriosa cavità piena di stalattiti e stalagmiti.
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Questa successione di paesaggi insoliti, esotici e arcani, soleggiati e ombrosi, pianeggianti e collinari, intensifica la sensazione di una lunga passeggiata. La terza parte del giardino romantico è caratterizzata da sentieri delimitati da pietre e rocce che, insinuandosi tra pini, palme e conifere, portano a un giardino roccioso pieno di succulente: fichi d’India, agavi e aloe sormontati da un tempio in cui trova posto il busto del conte Lucio Tasca di Almerita. Per un certo lasso di tempo quest’area fece anche da vivaio. Gran parte della vegetazione esotica di Tasca è cresciuta talmente rigogliosa da sconvolgere l’equilibrio spaziale e da compromettere i punti di osservazione cruciali; ma ormai queste piante sono esse stesse monumenti. Tasca è stato vicepresidente della Società di Acclimatazione e di Agricoltura e il suo giardino è diventato un punto di incontro internazionale per botanici specializzati. Per il periodo in cui visse le sue idee in fatto di agricoltura furono davvero avanzate: per esempio, aveva piantato viti americane per combattere il temuto fillossera, la peste delle vigne, e aveva sfruttato molte idee moderne degli utilitaristi britannici, enunciando le virtù della coltivazione produttiva. Quindi aveva fatto crescere i gelsi per nutrire i bachi da seta e il sommacco per conciare le pelli, e possedeva un
SOPRA: Un laghetto ornamentale di forma irregolare orlato da pietre, un boschetto di bambù e sentieri sinuosi nel giardino che sostituì il parterre formale. PAGINA A FIANCO: La serra delle orchidee in un bosco di lecci con una settecentesca statua di marmo dell’Autunno tra le radici tabulari del gigantesco Ficus magnolioides. PAGINE SEGUENTI: Autunno scruta, oltre il lago dei cigni, la penisola delle Yucca elephantipes, un tempo isoletta di cipressi nel giardino romantico, ormai inghiottita dalle enormi radici del Ficus magnolioides.
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PAGINA A FIANCO: Il colossale Ficus
PAGINE ANCORA SEGUENTI, A DESTRA:
magnolioides con le sue radici aeree nel giardino
Agave americana “marginata”, Datura arborea o
romantico della fine dell’Ottocento.
Brugmansia, Trachycarpus fortunei e un tappeto di acanti che dimostrano l’abilità del conte Lucio
SOPRA: Una Dracaena draco gigante tra aloe,
Tasca nell’usare piante esotiche in un contesto
agavi e yucche nel giardino roccioso, scelte
romantico piuttosto che per una collezione
esotiche ispirate dall’Orto Botanico di Palermo.
botanica.
vasto assortimento di agrumi: arance dolci, arance amare, arance di Siviglia, limoni, limette e cedri. Goethe lo considerava tra i proprietari terrieri più acculturati e accorti, in grado di occuparsi tanto della produzione agricola quanto del suo giardino sperimentale.
PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Il tempio belvedere, dedicato a Cerere, progettato nel 1880 circa da Francesco Palazzotto sulla collina artificiale con Yucca elephantipes e Monstera deliciosa sulla cisterna dell’acqua nascosta nel monticello. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: Una Dracaena draco gigante fa ombra ai graziosi parapetti del giardino romantico. PAGINE ANCORA SEGUENTI, A SINISTRA: Opunzie, euforbie e Yucca Elephantipes. Goethe visitando Palermo osservò: “Molte piante, ch’ero abituato a vedere in cassette o in vasi, o addirittura chiuse dietro i vetri d’una serra per la maggior parte dell’anno, crescono qui felici sotto il libero cielo”.
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Terrazze Taormina, Palermo
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ulla strada più alta di Taormina un ingresso stretto si apre su una ripida rampa di scale che conduce a un inaspettato scorcio di pace e armonia perfetta, il delizioso giardino pensile di Umberto e Philip. Dalla porta ornata da festoni di gelsomini e rose profumati, pochi gradini portano al patio rosa pompeiano e a un praticello orlato di vasi di terracotta con piante da tutto il mondo che Philip presenta con orgoglio a chi gli chiede informazioni, illustrandone i nomi e la provenienza. Così scopriamo che alcuni iris provengono dal Sudafrica in forma di semi infilati in tasca, altre piante sono regali da Stromboli, mentre una delle prime era uno scarto della zia di Umberto, Cristina, una cycas arrivata “con solo due foglie e un sacco di insetti”. Questi furono lavati via con sapone di Marsiglia, l’antidoto preferito di Philip contro gli ospiti indesiderati, e per la cycas non vi furono ripensamenti. Un ulivo è stato issato con una gru dall’albergo a fianco e piantato quattro anni fa circa per sostituire un grande limone morto di “mal secco”, una tipica malattia mediterranea tra gli agrumi. Oggi i limoni lunari, una varietà che fruttifica tutto l’anno, sono piantati nei vasi. Dall’altra parte del prato un calamandino a forma di pompòn è carico
290 TAORMINA: IL GIARDINO PENSILE DI ROCCA CASTELLO
di piccoli frutti arancioni tondeggianti che paiono lanternine. Qui le piante mediterranee fanno a gomitate con quelle esotiche, e il davanzale della stanza da letto è affollato di succulente che si possono godere dall’interno o dall’esterno. All’entrata è appesa al muro una grande maschera proveniente dalla Messina pre-terremoto, dalla cui bocca nell’Ottocento zampillava acqua. Sotto la maschera, una bella vasca di marmo rosso di Taormina, trovata tra le macerie nel giardino, trabocca di Osteospermum, la margherita africana. In un angolo del giardino, la statua di un ragazzo che tiene un cigno è un altro pezzo della giungla vittoriana che Philip e Umberto hanno trovato quando sei anni fa hanno acquistato la casa. Questa giungla emergeva da un letto di calcinacci, il cui mezzo metro superiore Philip ha rimpiazzato con del terriccio dopo la ristrutturazione della casa, in modo da creare un vero giardino e seminare un prato immacolato che oggi è tosato e curato con attenzione da Umberto. L’unico dispiacere di Philip è che ormai ha riempito ogni minuscolo angolo di giardino e non gli resta altro spazio per nuove piante. I suoi occhi vagano sul grande giardino collinare sopra la loro casa.
PAGINA A FIANCO: Ingresso che dà sul patio rosa pompeiano illuminato da lampade a muro in ferro battuto, realizzate a mano in tipico stile taorminese. All’estremità del patio una maschera di marmo del XIX secolo, parte di una fontana messinese salvata dopo il terremoto, regna su una vasca di marmo rosso di Taormina trovata seppellita in giardino e ora colma di Osteospermum, la margherita africana. PAGINE SEGUENTI, A SINISTRA: Collezione di cactus e succulente, molte riprodottesi da minuscoli frammenti portati dagli amici, sotto e dentro l’ulivo issato su fino al terrazzo dalla gru dei costruttori dell’albergo accanto. I piccoli globi arancioni del calamandino fanno capolino da dietro l’olivo. PAGINE SEGUENTI, A DESTRA: La vista dal patio coperto sui tetti di Taormina fino al mare, incorniciata dal sempreverde falso gelsomino, il Trachelospermum jasminoides, e da una varietà di rosa David Austen, la “Apricot Sky”, un complemento perfetto all’azzurro intenso del cielo siciliano; si nota anche la cycas della zia Cristina, ora felicemente insediata sul bordo del curatissimo prato di Umberto.
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a casa di Rosalia risale al Settecento ed è uno dei tre palazzi rinascimentali che furono ristrutturati e fusi in uno nel XVIII secolo dopo venticinque anni di abbandono, quando la sua famiglia ne divenne proprietaria. Altre modifiche furono fatte alla fine del XX secolo, quando Rosalia trasformò la stanza che dava sulla terrazza in una veranda chiusa, rimpiazzando i muri con delle grandi finestre in modo da potersi godere le sue piante in ogni stagione. Il mobilio esterno è in stile liberty ma realizzato con materiali moderni in grado di sopportare qualsiasi agente atmosferico così da permettere di non doverlo mai riporre. La prima parte della terrazza è il salotto, con poltrone comode, tavolini da caffè e un divano drappeggiato da un elegante baldacchino bianco. Un folto gruppo di piante in mezzo alla terrazza separa questo spazio dalla zona pranzo, ombreggiata da un gazebo liberty originale sormontato da un segnavento a forma di bandiera. Tutti gli elementi in metallo sul terrazzo, il gazebo, le ringhiere, gli archi e i porta lampade, sono liberty. Sempre negli anni Novanta, Rosalia ha acquistato tutti i grossi vasi di terracotta e le prime piante presso i vivai Gitto di Palermo: molte sempreverdi per fornire ombra e privacy, compresa
294 IL SALOTTO ALL’APERTO DI ROSALIA NEL CUORE DI PALERMO
la Murraya paniculata, dall’aroma pungente, la fragrante Pittosporum tobira, e la sua preferita, la Cycas revoluta, ma anche molte piante decidue che aggiungono una profusione di colori e odori tutto l’anno: gelsomini, bougainvillee di vari colori, ibischi, plumbago azzurro e nuvole di pelargoni. Molte di queste piante sono doni degli amici e di tali donatori, peraltro, hanno assunto i rispettivi nomi. Al centro, per dividere la terrazza, una trionfale colonna di strelizie, l’uccello del paradiso, cycas, asparagine e vite americana abbarbicata al gazebo. Qui si è arrampicato anche un glicine piantato contro la ringhiera all’estremità del terrazzo sebbene forse risenta dell’essere costretto in un vaso piuttosto piccolo. Dal muro sulla sinistra, teste di ceramica di Caltagirone fanno capolino in mezzo al fogliame. Avrebbero dovuto ospitare piante, in stile tipicamente siciliano, ma innaffiarli si è rivelato troppo complicato. L’acquisto più recente di Rosalia sono stati dei rami con cuoricini di metallo bianco che con il vento oscillano lievemente. Le piante sulla ringhiera all’estremità del terrazzo sono basse, così da lasciare libera la vista sul giardino di famiglia sottostante con le sue palme torreggianti e i graziosi muri e le panchine piastrellati, un’oasi nel cuore di una città frenetica.
SOPRA: Il salotto all’aperto visto dalla vetrata di casa. PAGINA A FIANCO: La terrazza vista dal piano di sopra, nascosta tra vecchi tetti di tegole. Si vede parte del salotto all’aperto con il gazebo liberty alle spalle, che ombreggia l’area pranzo, le palme torreggianti del giardino di famiglia sottostante e la sagoma della barocca chiesa gesuita Casa Professa, una delle più grandi di Palermo con un interno spettacolare.
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PAGINA A FIANCO E SOPRA: La terrazza pare fluttuare in mezzo ai tetti, alle cupole e alle colline lontane di Palermo, rigogliosa nonostante il sole torrido.
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a terrazza di Vittorio pare fluttuare a mezz’aria nel bel mezzo di Palermo, perché a parte il muro di casa alle spalle, non ha pareti, ma solo la ringhiera del tutto nascosta dalle piante che mettono in risalto la cupola di Casa Professa, uno dei notevoli esempi della Palermo barocca con un interno magnificamente ricco, e le chiese di San Giuseppe, Santa Caterina e Santa Chiara, il tutto avvolto dalle colline che circondano la Conca d’Oro. Il giardino fa parte del seicentesco Palazzo Speciale che non smentisce per nulla il suo nome: è davvero speciale; come del resto lo è la storia degli antenati di Vittorio, tra cui va annoverato un console britannico di sua maestà il quale, sul finire del XVIII secolo, fu persuaso a diventare il primo console americano, finendo dunque per tradire il suo re. Vittorio è giustamente orgoglioso della sua padronanza della lingua inglese sebbene aggiunga, in tono scherzoso, che una delle sue nipotine ne prende in giro l’accento giamaicano. La casa ha dovuto sopravvivere due secoli senza vedere alcun restauro, quindi lui si è trovato con il gravoso compito di occuparsene. Per fortuna, dice lui, la moglie, da generalessa qual è, si è fatta carico dell’intera organizzazione, senza alterare in
nessun modo l’atmosfera delle magnifiche stanze. Più che ombra, la terrazza offre degli splendidi panorami: meglio, quindi, godersela la mattina presto o al tramonto, per un cocktail “Speciale” alla luce dei lampioni. Le piante sono sistemate soprattutto lungo il perimetro della ringhiera, con alcuni vasi di Asparagus sprengeri e pelargoni inframmezzati alle tante sedie in ferro battuto. Vittorio può coltivare solo piante che resistono tutto il giorno sotto il cocente sole estivo: Ficus elastica, Cycas revoluta, Chamaerops humilis, la palma di San Pietro, plumbago, oleandri, gelsomini e, a sorpresa, anche una fila di papiri egiziani lungo tutta l’estremità della terrazza, considerata una pianta acquatica, tutte scrupolosamente innaffiate ogni sera a mano. La sua pianta preferita tra tutte resta però la pomelia, o frangipani, presenza essenziale in ogni terrazza e balcone di Palermo. L’originale fu donata alla sua trisavola a metà del XIX secolo e ormai tutta la sua progenie se ne sta allineata lungo il muro di casa, l’unica posizione che offre un po’ d’ombra.
297 PALERMO: L’ASSOLATA TERRAZZA DI VITTORIO
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alazzo Valguarnera-Gangi – chiamato a volte solo Gangi o Ganci – è la grande casa ancestrale di città dei principi Valguarnera, poi principi Gangi, situata a Piazza Croce dei Vespri, a soli due minuti a piedi dalla centralissima via Roma. Ancora oggi è una residenza privata, l’abitazione dei discendenti della famiglia Valguarnera. Costruito in più fasi durante il XVIII secolo e completato intorno al 1780, il palazzo è di stile barocco, sebbene l’esterno abbia un aspetto più severo rispetto al tipico barocco siciliano. Verso la metà del Settecento, il principe e la principessa di Gangi, Pietro e Marianna Valguarnera, antenati degli attuali proprietari, affidarono agli artisti siciliani più famosi il compito di trasformare l’interno del palazzo in uno spettacolo di splendore ed eleganza, con mobili speciali realizzati da artigiani locali secondo il tipico stile barocco riccamente ornato. Per completare la casa ci volle così tanto tempo che lo stile scelto passò di moda, scalzato da quello neoclassico. Dietro la facciata austera e monumentale si nasconde la scintillante sala da ballo con pareti di damasco giallo che Luchino Visconti scelse come scenario per il ballo dai Ponteleone nel suo film “Il Gattopardo” che Louis Bertrand ha descritto come “un capolavoro del barocco con i suoi arredi dorati e le porte tutte dipinte... con fiori freschi... Dal soffitto pendono, come una foresta di stalattiti, splendidi candelabri di Murano, dei quali non avevo mai visto prima eguali”. Di recente, una rivista americana ha incluso il palazzo tra le dieci case più belle del mondo, accennando a un leopardo nella pavimentazione, al terrazzo che dà sulla piazza e al cortile per le carrozze.
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a settecentesca residenza di caccia di Gaia ha anche due terrazze panoramiche che danno sul cortile e sul giardino, con la sagoma di Monte Pellegrino sullo sfondo. Entrambe le terrazze si trovano sopra le grandi scuderie, necessarie all’epoca in cui questa era una proprietà usata per la caccia. Le scuderie sotto la terrazza di destra sono state riconvertite in sale per conferenze, ricevimenti, feste, e per tali evenienze vengono affittate dai padroni di casa. Il tetto piano è pavimentato con delle graziose mattonelle settecentesche a motivi floreali in verde, giallo e bianco; poiché, però, si affaccia sui muri del giardino e, oltre, sulla strada, è più rumorosa e meno usata rispetto a quella di sinistra che ha una pavimentazione più recente, con un motivo a scacchiera giallo e verde dei primi del Novecento. Le scuderie sotto questa terrazza non sono ancora state riconvertite e fungono da
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magazzini. Questa è la terrazza che la famiglia sfrutta soprattutto nelle sere d’estate, quando porta fuori i mobili per godersi il fresco delle ore crepuscolari con la vista sul cortile da una parte, il Monte Pellegrino sullo sfondo, e il grande parco verde illuminato dai lampadari sospesi dall’altra. È un posto perfetto per feste e ricevimenti di famiglia e viene anche affittata a condizione che gli organizzatori del catering portino i loro arredi e corredi.
SOPRA: La terrazza di sinistra, con il pavimento dei primi del Novecento sopra le scuderie, affaccia sul cortile d’ingresso e sulla fontana ottagonale in cui convivono in armonia tartarughe, pesci rossi, carpe e ninfee. PAGINA A FIANCO: Una delle terrazze viste da oltre i muri del giardino, con il tronco spinoso di una Chorisia speciosa in primo piano, un’enorme Euphorbia candelabrum a destra e il Monte Pellegrino sullo sfondo. PAGINE SEGUENTI: La terrazza di destra con l’originale pavimento settecentesco di piastrelle decorate e il punto strategico da cui guardare Monte Pellegrino oltre il cortile e la terrazza di sinistra attraverso il frondoso albero di jacaranda e il cactus candelabro.
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RINGRAZIAMENTI Ringrazio di cuore tutti i proprietari che hanno aperto i cancelli dei loro giardini, così come i loro cuori, affinché potessi scrivere questo libro; gli amici che mi hanno offerto ospitalità, consigli e contatti: Marina e Salvatore Bonajuto, Leontine Regine, Gabriella Notarbartolo; Mario Ciampi che mi ha spinto a scrivere il libro e, infine, Nino Triolo per la pazienza infinita.